7. ANDREA GIARDINA, Il viaggio interrotto. Il tema del cane fedele ...

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§ PARAGRAFO RIVISTA DI LETTERATURA & IMMAGINARI

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§PARAGRAFORIVISTA DI LETTERATURA & IMMAGINARI

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ParagrafoRivista di Letteratura & Immaginari

pubblicazione semestrale

Redazione

FABIO CLETO ([email protected]), DANIELE GIGLIOLI ([email protected]),MERCEDES GONZÁLEZ DE SANDE ([email protected]),

FRANCESCO LO MONACO ([email protected]),STEFANO ROSSO ([email protected]), AMELIA VALTOLINA ([email protected])

Ufficio 211Università degli Studi di Bergamo

P.za Rosate 2, 24129 Bergamotel: +39-035-2052744 / 2052706

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Questo numero è stato stampato con il contributo delDipartimento di Lettere, Arti e Multimedialità dell’Università di Bergamo

© Università degli Studi di BergamoISBN 88-87445-88-5

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Stampato da Stamperia Stefanoni - Bergamo

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PRESENTAZIONE 5

FORME

§1. STEFANIA CONSONNI, Disegni e realtà. Le finzioni di Don DeLillo

§2. LUCA BERTA, Il neon di David Foster Wallace e il punto di vistadell’aldilà

§3. LAURA OREGGIONI, La punta dell’iceberg. Sten Nadolny e il sensodella possibilità

GENERI

§4. NICCOLÒ SCAFFAI, Altri canzonieri. Sulle antologie della poesiaitaliana (1903-2005)

§5. GABRIELE BUGADA, Lo specchio del sogno. Lo statuto della rappre-sentazione in Mulholland Drive di David Lynch

§6. GIOVANNI SOLINAS, Il mito senza fine. Poetica dell’immagine econcezione mitica in André Breton - Una proposta d’analisi

TEMI

§7. ANDREA GIARDINA, Il viaggio interrotto. Il tema del cane fedelenella letteratura italiana del Novecento

§8. MICHELA GARDINI, Derive urbane fin de siècle

§9. GRETA PERLETTI, Dal mal sottile al mal gentile. La malattiapolmonare e il morboso ‘interessante’ nella cultura dell’Ottocento

I COLLABORATORI DI QUESTO NUMERO 199

ParagrafoI (2006)

Sommario

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Nel Bestiario della letteratura che l’austriaco Franz Blei pubblica nel 1924,appare il termine animaletterato.1 La parola serve a identificare il risultatodel processo a cui sottopone la letteratura europea contemporanea, classi-ficata secondo criteri di zoologia fantastica che si estendono a compren-dere forme incerte (Rilke sta tra l’animale e la pianta), cose (il vaso danotte Francis Jammes), uomini (lo zoologo Nietzsche). La storia della let-teratura diventa un’irriverente serie tassonomica di forme ibride. Blei eraun cattolico-marxista, ostile alla società di massa, convinto che l’arte fosseormai scissa dalla verità e destinata ad essere, con le parole di ClaudioMagris, un “oggetto bizzarro, interessante perché misterioso”. Nostalgicodel barocco, egli diventa “uno scrittore moderno del vuoto e dell’assen-za”,2 fino a mettere in dubbio qualsiasi possibilità di ordinare il reale. Bleiriserva a se stesso una parte nel Bestiario, quella del “pesce di acqua dolce,che si tuffa e rituffa sinuoso in tutte le acque fresche”. In tale direzioneapre la strada alla modernità: l’osservatore è anche l’osservato, e lo è insenso letterale in quanto il pesce ha una pelle così sottile e trasparente che“si può sempre vedere che cosa ha appena mangiato”.3 “L’intelligenza chevuol catalogare il mondo”, ha scritto ancora Magris, “scopre di essere sol-tanto uno degli innumerevoli e sfuggenti fenomeni di quel mondo ch’essavorrebbe giudicare e ordinare […]. L’io indivisibile, che deve instaurare ilgiudizio sul molteplice, discende e si disperde nella caotica molteplicitàdei particolari sui quali credeva d’innalzarsi”.4

1 Franz Blei, Das grosse Bestiarium der Literatur (1924), trad. it di Lorenza Rega, Il be-stiario della letteratura, Milano: Il Saggiatore, 1980.

2 Claudio Magris, “Franz Blei e la superficie della vita”, in Franz Blei, op. cit., p. 17.3 Franz Blei, op. cit., p. 47.4 Claudio Magris, op. cit., p. 7.

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Andrea Giardina

Il viaggio interrottoIl tema del cane fedele

nella letteratura italiana del Novecento

PARAGRAFO I (2006), pp. 145-65

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La letteratura del Novecento è, per molti aspetti, ‘animaletteratura’.L’animale si insedia sulla pagina, diventa protagonista, impone attenzio-ne, facendosi parola evocatrice, ‘alterità’. Non a caso compare insieme almarziano di Wells, al perturbante di Freud, al pensiero selvaggio di Lévi-Strauss. Porta con sé altre visuali, come ha insegnato, per primo, il biolo-go tedesco Jacob von Uexküll. Il confronto-impatto determina una rivo-luzione dei punti di osservazione sulle cose – che è una ridefinizione deiruoli, un capovolgimento dell’umano, o un suo smottamento. L’animaleè l’enigma, l’insetto della Metamorfosi kafkiana, l’‘Ocapi’ di Montale, il‘Versipelle’ del Presepio di Manganelli: presenza che inquieta, vicina e lon-tana nello stesso tempo, che si impone perché c’è – le parole la richiedo-no pur se inesistente – e che disorienta per gli stessi motivi. Animale si-gnifica discesa verso l’indecifrabile e l’indecidibile, i ‘buchi neri’ a portatadi mano, esposti alla nostra quotidianità, solo in apparenza irraggiungibi-li ‘altrove’. Non a caso l’animale ha dimestichezza col sacro e agli dèi è(stato) destinato in sacrificio. Arbitrario, a-razionale, elusivo, sconvolgen-te, l’animale preferisce pensare agli uomini attraverso i loro sogni, comehanno scritto Jung e Hillman. Eppure l’animale non si allontana dall’uo-mo, anche quando non lo si vede, come i microbi di Pasteur. Forse per ri-durne i soprassalti, sono proliferate le nomenclature, esse stesse però sem-pre più svuotate di fondamento, secondo la procedura di Borges e Guer-rero nel Manuale di zoologia fantastica.

Come ha mostrato Blei, d’altra parte, non solo gli animali circondanol’uomo, ma l’uomo è tra gli animali. Dopo L’origine della specie la distan-za si è accorciata, fino a consentire metamorfosi, salti interspecifici. GillesDeleuze e Félix Guattari riferendosi a Kafka hanno sostenuto che “la me-tamorfosi è il contrario della metafora. Non è più senso proprio né sensofigurato ma distribuzione di stati nel ventaglio della parola”. Non c’è piùsomiglianza tra uomo e animale, perché “non c’è più né uomo né anima-le, perché l’uno deterritorializza l’altro in una congiunzione di flusso, inun continuum di intensità irreversibile”.5 L’allentarsi dei confini è tracciadel progressivo sfaldarsi dell’io, della sua insufficienza. Non è soltanto l’a-nimale ad emergere, ma è anche l’uomo a sommergersi nell’animalità. “Idivenire-animali”, scrivono ancora Deleuze e Guattari, “sono deterritoria-lizzazioni assolute […]. Divenire animale significa […] trovare un mondo

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5 Gilles Deleuze e Félix Guattari, Kafka. Pour une littérature mineure (1975), trad. it. diAlessandro Serra, Kafka. Per una letteratura minore, Macerata: Quodlibet, 1996, pp. 39-40.

