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Indice pag Presentazione » 11 Nota editoriale » 27 Bibliografia degli scritti di Mario Vegetti » 29 Tavola delle abbreviazioni » 41 L’io, l’anima, il soggetto » 43 L’umano fra natura, norma e progetto nelle antropologie antiche » 81 Culpability, responsibility, cause: Philosophy, historiography, and medicine in the fifth century » 93 Il mondo come artefatto. Cosmo e caos nel Timeo di Platone » 111 Struttura e funzioni della dicotomia nel Sofista » 123 Ontologia e metodo. La critica aristotelica alla dicotomia in De partibus animalium I 2-4 » 133 Kenologe‹n in Aristotele » 145 Athanatizein. Strategie di immortalità nel pensiero greco » 165 I piaceri del mio. La questione della “persona” nello stoicismo antico » 179 Tra il sapere e la pratica: la medicina ellenistica » 189 L’immagine del medico e lo statuto epistemologico della medicina in Galeno » 227 I nervi dell’anima » 279 Cinquant’anni di filosofia antica in Italia: successi e problemi » 297 Intervista sul classico » 305 Un viaggio di mille anni. Tre questioni filosofiche » 313 Bibliografia generale » 323 Indice dei luoghi citati » 335 Tabula gratulatoria » 347

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Indice pag

Presentazione » 11

Nota editoriale » 27

Bibliografia degli scritti di Mario Vegetti » 29

Tavola delle abbreviazioni » 41

L’io, l’anima, il soggetto » 43

L’umano fra natura, norma e progetto nelle antropologie antiche » 81

Culpability, responsibility, cause: Philosophy, historiography,and medicine in the fifth century » 93

Il mondo come artefatto. Cosmo e caos nel Timeo di Platone » 111

Struttura e funzioni della dicotomia nel Sofista » 123

Ontologia e metodo. La critica aristotelica alla dicotomiain De partibus animalium I 2-4 » 133

Kenologe‹n in Aristotele » 145

Athanatizein. Strategie di immortalità nel pensiero greco » 165

I piaceri del mio. La questione della “persona” nello stoicismo antico » 179

Tra il sapere e la pratica: la medicina ellenistica » 189

L’immagine del medico e lo statuto epistemologicodella medicina in Galeno » 227

I nervi dell’anima » 279

Cinquant’anni di filosofia antica in Italia: successi e problemi » 297

Intervista sul classico » 305

Un viaggio di mille anni. Tre questioni filosofiche » 313

Bibliografia generale » 323

Indice dei luoghi citati » 335

Tabula gratulatoria » 347

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Presentazione

Nel mondo accademico, è tradizione consolidata dedicare ai grandi mae-stri che lasciano l’insegnamento un omaggio, solitamente nella forma del-la Festschrift, la raccolta di studi celebrativi composti per l’occasione da allievi e colleghi. Quest’uso, pur così illustre, non ci è parso del tutto con-gruente con il personaggio che intendiamo festeggiare. Mario Vegetti ha deciso di lasciare la cattedra di Storia della Filosofia Antica che occupava presso l’Università di Pavia ben prima di aver raggiunto i limiti di età e in un momento di massima creatività scientifica, all’apice del successo, na-zionale e internazionale: all’atto puramente burocratico del pensionamen-to si è di fatto accompagnato un eccezionale attivismo, che lo ha portato, da una parte, a proseguire instancabilmente il lavoro di ricerca, e dall’altra a diffondere il suo sapere e le sue competenze tramite un’intensa parteci-pazione a conferenze e convegni, in Italia e all’estero.

Così, la modalità celebrativa che ci è sembrata più consona a Mario Ve-getti è quella di ripubblicare una raccolta di suoi scritti, scegliendoli tra i moltissimi che ha composto nel corso della sua lunga carriera. Si tratta di una scelta estremamente ridotta, ma significativa, dal momento che i saggi coprono tutti i numerosi ambiti di ricerca in cui Vegetti si è impegnato, e nei quali ha lasciato il segno.

Prima di illustrare i temi cui sono dedicati gli studi pubblicati nel volume, è utile accennare al percorso non del tutto tradizionale che Mario Vegetti ha seguito prima di diventare, nel 1975, professore ordinario Storia della Filosofia Antica a Pavia. Come lui stesso ha ricordato nell’autobiografia redatta qualche anno fa per il Bollettino della Società Filosofica italiana, il suo accesso alla carriera universitaria è stato preceduto da una serie di esperienze condotte in ambiti lavorativi del tutto differenti. Tra que-ste, un ruolo centrale – spesso sottolineato da lui stesso, quando rievoca i suoi anni giovanili – è stato occupato dall’attività svolta come addetto alle pubbliche relazioni in un’azienda elettronica italo-americana, la SGS: non sono molti i professori che hanno vissuto la realtà del lavoro al di fuori della cerchia universitaria, e proprio l’esperienza maturata in questo mondo “altro” ha contribuito a formare in Mario Vegetti una mentalità per tanti versi non accademica. A questa apertura ha contribuito inoltre la diretta partecipazione alla vita politica: il suo impegno in questo campo non è mai venuto meno e ha contribuito anche a far sì che i temi della sua

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riflessione raggiungessero un pubblico molto più vasto di quello univer-sitario.

L’ingresso di Mario Vegetti nell’ambito accademico avviene nel 1967, quando, a seguito del conseguimento della libera docenza, gli viene af-fidato l’incarico per l’insegnamento di Storia della Filosofia antica presso l’Università di Pavia. Si tratta di una data importante, non solo perché dà inizio a una carriera straordinaria, ma anche perché coincide con l’at-tivazione di un corso specifico del tutto nuovo: fino a quella data, era il docente di Storia della Filosofia – in quegli anni Vittorio Enzo Alfieri – ad assumersi il compito di trattare, periodicamente, un argomento relativo al pensiero antico. Il numero di allievi – certamente esiguo nei primi anni in cui l’insegnamento di Antica viene impartito (un’esiguità che consentiva un impianto seminariale e un contatto molto stretto e proficuo tra docente e studenti, e che Mario ha sempre ricordato con una certa nostalgia negli anni successivi) – si fa via via più ampio, fino a che la nuova disciplina ac-quista una vera e propria centralità nell’ambito del corso di studi in filoso-fia dell’Università di Pavia. Come è già stato ricordato, il ruolo di docente e di studioso svolto da Mario Vegetti a partire dal 1967 viene premiato, nel 1975, tramite il conseguimento del titolo di professore ordinario: da allo-ra, fino al 2002, anno nel quale ha chiesto di essere collocato fuori ruolo, egli ha rappresentato, a Pavia, la Storia della Filosofia Antica, formando generazioni di studenti, e un gruppo di allievi che hanno dato luogo a una “scuola”, di cui Vegetti è tuttora il riconosciuto maestro.

Gli interessi scientifici di Mario Vegetti si sono indirizzati, nel corso degli anni, a diversi ambiti.

I suoi primi studi hanno riguardato il settore della scienza antica, e in par-ticolare la medicina.Proseguendo le indagini condotte nella tesi di laurea, dedicata a Tucidide e discussa a Pavia, dove aveva svolto i suoi studi uni-versitari, allievo del Collegio Ghislieri, Vegetti si dedica anzitutto – mentre ancora lavora alla SGS – alla traduzione delle opere di Ippocrate che, nel 1965, sono pubblicate da Geymonat nella grande collana di testi relativi alla Storia della scienza edita dalla UTET. In questo stesso filone di ricer-ca si inseriranno, negli anni successivi, l’edizione, delle opere biologiche di Aristotele, curata in collaborazione con Diego Lanza (1971) e quella di opere scelte di Galeno, in collaborazione con Ivan Garofalo (1978), entram-be edite dalla UTET.

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A partire dalla metà degli anni ’70, le ricerche condotte da Vegetti assumo-no nuovi orientamenti, anche a seguito del suo contatto con indirizzi di ri-cerca allora innovativi intervenuti in ambiente francese: essi sono rappre-sentati, da una parte, dagli studi antropologici con impianto strutturalisti-co di J.-P. Vernant, e dall’altra dall’epistemologia storica di M. Foucault. Se gli studi precedenti erano finalizzati a far emergere la struttura dei saperi effettivi – e questo era stato il senso dei suoi lavori così pionieristici nel settore della scienza e della biologia antiche – ora Vegetti si interroga sui contesti sociali, politici e ideologici del discorso filosofico-scientifico, sulle strategie comunicative cui esso si correla, sul suo ruolo nel contesto cultu-rale. A quel periodo risalgono opere come L’ideologia della città, in collabo-razione ancora con Diego Lanza (1977), e Il coltello e lo stilo (1979).

Un’ulteriore fase che è riconoscibile nell’ambito della produzione scienti-fica di Vegetti si inquadra negli anni ’80: iniziano in quest’epoca gli studi sull’etica antica, orientati anzitutto a esaminare alcuni temi dell’etica stoi-ca e poi ampliati, in una prospettiva complessiva, che abbraccia l’intero mondo greco, da Omero all’età romana, con il volume L’etica degli antichi (1989): continuamente ristampato, questo libro costituisce tuttora un pun-to di riferimento imprescindibile per questo settore di studi, un’opera che unisce nel modo più felice un tipo di scrittura molto avvincente anche per il non specialista a una grande ricchezza di informazioni e a una vera no-vità nell’impianto. Non si tratta infatti di compiere un semplice percorso diacronico, isolando le dottrine etiche degli autori che si susseguono nel-l’ambito del pensiero antico, bensì di individuare periodi, testi o ambienti esemplari. Basti pensare al ruolo assegnato al mondo omerico e alla figura dell’eroe, alle analisi ampie e puntuali riservate alla Repubblica di Platone e all’Etica Nicomachea di Aristotele e infine ai capitoli finali che trattano, in modo trasversale, delle scuole ellenistiche e dei nuovi problemi di etica individuale che esse propongono. L’attenzione si concentra, in particolare, sulla delineazione della figura del saggio, che Vegetti delinea efficacemen-te secondo le sue molteplici sfaccettature.

Gli studi sull’etica antica sono destinati a costituire la base di partenza per una nuova ‘impresa’: questo termine non è usato a caso, vista l’importan-za, e l’imponenza, del lavoro che Vegetti si propone di iniziare, dopo aver-ne accarezzato a lungo il progetto. Si tratta di una nuova traduzione e del commento della Repubblica di Platone, uno dei testi più illustri di questo filosofo e in generale del pensiero antico, ma al tempo stesso un dialogo su cui si è concentrato un dibattito secolare, in cui sono risuonate spesso voci pesantemente critiche. Ben consapevole di questa ampia e problematica

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tradizione interpretativa, Vegetti ha concepito il lavoro di commento in modo del tutto inusuale. Esso non si è limitato a una serie più o meno am-pia di note, che pure sono presenti, in calce alle pagine della traduzione: la vera novità consiste nel produrre un commento composto da una serie di saggi interpretativi sui nodi centrali del testo. Questo lavoro così esteso ha richiesto la formazione di una équipe, che ha visto affiancarsi a Mario Vegetti un numero sempre più nutrito di allievi e di collaboratori, scelti per le loro specifiche competenze. I primi risultati di questo ambizioso progetto hanno visto la luce nel 1994, quando, in forma di preprint, è stato edito il volume relativo al libro I della Repubblica, cui sono seguiti, sempre nella stessa forma, per così dire artigianale, i volumi relativi ai libri II-III (1995) e IV (1997). Nel 1998, questi tre volumi, che nel frattempo erano già ampiamente circolati nella comunità scientifica nazionale e internazionale meritandosi ampi consensi, sono rivisti e stampati in via definitiva nella collana di Elenchos, diretta da Gabriele Giannantoni presso Bibliopolis. Ne-gli anni successivi, l’immane lavoro continua: nel 2000 viene pubblicato il volume relativo al libro V, nel 2003 quello relativo ai libri VI-VII e nel 2005 quello dedicato ai libri VIII-IX. Al momento, è in preparazione l’ultimo volume della serie, sul libro X, e l’impresa troverà il suo coronamento nel volume supplementare con la bibliografia complessiva e l’index locorum.

Si è trattato di un lavoro che si è protratto grosso modo nell’arco di quin-dici anni, durante i quali Mario Vegetti si è fatto carico dell’ideazione del progetto e della sua realizzazione. Non solo ha tradotto integralmente il testo corredato di note, scritto le introduzioni a ciascun volume, steso un ampio numero di saggi interpretativi, ma ha coordinato e controllato mi-nuziosamente il lavoro di tutta l’équipe, i cui membri hanno sempre forma-to un gruppo coeso, e consapevole delle particolari regole che governava-no questa fatica comune.

Giunto ormai in prossimità del traguardo, Mario Vegetti potrà dirsi sod-disfatto, pensiamo, di questa sua impresa, che ha dato vita a quello che si potrebbe veramente chiamare un Lebenswerk. E noi, i suoi allievi, quando vediamo sui nostri scaffali la lunga fila dei tomi, di mole sempre più co-spicua, che condensano la nostra fatica collettiva, siamo, per parte nostra, orgogliosi di aver contribuito alla realizzazione del suo progetto, diventa-to via via anche nostro.

Il risultato positivo del lavoro sulla Repubblica va valutato sia per il suo va-lore scientifico, dal momento che non ha eguali, sia per l’ampiezza sia per la struttura, nell’ambito dei commenti ai testi, sia per la rilevanza che ha

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avuto nel rinsaldare la struttura della “scuola” che Mario Vegetti ha avuto la fortuna di poter fondare a Pavia: la situazione attuale dell’Università, bloccando le prospettive di carriera della maggior parte delle giovani leve, difficilmente consentirà che esperienze simili si ripetano.

Il ruolo di maestro che Vegetti ha svolto per tanti anni non si è certo esau-rito con la sua andata in fuori ruolo prima e con il suo pensionamento poi: la sua presenza a Pavia è ancora costante, e la sua attività di insegnamento continua, tramite corsi tenuti per contratto che attraggono ancora nume-rosi studenti.

La bibliografia di Mario Vegetti, riportata integralmente in questo volume, consiste in un numero molto elevato di titoli. I suoi scritti si riconducono a una tipologia alquanto differenziata, dal momento che saggi dall’impian-to accademico coesistono con contributi pubblicati su quotidiani e riviste ad alta diffusione, a testimonianza di un’attività culturale non limitata alla sola cerchia universitaria.

Gli studi qui editi rappresentano una selezione assai ridotta rispetto al-l’ampiezza di questa produzione. Essi vogliono comunque rappresentare, esemplarmente, i principali ambiti di ricerca cui Vegetti si è dedicato.

I primi tre saggi rivestono un carattere generale e testimoniano una non comune capacità di sintesi, propria solo degli specialistici più preparati e maturi.

L’io, l’anima, il soggetto, che apre la serie, affronta la complessa questione di stabilire quale rapporto intercorra tra la concezione greca della soggettivi-tà e quella moderna. Dopo aver ripercorso i termini di un dibattito che ha visto il delinearsi di posizioni del tutto opposte, Vegetti mostra come, nel pensiero greco, la categoria di soggetto non possa essere compiutamente rinvenuta né in ambito teologico, in cui – diversamente da quanto accade nella tradizione giudaico-cristiana – non si assiste ad alcuna forma di sog-gettivazione del divino, né in campo psicologico, dal momento che l’ani-ma si configura come un’entità divina e superindividuale; ugualmente, nel contesto politico, il singolo è trasformato in cittadino, parte integrante di una comunità. Anche nel campo gnoseologico e epistemologico, è la realtà-verità delle cose a imporsi, grazie alla sua potenza manifestativa, sul soggetto conoscente. Al tempo stesso, tuttavia, Vegetti individua una sorta di “transito” verso la concezione moderna della soggettività anzitut-to nella concezione aristotelica dell’“io proprietario”, cioè a dire nella figu-ra dell’individuo dotato di una proprietà privata, legato agli altri soggetti

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da vincoli di amicizia, i quali prolungano quella prima e fondamentale affezione che ciascuno nutre per se stesso. Un altro ambito in cui viene valorizzato l’apporto di Aristotele è quello ontologico: Vegetti mette in luce come la dottrina aristotelica dell’ousia – il termine che, nel linguaggio comune, indica proprio il patrimonio – conduca all’emergere della sostan-za, o entità, come vero e proprio soggetto in campo ontologico e logico-linguistico.

L’individuazione dei nessi che intercorrono tra antropologia e etica nel pensiero antico è l’oggetto del saggio L’umano tra natura, norma e progetto nelle antropologie antiche. Vegetti vi esamina tre approcci significativi, quel-lo stoico, quello aristotelico e quello platonico, indagando al contempo le modalità con cui ciascuno di questi tre modelli è stato ripreso nella di-scussione filosofica contemporanea. Il punto di partenza dell’indagine è rappresentato dall’individuazione del concetto di natura che ciascuna di queste filosofie elabora. Si è così di fronte, nello stoicismo, a una teoria de-scrittiva “forte” della natura, sia dell’uomo sia del mondo, che mira ad as-sicurare al soggetto la sua piena autonomia, armonizzandolo con la strut-tura cosmica e azzerando al contempo gli influssi dell’ambiente storico-sociale. In Aristotele non sono presenti assunzioni altrettanto impegnative relativamente alla natura umana: il carattere di normalità dei processi na-turali trova il suo riscontro anche nell’ambito umano, dove tale carattere è attribuito alla figura esemplare dell’uomo “secondo natura”, lo spoudaios. A sancirne la positività sono i “fatti”, cioè le opinioni e le credenze condi-vise all’interno della comunità politica: la normatività di questo personag-gio si costituisce dunque all’interno della “fenomenologia della morale”, dell’ethos pubblico. Sono queste le caratteristiche del pensiero aristotelico che ne hanno favorito la ripresa in epoca recente, nell’ambito della cosid-detta ‘filosofia pratica’. I problemi connessi a questa rivisitazione, che fa leva proprio sull’opportunità di riattualizzare la nozione aristotelica di comunità come luogo di formazione e di trasmissione dell’ethos pubblico, sono stati analizzati da Vegetti in un importante saggio del 1993, Aristotele e la filosofia pratica: qualche problema, in “Paradigmi”. Vegetti analizza infine i motivi per cui il modello antropologico platonico abbia goduto di assai scarsa fortuna: sottolinea così che la costruzione antropologica platonica è, all’opposto di quella aristotelica, contro l’ethos pubblico e la tradizione, e in più improntata a un forte artificialismo. Non solo mancano assun-zioni circa la normatività di una natura buona in sé, e anche riguardo al carattere normativo dell’esistente, ed anzi l’animale umano deve essere

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riconfigurato, attraverso un progetto artificialistico – quale è quello della Repubblica – che produce un buon governo dell’anima e della città.

