61191478-10-07-INDICE

48
MENSILE D’INFORMAZIONE - POSTE ITALIANE s.p.a. - SPED. IN ABB. POST. D.L. 353/2003 (conv.in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1, DCB Torino - ISSN 0393-3903 Luglio 2010 Anno XXVII - N. 7/8 6,00 Ernesto Sábato SPATARO e i tempi avari di giustizia LIBRO DEL MESE: non si ammazzano così neanche le mucche Quelli che vogliono seppellire DARWIN LUPO e RUFFOLO: è davvero troppo lungo questo paese? Boldrini Cordero Dawkins de Chirico Devidayal Foer Graziosi Habermas Lavagetto Magrelli Nissenson Novelli Pascale Piffer Poe Rea Samarasan Vafi Wickham Zanardi Tullio Pericoli, 2010 www.lindiceonline.com Il nuovo bando del Premio Calvino

description

indice

Transcript of 61191478-10-07-INDICE

Page 1: 61191478-10-07-INDICE

MENSILE D’INFORMAZIONE - POSTE ITALIANE s.p.a. - SPED. IN ABB. POST. D.L. 353/2003 (conv.in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1, DCB Torino - ISSN 0393-3903

Luglio 2010 Anno XXVII - N. 7/8 €6,00

Ernesto Sábato

SPATARO e i tempi avari di giustizia

LIBRO DEL MESE: non si ammazzano così neanche le mucche

Quelli che vogliono seppellire DARWIN

LUPO e RUFFOLO: è davvero troppo lungo questo paese?

Boldrini

Cordero

Dawkins

de Chirico

Devidayal

Foer

Graziosi

Habermas

Lavagetto

Magrelli

Nissenson

Novelli

Pascale

Piffer

Poe

Rea

Samarasan

Vafi

Wickham

Zanardi

Tul

lio P

eric

oli,

2010

www.lindiceonline.com

Il nuovo bando del Premio Calvino

IMPA 7-8 2010 ok 23-06-2010 10:38 Pagina 1

Page 2: 61191478-10-07-INDICE

N. 7/8 2

Piccoli libri rivelatori

intervista a Tommaso Guerrieri di Camilla Valletti

Barbès è una piccola casaeditrice curata nella grafica

e molto selettiva e attenta nellescelte. In particolare, la collanadi classici si suddivide in due se-zioni, una illustrata e l’altra no.Sembra quasi che abbiate pen-sato a dei “superclassici” rispet-to ai classici, per così dire, cor-renti. È solo un’impressione odietro c’è altro?

Barbès nasce come casa edi-trice per la promozione e ladiffusione della letteraturafrancofona in Italia. È una casaeditrice di medie dimensioni,nel senso che pubblica com-plessivamente una media dicirca quaranta libri l’anno eche soprattutto arriva in tuttele librerie italiane, al contrariodi centinaia di piccoli editori,essendo distribuita da Rcs. A

fianco della collana principale,chiamata “Intersections” e spe-cificamente dedicata alla lette-ratura francofona contempora-nea, è nata fin dall’inizio unacollana di “Classici” che è ingran parte dedicata alla ripro-posizione di libri importanti epurtroppo dimenticati o alla ri-stampa di opere di narrativa datempo introvabili. La collana,più recente, dei “Classici illu-strati”, ripropone dei “super-classici”, libri che si trovanofacilmente in molte edizioni,come Le notti bianche di Do-stoevskij o Cuore di tenebra diConrad, ma in un’edizione digrande formato e con numero-se illustrazioni a colori di Ro-berto Mastai, uno dei più gran-di artisti italiani, autore tra l’al-tro di tutte le nostre copertine.Il libro illustrato per adulti èun tipo di libro quasi del tuttosconosciuto nel nostro paese,ma che in Francia o in Germa-nia ha una discreta diffusione.È per noi un’autentica sfida,che però si sta rivelando vin-cente, viste le buone venditedei primi titoli.

Avete scelto autori molto notie altri, purtroppo, dimenticati.Almeno in Italia. Come GastonLeroux (noto soltanto per il suocelebre fantasma) o Jean Ber-nard Pouy. A fronte di Macha-do de Assis o George Sand.Qual è la logica che vi guida?Quale la logica che sovrintendequelli che sembrano ripescaggicuriosi insieme a nomi collauda-tissimi?

La logica è quella di renderepossibile ai purtroppo non nu-merosi amanti dei libri in Italiala lettura di cose che hanno fat-to parte della nostra cultura.Autori come Gaston Leroux,Machado de Assis, JulesAmédée Barbey d’Aurevilly,Aleksandr Herzen, GeorgeEliot, François-Xavier de Mai-stre, Charles Nodier, Washing-

ton Irving, Ivan Turgenev, Wil-liam Hudson, George Sand oRing Lardner. Si tratta di operespesso fondamentali, che hannoformato generazioni di scrittorie che però sono purtroppo pres-soché sconosciute. Basti pensarea Lardner, l’inventore dellashort story, maestro di Salinger eCarver, che in Italia quasi nessu-no conosce. In alcuni casi sitratta di libri magari “minori”,ma che svelano aspetti ricchissi-mi e interessantissimi di autorigià noti, come nel caso di L’a-mata di Thomas Hardy, Bas-sifondi di Maksim Gorkij o I pe-nitenti in calze rosa di Max Ja-cob. Un libro appena uscito,Scienza cristiana, rivela ad esem-pio il lato di polemista e di in-tellettuale engagé di MarkTwain, del quale per l’appuntoricorre quest’anno il centenariodella morte. Anche nella sceltadegli autori italiani cerchiamosempre di individuare titoli eautori particolari, come MatildeSerao, Renato Fucini, FederigoTozzi, Pietro Aretino, Bartolo-meo Vanzetti, Edmondo DeAmicis, Scipio Slataper.

Editoria

In questa pagina ci è sembrato giusto ricor-dare con una poesia Edoardo Sangui-neti, amico prezioso dell’“Indice”,a noi vicino fin dall’inizio consuggerimenti e consigli; so-prattutto esempio diimpegno da emulare.Una qualsiasi impre-sa umana non nasce enon si sviluppa neltempo senza amici ester-ni che di volta in volta of-frono il loro aiuto. Purtroppo, proprio nel cor-so del venticinquesimo anno di vita della no-stra rivista, prima di Edoardo Sanguineti, cihanno lasciati Emanuele Pirella e Carlo Carac-ciolo. Quando Emanuele si era già affermatoda tempo come uno dei principali innovatoridel mondo della grafica e della pubblicità ita-liana e “L’Indice” non era ancora niente e po-teva contare soltanto sulla simpatia e la fiduciaofferta dai suoi amici, egli ci ha regalato unaforma grafica di cui siamo tuttora orgogliosi,

opera di Enrico Maria Radaelli, no-stro primo e unico art direc-tor. Emanuele ci ha ancheconsentito di condividerel’amicizia e l’arte di Tul-lio Pericoli che dal primonumero firma le nostre

copertine, parte essen-ziale della nostraidentità. Editore puro, pres-soché unico nella sto-

ria del giornalismo italiano, Carlo Caraccioloha sempre dimostrato per “L’Indice” un affet-to e una stima che si sono tradotti in collabo-razioni e forme di sostegno di cui avremmo dif-ficilmente potuto fare a meno. Che cosa abbia-mo in comune con questi tre amici e che cosahanno in comune tra loro? Tantissime cose dicui sentiamo oggi acuta la mancanza. Soprat-tutto, respiravamo e continuiamo a respirare lastessa aria e, nei limiti delle nostre forze, nonpermetteremo a nessuno di privarcene.

La casa editrice ha poi inte-resse anche per il teatro e per lapoesia. I titoli non sono ancora

molti, cosa avete in preparazio-ne? Sembra inoltre che siano li-bri molto più legati all’attua-lità… Pensate anche di aprirviad autori contemporanei france-se, inglesi, spagnoli o tedeschi?E come?

Per quanto riguarda la poesiaabbiamo proposto, tra i “Clas-sici”, alcuni titoli un po’ menofrequentati dagli editori italia-ni, come le Romanze senza paro-le di Paul Verlaine, le Rime diGuido Cavalcanti o La caccia al-lo Snualo di Lewis Carroll, tuttilibri che stanno andando moltobene. E recentemente abbiamolanciato una collanina di picco-li “classicissimi” di poesia a unprezzo molto basso, che haaperto con i Canti orfici di DinoCampana e sta proseguendocon García Lorca, Gozzano,Leopardi, Saffo ed EmilyDickinson. Un’idea “libertaria”e “popolare” della poesia chesembra riscuotere un notevoleinteresse. Per il momento, inve-ce, non progettiamo di pubbli-care poeti nuovi o contempora-nei, anche se ci piacerebbe mol-

to. Ma è una sfida che crediamopossa permettersi soltanto unacasa editrice grande e solida.Per il teatro, e la danza, il di-scorso è più complesso. Un’ul-teriore collana di Barbès, chia-mata “Palcoscenico” ha infattiproposto due libri, entrambiscritti da Leonetta Bentivoglio,cronista culturale della “Re-pubblica”, il primo su PinaBausch, la coreografa tedescascomparsa nel 2009 del cui la-voro Bentivoglio è la massimaesperta mondiale, e l’altro suPippo Delbono, il più impor-tante e internazionale autoreteatrale italiano. Sono libri digrande formato, fotografici, aun prezzo accessibilissimo escritti con un linguaggio nontecnico, adatti a tutti. Il primoha esaurito le prime due tiratu-re, il secondo, uscito solo a di-cembre scorso, è già alla primaristampa. Quindi anche in que-sto caso sembra che siamo riu-sciti ad azzeccare la formulagiusta, oltre che i titoli. La col-lana proseguirà presto con altridue titoli, uno sul lavoro teatra-le di Antonio Rezza e FlaviaMastrella e uno sull’opera diHerbert Pagani, un autore dicanzoni di spessore internazio-nale, morto nel 1988 e troppopresto dimenticato.

Vi siete dati il nome di unquartiere parigino, è anche un’in-dicazione di contenuto?

Come ho detto, Barbès Edi-tore nasce come casa editricefrancofona e francofila, soprat-tutto per una mia personalepassione per quel mondo equella cultura. Il riferimento alquartiere di Barbès è ovvia-mente voluto, proprio per indi-care un luogo anche mentale eculturale di riferimento nelquale si incrociano, a Parigi, inFrancia, mondi e culture diver-se, cerando un contatto e unconfronto.

In questo senso si orienta lacollana principale della nostracasa editrice, “Intersections”,nella quale abbiamo esorditocon l’ultimo libro inedito diMichel Tournier, colui che tut-ti avrebbero voluto premiatocon il Nobel al posto del sicu-ramente meno interessante LeClézio, e che ha proseguitoproponendo l’unico testo scrit-to da Jane Birkin e i romanzi

tutti inediti di autori importan-tissimi, anche se poco o perniente noti in Italia, comeHenri-Pierre Roché, Olivier eJean Rolin, Albert Cossery,Christian Oster, Jean-Marc Pa-risis, Fréderic Dard, PhilippeFusaro, Christiane Rochefort,Jean-Pierre Martinet, l’irania-na Chahdortt Djavann, la scrit-trice di Haiti Yanick Lahens ei marocchini Amale Samie,Mahi Binebine, Houria Bous-sejra e Jean-Pierre Koffel. Nel-la collana è poi apparso l’inedi-to di Françoise Sagan Il tubinonero, che è al momento il no-stro libro più venduto. Di Sa-gan abbiamo poi acquistato,dall’editore francese Stock, idiritti per la pubblicazione dialtri sette titoli, tra i quali l’i-nedito Toxique, uscito alla finedi maggio. In questa collanasono però apparsi anche unoscrittore sloveno, Feri Lain-scek, una tedesca, Antje RavicStrubel e i libri di MatthewSpender, In Toscana, giunto al-la terza ristampa, e Una storiaarmena. Vita di Arshile Gorky,e la straordinaria autobiografiadi suo padre, il poeta StephenSpender, intitolata Un mondonel mondo e introvabile davent’anni in italiano. ■

[email protected]

T. Guerrieri è direttore editorialedi Barbès Editore

Le immagini

Le fotografie sono state ri-prese da Angelo Schwarz, do-menica 16 maggio 2010, al Sa-lone Internazionale del Librodi Torino. In particolare:

a p. 5 le sorelle Juliette eAmélie Nothomb, scrittrici;

a p. 6 il giornalista SalvatoreCarruba e gli autori MarcoRomano e Adriano Viarengo;

a p. 11 il critico letterarioAndrea Cortellessa, lo scritto-re Antonio Scurati, e AngeloGuglielmi;

a p. 27 l’economista PremShankar Jha;

a p. 34 lo scrittore FaroukMardam-Bey.

© 2010 photoby Angelo Schwarz

Cantiga per Sanguineti

di Giorgio Luzzi

“Enas ribas do lago, u eu vi andar...”

All’hotel “Sponda d’Acheronte” stannolì in piedi col dispaccio Ansacambiando biancherie, aerando stanze. Il lagotarda a incresparsi sotto il tuo minimo peso,non più di una piuma sulla pece. Prontoquel mezzo bicchiere di bianco, come sempre.Intanto sto tornando a casa con la mia scorta d’avenapennello per le arterie. Trovo, a muro,vecchi post-it mischiati a foto ormai imbarcate:“Do you like Satie?”. “Bien sûr!”, mi rispondo da anni.Poi gli anni, via via, diventarono mesi, le arterie ti si

allargaronocome strade sciancate da carri di letame. Scrutavamoa solecchio, astuti marinari, i giorni.“Maggio è alla fine, allegri!”. C’eraperò quell’io tuo che fu sempre un io e in realtàparlava di tutt’altro, farsi mostro, only you,per sconfiggere il mostro. Segnale incontestabileche l’ego può diventare il grande rene, regolatoredi scorie e luce, di proprio e altrui. E infatti tu, Edoardo,non avevi un’anima, per nostra fortuna. Non so se a

altrisia mai riuscito: chiudere tutto il corpo nella storia,

tutta la storia nel corpo, chiamare Io questo complotto,poi mettersi da parte, assistendo all’aurea farsa:il mondo farsi beffe di se stesso.

NOTA. Ho scritto questi versi l’indomani della noti-zia della morte di Sanguineti. Da qualche tempo ave-vo ripreso a ascoltare le cantigas, antiche melopeeprotovolgari di area iberico-lusitana del tredicesimosecolo: preghiera, lutto, lontananza. La musica di Sa-tie, viceversa, è tutta l’opposto: irriverenza, quotidia-nità, carnalità, sperimentalità. Di certo deve esserestata nell’orizzonte di interessi (ma che cosa non lo èstato?) di Sanguineti. In questo mio testo lui compa-re nella seconda parte e si impadronisce del discorsolasciando parlare me: la religio dell’enciclopedismo,la dialettica dell’eccesso come sguardo simbolico suuna forma trascendentale che ha sempre l’umano co-me fine, l’ego come avanguardia dell’agire storico ecarica testimoniale di denuncia permanente. Applica-ta a noi poeti come sguardo operativo, questa pro-spettiva dell’io è esattamente l’opposto di ogniconforto autobiografico: è un io prestato alla fase dia-lettica della negazione. Pensiamoci, d’ora in poi,quando ci rimetteremo a scrivere.

IMPA 7-8 2010 ok 23-06-2010 10:38 Pagina 2

Page 3: 61191478-10-07-INDICE

N. 7/8 3

SommariO2 Piccoli libri rivelatori.

Intervista a Tommaso Guerrieri, di Camilla VallettiCantiga per Sanguineti, di Giorgio Luzzi

4 da Berlino, Londra e ParigiAppunti, di Federico Novaro

5 Il codice secondo Armando Spataro, di Claudio Fava

6 Il paese troppo lungo di Giorgio Ruffolo, di Salvatore Lupo

7 L’università dei libri e della protesta,di Guido Bonino e Alessandro Ferretti

8 A che serve il reato di clandestinità per gli stranieri,di Giovanni Palombarini

9 Chi coltiva e chi frena l’integrazione europea, di Roberto Barzanti

10 Giorgio de Chirico: scrittura e contrappunto artistico,di Paolo Baldacci

11 Napoli nell’opera di Ermanno Rea, di Enzo Rega

12 Poe: la permaneza editoriale di un grande classico,di Franco Pezzini

13 Lusso e potere religioso, di Marco Dotti

14 JONATHAN SAFRAN FOER Se niente importa,di Andrea Bosco e Norman Gobetti

16 JERRY FODOR E MASSIMO PIATTELLI PALMARINI

Gli errori di Darwin, di Telmo Pievani

RICHARD DAWKINS Il più grande spettacolo della terra eMASSIMIANO BUCCHI Scientisti e antiscientisti,di Aldo Fasolo

17 TONINO CANTELMI, MARIA BEATRICE TORO

E MASSIMO TALLI Avatar, di Giuseppe Longo

LUCIANO MECACCI Manuale di storia della psicologia,di Mario Quaranta

JOHN FREEMAN La tirannia dell’e-mail,di Giuliana Olivero

18 ANTONIO PENNACCHI Canale Mussolini, di Nicola Villa

BENITO MUSSOLINI L’amante del cardinale,di Luciano Curreri

Babele: Mercato, di Bruno Bongiovanni

19 ANTONIO PASCALE Questo è il paese che non amo,di Linnio Accorroni

ANTONIO FRANCHINI Signore delle lacrime,di Valentino Cecchetti

ENRICO UNTERHOLZNER Lo stagno delle gambusie, di Francesco Roat

NARRATORI ITALIANI

MEDIA-MENTE

EVOLUZIONISMO

LIBRO DEL MESE

SEGNALI

VILLAGGIO GLOBALE

EDITORIA

20 VALERIO MAGRELLI Nero sonetto solubile, di Susi Pietri

CHRISTOPH BUCHWALD e KLAUS WAGENBACH

(A CURA DI) 100 poesie dalla DDR, di Giorgio Luzzi

EVELINA DE SIGNORIBUS Pronuncia d’inverno,di Franco Pappalardo La Rosa

21 MARIO LAVAGETTO Un caso di censura. Il Rigoletto,di Vittorio Coletti

ALEX ROSS Il resto è rumore, di Piero Crestodina

ENZO RESTAGNO Ravel e l’anima delle cose,di Liana Püschel

22 ERNESTO SÁBATO Sopra eroi e tombe, di Luca Bianco

HUGH NISSENSON Rallegrati di queste cose al crepuscolo,di Mario Materassi

24 HANS HÖLLER La follia dell’assoluto, di Rita Svandrlik

FARIBA VAFI Come un uccello in volo, di Marina Forti

25 PREETA SAMARASAN Tutto il giorno è sera,di Claudio Canal

NAMITA DEVIDAYAL La stanza della musica,di Alessandra Consolaro

MARCO BUEMI Sudafrica in bianco e nero,di Carmen Concilio

26 CHRIS WICKHAM Le società dell’alto medioevo,di Giuseppe Sergi

DAVID GENTILCORE La purpurea meraviglia,di Mauro Ambrosoli

27 BRUNO MAIDA Proletari della borghesia,di Daniela Luigia Caglioti

28 DAVIDE ARTICO E BRUNELLO MANTELLI (A CURA DI)Da Versailles a Monaco, di Federico Trocini

FABIO FABBRI Le origini della guerra civile,di Daniele Rocca

EMANUELE FACCENDA I carabinieri tra storia e mito,di Dino Carpanetto

29 LORETO DI NUCCI Lo Stato-partito del fascismo,di Maddalena Carli

TOMMASO PIFFER Gli alleati e la resistenza italiana,di Ennio Di Nolfo

GIAN PIERO PIRETTO Gli occhi di Stalin,di Maria Candida Ghidini

30 SANDRA PUCCINI Nude e crudi, di Giulio Angioni

FRANCO CORDERO Il brodo delle undici,di Giovanni Tesio

DIEGO NOVELLI Ritratti e ROBERTO SPECIALE

Generazione ribelle, di Gian Giacomo Migone

POLITICA

STORIA

LETTERATURE D’OLTREMARE

LETTERATURE

MUSICA

POESIA

31 Laura Boldrini Tutti indietro, di Tana de Zulueta

FRANCESCO MIGLIORINO (A CURA DI) Scarti di umanità,di Laura Balbo

FABIO SANFILIPPO ED EMANUELA ALICE SCIALOJA

A Lampedusa, di Ilda Curti

32 LEONARDO CEPPA Il diritto della modernità,di Walter Privitera

JÜRGEN HABERMAS Dall’impressione sensibileall’espressione simbolica, di Stefano Petrucciani

33 ACHILLE VARZI Il mondo messo a fuoco,di Marilena Andronico

ALBERTO VOLTOLINI E CLOTILDE CALABI

I problemi dell’intenzionalità, di Nevia Dolcini

34 BRUNO ZANARDI Il restauro, di Tomaso Montanari,Mario Micheli e di Caterina Bon Valsassina

36 MARGHERITA OGGERO La fatica di sbozzolarsiMARIO MARCHETTI La striscia del Calvino, 14

37 Recitar cantando, 40, di Vittorio Coletti

38 Effetto film: Bright Star di Jane Campion,di Massimo Quaglia

39 VIAGGI

di Stefano Moretti, Federico Feroldi, Donatella Sasso e Camilla Valletti

40 FANTASTICO

di Davide Mana, Franco Pezzini, Giuliana Oliveroe Elena Baroncini

41 VARIE

di Sara Marconi, Luca Scarlini e Maura Anfossi

CLASSICI

di Susi Pietri e Paolo Mantioni

42 FUMETTI

di Andrea Ceriana Mayneri, Anna Maria Cervai,Maura Dessì, Fabio Minocchioe Maria Elena Ingianni

43 PSICOLOGIA

di Mariacristina Migliardi, Anna Viacavae Pierluigi Politi

44 POLITICA ITALIANA

di Danilo Breschi, Romeo Aureli, Nino De Amicise Roberto Barzanti

45 TEORIA POLITICA

di Maurizio Griffo, Federico Trocini, Roberto Barzanti,Elena Fallo e Daniele Rocca.