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di intensità pure, in cui tutte le forme si dissolvono, e con loro tutte le si-gnificazioni, significanti e significati, a vantaggio d’una materia non for-mata, di flussi deterritorializzati, di segni asignificanti”.6 L’animale ‘spec-chio dell’uomo’, riflesso dei suoi vizi e delle sue qualità, appartiene aduna linea indirizzata verso il passato, a una letteratura di matrice esopiana(con una dimensione ‘mimetico-naturalistica’) che aveva ben netto difronte a sé il confine tra l’umano e il non umano. Ora l’animale diventauna possibilità aperta, esplosione dell’istinto bestiale con il conseguentecarico di angoscia; oppure, soprattutto, si fa via al nichilismo, che, nellaproposta interpretativa di Stefano Lanuzza, è “l’unico modo non sovrade-terminato – non demiurgico – per ridare dignità all’animale-uomo”.7

L’essere altro dell’animale, attraverso questo percorso, si traduce nell’esse-re altro dell’uomo stesso, o, ancora, nel suo essere ‘nient’altro’, nel suo in-termittente o definitivo ‘deterritorializzarsi’: andare verso l’animale è unandare verso altri luoghi. Lo scrittore di animali, a ben vedere, è unoscrittore di viaggio. Come chi si muove nello spazio, infatti, desidera s-paesarsi, sommare un nuovo io al precedente. Pur nei limiti di quelli chepossiamo considerare tentativi di ri-definizione del rapporto uomo-mon-do,8 e nel rispetto delle diversità di approccio al tema dei singoli autori,quanto si registra è insomma la crisi di ogni antropocentrismo, il sapersiparte – facciamo ricorso ancora a Manganelli, all’altezza del suo primo li-bro, Hilarotragoedia – di una comune sorte “discenditiva”, quella di chi –deiezione di un “diomorto” – è destinato a precipitare di grado in gradoverso la morte definitiva.

Se uomo e animale sono due mondi disposti a scambiarsi i ruoli, atrasmettersi ‘spaesamenti’ indirizzandosi verso il nihil, il cane – la metafo-ra cane, l’avatar letterario – sta nella ‘terra di nessuno’. Il cane prediligequesto ‘luogo di mercato’, area di condivisione e di scambi, incrocio dipassato e futuro, di Esopo e Kafka, di appropriazioni e di addii, che èperò anche roccaforte dell’io. Deleuze e Guattari lo hanno definito “l’ani-male-edipico per eccellenza”,9 quello che ostacola il “divenire-animale”,

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6 Ivi, p. 23.7 Stefano Lanuzza, Bestiario del nichilismo. Scrittura e animali, Bologna: Book, 1993,

p. 40.8 Deleuze e Guattari analizzando i racconti di Kafka sottolineano come il divenire-ani-

male conduca invariabilmente a un fallimento: “Il divenire animale mostra effettivamenteuna linea di fuga, ma è incapace di seguirla e di prenderla esso stesso” (p. 66). Il passaggiosuccessivo è il macchinismo, di cui gli animali sono “indizi” (p. 86).

9 Ivi, p. 27.

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cioè il processo di deterritorializzazione. Se il cane non è l’uomo, non ènemmeno l’animale. Nei bestiari novecenteschi – usiamo il termine nel-l’accezione più ampia, quella di opere in cui “domina la rappresentazionemitopoetica degli animali” –,10 sembra disporsi sul versante che dovrebbetrattenere l’umano al di qua della soglia. Anche l’uomo che si fa cane ri-mane infatti un uomo, essendo la ‘caninità’ la sponda da cui tenersi lon-tani. Il cane non cancella l’umano, lo riflette, lo riproduce, lo sdoppia, lorelativizza, lo rinsalda. Nell’opera di scrittori in cui l’animale è presenzainquietante, come Landolfi e Manganelli, il cane è un uomo degradato,su cui riversare risentimenti e a cui attribuire insolenti pretese. Nei libridi Montale, Primo Levi, Calvino, Anna Maria Ortese, Bonaviri,11 dove siincontrano continue presenze animali, il cane è una presenza eccentrica,fastidiosa, tipizzata (come Ottimo Massimo, il cane de Il barone ram-pante) o assente. Tra gli scrittori in cui l’animale è più raramente messo atema, quali Pavese e Volponi, il cane è comunque presente. Significativa-mente, in un libro di quest’ultimo, Il pianeta irritabile, nel quale i prota-gonisti sono animali-‘post-umani’, il cane rimane cane, essere intermediodelegato al servizio di un’umanità quasi scomparsa. Se per Pirandello ilcane è a livello di molti altri animali, cioè fornisce gli strumenti per osser-vare l’uomo da altre prospettive, misurandone paradossalmente proprio ilgrado di bestializzazione, per Federigo Tozzi, in un libro fondativo qualeBestie, il cane è il “canettaccio bastardo, spelacchiato e rattrappito”,12 cheper strada segue a fatica una donna miserevole, sposata con un tisico gial-lastro. Debenedetti ha scritto che Tozzi in quest’opera si prefiggeva di “farparlare il mondo, anziché il nostro spirito”,13 ovvero di

fare esistere personaggi, cose, fatti che trasmettono un loro senso, senzadeclinare un loro perché, soprattutto senza giustificare la presenza o le ra-gioni intellettuali o sentimentali di chi ne registra l’apparire, o li mette inscena. Semmai, se un rapporto si stabilisce è quello che deriva dall’esseretutti compartecipi, il mondo che appare, l’artista e il lettore, del fenome-no ‘vita’. Un simile rapporto è appunto tipico con le bestie […]. Le bestiesignificano intenzioni diverse della vita, noi non sappiamo precisamente

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10 Enza Biagini, “La critica tematica, il tematismo e il ‘bestiario’”, in Enza Biagini e An-na Nozzoli (a cura di), Bestiari del Novecento, Roma: Bulzoni, 2001, p. 16.

11 Significativamente il cane non c’è in un romanzo costruito attorno alla metamorfosidi figure animali quale La divina foresta (Milano: Rizzoli, 1969).

12 Federigo Tozzi, “Bestie”(1917), in Id., Opere, Milano: Mondadori, 1987, p. 578.13 Giacomo Debenedetti, Il romanzo del Novecento (1976), Milano: Garzanti 1981, p. 85.

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quali, a meno che non accettiamo i significati convenzionali della favoli-stica e dell’araldica, o non ci appaghiamo dei piaceri o del disgusto o del-lo sgomento che dà la loro vista. Noi possiamo al massimo vedere le con-seguenze, i risultati di ciò che fanno, del loro comportamento allorché simettono in azione.

Le bestie di Tozzi rompono col naturalismo, con “la constatazione oggetti-va delle cose” e “diventano movimenti di vita, chiusi e complessi grumi diun divenire nel quale riconoscono poi, ma solo in un momento ulteriore,la sagoma di un destino che ci riguarda in quanto è una piega possibiledella nostra vita”.14 Al cane tocca allora il compito di star attaccato alla mi-seria dell’uomo, divenendo esso stesso stigma del destino di decadenza del-la nostra specie. Che il cane sia eccessivamente compromesso col mondodegli uomini, per esempio, è chiaro a Kafka, il quale nelle Indagini di uncane ricapitola la vita di un ‘contro-cane’, attaccando in tal modo, semprea detta di Deleuze e Guattari, “le tentazioni sospette di rassomiglianza chel’immaginazione può proporgli; attraverso la solitudine del cane egli miraa cogliere la differenza massima, la differenza schizo”.15

Insomma il cane è “umano, troppo umano”. Le metafore (o le affor-dances) che gli pertengono (intelligenza, coraggio, lealtà, fedeltà, aggressi-vità, indegnità, istintualità), proprio in quanto metafore,16 riguardano sca-le di valori e disvalori umani e conservano la traccia dell’antichissimo pat-to del cibo tra le due specie, dell’offerta di protezione in cambio del nutri-mento. Il cane è integralmente un ‘prodotto’ dell’uomo, ovvero, secondola zooantropologia,17 una sintesi della cooperazione tra specie. “Angelo diseconda classe” (è una definizione di Manganelli),18 il cane è un ‘ibrido’,una creatura ‘teriomorfa’, che cerca di aiutarci a sopportare i pesi della vita.