Un ulteriore saggio di argomento generale è Culpability, responsibility, cau-se. Analizzando una serie di territori culturale differenti – dalla filosofia, alla storiografia, alla medicina greca del V secolo – Vegetti rintraccia il passaggio dall’uso del linguaggio della colpevolezza intesa in senso per-sonale, all’elaborazione di una nozione di responsabilità morale, politica e legale, per rinvenire infine l’emergere di una nozione ‘neutralizzata’ di causa, con il significato di spiegazione. L’ambito privilegiato in cui questo processo viene portato a compimento è quello della medicina, come mo-strano le approfondite analisi testuali che Vegetti conduce: l’opera che, in questo quadro, assume una rilevanza particolare è Antica medicina, in cui si riscontra la concezione più concettualizzata e precisa della causalità per quanto attiene al V secolo. A questo scritto ippocratico compete allora il merito di segnare l’inizio di una nuova storia del pensiero causale.

Nella raccolta, ai saggi fin qui presentati, che analizzano temi di portata generale, fanno seguito alcuni studi specifici, dedicati rispettivamente a Platone, Aristotele, gli stoici.

Il primo contributo su Platone – Il cosmo come artefatto – intende mostrare come alla cosmogonia descritta nel Timeo sia applicabile quel paradigma artificialistico che, secondo Vegetti, percorre tutta la filosofia di Platone. Si delineano così le condizioni che conducono alla fabbricazione del “ma-nufatto cosmico”, e che vengono ricavate per analogia su quelle che con-sentono la produzione degli oggetti dell’esperienza sensibile: l’esistenza di modelli di riferimento – le idee –, il luogo della generazione delle cose concrete, la chora, l’artigiano costruttore – il demiurgo. Vegetti si sofferma, in particolare, sulla decodificazione delle metafore utilizzate da Platone per descrivere l’operato di questa figura centrale di costruttore: oltre alla metafora artigianale, una metafora politica, dal momento che il demiurgo si delinea anche come magistrato che governa la città cosmica, tentando di imporle un ordine razionale, cui essa, tuttavia, tende a sottrarsi. La terza metafora è quella generativa, poiché il divino artigiano riveste anche la funzione di padre rispetto a una chora che si delinea come madre o come nutrice, e da tale incontro ha origine quel grande essere animato che è il mondo. A questo viene attribuita un’anima, quale guida razionale e garan-zia di ordine, del tutto così come delle sue parti. Vegetti sottolinea, inoltre, lo stretto legame che sussiste tra questo progetto cosmogonico e quello etico-politico delineato nella Repubblica, dialoghi che sono collocati in se-

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quenza, secondo quanto Platone stesso asserisce nel prologo del Timeo. Si tratta, nella sua interpretazione, di “salvare il disordine”, di delineare cioè, in questo dialogo, una struttura del mondo caratterizzata da un ordine in qualche modo precario, non del tutto legalizzato, tale da consentire, o for-se meglio da richiedere, una progettualità etico-politica, come quella che, nella Repubblica, prospetta il modello della kallipolis.

In Struttura e funzioni della dicotomia nel Sofista, Vegetti mette in luce il ca-rattere dialettico-dialogico delle procedure dicotomiche messe in opera da Platone nel Sofista: il suo approccio porta a escludere che la dicotomia rap-presenti una metodologia sistematico-tassonomica. L’utilizzo di questo metodo è funzionale, piuttosto, a reperire il logos di una determinata cosa, cioè a costruire la rete discorsiva idonea a comprendere l’oggetto indaga-to. Prioritario è dunque l’ambito del discorso, al cui interno si stabiliscono le relazioni in base alle quali l’oggetto stesso deriva il suo significato.

Il saggio Ontologia e metodo esamina le critiche che Aristotele, nei capp. 2-4 del libro I del De partibus, sottopone la dicotomia. Dopo aver osservato che nella Historia animalium Aristotele ha ampiamente utilizzato schemi diairetici per ordinare l’ambito del mondo animale, Vegetti procede alla puntuale lettura dei passi del De partibus per comprendere le ragioni di una presa di distanza tanto drastica dal procedimento diairetico tecniciz-zato in forma dicotomica. Sottolinea così che, per Aristotele, tale metodo è inadeguato a cogliere quegli eide indivisibili che nel loro insieme costi-tuiscono la struttura ultima del mondo animale. L’obiettivo polemico di tutta la discussione è sicuramente rappresentato dagli Accademici, sia dal Platone del Sofista e del Politico, sia da Speusippo. A partire dall’analisi dei capitoli del De partibus, Vegetti sviluppa una riflessione di portata ontolo-gica e epistemologica più generale. Dal punto di vista ontologico, mostra come, per Aristotele, diversamente da quanto lascia presupporre la dico-tomia platonica, non esista alcun livello di sostanzialità autonoma, tale da essere superiore all’eidos indivisibile, e tale da includerlo; sotto il profilo epistemologico, è proprio su tale eidos, al di sotto del quale non è possi-bile scendere, che verte il discorso scientifico, costruito sulle definizioni. Vegetti rileva infine come, nella critica alla dicotomia presente nel De par-tibus, siano riscontrabili innegabili connessioni con l’ontologia sviluppata in Metafisica Z, proprio dal punto di vista della identificazione primaria dell’ousia con l’eidos.

Il saggio Kenologein in Aristotele indaga il senso dell’accusa di “parlare a vuoto” che spesso Aristotele rivolge ai suoi avversari, o con cui prende le

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distanze da posizioni teoriche che rimangono anonime. Vegetti mostra, attraverso la citazione di numerosi esempi, che, entro il denominatore del kenologein, sono ricondotte due tipologie argomentative, da una parte quella dialettica, dall’altra quella che fa ricorso alle metafore. Secondo Ari-stotele, l’argomentazione dialettica può essere tacciata di “parlare a vuo-to” nella misura in cui si basa sugli endoxa, opinioni autorevoli e condivise, ma estranee a quella dimensione esplicativo-causale che è propria della scienza. L’utilizzo di metafore, poi, appartiene al territorio della poesia: Aristotele imputa a Platone e ai platonici di limitarsi a “parlare a vuoto”, cioè per metafore poetiche, riguardo al rapporto tra idee e mondo sensibi-le, e soprattutto assume come oggetto delle sue critiche Empedocle, il cui linguaggio diventa il principale emblema della “vuotezza” poetica. Veget-ti mostra al contempo come, a fronte di queste prese di posizione tese a salvaguardare la specificità del discorso scientifico, Aristotele faccia a sua volta ricorso a entrambe le forme argomentative da lui stesso ricondotte al kenologein. Così, dall’analisi dei testi biologici emergono esempi eminenti di questo utilizzo, che si giustifica sia con l’esigenza di colmare eventuali lacune del discorso scientifico, sia con la necessità di renderlo più efficace rispetto al pubblico dei destinatari.

Con Athanatizein. Strategie di immortalità nel pensiero greco, a partire da due testimonianze tra loro diversissime – da una parte, il celebre elogio del-la vita filosofica contenuto nel libro X dell’Etica Nicomachea di Aristotele, dall’altra l’aneddoto relativo a Diogene il Cinico, che si sarebbe dato la morte trattenendo il respiro – Vegetti indaga il complesso molto articolato delle esperienze, e delle posizioni teoriche, che, sul tema dell’immortalità, sono riconoscibili nel mondo greco. Si delinea così un panorama che com-prende anzitutto la tradizione sciamanico-sapienziale, cui sono connesse esperienze di immortalità condotte da figure di sapienti – quali Pitagora, Parmenide, Empedocle – al cui centro di situa la katabasis, la discesa al regno dei morti, per analizzare poi la ripresa e la riformulazione di queste pratiche in Platone. Vegetti analizza lo spettro di posizioni che è riconosci-bile nei dialoghi, partendo dal Fedone, che recepisce ampiamente l’influs-so del pitagorismo rifacendosi alla concezione dell’anima-demone tran-sindividuale, alla Repubblica, in cui l’immortalità dell’anima individuale è un’esigenza morale, legata al meccanismo dei premi e delle punizioni, per approdare al Simposio, dove si prospettano due forme di immortalità, l’una secondo il corpo, che coincide con la perpetuazione biologica della specie, l’altra secondo l’anima, che consiste nel produrre belle opere, in poesia, nel campo della legislazione e soprattutto in filosofia. L’aneddoto

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attribuito a Diogene mostrerebbe la ripresa e la riattivazione delle antiche pratiche sciamaniche di separazione dell’anima dal corpo, attraverso il controllo del respiro.

Mentre l’esaltazione della vita filosofica innalzata da Aristotele con linguag-gio solenne nel finale della Nicomachea, in cui fa la sua apparizione un verbo raro e arcaicizzante come athanatizein si ricollega, secondo Vegetti, proprio alla forma di acquisizione dell’immortalità che emerge dal Simposio, opera-ta dal filosofo con il suo lavoro teorico. Su questa stessa linea si pongono an-che le filosofie ellenistiche, che propongono una concezione materialistica, e perciò mortale dell’anima, assicurando tuttavia al saggio una condizione di eccellenza che lo fa aspirare a una condizione super-umana.

Il saggio I piaceri del mio indaga il problema dell’identità personale nel-lo stoicismo antico. La peculiarità della posizione stoica viene valutata in rapporto ai precedenti platonico e aristotelico. Se in Platone la scissione presente nell’anima e nella città trova la sua ricomposizione nella kallipolis, concepita come la realizzazione dell’unità collettiva, in Aristotele si assi-ste all’elaborazione di una forma compiuta e molto forte dell’autoidentità personale: la figura centrale è quella dell’oikonomikos, “l’io realizzato in quanto capofamiglia proprietario”. Per gli stoici, si tratta di sottrarre l’io alla fragilità cui è inevitabilmente condannato dalla mutevolezza della sorte anche nella potente costruzione aristotelica. Di qui la necessità di far coincidere l’identità personale con un elemento, la ragione, del tutto indipendente dalle circostanze esterne, un possesso per eccellenza stabile e intangibile. Questo logos è un frammento della ragione cosmica: come è possibile parlare di un’identità davvero personale, differente a seconda degli individui? Vegetti esamina, a questo riguardo la metafora dell’at-tore, che compare ripetutamente nei testi stoici. La differenza tra attore e personaggio è la stessa che intercorre tra il vero io e la rappresentazione che ciascuno è costretto a recitare nel mondo, subendone i condiziona-menti; risalire alla vera identità, all’io, dietro la maschera, è un problema che, nell’ambito delle concezioni stoiche, rimane insoluto.

Sono confluiti poi, in questa raccolta, tre ampi contributi relativi alla me-dicina, un ambito di ricerca in cui Vegetti si è costantemente impegnato lungo tutto l’arco della sua carriera, a iniziare dall’edizione degli scritti ippocratici del 1965, cui si erano affiancati numerosi studi sulla medicina in Platone, il volume Cuore, sangue e cervello, scritto nel 1977 in collabora-zione con Paola Manuli, la raccolta di scritti galenici del 1978 e numerosi saggi su riviste e volumi collettivi.

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Il primo lavoro qui pubblicato, Tra il sapere e la pratica: la medicina ellenistica, esamina, in tutte le sue articolazioni, lo sviluppo, e la profonda trasfor-mazione, che coinvolgono la medicina nella prima metà del III secolo a.C. Sottolineando l’effetto decisivo che su di essa viene esercitato dalle con-dizioni geopolitiche – e cioè dalla nascita e dal consolidamento dei regni ellenistici, e in particolare dell’Egitto tolemaico – Vegetti delinea anzitutto i contorni della svolta epistemologica che coinvolge questa forma di sape-re: mentre nella tradizione ippocratica appare centrale il problema della malattia, ora è prioritaria l’analisi della condizione di salute, cioè dello stato naturale dei corpi. Funzionale a questo tipo di conoscenza è anzi-tutto l’anatomia, che consente di accedere all’osservazione diretta degli organi interni: le pratiche di dissezione, e anche di vivisezione, del corpo umano, ora consentite grazie alla protezione accordata agli scienziati dai sovrani, favoriscono nuove, straordinarie acquisizioni. Su questo sfondo, Vegetti colloca l’operato dei due massimi esponenti della medicina elle-nistica, Erofilo e Erasistrato. È proprio tramite l’anatomia e la vivisezione che Erofilo individua il sistema nervoso, la cui origine viene indicata nel cervelletto e nel midollo spinale ad esso adiacente, una scoperta che se-gna la fine del cardiocentrismo; negli stessi anni Erasistrato porta a com-pimento quella rivoluzione epistemologica che Erofilo ha lasciato ancora incompiuta, non solo progredendo nelle conoscenze anatomiche, ma pro-cedendo fattivamente nello sforzo di assiomatizzare la medicina, come te-stimonia l’adozione del linguaggio dell’assiomatica aristotelica. Come ben mostra Vegetti, il punto di approdo dello sforzo innovativo di Erasistrato è l’elaborazione di una spiegazione globale del funzionamento dell’orga-nismo che combina due modelli proposti dalla tecnologia alessandrina, quello meccanico e quello pneumatico. Questo imponente sforzo avviene comunque a prezzo del ricorso a costrutti teorici – come la triplokia, l’in-treccio di nervi, arterie e vene – poco difendibili sul piano empirico.

Il saggio L’immagine del medico e lo statuto epistemologico della medicina in Galeno analizza le modalità con cui Galeno, reagendo alla crisi in atto nella medicina del suo tempo – da lui attribuita da una parte alla mancanza di una regolamentazione istituzionale, e dall’altra all’ignoranza degli stessi medici –, tenta di assegnare alla figura del medico un profilo professionale specifico. Vegetti sottolinea come, nel condurre questa operazione di ri-qualificazione del sapere medico, Galeno proponga costantemente se stes-so, la propria formazione e il proprio sapere come modello: i riferimenti autobiografici ampiamente presenti nelle sue opere acquistano un vero e proprio valore protrettico. Sotto il profilo epistemologico, Vegetti attri-

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buisce a Galeno l’esigenza fondamentale di vedere superata la rigida di-stinzione in sette che vige tra i medici del suo tempo. Il suo scopo è quello di fondare una medicina capace di fondere l’approccio razionalistico dei metodici con l’esperienza, invocata dagli empirici. La medicina, così rifon-data, aspira a fare proprio il metodo rigoroso delle scienze matematiche, un metodo assiomatico-deduttivo tramite il quale essa appare in grado di acquisire quello statuto forte di cui Galeno ravvisa l’attuale mancanza. Vegetti sottolinea al contempo come la pratica medica, confrontandosi co-stantemente con la realtà della malattia, che rappresenta un drammatico allontanamento dalla perfezione teleologica attribuita alla natura, condu-ca Galeno stesso a conferire alla medicina uno statuto più modesto, tale da annoverarla tra le “tecniche di riparazione”, e al medico, di conseguenza, una condizione non diversa da quella dell’artigiano.

In I nervi dell’anima, Vegetti esamina la discussione condotta da Galeno, nel libro IV del De placitis, riguardo a una questione centrale della psico-logia stoica: quali siano le cause del movimento dell’anima in relazione al verificarsi degli stati passionali, dei pathe. Dall’analisi che Galeno conduce della risposta fornita da Crisippo, si inferisce che si è di fronte a un pro-blema di carattere energetico, risolto con il ricorso a una metafora fisiolo-gica. All’interno dell’anima è presente un sistema di neura, paragonabile a quello dei muscoli a livello corporeo: se questi sono dotati di un buon tonos, si instaura l’arete, la condizione virtuosa, mentre nel caso contrario, quello della atonia, si verificano gli stati passionali e le azioni scorrette. At-traverso l’analisi condotta sui termini, in particolare neuron e tonos, Vegetti ravvisa il riferimento, in Crisippo, a un modello di tipo meccanico, e in particolare al sistema di costruzione, e di funzionamento, delle macchine da getto, tipiche del periodo alessandrino. Un tipo di spiegazione analogo, per il movimento volontario, è accolto anche da Galeno, nelle cui opere si ravvisa l’adozione di un modello di spiegazione che attinge al medesimo repertorio: il corpo viene paragonato a un congegno meccanico. Vegetti argomenta come, nello stesso Galeno, sia ravvisabile un altro paradigma, destinato a spiegare le modalità con cui il movimento volontario viene prodotto. È la ragione a impartire gli ordini al sistema dei nervi che danno luogo ai movimenti volontari attraverso un particolare vettore, il pneuma psichico. Nella delineazione del suo funzionamento, Galeno, come pri-ma di lui gli stoici, ricorre a un modello di tipo pneumatico che, anche in questo caso, presenta innegabili analogie con la pneumatica alessandrina, l’unica forma di tecnologia antica ad aver prodotto un’energia motrice. Diversamente da Erasistrato, cui si deve il tentativo di delineare un mo-

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dello fisiologico unificato delle energie psico-fisiologiche, capace cioè di essere al contempo elastico e fluido, Galeno differenzia il versante corpo-reo da quello psichico attraverso l’assegnazione, a ciascuno dei due, di un diverso meccanismo di funzionamento e fungendo in tal modo da punto di riferimento per i modelli scientifici successivi.

I due ulteriori contributi ristampati nel volume si possono definire di ca-rattere storiografico e riguardano, sotto differenti angolazioni, lo status degli studi sul pensiero antico. In Cinquant’anni di filosofia antica in Italia, Vegetti ripercorre, facendo costante riferimento alla propria esperienza di studioso, l’evoluzione cui sono andati incontro gli studi nell’ambito della storia della filosofia antica a partire dagli anni ’50 del Novecento. In quel periodo, essi appaiono da una parte appannaggio della ben consolidata tradizione classicistica, legata al nome di W. Jaeger, dall’altra un territorio – e qui Vegetti si riferisce soprattutto ai presocratici – in cui si addentra-no i teoreti. Questa situazione è andata mutando nel decennio successivo grazie all’applicazione, al pensiero antico, di due categorie, quella della storicità e quella della relatività, grazie alle quali si recupera la distanza tra l’antico e noi in termini di valori. In questi anni, si amplia fortemente l’am-bito dei temi della ricerca. Da una parte, acquistano un ruolo e una rile-vanza gli studi sulla scienza antica, dall’altra una svolta significativa negli studi antichistici si attua a seguito della diffusione in Italia delle esperien-ze antropologiche, di impianto strutturalista e anche marxista, provenienti dalla Francia, legate soprattutto al nome di J.-P. Vernant. Al tempo stesso, si applicano al pensiero antico anche approcci di tipo analitico che sacrifi-cano lo spessore storico dei testi, ma contribuiscono a chiarirne la struttu-ra argomentativa. Questo fervore di studi ha una ricaduta anche sul piano istituzionale: la Storia della Filosofia Antica diventa una disciplina auto-noma, sempre più insegnata nelle Università; si creano centri di ricerca specializzati; si pubblicano collane di testi e studi. Vegetti conclude la sua rassegna esprimendo qualche preoccupazione sul futuro della disciplina che, aspirando a una sempre maggiore specializzazione, corre il rischio di produrre studi molto sofisticati ma anche ripetitivi: di qui l’auspicio che si possano sperimentare nuove prospettive, instaurando fecondi contatti da una parte con le tematiche generali del pensiero filosofico, dall’altra con l’insieme dei saperi relativi al mondo antico.