46 INFANZIA

di Fernando Rotondo e Sara Marconi

SCHEDE

QUADERNI

PREMIO CALVINO

ARTE

FILOSOFIA

MIGRAZIONI

IMPA 7-8 2010 ok 23-06-2010 10:38 Pagina 3

Page 4: 61191478-10-07-INDICE

vante originariamente dall’esperienza dellaguerra, ispirò politiche democratiche edegalitarie, una cultura della fiducia e dellareciprocità e la tendenza a lavorare e go-vernare per il bene comune. Judt esploraquel modello politico con la chiarezza el’autorevolezza del grande storico, anchequando descrive i limiti della socialdemo-crazia e di un welfare state forte. L’omoge-neità etnica e una popolazione istruita enon troppo vasta furono fattori chiave perla riuscita del welfare state in Austria,Olanda e Scandinavia, mentre tale modellodiventa problematico per società più ampiee diversificate. La caduta dei regimi comu-nisti dell’Europa orientale getta una lungaombra sulla sinistra democratica, che si ve-deva come l’alternativa ragionevole al so-cialismo rivoluzionario, ma traeva forza re-torica e unità dal marxismo. Per queste ealtre ragioni, la socialdemocrazia del seco-lo scorso non sarà forse la forma vincentedi governo del futuro. Ma Judt sottolinea,a ragione, che molto può essere imparatodai suoi successi e anche dai suoi limiti. Trale opzioni oggi a nostra disposizione, sem-bra quella migliore.

da PARIGIMarco Filoni

“Il delducismo è un umanismo”. Così ti-tolava qualche settimana fa “La républi-quedeslivres”, il seguitissimo blog delloscrittore Pierre Assouline. Il riferimentoironico è alla Fondazione Del Duca. Laquale, come ogni anno, assegna il premio

mondiale “Cino Del Duca”, unodei più ambiti in campo letterario escientifico. Ambito perché la som-ma elargita al vincitore è di ben300.000 euro. Non imponibili, alnetto delle tasse. Ora, per unoscrittore non è poco. In assoluto èil più ricco dopo il Nobel, che alpremiato consegna un assegno di1,1 milione di euro (anche questo,detto per inciso, al netto e senzaimposte). Quindi ghiotto bocconeper ogni scrittore, che gli permet-terebbe beatamente di esimersi perqualche anno dalle annose trattati-ve sulla percentuale dei diritti, su-gli anticipi e tutto quanto riguardala talvolta estenuante dialettica au-tore-editore. A questo punto è le-gittimo chiedersi: come si fa a otte-nere il premio? Nel suo statuto laFondazione Del Duca, che è gesti-ta e amministrata dall’Institut deFrance, precisa che il premio è de-stinato a un’opera che si distinguaper aver costituito “un messaggiod’umanesimo moderno”. È qui cheAssouline fa la sua previsione: “Ilventunesimo secolo sarà umanista,o non sarà affatto”. Almeno dalpunto di vista letterario. Vedremose la tendenza umanista prenderà ilsopravvento nella narrativa con-temporanea. Ma se nel frattempoandiamo a vedere i premiati, alloraqualche domanda si può porre.Come per esempio Patrick Modia-no, il neolaureato vincitore per il2010: lo scrittore francese, certa-mente dotato di talento e fra i piùin vista nel panorama letterario,che c’entra con l’umanesimo? Avoler cercare nei suoi bei romanzi,non se ne trova traccia. Da qui ilmistero che attanaglia i colleghi, si-curamente gelosi se non invidiosi:insomma, dobbiamo essere umani-sti oppure no? Forse ha ragione lostesso Modiano, il quale, quandoha saputo di esser stato eletto vin-citore del premio, ha dichiarato:“Ciò che mi commuove in questopremio è il fatto che non è confor-me a niente”. Proprio a niente,nemmeno all’umanesimo.

da BERLINOIrene Fantappiè

Anche nei migliori festival internazionalidi poesia spesso succede che l’interazionetra poeti di lingue diverse si limiti a generi-ci complimenti espressi in un inglese claudi-cante di fronte a calici di bianco cheap. Al-tre volte, invece, accade che i festival inter-nazionali spingano o addirittura costringa-no gli autori ad avviare un confronto serra-to su tutti i livelli. È il caso del Poesiefesti-val Berlin, che quest’anno si è servito dellatraduzione per creare un ponte tra la poesiatedesca e quella italiana. Erano presenti ot-to poeti italiani, otto tedeschi e otto tradut-tori (nessuno dei poeti tedeschi parlava ita-liano e viceversa). Sono stati formati dei ter-zetti composti da una persona per catego-ria. Ciascun trio ha lavorato per tre giorni inuna delle stanze della Literaturwerkstatt, l’i-stituzione che ha organizzato l’evento,uscendone con cinque testi italiani tradottiin tedesco e cinque testi tedeschi tradotti initaliano. Un reality d’élite? No, piuttosto unmelting pot fruttuoso che ha dato luogo adue serate in cui i poeti italiani e tedeschi sisono reciprocamente letti in originale eascoltati in traduzione. È un VERSschmuggel,un “contrabbando di versi”: la poesia stra-niera non si importa necessariamente attra-verso i canali convenzionali. Saltare le “do-gane” può essere produttivo, insomma.Vengono in mente, tra i molti riferimentipossibili, i lavori di transcriaçao dei “canni-bali” brasiliani. Di certo, questa sezione delfestival dedicata all’Italia ha spinto voci nonnecessariamente affini a misurarsi tra loro;ha costretto i poeti a spiegare i propri testi aun collega “cieco” dal punto di vistalinguistico e a lasciarsi interpretareda uno sguardo straniato; ha per-messo infine ai traduttori di entraredentro i meccanismi dei versi e aipoeti di fare esperienza diretta dicome lavora un traduttore. Il Poe-siefestival Berlin quest’anno hapuntato più volte le luci sull’Italia.Oltre a una conversazione su poesiae infanzia tra Milo de Angelis e LutzSeiler, ci sono stati due eventi su Pa-solini: un dibattito su “Pasolini pro-feta” e una serata dedicata a Tetroentusiasmo. In una rappresentazio-ne al confine fra teatro, musica epoesia, le poesie giovanili in dialettosono state messe a confronto conquelle più tarde e, infine, accostatea brani tratti dall’interessante tradu-zione in tedesco di Christian Filips,che rende la complessità della lin-gua pasoliniana anche per mezzo ditermini tratti dal tedesco medievalee dagli scritti di Lutero.

da LONDRAFlorian Mussgnug

Capitalismo selvaggio, privatiz-zazioni massicce, ossessione per laricchezza, sperequazioni crescentitra ricchi e poveri: secondo TonyJudt, autorevole public intellectualinglese, sono queste le forze cheminano la società contemporanea,le cause misconosciute di molte pa-tologie sociali, di tante ansie e dellanostra paura del futuro. Ciò cherende difficile alleviare questi malisociali, scrive Judt, è la nostra inca-pacità di riconoscerli come tali:trent’anni di crescenti disugua-glianze hanno convinto molti che sitratta di fenomeni “naturali” con-tro cui possiamo fare ben poco. Ilbrillante e combattivo manifesto diJudt, Ill Fares the Land (Allen La-ne, 2010), è una risposta straordi-naria a questo dilemma: un appelloappassionato a un’arte di governopiù giusta e un’invocazione ai “gio-

vani da una sponda all’altra dell’Atlantico”perché si assumano la responsabilità delmondo in cui viviamo. Come tutti i buoniscrittori politici, Judt è lungimirante e in-sieme estremamente concreto. Opposizio-ne radicale e dissenso eroico possono esse-re la risposta giusta a un regime autoritario,scrive Judt, ma “magniloquenza retorica” edisgusto per “il sistema” sono risposte ina-deguate e irresponsabili quando la demo-crazia stessa viene minacciata da sperequa-zioni crescenti e cinica indifferenza. I mo-vimenti costruiti intorno a singoli interessicondivisi (combattere il cambiamento cli-

VILLAGGIO GLOBALEmatico, opporsi alla guerra, penalizzare lagrande finanza) sono lodevoli, ma non in-dicano come organizzare in un sistema coe-rente i singoli obiettivi. Per trovare unaspinta in avanti, propone l’autore, è neces-sario guardare al passato recente e, in par-ticolare, alla tradizione europea della so-cialdemocrazia postbellica: quella “politicameticcia” che mescolava utopia socialista efede genuina nella democrazia. Ampie se-zioni di Ill Fares the Land sono dedicateagli anni cinquanta e sessanta, “l’età di-menticata”, quando un senso condiviso dicomunità e obbligazione reciproca, deri-

N. 7/8 4

Appunti

di Federico Novaro

Prosegue il ridisegno degli “Oscar” Mon-dadori, non solo grafico: ha debuttato la

nuova sezione “Junior”: Dino Buzzati, C. S.Lewis, Italo Calvino, Bianca Pitzorno, LiaLevi, Gabriel García Márquez, le prime usci-te; sono volumi illustrati, in brossura, ristam-pe da precedenti collane e nuove edizioni, ti-toli consueti o più ricercati; qui la bandabianca, che prosegue sul dorso e che stavia via conquistando come elemento di ricono-scibilità tutte le sezioni, occupa un quarto abbon-dante della copertina e scorre, a seconda dei titoli,più in alto o più in basso, sovrapponendosi all’illu-strazione che talvolta sborda, con una foglia, una lan-cia, un corno; ospita i dati del testo: in caratteri gran-di e come a mano l’autore; sotto, più piccolo, il tito-lo; più in basso l’autore delle illustrazioni. La conti-nuità evidente fra le copertine, unite all’eleganza del-la griglia, impostano da subito un programma lonta-no dall’one-shot, teso piuttosto a sollecitare una fe-deltà fatta di ritorni, di attese confermate. L’aperturanegli “Oscar” di una collana dedicata al pubblico piùgiovane è un buon segno, l’intelligenza del program-ma e della confezione sembrano pensare a tempi me-no concitati di quelli recentemente in auge.

Le collane chiuse, volumi uniti da una grafica e daun progetto comune, ma con un numero di uscite fi-nito (qui si è già accennato a “iQuindici” di Mini-mum fax, i “Quindici Libri” di Fandango, “la Rosadei Venti” di Sellerio, i “MiniMarcos”, di Marcos yMarcos), sembrano porsi in un punto mediano nelladinamica fra discontinuità e continuità, che anima daqualche tempo l’organizzazione delle collane edito-riali; ne è un nuovo esempio da Voland la “SirinClassica”, collana di letteratura russa che evoca ilprogetto einaudiano degli “Scrittori tradotti da scrit-tori” (prima uscita Chad√i-Murat di Tolstoj, nella tra-duzione di Paolo Nori): dieci titoli, di qui al 2012 (sipuò cercare un precedente anche nell’“Einaudi Bi-blioteca giovani”: progettata da Giulio Bollati in cin-quanta titoli, venne venduta in apposite scatole dadieci) che, appoggiandosi all’occasione celebrativa(Voland è stata fondata nel 1995), confezionano unprogetto molto alto, il cui limite temporale e quanti-tativo solletica l’impulso collezionista; le copertine,un puro gioco di caratteri tipografici (di Alberto Le-

caldano, con il nuovo font disegnato per l’oc-casione da Luciano Peroni) su fondo bian-co, che accoglie, rivisitandola, la lezione diGiovanni Lussu per “I libri de l’Unità”.Indipendente e volenterosa ha aperto la casa

editrice Caravan. Nel nome il riassunto del pro-gramma: tre collane, nel vasto e intricato ambi-

to della letteratura e saggistica di viaggio, in-tese qui soprattutto come testimonianza emovimento di passaggio attraverso i luoghi.

Casa editrice cartacea, cita la calviniana leggerezza, ri-badendo la tangibilità del prodotto: libri “pratici emaneggevoli, perché ci accompagnino in ogni viag-gio”, “Fate le valigie (…) e lasciate tanto spazio per ilibri”, legando l’idea contemporanea di un nomadi-smo accessibile all’evocazione romantica dei viaggiprecedenti la presenza della Rete.

Iprimi tre titoli: Spigoli. Guida per ritrovare la tuastrada di casa a New York di Devor De Pascali, nel-

la collana “Bagaglio a mano”, dedicata al raccontodella sempre più diffusa condizione di vite divise frapiù luoghi; Il nuvolo messaggero di Aamer Hussein,nella collana “Valigia d’Oriente”, orientata verso est;La quarta sponda. Scrittrici in viaggio dall’Africa colo-niale all’Italia di oggi, a cura di Daniele Comberiati,nella collana di saggistica “Segnavia”.

NoReply, affezionata a un linguaggio e a modalitàcomunicative laterali, in collaborazione con Sparaju-rij, tenta il cammino impervio e apparentemente ana-cronistico della materializzazione di un’esperienza on-line che, già animata da testi di Aldo Nove, Raul Mon-tanari, Tiziano Scarpa, Marco Mancassola, diverrà ri-vista cartacea: “‘Atti impuri’ sarà a breve un oggettoda sfogliare (…) proverà dunque a raccogliere un nu-mero rilevante di racconti perfetti, di recuperi da ga-lassie disfatte, scoperte di nuovi mondi in versi mo-dellati dalle migliori penne in circolazione al giornod’oggi”. NoReply, factory, laboratorio e casa editrice,si occupa di musica e di letteratura e delle loro inter-sezioni, (nella collana “Velvet” hanno pubblicato Al-do Nove, Luca Ragagnin; “Contagi” pubblica libri ecd uniti da un progetto comune; “Tracce” è una col-lana di storia della musica; “Maledizioni” è una colla-na legata al laboratorio di scritture Sparajurij); pub-blica anche guide (con la collana “CamminaCittà”).

IMPA 7-8 2010 ok 23-06-2010 10:38 Pagina 4

Page 5: 61191478-10-07-INDICE

N. 7/8 5

Seg

na

li

Claudio FavaIl codice di Armando SpataroSalvatore LupoIl paese troppo lungodi Giorgio RuffoloGuido Bonino eAlessandro FerrettiL’università dei librie della protestaGiovanni PalombariniA che serve il reato diclandestinità per gli stranieriRoberto BarzantiChi coltiva e chi frenal’integrazione europeaPaolo Baldaccide Chirico: scritturae contrappunto artisticoEnzo RegaNapoli nell’opera di Ermanno ReaFranco PezziniPoe continua a fare pauraMarco DottiLusso e potere religioso

Ci sono moti dettagli che ti fannoamare un libro e che ti rivelano la

materia di cui è fatto. Come certe pen-nellate di colore che sembrano messe lìper caso e invece ci trovi dentro, in con-troluce, l’animo di chi scrive, la sua qua-lità umana messa a nudo senza reticenze,senza ammiccamenti. In un raccontodenso e lungo come quello che ha scrit-to Armando Spataro (Ne valeva la pena.Storie di terrorismi e mafie, di segreti distato e di giustizia offesa, pp. 613, € 20,Laterza, Roma-Bari 2010), pennellate netroverete parecchie, come pensieri irre-quieti ma dovuti sulle cose accadute, sul-le persone conosciute, sui vivi e i morti,su un mestiere bizzarro e umanissimoche è quello del giudice, su un’Italia dimolte parole e di troppi segreti. Un librosu di noi, noi italiani, fieri, sfacciati, ru-morosi e smemorati.

Eppure la frase che m’è rimasta den-tro, appuntata comeuno spillo per la suabellezza e la sua sem-plicità, è la frase diun padre. Il padre diArmando, magistratoanche lui a Taranto,che la sera usciva dicasa per una passeg-giata tra le strade del-la sua città e accarez-zava tutti i cani ran-dagi che incrociava,“sussurrando con vo-ce lenta e affettuosa:cani sperduti, senzacollare!”. Che c’entrail ricordo breve, pu-dico, di quel genitorecon un libro che èuna lunga corsa den-tro il tempo vissutoda un’intera genera-zione? Che c’entracon il repertorio de-gli uccisi, dei soprav-vissuti, dei colpevoli che il libro di Spa-taro ci rammenta raccontandocitrent’anni di terrorismo e di violenzamafiosa?

C’entra con l’autore, con il suo lavoro.Meglio: con un senso onesto di interpre-tare quel mestiere che non è fatto solo dicatture e di sentenze, ma anche di sguar-di pietosi su un paese, sguardi animatidal senso del dover fare, del farsi carico,del sentirsi responsabili. I morti di cui ciparla Spataro questo sono: non figurineimpreziosite dalla loro sorte, eroi dellapatria ma uomini di carne e sangue chefacevano i giudici in un tempo avaro digiustizia. Emilio Alessandrini, GuidoGalli, Giovanni Falcone: di loro Spataroracconta le grandi cose fatte vestendo latoga e i gesti minuti e definitivi che di-stinguono un uomo dalla sua caricatura,che gli restituiscono il privilegio deldubbio, la sua forza interiore, la dispe-rata normalità. L’omicidio di GuidoGalli, nelle parole di Spataro, non è unapagina di cronaca nera, ma un manifestodi qualità smarrite, di parole custodite epoi svendute, come quel codice cheGalli teneva in mano quando un paio diragazzini armati di rivoluzione gli spara-rono tre colpi di pistola in testa. Stavaandando a far lezione, Galli, dopo aversvolto il suo lavoro di magistrato nel Pa-lazzo di giustizia di Milano. QuandoSpataro arriva a piedi, consumando dicorsa i pochi isolati che separano il suo

ufficio dall’Università statale, troverà ilcorpo del suo amico steso a terra, la fac-cia affogata nel sangue e il codice a po-chi centimetri dalla sua mano. Quell’im-magine gli tornerà in mente, e ce lo dicenel libro, quando il premier Silvio Ber-lusconi, preparandosi a usare come unaclava il segreto di stato contro il proces-so Abu Omar, spiegherà che “non ci sipuò aspettare che i governi combattanoil terrorismo con il codice in mano”. Ec-co, i dettagli. Ciò che le nostre manipossono fare o evitare: stringere un co-dice o abbandonarlo in fondo a un cas-setto.

Il libro è bello e duro anche perchénon indulge nel ricordo. I morti servonoa raccontare i vivi. E attorno ai vivi si di-pana il reticolo dei fatti, i fatti faticosi diquegli anni di lotta al terrorismo quandouna parte di noi (giornalisti, giudici, in-tellettuali) pensava che dietro a ogni in-

chiesta ci fosse sempre un eccesso, unapresunzione di colpa, un avvitamentoautoritario. Lo scrivono anche di Spata-ro quando, giovanissimo, gli tocca in do-te la responsabilità di mettere in piedi ilprimo pool antiterrorismo alla Procuradi Milano. Quando ammazzano Galli, “ilManifesto” lo indica come “capo ufficioombra” della Procura milanese, accu-sandolo di accentrare nel suo ufficio tut-te le inchieste di terrorismo. Sono anniconfusi, sospettosi, paradossali. Chi am-mazza il giornalista del “Corriere dellasera” Walter Tobagi, nel maggio dell’80,ha appena ventun anni e quando l’arre-stano tocca a Spataro sentirgli recitare amemoria, come parole raccattate in unromanzo d’appendice, i suoi salmi digloria rivoluzionaria.

Paese strano, attento fino al ridicolo anon spingere mai lo sguardo oltre la

soglia della convenienza. È il filo con-duttore di una parte del libro che inter-seca le altre memorie di Spataro: la suaindagine sul rapimento dell’imam di Mi-lano Abu Omar. Di quelle pagine si pos-sono immaginare due chiavi di lettura.La prima, didattica, preziosa: fatele leg-gere ai giovani uditori giudiziari, ai ra-gazzi freschi di concorso che faranno igiudici in Italia. Il racconto che fa Spata-ro di quella sua inchiesta, essenziale,puntiglioso, ostinato, è un manuale sullavoro d’indagine di un pubblico mini-

stero: la ricerca della verità, la verificadelle prove, il rigore dell’investigazioneche ha imparato a utilizzare tutti gli stru-menti a disposizione (buona parte deiquali questo parlamento si appresta acancellare). Non è l’inchiesta gracidante,rumorosa, esibita in faccia alle telecame-re: è il lavoro di metodo, l’ordito cheprende forma, la sobrietà dei fatti rico-struiti e offerti a ogni verifica. Come do-vrebbe fare ogni buon giudice.

L’altra chiave di lettura è più letteraria,più “politica” nel senso alto della parola.È l’esercizio della funzione giurisdizio-nale in nome di quel principio costitu-zionale che pretende una giustizia ugua-le per tutti. Proprio per tutti. Anche peri ventidue agenti e dirigenti della Cia chedecidono, organizzano ed eseguono ilrapimento di Abu Omar come se Milanoe l’Italia fossero il cortile di casa loro.Anche per la cupola del Sismi, il servizio

di sicurezza militareitaliano, che collabo-ra, partecipa, colludecon la Cia come se lasovranità del nostropaese e il primatodelle nostre leggi(che vietano, fino aprova contraria, i se-questri di persona)fossero stracci da farvolare in allegria.

Il racconto di Spa-taro è divertente eistruttivo perché nevien fuori un’Italiettadove tutti i partiti,tutti i leader, tutti i ce-rimonieri del palazzofanno a gara tra loro,in un commoventeesercizio di solida-rietà reciproca, perimpedire che giustiziasia fatta, che la veritàsia svelata e i colpevo-

li puniti. Una cartolina esemplare dell’Ita-lia di questo millennio: da una parte unmagistrato che chiede solo di applicare lalegge, dall’altra un florilegio di esercizi re-torici, da D’Alema a Berlusconi, da Ru-telli a Gianni Letta, per spiegare che la ve-rità, certo, d’accordo, ci mancherebbe:purché, a patto che, a condizione che…Morale: il segreto di stato sul processo loevocheranno prima, e lo fanno valere poi,sia Prodi che Berlusconi. Mentre attornoai loschi signori del Sismi si spanderà apiene mani la gratitudine di tutte le forzepolitiche, di tutti gli speaker dei partiti, ditutti i governi in carica. Come se le loromenzogne fossero state un alto meritoguadagnato sul campo.

Ne valeva la pena, dice il titolo del li-bro. So che quando abbiamo finito dileggere di questi trent’anni, il dubbio citoglie il fiato. Ma ha ragione Spataro.Ne è valsa la pena: non solo per lui,l’autore, il buon giudice. Ne è valsa lapena pensando a quel codice che strin-geva in mano Guido Galli mentre anda-va a morire, e che ha conservato accan-to a sé anche nella morte. Averlo rac-colto, averne custodito principi e conte-nuti è un esercizio di verità che a perso-ne come Armando Spataro permette didire oggi, senza alzare la voce: è vero,ne è valsa la pena. ■

[email protected]

C. Fava è giornalista, sceneggiatore e scrittore

Armando Spataro e il mestiere del giudice

Un codice stretto tra le mani

di Claudio Fava

IMPA 7-8 2010 ok 23-06-2010 10:38 Pagina 5

Page 6: 61191478-10-07-INDICE

il primo delle passioni patriottiche, quello di Maz-zini e Garibaldi; il secondo, quello di Cavour. Sisofferma poi sulla vicenda del grande brigantaggiomeridionale postunitario, considerandola giusta-mente sotto il suo profilo politico, come guerriglialegittimista. Secondo l’usuale vezzo del dibattitopubblico, lamenta che la storiografia lo abbia “cir-condato di silenzio”. Esiste invece una storiografiadi un qualche rilievo, che si potrebbe citare. Caso-mai il vero problema, che qualche giovane studio-so sta affrontando, è questo: com’è che in pochi an-ni (cinque, non dieci come Ruffolo erroneamentesostiene) si esauriscono sia la guerriglia che la suabarbara repressione, senza che più si creino movi-menti filoborbonici? Questo ci rimanda alla crea-zione di uno stato, di un sistema di rappresentanzapolitica, di una nuova legalità, di una nuova lealtà.

Ruffolo si impegna poi in un “bilancio” interpre-tativo del Risorgimento, chiamando in causa le in-

terpretazioni di Gramsci (l’unificazione è una rivo-luzione mancata o passiva) e quella di Croce (l’uni-ficazione inserisce il paese nel mondo moderno).Uomo di sinistra, propende per il primo versante.Gramsci, scrive, afferma una “verità inoppugnabi-le” quando spiega che il mondo contadino “fu in-differente, o apertamente ostile, al Risorgimento”,ciò che avrebbe “contribuito a compromettere” i ri-sultati dell’unificazione. Ruffolo è un lettore colto ecurioso ma non è uno storico, e si vede: si riferiscea quelle interpretazioni quasi non percepisse la di-stanza abissale, ormai quasi secolare, che ci separada esse. Dal nostro punto di vista di storici del XXIsecolo (che è diverso da quello di un rivoluzionariodel 1930), è chiaro che assumendo forma liberale-oligarchica l’Italia del 1861 si colloca nella normaeuropea. Nessuna riforma agraria era in vista.

Erano però alle porte, procedendo verso la finedel secolo, allargamenti della classe dirigente e

del sistema elettorale, puntualmente realizzatisinel 1882 e nel 1912, e una serie di provvedimentiintesi a realizzare la cosiddetta nazionalizzazionedelle masse (“fare gli italiani”). Anche qui non c’ènessuna anomalia italiana. Il nuovo stato procedesulla stessa strada degli altri paesi europei.

L’autore prova a fare i conti con tesi storiogra-fiche recenti, impegnate a “decostruire” l’ogget-to nazione. Obietta però che, “a furia di tempe-rare la matita”, si finisce per distruggerla. La ma-tita invece va, proprio, adeguatamente tempera-ta. Il centralismo ha funzionato molto male, se-condo Ruffolo, perché il paese Italia è troppolungo, e troppo diverso. L’autore immagina, con

bizzarro esercizio “controfattualistico”, che lo sisarebbe potuto forse mettere insieme (addirittu-ra) dopo l’anno Mille partendo dagli interessi“borghesi” della repubblica marinara di Amalfipiù lo statalismo di Federico II. Poi no. L’unifi-cazione postrisorgimentale tra Nord e Sud sa-rebbe stata dunque una “tragedia”, la costruzio-ne postrisorgimentale dello stato “funesta”.Quanto all’economia, Ruffolo cita uno storico divalore come Luciano Cafagna, ma forzandogli lamano e arrivando a parlare del Sud come di una“palla di piombo” dello sviluppo nazionale. An-che in campo politico, dal Sud non sarebbe ve-nuto niente di buono: solo mafia, e qualche pic-colo conato di rivolta come quello dei fasci sici-liani degli anni 1890, subito represso. L’autore ri-leva che lo stato ha poco aiutato, ma aggiungeche i pochi aiuti (esempio al tempo dell’inter-vento straordinario) hanno generato effetti per-

versi, controproducenti.Dico subito che questa

rappresentazione rischia diessere caricaturale, cometutte quelle ispirate a unoschema iper-dualista, diqua il male di là il bene. Ladifferenza nei redditi traNord e Sud non è diminui-ta, ma non è nemmeno au-mentata. Il Mezzogiornorappresenta dunque unadelle due parti (o non sa-ranno tre? o più ancora?)di un paese, l’Italia, che hacompiuto nei centocin-quant’anni un balzo straor-dinario in avanti nelle suecondizioni economiche ecivili, anche in relazione amolti altri paesi europei.Le opzioni di età postuni-taria non si sono rivelatecosì funeste. Anche nelSud ci sono stati crolli del-la mortalità e aumenti del-la vita media, scolarizza-zione di massa e innovativifenomeni culturali, nonchéesperienze politiche di un

qualche livello. Per dirne solo una, la Sicilia po-stunitaria è stata una delle culle della sinistra sto-rica e di quella radicale garibaldina, ha vissutograndi movimenti sociali nel primo Novecento enei due dopoguerra. I fasci si inseriscono in que-sta grande esperienza politica. È mai possibileche la si debba ridurre a un’inspiegabile esplo-sione e a una fulminea repressione?

Quanto alla partecipazione del Sud allo sviluppoeconomico nazionale, diciamo solo che l’esporta-zione di prodotti agricoli e del lavoro (emigrazio-ne) meridionali ebbe una funzione decisiva nel rie-quilibrio della bilancia dei pagamenti nei due mo-menti cruciali dello sviluppo nazionale, in età gio-littiana e nel corso del “miracolo economico”. Ri-cordiamo (perché no?) l’enorme contributo datoall’elaborazione del modello di sviluppo italianoda meridionali come Nitti, Beneduce e tanti altri.