È soprattutto all’archetipo del cane fedele che la letteratura affida ilcompito di arrestare il processo di dissoluzione della forma e di fornireancoraggi. Assolutamente dominante nelle società umane, la fedeltà riba-disce la centralità dell’io che scrive, interrompe il suo slittamento verso

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14 Gilles Deleuze e Félix Guattari, op. cit., p. 86.15 Ivi, p. 25. Più avanti nel testo si precisa però che il cane “si fa deterritorializzare dai cani

musicanti all’inizio, ma riterritorializzare, riedipizzare, dal cane cantante alla fine” (p. 66).16 Sempre Deleuze e Guattari (op. cit., p. 66) scrivono che le metafora ha “un seguito

antropocentrico”.17 Roberto Marchesini e Karin Andersen, Animal Appeal, Bologna: Hybris, 2005.18 Giorgio Manganelli, Improvvisi per macchina da scrivere (1989), Milano: Adelphi,

2003, p. 250.

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una dimensione ‘altra’, frena – talvolta solo temporaneamente – il bru-ciante contatto con l’incontrollabile. Equiparando il procedere in direzio-ne dell’animale a un viaggio, possiamo constatare come il percorso versola fedeltà sia breve. Un viaggio interrotto, appunto. L’animale fedele simuove sui tracciati pensati dall’uomo, o almeno tale è la convinzioneumana.19 In un mondo che frana, dove la relatività dei punti di vista èchiamata continuamente in gioco, la fedeltà ribadisce un ordine. È unaproprietà conservatrice, che si rivolge a sfere assolute, di cui il rapportoquotidiano è matrice ridotta e sbiadita. Nella prima versione del Gatto-pardo, nella pagina che apre la quarta parte del romanzo, si trova scritto:

Ad uno sconforto generalizzato e cupo, a uno sconforto per così dire me-tafisico del padrone l’affetto di un cane può arrecare vero sollievo; quan-do però le ragioni di cruccio sono circoscritte e precise (una lettera peno-sa da scrivere, una cambiale che scade, un incontro sgradevole da affron-tare) non vi sono scodinzolamenti che tengano; le povere bestie provanoe riprovano, continuano ad offrirsi all’infinito, non servono a nulla; la lo-ro dedizione è rivolta a sfere superiori e generiche dell’affetto umano econtro guai individuali le loro profferte cadono nel vuoto; un alano daaccarezzare non consola di un rospo da inghiottire.20

Fedeltà significa dedizione, incondizionata disponibilità al conforto, capa-cità di convivere con quieta serenità, scambio di predilezioni. La fedeltà ri-chiede e determina amore, attivando un percorso fondato sulla reciprocità,anche se è don Fabrizio che decide quando l’alano Bendicò può tornare alsuo fianco. Perché la fedeltà è un sentimento gerarchizzato, che presupponeun’opposizione forte/debole, maschile/femminile, adulto/bambino.

“L’unico che mi abbia capito bene”. La fedeltà come amicizia

Spesso la morte del cane è l’occasione per ricapitolare i termini della rela-zione affettiva. Quando, nel Gattopardo, don Fabrizio agonizzante fa il bi-lancio della sua esistenza, dopo Tancredi, ricorda i suoi cani: “Fufi, la

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19 Si legge in Stephen Budiansky, The Truth about Dogs (2000; trad. it. di Daria Restani,L’indole del cane, Milano: Raffaello Cortina, 2004, p. 83) che “i cani cercano di stare vici-no al padrone, lo leccano, gli fanno le feste e si stendono vicino a lui, proprio come fannoi lupi con il maschio alfa. È una questione d’amore o forse di lealtà? Di sicuro è un espe-diente, e l’evoluzione ha dotato i cani, e i loro atavici parenti, di una straordinaria capacitàdi ingraziarsi l’altro”.

20 Tomasi di Lampedusa, “Il Gattopardo: fonti e varianti”, in Id., Opere, Milano: Mon-dadori, 1995, p. 265.

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grossa mops della sua infanzia, Tom l’irruento barbone confidente ed ami-co, gli occhi mansueti di Svelto, la balordaggine deliziosa di Bendicò, lezampe carezzevoli di Pop, il pointer che in questo momento lo cercava sot-to i cespugli e le poltrone della villa e che non lo avrebbe più ritrovato”.21

È uno stilema che ritroviamo in molti altri scrittori. Eugenio Montale,nella Farfalla di Dinard (la prima edizione esce nel 1956, due anni primadel Gattopardo) dopo aver scritto che i cani “restano nel ricordo, chiedo-no di sopravvivere in noi”, ne propone l’elenco:

Il cane Galiffa di cui posso esibirvi la fotografia, egregia collega, è mortopiù di quarant’anni fa. in questa foto, che è l’unica di lui esistente, figuraaccanto a un amico mio, morto anche lui. Io sono dunque la sola personache ancora conservi il ricordo di quel festoso bastardo di pelo rossiccio.Mi amava e quando fu troppo tardi l’ho amato anch’io.

“Passepoil” proseguii “fu il mio secondo cane, uno scottish terrier dipurezza molto dubbia. Non ci amammo molto e lo cedetti ad alcuni ami-ci. Non ne ho il ritratto, ma lui forse nei Campi Elisi dei cani, ricordache lo salvai in uno scontro automobilistico. Il terzo cane fu Buck, un lu-po. Era buono, molto affezionato a una mia tartaruga con la quale divi-deva i pasti. Quando fu incimurrito riuscii a mandarlo presso certi conta-dini, in Val di Pesa, presso Firenze. Ma la notte successiva egli fuggì etornò a casa, dopo un viaggio di trenta chilometri. Il cimurro cresceva euna puntura avvelenata lo tolse di mezzo. Non lo vidi morto. Eutanasia oquasi, Frau Brentano, come vede siamo quasi in argomento. Il quarto ca-ne era Pippo, uno Schnautzer di razza. È nato nella villa di Olga Loser,una casa tra gli ulivi con dentro otto quadri di Cézanne. La vecchia pa-drona è morta, io sopravvivo. Pippo vive pure in una città delle Marche.Era molto permaloso e non mi perdonò mai di averlo regalato. Ma a uncerto punto la vita mi impedì di tenere cani.22

Veder morire il proprio cane – l’imperfetta sovrapposizione temporale trala vita dell’uomo e dell’animale ne moltiplica la possibilità – fissa il ricor-do e ribadisce il sentimento, rafforzando, nell’idea della sorte condivisa,la solidarietà tra le specie: “Noi faremo la stessa fine”, dice Giacco in Congli occhi chiusi di Tozzi, mentre il cane Toppa viene sotterrato.23

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21 Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo (1958), in Id., Opere, cit., p. 233.22 Eugenio Montale, “L’angoscia”, in Id., La farfalla di Dinard (1960), in Id., Prose e

racconti, Milano: Mondadori, 1995, p. 207.23 Federigo Tozzi, “Con gli occhi chiusi” (1919), in Id., Opere, cit., p. 100. Sul tema

della morte si veda Cristiano Spila (a cura di), Cani di pietra. L’epicedio canino nella poesiadel Rinascimento, Roma: Quiritta, 2002.