In Intervista sul classico, Vegetti suggerisce anzitutto una rettifica termino-logica, sostituire cioè “classico” con “antico”: il ricorso a questo termine ha la funzione di segnalare – contro il continuismo classicistico proprio del-l’ambiente tedesco tra Ottocento e Novecento – la distanza che intercorre

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tra gli antichi e noi. Al tempo stesso, tuttavia, è proprio la presa d’atto di questo scarto a sollevare la domanda cruciale: qual è il senso degli studi sull’antico oggi? Vegetti suggerisce che l’atteggiamento corretto non può che essere di tipo archeologico, nel senso che al termine archeologia ha dato M. Foucault: si tratta di studiare le modalità con cui la tradizione, o le tradizioni, hanno contribuito a plasmare la nostra modernità, e anche la nostra identità culturale europea. Vegetti ravvisa la necessità di con-durre, in questo ambito, uno studio veramente complessivo e sistematico. Citando una serie di esempi, mostra poi come, a un diverso livello di con-sapevolezza, l’antico manifesti la sua efficacia nella cultura moderna. Per quanto riguarda il rapporto tra l’eredità dell’antico e la nostra identità cul-tuale europea, secondo Vegetti occorre valorizzare la ricchezza di elementi di dibattito che provengono dal mondo antico, tra cui spiccano, per la loro importanza, il pluralismo delle posizioni, il contrasto e anche il conflitto di idee. Tutto questo patrimonio può trovare un’utile applicazione anche a livello scolastico, opponendosi al processo di omologazione ormai sem-pre più ampiamente in atto e contribuendo alla formazione dei cittadini, sviluppando una soggettività autonoma e critica.

L’intervento Un viaggio di mille anni – un titolo che riprende le parole fi-nali della Repubblica, con cui Socrate allude al lungo tempo richiesto per raggiungere la migliore condizione dell’anima e della città – è dedicato all’analisi di tre questioni filosofiche che hanno a che fare con la nostra situazione nella società attuale. Queste pagine costituiscono una chiara testimonianza dell’impegno politico che ha sempre contraddistinto Veget-ti, e che ha ancorato la sua attività di studioso alla realtà del nostro tem-po. Le tre domande riguardano: chi siamo, che cosa crediamo di sapere, che cosa possiamo sperare. Vegetti rileva anzitutto come sia oggi in atto un vero e proprio smarrimento della soggettività collettiva. In un mondo globalizzato, si è compiuto un processo di omologazione, si è diffuso un “pensiero unico”, parallelo al venir meno di quelle numerose strutture ca-paci di produrre forme forti di identità collettiva (la fabbrica, i partiti ecc.). Per reagire a questo stato di cose, Vegetti indica la necessità di un “ritorno all’etica”, intendendo con questo l’esigenza di riaprire il dibattito sulla giustizia e in generale sui valori, di domandarsi che cosa possa essere oggi la virtù e che rapporto essa abbia con la felicità, un nesso centrale nella società antica. Da questo lavoro di rifondazione etica potrebbe prendere avvio il progetto di ricomporre la società, ricostruendo i legami sociali oggi allentati o dissolti.

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Crediamo davvero che questa raccolta possa testimoniare l’ampiezza di orizzonti abbracciata dall’attività scientifica di Mario Vegetti, la sua capa-cità di condurre un’analisi puntuale dei singoli testi e al contempo di pro-durre efficaci discorsi di sintesi. La sua attività di studioso si è in tal modo configurata come un vero e proprio continuo dialogo con gli antichi, cui ha posto, e continua a porre, una serie di domande mai scisse dal radica-mento nell’attualità, e che ad essa costantemente si riportano. In questo consiste la sua peculiarità.

Dell’esempio che ci ha offerto con il suo lavoro, e dell’insegnamento che ci ha impartito per tanti anni gli siamo grati e lo ringraziamo con grande affetto.

Desideriamo rivolgere un caloroso ringraziamento al prof. Livio Rossetti, che ha accettato di buon grado, ed anzi ha caldeggiato, di pubblicare il volume nella collana “Studies in Ancient Philosophy”, e che in seguito si è ripetutamente impegnato nella lettura e nella revisione del manoscritto, fornendoci preziosi suggerimenti.

Ringraziamo vivamente, inoltre, la dott. Maria Carmen De Vita, che ha uni-formato tutte le citazioni e ha curato l’Indice dei luoghi, e Anna Cattivelli, per il suo prezioso contributo al coordinamento redazionale.

I curatori

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Nota editoriale

“L’io, l’anima, il soggetto”. I Greci. Storia cultura e società. Vol. I: Noi e i Gre-ci. S. Settis ed. Einaudi, Torino, 1996, 432-467.

“L’umano fra natura, norma e progetto nelle antropologie antiche”. Uma-no post-umano. M. Fimiani – V. Gessa Kurotschska – E. Pulcini edd. Edi-tori Riuniti, Roma, 2004, 327-340.

“Culpability, Responsibility, Cause: Philosophy, Historiography, and Medicine in the fifth century”. The Cambridge Companion to Early Greek Philosophy. A.A. Long ed. Cambridge University Press, Cambridge, 1999, 271-289.

“Il mondo come artefatto. Cosmo e caos nel Timeo di Platone”. Reset 89, 2005, 84-88, con il titolo “Timeo, se il cosmo ha bisogno del caos” (il testo deriva da una conversazione tenuta al Festival di Filosofia, Mo-dena, settembre 2004).

“Struttura e funzioni della dicotomia nel Sofista”. Platone e l’ontologia. Il “Parmenide” e il “Sofista”. M. Bianchetti – E.S. Storace edd. Albo Verso-rio, Milano, 2004, 95-104.

“Ontologia e metodo. La critica aristotelica alla dicotomia in De partibus animalium I 2-4”. Platone e Aristotele. Logica e dialettica. Migliori, Morcel-liana, Brescia (in corso di stampa).

“Kenologe‹n in Aristotele”. Dimostrazione, argomentazione dialettica e argo-mentazione retorica nel mondo antico. A.M. Battegazzore ed. Sagep editri-ce, Genova, 1993, 37-60.

“Athanatizein. Strategie di immortalità nel pensiero greco”. Aut Aut 304, 69-80.

“I nervi dell’anima”. Galen und das hellenistische Erbe. J. Kollesch – D. Ni-ckel ed. Sudhoffs Archiv Beihefte 32, F. Steiner Verlag, Stuttgart, 1993, 63-77.

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28 Nota editoriale

“Tra il sapere e la pratica: la medicina ellenistica”. Storia del pensiero medico occidentale. 1: Antichità e medioevo. M.D. Grmek ed. Laterza, Roma-Bari, 1993, 73-120.

“L’immagine del medico e lo statuto epistemologico della medicina in Galeno”. W. Haase – H. Temporini edd. Aufstieg und Niedergang der rö-mischen Welt (ANRW). II 37.2, De Gruyter, Berlin-New York, 1994, 1672-1717.

“Cinquant’anni di filosofia antica in Italia: successi e problemi”. Greek Phi-losophy in the New Millennium. Essays in Honour of Th.M. Robinson. L. Rossetti ed. Academia Verlag, Sankt Augustin, 2004, 293-299.

“Intervista sul classico”. Di fronte ai classici. I. Dionigi ed. BUR, Milano, 2002, 265-278.

“Un viaggio di mille anni”. Oltrecorrente, novembre 2001, 53-62.

Si ringraziano i curatori e gli editori della versione originale per l’autoriz-zazione a ripubblicare i saggi qui raccolti.

“I piaceri del mio. La questione della ‘persona’ nello stoicismo antico” è un testo ancora inedito.

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Bibliografia degli scritti di Mario Vegetti1

1964 “Technai e filosofia nel peri technes pseudoippocratico”. Atti della Ac-cademia delle Scienze di Torino 98 (1963-64), 1-73.

1965 (19762) (traduzione e commento) Ippocrate. Opere scelte. UTET, To-rino.

1965 “Il De locis in homine fra Anassagora ed Ippocrate”. Rendiconti Istituto Lombardo- Accademia di Scienze e Lettere, Classe di Lettere 99, 193-213.

1965 “La medicina in Platone”. Rivista Critica di Storia della Filosofia I, 1-37 (poi in 1995*).

1967 “La medicina in Platone, II”. Rivista Critica di Storia della Filosofia III, 251-270 (poi in 1995*).

1967 “Teoria ed esperienza nel metodo ippocratico”. Il pensiero XII, 66-85.

1967 “Rapporti fra filosofia e sapere scientifico in una prospettiva storio-grafica sul pensiero greco”. Atti del convegno sui problemi metodologici di storia della scienza. Barbera, Firenze, 79-95.

1968 “La medicina in Platone, III”. Rivista Critica di Storia della Filosofia III, 251-267 (poi in 1995*).

1968 “La medicina ippocratica nella cultura e nella società greca”. La me-dicina e la società contemporanea. Editori Riuniti, Roma,19-38.

1969 “La medicina in Platone, IV”. Rivista Critica di Storia della Filosofia I, 3-22 (poi in 1995*).

1969 (ed.) Platone. La Repubblica (libri V-VII). RADAR, Padova.

1970 “La filosofia della natura nel V secolo”. L. Geymonat, Storia del pen-siero filosofico e scientifico. Garzanti, Milano, I, 64-94.

1970 “Le scienze della natura e dell’uomo nel V secolo”, ivi, 122-172.

1970 “La svolta metodologica delle scienze della natura e dell’uomo nel IV secolo”, ivi, 217-232.

1970 “Tre tesi sull’unità della Metafisica aristotelica”. Rivista di filosofia LXI, 333-383.

1 Non comprende recensioni e presentazioni di volumi.

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37Bibliografia degli scritti di Mario Vegetti

1999 “Culpability, responsibility, cause: Philosophy, historiography, and medicine in the fifth century”. Early Greek philosophy. A.A. Long (ed.). Cambridge U.P., Cambridge, 271-289.

1999 “Tradition and Truth: forms of philosophical-scientific historio-graphy in Galen’s De Placitis”. Ancient Histories of Medicine. P.J. van der Eijk (ed.). Brill, Leiden, 333-357.

1999 “Historiographical strategies in Galen’s physiology (De usu partium, De naturalibus facultatibus)”, ivi, 383-395.

1999 (ed., con M. Abbate) La Repubblica di Platone nella tradizione antica. Bibliopolis, Napoli.

1999 “L’autocritica di Platone: il Timeo e le Leggi”, ivi, 13-22.

2000 “Gli studi italiani sulla filosofia antica: problemi di metodo, questio-ni di senso”. Cinquant’anni di storiografia filosofica in Italia. E. Donag-gio – E. Pasini (edd.). Il Mulino, Bologna, 71-80.

2000 “Metáforas del cuerpo humano de Aristóteles a Galeno”. Unidad y pluralidad del cuerpo humano. A.P. Jiménez -G.C. Andreotti (edd.). Ediciones Clasicas, Madrid, 81-94.

2000 “De caelo in terram. Il Timeo in Galeno (De placitis, Quod animi)”. La filosofia in età imperiale. A. Brancacci (ed.). Bibliopolis, Napoli, 69-84 (anche in Le Timée de Platon. A. Neschke-Hentschke (ed.). Peeters, Louvain-Paris, 3-13).

2000 “Tempo e storia nell’esperienza greca”. Scrittura e memoria della filo-sofia. Studi offerti a Fulvio Papi. S. Borutti (ed.). Mimesis, Milano, 353-360.

2000 “Normale, naturale e normativo in Aristotele”. Quaderni di storia 52, 73-84.

2000 “Società dialogica e strategie argomentative nella Repubblica (e con-tro la Repubblica)”. La struttura del dialogo platonico. G. Casertano (ed.). Loffredo, Napoli, 74-85.

2001 “Un viaggio di mille anni”. Oltrecorrente, novembre, 53-62.

2001 “Athanatizein. Strategie di immortalità nel pensiero greco”. Aut Aut 304, 69-80.

2001 “Il confronto degli antichi e dei moderni in Galeno”. L’antico degli antichi. G. Cajani – D. Lanza (edd.). Palumbo, Palermo, 87-100.

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45L’io, l’anima, il soggetto

chiarezza la separazione e la differenza fra l’antico pre-cristiano e il mon-do della soggettività moderna.

2. Hegel e i suoi critici

Saldamente installato in questa tradizione di pensiero (che anzi egli rite-neva di aver portato a compimento), Hegel non era, come è noto, disposto a riconoscere ai Greci un ruolo particolare nella formazione della figura occidentale della soggettività. L’esperienza intellettuale greca era per lui segnata piuttosto da un carattere strutturalmente naturalistico e oggetti-vistico. Sul piano etico e psicologico, l’essenziale di quell’esperienza stava piuttosto nella “compatta fiducia”, nell’“unità immediata” che legavano l’individuo alla comunità, alla “sostanza etica” del popolo e della patria. Secondo Hegel, i primi passi compiuti verso la formazione di una sog-gettività contrapposta al mondo ma non ancora fondata sull’interiorità costituirono dunque la “rovina”, il principio della fine dell’essenza della grecità: solo in questo senso, solo attraverso l’apertura di una crisi e di un vuoto, gli episodi antichi della “coscienza infelice” possono preludere alla soggettività moderna. Questa sarà l’opera precipua dei “barbari del nord, perché soltanto l’interiorità (Insichseyn) nordica è il principio immediato di questa nuova coscienza dell’universo”: “lo spirito universale aveva asse-gnato alle nazioni germaniche il compito di portare un embrione a figura d’uomo pensante”, di “trovare la forma, il principio dell’autocoscienza”4. Un secolo dopo, e dalla stessa cattedra berlinese, Jaeger avrebbe nella so-stanza riconfermato l’interpretazione hegeliana. L’originalità della paide…a greca non sta nella “scoperta dell’io soggettivo”, bensì nell’“imprimere al singolo la forma della comunità”5. Ma l’hegelismo di Jaeger non è dialet-tico: i Greci non costituiscono in questo modo una tappa necessaria ma limitata della storia dello spirito, bensì un compimento assoluto (che tra l’altro non li oppone al mondo cristiano ma ne fa il fondamento). In questo modo, la Staatsethik greca diventa un modello perpetuo di “sanità morale e di armonia della Volksgemeinscbaft”6.

4 Le citazioni di Hegel sono dalla Fenomenologia dello spirito, sez. c v b, caa v b, e soprat-tutto dalle Lezioni sulla storia della filosofia, trad. it. Firenze 1967, III, 113-114.

5 Jaeger (19592), I, 15-16.6 Jaeger (1960b, 102). È appena il caso di segnalare che termini come Volksgemeinschaft

avrebbero giocato un ruolo di rilievo nella ideologia nazionalsocialista. Su Jaeger si ve-dano i saggi di Vegetti (1972) e di Lanza (1972, per la continuità Greci-cristiani 80 ss.). Sulla linea di Jaeger si muoveva J. Stenzel, che contrapponeva i Greci, e Platone in par-ticolare, all’eccesso di soggettivismo dell’epoca moderna, hegelianamente iniziato con

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53L’io, l’anima, il soggetto

un perpetuo rischio di st£sij nell’anima; è necessario perciò che sotto la pressione congiunta delle altre due parti essa sviluppi almeno una capa-cità di auto-controllo (swfrosÚnh) che comporti l’accettazione della guida razionale. Del resto, c’è qui – e soprattutto nel desiderio erotico – una fonte inesauribile di energie psichiche, che possono e devono venir messe al servizio della razionalità mediante adeguati dispositivi di sublimazione25. Anche la sfera dei desideri, che pure sono “privati” in quanto irrazionali e asociali, non ha tuttavia nulla di individuale, perché la corporeità onde essi si originano è del tutto trans-individuale.

L’anima platonica, nella sua struttura scissa e conflittuale, non ha dunque alcun rapporto con la singolarità e l’interiorità della “persona”. Nel libro IX della Repubblica, essa può venire metaforizzata come un recinto in cui coesistono, e si affrontano, un uomo – il principio razionale, in cui consiste il “vero io” ma solo in virtù delle sue capacità di universalizzazione –, un leone – il principio emotivo dello qumÒj – e un mostro policefalo – l’univer-so confuso e violento dei desideri26. Se ci può essere qualcosa di specifica-mente individuale, è semmai il peculiare rapporto di forza che in ciascuno si realizza fra queste tre polarità conflittuali; ma “l’uomo della ragione”, “l’uomo della passione”, “l’uomo dei desideri” che Platone descrive nei libri VIII e IX della Repubblica sono piuttosto figure di una fenomenologia etico-politica che ritratti di psicologie individuali.

Certo, esiste in Platone un dispositivo mitologico di premi e punizioni che spettano all’anima immortale nell’aldilà in ragione della vita condotta in questa terra,– ed esiste una “scelta di vita” che le anime compiono prima di affrontare una nuova reincarnazione27. Tutto questo avrebbe avuto un duraturo successo anche nella tradizione cristiana, che non contempla tut-tavia un ritorno dell’anima nel mondo. Si tratta naturalmente, in Platone, di una versione moralizzante del pensiero dell’anima-demone; c’è comun-que anche qui un forte elemento di de-soggettivazione, perché l’anima, prima di reincarnarsi, è obbligata all’oblio delle precedenti esistenze, tanto terrene quanto oltremondane (un espediente necessario a spiegare come mai le anime continuino a scegliere vite malvage nonostante le tremende punizioni con cui sono destinate a scontarle).

A parte questa diversione mitico-retorica, non c’è dubbio che l’immagine platonica di un’anima scissa e conflittuale (anche se ormai sganciata dal

25 Ibid. IV 439d, 4.485d.26 Ibid. IX 588c-589b.27 Ibid. X 615a-617e.

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61L’io, l’anima, il soggetto

Non c’è stato comunque in quella esperienza nulla che possa somigliare all’immaginario contrattualista tipico della modernità, dove una pluralità di individui autonomi e atomizzati negoziano le regole dell’aggregazione e della convivenza sociale. Fuori della città, come diceva Aristotele nelle celebri pagine di apertura della Politica, non c’è posto per individui siffatti, ma soltanto per gli dèi e le fiere, o gli uomini ferini.