Dico questo non per patriottismo meridionale oitaliano. Lo dico perché certi strumenti interpreta-tivi sono obsoleti. La matita va diversamente tem-perata, anzi forse va cambiato lo strumento scrit-torio. Il dualismo rappresenta una tradizione in-terpretativa nobile, ma anche una rappresentazio-ne reificata, immobile e immobilista, presente giàin età liberale, passata senza vaglio critico dallaprima alla seconda repubblica. Rischia di funzio-nare come uno specchio deformante che ci impe-disce di vedere molta parte della storia italiana: siache assuma veste meridionalistica sia che assumaveste settentrionalistica. ■

[email protected]

S. Lupo insegna storia contemporanea all’Università di Palermo

Si approssima una riforma federalista che perora mantiene contorni alquanto vaghi, ma

che viene presentata come una panacea dei malidella storia nazionale: tutti ascrivibili al centrali-smo, almeno stando ai leghisti del Nord, ai neo-leghisti del Sud, a una coorte di politici locali enazionali, giornalisti e intellettuali di varia estra-zione. Mentre stiamo per celebrare il centocin-quantesimo compleanno dell’Italia, le tante vocidell’antirisorgimento si alimentano di questaapodittica convinzione. Le sentiamo moltiplicar-si sulla stampa, in rete, in volumi pubblicati dacase editrici locali e da storici fai-da-te. Scarsainfluenza esercita nel dibattito pubblico qualchevolume d’occasione, scritto da storici di mestieree di formazione (usiamola questa parola) scienti-fica, alcuni dei quali rivendicano il punto crucia-le: nel 2011 andrebbe ricordato non solo e nontanto il compleanno di una particolare forma distato, quanto degli ordina-menti costituzionali e libe-ri nel nostro paese. Sem-brerebbe inutile ricordare,e invece è necessario farlo,che nel loro tempo i nemi-ci del Risorgimento nonammettevano le libertàpolitiche né quelle civili.Qualcuno obietterà che,in linea di principio, an-che i singoli stati preunita-ri avrebbero potuto im-boccare la strada del libe-ralismo. Avrebbero potu-to, ma non lo fecero, senon in momenti di crisi,costretti da violente agita-zioni dal basso, per poi ti-rarsi indietro quando ilpericolo passava. Alla fi-ne, la tradizione liberale,laica, democratica italianaviene a coincidere con lostato unitario.

Difficile sottrarsi alla ten-tazione di collegare questorevisionismo antirisorgi-mentale (al pari dell’altroantiresistenziale) al fattoche nell’Italia di oggi la libertà e la democrazia, ladivisione dei poteri e la Costituzione e l’universa-lità dei diritti appaiono concetti residuali, fastidio-si ostacoli, anticaglia. La “seconda repubblica” si èinaugurata con una presidente della Camera cheportava al collo la croce della Vandea. Per il nostrotempo il supernemico, più che Cavour, è Garibal-di: forse perché tra i patrioti Garibaldi era il piùdecisamente schierato su una linea democratica oprotodemocratica o addirittura protosocialista.

Tra i libri recentemente usciti, segnalo qui quel-lo di Giorgio Ruffolo, Un paese troppo lungo. L’u-nità nazionale in pericolo (pp. 150, € 18,50, Ei-naudi, Torino 2009). Lo segnalo perché Ruffolonon appartiene a nessuna delle categorie sopra ci-tate: non è uno storico di professione, ma non èmosso nemmeno da antipatie per le esperienze sto-riche, concrete di libertà nel nostro paese, e nem-meno per l’idea di unità, anzi, intende rivendicarele une e l’altra. Parliamo di un economista di valo-re, ma non di tipo accademico, di un tecnico for-matosi in anni non poi così lontani alla scuola del-l’Eni e di Enrico Mattei, che ha autorevolmente in-terpretato il migliore riformismo della storia italia-na, quello della sinistra socialista degli anni cin-quanta-sessanta, che è stato poi (si dice oggi) “pre-stato” alla politica. Ruffolo è nato nel 1926. È unuomo di straordinaria longevità intellettuale. Rap-presenta un collegamento vivente tra la coscienzadell’Italia vecchia e quella dell’Italia nuova.

Partiamo dal Risorgimento, cui è dedicato il nu-cleo più fresco e vitale, anche sotto il profilo lette-rario, del volume. Il nostro autore distingue un Ri-sorgimento “caldo” da un Risorgimento “freddo”:

N. 7/8 6

Perché l’interpretazione dualista di Giorgio Ruffolo è obsoleta e deformante

Unitari, liberali, laici, democratici e garibaldini

di Salvatore Lupo

Seg

na

li-

Sto

ria

IMPA 7-8 2010 ok 23-06-2010 10:38 Pagina 6

Page 7: 61191478-10-07-INDICE

ristretta, affidando il soddisfacimento di questadomanda sempre alla stessa istituzione, trasforma-tasi infine in una sorta di mostro, incapace di svol-gere bene anche solo uno dei suo compiti.

Risulta a questo punto quasi automatica la deli-neazione di un modello ideale alternativo, larga-mente ispirato al sistema universitario americano(tratteggiato però in maniera alquanto semplifica-toria), che prevede la distinzione fra tre tipidiversi di istituzioni: quelle dedite all’istruzionesuperiore non universitaria; le università dediteprevalentemente alla didattica (destinate a stu-denti undergraduate); le università di ricerca(destinate prevalentemente a studenti graduate,cioè di dottorato).

Sulla carta la proposta di Graziosi sembra avereuna sua ragionevolezza: si tratta in fin dei conti delprincipio della divisione del lavoro. Convince assaimeno quando si passa a esaminare la vera e propriaparte propositiva del libro, ovvero l’ultimo capitolo,dedicato tra l’altro a un’analisi del disegno di legge

Gelmini. Consapevole del fatto che qualunque rifor-ma deve partire da ciò che esiste, Graziosi si limita aproporre aggiustamenti “locali” del sistema univer-sitario (e in questo senso non propone “ipersoluzio-ni”: cfr. di nuovo la recensione di Ferretti). Come èovvio, alcuni di questi aggiustamenti appaiono con-divisibili, altri meno. Ma l’aspetto più preoccupanteè un altro: Graziosi fa sua, sia pure attenuandola econ qualche cautela metodologica, la tesi di RobertoPerotti (L’università truccata, Einaudi, 2008; cfr. lecritiche di Massimiliano Vaira sull’“Indice”, 2008, n.12), secondo cui, rifatti i calcoli per tenere conto del-l’alto numero di studenti fuoricorso e di altri “fanta-smi” accademici, l’università italiana non sarebbeper nulla sottofinanziata.

Questa idea, o forse l’accettazione rassegnatadell’impossibilità di accrescere i finanziamentinella presente congiuntura economica, unita alpermanere sullo sfondo del modello a tre livelli,finisce per costituire una significativa apertura dicredito alla linea del ministero, pure criticata in

alcuni dettagli, in cui si crede evi-dentemente di intravedere unacerta buona volontà efficientista eun’adesione almeno di principioal modello ideale americano. Misembra che le speranze sianodecisamente mal riposte, e cheanche la direzione di fondoauspicata per le riforme, benchéaccettabile in astratto, sia sbaglia-ta nelle circostanze attuali di sot-tofinanziamento (checché ne dicaPerotti) e soprattutto nella realtàsociale italiana. Il sistema univer-sitario americano (un po’ diversoda come lo racconta Graziosi,forse troppo avvezzo a frequenta-zioni ivy league) funziona benenella società americana, moltodiversa da quella italiana per ungran numero di aspetti, e inprimo luogo per il mercato dellavoro. C’è un intero mondofuori dall’università, che varia dapaese a paese, e non tenerneconto non aiuta a individuare lesoluzioni migliori. Avallare l’ulte-riore indebolimento di un sistemauniversitario pubblico che, purcon tutti i suoi difetti, è l’unico anostra disposizione, nella speran-za piuttosto aleatoria che possanascere qualche buona researchuniversity, appare molto perico-loso, soprattutto se si considera ilcarattere penoso dei pochi esem-pi di scimmiottamento del siste-ma americano che finora si sonodati nel nostro paese. Lo stessodicasi per l’istituzione, previstadal disegno di legge Gelmini,della figura del ricercatore atempo determinato, ricalcata suquella degli assistant professorsamericani, ma che, nell’attualeformulazione, si risolverà sicura-mente nell’ennesimo pasticcio enella creazione di brusche solu-zioni di continuità nel processo direclutamento del personaledocente. Non credo che tutto ciòsfugga a Graziosi, ma allora nonsi capisce bene il senso dell’ambi-guo capitolo finale, a meno diricorrere a ipotesi basate su esi-genze di “posizionamento” poli-tico. Il gioco è rischioso, come ilcaso Perotti insegna. ■

[email protected]

G. Bonino insegna storia della filosofia

all’Università di Torino Seg

na

li-

Un

iver

sità

Sono tempi nebulosi per l’università italiana. Dauna parte si profila la cosiddetta riforma Gelmi-

ni, di cui non è facile prevedere con esattezza le fu-ture vicissitudini parlamentari. Il disegno di legge è,come spesso capita, pasticciato e in più punti assaivago, e per valutarne i possibili effetti, soprattuttoper quanto riguarda gli organi di governo e l’orga-nizzazione universitaria generale, nonché i meccani-smi di reclutamento e di progressione di carriera peri docenti, è necessario dedicarsi a esercizi di simula-zione piuttosto azzardati, e lasciarsi andare a qualchedietrologia. Ma, soprattutto, l’università dovrà af-frontare nei prossimi tempi ulteriori riduzioni dei fi-nanziamenti statali, che si aggiungono a quelli degliultimi anni. Dall’altra parte, è nato all’interno dell’u-niversità, a partire dai ricercatori, un movimento diprotesta (vedi il sito www.rete29aprile.it) contro ildisegno di legge, una protesta che potrebbe metterein serio pericolo le attività del prossimo anno acca-demico. L’atteggiamento dei vertici universitari è perlo più ambiguo, attento probabilmente a barcame-narsi tra le richieste della protesta ela necessità di intrattenere buonirapporti con il ministero. Il fatto piùsorprendente è che tutto ciò avvienenel totale disinteresse di tutto il re-sto del paese, dalla politica (com-presa l’opposizione) agli organi diinformazione.

Tra i numerosi libri che negli ulti-mi tempi hanno affrontato le que-stioni oggi al centro della discussio-ne c’è quello di Andrea Graziosi(L’università per tutti. Riforme ecrisi del sistema universitario italia-no, pp. 177, € 13, il Mulino,Bologna 2010), professore di storiacontemporanea e variamente impe-gnato sul fronte della politica uni-versitaria. Il libro ha in gran parteun’impostazione storica, che serveperò a illustrare la tesi principaledell’autore, e in questo senso si trat-ta di uno dei “libri a tesi” di cuiparla Alessandro Ferretti nellarecensione qui accanto: l’universitàitaliana è sempre stata caratterizzatada un modello monolitico (o “egua-litario”), che prevede un solo tipodi ateneo, generalista, per tutti i tipidi utenti. Tutti gli atenei avrebberoperciò, di diritto se non di fatto, lastessa dignità, tutti fornirebbero glistessi servizi, tutti svolgerebbero lestesse attività, dalle varie forme dididattica alla ricerca. Il valore lega-le del titolo di studio costituiscenaturalmente il suggello di questogenere di impostazione.

Tale monoliticità avrebbe, secon-do Graziosi, ragioni prevalente-mente ideologiche, condivise dalceto accademico nel suo comples-so e dalle classi politiche responsa-bili delle successive riforme. Ed èproprio la monoliticità a costituireil peccato originale dell’universitàitaliana, da cui deriverebbero moltidei suoi mali. Sarebbe infatti vellei-tario ritenere che tutte le diversefunzioni di un’università in unasocietà moderna possano esseresvolte efficacemente da un unicogenere di istituzione. Gli effettideleteri di questo modello sareb-bero diventati sempre più gravicon il progressivo estendersi dellabase studentesca: a ogni nuovoallargamento si sarebbe pretesodemagogicamente di fornire a unnumero sempre più grande diutenti lo stesso servizio che in pre-cedenza era riservato a un’élite più

N. 7/8 7

L’Università tra tagli, riforme, proposte e proteste

L’American style del quartierino

di Guido Bonino

Chi ricerca non trova

Negli ultimi due anni, i pesanti tagli alle risorse e l’acuto bisogno di buone riforme dell’u-niversità italiana hanno dato vita a importanti movimenti di protesta, da quello dell’“Onda”contro la legge 133/08 a quello attuale contro il disegno di legge 1905 “Gelmini”. Al contem-po, è fiorita una quantità di saggi sui problemi universitari e sulle possibili soluzioni. Gran par-te di questa produzione letteraria appartiene al genere dei libri a tesi. Pur essendo a volte op-posti nelle finalità, questi saggi sono accomunati dall’impostazione ideologica: i problemi del-l’università sono drammatici, ma le loro cause sono semplici ed evidenti; le soluzioni, radicalie dolorose, sono a portata di mano: basta avere un po’ di coraggio! L’autore presenta dati etestimonianze che supportano la correttezza della sua idea e inquadra il caso in un frame sem-plice e preciso, dal quale consegue necessariamente l’individuazione del colpevole (il barona-to, i governi, l’indole degli italiani…) e l’altrettanto fatidica ipersoluzione à la Watzlawick. Altermine della lettura si ha la confortante sensazione di avere compreso la questione, e ci si chie-de cosa si aspetti a varare l’immediata e salvifica riforma. L’università truccata di Roberto Pe-rotti ne è un esempio, ma non è il solo.

Se però il lettore incuriosito incappa in un secondo libro del genere, magari di segno op-posto, cadrà nella più profonda confusione. Tutto appare rovesciato. I professori che maga-ri prima erano baroni onnipotenti sono ora vittime dell’incompetenza di legislatori e gover-nanti, e anche qui una gran messe di dati statistici supporterà infallibilmente questa visione.Si ottiene lo stesso effetto di straniamento di quando si assiste alle arringhe finali di accusa edifesa in un processo: due modi completamente differenti di rappresentare la stessa situazio-ne, che lasciano il lettore sconcertato e diffidente.

Fortunatamente, però, ci sono anche studi condotti seguendo un metodo più proficuo: adesempio, I ricercatori non crescono sugli alberi di Francesco Sylos Labini e Stefano Zapperi(pp. XV-113, € 12, Laterza, Roma-Bari 2010). È un’esposizione sintetica di meriti e debo-lezze della variegata ricerca italiana, scritta da due ricercatori che si avvalgono di una cono-scenza approfondita delle università italiane ed estere. Il fatto che praticamente tutto il fi-nanziamento statale agli atenei venga speso per gli stipendi testimonia il ruolo chiave del per-sonale universitario. È quindi a partire da uno studio della sua attuale composizione che i no-di sono delineati e inquadrati nel contesto: l’invecchiamento del corpo docenti-ricercatori el’erraticità e arbitrarietà dei concorsi. Il più grave problema strutturale è l’accumulo di deci-ne di migliaia di precari: tipicamente svolgono le stesse mansioni del personale strutturato esono indispensabili ad assicurare la sopravvivenza del sistema, ma permangono in uno statodi intollerabile incertezza che oltretutto li priva della necessaria indipendenza scientifica. Dalmomento che non basta avere i ricercatori o i professori migliori se poi non sono in condi-zione di fare ricerca, viene anche evidenziata l’insufficienza e l’incertezza dei finanziamenti,aggravata dalla sostanziale assenza di valutazione. A proposito di quest’ultima, la centralitàdell’elemento umano è ribadita dal capitolo dedicato ai tanto decantati indicatori bibliogra-fici (impact factors e simili), di cui sono evidenziate le potenzialità e i (molti) limiti.

L’onnipresente retorica del merito, del dirigismo e di un idealizzato “sistema americano”che punta alla “creazione dell’eccellenza” viene confrontata con la realtà dei fatti. Emble-matico sotto questo aspetto il caso dell’Istituto italiano di tecnologia, caratterizzato da unastruttura verticistica e da cospicue risorse, ma incapace di garantire risultati all’altezza. Nesegue che un sistema complesso e diversificato come quello della ricerca universitaria nonpuò essere migliorato a costo zero, con formule magiche o tantomeno facendo tabula rasadell’esistente, ma introducendo pragmaticamente aggiustamenti e regole certe, incentivan-do coloro che già si dedicano con impegno e passione alla ricerca.

Alla luce di queste conclusioni, i rimedi prospettati dal disegno di legge 1905 appaionodei palliativi, quando non autenticamente catastrofici. Basti citare l’aggiunta di un’ulterio-re figura a tempo determinato in sostituzione degli attuali ricercatori strutturati, che esten-de il precariato fino ai quarant’anni di età: condanna alla fuga all’estero le prossime gene-razioni di giovani ricercatori e mette su un binario morto 27.000 ricercatori strutturati. Conuna sola norma si assesta un colpo mortale al presente e al futuro dell’università, senza chela società italiana ne tragga il benché minimo vantaggio.

Dal confronto tra la seria ed esaustiva analisi degli autori e le ricette presentate da maggio-ranza e opposizione, quasi sempre senza alcun serio confronto con chi nell’università lavora estudia, nasce un serio dilemma: i nostri decisori e gli intellettuali che li supportano sono su-perficiali e ignari delle conseguenze delle loro politiche universitarie, o sono consciamente ani-mati da una volontà di smantellamento del sistema pubblico di alta formazione e ricerca?

ALESSANDRO FERRETTI

IMPA 7-8 2010 ok 23-06-2010 10:38 Pagina 7

Page 8: 61191478-10-07-INDICE

Dunque, la previsione della sanzione sostitutivadell’espulsione ex articolo 16, comma 1, testo uni-co, per i reati di ingresso e soggiorno illegale ap-pare in stridente contrasto sia con il carattere nor-male delle sanzioni sostitutive, sia con i connotatifondamentali delle attribuzioni penali del giudicedi pace, che in genere emette sanzioni “miti”, co-me quelle della detenzione domiciliare o del lavo-ro di pubblica utilità, accanto alla tradizionale pe-na pecuniaria.

Le anomalie non finiscono qui. La nuova normaprevede tra l’altro una deroga alla generale disci-plina del nulla osta del giudice all’espulsione e aquella della sentenza di non luogo a procedere peravvenuto allontanamento. Infatti il comma 4 delnuovo articolo 10 bis stabilisce che, ai fini dell’ese-cuzione dell’espulsione dello straniero denunciatoper i reati di ingresso e soggiorno illegale, non è ri-chiesto il nulla osta dell’autorità giudiziaria com-

petente all’accertamento del reato. In tale ipotesi,il questore si limita a comunicare alla stessa auto-rità giudiziaria l’avvenuta esecuzione dell’espulsio-ne, e il giudice, acquisita la notizia, dovrà pronun-ciare una sentenza di non luogo a procedere.

L’iniziale disegno di legge governativo, che pre-vedeva come delitto il solo ingresso illegale, ha su-bito nella versione definitiva una duplice correzio-ne: da un lato la norma incriminatrice ha ricom-preso nella sua previsione anche il soggiorno, dal-l’altro i reati sono stati definiti come contravven-zioni punite con l’ammenda. La nuova normativa,che si applica ai cittadini di stati non appartenentiall’Unione Europea e agli apolidi, pone ovviamen-te problemi innumerevoli, di natura etica, politica,giuridica e di legittimità costituzionale.

Si tratta di problemi con i quali hanno comin-ciato a misurarsi studiosi di vario tipo, oltre che

i giudici. In proposito va citata una rivista che or-mai da più di dieci anni tratta le tematiche dell’im-migrazione, “Diritto, immigrazione, cittadinanza”.Il fascicolo monografico (2009, n. 4) dedicato allalegge n. 94 del 2009, ultimo tassello del “pacchet-to sicurezza”, contiene vari saggi dedicati al nuovoreato. Fra questi va citato in particolare quello diCarlo Renoldi, I nuovi reati di ingresso e perma-nenza illegale dello straniero nel territorio dello Sta-to. L’autore, come la generalità dei commentatori,rileva preliminarmente come le due fattispecie pe-nali si sovrappongano perfettamente alle ipotesi diinosservanza delle norme che consentono l’adozio-ne del provvedimento di espulsione amministrati-va. Se non è agevole comprendere sotto il profilotecnico lo scopo della penalizzazione di illeciti am-ministrativi che vengono integralmente conservati,i dividendi politici prodotti dall’effetto simbolicodella penalizzazione sono facilmente percepibili. Apartire dall’esame della struttura delle due fatti-specie e dai problemi processuali che le stesse pon-

gono, l’autore si sofferma poi sui profili di incosti-tuzionalità, svolgendo significative considerazionipolitico-criminali, e osservando in particolare co-me la scelta del legislatore sia quella di asservire ildiritto penale, nei confronti degli stranieri, allefunzioni di polizia preordinate alla gestione del-l’immigrazione irregolare.

Vanno segnalati anche due saggi pubblicati involumi collettanei. Nel primo di questi, Sistema pe-nale e “sicurezza pubblica”. Le riforme del 2009, cu-rato da Stefano Corbetta, Angela Della Bella eGian Luigi Gatta (pp. 576, € 39, Ipsoa, Milano2009), è contenuto il saggio di Angelo Caputo,Nuovi reati di ingresso e soggiorno illegale dellostraniero nello Stato. L’autore premette come l’in-gresso nel territorio dello stato sia consentito soloattraverso i valichi di frontiera (salvo i casi di forzamaggiore) allo straniero in possesso di valido pas-saporto o di un documento equipollente che sia

munito di un visto d’ingresso (salvo icasi di esenzione). Affronta poi tuttii problemi che la nuova norma pro-pone, da quelli più strettamente tec-nico-giuridici (la natura istantanea opermanente dei due reati, le condot-te, l’elemento psicologico) alla com-patibilità con protocolli e convenzio-ni internazionali e con principi fon-damentali della Costituzione. Capu-to rileva come il raffronto della nuo-va contravvenzione con i già esisten-ti reati di ingiustificata inosservanzadell’ordine di allontanamento delquestore riveli gravi incongruenze.Queste figure di reato (ex articolo14, comma 5 ter, testo unico) sonoinfatti caratterizzate dalla previsionedi un termine di cinque giorni entroil quale lo straniero deve ottempera-re all’ordine e dall’elemento costitu-tivo negativo descritto dalla normaattraverso la clausola dell’assenza diun “giustificato motivo” dell’inos-

servanza. Né il termine, né la previsione di un giu-stificato motivo sono previsti dall’articolo 10 bisdel testo unico. Di particolare interesse sono leconsiderazioni che l’autore svolge a proposito del-la condizione dello straniero che, regolarmente re-sidente, a un certo punto perda il lavoro. Qui lacontravvenzione di soggiorno illegale imporrà unaccertamento puntuale dell’an e del quando siamaturata la condizione di illegalità, affinché la per-dita del lavoro non si traduca automaticamentenon solo in una condizione di irregolarità, ma an-che di illegalità generalmente rilevante.

Nel secondo volume, Il “pacchetto sicurezza”2009, a cura di Oliviero Mazza e Francesco Viganò(pp. XXIV-622, € 56, Giappichelli, Torino 2009),Luca Masera, nel saggio “Terra bruciata” attorno alclandestino: tra misure penali simboliche e negazio-ne reale dei diritti, evidenzia come nell’ambito del-le ultime numerose modifiche normative il dirittopenale giochi un ruolo tutto sommato marginale,anche se di rilevante significato simbolico. Da unlato, infatti, ben difficilmente il migrante sarà ingrado di pagare la multa inflittagli, dall’altro l’e-spulsione applicabile come misura sostitutiva sa-rebbe stata comunque da realizzare in mancanzadi un valido titolo di soggiorno. In particolare,l’autore spiega in modo ineccepibile come sia deltutto infondato un argomento dei sostenitori delnuovo reato, quello secondo cui questo avrebbeun forte effetto deterrente nei confronti dei futurimigranti. Nella realtà, infatti, lo straniero che entraillegalmente in Italia, con la speranza di rimanervi,non fa nessuna distinzione tra un’espulsione deter-minata da un provvedimento amministrativo eun’espulsione conseguenza di una contravvenzio-ne penale. ■

[email protected]

G. Palombarini è procuratore generale aggiunto presso la Corte

di cassazione; è stato fra i fondatori di Magistratura democratica,

Negli ultimi vent’anni, a fronte dell’espandersidell’immigrazione extracomunitaria in Italia,

l’idea di introdurre nell’ordinamento una nuovafattispecie penale di incriminazione dell’ingresso edel soggiorno irregolari si è periodicamente ripro-posta, fino a ieri senza troppa convinzione e senzatroppa fortuna. Per la verità, nel 1993, con il co-siddetto “decreto Conso”, si era prevista una san-zione penale per la sottrazione volontaria ai con-trolli di frontiera, ma la disposizione venne abban-donata dal governo del tempo ancora prima dellaconversione del decreto nella legge n. 296/1993.Da allora fino al 2009 l’ingresso e la permanenzairregolare dello straniero sono stati considerati il-leciti amministrativi, ai quali erano collegate con-seguenti procedure di espulsione.