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La stessa funzione è propria del momento della caccia che, come hascritto Carlo Levi, per l’uomo contemporaneo rappresenta ancora “unpiacere di libertà naturale […] così intenso e pieno di energia che nonpuò non venire che da un riaffiorare e riesplodere di un mondo arcaicoche è in noi, dal ricordo presente di un’antichissima magia, di una barba-rie primitiva o ritornata, preistorica o feudale”.24 La caccia coinvolge ilversante più ancestrale della collaborazione tra le due specie, quello in cuila fedeltà è una necessità e una disciplina da imparare. La fusione di emo-zioni e di intenti tra uomo e cane, l’intesa tanto più allargata quanto me-no esibita, creano una situazione difficile da spiegare. Il cacciatore prota-gonista di Alba e Franco di Rigoni Stern, conclusa la battuta, mentre dà alcane il cuore e il fegato della lepre appena uccisa, e in silenzio gli accarez-za la testa e gli pulisce gli occhi e le zampe con un fazzoletto, “sentivadentro una cosa, una cosa ecco che si fa fatica a dire e che a volte non siprova nemmeno per i cristiani”.25 Nella caccia l’uomo e il cane si dispon-gono sullo stesso versante, riannodano ogni volta il loro antico accordocontro gli altri animali. Siamo alle origini della dinamica antropocentrica,all’alba del dominio dell’uomo sulla natura.

La fedeltà determina un ritorno attivo sull’uomo contemporaneo, chedal cane riceve quanto avverte di aver smarrito o di non aver mai trovatotra i suoi simili. Nelle letterature della crisi che si estendono lungo il No-vecento, l’immagine del cane fedele (la metafora della fedeltà) riattribui-sce sensi (umani) alle cose. Trattare il tema del cane fedele e amico equi-vale a esprimere il desiderio di colmare un vuoto, di puntellare la propriasolitudine con un’altra solitudine. Sono riflessioni sull’io di chi scrive,quelle sulla fedeltà. Coetzee ne La vita degli animali, riferendosi a Rilke eHughes, ne ha descritto la natura in questi termini: “Quando convoglia-mo in parole la corrente di sentimenti che scorre tra noi e l’animale, laastraiamo per sempre dall’animale. Perciò la poesia non è un dono al suooggetto, come è invece la poesia d’amore. Rientra in un’economia intera-mente umana in cui l’animale non trova posto”.26

Così la fedeltà di Belbo ne La casa in collina di Pavese è l’occasione

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24 Carlo Levi, “Il primo cacciatore”, in Le ragioni dei topi (1957), Roma: Donzelli,2004, p. 23.

25 Mario Rigoni Stern, “Alba e Franco”, in Id. Storie dell’Altipiano, Milano: Mondadori,2003, p. 1517.

26 John M. Coetzee, The Lives of Animals (1999), trad. it. di Franca Cavagnoli e Giaco-mo Arduini, La vita degli animali, Milano: Adelphi, 2000, p. 64.

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per far riflettere Corrado sul suo isolamento dal mondo e dalle sue ideo-logie (il cane è il suo “ultimo confidente sincero”, ed egli inoltre è convin-to di come “non ci sono che i cani per giudicare il prossimo”) e sul rie-mergere dell’orizzonte infantile (“Fin da ragazzo” egli aveva avuto la con-vinzione che “andando per i boschi senza un cane” avrebbe perduto“troppa parte della vita e dell’occulto della terra”).27

In Cane come me Curzio Malaparte racconta che trovandosi in esilio aLipari da alcuni mesi e non bastandogli “l’aperto orizzonte marino”, perritrovare il senso della libertà morale, decide di prendere un cane: “Sem-brandomi che un cane fosse il più proprio ad essermi amico disinteressa-to, impedirmi che io a poco a poco mi avvilissi, mi umiliassi, cadessi inquello stato di indifferenza e di prostrazione, che è il più vicino all’abie-zione”. Il cane Febo gli insegna che “l’incontro fra un uomo e un cane èsempre l’incontro fra due spiriti liberi, fra due forme di dignità, fra duemorali disinteressate. Il più gratuito degli incontri”.28

Febo diventa “un riflesso” del narratore, e lo aiuta “con la sua sola pre-senza, a riacquistare quel distacco dal bene e dal male, che è la prima con-dizione della serenità e della saggezza nella vita umana”.29 Il cane, coltempo, tende ad assomigliargli, divenendo la “sua coscienza”.

Ennio Flaiano narra come Giorgio Fabro, scrittore italiano di sceneg-giature residente a New York, e il cocker spaniel Melampo (che dà il tito-lo al romanzo) divengano “vecchi amici che non si danno reciproco fasti-dio e amano anzi nell’altro più i difetti che le virtù”. Nato casualmente, illoro rapporto si rivela solidissimo. Quando Melampo muore, travolto daun autocarro, l’ultimo sguardo è per il suo padrone. Con gli occhi ha det-to: “salvati, io resto a guardarti le spalle”.30

Giovanni Giudici in Sottocane (Lume dei tuoi misteri) definisce il canecome “l’unico che mi abbia / capito bene”, rendendolo altero “della suafedeltà”.31 La fedeltà sembra attribuire al cane uno ‘statuto d’eccezione’.Barone, che Carlo Levi descrive nel Cristo si è fermato a Eboli, ne L’orolo-gio e in Quaderno a cancelli, per i contadini di Gagliano è un “animale

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27 Cesare Pavese, La casa in collina (1948), Torino: Einaudi, 1991, p. 4.28 Curzio Malaparte, “Cane come me” (1938), in Id., Opere scelte, Milano: Mondadori,

1997, p. 374.29 Ivi, p. 375.30 Ennio Flaiano, “Melampo”, in Id., Gioco al massacro, Milano: Rizzoli, 1970, pp. 149-50.31 Giovanni Giudici, “Lume dei tuoi misteri” (1984), in Id., I versi della vita, Milano:

Mondadori, 2000, p. 639.

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araldico, il leone rampante su uno scudo del signore”, anche se in effetti è“soltanto un cane, un frusco come tutti gli altri”.32 L’uomo fa del cane ilsuo doppio. Per cui non può sorprendere quanto Levi scrive (riprendendoil motivo classico dell’ubi sunt?) alcuni anni dopo la morte del cane, pro-prio nel Quaderno a cancelli: “Dove sono i balzi di Barone, che eranoquelli del mio stesso essere?”33

Sono le stesse sintonie insondabili che nel Gattopardo fanno dire adon Fabrizio: “Vedi tu Bendicò, sei un po’ come loro, come le stelle: feli-cemente incomprensibile, incapace di produrre angoscia […]. E poi conquei tuoi occhi al medesimo livello del naso, con la tua assenza di mentoè impossibile che la tua testa evochi nel cielo spettri maligni”.34

Una ancor più evidente ricaduta della fedeltà sul soggetto umano èravvisabile quando la relazione uomo-cane riproduce la relazione genitore-figlio. Roberto Marchesini ne ha spiegato scientificamente i termini, evi-denziando come il cane abbia sviluppato caratteri giovanili (neotenia) perandare incontro agli uomini, per natura portati ad occuparsi (inteneren-dosi) di ciò che è infantile.35 Così il barboncino Cheap descritto da Mon-tale in Ti cambieresti con è “un batuffolo mezzo calvo e mezzo ispido” trat-tato come un figlio dalla vecchia signora che è diventata sua “mammi-na”.36 Flush (che riprende il nome del cane a cui Virginia Woolf dedicauna biografia), lo spaniel de La camera da letto di Attilio Bertolucci, dopola nascita di Bernardo, è passato, senza eccessivi rancori, a ricoprire il ruo-lo di “unico, insostituibile, designato dagli astri” custode del figlio delpoeta.37 Non è stato un cambiamento di poco conto, perché il “piccolo es-sere venuto a rompere l’intreccio egoisticamente, unicamente amoroso”38

della giovane coppia, lo ha scalzato dalla posizione di ‘bambino’.Se l’uomo e il cane si dispongono sullo stesso versante, è il linguaggio

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32 Carlo Levi, Cristo di è fermato a Eboli (1945), Milano: Mondadori, 1991, p. 103.33 Carlo Levi, Quaderno a cancelli, Torino: Einaudi, 1979, p. 203.34 Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, cit., p. 88.35 Roberto Marchesini, L’identità del cane, Bologna: Perdisa, 2004, pp. 36-42. L’autore

spiega che “per poter rispondere alle forti esigenze parentali del cucciolo d’uomo – perdifferimento dell’età evolutiva e immaturità alla nascita – la nostra specie ha dovuto svi-luppare controlateralmente una robusta predisposizione epimeletica”, che “ha dato il viaalla cooptazione di comportamenti parentali intraspecifici verso cuccioli di altre specie”.