4. La verità e la cosa stessa

In ambito gnoseologico ed epistemologico, Parmenide aveva imposto, con la sua consueta energia intellettuale, la coincidenza di linguaggio, pensiero, verità ed essere: nel dire “ ‘che è’ e che non è dato che non sia, consiste il sentiero della Persuasione, che accompagna Verità”58; “identico è il pensare e l’essere”59; “è necessario dire e pensare che ciò che è è”60. Questa inaugurale imposizione di Parmenide è stata certo, nella tradi-zione filosofica greca dominante, più volte arricchita e articolata, ma mai sostanzialmente violata. Platone ribadiva la perfetta corrispondenza tra statuto epistemologico della conoscenza e statuto ontologico dei suoi og-getti: “ciò che perfettamente è, è perfettamente conoscibile”61. Ne viene un nesso strettissimo tra ¢l»qeia e Ôn, verità ed essere, che “risplendono insie-me”62. Da questo sistema teorico deriva immediatamente la definizione del discorso vero come quello “che dice le cose che sono, come sono”63. Su questo punto, almeno, Aristotele segue senza incertezze Platone. C’è una coestensione originaria di essere e verità: “ogni cosa nella misura in cui ha essere ha verità”64; poiché affermare l’essere, e negare il non-essere, è vero, e il contrario è falso65, Aristotele può condensare questa implicazione par-lando dell’“essere in quanto vero e del non-essere in quanto falso”66.Ma Aristotele integra la dottrina parmenideo-platonica della coincidenza di essere e verità sullo sfondo di una più complessa elaborazione gnoseo-logica ed epistemologica. Il punto di partenza è qui la celebre tesi del De

58 DK B 2.3-4.59 DK B 3.60 DK B 6.1.61 Plat. Resp. V 477a.62 Ibid. V 508d.63 Plat. Soph. 263b; Crat. 385b.64 Aristot. Metaph. II 1.993b30.65 Ibid. IV 7.66 Ibid. VI 4.1027b18. Per questi problemi cfr. Vegetti (19872, 59 ss.).

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69L’io, l’anima, il soggetto

‘proprio’ (‡dion) e ciò che è amato (¢gaphtÒn)”98: due cose in fondo riducibili ad una, come suggerisce la struttura della frase, stabilendo un’equivalenza di fondo tra “proprio” e oggetto degli affetti. E come conferma lo svilup-po successivo dell’analisi aristotelica. È fonte di un piacere inenarrabile (¢mÚqhton) “il poter considerare qualcosa come proprio”; qui si radica la na-turale amicizia di ciascuno per se stesso (la prima e più originaria forma di appropriazione) e per i propri beni (cr»mata)99. Certo, l’eccesso di questa amicizia naturale può trasformarla nei vizi dell’egoismo e dell’avidità. Ma ancor più radicalmente viziosa è la polis “comunista” platonica, in quanto essa elimina le virtù maggiori della temperanza (incoraggiando rapporti con donne altre dalla propria moglie) e della liberalità (perché sopprimen-do i patrimoni privati essa impedisce di farne un uso generoso)100. Ari-stotele ha così preparata la conclusione positiva della sua critica alla Re-pubblica platonica. Il sistema attuale, egli scrive, abbellito (™pikosmhqšn) dai buoni costumi e ordinato da leggi corrette, presenterebbe sia i vantaggi della proprietà privata sia quelli del collettivismo. La privatezza soddisfa le esigenze antropologiche e psicologiche primarie di cui si è ampiamente discusso; spetterà alla virtù della generosità il render comune agli amici l’uso (crÁsij) di tale proprietà, correggendo in questo modo gli eccessivi squilibri patrimoniali eventualmente presenti nella comunità101.

2. Aristotele: la soggettivazione patrimoniale

In tutto questo sembra venir prendendo forma qualche cosa di nuovo in-torno al problema della soggettività: e precisamente una concezione pa-trimoniale della soggettivazione, centrata sul nesso tra proprietà privata (oÙs…a), amicizia e affezione per se medesimo mediata dal legame con “le cose proprie” (‡dia). Aristotele sottolinea a più riprese che l’aspetto fondan-te di un rapporto intersoggettivo quale è l’amicizia (fil…a) è lo scambio di reciproche utilità, una “transazione da mano a mano”: “l’amicizia etica è più nobile, ma quella fondata sull’utilità è più necessaria”102. Il legame di amicizia è in ogni caso fondato sullo scambio tra individui proprietari, in cui si realizza la virtù della generosità, che, come si è visto, consiste nella messa in comune dell’uso dei patrimoni individualmente posseduti.

98 Aristot. Pol. II 4.1262b23 ss.99 Ibid. II 5.1263a40 ss.100 Ibid. II 5.101 Ibid.102 Aristot. EE VII 10.

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77L’io, l’anima, il soggetto

una struttura soggetto-copula-predicato come luogo esclusivo dell’asser-zione veritiera; e, in secondo luogo, ci impone la concezione del soggetto grammaticale come oÙs…a, sostanza/identità/patrimonio costitutiva della realtà, garanzia di senso del linguaggio e nucleo primario dell’individua-zione soggettiva.

2. Una continuità tenace: l’o„konÒmoj

Il pensiero contemporaneo ha attaccato a più riprese ogni concezione forte del soggetto, dall’interiorità dell’anima agostiniana al cogito di Cartesio, dall’io trascendentale di Kant allo spirito hegeliano, e altrettante volte ne ha dichiarato la “crisi”. Non si è davvero trattato di attacchi inefficaci, se si pensa a quelli condotti, su linee diverse, da Marx, da Nietzsche, da Freud, fino alla radicale desostanzializzazione del soggetto compiuta dalla feno-menologia husserliana. Il vecchio soggetto, monolitico, trasparente a se stesso, senza tempo e senza alterità, è stato via via frantumato in istanze conflittuali e opache (come l’inconscio, che in Lacan risulta costituito dal linguaggio che lo “parla” anziché essere signore del discorso), tradotto nella polarità instabile di flussi conoscitivi e temporali, posto di fronte a un “altro” che, anziché costituirne lo specchio fedele, lo manipola e lo tra-ma in relazioni mutevoli e rischiose.

Tutto questo non ha però potuto davvero intaccare quel nesso profondo tra senso comune e grammatica di base che fa sì che noi non possiamo fare a meno di pensare e di parlare in termini di soggetto/sostanza e dei suoi attributi, e di individuarci in termini di “mio” patrimoniale. La resistenza di questo nesso è provata intanto dalla incapacità degli sforzi filosofici di incidere sull’autoconsapevolezza immediata della vita e del linguaggio – forse anche perché essi si arrestano di solito sulla soglia di quella che Aristotele aveva definita l’“assurdità” platonica, e cioè la trasformazione delle radici materiali degli usi linguistici e delle forme di soggettivazione che in essi si esprimono. Ed è provata anche, per contrasto, dall’insorgere sempre più frequente e angoscioso di “crisi di identità”, tanto a livello individuale quanto a livello sociale, che testimoniano l’urgenza insoppri-mibile di vivere la soggettività nella figura della entità/identità, radicata nella sua concezione sostanziale/patrimoniale, e che torna sempre di nuo-

za portatrice di predicati che come giustapposizione di parti, come sequenza di eventi o come epifania di un’idea” (59). Su altre opzioni presenti nel pensiero pre-aristotelico, cfr. i saggi raccolti in Joly (ed.; 1986), in particolare per la discussione fra Platone e Ari-stotele cfr. Thorton (1986).

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85L’umano fra natura, norma e progetto nelle antropologie antiche

secondo la quale il soggetto nasceva già sempre conformato ai poteri-saperi della dominazione “microfisica”; dall’altro, l’appello ad una soggettività – ma quale? – che fosse in grado di resistere a questa stessa dominazione, di condurre “l’attacco alla razionalità politica” della modernità e ai suoi dispositivi di assoggettamento e dominazione. Se questa soggettività resi-duale e resistente non appariva più reperibile, alla maniera illuministica, nel progresso della ragione, e neppure, in quella storicistica, nel “corso del mondo”, l’etica stoica poteva offrire il modello di una autocostruzione liberata dell’io senza storia, e contro la dinamica politica dei poteri. Il saggio infatti, secondo Zenone, oute despozei oute despozetai, non esercita né subi-sce il potere (SVF I 216).

Ma questa rivisitazione conduceva forse Foucault – come si è accennato – in un ulteriore paradosso. L’etica stoica si giustificava sulla base di una fondazione antropologica – l’originaria bontà della natura umana – e della simultanea assunzione di un ordine destinale del mondo provvidenzial-mente garantito. Questo può apparire suggestivo in un mondo come il nostro, che abita nel deserto prodotto dal collasso delle idee di anima e di città, dunque del progresso della ragione nel tempo storico. Tuttavia i presupposti stoici possono apparire ancora più onerosi sul piano teorico di quelli che essi sono chiamati a rimpiazzare. L’idea stessa di un compito di liberazione appare contraddittoria a quella di accettazione del destino; la concezione dell’interazione sociale come in se stessa patogena, rispetto alla natura buona, rende impossibile contrapporre la società stessa ai poteri della razionalità politica; infine, l’arte di vivere, come si è visto, è intrinse-camente connessa con un’arte del morire, nella figura di una derealizza-zione del tempo dell’esistenza storica rapportato all’immutabile presente dell’ordine fatale. Tutto ciò può essere accettabile nel quadro di un anar-chismo disperato (non esente dalla traccia di Nietzsche) ma difficilmente riportabile al senso di un pensiero che vuole essere ancora politico, e più precisamente di critica militante alla politica, come è pur sempre quello di Foucault.

2.1. Il modello aristotelico è stato considerato a sua volta “una potente versione di naturalismo etico”9. La definizione può essere accettata solo con qualche cautela: quello di Aristotele è in realtà un essenzialismo antro-pologico-etico naturalizzato mediante complesse operazioni teoriche, che vanno analizzate con qualche attenzione perché proprio da esse dipende

9 Così Engberg-Pedersen (1983). Per la questione rinvio a Vegetti (2002).

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Culpability, responsibility, cause: Philosophy, historiography, and medicine in the fifth century

“The idea of nature as implying a universal nexus of cause and effect comes to be made explicit in the course of the development of Presocratic philosophy”: G.E.R. Lloyd1. “The conception of cause is borrowed from the language of medicine, as is clear from the word prophasis which Thucy-dides uses”: W. Jaeger2. “The word aition is, from the Hippocratic writings on, a standard word for ‘cause’, and its relative aitia […] meant a com-plaint or an accusation, but already by the time of Herodotus’ book it can mean simply ‘cause’ or ‘explanation’”: B. Williams3.

These three distinguished scholars, distant though they are from one an-other in their intellectual orientations, seem to agree on the opinion that a precise and well-defined conception of causality is present in fifth-century philosophy, history, and medicine. This judgement is widely shared, but it needs to be corrected, or at least clarified and formulated, from two differ-ent but complementary perspectives.

First, as we shall see, lexical investigation of causality (aitia, aitios, to aition, prophasis) shows that explicit theoretical reflection on causal connections and forms of explanation based upon them emerged only gradually and with considerable uncertainty from the fuzziness of moral, political, and judicial language to do with culpability, responsibility, and imputability of facts and actions. Interestingly, the conceptualization of causality devel-oped in medical contexts rather than in early Greek philosophy (judging from the fragments of the latter and setting aside the causal formulations provided by Aristotle and Peripatetic doxography).

Second, there is a need to clarify the relationship between the development of theoretical reflection on causality and the kind of causal connections it describes. For example, Aristotle’s treatment of “cause” in book two of

1 Lloyd, (1979, 49). He does, however (53-55), clearly state that the development of an “idea of causality” as such must be sought in the historians and doctors, and he also emphasizes the primary moral significance (tied to culpability) of words like aitia/aitios. See also Lloyd (1966, 230 ff.), and on the juridical origins of discussions of responsibility, Lloyd (1996, 100 ff.).

2 Jaeger (1965, I, 393). Jaeger insists on the causal significance of prophasis, because he is naturally familiar with the moral/juridical sense of aitia, ibid., 161.

3 Williams (1993, 58).

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101Culpability, responsibility, cause

as here in Thucydides, the causal expression is aitia, not prophasis or the neuter form to aition.

This last term, which Thucydides does not use very frequently, normally means “motive” in a quite general sense12. However, there is one interest-ing occurrence of it in a passage very similar to those we have cited from Herodotus. In regard to a tidal wave, Thucydides states his opinion of the cause (aition, III 89.5), “an earthquake without which I do not think such an event could have happened”. Here we observe not only the extension of the concept of responsibility to any phenomenon (Frede’s point about the origin of causal thinking) but also a formulation, as in Herodotus, of the necessary presence of the cause in connection with its effect. Here too we can see the beginning of a transition towards a form of causal think-ing, but it is still vague and without any conceptual generality. It is among the medical writers that we shall find a more decisive step taken in this direction.

Medicine

The medical material that could be discussed for our purpose in this chap-ter, even confining it to the fifth-century writings, is too extensive to be in-vestigated fully here. Instead, I shall limit myself to considering a number of crucially important texts that provide the coordinates for a map of the medical thinking relevant to our topic. So far as their relative dates are concerned, we know too little to proceed on a chronological basis, and in any case, we can find divergent positions adopted in Hippocratic texts that are probably contemporaneous. We cannot speak of a univocal progress of medical thought during the fifth century, either for our own topic or for any other. At one extreme we find writings in which the language of causal explanation is completely absent or irrelevant. Thus, the words aitia and prophasis never occur in De locis in homine, regarded as one of the old-est works in the Hippocratic corpus (440-430?), and also from some points of view as one of the most authoritative13.

Terms for cause and responsibility are also nearly absent from a work as important as Prognostic, and here I need to clarify an equivocation widely found in the history of this work’s interpretation. It has been long sup-

12 Cf. for example I 11.1, II 65.8, III 82.8.13 It is probably close to the Anaxagorean group; see Vegetti (1995).

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109Culpability, responsibility, cause

I do not intend, in making those observations, to reopen the debate on Diller’s proposals about the dating of Ancient medicine, proposals he him-self has now partially retracted. My purpose is simply to point out that this work constitutes a radical turn between the thinking of the fifth cen-tury and the philosophical elaboration of the fourth, both in the area of causality and on various epistemological issues.

In conclusion, my study has shown that it is not the case, as has been pro-posed, that the transition from the words aitia/aitios to the adjectival sub-stantive to aition signifies a growth in conceptual generalization. This idea was probably suggested because of Stoic terminology, but in fact Thucy-dides, Ancient medicine, and Aristotle himself all use the substantive and the adjective without any difference of meaning.

There is a more important philosophical point. Aristotle did not complete-ly follow Ancient medicine’s rigorous definitions of causality25. His own definition of the “types of causality” in Physics II, in Metaphysics V, and elsewhere, looks back to the entire elaboration of the fifth century and makes from their uncertainties an element that is rich and conceptually complex. The answer to the question “why,” in his view, should not be limited to giving the productive or efficient cause along the lines adopted by the theory of Ancient medicine and as the Stoics later thought26. His use of the idea of “end” or “goal” in causal explanation (as already in Plato’s Phaedo) restores the moral and political context of “motives” and “rea-sons” that had been the property of fifth-century thought and that Ancient medicine, in its drastically rigorous way, seems to have dismissed as a piece of foolishness27.

25 On causality in Aristotle, see Sorabji (1980).26 For the Stoic tendency to reduce causality to a single “efficient” form, see Frede (1987b),

and also Duhot (1988) and Ioppolo (1994).27 This chapter has been translated by the editor from the author’s original Italian text.

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117Il mondo come artefatto. Cosmo e caos nel Timeo di Platone

plausibile l’inscrizione in esso di una città buona come quella della Repub-blica? E reciprocamente: se il mondo è stato costruito come un cosmo ordi-nato, non è allora verosimile e possibile che in esso si costruisca una città giusta e parimenti ordinata? Perché la società umana non dovrebbe essere alla fine armonizzabile con l’armonioso manufatto cosmico? Il racconto della nascita del mondo si configura allora come un mito di fondazione cosmica delle condizioni di possibilità della nuova città – insomma, come è stato scritto (Pradeau), “il mondo della politica”, o piuttosto un mondo per la politica. L’avventura cosmogonica rappresenterebbe dunque, da par-te del vecchio Platone, un estremo tentativo di riproporre, su grande scala, la possibilità di realizzazione dell’utopia sullo sfondo di un cosmo che la riflette da un lato, la richiede e la giustifica dall’altro.

Questo hanno sostenuto autorevoli interpreti, e c’è senza dubbio del vero in questa lettura del Timeo. Eppure il dialogo forse racchiude un suo segre-to, che richiede una lettura per così dire in controluce. Poniamoci qualche domanda, variando il punto di vista seguito finora. Era davvero necessario ricorrere a una narrazione mitica delle origini del mondo, così irta di diffi-coltà teoriche, a una sorta di drammaturgia barocca della cosmogonia, con i suoi improbabili personaggi, per rendere pensabile l’ordine del mondo?

A ben guardare, quest’ordine non sfugge affatto all’esperienza comune, anzi le si impone come un’evidenza quotidiana. I cicli dei giorni, dei mesi, delle stagioni, i moti degli astri, le generazioni biologiche, si susseguono con immutabile regolarità: dopotutto, al giorno segue sempre la notte, il sole e la luna sono sempre là dove li si attende, da un uomo e una donna nasce sempre un individuo di specie umana.

Partendo da queste evidenze, Aristotele avrebbe inferto colpi spietati alla cosmologia platonica. Che bisogno c’è – egli si chiedeva – di ipotizzare modelli ideali eterni per ogni realtà naturale, di interporre fra questi e il mondo mediatori cosmici, di moltiplicare le funzioni d’anima? Tutto que-sto appartiene al mito e alla poesia assai più che alla scienza e ad una filo-sofia rigorosa. L’evidenza è lì a dimostrarci che il mondo è ordinato in tutti i suoi livelli, dal moto degli astri alla riproduzione dei viventi. Il cosmo esiste da sempre e per sempre, ed è governato da una legalità immanente alla natura che non ha alcun bisogno di divini artigiani o di paradigmi trascendenti.