Peraltro, nel corso di questo decennio il ricorsoallo strumento penale, in funzione di esigenze dirassicurazione e contemporaneamente di maggioreefficacia della repressione di questacategoria di emarginati, non è manca-to. Così, nel 2004 la già esistente con-travvenzione di inottemperanza al-l’ordine di espulsione emesso dalquestore era stata trasformata in undelitto punito con la reclusione dauno a quattro anni, con arresto obbli-gatorio e giudizio direttissimo. Classi-co esempio di una giustizia penale ra-pidissima nel quadro desolante diuna generale inefficienza.

La nuova maggioranza di governoscaturita dalle elezioni politiche delmaggio 2008, nell’ambito di un piùampio “pacchetto sicurezza”, con lalegge n. 94 del 15 luglio 2009 (dispo-sizioni in materia di pubblica sicurez-za), oltre ad accentuare alcuni aspettirestrittivi della normativa precedente,ad esempio portando da sessanta acentottanta giorni la possibile duratadella detenzione amministrativa neiCie (centri di identificazione edespulsione), ha introdotto il nuovo reato, che qual-che studioso ha collocato nella categoria, pensatain questo inizio di secolo, del “diritto penale delnemico”.

Così, fra le modifiche apportate al testo unicodelle disposizioni concernenti la disciplina dell’im-migrazione e le norme sulla condizione dello stra-niero, approvato con decreto legislativo n. 286 del25 luglio 1998, noto come “legge Turco-Napolita-no”, vi è quella che, con l’inserimento in quel testodi un articolo 10 bis, prevede il reato di ingresso esoggiorno illegale nel territorio dello stato. “Salvoche il fatto costituisca più grave reato, lo stranieroche fa ingresso ovvero si trattiene nel territoriodello Stato, in violazione delle disposizioni del pre-sente testo unico nonché di quelle di cui all’artico-lo 1 della legge 28 maggio 2007, n. 68, è punitocon l’ammenda da 5.000 a 10.000 euro”.

Per rendere più severa la nuova previsione si è spe-cificato, nella stessa norma, che “al reato di cui alpresente comma non si applica l’articolo 162 del co-dice penale”, vale a dire quello che prevede la possi-bilità, per il contravventore, di pagare prima dell’a-pertura del dibattimento o del decreto di condannauna somma pari al terzo del massimo della pena, conconseguente estinzione del reato. Pertanto, quasi avoler ribadire, anche con questa limitazione, che or-mai esiste nel nostro paese un diritto penale specialeper gli stranieri extracomunitari, per costoro siesclude la possibilità di ricorrere all’oblazione, gene-ralmente prevista. La violazione del principio dieguaglianza, ma anche di quello di ragionevolezza,ha una spiegazione ben precisa: la conseguenza delreato che non si può estinguere è l’applicazione del-l’espulsione a titolo di sanzione sostitutiva. Con unaparadossale novità: che diversamente da quanto èprevisto per la generalità di tal genere di sanzioni,per lo straniero sarà possibile sostituire alla pena pa-trimoniale una ben più grave misura, direttamenteincidente sulla libertà personale.

N. 7/8 8

I problemi costituzionali, etici e politici del reato di ingresso e soggiorno clandestino

Il diritto penale del nemico

di Giovanni Palombarini

Seg

na

li-

Dir

itto

IMPA 7-8 2010 ok 23-06-2010 10:38 Pagina 8

Page 9: 61191478-10-07-INDICE

ti (Venti anni dopo, in L’Europa e la Russia avent’anni dall’89, a cura di Roberto Gualtieri e Jo-sè Luis Rhi-Sausi, pp. 324, € 25, il Mulino, Bolo-gna 2009) – ha comportato un annacquamento delmodello sociale europeo come risultato dell’allar-gamento”. E ciò non poteva non tradursi in unadiffidenza dell’opinione pubblica, nell’impulso adavvertire l’Europa come soggetto ostile. Al positi-vo avanzamento istituzionale non ha insomma cor-risposto un’azione più efficace e percepibile dicontrasto dei fattori di crisi economica e lacerazio-ne sociale. E non è neppure apparso più solido illivello sovranazionale del potere europeo. Il temaè cruciale e investe anche la riflessione teorica su-gli svolgimenti e il futuro dell’Unione. Non inci-dentalmente, si è conquistato uno spazio inusitatoanche nella manualistica accademica, in Italia nonabbastanza coltivata e ora sospinta a un travaglia-to aggiornamento.

Tra le pagine al riguardo più acute si vedanoquelle di Guido Montani (L’economia politica del-l’integrazione europea, pp. 246, € 21, Utet, Torino2008), che non ha esitato ad additare, con unabuona dose di speranzosa fiducia, l’Unione come ilprimo ancorché imperfetto esperimento del “nuo-vo ordine internazionale fondato sul paradigmadella democrazia sovranazionale”. Quando poi siva a definire questa dimensione sovranazionale, ri-tagliandole una sua specificità, non è agevole né daprecisare in dottrina né da realizzare in pratica.Sullo scandaloso nuovo termine si intrattiene An-tonio Grilli, docente e funzionario a Bruxelles, inun testo (Le origini del diritto dell’Unione europea,pp. 242, € 13,50, il Mulino, Bologna 2009) che ri-percorre gli sviluppi del diritto europeo nel decen-nio istitutivo della Comunità.

Elo fa argomentando che quella nozione, conia-ta da Schuman, Monnet e Paul Reuter, segna-

lava, nel suo originario contesto, “il divenire stori-co di un’entità in cammino verso il federalismo,ma che tale traguardo non aveva raggiunto”. E che– oggi siamo autorizzati a dirlo – non avrebbe mairaggiunto. Dunque una “terza via”, fra architettu-ra federalistica e dinamica internazionalistica.

Su questi aspetti è notevole il contributo di unmanuale che proviene da una facoltà di sociolo-gia, quello di Marco Brunazzo (Come funzional’Unione europea, pp. 230, € 22, Laterza, Roma-Bari 2009). In esso, analizzando “il sistema politi-co più complicato che si trovi oggi al mondo”,scarta la definizione dell’Unione come classicaorganizzazione internazionale, non accetta la suasemplicistica identificazione quale peculiare “si-stema politico” e opta per classificarla “sistema digovernance”, nel quale l’europeizzazione delledecisioni deriverebbe in primo luogo dai vincolicostrittivi imposti appunto dalla sedi sovranazio-nali: “E se è vero che – nota l’autore realistica-mente – le radici dell’albero della politica restanoancora fermamente ancorate al livello nazionale,è anche vero che la sua chioma cresce sempre piùal di fuori di esso”. Si tratta di un’impostazionespigliata, calata empiricamente nelle fecondecontraddizioni di processi non irreggimentabili

in formule di rito. È lo stesso spirito che si rin-viene in un bel volume curato da Michele Cam-popiano, Luca Gori, Giuseppe Martinico edElettra Stradella (Dialoghi con il presidente, pp.477, € 25, Edizioni della Normale, Pisa 2008),nel quale allievi della Normale e della ScuolaSant’Anna di Pisa hanno, in omaggio a CarloAzeglio Ciampi, raccolto una serie di interventitesi a verificare nel presente tematiche care all’il-lustre ex compagno di collegio. Edoardo Bressa-nelli si fa interprete del sentire diffuso delle piùgiovani generazioni auspicando che il giusto ri-chiamo a “non perdere di vita l’eccezionalità del-le conquiste comunitarie” si accompagni a una“riflessione quotidiana” sull’Europa e si abban-doni pertanto il cumulo di propaganda retorica, ilquale, oltre che intollerabile nelle intonazioni, ècrudamente smentito dai fatti.

La sintonica posizione di una giovane formata-si all’Istituto universitario europeo di Firenze edocente a Brema (Patrizia Nanz, Europolis,pp. 266, € 25, Feltrinelli, Milano 2009) ha avu-to largo ascolto per l’innesto di recenti e sug-gestive categorie in un quadro di analisi spessoimbrigliato da ripetitivi e abusati dilemmi. Ilsenso di appartenenza a un’“identità europeapastiche” si va moltiplicando vertiginosamentee sono a portata di mano “politiche deliberati-ve” fondate su “pratiche istituzionalizzate dicittadinanza che promuovano l’autoriflessivitàculturale, l’apertura alla diversità e il dialogopolitico inter-nazionale”. Costruendo occasio-ni di una cittadinanza attiva e consapevole siavrà non un demos di ottocentesca memoria,ma una quantità di cittadine e cittadini acco-munati da condivise esperienze. E l’Europa siaffermerà irreversibilmente, come in gran mi-

sura già avviene, in un vissuto che potrà teneresullo sfondo, riducendone l’incidenza, ambiguitàistituzionali forse ineliminabili, e connesse ai ca-ratteri stessi della composita vicenda europea. Èsignificativo che anche Arturo Colombo, al ter-mine di un’aggiornatissima rassegna su ambiziosedottrine e graduali acquisizioni in tema di Euro-pa (Voci e volti dell’Europa, pp. 199, € 21, Fran-coAngeli, Milano 2009), concluda, con PadoaSchioppa, archiviando l’annosa “ossessione iden-titaria” sulle radici e indicando piuttosto l’urgen-za di un’“azione paziente e ricca di immaginazio-ne di nuovi giardinieri”.

Luisa Passerini, in uno smilzo quanto succoso eagevole libello (Sogno d’Europa, pp. 125, € 12,Rosenberg & Sellier, Torino 2009), ha del restoriassunto anni di ricerche enfatizzando l’obiettivo(sacrosanto) di declinare il tema Europa in una vi-sione sempre meno interna e arrovellata su se stes-sa. Si consideri la questione dal punto di vista delconfronto intellettuale, la si prenda in esame sulpiano sociale o in chiave antropologico-simbolica,“emerge in modo decisivo – a suo parere – la stes-sa indicazione: la necessità di fondere il nostrosenso di appartenenza all’Europa in un senso diappartenenza al mondo, e di integrare nell’euro-peità quello dell’altro, dentro e fuori di sé”. Perconquistare un tale arricchimento di coscienza, unTrattato, con i suoi calibrati equilibri e i suoi do-saggi tutti dovuti ai condizionamenti statuali e al-le sottigliezze procedurali, è appena una premes-sa. Non priva di effetti positivi, se lo “spirito pub-blico” sarà messo in grado di superare delegitti-manti incertezze e di svincolarsi da un’idea difen-siva e chiusa dell’Unione: non serve recriminaresu un’utopia irraggiungibile. Purtroppo i ceti diri-genti nazionali mettono perlopiù in scena contro-versie e attriti. L’atteggiamento, segnatamente del-la Germania, in ordine alla crisi, pericolosa pertutti, della Grecia ha evidenziato quanta strada re-sti da fare perché la conclamata sovranazionalitàeuropea si incarni in pertinenti controlli e solidalideterminazioni. ■

[email protected]

R. Barzanti è studioso di storia e politica contemporanea Seg

na

li-

Pol

itic

a

All’entrata in vigore del Trattato di Lisbona (1°dicembre 2009) non sono seguiti atti e orien-

tamenti tali da segnalare concretamente un cambiodi passo, la volontà di rispondere alle aspettativecreate. L’Unione Europea sembra destinata a unacondizione di perenne fragilità, a continui alti ebassi, a un deludente andirivieni tra accelerazioniriformatrici e chiusure intergovernative. Si deveconcedere che il funzionamento di un’atipica go-vernance sovranazionale abbia sempre un certogrado di farraginosità, dovuto tra l’altro a un nu-mero di partecipanti accresciuto a dismisura e inprocinto di dilatarsi per ulteriori adesioni. Ma sa-rebbe stato saggio affrontare queste scontate diffi-coltà cogliendo al meglio le chance innovative pre-senti nelle due parti del testo e particolarmente inquelle riferite al funzionamento e alla guida degliorgani dell’Ue. Aver scelto per presidente del Con-siglio europeo l’ignoto ai più ex primo ministrobelga Herman van Rompuy, e aver conferito l’in-carico di Alto rappresentante dell’Unione per gliaffari esteri e la politica di sicurezza alla disar-mante baronessa Catherine Margaret Ashton, hapiuttosto confermato il disegno di tenersi bassi eil proposito di non oscurare con personalità giàben caratterizzate il ruolo di comprimari tutt’al-tro che ridimensionati. Così il neopresidente delConsiglio dovrà più che mai vedersela con lapresidenza semestrale di turno, in una sorta diinedito consolato, e la vicepresidente della Com-missione, nelle simultanee vesti di madame Pesc,combinerà le sue iniziative, a oggi assai poco per-cepibili, con gli equilibrismi di Barroso, che inmolti avrebbero voluto sostituire.

La migliore convalidazione delle modifichecontenute nel Trattato sarebbe stata una concor-de impronta di novità nelle scelte, a partire dallepersone chiamate a dirigere la macchina, in una fa-se nella quale la personalizzazione della politica hauno spazio sempre più riconosciuto e non inevita-bilmente da esorcizzare. Invece l’Unione sembraprediligere la ricerca di fantasmi che aumentinomistero e lontananza. Dopo l’accidentato periodoche un diplomatico-protagonista ha chiamato“ventennio costituzionale” (Rocco Antonio Can-gelosi, Il ventennio costituzionale dell’Unione Eu-ropea, pp. 306, € 16, Marsilio, Venezia 2009), era-no necessari gesti chiari e più eloquenti di qualsia-si norma. Cangelosi, che ora presta la sua operanello staff del Quirinale, in uno degli scritti dellaraccolta richiama l’opportunità di “una visionelunga dell’evoluzione istituzionale” in grado d’in-serire la stessa ricezione del Trattato in una lineadotata di respiro e preveggenza e di evitare quindidi registrarlo come un risultato di per sé sufficien-te. Tanto più in una situazione – la crisi greca è ilfatto più drammatico e sintomo di un’allarmantedebolezza – non ordinaria. L’ambasciatore SilvioFagiolo (L’idea dell’Europa nelle relazioni interna-zionali, pp. 250, € 24, FrancoAngeli, Milano2009), anch’egli a conclusione di una non breveesperienza diretta del lavorio diplomatico che hapreceduto il faticato parto, rilancia l’ipotesi cara acerta tradizione federalistica italiana, di un funzio-nale sdoppiamento delle velocità d’integrazione:“Il Trattato di Lisbona offre gli strumenti per rea-lizzare una piccola Europa dentro il mare di unagrande Europa, con l’obiettivo di farne una fede-razione di Stati”. Viene da chiedersi se questa sa-rebbe davvero una soluzione. Da chi sostenuta? Ecome attuata se non al prezzo di emarginare glistati che si trovano ad affrontare gli ostacoli piùimpegnativi e che più hanno bisogno di solidarietàe coesione? Una simile ipotesi oggi è tardiva e pro-babilmente avrebbe conseguenze disgreganti.

Il fatto è che il processo di inclusione dei nuovistati avrebbe dovuto essere gestito con più accor-tezza. Invece ha prevalso, al di là delle elettrizzan-ti dichiarazioni, una logica “neocolonialistica” – laparola è forte – e i tempi affrettati hanno favoritoun mutamento di sostanza delle politiche. “La vit-toria dell’iper-liberismo in Europa centro-orienta-le – autorevolmente sostiene Domenico Mario Nu-

N. 7/8 9

Punti di vista sulla sovranazionalità europea

Più delle radici servono nuovi giardinieri

di Roberto Barzanti

IMPA 7-8 2010 ok 23-06-2010 10:38 Pagina 9

Page 10: 61191478-10-07-INDICE

Per ottenere il suo scopo il curatore ha ignorato,per i motivi già detti, l’ordinamento cronologico deitesti che era stato adottato per l’edizione Einaudi, eha scartato anche la suddivisione in testi “editi” e“inediti” durante la vita dell’autore. Vi è sempre unmotivo che induce uno scrittore a pubblicare o nonpubblicare un testo, o una circostanza che spiegaper quale ragione un certo scritto sia rimasto inedi-to, e questi argomenti Cortellessa intendeva non af-frontarli. Faccio pochi esempi. La distinzione traediti e inediti lo avrebbe costretto a mettere fra gliinediti, nella seconda parte del volume, il pastonedel Signor Dudron (edito postumo nel 1998), e fra itesti editi nella prima parte, i brillanti pezzi narrati-vi pubblicati negli anni trenta e quaranta, e soprat-tutto a spiegare per quale motivo il libro nella suaversione finale rimaneggiata rimase inedito. Loavrebbe anche costretto a pubblicare nella primaparte, in ordine cronologico, come aveva fatto Fa-

giolo, tutti i numerosi saggi teorici e storico criticiusciti in varie riviste italiane ed europee dal 1918-19in avanti, mentre invece egli intendeva privilegiaresolo la silloge del 1945 (Commedia dell’arte moder-na) e relegare gli altri saggi in una zona secondaria.Infine, lo avrebbe probabilmente obbligato a dareuna posizione di rilevo ai Manoscritti parigini, i testilirico-teorici più interessanti e straordinari non solodi de Chirico, ma forse di tutta la letteratura artisti-ca del Novecento.

In parte ceduti dall’autore nei primi anni venti aPaul Éluard (e poi da questi a Picasso) e in par-

te giunti non si sa come in possesso di JeanPaulhan e di altri protagonisti del surrealismo, iManoscritti videro la luce in forma incompleta nel1955 nella monografia di James T. Soby, in tradu-zione inglese e a insaputa dell’autore, e con il suoconsenso nel 1973 in tedesco in Wir Metaphysiker.A rigore si tratta di testi editi durante la vita del-l’artista. Non essendo intenzione del curatore darloro una posizione di rilievo, conveniva relegarli infondo al volume superando anche la distinzionetra editi e inediti.

Ecco allora il nuovo criterio, che ha tutto il sa-pore di uno stratagemma: mettere prima i “libri”usciti quando de Chirico era in vita, oppure da luipreparati per essere pubblicati (cosa tutta da veri-ficare) anche se non lo furono, e dopo tutti gli al-tri scritti chiamati, chissà perché, “dispersi”. La di-stinzione inaudita, puramente formale, tra “libri”e “non libri” permette a Cortellessa di pubblicarein posizione privilegiata i pochi saggi vecchi inclu-si da de Chirico nel 1945, senza troppo rispettarela loro cronologia e spesso con sensibili modifiche,in Commedia dell’arte moderna, e di metterli alla

pari con un gruppo di testi reazionari e talvoltavenati di razzismo (per esempio l’equazione ebrei= arte moderna) scritti tra il 1941 e il 1945. La pre-tesa non dimostrabile che la parola “Fine” nell’ul-tima pagina di un fascicolo significhi che “era sta-to preparato per essere pubblicato” gli permette diinserire il pastone rimasto inedito e continuamen-te in trasformazione di Dudron tra le opere mag-giori e più significative solo perché esso contiene itardi pronunciamenti teorici del maestro. “Per ri-spettare la volontà dell’autore” Cortellessa asse-conda de Chirico nel far credere che tutta la suacarriera fosse proiettata verso il problema del me-stiere e della tecnica. Il criterio stesso della sceltafatta nel 1945, che scartava scritti di estremo inte-resse, mirava a costituire un corpus primario ri-spetto a uno secondario che si doveva supporremeno importante. Esattamente ciò che succede inquesta edizione, con i testi che vengono definiti

“dispersi” e che il lettore è in-dotto a credere meno impor-tanti.

Aver sottratto l’opera lette-raria di de Chirico alla sua sto-ria, al contesto in cui è nata ealla sua naturale cronologia èmolto grave e produce una di-sorientante confusione in chinon sia già uno specialista.Non si capisce quali studi ab-biano abilitato Cortellessa acurare questa edizione, com-pito al quale si dimostra deltutto impreparato. Pessimi eincompleti gli apparati critici,che non consentono il con-fronto tra le varie forme diespressione e tra i registri lin-guistici adottati, né ci informa-no delle varianti, dei tagli, del-le aggiunte e delle censurepresenti nelle diverse edizionie nelle varie lingue (di Dudronviene omesso, non si sa perquale motivo, tutto il primonucleo francese manoscritto).Nel testo della Commedia vi

sono persino i tanti refusi dell’edizione 1945: ilcuratore non se n’è accorto e li ha ripubblicati ta-li e quali, con il risultato che spesso il dettato è in-comprensibile. La bibliografia manca di decine divoci (non c’è neanche Wir Metaphysiker), ignorai primi frammenti editi di Dudron nel 1933, e tra-scura innumerevoli traduzioni apparse in Europatra le due guerre. Altro grave errore è il non averincluso nel volume i testi lirici e poetici, rimanda-ti ad altra sede, come se la “scrittura” di un pit-tore non fosse un tutto unico, comprendente pro-sa teorica e critica, narrativa e illuminazioni poe-tiche, da studiarsi cronologicamente insieme conla sua espressione pittorica.

I Manoscritti parigini sono pubblicati in origi-nale francese senza spiegare il criterio adottatoper stabilirne la successione cronologica, con uncommento casuale, senza segni diacritici e conerrori di trascrizione. Le traduzioni sono racca-priccianti. E se di questi testi, che sono i più in-teressanti di tutta l’opera di de Chirico, si è datauna traduzione sciatta e piena di errori che nonne conserva lo stupore né la precisione dei ter-mini e la sottigliezza dei passaggi logici, è perchéai responsabili di questa edizione non interessa-va mettere i lettori in grado di assaporare il gran-de de Chirico creatore di tanta parte dell’imma-ginario artistico del XX secolo, ma solo di pro-pugnare le ragioni del pictor optimus che si tra-stullava con la “bella materia tinta”, deconte-stualizzando e mettendo in posizione secondariail de Chirico lirico e visionario, e in special mo-do quello degli anni ferraresi, molto vicino al da-daismo e al futuro surrealismo. ■

P. Baldacci è critico d’arte

Oltre che pittore tra i più influenti del Nove-cento, Giorgio de Chirico è stato uno scritto-

re singolarissimo. I suoi testi spaziano dalle rifles-sioni che accompagnano la nascita dell’arte meta-fisica alle prose liriche che ne registrano sogni e vi-sioni, dai testi teorici e polemici agli scritti di criti-ca e di storia dell’arte, dalle straordinarie impres-sioni di Parigi e di New York alle autobiografie, di-verse e spesso in contrasto tra loro. Ma soprattut-to brillano i racconti Le fils de l’ingénieur e Le sur-vivant de Navarin del 1928, il cosiddetto “roman-zo” Hebdomeros (1929) e i frammenti narrativi diMonsieur Dudron (1933-1940), opere nelle qualide Chirico, dietro un fitto schermo di parabole, al-legorie e simboli, trasferì ricordi e confessioni sin-cere e ricche di introspezione, come invano cer-cheremmo negli scritti autobiografici.

Nessuna nostra casa editrice aveva finora conside-rato l’opportunità di presentarne le opere complete,ma nel 1973 in Germania (WirMetaphysiker, Propyläen Verlag)e nel 1985 in Italia (Il meccani-smo del pensiero. Critica, polemi-ca, autobiografia. 1911-1943, acura di Maurizio Fagiolo del-l’Arco, Einaudi) erano uscitedue raccolte parziali di ottimaqualità. È quindi con grande in-teresse che si attendeva il primotomo dell’opera omnia promos-sa dalla Fondazione Giorgio eIsa de Chirico e affidata all’edi-tore Bompiani. Il volume (Gior-gio De Chirico, Scritti, Vol. 1,1911-1945, a cura di AndreaCortellessa, pp. LI-1069, € 50,Bompiani, Milano 2009, edizio-ne diretta da Achille Bonito Oli-va) è invece la prova di come siapossibile dare apparenza scienti-fica a un prodotto di basso livel-lo e dimostra come un criterioeditoriale sbagliato possa influi-re pesantemente sulla compren-sione di un autore.

Tutta la vicenda artistica dide Chirico è accompagnata incontrappunto dalla scrittura. I suoi testi seguono eriflettono lo sviluppo della pittura, dai primi ap-punti francesi in cui spiega il meccanismo della“rivelazione” fino ai saggi polemici degli anni qua-ranta con i quali scende in guerra contro l’arte mo-derna sostenendo che l’importanza di un quadroconsiste solo nella qualità della sua pittura. Qua-lunque sia il giudizio che si vuol dare di questa pa-rabola artistica, compito del curatore di un’edizio-ne critica, dovrebbe essere quello di fornire a chistudia tutti gli strumenti per orientarsi e capire levariazioni di un pensiero nel corso del tempo, leloro motivazioni e anche gli eventuali ripensamen-ti che possono emergere da varianti e censure ap-portate ai testi in periodi diversi. Tanto più quan-do si tratti di un artista i cui “voltafaccia” sono sta-ti oggetto di polemiche e di valutazioni contra-stanti. Invece, l’opera che ci troviamo davanti, in-completa, scorretta nel metodo e piena di errorimateriali, sembra concepita più per ostacolare cheper aiutare la comprensione dell’autore.