36 Eugenio Montale, “Ti cambieresti con?” in Id., La farfalla di Dinard, cit., p. 151.37 Attilio Bertolucci, “La camera da letto” (1984), in Id., Opere, Milano: Mondadori,

1997, p. 750.38 Attilio Bertolucci, “Argumenta de La camera da letto” (1997), in Id., Opere, cit.,

p. 828.

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verbale l’unico ostacolo a una piena comprensione. Ma la barriera talvoltasembra facile da aggirare, perché, secondo quanto sostiene Bassani neL’airone, ci può essere un cane (o una cagna, come nel caso in questione)“così intelligente che se un bel giorno avesse cominciato a fare ‘mamma’,soltanto chi non la conosceva avrebbe potuto stupirsene”.39

Lo sforzo di arruolare il cane tra gli umani conduce a trasformare le pa-role del cane in parole dell’uomo. Landolfi ne La tempesta racconta deltentativo di far parlare la cagna Châli, attuato da un personaggio evidente-mente folle davanti ad un frastornato testimone.40 L’esperimento riesce so-lo in parte perché l’osservatore, quando la cagna formula alcuni suoni assaisimili a parole umane, prorompe in un grido che spezza l’incantesimo. SeLandolfi colloca la situazione in un contesto contrassegnato dalla violazio-ne di ogni norma razionale, Buzzati, invece, in racconti come Il cane lette-rato oggi non è in vena, o L’Einstein dei cani si intenerisce per i gatti41 si rial-laccia alla tradizione favolistica del cane parlante che mette a nudo i difettidell’uomo.42 A questo livello, siamo in una zona che si dispone sul crinaleopposto a quella in cui Deleuze e Guattari posizionano Kafka, nei cuiscritti “l’animale non parla ‘come un uomo’, ma estrae dal linguaggio dellatonalità prive di significazione”.43 Il cane capace di dialogare con l’uomo èil punto estremo del processo di antropomorfizzazione, che ritrae se stessonell’operazione-specchio condotta da Landolfi in Nuove rivelazioni dellapsiche umana. L’uomo di Mannheim,44 dove si immagina che i cani sianodiventati i padroni del mondo. Chiusi in un ferreo ‘cinocentrismo’, essi ac-colgono con disappunto la notizia che l’uomo (ridotto al rango di un ani-male da compagnia) sappia parlare e addirittura, sulla base di quanto rac-contato da un “cane sciamano del Mato Grosso”, un tempo sia stato speciedominante.45 Lo stesso presupposto antropocentrico, anche se volto ad un

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39 Giorgio Bassani, “L’airone” (1968), in Id., Opere, Milano: Mondadori, 1998, p. 853.40 Tommaso Landolfi, “La tempesta”, in Id., Il Mar delle blatte e altre storie, Firenze:

Vallecchi, 1944, pp. 82-85.41 Dino Buzzati, Bestiario, Milano: Mondadori, 1991. “Il cane letterato oggi non è in

vena” si trova a p. 259, “L’Einstein dei cani si intenerisce per i gatti” è alle pp. 307-12.42 Si tratta di una linea che risale a Esopo e che, presente nella favolistica, ha conosciuto

una ripresa nel Settecento, culminata nella satira degli Animali parlanti (1802) di Giam-battista Casti. Nel Novecento, in Italia, hanno usato questo espediente poeti come Trilus-sa, e narratori come Giuseppe Berto, che nel pamphlet Colloqui col cane (1986) si serve deldono della parola del cocker per mettere sotto accusa l’Italia di fine anni Sessanta.

43 Gilles Deleuze e Félix Guattari, op. cit., p. 40.44 Tommaso Landolfi, Il Mar delle blatte e altre storie, cit., pp. 191-215.45 Ivi, p. 215.

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fine antitetico – cioè mostrare la divaricazione tra i linguaggi dell’uomo edel cane – sta a monte della situazione capovolta, quella in cui sono gli uo-mini a comprendere i cani. L’acquisizione del punto di vista animale sullarealtà conduce ad un effetto straniante, come evidenzia il racconto di Sve-vo, Argo e il suo padrone, dove il protagonista umano riesce con grande pa-zienza a introdursi nel linguaggio del cane, ‘traducendone’ il pensiero. Perscoprire che cosa? Che tra uomini e cani i fraintendimenti sono numerosie che i due universi non sono in contatto.46

La decisione di spezzare il legame di fedeltà, in genere, viene presadall’uomo.47 Lasciare a se stesso il cane allontana un fantasma dalla co-scienza e nello stesso tempo denuncia quanto il cane sia vissuto come ‘unsupporto’ dell’io. Pirandello in Pallino e Mimì narra come la cagnolinaMimì venga abbandonata, dopo che si è accoppiata per la strada con Pal-lino (un cane ex randagio) davanti agli sguardi divertiti dei villeggianti diChianciano. La ‘storia d’amore’ tra i due animali riproduce, al contrario,quella tra la padrona di Mimì, “Miss Galley”, e l’uomo d’affari BasilioGori. Avvelenata dal trattamento riservatole dall’uomo, che l’ha improv-visamente lasciata, la “signorina” dapprima sfoga la sua rabbia sulla lezio-sa Mimì e poi l’abbandona, trasformandola in una cagnetta di strada evi-tata da tutti:

Nessuno si mosse a prenderla, nessuno la chiamò. E Mimì seguitò a va-gar, sotto la pioggia […]. Di tratto in tratto s’arrestava a guardare con gliocchietti cisposi tra i peli, come se non sapesse ancora comprendere comemai nessuno avesse pietà di lei così piccola, di lei così carezzata prima ecurata: come mai nessuno la prendesse per riportarla alla padrona, chel’aveva perduta, alla padrona ch’essa aveva cercato invano per tanto tem-po e che cercava ancora. Aveva fame, era stanca, tremava di freddo, e nonsapeva più dove andare, dove rifugiarsi.48

Fulvio Tomizza in Trick. Storia di un cane racconta di un cane rinnegatodai padroni nel momento in cui nasce il figlio.49 Una situazione almeno in

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46 Italo Svevo, “Argo e il suo padrone” (1949), in Id., Racconti, Milano: Mondadori,2004, pp. 95-118.

47 Non sempre, però. Marco Lodoli in Cani e Lupi (Torino: Einaudi, 1995) descrive ilcaso di Rorò che fugge dalla vecchia padrona che lo tiene prigioniero. Ma la museruolagialla che gli rimane addosso diventa il simbolo del suo insuccesso.

48 Luigi Pirandello, “Pallino e Mimì”, in Id., La vita nuda, Novelle per un anno (1922),vol. I, t. 1, Milano: Mondadori, 1985, p. 297.