Ma forse, agli occhi di Platone, questa soluzione del problema dell’ordine del mondo sarebbe parsa eccessiva, perché si spingeva troppo oltre, fino ad annullare il disordine. Forse il “segreto” del Timeo consisteva proprio

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125Struttura e funzioni della dicotomia nel Sofista

2.1. Per avvicinarci a una comprensione in positivo della natura e del sen-so della dialettica dicotomica, è bene considerare il modo con cui essa vie-ne delineata nel disegno dialogico del Sofista. Si tratta, come è ben noto, di dare la caccia al personaggio omonimo, che a sua volta è un cacciatore, di seguirne le tracce (ichne), di afferrarlo e chiuderlo in una rete: come ha osservato Benardete, il linguaggio della caccia – che comporta una valenza euristica – appare dominante nel dialogo. Ma come condurre questa cac-cia a una figura di cui è noto soltanto il nome?

Il primo aspetto saliente del dialogo è che il procedimento che verrà segui-to risulta introdotto senza formulare alcuna regola metodica, per la quale occorre attendere il riepilogo – a cose fatte – delineato alla fine del dialogo (264d-e). Poiché nella finzione dialogica il Sofista precede il Politico, e non è lecito d’altra parte presumere che lo Straniero di Elea avesse assistito alla conversazione fra Socrate e Fedro sulle rive dell’Ilisso (su cui dovremo tornare), nel contesto del dialogo viene presentato un esperimento privo sia di regole sia di precedenti, e come tale esso andrà qui rapidamente riconsiderato.

Una prima, e importante, indicazione metodica viene tuttavia segnalata all’inizio della procedura dicotomica (218c). Non basta, per conoscere una cosa qualsiasi, fermarsi al suo nome “privo di discorso” (cwrˆj lÒgou); oc-corre invece “giungere a un accordo mediante i discorsi” (sunwmologe‹sqai di¦ lÒgwn). Vorrei qui richiamare l’attenzione su due aspetti importanti di questa asserzione. Il primo consiste nell’esigenza di homologia fra gli inter-locutori del dialogo da raggiungersi attraverso il logos. Essa è richiama-ta alla fine dell’esempio del pescatore con la lenza: “abbiamo convenuto (sunwmolog»kamen) non solo sul nome, ma abbiamo anche afferrato in modo adeguato il logos relativo alla cosa stessa (auto to ergon)” (221b). Il fatto che la validità dei risultati raggiunti dipenda dall’accordo fra gli interlocutori sottolinea il carattere dialettico-dialogico, quindi non sistematico-tassono-mico, dell’intera procedura. La seconda osservazione riguarda il termine logos, che di solito viene tradotto con “definizione”: una traduzione che è però imprecisa, visto appunto che si tratta comunque di un “discorso” fra due o più interlocutori, e – come vedremo meglio in seguito – non propriamente di una definizione, che si dovrebbe intendere come univoca e invariante, ma di una “rete” discorsiva e concettuale che essi intessono per delimitare il significato, o meglio la pluralità dei possibili significati, del “nome” indagato.

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Ontologia e metodo.La critica aristotelica alla dicotomia in De partibus animalium I 2-4

1. Il capitolo 2 del primo libro del De partibus animalium inizia in modo piuttosto brusco con un’aggressione polemica nel miglior stile aristoteli-co. Leggiamo: “Alcuni prendono la singola specie (lamb£nousi […] tÕ kaq' ›kaston) dividendo il genere in due differenze (diairoÚmenoi tÕ gšnoj e„j dÚo diafor£j: qui Aristotele è leggermente impreciso, e bisogna riferirsi alla dizione inequivocabile dell’inizio del capitolo 3: oƒ dicotomoàntej). Questo però per certi aspetti non è facile, per altri non è possibile”.

A proposito di questo passo, e dell’analisi che lo segue, vorrei discutere i seguenti punti1:

a. l’attacco alla procedura diairetica in quanto formalizzata nella dico-tomia è una novità di PA rispetto alla Historia animalium;

b. quali sono i principali – e non sempre chiari – argomenti della critica aristotelica alla diairesi dicotomica?;

c. in quale misura l’immagine del procedimento dicotomico delineata da questa critica può venir riferita agli schemi platonici del Politico e del Sofista, o ad altri esperimenti accademici?;

d. quali sono le ragioni di ordine anche ontologico che motivano que-sta drastica presa di posizione aristotelica, almeno in parte rivolta contro la stessa HA? Si può ritenere che queste ragioni presentino implicazioni più generali riguardo alla struttura della stessa ontolo-gia aristotelica?

2. La Historia animalium (il cui periodo di composizione può venire ragio-nevolmente stabilito fra il 347 e il 343)2 aveva largamente fatto ricorso a schemi diairetici di ordinamento – se non propriamente di classificazione – del campo degli animali. Nel capitolo iniziale del libro I, le differen-ze richiamate in questi schemi riguardavano di volta in volta il modo di vita, le principali funzioni fisiologiche, i caratteri, le parti degli animali. Ad esempio, una partizione molto generale divideva gli animali, secondo

1 Per le prospettive interpretative d’insieme, basta dire in questa sede che mi riferisco alle tesi di Lloyd (1993c). Un ampio resoconto della discussione recente sui passi in esame si trova in Carbone (ed.; 2002, 45-94).

2 Non ho motivo di variare la mia interpretazione complessiva della Historia animalium esposta in Lanza - Vegetti (edd.; 1971, 19962, 77-128).

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141Ontologia e metodo

formale (quella per esempio che distingue Socrate da Corisco nell’eidos “uomo”).

Nella critica alla dicotomia del primo libro di PA Aristotele sembra dunque assumere pienamente le elaborazioni ontologiche sviluppate in Metafisica Z: l’identificazione primaria della ousia con l’eidos (in tensione teorica, se non proprio in contraddizione, con l’ontologia della sostanza individuale sviluppata nelle Categorie)12, la non definibilità scientifica dell’individuo singolo, l’indifferenziazione formale degli individui definiti da un eidos specifico.

L’assunzione di questi criteri segna, dal punto di vista metodico, una linea di discontinuità rispetto agli schemi di ordinamento diairetico del mondo animale largamente presenti, come si è visto, in HA, e motiva, più in gene-rale, l’attacco alla dicotomia, accusata di violare la primarietà ontologica ed epistemologica dell’eidos-ousia con raggruppamenti “artificiali” che in-cludono eide diversi oppure spezzano l’unità dello stesso eidos.

8. È il caso, a questo punto, di formulare alcune osservazioni d’insieme, alle quali potrà seguire un quesito problematico.

a. La centralità ontologica ed epistemologica dell’eidos non influisce sul metodo espositivo delle opere biologiche mature di Aristotele, come il De partibus e il De generatione animalium, che continuano ad assumere preferibilmente il livello del genos illustrandone i caratteri anatomo-fisiologici comuni, all’interno dei quali le parti dei singoli eide si differenziano solo da un punto di vista quantitativo (ad esem-pio tutti gli uccelli hanno ali, ma le aquile le hanno più grandi dei passeri). Questo metodo espositivo potrebbe sembrare in contraddi-zione con la concezione dell’eidos come soglia di discontinuità for-male, non quantitativa, nel campo del vivente, ma il punto di vista comparatista ha a che fare con le “parti” o organi degli animali, non con le loro “specie”. Si tratta comunque, come sottolinea più volte Aristotele in PA I 1, di un approccio motivato soltanto da ragioni di economia espositiva e non di carattere onto-epistemologico. La trattazione dei singoli eide – preferibile sul piano teorico – compor-terebbe in effetti di ripetere troppo volte le stesse cose (ad esempio: il passero è un oviparo, lo struzzo è un oviparo, e così via, men-tre basta dire che gli “uccelli” sono ovipari). Questo non comporta

12 Mi limito qui a rinviare, per una discussione che comincia con Zeller, a Lewis (1991), e a Irwin (1988).

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149Kenologe‹n in Aristotele

3. Aristotele kenolÒgoj: argomentazioni dialettiche in biologia

Nonostante questi divieti epistemologici, non mancano nelle opere bio-logiche numerosi casi di ricorso ad argomentazioni logico-dialettiche e a procedimenti metaforici. L’interesse di un’indagine su di essi non consiste certo nel ribadire ancora una volta la fin troppo nota ovvietà che Aristotele è spesso infedele ai propri canoni epistemologici. Una ricognizione tipo-logica, anche se naturalmente incompleta, delle ricorrenze del kenologe‹n in Aristotele, può invece tentare di comprenderne il senso e le funzioni: può cioè mirare a mettere in luce perché Aristotele trasgredisca a volte il prescritto rigore epistemologico, e le necessità argomentative – rispetto sia alla costruzione teorica sia all’esplicitazione del suo senso – che lo induco-no a queste trasgressioni.

(a) Per quanto riguarda i casi di ¢pÒdeixij logik», si può cominciare da un testo di GA I 1, che presenta un’argomentazione assai simile a quella ri-fiutata a proposito della sterilità dei muli9. Si tratta del problema della generazione spontanea di alcuni insetti: un problema grave, perché rap-presenta un’eccezione rispetto alla teoria generale della riproduzione di Aristotele. Questi insetti si devono definire come “animali non nati da animali”. Essi dunque non possono generare per accoppiamento animali dello stesso genere (ÐmoiogenÁ), perché ciò sarebbe contraddittorio rispetto alla definizione del genere. Neppure possono generare animali di genere diverso ma capaci di accoppiarsi, perché altrimenti questi genererebbero animali di un genere diverso, e così via all’infinito: ma ciò è impossibile, dice Aristotele, in virtù del principio generalissimo secondo cui “la natura fugge l’infinito (¥peiron) perché l’infinito è incompiuto e la natura cerca sempre il tšloj” (715b14-6). Questi animali genereranno dunque prole di genere diverso e incapace di riprodursi a sua volta.

Come è facile vedere, l’argomentazione è condotta da un lato sulla base di un gioco “logico” di definizioni (alla maniera di quella sui muli), dall’altra mediante il ricorso ad un principio che può davvero sembrare “troppo generale e troppo distante dai principi propri”. Ma quello che importa di più ad Aristotele in questo contesto è che essa consente di sistemare in modo soddisfacente (eÙlÒgwj è ripetuto tre volte in tre rr. in 715b7-10)10 un problema teoricamente serio per la sua anomalia.

9 La vicinanza tra i due passi è stata notata da Le Blond (1938, 72), e da Lanza in Lanza - Vegetti (1971, 927, n. 93).

10 Secondo Le Blond (1938, 23), la funzione di questo concetto consiste appunto in un “cam-biamento di piano: dal piano della necessità al piano della finalità e dell’armonia, che

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157Kenologe‹n in Aristotele

da Aristotele in Metaph. V 1, e la cui efficacia retorica, per gli slittamenti che essa rende possibili, era stata messa in luce da Aristotele stesso nella Retorica (III 11.1412b5 ss.).

La metafora del cuore come ˜st…a/¢krÒpolij svolge dunque, in uno dei nuclei della teoria biologica di Aristotele, una pluralità di funzioni: da un lato, quella di confermare l’unicità del principio organico, nel doppio senso della commensalità, della cooperazione orizzontale tra parti, e del comando, della subordinazione verticale tra centro di potere e periferia, secondo il ruolo che Platone aveva assegnato al cervello; dall’altro lato, quella di consentire una connessione trasversale, che la teoria non può asserire in modo esplicito e formale, tra ordine del corpo e ordine della famiglia, della città e del cosmo22.

(b) Un secondo campo metaforico compare all’interno di un’essenziale de-clinazione del paradigma termico, quella che lo estende alla teoria della generazione. Essa si produce, come è noto, per l’incontro tra il seme ma-schile, che deriva dal sangue per effetto di una pšyij operata dal calore cardiaco, e il residuo mestruale femminile, che permane non cotto a causa della freddezza di questo sesso, da cui dipendono la sua sterilità ed impo-tenza generativa (GA I 19-20, IV 1).

Su questa base di fisiologia calorica Aristotele sovrappone l’analisi causale della generazione, destinata a renderne conto in termini teorici: il princi-pio maschile è al tempo stesso causa motrice, formale e finale, in quanto vettore dell’anima; quello femminile ha il ruolo di causa materiale della formazione dell’embrione (GA II 1.732a5 ss.).

Ma queste analisi sono precedute, e in un certo senso introdotte, da una metafora potente, che segue immediatamente la distinzione aristotelica tra il maschile (che genera in altro) e il femminile (che genera in se stesso), e che ne produce l’orizzonte di senso: perciò anche nell’universo chiama-no ‘femmina’ e ‘madre’ la natura della Terra, e si rivolgono al Cielo, al Sole

22 Un’ulteriore conferma di questa espansione dell’asse metaforico che connette l’ordine biologico con quello cosmico si ha in PA II 7, IV 10.686b1 ss. L’uomo, in virtù del suo maggiore calore, cresce secondo la stessa direzione basso/alto dell’universo, come di-mostra la sua stazione eretta che ne conferma il carattere “divino”; tutti gli altri animali sono rispetto a lui simili a nani (nanîdej), giacché la scarsità di calore, e il peso proporzio-nalmente maggiore della materia inerte, li fa reclinare verso il suolo, come i quadrupedi. Come di consueto, questa metafora ha al tempo stesso un valore assiologico (perché conferma l’uomo come la più divina tra le forme animali), ed euristico (perché permette per esempio di comparare gli arti superiori dell’uomo con quelli anteriori dei quadru-pedi).

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Athanatizein. Strategie di immortalità nel pensiero greco

La passione per l’immortalità è, secondo Plinio, un tratto distintivo della natura umana, che egli definisce, con una espressione bellissima, come “mortalitas avida numquam desinere” (VII 188-90). Comune dunque a tutti gli uomini, questa passione, questa brama di immortalità persona-le, è tuttavia spiccatamente filosofica, nel doppio senso che al tema del-l’immortalità i filosofi hanno dedicato un rilevante impegno teorico, e che d’altra parte essi hanno spesso rivendicato alla propria forma di vita uno speciale e privilegiato accesso alla perpetuazione eterna.

Sia la riflessione, sia la pretesa di immortalità hanno però seguito percorsi diversi e strategie differenziate, profondamente varianti secondo le epo-che, i contesti storico-culturali, le prospettive teoriche messe all’opera.

1. Per una ricognizione, certamente non sistematica né esauriente, che esplori le esperienze e le vedute alle quali la passione dell’immortalità ha dato luogo, si può iniziare da due testimoni tanto diversi fra loro come un celebre passo aristotelico e un aneddoto sulla morte del cinico Diogene tramandato da Diogene Laerzio; testimoni che hanno in comune soltanto un aspetto anomalo, in qualche misura sorprendente, e che forse presen-tano, proprio per questo, un valore indiziario per un percorso che non intende ricostruire le dottrine dell’immortalità dell’anima, bensì attraver-sare quelle esperienze di immortalizzazione personale, o di esistenza so-vrumana, rispetto alle quali le prime costituiscono forse, come vedremo, un caso particolare e alquanto isolato.

Il passo aristotelico è in EN X 7, e compare nel contesto dell’elogio della superiorità della vita teoretica rispetto a quella politica e pratica. È il caso di leggerlo per esteso: “Se l’intelletto è cosa divina rispetto all’essere uma-no, anche la vita secondo l’intelletto sarà divina rispetto alla vita umana. Non si deve, essendo uomini, limitarsi a pensare cose umane, né essendo mortali pensare solo a cose mortali, come dicono i consigli tradizionali, ma rendersi immortali (athanatizein) fin quanto è possibile e fare di tutto per vivere secondo la parte migliore che è in noi. Anche se è di peso minu-scolo (tÕ Ôgkwi mikrÒn), per potere e onore (dun£mei kaˆ timiÒthti) essa supera di gran lunga tutto il resto” (1177b30-1178al, trad. it. Natali).

Ciò che vi è di sorprendente in questo passo è prima di tutto il suo lin-guaggio, sovraccarico di toni enfatici e arcaicizzanti come di rado accade

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173Athanatizein. Strategie di immortalità nel pensiero greco

ricorso morale al tema dell’immortalità confligge con quello gnoseologico per un aspetto centrale. Dal secondo punto di vista, è essenziale che le ani-me conservino un ricordo, pure offuscato, della verità vista nell’aldilà; dal punto di vista morale, invece, è altrettanto essenziale che le anime bevano l’acqua dell’oblio, perché se esse potessero ricordare le vicende oltreterre-ne non ci sarebbero più ingiusti dopo la rinascita, e comunque i giusti lo sarebbero non per scelta morale ma per calcolo di interesse.

Ma la Repubblica introduce anche, rispetto alla questione dell’immortalità dell’anima, un elemento più rilevante sul piano della teoria.

Vi si abbandona in effetti l’opposizione di matrice orfico-pitagorica fra un corpo impuro e un’anima pura di origine divina, che ancora dominava il Fedone, per sviluppare invece la teoria innovativa di un’anima scissa fra diversi centri motivazionali in conflitto tra loro per il controllo della condotta; un’anima certo non più demonica, ma pensata piuttosto come una struttura psichica in cui hanno origine quegli stessi desideri che ve-nivano nel Fedone imputati alla corporeità. Il Timeo sviluppa dal canto suo (per questo aspetto seguendo in parte la traccia della Repubblica) una teo-ria complessa delle interazioni fra anima e corpo all’interno di quello che poteva venire ormai concepito come il complesso psicosomatico. Salute e malattia del corpo e dell’anima costituiscono qui un nesso reciproco, e la tripartizione dell’anima stimola la domanda sulla localizzazione negli organi somatici (cervello, cuore, visceri) delle sue funzioni motivazionali (razionalità, aggressività, desiderio).

Se almeno due parti dell’anima, quella aggressiva (thymoeides) e quella desiderante (epithymetikon) sono estranee alla razionalità e ai suoi valori insieme di conoscenza e di moralità; se inoltre l’anima, e soprattutto le sue parti irrazionali, sono strettamente radicate nel corpo – diventa difficile per Platone continuare a pensare alla immortalità dell’anima individuale nella sua interezza. Come pensare che l’anima si porti nell’aldilà aggres-sività e desideri connessi alla corporeità, quando se ne è staccata con la morte? e questo non tornerebbe a rendere impossibile quella visione tra-sparente della realtà ideale, che costituiva come si è detto la motivazione gnoseologica della teoria dell’immortalità? In effetti, Platone restringe con crescente chiarezza, nel Timeo e nelle Leggi, la condizione dell’immortalità alla sola sfera razionale del complesso psichico: ma si può allora ancora parlare di immortalità dell’anima individuale? La ragione non è diversa fra i diversi uomini; ciò che configura l’individualità è lo specifico rap-porto che in ognuno si viene a formare fra istanze razionali, aggressive e

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181La questione della “persona” nello stoicismo antico

spirito del tempo, che cominciava a dar voce a quella “irruzione” della particolarità autonoma segnalata dallo stesso Hegel. Ed è propriamente in Aristotele che va letta la forma più compatta e compiuta dell’autoidentità personale pensata in epoca classica.