Ciò avviene perché si è voluto non solo spezzarel’ordine cronologico puro dei testi, editi e inediti,che avrebbe favorito una valutazione oggettiva delpercorso di de Chirico e delle sue motivazioni, masoprattutto privilegiare una selezione di scritti rac-colti dall’autore per dare di sé una certa immaginenel 1945 sotto il titolo Commedia dell’arte moder-na, e insieme promuovere a opera di primaria im-portanza Il Signor Dudron, un pastone degli annicinquanta e sessanta, mai pubblicato dall’autore,che salda i vecchi bellissimi frammenti narratividegli anni trenta con interminabili tirate senten-ziose sulla pittura, trascrizione di vari saggi pole-mici degli anni quaranta già compresi in Comme-dia, messe in bocca alla nuova “musa” Isabella Far.

N. 7/8 10

Giorgio de Chirico scrittore

La bella materia tinta

di Paolo Baldacci

Seg

na

li-

Ed

itor

ia

IMPA 7-8 2010 ok 23-06-2010 10:38 Pagina 10

Page 11: 61191478-10-07-INDICE

in un vieto meridionalismo, perdendo l’agganciocon l’Europa. Per quanto riguarda il (negato)rapporto con il mare, Silvio Perrella, nell’intro-duzione alla ristampa del 2002 di Mistero napo-letano nei “Tascabili” Einaudi, ricorda come ilclima degli anni cinquanta fosse già in Il marenon bagna Napoli di Anna Maria Ortese, nel qua-le, in un suo ritorno in città (come quelli di Reain occasione dei propri libri), l’autrice cerca gliintellettuali della fervida Napoli postbellica,quella pattuglia di cui parla anche Rea: LuigiCompagnone, Renato Caccioppoli, DomenicoRea, Enzo Striano, Raffaele La Capria, Mario Po-milio, Michele Prisco. È attraverso le parole diCompagnone che Rea, nel suo Mistero, ci resti-tuisce l’immagine di Francesca Spada in uno conNapoli: “Del resto perché credi che si ucciseFrancesca? Era una donna trascinante. Ricordocon precisione questa sua forza di trascinamento,

questa sua tensione interna, questo suo fuoco, que-sto suo continuo cercare. Fu uccisa dalla solitudine.Napoli è una città dove la solitudine ha qualcosa dicorposo, di solido, di materiale. È una moltitudinepesante, non lieve ma greve, non trasparente maopaca, non silente ma rumorosa. È una solitudinenella ressa, nel rumore, nel disordine”.

Se il primo romanzo della trilogia si chiude conuna prospettiva speranzosa, emblematicamenteracchiusa nella giornata vittoriosa di Bassolinoeletto sindaco nel 1993, tale prospettiva si spe-gne con l’ultimo romanzo, passando con La di-smissione attraverso la paradossale vicenda dellachiusura di uno stabilimento da poco rinnovato.

L’impianto dell’Ilva, come a Genova o a Ve-nezia, è sorto sul mare, sacrificando incom-

parabili angoli naturali alla logica dell’industria-lizzazione. La chiusura di Bagnoli era la fine diun mito operaio meridionale: una “fabbrica-sim-bolo”, una “fabbrica-speranza”, che rappresen-tava la via per ricongiungere Napoli all’Europa.Dunque: “Il mito della fabbrica. Più precisa-mente, della fabbrica che entra nel vicolo e lobonifica compiendo il miracolo di modernizzarefinalmente la città”, dice Rea nella sua nota.L’impianto viene venduto ai cinesi, e il cronistane narra “le ultime pulsazioni, gli estremi sussul-ti”, con la testimonianza del tecnico VincenzoBuonocore che affronta il mostro da smontare,impacchettare e spedire in Cina, lasciando deso-lata Bagnoli, che così “era diventata automatica-mente un nulla, un non-luogo, un’assenza. So-prattutto, un’assenza di futuro”.

E siamo a Napoli Ferrovia, per il quale Rea siserve di un altro Virgilio: uno straniero, di origi-ne napoletana, un “tipo molto di destra, un nazi-skin”, detto Caracas per la nascita venezuelana,attraverso il cui sguardo riscoprire la città. Pur didestra, Caracas (che si converte all’islam), per lasua dedizione al mondo degli ultimi ricorda unoscrittore che è l’altro genius loci del libro: LuigiIncoronato, comunista, anche lui napoletano“importato”, nato a Montreal approda nel 1943a Napoli dove finirà suicida. La trasformazionestraniante di Napoli si apprezza nella tensionetemporale tra Scala a San Potito, che Incoronatopubblicava nel 1950, e il romanzo di Rea: la fau-na sottoproletaria di San Potito rivive nella bru-licante umanità che popola i dintorni della sta-zione centrale. Essa però non è più indigena, maun misto dei popoli giunti a Napoli, che riesce atrasformarsi restando se stessa e a sua volta tra-

sformando chi la trasfor-ma: “No, non è affattomutata. Questa è unacittà-spugna, capace di ap-porre il proprio sigillo suogni importazione, di ri-durre alla propria misurachiunque la scelga per ca-sa; questa è una città cheinghiotte, metabolizza fin-gendo di farsi essa stessastraniera via via che inte-gra lo straniero, lo divo-ra”. Ecco la Napoli multi-culturale quando Caracasguida lo scrittore nella vi-sita al mercato domenicaledella Duchesca, che siapre alle spalle della statuadi Garibaldi, all’altro latodella grande piazza dellastazione. E allora, tra piaz-za e mercato, vai, senza ac-corgertene, dall’Est euro-peo al Maghreb, e Napoliappare davvero la piùgrande città araba d’Euro-pa. Ma qui il processo dimeticciamento sembra an-cora pienamente in atto, a

differenza di Londra, Parigi o anche Genova,dove la presenza degli stranieri si è già istituzio-nalizzata. A Napoli siamo ancora nel brodo pri-mordiale di culture e lingue. Città dalla quale funecessario partire e alla quale è indispensabiletornare, seppure sempre per ripartirne, dopoun’occhiata al mare: “Il furto del mare”, una del-le cose che più pesano a Rea, che pensa a un im-pensabile ma simbolico abbattimento della pa-lazzata Ottieri: “Il ricongiungimento del polomercantile al suo mare non più confiscato dallastrategia militare avrebbe potuto trasformarsi inuna bandiera: Napoli che si riappropria delle suetradizioni, che ripristina la sua vocazione di por-to di pace e di commercio aperto a tutto il Medi-terraneo e oltre”.

Il che, alla fine del terzo romanzo, ci riporta al-l’ossessione del primo, un’ossessione nella qualeincarnare Parthenope volta a volta in una donnadiversa (Francesca, Marcella, Rosa: “Tutte belle.Tutte dannate. Tutte specchio di quella Napoli cheforgiò i loro rispettivi destini a immagine e somi-glianza del proprio”, si legge nella nota) e che Reasa modulare da maestro dal diario al romanzo-sag-gio al romanzo-inchiesta. Con il bisturi impietosa-mente ma lucidamente scava nel corpo malato del-la città. In un modo scomodo che non impedì che,alla presentazione di Mistero napoletano, il TeatroMercadante fosse stracolmo. Una dettagliata esat-tezza e una passione, le sue, di cui si sente bisogno.Anche a Napoli. ■

[email protected]

E. Rega è insegnante e critico letterario Seg

na

li-

Let

tera

tura

La Napoli di Ermanno Rea va dalla Bagnoliindustriale che ha ospitato l’Ilva alla stazione

centrale, nucleo pulsante dei traffici (leciti enon) gestiti prima da napoletani e oggi da immi-grati (la ferrovia, però è ormai “tutta Napoli”).Nella città possiamo trovare due cuori, come nelcorpo dei grossi cetacei, almeno cuori che stannoa cuore a Rea: l’angiporto della galleria UmbertoI, dove avevano sede “L’Unità” e il Partito co-munista; e piazza Mercato, naturale apertura almare, vocazione negata dalla palazzata Ottieriche l’imprenditoria cementifera di Achille Lauroha eretto chiudendo la prospettiva marina, e ma-rittima, per spostare i propri traffici nel porto diGenova.

Questa è la topografia di carta che lo sguardoe la memoria di Rea stendono sulla città reale eche viene disegnata in Rosso Napoli. Trilogia deiritorni e degli addii (pp. 1027, € 15, Rizzoli, Mi-lano 2009), nel quale loscrittore raccoglie i tre ro-manzi dedicati alla suacittà e che involontaria-mente sono andati a costi-tuire una trilogia o i capi-toli di un unico “romanzofluviale”: Mistero napole-tano (Einaudi, 1995); Ladismissione (Rizzoli,2002); Napoli Ferrovia(Rizzoli, 2007). Il “misteronapoletano” riguarda ilperché una città, grande efebbrile nel cuore del Me-diterraneo, d’improvvisoveda fermarsi la propriastoria, divenendo “la cittàdei destini incompiuti”:come scrive nella nota in-troduttiva dell’edizione“Bur”, Rea tenta di co-struire un “teorema” chelo aiuti “nella difficile artedi decifrare l’eterna nottedella città nella quale sononato, una sorta di notteboreale che davvero nonfinisce mai, destinata aprotrarsi fino a quandonon accadrà quella ‘cosa’ miracolosa che rimet-terà in moto le lancette paralizzate degli orologi.Lo so bene: la Storia arriva laddove è tutto unpopolo a invocarla, con coraggio e determinazio-ne etica e politica”. Napoli diventa anche me-tafora nazionale, come sottolinea Giulio Ferroninella prefazione: “Napoli è un vero e propriocrocevia della vita e della cultura italiana dell’ul-timo secolo, luogo reale e simbolico, tempio del-la lacerazione e della speranza (…) l’Italia puòcredere di sentire Napoli come una sorta di cor-po estraneo, come un male radicale da isolare emagari da estirpare, ma deve sempre tornare a ri-conoscersi in Napoli, vedere segnato dentro ildestino di Napoli il proprio stesso destino, leproprie contraddizioni, i propri scatti vitali e leproprie rovine”.

Il “teorema” (non teoria preconcetta) di Rea siforma inseguendo la vicenda di Francesca Spadain Mistero napoletano. Giovane comunista, colla-boratrice della redazione napoletana dell’“Unità”,moglie di Renzo Lapiccirella, militante ereticodel Pci napoletano del dopoguerra, finita suicidacon una messinscena teatrale: la stanza addobba-ta di fiori e vicino una poesia di Rilke, l’Alcesti;come a dire che si toglieva di mezzo per nonnuocere al suo uomo, anche per colpa di lei mal-visto nel partito. Nella morsa della Guerra fred-da, Francesca è vittima dell’immobilismo napo-letano. Da un lato gli americani che, con la com-plicità fattiva di Lauro, chiudono la città al mareper farne una base militare; dall’altro lo stessoPci che si chiude sempre più nel centralismo sta-linista e si arrocca, nella specificità napoletana,

N. 7/8 11

Napoli nell’opera di Ermanno Rea

Il corpo malato della città

di Enzo Rega

IMPA 7-8 2010 ok 23-06-2010 10:38 Pagina 11

Page 12: 61191478-10-07-INDICE

su visioni, rivelazioni e relativi paradossi, sul dop-pio e sulla reincarnazione, sul Grande Contagio;La morte riunisce il mesto corteo delle (non-)mor-te, i dialoghi oltremondani e le ansie da seppelli-mento prematuro; in Mistero sono compresi Loscarabeo d’oro e i casi di Auguste Dupin, matriceideale di ogni serialità poliziesca; mentre sotto l’e-tichetta Terrore sono riunite epopee di angoscemarinare e Il pozzo e il pendolo. Però, si è detto, lepartizioni fanno acqua. Così suona forzatura il tro-var separate certe confessioni di assassini (Il gattonero, per esempio, da Il cuore rivelatore qui inseri-to nella sezione Mistero), quelli che potremmo de-finire i racconti mesmerici (Rivelazione mesmerica,Un racconto delle Ragged Mountains e La veritàsulla vicenda del signor Valdemar) e le storie diasfissia (Perdita di fiato pare una riscrittura grotte-sca di La sepoltura prematura). Le giovani morte diIl ritratto ovale e La cassa oblunga esercitano vam-

pirismi passivi piuttosto simili a quello delle non-morte Berenice, Eleonora, Ligeia, Morella e Ma-deline radunate nell’altra sezione.

E connessioni e continui ritorni investono i per-sonaggi. Molti dei quali conoscono stati di co-scienza alterati, eccitazioni più o meno morbose,derive dei nervi o vere patologie mentali: condi-zioni frutto di peculiarità ereditarie, contingenzemetaboliche (l’eccitazione da convalescenza delnarratore di L’uomo della folla) o speciali situazio-ni emotive (L’ombra), ma altrove dell’uso di oppioo sostanze eccitanti. Come l’abuso di tè verde (benprima di Le Fanu: La cassa oblunga); e soprattuttodi quel vino che porta alla degradazione (Il gattonero), permette la vendetta (Il barile di Amontilla-do) la suscita (Hop-Frog), oppure conduce alla ne-mesi (Sei tu il colpevole).

Atornare in modo ossessivo, diversamente abbi-nati di testo in testo, sono del resto tre perso-

naggi base, in rapporto reciprocamente speculare odi doppio: anzitutto la donna del rimpianto/ritorno,sorella di sangue o di adozione, unita in sponsalitutti interiori e privi di eros; e due figure maschili,a loro volta in rifrazione, come eminentementeespresso in William Wilson, dove la scissione siconsuma a partire da una scuola labirintica a im-magine di una tortuosa interiorità affondata nel-l’infanzia. Ma, in modo più o meno enfatizzato, larifrazione corre in parecchi racconti, da L’uomodella folla (il narratore e il l’inseguito, entrambi al-la deriva della propria eccitazione) a Il cuore rive-latore (dove all’occhio velato della vittima corri-sponde la lanterna cieca dell’assassino, e i rispetti-vi battiti cardiaci echeggiano uno dell’altro). Em-blematico è poi La sfinge, sorta di Decameron lio-filizzato in una novella, dove sullo sfondo dell’epi-demia a New York i due uomini che dividono il ri-fugio sono a ben vedere due volti dello stesso Poe:e se a narrare è quello più tormentato, la chiavebeffarda e la dissoluzione dell’incubo sono fornitedall’altro, il razionalista. Se poi le figure base ap-paiono solitamente a due a due, in un caso ecla-

tante, La caduta della Casa Usher, le troviamo inscena tutte e tre: e come al ritmo di quei carilloncon figurine che la rotazione tende a fondere econfondere, ecco che in fondo riecheggiano sem-pre lo stesso dramma.

Unico limite del taglio “al nero” (che la NewtonCompton peraltro corregge con un’edizione paral-lela Tutti i racconti, le poesie e “Gordon Pym”) stain un possibile equivoco del lettore. Se infatti è ve-ro che i racconti macabri di Poe ne restituiscono lavoce più nota e amata dal pubblico, e insieme piùrispondente alle piaghe dell’anima dell’autore, ilrischio è di confondere lui con i suoi personaggi:dimenticare cioè lo scarto lucidamente corteggiatoda uno scrittore smaliziatissimo tra vita interiore eproduzione letteraria. Emblematico è il saggio Lafilosofia della composizione sulla genesi di Il corvo:opera che certo denuncia per l’ennesima volta lospettro che più inseguiva Poe, un rimpianto-vam-

piro le cui emersioni sono spesso pertur-banti e psichicamente devastatrici, ma an-che l’uso che egli sapeva trarne razional-mente, inseguendo i lettori nelle loroemozioni e malinconie. Figlio di attori (èquesta la fantasia ereditaria indicata in va-ri racconti come matrice di febbrile visio-narietà?) e ossessionato dal motivo di unamaschera strumento di drammatiche epi-fanie di verità, Poe offre nei racconti idea-li monologhi teatrali: e se l’attenzione cheil cinema gli tributerà guarda ovviamente,in prima battuta, al contenuto fantastico emacabro, è pur vero che in più occasioni(si pensi al grande ciclo di Corman conVincent Price) sceneggiature in sé nontroppo fedeli riconducono alla fonte anzi-tutto attraverso il tipo d’interpretazione,capace di proclamare le ragioni della not-te con l’elegante teatralità dei soliloqui diPoe. Le cupe cortine dei suoi letti a bal-

dacchino tirate a svelare epifanie della morte, letappezzerie illusionisticamente arabescate mosseda fremiti spettrali e gli arazzi da cui si staccano fi-gure allarmanti svelano, in qualche modo, i carat-teri del sipario.

Significativo, del resto, il richiamo alla cifra delgrottesco e arabesco, da Poe stesso introdotta nelnoto titolo della prima raccolta: quel lavoro di ce-sello da artista controllatissimo che non si esauri-sce nel travaso di angosce, e insieme un senso dispiazzamento che corteggia insieme macabro e iro-nia. A rammentare, tra l’altro, come pochi altri au-tori “neri” offrano un corpo tanto significativo diracconti ironici, sarcastici o decisamente comici.

Certo, la scrittura/racconto con i suoi arabeschistilistici è quella con cui il narratore di La cadutadella Casa Usher tenta vanamente d’intrattenerel’ospite nella notte della tragedia: un placebo –sembra dire Poe – non molto diverso dagli oppia-cei o dall’etile. In Il ritratto ovale l’arte svela addi-rittura una dimensione vampirizzante. Ma sarebbescorretto appiattire questa varietà di suggestioni,che tradiscono insieme dubbi, provocazioni e lestesse pose alle quali il Poe uomo ammetteva di ab-bandonarsi, alla deriva tra fantasmi interiori e an-sie di gloria letteraria. Ciò che non riduce la veritàprofonda delle sue confessioni, eruttate da un vis-suto di lancinanti esperienze, e anzi dalle profon-dità di un inconscio con cui certe epopee di nic-chie sotterranee e sepolti vivi hanno sicuramente ache fare; ma costringe a rammentare che Poe, co-me i suoi predecessori e successori (si pensi a Lo-vecraft) nel linguaggio fantastico, non può essereconfinato nella palestra di speculazioni psichichepure legittime, nel limbo di uno “strano” farcitoda resoconti clinici pure illuminanti di traumi edemergenze di orrore e rimpianto. Se l’individuo èun libro maledetto che non si lascia leggere, la con-divisione donata di sofferenze e glorie attraverso iltempo ha piuttosto il nome di letteratura. ■

[email protected]

F. Pezzini è saggista e redattore giuridico

Cominciamo con il dire che si tratta di un’ope-razione meritoria: che Poe continui senza in-

terruzioni a essere proposto ai lettori italiani, comenell’antologia Poe. Tutti i racconti del mistero, del-l’incubo e del terrore appena giunta (2010) all’otta-va edizione per Newton Compton (prefaz. di Ga-briele La Porta, trad. dall’inglese di Daniela Palla-dini e Isabella Donfrancesco, pp. 439, € 7, nellacollana “Grandi Tascabili Economici Newton”), ein sostanza a vendere, è un segno di speranza. Lascrittura elegante di un autore – non dimentichia-molo – della prima metà dell’Ottocento non è evi-dentemente avvertita come ostica, e permette l’a-dozione in scuole di vario livello fra i testi consi-gliati; le domande sulla vita e le conturbanti epifa-nie della morte presenti nelle sue pagine costrin-gono a meditare sull’intensa verità interiore dellaletteratura (cosiddetta) fantastica; le sue intuizionisull’inconscio e su un “genio della perversione”che interpella insieme san Paolo e Freudincalzano il lettore nelle più scomode zo-ne d’ombra. D’altronde Poe è ormai con-siderato un classico: viene pubblicato mada parecchio tempo non scalda dibattiti; èofferto ai ragazzi ma in genere senza con-testualizzare il suo mondo (la società ame-ricana cui l’autore giornalista rivolge graf-fianti osservazioni, la dimensione metro-politana in ridefinizione, l’orizzonte diuna nazione che sta spregiudicatamentecostruendo il proprio impero); la stessanomea di scrittore dannato, maestro delmacabro e del mistero lo confina a monu-mento di padre remoto dei generi che co-nosciamo, in particolare horror, fanta-scienza e poliziesco.

In questo quadro non stupisce che Poecontinui a essere presentato tramite anto-logie che già nel titolo enfatizzano il “ne-ro”, secondo un uso ormai consolidato cheevidenzia il rilievo di questo straordinario corpusnarrativo. All’edizione in questione Gabriele LaPorta dona una ricca e partecipe prefazione, cheevidenzia lo spessore dei racconti sia in termini didolente testimonianza interiore che di importanzaletteraria, con riferimento a quella risacca ermeticadi cui l’“americano maledetto” offrì una persona-lissima e umbratile rilettura. I racconti sono ripar-titi per nuclei tematici: una scelta utile non tanto a“classificarli” (le connessioni tra gruppi restanotroppo strette, le partizioni troppo ampie), quantoa rimarcare grumi di suggestioni o richiami ricor-renti. Un primo ambito, Vendetta e assassinio, ac-corpa dunque varie confessioni di omicidi, alcuniimpuniti (Il barile di Amontillado, Hop-Frog) e altrismascherati e in attesa della morte (Il gatto nero, Ilgenio della perversione, Sei tu il colpevole): un itine-rario che sembra rigirare come un guanto le diffu-sissime gazzette popolari d’epoca, concentrate sul-la truculenza esteriore dei crimini. Mentre è daibassifondi dell’anima che, interpellando filosofi efrenologi ma non fermandosi ai loro assunti, Poeoffre i suoi reportage: e se a volte il movente è lavendetta, circonfusa di tutta la mitologica potenzaattribuitale dal feuilleton, ma – torna il cronista –plausibilmente raccordata al più meschino orizzon-te delle infezioni dello spirito, a trascinare sono al-trove altre cause. Tra le quali quel citato genio del-la perversione che induce al precipizio interiore, fa-cendo compiere il male per la coscienza che è tale,e per contro inseguendo i rei a vomitare confessio-ni non volute. Certo, in questi abissi c’è l’Americapuritana, che irrompe inesorabile attraverso le vio-lazioni delle sue leggi morali; ma la denuncia pre-freudiana di una vertigine di colpa connessa a qual-che forma di degradata ribellione alla legge dei pa-triarchi, e tale da mischiare cause ed effetti in un’u-nica tortura dell’anima, scardina nell’onirico le tra-dizionali categorie di peccato e gli stessi timori diun inferno oltremondano. Basta in fondo, sembradire Poe, quello che abbiamo dentro.

Ma le partizioni successive sono persino più am-pie: così Immaginario comprende testi incentrati

N. 7/8 12

Poe: la permanenza editoriale di un grande classico

Ligeia & Sorelle

di Franco Pezzini

Seg

na

li-

Cla

ssic

i

IMPA 7-8 2010 ok 23-06-2010 10:38 Pagina 12

Page 13: 61191478-10-07-INDICE

giosa nella sua gratuità e ancora troppo vicina alprincipio dell’utile e all’ordine economico” perchépossa realmente sovvertirlo (tema, quello dellasovversione, su cui ritorna il lavoro di Silvano Fa-cioni, Il politico sabotato. Su Georges Bataille, pp.158, € 20, Jaca book, Milano 2010).

Se il lusso, pur nelle sue evoluzioni, “affonda leradici nella notte dei tempi”, non così è per lamoda che, osserva Gilles Lipovetsky, con i repen-tini e continui mutamenti, l’estetizzazione del ve-stire e l’azione di modellamento sulla forma delcorpo, “costituisce una frattura, una invenzionesociale e storica dell’Occidente che risale allametà del Trecento”. In un altro lavoro, forse piùnoto, L’Empire de l’éphémère (1987), Lipovetskydivideva la storia della moda in tre periodi fon-damentali: una preistoria, estesa dal Rinascimen-to al 1860; il cosiddetto “secolo della moda”,conclusosi nel 1960; la decadenza iniziata con la

diffusione del prêt à porter che la vede, anche nellinguaggio comune, confondersi sempre più conun lusso “di massa”, fatto di prodotti civetta (si-mulacri del potlach ”donati” al consumatore aprezzi vicini allo zero), di copie a buon mercato e“originali” sempre più inattingibili. Il passaggioda una classe agiata che nella moda e nello stiletrovava il proprio segno di distinzione, a unaoverclass senza più altro stile che l’arroganza sa-rebbe dunque interamente inscritto (per quantoappaia paradossale) nella fase della “democratiz-zazione” del lusso e della moda.

Se si volesse forzare la mano, osserva Mario Per-niola in alcune pagine a commento del lavoro

di Quirino Conti apparso da Feltrinelli nel 2005con il titolo Mai il mondo saprà, e parlare di “vera”moda contrapposta ai suoi simulacri, essa andreb-be collocato tra il periodo in cui operò CharlesFrederick Worth, il padre della haute couture, e ladiffusione della Fast Fashion per tramite dellecontroculture degli anni sessanta (Mario Perniola,Strategie del bello. Quarant’anni di estetica italiana,1968-2008”, “Ágalma”, numero monografico,pp. 146, € 14, Mimesis, 2009). La moda, alla qua-le Conti e probabilmente lo stesso Perniola attri-buiscono funzione di matrice facendone discende-re culture estetiche di primo livello, si sarebbe in-fine dissolta in un crogiuolo massmediatico e con-sumistico capace di dar vita a un nuovo linguaggio,improntato oramai sul modello onnipervasivo delmarketing.