49 Fulvio Tomizza, Trick. Storia di un cane, Milano: Mondadori, 1975.

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parte analoga è proposta da Carlo Cassola ne L’uomo e il cane, dove Jack èil cane (ritenuto dal padrone Alvaro una bocca da sfamare alla stessa stre-gua del bambino) di cui ci si sbarazza appena se ne offre l’occasione. Laperdita della famiglia costituisce l’ingresso in un mondo in cui Jack smar-risce la propria fisionomia, perché “un randagio è solo fisicamente un ca-ne. Socialmente gli manca lo stato che lo dichiara tale, cioè la dipendenzada un padrone”.50 Di fatto, il cane possiede uno spazio d’esistenza soltantoin rapporto all’uomo. E al cane si attribuisce l’idea che non ci possa esserevita senza padrone. Goffredo Parise mette a punto in Anima (Sillabari)una situazione narrativa in cui un cane “di nome Bobi che aveva e nonaveva un padrone” vaga “per le strade di una città italiana”, trascinato dallamalinconia e dalla noia della solitudine. Solo dopo la morte, avvenutaquello stesso giorno, riceve la visita del presunto padrone, che “ricordandocon grande dolore passeggero Bobi e certe sue distrazioni si domandò (o sidisse?) una cosa molto bella e degna di lui: ‘I cani hanno l’anima’”.51

Il cane senza padrone – che talvolta diventa simbolo della libertà, del-l’estraneità alle regole, contrapponendosi al cane ‘burocrate’ –52 può esse-re accettato solo da uomini che si mettono ai margini, come il protagoni-sta della Vittoria delle formiche di Pirandello. “Ridotto alla fame, da agiatocome il padre l’aveva lasciato morendo, abbandonato dalla moglie e daifigli”, l’uomo vive solo in una baracca in campagna. Se da un lato è tor-mentato dal rimorso di aver sprecato l’esistenza, dall’altro, nella rinuncia,ha trovato un equilibrio che non ha mai conosciuto in precedenza. ScrivePirandello:

Aveva scoperto questa nuova ricchezza, nell’esperienza che può bastar cosìpoco per vivere; e sani e senza pensieri; con tutto il mondo per sé, da chenon si ha più casa né famiglia né cure né affari; sporchi, stracciati, sia pure,ma in pace; seduti, di notte, al lume delle stelle, sulla soglia d’una catapec-chia; e se s’accosta un cane, anch’esso sperduto, farselo accucciare accantoe carezzarlo sulla testa: un uomo e un cane, soli sulla terra, sotto le stelle.53

La stessa solidarietà lega il ragazzo Cinci al cane Fox, solitari protagonisti

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50 Carlo Cassola, L’uomo e il cane (1977), Torino: Einaudi, 1983, pp. 53-54.51 Goffredo Parise, Sillabari (1984), Milano: Adelphi, 2004, pp. 36-40.52 La definizione è di Giorgio Manganelli, Pinocchio: un libro parallelo, Torino, Einaudi,

1977, p. 121.53 Luigi Pirandello, “Vittoria delle formiche”, in Id., Una giornata. Novelle per un anno

(1937), Milano: Mondadori, 1990, vol. III, t. 1, p. 704.

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di un’altra novella di Pirandello, Cinci.54 I due vagano insieme per la cam-pagna, uniti da un affetto silenzioso, fino a quando Cinci, avendo vistoun ragazzo prendere al cappio una lucertola, si lascia travolgere dalla rab-bia e nella colluttazione lo uccide, mentre il cane osserva la scena.

Il più celebre degli esclusi pirandelliani, Mattia Pascal, pur desideran-dolo, evita invece la compagnia del cane. Possedere un animale vorrebbedire ridimensionare quel progetto di libertà a cui aspira dopo aver abban-donato la vita soffocante che aveva trascorso fino ad allora.

Ero […] stanco di quell’andar girovagando sempre solo e muto. Istintiva-mente cominciavo a sentire il bisogno di un po’ di compagnia […]. Sottoun fanale scorsi un vecchio cerinajo […] gli scoprii tra le scarpacce rotteun cucciolotto minuscolo, di pochi giorni, che tremava tutto di freddo egemeva continuamente, lì rincantucciato. Povera bestiola! Domandai alvecchio se la vendesse. Mi rispose di sì e che me l’avrebbe venduta ancheper poco, benché valesse molto […]. Comprando quel cane, mi sarei fat-to, sì, un amico fedele […], ma avrei dovuto anche mettermi a pagareuna tassa: io che non ne pagavo più! Mi parve come una […] compro-missione della mia libertà.55

Il cane servo e schiavo. Sottomissione e asservimento al potere

L’altro versante della fedeltà è la sottomissione. Il cane fedele è un servito-re dell’uomo, è un suo dichiarato inferiore. La sua intelligenza si misura,in tal senso, nella capacità di obbedire e di eseguire ordini. Il processoverso la ‘deterritorializzazione’, il viaggio, è qui bloccato alla radice. L’iodell’individuo non ammette cedimenti, forse proprio perché ne ha paura.Il cane servo rimanda a personalità umane in conflitto con le cose e con ilmondo, irresolubilmente fragili, incapaci di amore.

Landolfi nel 1947 scrive Racconto d’autunno. Un soldato in fuga rag-giunge una desolata villa tra i monti. Attraverso una spiraglio tra gli scuri,egli vede due cani-lupo dalla “fisionomia feroce” che percorrono un salonefatiscente e sontuoso “a gran passi silenziosi, fermandosi talvolta a fiutarl’aria o balzando su un seggiolone a grattarvisi furiosamente, per mera ner-vosità”.56 I cani stranamente non abbaiano, come se obbedissero a una

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54 Luigi Pirandello, “Cinci”, in Id., Berecche e la guerra, Novelle per un anno (1934), Mi-lano: Mondadori, 1990, vol. II, t. 3, pp. 667-75.

55 Luigi Pirandello, Il fu Mattia Pascal (1918), in Tutti i romanzi, vol. I, Milano: Mon-dadori, 2000, pp. 418-19.

56 Tommaso Landolfi, Racconto d’autunno (1947), Milano: Rizzoli, 1975, p. 19.

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“volontà superiore”. Quando l’uomo, spinto dalla fame e dalla necessità ditrovare un riparo, si decide a sfondare la finestra, i cani, pur latrando fu-riosamente, non gli si avventano contro. Né lo fanno allorché entra in ca-sa. Il loro comportamento gli suscita un’inspiegabile (data la circostanza)pietà, “quasi fosser creature infelici o anime in pena, astrette in quella di-mora da un crudele incantesimo”. In effetti questa è la loro condizione.Essi temono l’anziano padrone di casa apparso subito dopo nella sala dapranzo. Sono così sottomessi e “ineluttabilmente attratti” dall’uomo che,lasciati soli, continuano a “percorrere a gran passi la sala […] levare il mu-so in dolorosi guaiti, […] rispondere al vento con ululati ancor più stra-zianti”.57 Lucia, la figlia del vecchio, che svela la sua presenza negli ultimicapitoli del libro quando il padre è ormai morto, ha con i due cani un at-teggiamento diverso. Prigioniera come loro della volontà paterna, ha fattodei due cani-lupo gli unici suoi confidenti e compagni. I cani, in quanto‘fratelli’, godono di un altro privilegio: sono esclusi dalla furia sadica (è latara familiare, il motivo della morte della madre e il ‘segreto’ del padre)che la spinge a torturare tutti gli altri animali, dai topi agli uccelli. Appareinevitabile che quando la ragazza viene uccisa da un gruppo di soldatisbandati, i cani muoiano assieme a lei, abbattuti da una scarica di mitra.

Il tema del cane sottomesso al padrone, in cui la fedeltà non si espri-me attraverso la cooperazione ma l’ubbidienza, si incontra con frequenzanei libri di Landolfi. La voce che narra le storie intrattiene un rapportodifficile e diseguale con la realtà. Il suo comportamento è stravagante,ama la solitudine, fatica ad aver commercio con gli altri umani, gli è ne-gata la possibilità d’amare. Gli animali diventano i suoi prossimi, le crea-ture viventi che, uniche, gli stanno vicino (suscitando sentimenti ancipiti,si veda il rapporto con i ragni o le ‘labrene’). Ma col cane il rapporto èsquilibrato: l’animale è l’elemento debole, che deve accettare la situazioneperché il suo istinto lo piega in quella direzione. La sua è una fedeltà-pri-gione. Così spesso il cane è terrorizzato dal padrone folle, di cui, come inSettimana di sole (racconto contenuto in Dialogo dei massimi sistemi), se-gue con lo sguardo i movimenti. Sono i suoi stessi istinti ad esserne con-dizionati, come accade alla cagnetta di Federico, il solitario protagonistadi Mani (si trova sempre nel Dialogo dei massimi sistemi), “costretta” adassalire un topo con brutale accanimento perché è il padrone a volerlo.Nel primo racconto della raccolta, Maria Giuseppa, il narratore afferma

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57 Ivi, p. 59.