3. La comunità politica certo qui permane, ed è condizione di “buona vita”, non tanto però per se stessa quanto primariamente per il suo fulcro antropologico – la figura dell’oikonomos, l’io realizzato in quanto capofa-miglia proprietario. Aristotele reclama un’evidenza antropologica quando sostiene, contro Platone, che ognuno si prende cura di ciò che gli è proprio (idion) in modo individuale e privato, mentre trascura ciò che è comune (koinon). È dunque meglio continuare a dire “mio” come “lo si dice ora nelle città” (Pol. II 3 1262a8). In questa immutabile datità antropologica, il padre costituisce la roccaforte del “mio”, la cerniera fra la privatezza del patrimonio e quella degli affetti. L’una e l’altra costituiscono insieme la garanzia dell’autoidentità e il movente principale dell’azione. Scrive Ari-stotele: “due sono le cose di cui gli uomini si occupano e che essi predili-gono: ciò che è “proprio” e ciò che è amato (agapeton)” (Pol. II 4 1262b23): due cose in fondo riducibili ad una, come suggerisce la struttura della fra-se, istituendo un’equivalenza sostanziale fra il “proprio” e l’oggetto degli affetti.

Su questa sfera di appropriazione, che rappresenta un’espansione coesa dell’io, si fondano secondo Aristotele i piaceri e i valori dell’identità pri-maria. È fonte di un piacere inenarrabile (amytheton), egli scrive, “il poter considerare qualcosa come proprio”; qui si radica la naturale amicizia di ciascuno per se stesso (la prima e originaria forma di appropriazione) e per i propri beni (Pol. II 5 1263a40). L’identità compatta dell’uomo aristotelico – che costituisce a sua volta, occorre ripeterlo, una figura dello Zeitgeist che sfuggiva alla periodizzazione dialettica di Hegel – si forma dunque a partire da una concezione patrimoniale del dispositivo di soggettivazione. Una concezione fondata sul nesso fra proprietà privata, amicizia e affezio-ne per sé medesimo come centro di gravitazione dell’universo delle “cose proprie”: moglie, figli, schiavi, sostanze, e, ciò che più conta, amici.

La trama dei rapporti di amicizia – che sono in primo luogo rapporti di scambio fra pari – costituisce infatti per Aristotele il livello dell’intersog-gettività morale, e mediatamente di quella politica. Al suo centro sta, an-cora e sempre, l’individuo proprietario. La sua relazione con l’amico, con l’altro, non è se non un’espansione dei rapporti che questa figura forte dell’identità aristotelica intrattiene con se stesso, perché egli sostiene che

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Tra il sapere e la pratica: la medicina ellenistica

Una rivoluzione epistemologica incompiuta

Poche epoche della storia della medicina – e non solo di quella antica – hanno conosciuto un’accelerazione così brusca nello sviluppo, una tra-sformazione così profonda delle strutture, come quelle che si produssero nei primi cinquant’anni del III secolo a.C. Si verifica in questo periodo non solo una straordinaria espansione del sapere medico, ma anche una vera e propria rivoluzione epistemologica (ancorché, come vedremo, par-zialmente incompiuta). Ed è anche raro che tali innovazioni siano in gran parte da riportare a un gruppo ristretto e ben definito di personaggi, che nel nostro caso sono nitidamente individuabili. Si tratta di due eccezionali coppie di maestro e discepolo: la prima è quella composta da Prassagora di Cos (la cui akme va collocata intorno al 300 a.C.) e da Erofilo di Calcedo-ne, vissuto fra il 330/320 e il 260/250, e operante soprattutto nell’ambiente di Alessandria; la seconda coppia è quella formata da Crisippo di Cnido (di datazione incerta) e da Erasistrato di Ceo, vissuto anch’egli fra il 330 e il 250, e attivo nella capitale seleucide Antiochia, oltre che molto probabil-mente nella stessa Alessandria tolemaica1.

Già queste indicazioni geografiche permettono di delineare con precisione non solo il quadro geopolitico della trasformazione, ma anche il rapporto peculiare fra tradizione e innovazione che in essa prende corpo. I maestri sono infatti radicati nei centri forti – come Cos e Cnido – della grande tradizione medica del V e IV secolo a.C., quella i cui testi sopravvissuti fu-rono raccolti nella grande collezione del cosiddetto Corpus hippocraticum. Gli allievi confluiscono invece nelle capitali delle nuove monarchie elle-nistiche, e segnatamente in quella Alessandria dei Tolomei la cui egemo-nia includeva, all’inizio del III secolo, tutta l’area dell’Egeo, Cos e Cnido comprese.

1 Per la cronologia di Prassagora cfr. Steckerl, 1958 (fondamentale per la raccolta dei frammenti); cfr. anche Capriglione (1985). Per Erofilo cfr. Von Staden (1989) (un’opera fondamentale per la conoscenza non solo di Erofilo ma di tutta la medicina ellenistica). Per Erasistrato cfr., oltre a Von Staden, Garofalo (1988) (indispensabile per l’edizione dei frammenti). La presenza di Erasistrato in Alessandria è stata negata da Fraser (1969); trovo convincenti, in senso opposto, le argomentazioni di Lloyd (1975); cfr. anche Von Staden (1989, 141-142).

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197Tra il sapere e la pratica: la medicina ellenistica

Il primo di essi va probabilmente individuato nell’opera di Diocle di Ca-risto, la cui akme può venir collocata intorno alla metà del IV secolo21: la tradizione, che lo denominava “il secondo Ippocrate”, mostra di aver indi-viduato il carattere innovativo del suo pensiero medico. Diocle si ispirava forse alla gerarchia epistemologica istituita da Aristotele quando negava l’opportunità e l’utilità per la medicina di una ricerca sulle “cause prime di tutta la natura”22, che era evidentemente di pertinenza filosofica. La tradizione ascrive inoltre a Diocle un trattato di Anatomia, che andrebbe considerato come il primo tentativo di trasposizione di questo sapere dal-l’ambito zoologico proprio di Aristotele a quello specificamente medico. Altrettanto aristoteliche sono l’indistinzione fra vene e arterie, e l’inter-pretazione della respirazione come mezzo di raffreddamento del calore innato. Ma lo è soprattutto il cardiocentrismo attestato in Diocle, cui con-seguiva la localizzazione nel ventricolo sinistro del cuore tanto del calore quanto del pneuma innato. Essendo il ventricolo destro la fonte del san-gue, e il cuore l’origine del sistema vascolare, ne seguiva, secondo Diocle, la compresenza di sangue e pneuma in tutti i vasi23. L’influenza aristoteliz-zante di Diocle venne senza dubbio avvertita anche nei centri tradizionali della medicina, come testimoniano Prassagora a Cos e Crisippo a Cnido.

Prassagora fu una figura complessa e contraddittoria, in cui si intreccia-vano strettamente innovazione e tradizione. Sotto l’influenza di Aristo-tele e Diocle, egli introdusse il cardiocentrismo in quella che era stata la

noto – un problema (XXX 1), che non appartiene al libro dei problemi medici. Si tratta della questione relativa al fatto che “tutti gli uomini eccezionali nella filosofia, nella politica, nella poesia e nelle arti” (953a10 ss.) presentano un temperamento melancolico (cioè a dominanza di bile nera). La risposta è che la krasis della bile nera (composta di caldo e freddo) presenta, al pari di quella del vino, un carattere “pneumatico”, capace cioè di sprigionare vapori che, proprio come il vino, danno luogo a speciali forme di eccitazione, tanto sessuale quanto intellettuale (in questo caso la bile nera eccessiva e calda può produrre follia e passione, ma anche acuire l’intelligenza e la fluidità discorsi-va). Gli “uomini di genio” sono dunque tali non propriamente per una malattia, ma per una particolare costituzione somatica che li predispone a forme eccessive di eccitabilità e di sensibilità. Il carattere interamente materialistico, non teleologico, che fa l’interesse di questo problema, lo pone d’altro canto decisamente fuori dall’orizzonte di pensiero aristotelico. Cfr. Roussel (1988), e l’edizione commentata di questo “problema” aristote-lico di Pigeaud (ed. 1988).

21 Per la datazione “alta” di Diocle vedi Kudlien (1971) contro Jaeger (1938).22 Fr. 112 Wellmann.23 Accanto a Diocle andrebbe collocato il trattato Sul cuore della Collezione ippocratica (tra-

duzione e commento in Manuli - Vegetti 1977, 101 ss.) se ne fosse ammessa la datazione alta, verso la metà del IV secolo, ivi sostenuta. La maggior parte degli studiosi inclina ora ad una cronologia nettamente posteriore.

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205Tra il sapere e la pratica: la medicina ellenistica

su Erofilo della filosofia scettica47. Ciò che Erofilo rifiutava era la neces-sità di incorporare nella medicina, come suo livello fondazionale, quella teoria filosofica degli elementi-qualità sulla quale essa non poteva avere alcun controllo. In effetti, le “cose prime, anche se non sono prime” su cui il sapere medico doveva fondarsi erano, secondo Erofilo, i phainomena, e precisamente i fenomeni messi in luce dalla dissezione anatomica: che consistevano, naturalmente, nelle parti organiche e nei sistemi vascolari48. Negando la possibilità e l’utilità per la medicina di risalire alla teoria degli elementi, e assegnandole l’evidenza anatomica come livello di fondazio-ne, Erofilo si manteneva del resto fedele alla partizione aristotelica fra filo-sofia della natura e medicina scientifica tracciata nel De sensu; per un altro verso, egli costruiva in questo modo una protezione epistemologica del-l’autonomia della medicina rispetto alla filosofia49, evitando per esempio che essa dovesse impegnarsi nel dibattito fra scuole rivali sul problema degli elementi (qualità aristoteliche o atomi epicurei?).

Questo produceva del resto in Erofilo immediati effetti innovativi anche al di fuori dell’ambito epistemologico. L’abbandono della teoria degli ele-menti e la sua sostituzione con il primato dell’anatomia minavano alle basi il grande paradigma termico su cui si era imperniata la fisiologia di Aristotele e con essa il suo cardiocentrismo. Cadeva il presupposto del ca-lore come principio attivo dei processi naturali; l’ipotesi di un calore inna-to nel cuore diventava dunque superflua, e altrettanto superflua appariva l’ipotesi parallela di un pneuma cardiaco innato, cioè senza rapporti con la respirazione. Erofilo aggrediva già in questo modo – poi confermato con i dati anatomici – i pilastri portanti del vitalismo aristotelico. Ma non quelli del suo finalismo: il presupposto di un rapporto non ridondante tra organi e funzioni comportava in Erofilo l’inizio della costruzione di un nuovo pa-radigma. I tre grandi sistemi diffusi che l’anatomia metteva in luce (nervi, arterie, vene) dovevano assolvere funzioni diverse e questo comportava l’ipotesi che essi costituissero i vasi di fluidi altrettanto differenziati. Il pa-radigma “tre vasi/tre fluidi” giocherà, come vedremo, un ruolo centrale nella fisiologia tanto di Erofilo quanto di Erasistrato50.

47 È la tesi di Kudlien (1979, 280 ss.). In generale sul rapporto fra scetticismo e medicina cfr. Viano (1981).

48 Frr. 50A, 54, 232 Von Staden.49 Cfr. in proposito Viano (1984, 346 ss.).50 Cfr. ancora Viano (1984, 347 ss.).

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213Tra il sapere e la pratica: la medicina ellenistica

più conseguente, e anche più ambizioso, nel fronteggiare i problemi posti da quella rivoluzione.

L’aggressività epistemologica di Erasistrato si manifestava già al livello della partizione della medicina. Non solo egli ne confermava la scissione fra una dimensione teorica e quella clinica, ma assegnava ad esse un di-verso peso epistemico. All’anatomo-fisiologia, cui veniva ora significativa-mente aggiunta l’etiologia (un impegno teorico che Erasistrato si sforzerà di onorare), spettava uno statuto propriamente epistemico (epistemonikon); alla clinica (semeiotica, terapeutica) veniva invece riconosciuto solo un ca-rattere di approssimazione stocastica (stochastikon)73. Un dislivello, questo, che da un lato contribuiva a declassare la tradizione “ippocratica”, dall’al-tro era destinato a segnare una traccia profonda nell’autoconsapevolezza della medicina, e anche nella diversa dignità spettante al suoi professioni-sti, il “teorico” e il clinico praticante.

Fin qui Erasistrato seguiva ancora, precisandole, le note indicazioni ari-stoteliche. Più complesso era invece il suo rapporto con la teleologia di Aristotele. Secondo la testimonianza di Galeno, egli avrebbe professato una convinzione teleologica, descrivendo la natura – con un linguaggio addirittura, almeno in apparenza, più stoico che aristotelico – come “arte-fice provvidenziale” del vivente (technike, pronoetike)74. Tuttavia Erasistra-to avrebbe ulteriormente indebolito la teleologia di Aristotele (che Galeno considerava già troppo poco provvidenzialistica) ammettendo il carattere non finalizzato di numerosi organi75. Anzi, egli avrebbe finito per dare un valore troppo letterale alla “tecnicità” della natura, sostenendo che “gli ani-mali crescono come un setaccio, una corda, un sacco o un cesto, per i quali l’aggiunta avviene intrecciando all’estremità di ciascuno altro materiale simile a quello di cui sono inizialmente composti”76. Galeno è certamente interessato a contestare la legittimità di quella ascendenza peripatetica che gli erasistratei del suo tempo rivendicavano, sulla base degli indubbi rap-porti del maestro con Teofrasto e Stratone. Tuttavia, la sua polemica colpi-sce almeno parzialmente nel segno. È certo, come vedremo, che il modello dell’intreccio, della corda ritorta, gioca un ruolo importante nell’anatomo-fisiologia di Erasistrato. Ed è altrettanto certo che egli rifiutava i punti forti del vitalismo aristotelico, come il calore innato, il pneuma innato, il para-

73 Fr. 32 Garofalo.74 Fr. 80 Garofalo.75 Frr. 81, 82 Garofalo.76 Fr. 149 Garofalo.

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221Tra il sapere e la pratica: la medicina ellenistica

Per quanto riguarda la derivazione della patologia dal sistema anatomo-fisiologico, Erasistrato poteva trovare nel sistema stesso un nitido fonda-mento della teoria della salute e per conseguenza della teoria etiologica. La salute consisteva in sostanza nella tenuta stagna dei tre sistemi elastico-fluidi, cioè nel permanere delle tre “materie” (sangue, pneuma psichico, pneuma animale) nei rispettivi vasi. Da questa definizione derivava un netto restringimento del concetto di “causa” della malattia: ci possono es-sere fattori potenzialmente patogeni, come il caldo o il freddo, gli eccessi alimentari o gli sforzi, ma essi non sono propriamente cause; causa è sol-tanto ciò che determina direttamente e necessariamente l’insorgere della malattia. Da questo punto di vista Erasistrato poteva operare una drastica riduzione dell’etiologia ad una sola condizione patogena: la pletora, cioè l’eccesso di materie in ingresso nell’organismo, e soprattutto l’eccesso di sangue che ne risulta108. Se nei vasi venosi c’è più sangue di quanto essi ne possano contenere, esso tende per così dire a tracimare nei sistemi conti-gui: questo fenomeno, la paremptosis, è la causa prima e si può dire unica di tutte le malattie109.

Sulla base di un’etiologia così audacemente semplificata, e direttamente derivata dal sistema anatomo-fisiologico, Erasistrato poteva poi ridurre tutte le malattie a due grandi gruppi. Il primo era quello delle malattie infiammatorie e febbrili. Esso derivava dal passaggio del sangue in ec-cesso dalle vene alle arterie, forzando le valvole situate nelle sinastomosi; ne conseguiva l’impedimento al libero moto del pneuma animale nelle arterie stesse110. Il secondo gruppo di malattie era quello delle “paralisi”, a carico del sistema nervoso che presiedeva alla sensazione e al movimento volontario. Esso dipendeva dal passaggio di sangue nei nervi, dove veni-va impedito il moto del pneuma psichico. Poiché non esistevano natural-mente sinastomosi fra nervi e vene, è da supporre che questo passaggio avvenisse al livello della triplokia, per infiltrazione dalla vena invisibile al nervo invisibile111.

Diventava così possibile formulare altrettanto nettamente, in modo quasi-deduttivo, il principio generale di qualsiasi terapia: occorreva riportare la materia (e cioè il sangue in eccesso) nel suo luogo naturale (le vene), riducendone la quantità, causa di paremptosis112. A questo Erasistrato prov-

108 Frr. 158, 161-162 Garofalo.109 Fr. 198, “una sola causa” fr. 169 Garofalo.110 Frr. 198, 200 Garofalo.111 Fr. 240 Garofalo.112 Fr. 212 Garofalo.

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229L’immagine del medico e lo statuto epistemologico della medicina in Galeno

la perdurante carenza di ogni garanzia istituzionale, di ogni regolamenta-zione pubblica della professione; questa situazione rendeva dal canto suo pressoché impossibile la costituzione in medicina di una qualsiasi forma di “comunità scientifica” fondata sul consenso intorno a comuni canoni epistemologici e regole terapeutiche3.

Non c’è dunque motivo di non prestar fede alla cupa descrizione che Galeno fa della situazione della professione medica in Roma4. Sono cosa normale le risse fra medici, divisi da rivalità individuali e di scuola, al capezzale del malato (OMC 3, p. 61); ed è normale che pazienti agiati e ipocondriaci5, come il filosofo aristotelico Eudemo, facciano di questo uno spettacolo qua-si quotidiano, rivolto tanto all’intrattenimento quanto alla ricerca della mi-gliore terapia. Una “folla di medici” circonda Eudemo prima del suo bagno giornaliero (Pr. 2, pp. 74-76); i “migliori medici della città” accorrono per cu-rare la sua febbre quartana, alla presenza di un pubblico di amici che com-prende un prefetto come Sergio Paolo, un ex-console come Flavio Boeto, e, a detta di Galeno, “tutti i Romani più in vista per dignità e cultura” (Pr. 2, pp. 78-80). Non c’è da sorprendersi che questa situazione, priva di regole, alta-

3 I privilegi istituzionali concessi ai medici nella società imperiale si possono così riassume-re: a) la concessione della cittadinanza ad opera di Cesare (46 a.C.) a chiunque esercitasse la medicina (e le altre arti liberali) nella città di Roma; b) la concessione della immunitas (aleitourgesia), cioè dell’esenzione dagli obblighi fiscali e dai munera dovuti tanto alla fi-scalità imperiale quanto a quella municipale, concessa da Vespasiano e ribadita, intorno al 117, da Adriano. Questo privilegio, ambito nelle città di provincia, non comportava – a differenza dell’incarico stipendiato di “medico pubblico” delle città ellenistiche – l’obbli-go di curare gratuitamente i poveri, ma solo quello di esercitare la professione nella città d’origine, salvo naturalmente che a Roma. Antonino Pio restrinse, intorno al 140, il nume-ro dei medici cui si poteva estendere la immunitas: cinque nelle piccole città, sette in quelle medie, dieci nelle metropoli (nessun limite per Roma). Ad essi si aggiungevano rispetti-vamente tre, quattro, cinque retori ed altrettanti filosofi. La scelta di questi professionisti veniva delegata ai singoli consigli municipali. Solo nel 368 d.C. verrà istituito a Roma un regolare collegio di medici pubblici (archiatri), in numero di 14. Per la situazione istituzio-nale dei medici nell’impero, cfr. Below (1955, 22 ss.); Nutton (1988, cap. IV); André (1987); Kudlien (1986); Vegetti - Manuli (1989). Cfr. anche Scarborough (1993, 3-48); Nutton (1993, 49-78); e Jackson (1993, 79-101). La protezione sociale della medicina comprende l’impu-nibilità per i danni arrecati ai pazienti con terapie erronee (esclusi, naturalmente, i casi di dolo). Non esiste tuttavia alcuna normativa che regoli né la formazione dei medici né il loro accesso alla professione; la scelta dei medici da ammettere all’immunitas da parte dei consigli municipali si sarà basata sulla pubblica fama o su rapporti personali.