In questo mutato contesto, estendendo la mon-danità anche in un ambito ritenuto “sacro”, la mo-da divenuta più ostentazione che distinzione, co-

me suggerisce il sempre attento Luca Scarlini (Sa-cre sfilate. Alta moda in Vaticano, da Pio IX a Be-nedetto XVI, pp. 180, € 12, Guanda, Milano2010), può comunque innescare la “trappola dellabellezza” e svolgere la propria funzione di “appa-rato di cattura”, attraverso meccanismi che in granparte ricalcano quelli primordiali della “prodiga-lità” e del “dono”. La chiesa, in questo, non solonon si è trovata impreparata, ma ha precorso itempi, cavalcano la mediatizzazione della modaservendosi del retaggio cerimoniale e liturgico ela-borato nel corso di secoli – “tra fasto e disciplina”,suggerisce Scarlini – al fine di “produrre” sullo“spettatore” non necessariamente “fedele” unafortissima “suggestione estetica”. Richiamandosi aun’analisi di René Guénon, Scarlini ricorda comenel rito cristiano agisca sempre un grande spiega-mento di mezzi, per catturare l’attenzione sia del-lo spettatore attento, sia di quello distratto “in una

sequenza coreografata conmicidiale accuratezza, in cuiogni gesto rimanda a una teo-ria di movimenti provati persecoli”. Ognuno di essi, co-me direbbe lo stesso Gué-non, rimanda a un’iniziazio-ne tradizionale ma, chiosaScarlini, “il gesto sopravvivecome tale, senza poter più es-sere codificato da molti nellasua pienezza” anche in unambiente divenuto radical-mente profano. Scarlini os-serva quindi la sopravvivenzadi quel residuo di carismainiziatico “che attrae e sedu-ce o irrita e respinge, anchese ridotto a poco più che unaccenno”, nelle meccanichedella moda vaticana che, fa-talmente, si è identificata conun’educazione sentimentaleasfissiante e permanente, co-me nel romanzo breve di Sol-dati, La confessione.

L’abito talare, quell’abitoche induceva Cesare Lom-broso a domandarsi perché

mai i preti si vestano da donne e quale degenera-zioni li induca a minorare la loro vita sentimentalee psichica, è forse l’elemento simbolico più ovvio escontato di un sistema che, proprio perché consi-derato ovvio e scontato, è sempre più pervasivo esempre meno analizzato. Un esempio fra i più si-gnificativi è offerto da Giovanni XXIII, il “papabuono” che introdusse un modo all’apparenzanuovo di rapportarsi con i fedeli. Eppure, già Mar-co Ferreri, la cui Udienza (rilettura “vaticana” delCastello di Kafka, risalente al 1971, con uno splen-dido Enzo Jannacci protagonista) è chiamata incausa nelle pagine di Scarlini, ribattendo a una let-tura troppo semplicistica del “personaggio” Ron-calli, in una caustica intervista a “Ombre Rosse” in-vitava gli spettatori ad applicare la virtù, forse dia-bolica ma sempre salutare, del “diffidare” dei sem-plici. Cosa non da poco, quando quei “semplici”sono alla testa di istituzioni simbolicamente, manon solo simbolicamente complesse. Il tentativo diriforma di Giovanni XXIII, notava Ferreri che trat-tava la chiesa come un’impresa millenaria in venadi secolari ristrutturazioni aziendali, “non fu altroche un tentativo al servizio del potere. GiovanniXXIII è stato uno dei più grossi public relationsmen degli ultimi anni, come Agnelli”. Qualsiasi co-sa se ne pensi, è sempre all’homo religiosus che si ri-torna, ed è pur sempre dietro al suo abito talare chesi nasconde il mistero della seduzione e forse ancheil centro vuoto di un rito – questo sì profano, trop-po profano – che qualcuno ostinatamente non di-mentica di chiamare per nome: potere. ■

[email protected]

M. Dotti insegna professioni dell’editoria all’Università di Pavia Seg

na

li-

Il s

acr

o

La guerra, la morte, il sacro. Al di là delle anali-si oramai classiche di Thorstein Veblen o Nor-

bert Elias, lo studioso francese Gilles Lipovetskynon ritiene azzardato affermare che l’essere umanodedito al lusso sia stato e in parte ancora sia, primadi tutto, un homo religiosus e, come tale, in cercadi risposte socialmente codificate a domande cru-ciali, quali il rapporto con il prossimo (guerra ofratellanza?), l’invisibile (legame o dissoluzione?) econ la morte (fine o sopravvivenza?).

Proprio per questo, riallacciandosi sul pianostorico-antropologico agli studi dedicati da Mar-shall Sahlins all’economia dell’età della pietra, nelsuo Il tempo del lusso (traduzione di Maria Delo-gu, Sellerio, 2007) Lipovetsky avanza due critichealla nozione di “parte maledetta” elaborata daGeorges Bataille, per quanto attiene la natura del-la dépense e del dono (potlach e kula, in particola-re) e il loro ruolo nell’“istituzionalizzazione degliscambi rovinosi”. All’idea diBataille di un’economia strut-turalmente basata sul dispen-dio energetico e sul sacrificio,Lipovetsky contrappone il“lusso selvaggio”, ovvero laconvinzione che lo spreco siasorto in conseguenza di unmodo di pensare di tipo meta-fisico e magico, e di conse-guenza rispecchiando più unsistema di credenze spiritualiche una condizione di ric-chezza, e non trovi la suaprofonda ragion d’essere nel-l’eccesso di tipo tecnologico oin un sovrappiù di beni di cuiun sistema, come un organi-smo sempre prossimo alla sa-turazione, ha necessità di libe-rarsi. La prodigalità arcaica ri-caverebbe invece la propriaspiegazione dalla “concezionereligiosa degli spiriti, piutto-sto che nelle condizioni diproduttività”, essendo statanecessaria la distinzione frarealtà visibili e potenze invisi-bili e la sistematizzazione delpensiero magico, affinché sia la dépense sia il nonmeno paradossale possesso di beni inutili potesse-ro dirsi pienamente istituzionalizzati. Vista daquesta prospettiva, la religione può debitamenteessere annoverata fra le condizioni necessarie, madi certo non sufficienti, per l’emergere del lusso insocietà e contesti per così dire “primitivi”. Una se-conda critica a Bataille muove dalla considerazio-ne che se “il fasto non è oggetto o immagine dacontemplare”, ma “strumento che favorisce l’ac-cesso alla vita eterna” (così come evidenziato dal-l’evoluzione del lusso in conseguenza della com-parsa delle prime divinità antropomorfe e dallanascita della dimensione statuale, con conseguen-te modifica in senso gerarchico del rapporto fral’individuo comune, il sovrano, le istanze teologi-co-politico e le “potenze invisibili”), è in ragionedel fatto che esso implica una strutturata metafisi-ca del tempo e della morte e in sostanza coincidecon l’“espressione della speranza in un temposenza fine”.

Da parte sua, già Jean Baudrillard, in una notadensamente critica dal titolo Quand Bataille atta-quait le principe métaphysique de l’économie, pub-blicata nel 1976 su “La quinzaine littéraire” e dapoco riproposta nel numero speciale dedicatoglidalla rivista “Lignes” diretta da Michel Surya (“Legai savoir de Jean Baudrillard”, n. 31, pp. 192,€ 19, Editions Lignes, 2010), osservava che Batail-le in fin dei conti altro non aveva fatto che “natu-ralizzare” la concezione del dono e del contro-do-no studiate da Marcel Mauss, cadendo in una sor-ta di “mystique naturaliste” in grado di trasforma-re lo “scambio simbolico in una specie di funzionenaturale di prodigalità, al tempo stesso iper-reli-

N. 7/8 13

L’uso del lusso nel sistema del potere religioso

Apparato per la vita eterna

di Marco Dotti

IMPA 7-8 2010 ok 23-06-2010 10:40 Pagina 13

Page 14: 61191478-10-07-INDICE

N. 7/8 14

Jonathan Safran Foer

SE NIENTE IMPORTAPERCHÉ MANGIAMO GLI ANIMALI?

ed. orig. 2009, trad. dall’inglesedi Irene Abigail Piccinini,

pp. 364, € 18,Guanda, Milano 2010

Se niente importa è un libroinaspettato per i lettori di

Foer, un libro onesto e docu-mentato, filosoficamente de-bole, ma sufficientemente ric-co di dati e argomenti convin-centi per smettere di alimen-tarsi di carne. Non è un sag-gio accademico: argomentazionie struttura non sono affatto li-neari. Il libro si muove a zigzagcome un ponte giapponese; nonvi sono assi in legno di un unicogenere, ma differenti tipi di sel-ciato: tappeti, moquette, pia-strelle, listarelle in mogano maanche in compensato. Il primocapitolo si intitola Raccontarestorie ed è il tributo più consonoai lettori dei suoi romanzi:“Questa storia non è cominciatasotto forma di libro. Volevo solosapere – per me stesso e per lamia famiglia – che cos’è la car-ne”. Ma attenzione: “Anch’iocredevo che il mio libro sarebbediventato un manifesto del vege-tarianismo. Non è stato così. Unlibro che promuova il vegetaria-nismo varrebbe la pena di esserescritto ma non è questo il caso”.Concordo pienamente: questolibro, come accennavo, porta ra-gioni al cessare di mangiare car-ne, ma non le compone in unquadro unitario e coerente.

Il libro tuttavia, presenta, delsaggio accademico, due elemen-ti: primo, un monumentale, an-che se intenzionalmente squili-brato, lavoro di ricerca sulle fon-ti che ne sostanziano le tesi; e, insecondo luogo e di conseguenza,un dettagliato e significativo ap-parato di note.

Ma ecco che Foer ci disorienta.Con il breve ma acuto capitoloTutto o niente o qualcos’altro sem-bra indicare una direzione argo-mentativa ordinata: una parados-sale esortazione alla cinofagia (ilnutrirsi di carne di cane) e un ex-cursus su come funziona (su comeè crudele, devastante e stupida) lapesca industriale. E subito dopo,tuttavia, quasi stanco di seguireuna via maestra, scrive il capitoloParole significato, dove ricostrui-sce una struttura disordinata (qua-si un ossimoro). Questo capitolo,infatti, è strutturato in ordine alfa-betico, come una sorta di diziona-rio, in cui però la scelta, la naturae la struttura dei lemmi è assai va-ria. Certo, tutti i lemmi ruotanoattorno alla questione di fondo,l’interrogazione sul mangiare car-ne da parte degli esseri umani. Mal’inserimento di un lemmario aquesto punto frange e sconvolge ilsenso dell’argomentazione.

Il quarto capitolo si intitola Na-scondere / cercare. Con esso entria-mo nel genere del reportage. È latestimonianza narrata di qualcosa

Libro del mese

Le ultime quindici pagine diMolto forte, incredibilmente

vicino (2005; Guanda, 2005), ilsecondo e per il momento ultimoromanzo di Jonathan Safran Foer,non contengono del testo, ma unaserie di istantanee di un corpo incaduta libera dal World TradeCenter: una sequenza di foto-grammi che, sfogliati velocemen-te, riportano il corpo verso l’alto,come un filmato che si riavvolgebloccando le immagini nel tempo,permettendo di contemplarle enello stesso tempo sconfessando-ne la natura pressoché insosteni-bile. Una sorta di onirico happyend visivo con cui l’autore ci in-chioda a quanto avvenuto a NewYork l’11 settembre 2001, ci emo-ziona e intanto in qualche modoci anestetizza. In quelle quindicipagine c’è, in tutta la sua contro-vertibilità, una ben determinataconcezione della letteratura.

Foer, si sa, è bravo a suscitarereazioni forti. Molti (sopratuttofra i lettori) lo amano alla follia,alcuni (sopratutto fra i critici) lodisprezzano e non ne fanno mi-stero. I suoi due romanzi – Ognicosa è illuminata (2002; Guanda,2002) e Molto forte, incredibil-mente vicino – affrontano temicome le persecuzioni contro gliebrei e l’attentato alle Torri ge-melle con una scrittura carica dihumour ma anche di trepidazio-ne, semplice ma anche intricata,leggera ma anche ponderosa, di-vertente ma anche commovente.Una scrittura che somiglia a ungioco di prestigio, come quel cor-po a mezz’aria che invece di cade-re verso il basso risale verso l’alto.

In questo suo terzo libro, Seniente importa. Perché man-

giamo gli animali? (azzeccatatraduzione del più secco titolooriginale Eating Animals), si ri-trova quella voce acrobatica e in-tensa, ma qui la ponderosità hadecisamente la meglio sulla leg-gerezza. “Non si scherza su que-sto e non ci si gira dall’altra par-te”, dice a un certo punto l’auto-re parlando delle tecniche di ma-cellazione. Non si scherza e nonci si gira dall’altra parte, pare vo-ler dire Foer, perché, diversa-mente dall’Olocausto o dal ter-rorismo, gli orrori dell’industriazootecnica non sono ancora se-dimentati nella coscienza collet-tiva. Anche se “sappiamo più diquanto ci interessi ammettere”,confiniamo tale consapevolezza“nei recessi più bui e nascostidella nostra memoria”. Ognivolta che addentiamo un pezzodi carne abbiamo la vaga sensa-zione che ci sia qualcosa che nonva, ma è una sensazione che perlo più ci affrettiamo a rimuove-re, pur di continuare a masticarein pace. Come scrive Derrida ci-tato da Foer, “Gli uomini fannotutto ciò che possono per na-scondere o per nascondersi que-sta crudeltà, per organizzare su

con il cibo che produce, soste-nerlo con i miei soldi – mi ren-derebbe meno me stesso, menoil nipote di mia nonna, meno ilfiglio di mio padre. Questo vo-leva dire mia nonna quando dis-se: ‘Se niente importa, non c’èniente da salvare’”.

Il libro di Foer si conclude co-sì lasciandoci nello sconcerto.Un libro ricchissimo di docu-mentazione di prima mano,inoppugnabile, precisa e convin-cente. Nel presentarla al lettore,siamo consapevoli che essa avràun effetto forte su di lui. Le cru-deltà, le sofferenze inflitte aglianimali, i rischi per la nostra sa-lute e per l’ambiente del nostropianeta sono chiaramente evi-denti. Questa mole di informa-zioni, inoltre, sembra essere in-teressante anche per il cittadinoalieno ai dilemmi di Foer. Il pro-blema non riguarda più coluiche voglia decidere se mangiareo meno la carne. Il problema ri-guarda gli effetti sulla vita quoti-diana anche di chi ha già sceltodi mangiarla. Ma, nonostantequesto immenso lavoro, il librosembra irrisolto. Intendiamoci.Strumentalmente parlando, è unlibro utile.

E tuttavia il vero limite del libroè la sua debole caratura etica. Ilproblema è per lo più affrontatoin modo ostensivo: mostrandocrudeltà e svantaggi degli alleva-menti industriali. Il che colpisce,perché, come lui stesso ci raccon-ta, Foer è laureato in filosofia.Nell’ampio apparato di note e ci-tazioni del libro, invece, faremmofatica a trovare qualche filosofo oladdove lo si trovi non si trattacerto di coloro che più si sono oc-cupati in modo coerente e deter-minato negli anni recenti del tema(Foer cita Derrida ma non PeterSinger, ad esempio; in realtà noncita quasi nessun altro filosofo).In fondo, è fin dall’inizio che Foerci lascia perplessi. Davvero è l’a-neddoto della nonna (che dà il ti-tolo all’edizione italiana del volu-me) dirimente? Ricordiamo: lanonna, a rischio della vita, rifiutadi mangiare la carne di maiale chele viene offerta. E perché? Perché“se nulla importa, non c’è nienteda salvare”. Ma questa frase sem-bra sostenere che una qualsiasi re-gola sia meglio di nessuna regola;e non in quanto la regola abbiadei fondamenti, abbia delle buo-ne ragioni. Eppure non possiamoconcordare con questa tesi. Non èvero che se niente importa, nonc’è niente da salvare. Ci sono coseche importano e altre che non im-portano affatto. Altrimenti il ri-schio è quello di affidare un valo-re totemico alla regola in quantoregola e non in quanto fondata suuna ragione. Nel tentativo di chia-rirsi sul senso del mangiare carneFoer parte, per così dire, dal fon-do. Ma il primo, il primissimoproblema, non sarebbe invecequello di interrogarsi sulla do-manda: “È lecito uccidere un ani-male? È lecito far soffrire un ani-male?”. Il che ci condurrebbe al-la più ampia e generale questione:“Quali sono gli elementi essenzia-li perché un individuo sia porta-tore di interessi morali?”. ■

[email protected]

A. Bosco è redattore editoriale

Che cosa resta da salvare?

di Andrea Bosco

che è accaduto all’autore. Foer haaccompagnato un militante ani-malista in un raid all’interno di unallevamento industriale di polli.Poi è andato a parlare prima conun tizio che lavora nell’industriazootecnica e poi con un rarissimoavicoltore non industriale. Il tuttoavviene, in modo intelligente, in-tercalando l’interlocuzione conqueste figure, e la descrizione del-l’incursione con dati, statistiche eragionamenti che offrono unaprospettiva alla vicenda.

Il quinto capitolo si intitola In-fluenza / ammutinamento, e ap-profondisce il tema del legameevidente tra la crescente diffusio-ne di pandemie e influenze checolpiscono gli esseri umani e la lo-ro origine aviaria e, più in genera-le, la connessione fra molte pato-logie degli esseri umani e il consu-mo di carne, frutto di un sistemadi allevamenti industriali che, alfine di aumentare profitti e volu-mi d’affari, interviene pesante-mente con l’uso di farmaci.

Il sesto capitolo si intitola Fettedi paradiso / pezzi di merda. Nellaprima parte di esso Foer si dilun-ga su un tema che in diverse partidel libro sembra esercitare su dilui una notevole fascinazione. Sitratta di quella rarissima, in termi-ni statistici invisibile, serie di alle-vatori che tentano di lavorare al difuori da strutture industriali. Ciòcomporta una maggiore attenzio-ne alla salute degli animali, al lorobenessere, alle procedure che liconducono all’uccisione e allamacellazione. Nella seconda partedel capitolo viene effettuata un’a-nalisi efficace e documentata di al-tri effetti collaterali degli alleva-menti industriali, che sono ampia-mente ignoti alla maggior partedei consumatori. In primo luogo,il problema saliente dei reflui, del-la straordinaria quantità di fecianimali che derivano dagli alleva-menti industriali, una quantità tal-mente ampia da mettere a repen-taglio le falde acquifere di vastissi-

me regioni del mondo. Ed ecco“un’utile lista della merda che sitrova abitualmente nella merdadei maiali allevati intensivamente:‘ammoniaca, metano, acido solfi-drico, monossido di carbonio, cia-nuro, fosforo, nitrati e metalli pe-santi. In più i liquami nutrono piùdi cento microrganismi patogeniche possono provocare malattienell’uomo, tra cui salmonella,cryptosporidium, streptococchi egiardia’”. Attenzione viene presta-ta anche al mondo ittico, il chenotoriamente avviene sempre me-no rispetto agli allevamenti di pol-li, bovini e suini.

Il settimo capitolo si intitolaCi sono. Anch’esso ritorna suquesta fascinazione di Foer pergli allevatori non industriali. Vaa trovare la moglie vegetarianadi un allevatore, che collaboracon lui, persuasa che renderemigliore la vita degli animali nel-la sua fattoria sia una scelta piùefficace rispetto al semplice ri-fiuto dell’allevamento. La meratestimonianza contraria all’ali-mentazione di carne le sembrameno efficace di un tentativo dimigliorare le condizioni di ani-mali che sono destinati alla ma-

cellazione. Foer si trova in qual-che modo in una situazione di-lemmatica. “Sono diventato unvegetariano convinto. (…) Nonvoglio avere niente a che farecon l’allevamento industriale eastenermi dalla carne è per mel’unico modo realistico per farlo.Per un altro verso, però, vederefattorie sostenibili che dannoagli animali una buona vita(buona come la vita che noi dia-mo ai nostri cani e ai nostri gat-ti) e una morte facile (…) mi hacommosso fino alle lacrime”.

Il capitolo ottavo, che chiudeil libro, si intitola Raccontare,come il primo, dando al volumeuna forma circolare. E si con-clude così: “Che io sieda al ta-volo globale, con la mia famigliao con la mia coscienza, l’alleva-mento industriale, per quantomi riguarda, non appare solo ir-ragionevole. Accettarlo, misembrerebbe inumano. Accet-tarlo – nutrire la mia famiglia

Il libro di Foer sfugge a una definizione precisa. Tra saggio, testimonianza e puro gusto del raccontare, lo scrittore americano si interroga sullenostre abitudini alimentari e, partendo da un dato biografico, scopre quanta violenza si nasconda dietro la grande impresa della macellazione.

Insieme

alla bestia

di Norman Gobetti

Mangiare la carne in letteratura

Ci sono altri due titoli, usciti qualche anno fa, che hanno affronta-to e interpretato, in modo assai diverso, la questione della sostanzia-le tendenza a essere carnivoro dell’essere umano. Il romanzo di RuthL. Ozeki, Carne (Einaudi, 2001; cfr. “L’Indice”, 1998, n. 8), che rac-conta, attraverso la storia di due donne coinvolte nell’industria dellamacellazione, la lotta tra potere e liberazione, un nuova necessità diascesi unita a un forte senso di disprezzo per il consumo illimitato dimateria viva. E quello, molto celebre, di Jonathan Coe, La famigliaWinshaw (Feltrinelli, 2003; cfr. “L’Indice”, 1995, n. 11), in cui gliaristocratici Winshaw, capitalisti senza scrupoli, modelli perfetti delpiù torbido asservimento al denaro, sperimentano tecniche semprepiù sofisticate per ingrassare al parossismo gli animali destinati a unapseudo vita industriale.

Un libro recente e godibilissimo sull’alimentazione, in bilico fraproduzione industriale e retoriche pubblicitarie, è quello di MichaelPollan, Il dilemma dell’onnivoro (Adelphi, 2008). Con ironia e docu-mentazione, Pollan ci porta nell’impero del male (alimentare), l’in-dustria statunitense dei derivati del granoturco, che hanno trasfor-mato manzi ruminanti dei verdi pascoli in ipertrofici bevitori di be-veroni di città dell’ingrasso, senza dimenticare l’agricoltura e la zoo-tecnia “biologiche”, starring l’impagabile gallina Rosie. È un libroche non impone scelte, ma, fra paradossi e scenari da Apocalisse, in-duce a riflettere e a orientarci con disincantato buon senso.

Per temi più legati al rifiuto della carne nell’alimentazione e/o allosfruttamento degli animali, la bibliografia è sterminata, da Lev Niko-laevic Tolstoj, Contro la caccia e il mangiar carne, sino alle opere diPeter Singer sui diritti animali e a quelle di Luisella Battaglia.

IMPA 7-8 2010 ok 23-06-2010 10:40 Pagina 14

Page 15: 61191478-10-07-INDICE

N. 7/8 15

Libro del meseprospettato le alternative possibi-li, chiude con un capitolo dedica-to alla festa del Ringraziamento,trionfo dei buoni sentimenti e deivalori americani e nello stessotempo trionfo dell’industria dellacarne. La proposta dell’autore,ovviamente, è festeggiare il Rin-graziamento senza mangiare iltacchino, dal momento che “lascelta di non mangiare il tacchinosarebbe un modo più sentito percelebrare la nostra gratitudine”.E, immaginando un mondo post-carnivoro, Foer conclude: “Sia-

mo noi quelli a cuichiederanno a buondiritto: ‘Tu che cos’haifatto quando hai sapu-to la verità sugli anima-li che mangiavi?’”.

È una domanda chene riporta alla mentealtre, ed è un momen-to chiave del libro, ilmomento in cui il re-troterra familiare del-l’autore, la sua assi-

duità con la memoria storica del-l’Olocausto e la battaglia eticacontro l’industria della carnevengono a coincidere nel modopiù evidente, benché Foer siguardi bene dall’azzardare unqualunque paragone fra alleva-menti intensivi e campi di con-centramento.

È significativo che tale indeco-roso paragone compaia invececon grande rilevanza in una dellepochissime altre opere letterariecontemporanee che trattino del-l’industria della carne, La vita de-gli animali di J. M. Coetzee (1999;Adelphi, 2000). In queste confe-renze in forma di racconto tenute

alla Princeton University nel1997-98 e poi pubblicate in volu-me, Coetzee attribuisce a un per-sonaggio di finzione, la scrittriceElizabeth Costello, due discorsi incui lo sfruttamento degli animaliviene definito “un’impresa di de-gradazione, crudeltà e sterminioche può rivaleggiare con ciò di cuiè stato capace il Terzo Reich”.Contestata e accusata di antisemi-tismo, nonché di “bestemmia”, lascrittrice non recede dalla propriaposizione, arrivando addirittura aspiegare così il proprio disagio neltrovarsi ospite di persone chemangiano carne: “È come se an-dassi a trovare degli amici, e dopoche ho fatto un’osservazione gen-tile sulla lampada che hanno in sa-lotto, loro dicessero: ‘Sì, è bella ve-ro? È in pelle di ebrea polacca; se-condo noi è la migliore, la pelledelle vergini ebree polacche’. Poivado in bagno e sull’involto di unasaponetta c’è scritto: ‘Treblinka –100% stearato umano’. Sto forsesognando?, mi chiedo. Che razzadi casa è mai questa?”.