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di aver plasmato il carattere del proprio cane, facendone una bestia intro-versa e diffidente. D’altra parte, Maria Giuseppa, la donna di campagnabrutta e sgraziata che fa da cameriera al protagonista è, a più livelli, equi-parabile ai cani, insieme a cui è fatta oggetto di scherno, di dispetti, diviolenza.58

Questo comportamento dell’uomo verso il cane diventa metafora diun atteggiamento diffuso tra gli uomini stessi, e, nello stesso tempo, co-mune anche alla ‘società dei cani’. Sono le idee che sostanziano due libridi Gavino Ledda, Padre padrone e Lingua di falce. Nel primo, l’asservi-mento del cane Rusigabedra al pastore è totale. Quando l’uomo arriva colfiglio nella tanca, il cane lo saluta abbaiando, saltando e scodinzolandofinché non gli viene gettato un pane di crusca che afferra al volo. Il cane èil prezioso compagno di lavoro del pastore. Quando il padre si allontana,Gavino non ha altri aiuti. Ma Rusigabedra sa il fatto suo, avendo ricevutol’‘investitura’ dal suo signore: riesce così ad allontanare dei ladri di bestia-me che Gavino non aveva notato. Mentre il rapporto col bambino è pari-tario (con lui si muove per la montagna, divertendosi a inseguire le traccedel selvatico), quello col padre è diseguale per legge. Quando avverte ilsuo arrivo, il cane cambia atteggiamento: il giovane padrone sembra nonesistere più, ogni sforzo è orientato ad accogliere il vero padrone, a cuideve far festa per poter avere in cambio il cibo.

La relazione così impostata rende evidente, secondo Ledda, come inSardegna “i padroni hanno sostituito la logica del branco con l’egoismodella proprietà”.59 Perduta l’armonia originaria, a ogni livello si è venutadelineando la condizione di asservimento a un capo, che considera gli al-tri cose di sua proprietà. La stessa logica domina tra i cani e i tentativi diribellione al capobranco, come è scritto nelle pagine iniziali di Lingua difalce, sono destinati a fallire.60

Il cane fedele però normalmente non si ribella, perché nell’uomo vedeil suo dio. Da lui accetta tutto, per lui è disposto a sacrificarsi. GiovanniGiudici in una serie di poesie comprese in Lume dei tuoi misteri evidenziail legame morboso che può stringere il cane al padrone. In Spiegazioni silegge: “Ama e sbrana / Gelosia lo divora – attaccato al padrone / Morbosa-mente al punto / Che se gli va vicino / Assale il suo bambino”.61 La sotto-missione diventa talora addirittura parossistica: il “cane canaglio” descritto

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58 Tommaso Landolfi, Dialogo dei massimi sistemi (1937), Milano: Rizzoli, 1975.59 Gavino Ledda, Padre padrone. L’educazione di un pastore, Milano: Feltrinelli, 1975.60 Gavino Ledda, Lingua di falce, Milano: Feltrinelli, 1978, pp. 2-3.

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da Tiziano Scarpa in Groppi d’amore nella scuraglia riporta sempre indietroil sasso che l’uomo getta nel fosso, perché è convinto che “tutto tene signi-ficanza”.62

Talvolta il contrasto tra la volontà del padrone e quella del cane pro-voca un conflitto nell’animale, come scrive Saba in Primissime scorciatoie:“Vorrebbe sfogare i suoi istinti (appena coperti) e al tempo stesso conser-varsi l’amore del padrone. Ma l’una cosa e l’altra non può fare. Trema. Hasenso di colpa. Guardate i suoi occhi; so che li guardate volentieri, che licapite, che vi sono anche troppo fraterni”.63

Il servilismo può diventare un atteggiamento necessario per farsi ac-cettare. Il cane è capace di umiliarsi, di cancellare ogni frammento di di-gnità. Ma comportandosi in questo modo non segue comunque la natu-ra? È questo il tema (e la domanda) che si incontra nella parte conclusivadel secondo romanzo di Bassani, Gli occhiali d’oro,64 in cui, poco prima disuicidarsi, il dottor Fadigati – l’omosessuale protagonista del libro – siimbatte per le vie di Ferrara in una cagna che gli rivolge “uno sguardoumido, trepidante”. L’incontro con un animale che cerca ad ogni costo difarsi accettare, trascinandosi “sui ciottoli verso le scarpe del dottore”, ro-vesciandosi “sul dorso pancia e zampe all’aria, completamente alla suamercé”,65 lo turba profondamente. Fadigati, che arriva a far dormire la ca-gna in camera sua, osservando l’atteggiamento dell’animale giunge allaconclusione che forse gli uomini dovrebbero “saper accettare la proprianatura”, anche se ritiene improbabile che possano “arrendersi” fino a quelpunto all’istinto animalesco che pur li anima. Se c’è una differenza trauomini e animali, questa sta probabilmente nel fatto che i sentimenti del-le bestie sono “più semplici” di quelli umani, “più direttamente sottomes-si all’imperio della legge naturale”.66

La versione estrema del rapporto di fedeltà è rappresentata dalla tra-

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61 Giovanni Giudici, “Lume dei tuoi misteri”, in Id., I versi della vita, cit., p. 622.62 Tiziano Scarpa, Groppi d’amore nella scuraglia, Torino: Einaudi, 2004, p. 47.63 Umberto Saba, Tutte le prose, Milano: Mondadori, 2001, p. 877.64 Giorgio Bassani, “Gli occhiali d’oro” (1958), in Id., Opere, cit., pp. 297-303.65 Ivi, p. 297.66 Ivi, p. 305. Il motivo della cagna più sottomessa del cane è un topos ricorrente. In ta-

le direzione si muove Saba nella poesia A mia moglie e, seppur su un piano di reciprocità,Montale (Xenia I), per il quale la fedeltà canina diventa modello di fedeltà coniugale:“Non ho mai capito se io fossi / il tuo cane fedele e incimurrito / o se tu lo fossi per me”.Eugenio Montale, “Non ho mai capito se io fossi…”, in Id., Tutte le poesie, Milano: Mon-dadori, 1984, p. 293.

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sformazione del cane in un aggressivo strumento di potere al servizio del-l’oppressore. Il cane fedele diventa, come scrive Manganelli in più libri, il‘sicario’, definizione che si estende a comprendere sia il cane da guardiatenuto alla catena (è anche il Bargello di Sciascia ne Il giorno della civettae la lunga serie di ‘cani da pagliaio’ che percorre la nostra letteratura con-temporanea) sia le SS.

Ennio Vittorini propone in Uomini e no una tragica versione del lega-me uomo-cane: è quello che unisce il capitano Clemm ai suoi tre cani-lu-po, Blut, Greta e Gudrun, nel fosco clima dell’ultimo anno della secondaguerra mondiale. I cani vengono addestrati per uccidere. La loro natura èpiegata al servizio degli obiettivi criminali perseguiti dagli aguzzini nazi-sti. Non c’è modo di interrompere questo legame perverso, anche se unodei cani, il giovane Kaptän Blut, sembra quasi cedere di fronte alle paroledi Figlio-di-Dio, il partigiano infiltrato tra i tedeschi che vorrebbe con-vincerlo ad abbandonare quella vita. Tra il partigiano e Clemm la distan-za è enorme, come rivela questo scambio di battute:

“I cani non tradiscono sono sempre fedeli”.“Questo non è,” disse Figlio-di-Dio, “una buona qualità”.“No?” disse l’ufficiale.“No, capitano. Un uomo va bene, e il cane gli è fedele. Un uomo va ma-le, e il cane lo stesso gli è fedele”.67

Il tempo non è però stato sufficiente per modificarne la natura e il cane ècostretto a eseguire gli ordini impartiti da Clemm. L’occasione è data dal-la brutale esecuzione dello sventurato Giulaj, un giovane venditore di ca-stagne colpevole di aver ucciso Greta, che viene fatto sbranare proprio daBlut e da Gudrun.