4 Si trattava del resto di una situazione già ben nota a Plinio: “hinc illa circa aegros mi-serae sententiarum concertationes, nullo idem censente, ne videatur accessio alterius. Hinc illa infelicis monumenti inscriptio: turba se medicorum perisse” (NH 29.11).

5 Su questo aspetto della società imperiale, cfr. Bowersock (1969, 62-72). In generale sui rapporti fra Galeno e la società romana è ancora da vedere Ilberg (1971).

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237L’immagine del medico e lo statuto epistemologico della medicina in Galeno

ta di secondo fondatore della medicina (senza dubbio per il suo cruciale apporto allo sviluppo dell’anatomia), e proprio per questo prescrive una ricognizione attenta dei punti di consenso e di dissenso tra Ippocrate e lo stesso Erasistrato intorno alla terapia. In ogni caso, il buon medico porrà Erasistrato al secondo posto nei suoi studi storico-teorici sulla tradizione del sapere medico.

(c) Il sillabo medico20. Questi studi andranno integrati con la conoscenza dei grandi medici del IV e del III secolo (Diocle, Pleistonico, Prassagora, Dieuches, Erofilo), ai quali, fra i più recenti, Galeno aggiunge il solo Asclepiade. Ed è un’aggiunta strana, per i legami di Asclepiade con la medicina metodica a più riprese denunciati da Galeno; meno strano è in-vece il silenzio sugli altri grandi medici di età ellenistica, come Ateneo e Archigene fra i pneumatici, o Eraclide di Taranto fra gli empirici, giacché è nota la tendenza di Galeno, tanto in medicina quanto in filosofia, a tacere della storia successiva al III secolo se non per denunciarne le perniciose deviazioni rispetto alla tradizione degli “antichi”. Altri riferimenti al sil-labo degli “scritti medici antichi” sono reperibili nello stesso OMC (9, pp. 115-117), dove Galeno si limita a citare “Ippocrate, Diocle, Prassagora e gli altri antichi”. Una versione più estesa dello stesso sillabo è presente nel De methodo medendi, dove Galeno chiama a raccolta contro i metodici il meglio della tradizione medica: Erofilo, Filotimo, Prassagora maestro di Erofilo, Erasistrato, Diocle, Mnesiteo, Dieuches, Filistione e Pleistonico (MM I K 10.28). È il caso di rilevare il privilegio accordato in questa lista ad Erofilo21. A proposito del sillabo in generale, è certo che Galeno non presume da parte del medico in formazione la conoscenza diretta dei testi di tutti gli autori citati, quanto piuttosto la consultazione di sillogi e dos-sografie contenute nei manuali di scuola, ai quali egli stesso certamente si riferisce nella costruzione del suo programma di studi.

(d) “Giustificare le dottrine corrette ed esporre quelle erronee”. Questa indi-cazione è interessante perché rivela lo spirito con il quale Galeno pensa ci si debba avvicinare allo studio della tradizione medica: lo stesso, del

mento di Galeno verso Erasistrato cfr. Garofalo (1988, 10-15); Iskandar, CMG Suppl. Or. IV, 156.

20 Nutton (1990, 246-247), rileva che tutti i medici citati sono razionalisti (il che spiega l’inclusione di Asclepiade); in generale sulla natura dei manuali introduttivi all’inse-gnamento della medicina cfr. Kollesch (1973, 13 ss.), e Bourdon (1994).

21 In EM 13, p. 109, Galeno dà una valutazione nettamente positiva di Erofilo, in particola-re per la dottrina del polso, la cui utilità è stata pienamente scoperta “solo ora” (cioè da Galeno stesso). Sulla questione cfr. Von Staden (1989, 262 ss.).

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E questo è precisamente il programma cui Galeno conforma il proprio re-soconto autobiografico.

(c) La formazione apodittica. Galeno studia e si esercita per molti anni sui metodi dimostrativi dei filosofi (MM VII K 10.469), e in particolare affron-ta fin da ragazzo la logica di Aristotele, di Crisippo e degli Stoici (LS 11 K 19.39 ss.); ma, come sappiamo, egli valuta come molto più importante l’istruzione, avviata dal padre, nei metodi apodittici dei matematici, che non si stanca di indicare come l’unico modello espistemologicamente in-controvertibile.

(d) La competizione: la prognosi. Forte di questa complessa preparazione, Galeno è ora in grado di affrontare la competizione professionale con gli altri medici, e lo fa nel contesto dell’accesa rivalità tipica dell’ambiente romano. Nella costruzione della propria immagine, Galeno non risparmia i toni drammatici, una forte teatralizzazione fatta di chiamate improvvise, di violente discussioni intorno al capezzale, di attese emozionanti della verifica della prognosi, di invidie e strascichi polemici. Il “triangolo ippo-cratico”, il conflitto tra malattia, malato e medico, si è qui alterato, giacché è il conflitto tra i medici e le loro scuole che viene ad occupare tutto il cen-tro della scena. Nella competizione, Galeno dispone di un’arma altamente spettacolare, capace di impressionare tanto i pazienti quanto i rivali: la sua straordinaria abilità prognostica30. Basterà citare qui solo un paio tra i numerosi successi che egli si attribuisce: la prognosi della febbre quartana di Eudemo (Pr. 2, pp. 78 ss.), e la diagnosi (ottenuta con gli stessi mezzi) di un tumore viscerale a partire dal polso (OMC 6, p. 81). Non sfugge ai rivali questa spettacolarizzazione galenica della prognosi, tanto che essi lo soprannominano paradoxologos, “miracle-teller”; ma, a fronte agli effettivi successi terapeutici, questo appellativo sarcastico viene presto sostituito, racconta compiaciuto Galeno, dall’altro di paradoxopoios, “facitore di mira-coli” (Pr. 8, p. 110; OMC 6, p. 61). Più insidiosa è l’altra accusa, facilmente prevedibile, di praticare non la prognosi scientifica bensì la mantica, divi-natoria o astrologica che sia, o addirittura la goeteia, la stregoneria, il che dà un accento sinistro all’appellativo di paradoxopoios che poteva sembrare lusinghiero (Pr. 1, p. 70; 7, p. 106). In una occasione, è un medico come Marziano (o Marziale?) ad accusarlo di praticare la mantica, e a ricordargli le cautele della prognosi ippocratica31 (Pr. 3, p. 84).

30 Cfr. in proposito Nutton (1972, 61); Nutton (1990, 257).31 In effetti, Prorrh. 2.1 (Littré 9.6) negava la possibilità di predizioni esatte e “meraviglio-

se” nella medicina.

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253L’immagine del medico e lo statuto epistemologico della medicina in Galeno

le quali in particolare il De sectis, esplicitamente rivolto ai giovani medici in via di formazione – Galeno non è certamente il primo autore di questo genere di letteratura, anzi segna in qualche modo l’epilogo di una lunga tradizione di polemica medica.

Come ha mostrato Von Staden43, la “hairesis-literature” nasce già verso la fine del III secolo a.C., ad opera dell’empirico Serapione di Alessandria, allievo del fondatore della scuola Filino, nel contesto della polemica em-pirica contro i gruppi avversari, come gli erofilei in primo luogo, gli erasi-stratei, i prassagorei.

Mentre gli empirici costituiscono un gruppo relativamente piccolo e do-tato di un compatto nucleo dottrinale – come più tardi i metodici –, i loro avversari “razionalisti” o “dogmatici” comprendono un vasto spettro di posizioni, che si estende, al di là dell’originario nucleo erofileo, fino ad Asclepiade di Bitinia da un lato, ai pneumatici dall’altro. È soprattutto la polemica empirica prima, e molto più tardi la sistemazione galenica, a fare dei diversi indirizzi razionalistici una scuola unificata e canonica, contrap-posta a quella empirica. Questa polarità appare comunque già nettamente codificata nel Proemio di Celso, largamente ispirato alla letteratura settaria e composto nell’età di Tiberio. Qui compaiono le tendenze di coloro che seguono la rationalem medicinam (13), cui si oppongono coloro che se em-piricos ab experientia nominant (27), rifiutando l’auctoritas dottrinale sulla base dell’evidenza della discordia che la inficia (28). Celso non nomina esplicitamente la terza setta, quella metodica. Questa omissione dipende probabilmente dal fatto che egli non riconosce ai metodici una vera au-tonomia teorica. Non senza qualche ragione, come vedremo, egli ritiene in effetti che i seguaci di Temisone, se restano fedeli ai loro principi, sono ultra-dogmatici, magis quam ulli rationales (62); ma di fatto risultano super-empirici, giacché si arrestano a osservazioni superficiali, disponibili anche a chi sia imperitissimus di medicina (63).

Nel rielaborare ed approfondire la lunga tradizione della “hairesis-litera-ture”, Galeno è mosso da una esigenza molto precisa: si tratta di costruire un profilo teorico-critico delle sette nitido e consistente, in modo da ren-derle agevolmente riconoscibili anche ai principianti – cosa tanto più ne-cessaria perché, non trattandosi di vere e proprie “scuole”, esse non sono identificabili né attraverso un sistema di insegnamento istituzionalizzato, né attraverso una vera e propria ortodossia dottrinale. È dunque neces-

43 Cfr. Von Staden (1982, 79). Sulla filosofia delle sette cfr. anche Moraux (1973-84, II, 710 ss.).

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261L’immagine del medico e lo statuto epistemologico della medicina in Galeno

mo livello anatomicamente accertabile (il passaggio di Erasistrato verso la supposizione della inosservabile triplokia non faceva del resto riferimento che a questi elementi ultimi). Questo limite non superabile dell’assioma-tizzazione della medicina era stato nettamente definito da Erofilo, che af-fermava, secondo la testimonianza galenica: œstw taàta prîta, e„ kaˆ m» ™sti prîta (“siano queste cose prime anche se non sono prime”) (MM II K 10.107). Ed Erofilo si muoveva a sua volta nell’eredità aristotelizzante di Diocle, che, “pur essendo dogmatico”, rifiutava il ricorso a cause univer-sali comuni alla “natura intiera”, e criticava coloro che credono di “dire le cause” ricorrendo a principi “ignoti, non condivisi e non credibili” (¢gnooÚ-mena kaˆ m¾ ÐmologoÚmena kaˆ ¢p…qana) (AF I K 6.455-456).

Il senso della critica galenica ai logikoi risulta a questo punto chiaramente delineato. Fedeli ai canoni dell’epistemologia aristotelica, essi erano certa-mente disposti ad assumere il livello anatomo-fisiologico (comprendente la struttura degli organi interni e la loro fisiologia, anche quando qual-cosa di tutto questo restasse “invisibile”, come la triplokia, il pneuma, o le “facoltà naturali”, le funzioni degli organi) come fondamento del sapere medico, a partire dal quale si doveva derivare tanto la comprensione pro-gnostico-diagnostica delle malattie quanto l’intervento terapeutico. Non accettavano invece un ulteriore procedimento riduttivo, che conducesse al di là degli organi alle parti omogenee e ai loro componenti primi ed elementari, ritenendo che ciò sconfinasse nel campo controvertibile della filosofia della natura, estranea ai limiti della medicina. Galeno ritiene per contro che senza questa ulteriore fondazione la medicina resti un sapere monco, incapace di ultimare la propria costruzione epistemologica; e che, in particolare, venga in tal modo minata quella teoria dei temperamenti (kraseis) dalla quale dipendono in ultima istanza sia la fisiologia degli or-gani sia la patologia. Si può osservare che in questo modo Galeno regredi-sce a una fase arcaica della medicina, non solo pre-aristotelica ma addirit-tura ignara della polemica di Antica medicina50; è più esatto pensare però che, qui come in altri settori, egli pensi piuttosto ad una medicina capace di rimpiazzare scientificamente una filosofia della natura che gli appariva ormai esaurita nelle diatribe di scuola tra peripatetici, stoici ed epicurei, e arenata nelle secche di indecidibili problemi “metafisici”.

La modestia epistemologica dei razionalisti fa sì che essi si comportino di fatto, secondo Galeno, come dei semi-dogmatici, dei logikoi dimidiati. I

50 Cfr. VM 20 (per la polemica contro la physiologia empedoclea), 13, 15 (per l’attacco al-l’uso di hypotheseis come caldo/freddo/secco/umido in medicina).

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269L’immagine del medico e lo statuto epistemologico della medicina in Galeno

Ma le procedure dimostrative devono a loro volta fondarsi, come in geo-metria, su una base assiomatica: non c’è sapere unificato senza axiomata anapodittici che ne costituiscano i “principi convenuti” (archai homologou-menai) (MM I K 10.34-5). È dunque possibile, secondo Galeno, andar oltre le preoccupazioni epistemologiche di Diocle, che temeva il ricorso a prin-cipi non condivisi come fonte di diaphonia, e dunque lo escludeva dall’am-bito della techne. Del resto, come vedremo, l’identificazione di axiomata e di archai non è scevra di problemi per lo stesso Galeno. Ma intanto occorre rilevare un’importante conseguenza che egli pensa inerente alla rifonda-zione unitaria e assiomatizzata della medicina. Grazie al suo assetto epi-stemologico, il modello matematico si presenta come quello di un sapere cumulativo e progressivo. La geometria

“è progredita poco a poco, indagando dapprima i suoi teoremi più elementari; quando questi sono stati scoperti, gli uomini che sono vissuti in seguito vi aggiun-sero quella meravigliosa teoria che, dicevo, si chiama analitica” (AD II 5 K 5.86).

Nello stesso modo può venir considerata la medicina, una volta riunificata dopo la dispersione settaria, e in particolare può venir pensato il program-ma galenico nei confronti della grande tradizione ippocratica. Ippocrate ha trovato il metodo e la via del sapere terapeutico, senza tuttavia l’or-dine (taxis) e il rigore (akribeia) necessari. Ai successori resta il compito di portare a termine le vie che egli ha tracciato, proprio come Traiano ha fatto per la rete viaria italiana, pavimentando strade, spianando asperità, abbreviando percorsi, costruendo ponti (MM IX K 10.633). Così Galeno si attribuisce il compito di dire in modo ben definito e certo (saphos) ciò che in Ippocrate era rimasto incompleto, e di colmarne le lacune (prostheinai ta leipomena) (MM VI K 10.420).

Quali sono dunque i caratteri e i contenuti degli axiomata (o archai) che Galeno vuol porre alla base della medicina? Sui primi, le sue indicazioni sono univoche. Deve trattarsi di elementi evidenti e certi; e l’evidenza può assumere due forme, quella che deriva dall’intuizione razionale (nous) e quella che proviene dall’osservazione percettiva (aisthesis) (AD II 6 K 5.94). Anche il De methodo medendi individua in aisthesis e noesis la doppia fonte dell’evidenza che spetta ai principi anapodittici (I K 10.36); la dimostrazio-ne deve partire da t¦ prÕj a‡sqhsin te kaˆ nÒhsin ™nargîj fainÒmena (I K 10.39)55.

55 L’evidenza che spetta ai principi anapodittici è riportata da Galeno al koinos nous e alla symphytos ennoia. Cfr. Moraux (1973-84, II; 720 e n. 155); Barnes (1982), la accosta alla phantasia kataleptike degli stoici. Cfr. anche Hankinson (1991b, 15-29); Kudlien - Durling (1991).

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277L’immagine del medico e lo statuto epistemologico della medicina in Galeno

le vesti o aggiustano le scarpe (CAM 1 K 1.227-229). Galeno sembra aver completamente dimenticato la polemica contro i “sarti” e i “calzolai” fra i quali Tessalo reclutava i propri seguaci. Ma egli segue di fatto coeren-temente la linea di ragionamento che governa questa nuova prospettiva: c’è un montaggio naturale dei corpi, simile a quello tecnico delle case e delle navi, che può presentare difetti e guasti, le malattie: la terapia consi-ste allora nella sostituzione – cioè nella rigenerazione – dei pezzi difettosi (CAM 5-6 K 1.237-245). Il problema è qui specificamente quello delle ferite, ma le metafore tecniche di Galeno si estendono di fatto all’intero lavoro terapeutico, e, sviluppate fino in fondo, finiscono per abbassare il livello della medicina anche al di sotto delle arti poietiche cui essa appartiene. In effetti, il muratore che restaura una casa rovinata e il sarto che rammenda le vesti strappate conoscono il progetto iniziale, il modello del manufatto che riparano. Non così il medico, che non ha progettato il corpo e ne igno-ra la struttura, che si deve a dio e alla natura.

Lo svantaggio conoscitivo del medico rispetto agli artigiani per altri aspetti suoi simili deve però convertirsi, secondo Galeno, in uno strenuo lavoro di ricerca, nel quale si ricostituisce la dignità scientifica della medicina an-che in questa sua più modesta collocazione. La comprensione del progetto originale del corpo da riparare può essere ottenuta mediante l’indagine anatomica in primo luogo (CAM 20 K 1.303). E la conoscenza del piano del-l’edificio cui si dedica quell’architettura restaurativa che è la medicina deve seguire il movimento che Galeno ha altrove descritto: secondo un procedi-mento analitico di risoluzione e composizione delle parti, bisogna partire dai componenti semplici del corpo, giungere agli organi noti mediante la dissezione, e procedere verso le loro funzioni (CAM 2 K 1.230-233)

Ritornano dunque, ordinati da un metodo geometrico quale quello ana-litico, i noti livelli dell’epistemologia galenica, la dottrina degli elementi e l’anatomo-fisiologia. E credo che in quest’ambito sia da collocare an-che un metodo logico meno elevato di quello apodittico ma ben fondato nella tradizione platonico-aristotelica, la diairesi65: un prezioso strumento di classificazione delle malattie e dunque di ordinamento dell’esperienza medica (cfr. per es. MM I K 10.21).