Nell’ostinazione alla bestemmiada parte della protagonista diCoetzee c’è un’idea della naturaumana radicalmente diversa daquella che emerge dalle conside-razioni sempre condivisibili edequilibrate dell’autore di Se nien-te importa. Per Coetzee gli esseriumani non sono, alla stregua deicommensali di Foer alla tavola delRingraziamento, un po’ pigri edegoisti, ma fondamentalmentebuoni. Sono invece irredimibilicomplici di “un crimine di pro-porzioni stupefacenti”, un crimi-ne che nelle sue pagine finisce peridentificarsi con la vita stessa.

confrontare. Ripensando allanonna, Foer chiede ai suoi lettorise, vivendo “in una nazione dallaprosperità senza precedenti, unanazione che spende per il cibouna frazione di reddito minore diqualunque altra civiltà della storiaumana”, paia loro un così gran sa-crificio rinunciare alla carne diproduzione industriale con tuttele sue innumerevoli controindica-zioni, controindicazioni che il li-bro illustra con passione e concompetenza (più di sessanta pagi-ne di note rendono testimonianzaalla meticolosità del la-voro di ricerca).

“Noi non facciamomale ai membri dellanostra famiglia. Nonfacciamo male agliamici o agli estranei.Non maltrattiamo nep-pure i mobili imbotti-ti”, continua Foer, per-ché allora accettiamodi buon grado che glianimali vengano mal-trattati e uccisi con tanta efferatacrudeltà? Se noi americani siamocosì probi come pensiamo di es-sere, insiste, perché abbiamomesso in piedi un sistema di pro-duzione del cibo così efferato epernicioso? E perché non faccia-mo niente per smantellarlo? Sitratta di un ostinato appello allaragionevolezza che risuona comeuna nota di fondo in tutte le pa-gine del libro, e che si fonda sulpresupposto della fondamentaleinconciliabilità fra ciò che è e ciòche dovrebbe e potrebbe essere.Non a caso Foer, dopo aver pas-sato in rassegna i molteplici malidell’allevamento intensivo e aver

scala mondiale l’oblio o il disco-noscimento di tale violenza”.

Come contrastare allora taleoblio, tale disconoscimento? PerFoer – reso sensibile all’argo-mento dalla nascita di un figlio edal conseguente desiderio di ca-pire nel modo più concreto pos-sibile “che cos’è la carne” primadi decidere se darla o meno damangiare al suo bambino – sitratta di rendere visibile quel chel’apparato industriale e governa-tivo cerca in ogni modo di man-tenere invisibile, si tratta di sca-valcare i reticolati di filo spinatoche isolano gli allevamenti dalmondo circostante, forzare leporte chiuse a chiave dei macel-li, raccontare le cose come stan-no trovando strategie retorichecapaci di scuotere l’indifferenzadei consumatori, nella certezzache “tutte le persone ragionevo-li si troverebbero d’accordo, seavessero accesso alla verità”.

Forte di questo presupposto,l’autore parte dalla rievoca-

zione della figura della nonna,ebrea di origine ucraina soprav-vissuta per un soffio alla persecu-zione e poi emigrata in America,descrivendo il suo rapporto con ilcibo, il rapporto con il cibo di unapersona che nella sua giovinezzaaveva patito la fame fin quasi amorirne, ma che durante la fugadai nazisti, pur avendone avutal’occasione, si era rifiutata dimangiare carne di maiale, perché“se niente importa, non c’è nienteda salvare”. Una lezione con cui ilnipote scrittore sente di doversi

Così, se Foer – dopo aver de-nunciato una terribile sfilza di ne-fandezze e aver fornito dati ag-ghiaccianti – può malgrado tuttorassicurarci con la consolante vi-sione di un mondo futuro reden-to dalla consapevolezza, Coetzee– dopo aver accuratamente evita-to di enumerare “il lungo elencodi orrori che punteggia la vita e lamorte” degli animali – ci lasciainvece con l’immagine di una Eli-zabeth Costello incapace di con-ciliarsi con i suoi simili e in lacri-me fra le braccia del figlio: “Luiaccosta, spegne il motore, prendesua madre tra le braccia. Inspiral’odore di crema idratante, di pel-le vecchia. ‘Su, su’ le sussurra inun orecchio. ‘Su, su. Tra pocopassa’”.

Tuttavia, l’effetto prodotto daqueste due opposte strategienon è affatto scontato. Foer pa-re non avere dubbi sull’efficaciadella sua operazione. È come sedicesse al lettore: io con la miascrittura ti ho fatto vedere quelche non avevi mai potuto vede-re. Ora sai la verità, dunque agi-rai di conseguenza. Ma il lettorelo farà? Pare lecito dubitarne.Coetzee sembra al contrario al-quanto perplesso, come se infondo non sapesse che farne deitormenti e delle sfuriate di Eli-zabeth Costello. Eppure, alla fi-ne, forse è proprio lui a condur-ci davvero a “seguire fianco afianco la bestia sospinta lungo larampa che conduce al suo car-nefice”. ■

[email protected]

N. Gobetti è traduttoree consulente editoriale

pro

pon

e

Franca Roiatti, IL NUOVO COLONIALISMO. CACCIA ALLE TERRE COLTIVA-BILI, pp. 179, € 15, Egea – Università Bocconi Editore, Milano 2010

Land grabbing o neocolonialismo. Queste le due definizioni portate all’at-tenzione mondiale nel novembre 2008, quando il Financial Times rivelò chela Daewoo Logistics aveva concluso un accordo con il governo del Madaga-scar, ottenendo in uso per 99 anni 1,3 milioni di ettari di terra malgascia. Ac-cordo cancellato nel marzo 2009 per via delle proteste e rivolte popolari cheaveva innescato. La corsa all’acquisizione di nuove terre nei paesi in via di svi-luppo è, tuttavia, un fenomeno che si protrae da più tempo e che vede coin-volti più attori, dall’una e dall’altra parte della barricata. Gli accaparratori: so-cietà private, fondi d’investimento e fondi sovrani di stati ricchi; dalla Cina aiPaesi del Golfo, dall’India all’Europa, dalla Corea del Sud al Giappone, dal-la Libia alla Giordania… Le terre di conquista: in primo luogo l’Africa, dovela terra è svenduta a cifre irrisorie e i mercati in larga parte ancora imprepa-rati; ma anche l’Asia, che rifornisce di olio di palma e derrate alimentari glisceicchi del Golfo; infine l’America Latina, dove però la terra ha costi decisa-mente più elevati, rivelandosi un investimento più impegnativo. Costruire unamappa dettagliata di questo Risiko mondiale non è semplice: molti accordi etrattative sono condotti in segreto da parte dei governi e delle autorità locali,ed è complicato ottenere e interpretare le informazioni sui trasferimenti di ter-ra. Ci stanno provando, a fatica, l’Ong Grain, da anni impegnata in un’azio-

ne di denuncia e lavori come Il nuovo colonialismo diFranca Roiatti. Un volume documentato, dettagliato,una guida utilissima a muovere i primi passi nel feno-meno del land grabbing, di cui si affrontano motivazio-ni, si individuano vittime e colpevoli, si chiariscono –fin dove possibile – le regole del gioco e si mostra co-me la terra sia oggetto di interpretazioni opposte: mer-ce commerciabile per alcuni, ricchezza colma di signi-ficati. Per questi ultimi la terra è come una madre: nonpuò essere venduta o acquistata. Difficile conciliarequesta visione con il nuovo colonialismo.

SILVIA CERIANI

Colin Tudge, NUTRIRE IL MONDO È FACILE, prefazione di Cinzia Scaffidi,pp. 180, € 13,50, Slow Food Editore, Bra 2010

La situazione in cui ci troviamo è spaventosamente preoccupante, sostieneColin Tudge. Nel giro di quarant’anni la popolazione mondiale dovrebbe rag-giungere i nove miliardi di individui, e molti di questi soffriranno o per la fa-me o per malattie riconducibili alla sovranutrizione, moltissimi vivranno inquartieri urbani degradati e le risorse essenziali del mondo (l’acqua e la terra,ma anche il petrolio che muove le industrie) saranno pericolosamente com-promesse, senza contare che le variazioni climatiche avranno effetti disastrosisulla possibilità di produrre cibo così come si fa oggi. Ma – aggiunge subitodopo – ci sono cose che è possibile fare per raddrizzare la rotta, e queste co-se vanno fatte al più presto. E il punto di partenza di tutto è il cibo, la filieraalimentare, l’agricoltura e la cucina: “l’agricoltura costituisce la chiave di tut-to questo o, per lo meno, costituisce quella cosa che dobbiamo sapere gestirebene. È la fonte di quello che ci occorre nelle quantità più grandi e in modoininterrotto, il cibo, ed è la principale interfaccia tra l’umanità e il tessuto del-la Terra stessa.” Il libro è tipicamente anglosassone: chiaro, diretto, rivolto atutti (in poche righe riassume efficacemente le teorie di Adam Smith e la strut-tura chimica dei carboidrati), con alcune tesi forti introdotte fin dall’inizio epoi sviscerate in brevi paragrafi molto incisivi. I punti fermi del suo ragiona-mento sono quattro: occorre modificare la nostra dieta secondo il principio

del tanta frutta e verdura, poca carne, massima varietà,bisogna riprogettare le aziende agricole intorno al com-pito di “nutrire le persone per sempre”, rispettando ilterritorio in cui nascono e integrare i saperi tradiziona-li con scienza e tecnologia; si deve recuperare lo spiritooriginario del capitalismo, tradito oggi dalle multina-zionali e dal loro legame diretto con il potere politico,e dare vita a una forma di democrazia più compiuta; in-fine “gli esseri umani hanno pochissime possibilità diandare oltre questo secolo. A meno che, nel complesso,la nostra economia non rimanga agraria”.

SARA MARCONI

IMPA 7-8 2010 ok 23-06-2010 10:40 Pagina 15

Page 16: 61191478-10-07-INDICE

N. 7/8 16

Evoluzionismo

Jerry Fodore Massimo Piattelli Palmarini

GLI ERRORI DI DARWIN

ed. orig. 2010, trad. dall’inglesedi Virginio B. Sala,

pp. 263, € 25,Feltrinelli, Milano 2010

Voleva essere un sasso nel-lo stagno della peraltro

mai cheta pubblicistica evolu-zionistica, e così è stato. Gli er-rori di Darwin, a firma degliscienziati cognitivi Jerry Fodore Massimo Piattelli Palmarini,ha ottenuto polemiche, visibi-lità e preannunciate lusinghierevendite.

L’attacco prende le mosse dascoperte interessanti della ricer-ca in corso: i geni “architetti” al-tamente conservati che dettanolo sviluppo, i limiti interni dellavariazione, l’epigenetica, il ruolodei vincoli strutturali.

Se per molti biologi la teoriadarwiniana non ha bisogno di so-stanziali revisioni, per altri – comea suo tempo il paleontologoStephen J. Gould – la rilevanza diquesti filoni di indagine annunciauna “teoria evoluzionistica este-sa”, ancora pienamente darwinia-na nel suo nucleo, ma riformata eallargata. Secondo l’ipotesi radi-cale di Fodor e di Piattelli Palma-rini, invece, oggi il “neodarwini-smo” sarebbe già tramontato.

Le forme organiche sarebberoinfatti generate “dall’interno” –per effetto di vincoli di sviluppo,di filtri alla variazione, di principifisico-chimici che produconoconformazioni ottimali – e nondalle pressioni “esterne”, cioèecologiche, della selezione. La na-tura sarebbe ricolma degli effetticollaterali non adattativi generatidalle “leggi della forma” e dal-l’autorganizzazione biologica. Maè fondato trarre da questa miscel-lanea di dati eterogenei – la cui in-terpretazione viene spesso forzata– la conclusione secondo cui ilneodarwinismo sarebbe fatal-mente malato?

Secondo la schiacciante mag-gioranza dei ricercatori sul

campo non è così, come testimo-niano le ruvide recensioni negati-ve apparse nelle sedi più accredi-tate, come «Nature» del 18 mar-zo (Massimo Pigliucci) e «Scien-ce» del 7 maggio (Douglas J. Fu-tuyma), accompagnate da moltealtre testate autorevoli e da analo-ghe bocciature da parte dei nostrimaggiori esperti di evoluzione(fra gli altri, Guido Barbujani,Luigi Luca Cavalli Sforza, Gior-gio Manzi). L’attacco è ritenutoinfondato perché i fattori struttu-rali integrano, e non sostituisco-no, le spiegazioni basate sulla fit-ness darwiniana. È fuori discus-sione che la selezione debba ri-spettare le basi fisico-chimichedel vivente e che la speciazionepossa avvenire in molti modi etempi, ma in accordo con la con-tinuità dei meccanismi neodarwi-niani. Gli effetti secondari sonopur sempre trascinati da tratti se-lezionati. Non solo, esistono pro-cessi fondamentali di tipo non se-lettivo, come le derive genetiche,

ne distingue forme attive e formepassive, che vanno dall’approcciotecnocratico sino all’estremo op-posto dell’antiscientismo. In que-sti dilemmi scientisti ci sta di tut-to: si parli di organismi genetica-mente modificati, di cellule stami-nali, di fine della vita, il dibattitopubblico sembra prigioniero diuno schema consolidato. Da unlato i fautori di uno sviluppo illi-mitato della tecnoscienza, mentredall’altro si collocano coloro cheinvocano un argine all’invasionedi campo della ricerca in ambititradizionalmente appannaggio discelte e pratiche sociali, politicheo religiose. Paradossalmente i duefronti condividono un medesimopregiudizio. Alla scienza spetta dimettere continuamente sul tavolonuove proposte, che la società at-tende al varco per boicottarle. Inrealtà, i frequenti cortocircuiti tradiscorso scientifico e opinionepubblica, tra le priorità della ri-cerca e le aspettative di cittadini econsumatori erodono i confini trascienza e società, evidenziando ledivisioni entro i rispettivi fronti: sipensi, ad esempio, alle discussionisu temi quali il clima, l’energianucleare o la biomedicina.

È questo intreccio – qui illu-strato in una stringente argomen-tazione – ad alimentare l’antago-nismo fra scientisti e antiscienti-sti, in un illusorio gioco delleparti che impedisce di cogliere edi valorizzare pienamente le sfi-de della tecnica e della scienza.Bucchi riprende una fecondametafora, quella della “coda lun-ga”, derivata dai mercati digitali(dischi, video), per sostenere chel’esplosione delle ricerche scien-tifiche e la loro disponibilità ediffusione sui media hanno crea-to anche per le tecnoscienze unastraordinaria capacità di perma-nenza e concomitanza fra idee,ipotesi, risultati diversi.

Insomma, scienza e società nonsi capiscono perché si intendo-

no sin troppo bene, e credendodi scontrarsi, in realtà asseconda-no le rispettive inclinazioni, siusano reciprocamente come scu-do nel gioco delle parti, scam-biandosi continuamente i ruoli fi-no a sfumare, in certi casi, l’unanell’altra. Guido Visconti, sull’ul-timo numero della rivista“Darwin” (maggio-giugno 2010),a proposito delle controversie suitemi ambientali e sul climategate,cita una bella frase di un espertostatunitense di scienza e società,Daniel Sarewitz: “Quando la po-litica è divisa e la scienza com-plessa, i confini fra le due diven-tano indistinguibili”. Le conclu-sioni – e tutta l’argomentazionedel libro di Bucchi – sono strin-genti e dovrebbero essere lette dachiunque che a qualsiasi titolo sioccupi di scienza e di società. Eper chi si è occupato attivamentedi scienza, sperimentando moti-vazioni, delusioni, sacrifici, checosa rimane? Personalmente, re-sto dell’idea che non essendociposto migliore dove stare, staròdalla parte sbagliata (dalla partedella scienza). ■

[email protected]

A. Fasolo insegna biologia dello sviluppoall’Università di Torino

Richard Dawkins

IL PIÙ GRANDE SPETTACOLO DELLA TERRAPERCHÉ DARWIN AVEVA RAGIONE

ed. orig. 2009, trad. dall’inglese di Laura Serra,

pp. 399, € 17,60, Mondadori, Milano 2010

Massimiano Bucchi

SCIENTISTI E ANTISCIENTISTI

PERCHÉ SCIENZA E SOCIETÀ

NON SI CAPISCONO

pp. 121, € 11,50, il Mulino Bologna 2010,

Il trentesimo anniversariodel saggio Il gene egoista,

che ha rivoluzionato le nostrevisioni sulla genetica, ben ol-tre i confini della biologia, èstato appena solennizzato egià Richard Dawkins aggiun-ge un’ulteriore tessera del suogrande disegno sull’evoluzione.Lo fa per ricordarci, al commiatodell’anno darwiniano, che l’evolu-zione non è solo un’affascinanteteoria, ma una realtà scientificaampiamente comprovata. Sonoquattrocento pagine di argomen-tazioni scientifiche rese fluide eleggibilissime da uno stile tutt’al-tro che accademico, con una me-ravigliosa capacità affabulatoria,ma anche con un rigore invidiabi-le. Si legga, ad esempio, l’ampiadescrizione degli esperimenti diRichard Lenski sul batterio Esche-richia coli in Quarantacinquemilagenerazioni di evoluzione in labo-ratorio. Dawkins ci porta passo apasso attraverso risultati comples-si e interpretazioni sofisticate,senza perdere mai il filo, ma sen-za scorciatoie o affermazioni nondocumentate. Dawkins ci spiegain modo del tutto convincente“Perché Darwin aveva ragione” e,secondo le sue intenzioni esplici-te, fronteggia un attacco forte daparte dei movimenti creazionisti edi alcuni ambienti clericali. Ma èsu questo assunto polemico forteche possono nascere delle mode-ste perplessità. Una bella recen-sione sul “Guardian” sottolineacome il tentativo di Dawkins diportare prove cruciali dell’evolu-zione a un creazionista convinto,come avviene nel libro dialogan-do con Wendy Wright, delle“Concerned Women of Ameri-ca”, è condivisibile, ma finiscecon il fallire. Anzi, per gli irriduci-bili sentimentali, il dibattito sem-bra un pelino arrogante e persinoimbarazzante, mentre sottolineal’importanza delle credenzeprofonde e invita a ricercarne leorigini, sociali e biologiche.

Nella sua carismatica militanza,in cui si fa altresì araldo di un co-raggioso ateismo, RichardDawkins si situa nel campo degliscientisti attivi, secondo la tasso-nomia di Massimiano Bucchi, so-ciologo della scienza all’Univer-sità di Trento che da anni curacon Federico Neresini l’“Annua-rio di Scienza e Società”. Bucchi,definito lo scientismo come unavisione dove scienza e società so-no entità discrete e impermeabili,

Un sasso nello stagno

di Telmo Pievani

Dalla parte sbagliata

di Aldo Fasolo

e non fa più scandalo dire che innatura non tutto è adattamento:insomma, la selezione non è om-nipervasiva, ma ciò non implicache essa sia diventata un’attricemarginale. Gli autori (che hannorisposto alle stroncature guada-gnando altro spazio ma senza ag-giungere nuovi argomenti) sem-brano scagliarsi perciò non con-tro il neodarwinismo reale, macontro una sua caricatura usatacome “spauracchio”.

Tutte le teorie scientifiche ven-gono aggiornate, senza ortodossiedi sorta, ma la trasformazionepuò avvenire per un rovesciamen-to da parte di una teoria rivale oattraverso una più graduale inte-grazione. Per distinguere le duesituazioni esistono criteri episte-mologici ed empirici affidabili.Perché vi sia teoria alternativa (enon più darwiniana) i fattori in-terni e non selettivi dovrebberoessere così potenti da render con-to di tutti gli innumerevoli feno-meni che la teoria esistente saspiegare, dovrebbero predire fattinuovi e raggiungere entrambiquesti obiettivi adottando princi-pi esplicativi non riducibili a quel-li neodarwiniani: una triplice e ar-dua sfida che la proposta dei dueautori è lontana dal cogliere.

Un punto debole del libro èinfatti l’assenza – ammessa a

più riprese – di una teoria alter-nativa. Così leggiamo che la sele-zione naturale non sarebbe capa-ce di spiegare l’origine di struttu-re complesse, musica per le orec-chie di taluni creazionisti italianiche hanno salutato con malripo-sto favore l’affermazione. Si trat-ta però di un richiamo a casi peri quali spesso spiegazioni esisto-no già, e ampiamente corrobora-te. Ma, soprattutto, non si dicecome queste strutture possanoessersi evolute altrimenti, se nonattraverso la molteplicità di pro-cessi e di meccanismi (non soloselettivi) previsti dall’attuale teo-ria evoluzionistica. Che il beccodel picchio e il sonar del pipi-strello siano proprio così soltantoa causa di loro vincoli interni epoi, guarda caso, assolvano anchea una funzione adattativa in uncerto contesto, sembra proprioqualcosa di più di una correlazio-ne fortunata. È significativo che ipiù importanti esperti di biologiaevoluzionistica dello sviluppo,come Alessandro Minelli, abbia-no cortesemente smentito questainterpretazione radicalmente an-ti-darwiniana delle loro stessescoperte sui vincoli interni dellamorfogenesi.

Nel libro domina la pars de-struens. Gli “errori dei neodarwi-nisti” – ma non certo di Darwin,il quale, al contrario di quanto iltitolo lascia supporre, offrì dell’e-voluzione una spiegazione plura-lista e flessibile – deriverebberodall’aver inteso la selezione e l’a-dattamento come leggi universali,e inconfessabilmente finalistiche.E qui si annida la debolezza fina-le del ragionamento. Dato che laselezione naturale non soddisfacriteri di universalità e di preditti-vità quantitativa stretta – come ènormale che sia, essendo unaspiegazione di carattere storico econtestuale – allora il neodarwini-

smo non avrebbe lo status di unateoria scientifica al pari della fisi-ca, essendo poco più di una rac-colta di racconti e di scenari. Nonc’è teoria alternativa, quindi, per-ché dell’evoluzione non può es-servi “teoria” tout court.

La fallacia dell’argomentazioneè doppia. Innanzitutto, da decen-ni la selezione naturale è un pro-cesso riproducibile in laboratorio(basti verificare e prevedere l’a-zione di una pressione selettiva suuna popolazione di batteri permolte generazioni) e oggi i suoieffetti sono prevedibili anche innatura grazie alla convergenza didati molecolari ed ecologici (sipensi agli studi trentennali dei co-niugi Peter e Rosemary Grant alleGalápagos). Inoltre, pensare chesia “scientifica” soltanto una spie-gazione che ricorra a leggi univer-sali nel senso forte presuppostodagli autori è un’esigenza restritti-va da tempo superata. Può benis-simo sussistere una spiegazionescientifica di fenomeni storici econtingenti, ricorrendo a modelli,a inferenze e a una pluralità dipattern e fattori la cui incidenzapuò essere misurata, prevista e di-scriminata statisticamente per in-tere classi di tratti.

Quanto al malcelato finalismodi alcune spiegazioni evoluzioni-stiche, è una critica corretta mada considerarsi acquisita. Il libroevidenzia giustamente l’infonda-tezza di quell’“adattazionismo”caricaturale che alcuni storici e fi-losofi (raramente i biologi sulcampo) vorrebbero applicare aogni campo dello scibile umano,compresi gli orientamenti politici.

Ma l’obiettivo polemico del li-bro passa dagli eccessi di unacerta psicologia evoluzionisticadi maniera all’intera logica del-l’evoluzione, ed è un peccato,perché se ci si fosse accontentatidi smontare la retorica dell’ul-tradarwinismo da rotocalco sisarebbe reso un utile servizio.

I dibattiti in questo campo su-biscono poi l’antipatico destinodi dover convivere con un “con-torno” indesiderato.