Daniela Amsallem ha studiato come nella letteratura ebraica il canesia stato spesso sovrapposto al nazista.68 Nei campi di concentramento icani sono parte integrante del paesaggio: accolgono i prigionieri al loroarrivo abbaiando furiosamente, mentre le SS urlano ordini che assomi-gliano a latrati secondo la tradizione prussiana della Dill. Cani e milizianazista procedono spesso appaiati, perché le SS se ne servono per evitarele fughe dei deportati, per improvvisare cacce all’uomo, per mantenere

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67 Ennio Vittorini, Uomini e no (1945), Milano: Mondadori, 1965, p. 125.68 Daniela Amsallem, “Le symbolisme du chien: Primo Levi et la littérature juive après

la Shoah”, Croniques italiennes, 33-34, 1993, pp. 27-44.

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l’ordine e incutere terrore in occasione delle esecuzioni capitali o per farsbranare i deportati. Agli occhi dei prigionieri cani e uomini diventanoperciò una sola cosa. Primo Levi in Se questo è un uomo si rifà a questaimmagine e il cane diventa Cerbero, il custode infernale. Come ha affer-mato Marco Belpoliti, il cane è per Levi “l’immagine dell’individuo solo,asservito, come gli aguzzini nazisti, a una legge a lui superiore, è cioè l’uo-mo privato della sua libertà”.69 Il disprezzo di Levi verso il cane servo rie-merge anche ne I sommersi e i salvati, in cui appare il cane di Pavlov, l’ani-male usato per lo studio del comportamento canino, e in Fosforo (Il siste-ma periodico) dove la bibliotecaria è associata a un cane da pagliaio, “unodi quei poveri cani che vengono deliberatamente resi cattivi a furia di ca-tene e di fame”.70 Levi, d’altra parte, avvicina al cane anche la condizionedi chi è vittima della violenza. Così è il prigioniero del lager reso progres-sivamente simile a un cane, come evidenzia il gesto di lappare la zuppa(mentre ne La Tregua la sua condizione di disorientamento lo porta aidentificarsi con un cane randagio).71 Analogamente, uno scrittore sensi-bile al tema del potere e della sua brutalità come Pier Paolo Pasolini nelfilm Salò o le 120 giornate di Sodoma rappresenta la scena dei giovani ‘tra-sformati’ in cani tenuti al guinzaglio dai torturatori e obbligati anch’essi alappare il cibo dai piatti.

L’equiparazione del cane al nemico viene proposta da Giorgio Vogherane Il segreto: la paura per i cani è il probabile riflesso dell’ostilità nutrita daicompagni di classe austriaci nei suoi confronti in quanto cittadino, italia-no e, soprattutto, ebreo. Si noti che, in questo caso, siamo negli anni dellaprima guerra mondiale, ma già l’antisemitismo era sentimento diffuso inAustria dove la famiglia di Voghera, originario di Trieste, era sfollata. I canisi trasformano in incubi per il bambino che li teme a tal punto da pensareche abbiano qualche profondo motivo di malevolenza nei suoi confronti:“Se il cane faceva proprio tutti gli sforzi possibili per assalirmi, se si dimo-strava tanto addolorato di non poterlo fare, voleva dire che nella sua testa

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69 Marco Belpoliti, “Animali”, Riga 13, Milano: Marcos y Marcos, 1997, p. 168.70 Primo Levi, “Fosforo”, in Id., Opere, vol. I, Torino:Einaudi, 1997, p. 84171 Amsallem ricorda come altri scrittori ebrei descrivono casi simili. Yoram Kaniuk in

Adamo risorto (1968) propone il personaggio di Adamo, il più celebre clown tedesco, chesfugge alle camere a gas ma è obbligato a diventare il ‘cane’ del comandante Klein, che locostringe a salire le scale a quattro zampe. Ne L’ultimo dei giusti (1959) di André Schwarz-Bart, Ernie Lévy, non riuscendo a liberarsi dal senso di colpa per essere l’unico sopravvis-suto della sua famiglia, rinuncia alla natura umana e diventa un cane.

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ci dovevano essere delle ragioni profonde, assai serie, per odiarmi. Volevadire che la mia presenza gli arrecava un’offesa ben grave”.72

Ridicolizzati e asserviti al potere militare che ha portato il mondo alloscontro e all’apocalisse sono i cani descritti da Paolo Volponi nel Pianetairritabile. Alcuni sono servi nel circo degli uomini, come lo spinone chedopo anni trascorsi nel gruppo dei cani saltatori ed equilibristi, riesce asopravvivere guidando il motociclo argentato, o come la cagnetta NeueIdeologie “idolo delle folle”, che balla in tutù e con un delicato fiocchettocolor pesca sulla testa tutto il Lago dei cigni. Altri sono strumenti di guer-ra, e perciò vengono equiparati, come afferma Moneta irritato dalla deri-sione cui lo fa oggetto il nano Mamerte, a “dirigenti”, adeguatamente“istruiti” per uccidere.73

Pavese ne La luna e i falò si richiama a questa immagine del cane servoper prospettare un’impossibile forma di ribellione: “Sono soltanto i caniche abbaiano e saltano addosso ai cani forestieri e [Nuto gli diceva] che ilpadrone aizza un cane per interesse, per restare padrone; ma se i cani nonfossero bestie si metterebbero d’accordo e abbaierebbero addosso al padro-ne”. La metafora politica, sullo sfondo delle vicende resistenziali, è eviden-te e viene ribadita con il successivo richiamo alla seconda guerra mondiale,dove si sono visti “tanti cani scatenati dal padrone perché si ammazzasseroe i padroni restare a comandare”. Si tratta, afferma Nuto, di una legge uni-versale: “il mondo è pieno di padroni che aizzano i cani”.74

La fedeltà diventa, per questa via, non più una qualità, ma un limitedel cane. Negli Improvvisi per macchina da scrivere, Manganelli affermache i cani hanno acquisito tratti deprecabili: considerano “l’uomo comeun essere superiore” e “fanno buone azioni” a tal punto che “hanno qual-cosa dei falliti”.

I cani hanno cessato secoli or sono di esseri animali, allo stesso modo percui si dicono animali le tigri e le giraffe. Il cane ha rinunciato a tutti i ter-mini della sua qualifica psicologica, ed è diventato un’altra cosa. Che co-sa? Oserei dire che è diventato un sintomo. Il cane-animale, simpatico efantasioso chiassone, non esiste più; al suo posto abbiamo questo stranoprodotto non strettamente genetico delle inquietudini, dei disagi, dei ma-lumori, degli estri, dei dispetti dell’uomo incivilito.

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72 Anonimo Triestino (Giorgio Voghera), Il segreto, Torino: Einaudi, 1961, p. 46.73 Paolo Volponi, Il pianeta irritabile (1978), Torino: Einaudi, 1994, p. 169.74 Cesare Pavese, La luna e i falò (1950), Torino: Einaudi, 1978, p. 75.

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Il cane, spogliato della sua natura, è diventato così l’oggetto dei sogniumani:

come gli incubi, i fantasmi, anche certe figure angeliche, mirabili ma in-naturali. Ecco: ci furono millenni in cui il cane fu ’naturale’, come l’ac-qua e il fiore; ma oggi non è naturale, è come noi; un’artificiale trovata,un’invenzione. Forse uomo e cane sono nel mondo i soli esseri che abbia-no conseguito una totale, irreparabile innaturalità. Il cane è la nostra ne-vrosi, il simbolo di qualcosa che non possiamo mai amare abbastanza; equale sorta di malattia siamo noi per il cane? Una malattia che lo ha resoschiavo.75

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75 Giorgio Manganelli, Improvvisi per macchina da scrivere (1989), Milano: Adelphi,2003, pp. 206-07.