Di fronte all’impegno quotidiano della lotta terapeutica contro la malattia, la medicina perde dunque in Galeno i panni augusti del sapere alto, la sua

65 Sulla diairesi cfr. Moraux (1973-84, II, 722). Metodi diairetici sono largamente presenti nel Peri technes. Quest’opera non è stata comunque utilizzata nel presente scritto perché va considerata pseudo-galenica: cfr. Kollesch (1988).

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285I nervi dell’anima

300,12 K.): il riferimento tecnologico è anche qui assai chiaro, se si pensa che i meccanici ellenistici avevano assunto il diametro del foro di allog-giamento delle molle a torsione come canone per la riproducibilità delle catapulte su scale diverse (Philo Bel. 3: pp. 8,20-9,45 Diels - Schramm). Grandi orologi automatici, catapulte, macchine a leve e pulegge per la trazione e il sollevamento dei pesi: i maggiori ritrovati della meccanica ellenistica servono dunque a Galeno per rendere descrivibile una parte dei processi psicofisiologici, quelli del movimento volontario, come erano serviti agli stoici per metaforizzare il problema dell’energia psichica.

Si pone tuttavia all’interno di questo modello un problema rilevante per la psicofisiologia di Galeno. Il movimento volontario avviene sulla base di ordini impartiti dalla ragione, sita nel cervello, e trasmessi dai nervi a ten-dini e muscoli (UP XII 3: II 186,15-187,26 Helmr. = IV 7,7-9,9 K.). Ma qual è il vettore di questi ordini? L’adduzione al cervello degli stimoli percettivi avviene mediante il pneuma psichico contenuto nei nervi sensori, molli e cavi (per es. UP XVI 3: II 384,13-385,7 Helmr. = IV 275,10-276,10 K.). I ner-vi motori, la cui funzione è prevalentemente meccanica, appaiono invece duri e privi di pneuma (cfr. per es. UP XVI 2: II 381,2 s. Helmr. = IV 270,16 s. K.). Se in linea di principio il pneuma psichico è senza dubbio secondo Galeno “il primo Ôrganon” dell’anima tanto per la sensazione quanto per il movimento volontario (PHP VII 3,23: CMG V 4,1,2, p. 444,15), il suo ruolo nella “trasmissione della dÚnamij” psichica, mediante i nervi, ai tendini e ai muscoli, resta incerto e non viene di fatto precisato (questa incertezza è chiaramente riconosciuta da Galeno in PHP VII 4,1-3.20-25: CMG V 4,1,2, pp. 448,4-24; 452,8-28)12.

12 Galeno scrive in questo passo (p. 448,5-7) che il pneàma psichico “ha la sua funzione […] nelle percezioni e nel movimento delle parti”. Occorre per questo supporre che ogni nervo contenga “un po’ di pneàma”, congenito oppure inviato dal cervello? “lo non ho sottomano una risposta […] Non è possibile decidere senz’altro se la dÚnamij fluisce dal cervello alle membra attraverso i nervi in questo modo [come la luce attraverso l’aria], o se la sostanza del pneàma raggiunge le parti sensorie e motrici, o se investe i nervi per una certa lunghezza in modo da alterarli violentemente, e in seguito l’alterazione è trasmessa fino alle membra motrici” (ibid., p. 448,19-24). In linea di principio, non c’è dubbio che “i nervi prendono la facoltà psichica dal cervello” e portano “la facoltà della percezione e del movimento dal principio nelle singole parti” (UP I 16: I 32 s. Helmr. = III 45 K.). Ma qual è il ruolo del pneàma in questo processo? Il Motu musc. ribadisce che il principio del moto volontario viene “dal cervello mediante i nervi” (I 1: IV 373 K.), e riconosce nei muscoli gli “organi” del movimento kaq'Ðrm»n (ibid., 367), ma non fa alcun cenno del pneàma. A parte il dubbio di principio sopra espresso, sembra che Galeno con-sideri certo solo il fatto che il cervello, essendo il principio della percezione, lo è anche dell’impulso (Ðrm») che dà luogo al movimento volontario (PHP VII 8,4: CMG V 4,1,2,

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293I nervi dell’anima

Le macchine per lancio e trazione corrispondono in modo esplicito in Ga-leno, sia per struttura sia per il livello energetico, all’anatomo-fisiologia del movimento volontario; quelle pneumatiche, basate sui fluidi, sulla loro compressione e vaporizzazione, ad alta efficacia e a bassa energia, corrispondono alla psicofisiologia in senso stretto (sensazione e moti pas-sionali). Poiché Galeno definisce pneàma, sangue e fonte calorica come i “primi strumenti (Ôrgana) dell’anima” (Sympt. Caus. II 5: VII 191, 13 s. K.), si può inoltre pensare che egli includa il dispositivo pneumatico dei fluidi, sia per la precisione sia per gli effetti mirabili ottenuti con basse energie, nel campo degli “strumenti” vitruviani (un punto di contatto fra energia pneumatica e struttura a ruotismi degli strumenti è per esempio da ravvi-sare negli orologi automatici ad acqua).

9. In ogni caso, la distinzione introdotta da Galeno tra i due tipi di dispo-sitivi psicofisiologici e le rispettive energie rappresenta un notevole sforzo teorico di spiegazione non mitica e, almeno nelle intenzioni, non meta-forica del campo dei processi psichici. Questo sforzo permette a Galeno di superare, in direzione di una comprensione analitica, una pluralità di tentativi sintetici per più ragioni insoddisfacenti. Il primo era stato quello platonico, che individuava l’energia innata (sÚmfutoj dÚnamij) dell’anima (Phaedr. 246a) nella sua carica erotica, agendo l’œrwj come un flusso di for-za (·o», ·èmh; Phaedr. 251a-c) canalizzabile in tante direzioni diverse quanti sono i centri motivazionali dell’anima (lÒgoj, qumÒj, ™piqum…a)29.

Ma il campo unificato di forze psichiche non era suscettibile in Platone di un’adeguata descrizione fisiologica, o lo era soltanto nei termini mitici del Timeo. Per contro, l’unificazione fisiologica proposta da Erasistrato era incapace di spiegare le dinamiche psichiche “fini”, come quelle passiona-li, e si concentrava sul meccanismo del movimento volontario. Gli stoici, infine, non andavano oltre il suggerimento di un rapporto metaforico fra il campo di neurîdej/tÒnoj e quello della psiche/pneàma.

I due sistemi introdotti da Galeno, rinunciando a un’unificazione difficile, consentono un’interpretazione articolata del complesso psicofisiologico nei suoi diversi modi di funzionamento e nei suoi diversi livelli energeti-ci. Certo questa rinuncia all’unificazione apre a sua volta una serie di pro-blemi, che restano in gran parte irrisolti. Non è chiaro, come si è visto, il rapporto che intercorre fra pneàma psichico, “organo dell’anima”, e il mec-canismo “duro” del movimento volontario. Dal canto suo, il dispositivo

29 Sul problema mi limito qui a rinviare a Vegetti (1990, 130 ss.).

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301Cinquant’anni di filosofia antica in Italia: successi e problemi

luoghi di ricerca. Così, per limitarmi a qualche esempio, se Padova ha continuato ad essere il centro privilegiato per gli studi aristotelici, e Roma quello degli studi su Socrate e le filosofie ellenistiche, dallo stoicismo allo scetticismo, a Milano si sono sviluppate importanti ricerche sui Sofisti, Platone e il medio-platonismo, a Pavia sulla scienza antica, dalla medicina all’astronomia, e più tardi sul pensiero etico-politico; Catania è diventa-ta un importante centro di ricerca sul pensiero tardo-antico, e Napoli su quello platonico. L’aspetto che va soprattutto sottolineato a proposito di questo periodo dei nostri studi in Italia è la loro accentuata internazionaliz-zazione: non solo nel senso delle numerose traduzioni di importanti opere straniere, ma soprattutto in quello dei sempre più frequenti contatti con i centri di ricerca europei e americani, che hanno prodotto una serie di con-vegni, seminari, scambi culturali difficilmente immaginabili nei decenni precedenti: si può davvero dire, da questo punto di vista, che in Italia la nostra disciplina sia finalmente diventata “maggiorenne”.

3. L’ultimo decennio, se da un lato ha assistito al consolidamento dei risul-tati acquisiti7, ha forse cominciato a manifestare – a mio avviso – proble-mi di orientamento e prospettiva (anche in rapporto, va detto, a un certa stanchezza nella capacità di proposte innovative, in campo tanto filosofico quanto storiografico, che ha cominciato a farsi sentire nei centri che tradi-zionalmente hanno ispirato il nostro lavoro, in Francia come in Inghilterra e in Germania).

È probabile che questi problemi siano per così dire l’altra faccia della me-daglia di un fenomeno per altri versi positivo, cioè il necessario incremen-to di professionalità specialistica richiesto dai nostri studi, che ne ha al-lentato i legami con la riflessione filosofica generale da un lato, e dall’altro con gli ambiti affini della filologia classica, della storia politica e sociale del mondo antico, dell’antropologia, dell’epistemologia storica. In altri termi-ni, l’elevato tasso di specialismo ormai richiesto dai nostri studi presenta, soprattutto per i ricercatori più giovani, costi e rischi che possono risultare preoccupanti.

Ci sono in primo luogo una certa ripetitività paradigmatica (per usare un’espressione kuhniana) nelle nuove ricerche, una crescente difficoltà di sperimentare prospettive innovative per metodi e contenuti. Non si vede insomma oggi nulla di paragonabile allo spirito di apertura e di novità

7 Recentemente riassunti e problematizzati nel fascicolo intitolato “Nuove prospettive di ricerca sul pensiero antico” della rivista Paradigmi, XXI 2003.

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309Intervista sul classico

Il primo ha a che fare con il pensiero dell’anima, quindi ancora una volta con la configurazione della soggettività. L’antichità ci offre qui due tra-dizioni rivali: quella platonica, con la sua concezione di un io scisso tra centri motivazionali in conflitto tra loro per il governo della condotta, e quella aristotelica, centrata su di una psicofisiologia essenzialmente co-gnitivista. Ad esse si può aggiungere una terza linea, quella galenica, che accorda al corpo una netta prevalenza sull’anima e conclude quindi ad una drastica medicalizzazione tanto della malattia psichica quanto della devianza morale. Che tutto ciò abbia a che fare da vicino con le alternative radicali che abbiamo di fronte nel campo del pensiero morale e psicologi-co sembra abbastanza chiaro – abbastanza, almeno, da far sperare che gli studiosi del pensiero antico abbiano una qualche consapevolezza dei suoi esiti moderni, e che d’altro canto chi lavora oggi in questi settori di sapere si renda conto delle origini antiche dei loro problemi, il cui interesse sta se non altro nella radicalità con cui le tesi rivali sono state formulate e argomentate.

Il secondo esempio riguarda la storia del pensiero politico occidentale. Gli antichi hanno sperimentato sia la forma della piccola comunità repubbli-cana – la polis – sia quella del grande stato multietnico – l’imperium. Questa ricca pluralità di esperienze storiche, congiunta con la sostanziale assenza di forme di dogmatismo censorio, ha dato luogo ad una straordinaria plu-ralità di riflessioni politiche e di proposte utopiche. La Storia di Tucidide così cara a Hobbes, la critica etico-psicologica delle costituzioni nell’ottavo libro della Repubblica di Platone e l’utopia della perfetta comunità politica nel quinto libro dello stesso dialogo, la naturalizzazione aristotelica del-la forma-polis nella Politica, la legittimazione ciceroniana della repubblica imperiale romana, per limitarmi a qualche esempio fra i molti possibili, hanno alimentato, in forme diverse, conflittuali e spesso anche equivoche, il pensiero etico-politico occidentale dal Medioevo al Rinascimento, dai “classici” seicenteschi a Rousseau e al pensiero giacobino, dalle opposte teorie liberal-democratiche e socialiste dell’Ottocento fino alle odierne ria-bilitazioni della filosofia pratica. Questo ininterrotto dialogo con la tradi-zione è spesso avvenuto senza che da parte dei moderni ci fosse una ade-guata comprensione delle forme dell’eredità antica che si condividevano o che si condannavano, e spesso senza che gli specialisti del pensiero antico fossero abbastanza attrezzati per fornire ai propri contemporanei indica-zioni adeguate a porre le loro domande e a formulare le loro risposte in modo corretto. C’è qui senza dubbio uno fra i tanti terreni in cui il con-fronto fra il sapere storico-filologico sull’antichità e gli interrogativi sulla

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317Un viaggio di mille anni. Tre questioni filosofiche

Detto in altri termini, si tratta di mostri della memoria, dei suoi incubi e dei suoi deliri, che si generano dal sonno della storia, cioè nel vuoto prodotto dalla impossibilità di pensarla come un processo dotato di una direzione e di un senso.

2. Che cosa crediamo di sapere

Da questa prospettiva, è in effetti più agevole individuare le origini, se non di questo stato del mondo, almeno di questa desolazione del pensie-ro, che tende a renderci anche su questo piano inermi di fronte allo stato del mondo.

Al principio sta probabilmente la concezione hegeliana, in buona parte condivisa dal marxismo, di un corso del mondo governato da una legge di sviluppo dialettico, orientato da una teleologia immanente (questa è alme-no stata l’interpretazione dominante dello hegelismo, indipendentemente dalla sua attendibilità storiografica). Il pensiero dello sviluppo consentiva di operare una robusta saldatura tra fatti e valori, immergendo interamen-te i secondi nei primi, che ne risultavano perciò a priori giustificati, tanto giustificati da costituire essi stessi il repertorio storicamente dispiegato dei valori; ovvero, al contrario, permetteva di interpretare sconfitte storiche come prova dell’infondatezza di valori che risultavano allora travolti dal-la superiore ragione del “corso del mondo”. In questo senso, la stessa de-finizione marxiana (e anti-utopistica) del comunismo come “movimento reale che abolisce lo stato di cose presente” lo rappresentava non come un compito o una possibilità, ma come un dato di fatto.

Questa potente giustificazione del mutamento reale lo faceva interamente coincidere con il senso e il fondamento. Al di fuori di esso, diventava im-possibile – e persino un po’ridicolo – pensare la dimensione dell’etica nei termini classici (e ancora giacobini) del bene comune, della virtù, del rap-porto fra valori e felicità pubblica e privata. Hegel pronunciava su tutto questo una sentenza capitale:

“Il corso del mondo ottiene vittoria su ciò che, in contrapposizione a lui, costituisce la virtù. Ma esso non trionfa di alcunché di reale: trionfa di tale pomposo discorrere del bene supremo dell’umanità e dell’oppressione di questa; di tale pomposo di-scorrere del sacrificio per il bene e dell’abuso delle doti; simili essenze e fini ideali si accasciano come parole vuote che rendono elevato il cuore e vuota la ragione”3.

3 Hegel (1973, I 323).

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341Indice dei luoghi citati

10, p. 126: 246 11-12, pp.126-132: 248 12, p. 132: 264 p. 134: 246 De sectis 2 H 3-4: 255 3: 258 4 H 9: 265 5 H 10: 254 11: 256, 259 12: 265 6 H 12 s.: 263 15: 263 7 H 15-16: 263 9 H 24-25: 264 De simplicium medicamentorum temperamentis et facultatibus II 5 K 11.476: 256 n. V K 11.783: 263 De symptomatorum causis II 5: VII 191, 4-9 K: 287 5: VII 191, 13 s. K: 293 5: VII 191, 16 K: 292 5: VII 191, 17 K: 292 De temperamentis I 8: 275 II 1 K 1.559: 275 1 K 1.572: 275 De usu partium I 8 K 3.17: 268 16: I 32s. Helmr. = III 45 K: 285 n. 16: I 33 Helmr. = III 45 s. K: 287 n. 16: I 33, 7 s. Helmr. = III 45, 17-46, 2 K: 291 VI 8: I 320, 10-12 Helmr. = III 438, 13 s. K: 288 13 K 3.466 s.: 264 VII 3.8: I 378, 22 s. Helmr. = III 521, 6-8: 288 3.8: I 390, 13-17 Helmr. = III 537, 4-7 K: 288 8: I 392, 4-8 Helmr. = III 539, 7-11 K: 288 14: I 415, 27-416, 6 Helmr. = III 572, 7-13 K: 284 14: I 418, 1-5 Helmr. = III 575, 4-8 K: 284 VIII 8: I 477, 14-16 Helmr. = III 658, 5-7 K.: 288 XI 14 K 3.905: 264 14 K 3. 905-906: 273 XII 3: II 186, 15-187, 26 Helmr.= IV 7, 7-9, 9 K: 285

XIV 5: II 295, 7-15 Helmr. = IV 156, 11-157,

1 K: 284 6: II 296, 19-297, 26 Helmr. = IV 158, 13-

160, 6 K: 295 n. 6: II 403, 8-11 Helmr. = IV 301, 1-3 K:

284 9: II 314, 19-315, 4 Helmr. = IV 181,

15-182, 6 K: 295 XV 1: II 339, 11-19 Helmr. = IV 214, 10-17

K: 295 1: II 339, 26-340, 3 Helmr. = IV 215,

6-10: 295 XVI 2: II 381, 2 s. Helmr. = IV 270, 16 s.

K: 285 3: II 384, 13-385, 7 Helmr. = IV 275,

10-276, 10 K: 285 4: II 389, 9-16 Helmr. = IV 282, 5-12

K: 284 6: II 401, 2-403, 2 Helmr. = IV 298,

1-300, 12 K: 285 XVII 1 K 4.351: 249 1 K 4.360-361: 273 2 K 4.362-363: 249 3 K 4.366: 273 In Prorrheticum 2.1: 245 n. 2, p. 76: 250 3, p. 86: 250 11, p. 128: 250 Protrepticus 5 K 1.7: 251 14 K 1.38-39: 251 Quod optimus medicus sit quoque

philosophus 2 K 1.56-57: 230 n. 1.57: 244 3 K 3.59-61: 250 4 K 3.61-62: 250 Subfiguratio empirica 2, p. 45: 255 3, p. 49: 255 5, pp. 61-62: 256 6, p. 54: 255 p. 58: 256 7, p. 63: 258 p. 65: 256 8, p. 69: 255 12, p. 88: 256 pp. 89-90: 259, 268