Gli autori dedicano l’aperturaa una netta presa di distanza

da qualsivoglia dottrina del “dise-gno intelligente”, professando illoro ateismo (che però non è con-dizione necessaria per non esserecreazionisti). Il doveroso gesto dichiarezza tradisce il timore che ipresunti “errori di Darwin” pos-sano essere strumentalizzati, eve-nienza che si è puntualmente rea-lizzata anche in Italia, con proflu-vi di elogi imbarazzanti dalle pa-gine dell’integralismo religiosonostrano. Ancora una volta, quin-di, impariamo che la cecità ideo-logica può sviare la mente a talpunto da indurre in divertenti au-togol, poiché qualsiasi osservato-re competente nota che la visionestrutturalista e fisicalista contenu-ta nel libro sarebbe altrettanto in-tegralmente naturalistica, e persi-no più meccanicistica, di quelladarwiniana. Ipnotizzati da quel ti-tolo, certi ansimanti recensori sa-rebbero pronti a cadere dalla pa-della nella brace pur di vedere ce-lebrati al più presto i funeraliscientifici del naturalista inglese.Ma anche per questa volta l’ap-puntamento è rinviato. ■

[email protected]

T. Pievani insegna filosofia della scienzaall’Università di Milano Bicocca

IMPA 7-8 2010 ok 23-06-2010 10:40 Pagina 16

Page 17: 61191478-10-07-INDICE

N. 7/8 17

Media-mente

Tonino Cantelmi,Maria Beatrice Toro

e Massimo Talli

AVATAR

pp. 182, € 16,Magi, Roma 2010

L’incessante attività comu-nicativa degli umani è

sempre più mediata da una po-tente tecnologia, il cui appara-to di punta è Internet. La tec-nologia dell’informazione con-tribuisce alla trasformazionedelle capacità mentali, all’ac-centuazione o all’affievolimentodelle inclinazioni, alle derive psi-cologiche, alla soddisfazione o al-l’intensificazione dei bisogni emo-tivi. Poiché la comunicazione è unprocesso di complessità straordi-naria, in cui si mettono in giocoinformazioni, sentimenti e relazio-ni interpersonali e in cui si ricerca-no protagonismo e gratificazione,si capisce come il palcoscenicovirtuale di Internet con le sue mil-le luci sfavillanti ci attragga irresi-stibilmente, promettendo di sot-trarci a una vita quotidiana di fru-strazioni, di noia, di timidezza o didepressione per aprirci le porte diun eden irenico e appagante.

I mondi virtuali della Rete so-no abitati da avatar (incarnazio-ni digitali delle persone) chedanno voce e sembiante a perso-ne concrete, e tramite questecreature finte e realissime gliutenti comunicano, vivono, gioi-scono e, talvolta, si distruggono,perché, come nella vita vera, nonè tutto oro quello che luce e an-che in Internet si celano insidie.

Il libro ci presenta un quadrointeressante, a volte inatteso e im-pressionante, di dislocazioni men-tali, di derive autistiche, di con-dotte aberranti, di confusione o diperdita di identità, di dissociazio-ne psichica, di dipendenze e di ve-re e proprie intossicazioni da In-ternet: tutti fenomeni sostenutidalla sicurezza, dalla tranquillità edal vero e proprio godimento of-ferti dalla comunicazione mediata.

La possibilità di uscire da sestessi per offrirsi ai corrisponden-ti sotto altre vesti, magari contraf-fatte, di abbandonare la vita quo-tidiana per intrecciare nei blograpporti con (gli avatar di) inter-locutori che coltivano interessiaffini (o che nutrono patologieidentiche) è talmente piacevoleche i protagonisti di queste fughenella Rete bramerebbero addirit-tura di trasformarsi in un vortico-so e scintillante sciame di bit peraccedere a un felice iperuranioimmateriale.

Paradigmatico ed estremo è ilcaso degli hikikomori (in giappo-nese “stare in disparte”): in Giap-pone il 20 per cento degli adole-scenti maschi rifiutano per mesi oper anni ogni contatto personalediretto, anche con i genitori, perrestarsene chiusi in camera, colle-gati con il mondo illimite delWeb. Essi escludono dalla pro-pria vita la scuola, lo sport, le festee tutto per esistere e comunicaresoltanto attraverso i loro avatar,cui delegano ogni attività: nono-stante ciò non si sentono affattoisolati, anzi si considerano mem-

conosce l’importanza di una“psicologia empirica” capace diclassificare gli stati interni dell’a-nima, mentre l’antropologiapragmatica studia l’individuonella varietà storica e culturale, isuoi stati normali e patologici.

Nel corso dell’Ottocento, cuiè dedicato uno dei capitoli piùampi e ricchi di analisi di autorie opere, c’è un’esplosione di stu-di psicologici; si creano i labora-tori di psicologia, e questa disci-plina si emancipa dalla filosofiae assurge a scienza autonoma sulmodello delle scienze naturali.Inoltre, nascono nuovi campidella ricerca psicologica: la psi-cofisica, la psicologia della folla,la psicologia animale, gli studisul sistema nervoso, sull’influen-za di Darwin sulla psicologia. Cisono diversi orientamenti inconflitto, l’associazionismo, lostrutturalismo, il funzionalismo.Il Novecento è caratterizzato dagrandi figure di psicologi, quiampiamente trattate. Janet,

Freud e gli sviluppidella psicoanalisi, Ad-ler, Pavlov, Werthei-mer, Piaget e altri an-cora, oltre che gliorientamenti domi-nanti: dal comporta-mentismo al cognitivi-smo, di cui l’opera diUlric Neisser del1967, Psicologia cogni-tiva, ha disegnato l’o-rizzonte teorico. E poi

la psicologia sovietica, di cuiMecacci è il maggiore studiosoitaliano, con il privilegiamentodel pensiero di Vygotskij.

L’autore si sofferma poi sullearee di ricerca del Novecento,come la psicologia animale e lapsicotecnica; o su temi specificiche sono stati al centro di ricer-che sperimentali e di nuoveipotesi interpretative, come ilcampo delle emozioni, dell’in-telligenza, della personalità, deirapporti mente-società, e so-prattutto si sofferma sulle neu-roscienze, di cui offre una sofi-sticata analisi, tra le più com-plete e persuasive del libro,corredato fra l’altro da nume-rose illustrazioni.

In poche, sobrie pagine di con-clusione, Mecacci indica quali

sono, a suo giudizio, le Prospetti-ve di ricerca storica. Ciò di cui habisogno oggi la psicologia è com-prendere, in primo luogo, che es-sa si occupa di fenomeni che so-no stati storicamente costruitidalla cultura greca (Socrate, Pla-tone, Aristotele). La percezione,la memoria, le emozioni e cosìvia non sono entità astoriche;storici non sono solo gli sviluppidella psicologia, ma le sue stessecategorie. Solo attraverso questaconsapevolezza potremo con-frontarci con i modelli dellamente elaborati in aree culturalidiverse dalla nostra; un proble-ma particolarmente urgente, nelmomento in cui i rapporti conpopolazioni di culture “altre” so-no parte integrante della nostravita individuale e sociale. ■

[email protected]

M. Quaranta è autore di saggi sulla filosofiaitaliana dell’Otto e Novecento

Luciano Mecacci

MANUALE DI STORIADELLA PSICOLOGIA

pp. 342, € 30,Giunti, Firenze 2009

Alla base di questa storiadella psicologia dall’e-

poca classica a oggi, la primain Italia, c’è un’idea “forte”:la cultura greca ha elaborato idue modelli di psicologia chehanno avuto una continuitàfino al Novecento. In Socratela psiche è al centro della vitaumana; il suo insegnamento èfondato sul dialogo il cui scopo èla “cura” dell’anima. L’altro mo-dello è stato espresso da Aristote-le nel primo manuale di psicolo-gia, il De anima, in cui il filosofocompie un’analisi dei processi co-gnitivi e descrive l’anima sensiti-va e intellettiva secondo un’archi-tettura, afferma Mecacci, che ri-conosciamo come ilpresupposto concet-tuale delle attuali teoriedella mente. Ora, ilmodello aristotelico siè imposto fino al Nove-cento nella psicologiadi indirizzo sperimen-tale, mentre la “cura”dell’anima è stata l’im-postazione di correnticome la psicoanalisi orecentemente della psi-cologia postmoderna.

Tra i filosofi del medioevo ècentrale il contributo in psicolo-gia di Tommaso d’Aquino; eglisostiene il carattere individualedei processi mentali, e sul dibat-tuto problema delle passioni (oemozioni) formula una teoriamolto articolata. Egli distinguevari tipi di “appetiti” (o tenden-ze); un concetto, nota l’autore,“che è rimasto, seppure in formediverse, fino a tutta la psicologiadel Novecento”.

Nel Cinquecento c’è una svol-ta; il tema centrale non è più la ri-cerca dell’essenza dell’anima, male operazioni cognitive con cuiorganizziamo le conoscenze delmondo. Ora la psicologia è allabase della formazione della per-sonalità umana, e perciò è colle-gata con la pedagogia, con l’edu-cazione dei fanciulli. L’umanistaspagnolo Juan Luis Vives pubbli-ca nel 1538 De anima et vita,“considerato il primo esempio dipsicologia moderna”.

Nel Sei-Settecento c’è un no-tevole progresso nello sviluppodell’anatomia e fisiologia del si-stema nervoso, e soprattutto delcervello; si impone il dibattitosul ruolo dell’esperienza e deiprincipi di funzionamento dellamente, e si scontrano due posi-zioni, fra chi ritiene che nellamente ci siano idee innate e chiriconosce il primato dell’espe-rienza. Inoltre, si apre il dibatti-to sulle passioni, sulle differenzefra la dimensione cognitiva equella affettiva e a chi va attri-buito il primato. Queste discus-sioni, cui partecipano tutti i filo-sofi del tempo, hanno il loropunto d’approdo nel pensiero diImmanuel Kant. Egli nega che lapsicologia sia una scienza, ma ri-

Stare in disparte

di Giuseppe Longo

La cura dell’anima

di Mario Quaranta

bri della vasta famiglia incontrataonline. Si dedicano ai giochi diruolo, all’ascolto di musica, alla vi-sione di filmati, intessono conver-sazioni nelle chat room e rinuncia-no al proprio nome per usare sologli pseudonimi con cui sono cono-sciuti dai colleghi di esilio virtuale.Ma per loro gli esiliati sono le per-sone del mondo reale: gli hikiko-mori si ritengono un’avanguardiadi illuminati, anche se a notte fon-da, in momenti di cedimento cor-porale, saccheggiano la dispensaper sopravvivere.

Più allarmante è il fenomenopro-Ana (Ana sta per anoressia):si tratta di siti ben dissimulati chesi spalancano su un mondo paral-lelo dove si parla solo di calorie,di magrezza, di esercizio fisico, ditecniche per ridurre l’assunzionedi cibo e dell’orgoglio derivantedall’assoggettamento del corpo edei suoi bassi istinti. Si calcola chenegli Stati Uniti le persone ano-ressiche siano 11 milioni (il 99 percento donne tra i 12 e i 40 anni) ein Italia mezzo milione. Mentrenel mondo reale l’anoressia è con-siderata una patologia grave e po-tenzialmente esiziale, nei siti pro-Ana essa è uno stile di vita che siè scelto e che fa sentire le adeptesuperiori ai comuni mortali. No-nostante i tentativi delle autoritàdi oscurare questi siti, essi rina-scono e si moltiplicano, e in nu-mero crescente le altezzose ano-ressiche conducono blog inneg-gianti alla loro patologia, divenu-ta una semidivinità benevola,esaltano con fierezza i risultatiraggiunti, si comunicano metodied espedienti, celebrano le marti-ri della loro pseudoreligione, cioèle compagne morte.

Un altro mondo parallelo piut-tosto bizzarro e inquietante èquello degli avatar-vampiro, fre-

quentato da chi si sente attrattoda regioni particolari dell’occultoall’insegna di Nosferatu e di Dra-cula. Internet consente la creazio-ne di luoghi e modalità d’incontroper chi ha gusti particolari in temadi orrore: il sangue, la morte, lanon vita. Potrebbe sembrare ungiuoco innocente, ma talora gliiniziati adottano uno stile di vitavampiresco anche nel mondo rea-le: si fanno limare i denti, si aggi-rano di notte con il volto pallidodi cipria o di biacca, avvolti in am-pi mantelli neri, addirittura bevo-no sangue (si spera non umano).

Internet consente la creazionedi un numero potenzialmente il-limitato di mondi paralleli, chiu-si ed esclusivi, in cui si entra percooptazione e per affinità e dovesi può conservare l’anonimato;e, come accade in tutti i circolielitari, i membri si consideranosuperiori agli estranei.

La fuga nella Rete passa attra-verso fasi di assorbimento cre-

scente, fino a ottanta e più ore lasettimana, con un evidente dete-rioramento dei rapporti diretti, de-gli impegni lavorativi e familiari eanche della salute fisica e psichica.Tutti questi svantaggi sono com-pensati da una sovraeccitazionecognitiva e da un appagamentoche confina con la sensazione dionnipotenza: le paure sono lenite,i giudizi altrui sono ignorati, non cisono più confronti penosi. Anchese la vita là fuori è colma di ansia,di noia e di avvilimento, c’è un luo-go alto e privilegiato, da visitareossessivamente, dove tutto ciò spa-risce per dar luogo a un’estasi cheè insieme salvifica e distruttiva. ■

[email protected]

G. Longo insegna teoria dell’informazioneall’Università di Trieste

John Freeman, LA TIRANNIA DELL’E-MAIL, ed. orig. 2009, trad. dall’inglese di Giu-liana Olivero, pp. 208, € 17, Codice, Torino 2010

Sarà capitato a tutti di cliccare con insistenza sull’icona “invia/ricevi” del-la posta elettronica (anche se il pc in genere controlla l’e-mail in automati-co ogni novanta secondi) nella speranza che, a forza di farlo, prima o poiun’e-mail arrivi, per non dire di chi senza usa telefoni cellulari abilitati all’e-mail, che si offrono a un controllo dei messaggi in entrata ancora più com-pulsivo. È lo stesso tipo di meccanismo che sta alla base della dipenden-za indotta dalle slot machine: si chiama “schema di rinforzo a intervallo va-riabile”. Accade, ci spiega John Freeman, nel caso di quelle azioni da cuici si aspetta una ricompensa, che però non arriva tutte le volte che vengo-no eseguite, soltanto qualche volta, e in maniera imprevedibile: con l’e-mailè la stessa cosa. Si tratta di un comportamento del quale, grazie alle tec-niche di neuroimaging, si stanno iniziando a scoprire le basi neurali: quan-do otteniamo una ricompensa (il jackpot, o l’e-mail in arrivo), la dopamina,un ormone anche neurotrasmettitore, affluisce in una specifica area cere-brale. È questo solo uno dei tanti comportamenti ossessivi (e spesso in-consapevoli) che stanno caratterizzando l’uso della comunicazione digita-le; non a caso, negli Stati Uniti, alcuni psicologi stanno spingendo affinchéla “dipendenza da Internet” venga classificata come un disordine clinico.Il libro di Freeman con non si limita comunque al presente, ma compie uninteressante e documentato excursus sulle origini dei sistemi postali e de-gli altri mezzi di comunicazione (dalle diligenze del Far West allo scettici-smo dei politici che non riuscivano a comprendere il funzionamento del te-legrafo), non ultimo raccontando l’intera storia di Internet e della posta elet-tronica (molto più “antica” di quanto in genere si sappia: ad esempio, il sim-bolo @ per separare un indirizzo dal nome del dominio fu usato per la pri-ma volta nel 1973). Pur ironizzando sui comportamenti più aberranti, l’au-tore del volume, che è un critico letterario, collaboratore di testate come“The New York Times”, “The Guardian”, “Wall Street Journal” e da circa unanno direttore editoriale della prestigiosa rivista letteraria “Granta”, non lan-cia strali apocalittici contro le tecnologie digitali, bensì avanza una criticapacata ed equilibrata, che guarda a un nuovo modo di impostare le pro-prie comunicazioni personali e lavorative nell’ottica di una migliore qualitàdi vita, concludendo con la proposta di un manifesto per un movimento“Slow Communication”: “Molti dei valori di Internet rappresentano dei mi-glioramenti sociali, e la rete può costituire una grande piattaforma per la so-lidarietà, in grado di premiare la curiosità, vantaggiosa in termini di utilità econvenienza. Questo non è il manifesto di un luddista, questo è un mani-festo umano”. Al centro di tutto, l’importanza di avere sempre ben presen-te che la rete e il suo spazio di informazione virtuale non sono un mondo insé e per sé, ma solo un supplemento del mondo che già esiste.

GIULIANA OLIVERO

IMPA 7-8 2010 ok 23-06-2010 10:40 Pagina 17

Page 18: 61191478-10-07-INDICE

N. 7/8 18

Narratori italiani

Antonio Pennacchi

CANALE MUSSOLINI

pp. 460, € 20Mondadori, Milano 2010

Se l’Agro Pontino è per An-tonio Pennacchi una musa

(Magrelli), un fantasma (Pavo-lini) o la sua Yoknapatawpha(la contea di provincia ameri-cana dove Faulkner ha scrittoe ambientato tutte le sue operee vicende umane universali),allora Canale Mussolini, l’ultimoromanzo dello scrittore sessan-tenne di Latina, è il suo destinoletterario, il suo compimento, “illibro per cui sono venuto al mon-do”, come scrive lui stesso nellepoche righe introduttive. Il libroche tutti i tardivi estimatori diPennacchi attendevano, delloscrittore di finzionecon oltre sette titoli fraromanzi e raccolte diracconti, nonché delloscrittore di inchieste ericerche storiche sullarivista “Limes”, raccol-te almeno in due volu-mi, perché è un roman-zo che “ferma” la sto-ria della bonifica del-l’Agro Pontino, chemette ordine.

La storia parte nel 1926, annodi inizio della bonifica più famo-sa e riuscita sotto il ventennio, maaffonda ancora più indietro attra-verso il racconto dei Peruzzi,mezzadri veneti alla fine dell’Ot-tocento, una vera e propria stirpe,un genus come esempio, insiemeai ferraresi, agli emiliani e ai friu-lani, e simile alla maggior parte diquei coloni da cui discendono gliabitanti dell’Agro Pontino. L’an-tefatto è la miseria della campa-gna, i disastri, soprattutto econo-mici, della prima grande guerra,la rovina completa, tanto che an-che a generazioni di distanza siconserva l’esclamazione “maledé-ti i Zorzi Vila”, il nome dei contiproprietari delle terre con i qualisi è sempre in debito per le care-stie e le spese del raccolto.

Raccontando la vicenda e letraversie dei Peruzzi, preco-

ci simpatizzanti per l’ordine nuo-vo fascista, Pennacchi fa un ri-tratto del giovane Mussolini, de-gli anni fertili di formazione no-vecentesca e di grande instabilitàdell’Italia, incubazione del fasci-smo europeo in fin dei conti, delperiodo del primo dopoguerra: ilbiennio rosso e le lotte per il po-tere tra socialisti e fascisti, tra fra-telli che si odiano, Romolo e Re-mo, Caino e Abele, anticipazionedella guerra civile e della nascitadella Resistenza. Il corpo epicodel racconto si concretizza con lapresa del potere di Mussolini, labonifica, spiegata nei minimi par-ticolari tecnici, l’esodo di più ditrentamila persone in tre anni,pionieri in una sorta di nostranoFar West e il faticoso inizio nelleterre strappate alla palude pertentare di sopravvivere. Uno deitanti poderi dell’Opera nazionale

combattenti viene affidato ai Pe-ruzzi, di cui lo zio Pericle diventail più autorevole pater familias,novello Enea contadino, proleta-rio, fascista e violento, e nell’A-gro comincia la lotta contro lamalaria (sconfitta solo in seguitodagli americani con massicce do-si di Ddt), ma soprattutto l’operadi fondazione di città e di borghia opera del duce, l’ex rivoluzio-nario al potere che incomincia acredere alla propria propagandae alla sua parodia della realtà. Inmezzo c’è la guerra d’Abissiniacon le sue tremende stragi chefanno da preludio al disastro del-la seconda guerra mondiale.

Un grande poema epico chevuole raccontare la storia d’Italia,Canale Mussolini, attraverso le vi-cende degli umili, episodi dram-matici e altri comici, i grandieventi della Storia, parti meno co-nosciute e le origini e le contrad-dizioni di un popolo. Alcuni epi-sodi, alcuni racconti tra i più mar-ginali rispetto alla Storia resteran-no a lungo nella memoria e nellamente dei lettori per intensità,forza e per il carico di pietas, co-me il crudo assassinio di un preteribelle di Comacchio, o la morte

accidentale di un bam-bino caduto dal trenoverso la terra promes-sa. Inoltre alcuni inten-ti, proprio di ritorno edi retro-analisi sul fa-scismo, sembrano co-muni alle ultime operedei migliori registi ita-liani, come il Vincere diBellocchio e Le rose deldeserto di Monicelli. Imodelli dichiarati di

Pennacchi sono noti: Il mulinodel Po di Bacchelli per la tematicacontadina, I promessi sposi diManzoni per la commistione trastorie e Storia, La geografia diStrabone per la curiosità topogra-fica, La vita di Cellini per la scel-ta di uno stile spumeggiante e,perché no, l’Eneide di Virgilioper l’avventura, le guerre e l’eso-do. Il limite, ma anche il punto diforza di questo romanzo, è lacommistione di generi tanto inuna narrazione confidenziale, dafilò (il racconto nella tradizioneveneta in una comunità contadi-na dopo il lavoro), quanto moltointeressante, linguisticamente, nelrecupero del dialetto dei primicoloni che ormai si parla solo neiborghi dell’Agro. Una commi-stione necessaria per far emergereun coro di voci che diano forza,per la prima volta, a un mito difondazione nella palude redenta.In questo senso assume un valorefondamentale la cartina, nel retrocopertina, che illustra il prima e ildopo della palude, che è inevita-bile consultare durante le spiega-zioni tecniche sulla bonifica.

Pennacchi, dopo un fondamen-tale libro di formazione, Il fascio-comunista (Mondadori, 2003), su-gli anni politici sessanta e settantasu un tema tabù come il neofasci-smo, dopo i racconti sulla suaesperienza in fabbrica, Shaw 150(Mondadori, 2007), e molti altrilibri di cui si ricorda solo un thril-ler horror proprio su Latina, Pa-lude (Donzelli, 1995), si confermaun grande scrittore alla sua operapiù importante, anche per il con-tributo alla costruzione di unamemoria collettiva. ■

[email protected]

N. Villa è critico letterario

Benito Mussolini

L’AMANTE DEL CARDINALECLAUDIA PARTICELLA

a cura di Paolo Orvieto,pp. 213, € 13,

Salerno, Roma 2009

Piuttosto che fiondarsi nellaStoria come personaggio,

Mussolini avrebbe forse dovu-to continuare a scrivere roman-zi storici d’appendice. Si fa leg-gere L’amante del Cardinale.Claudia Particella (uscito apuntate sul “Popolo” di Tren-to, tra il gennaio e il maggio del1910) e si sintonizza con moltoromanzesco otto-novecentesco,nostrano e non; tanto che si faticaun po’ a seguire Paolo Orvieto,che cita parecchi narratori italianidel XIX secolo, specie quelli im-pegnati in incursioni storiche, daManzoni in su, e molte trame in-ternazionali e nazionali del gotico,della letteratura dei misteri e diquella femminile tra fine Sette-cento e seconda metà dell’Otto-cento. Anche se, a selezionare ipunti fermi della sua introduzio-ne, restano sostanzialmente duenomi: Garibaldi a monte, D’An-nunzio a valle. Il primo è citato e

discusso soprattutto per il suo an-ticlericalismo, a partire da quellotorrenziale della Clelia o il gover-no del monaco – declinato purecome governo dei preti – che è del1870; il secondo per i soliti luoghicomuni di certa narrativa fin desiècle, ovvero la femme fatale e lacomplementare (e altrettanto fa-tale) misoginia.

In sintesi, il mix, nel romanzomussoliniano, suona così: don Be-nizio, assimilabile a preti e mona-ci di Radcliffe e Lewis, è un miso-gino che vuole possedere la fem-me fatale Claudia. Siccome que-st’ultima è fedele al cardinaleEmanuele Madruzzo, vescovo-principe di Trento, don Benizio –quasi alter ego di Benito, suggeri-sce Orvieto – si allea con il contedi Castelnuovo e avvelena la pro-tagonista. Ironia della sorte, Clau-dia muore prima di rinnegare lasua fedeltà e di riuscire a metterein atto un potenziale tradimentocon un giovane ufficiale di stirpeungherese, occasionalmente in-crociato a un banchetto l’ultimasera della sua vita. Trattasi, in-somma, di cortigiana onesta piùdi una matrona, il cui sogno èquello di essere accettata dalla co-munità delle anime trentine comesposa del cardinale, via dispensapapale, oppure di fuggire roman-ticamente con lui. E finirà inveceper incarnare, la povera Claudia,il ruolo del capro espiatorio, perle debolezze politiche dell’aman-te, l’ignoranza del popolo tutto, legelosie dei preti. E di fatale ci re-sta pochino, in questo personag-gio femminile, e restano esteriori

le facili, iterate associazioni diClaudia a Cleopatra (come quelledi don Benizio al diavolo). Tantoche – a voler rimanere nella nar-rativa di quegli anni ma senzausarla come alibi (senza dimenti-care l’autore, non ancora, comun-que, duce dell’Italia fascista) – piùche a D’Annunzio, viene da pen-sare a Fogazzaro e, perché no?,proprio a quel Fogazzaro che nel1910 pubblica, pochi mesi primadi morire, Leila. Le solitudini not-turne sposate da Claudia intornoall’acqua, circondata dalla natura,e l’arte popolare, poco raffinatama molto appassionata, che leveicola, sono quanto meno spie diuna “sintonia epocale” più fogaz-zariana che dannunziana. E in talsenso è anche più facile spiegarel’orizzonte d’attesa del romanzo,che esce sul “Popolo” di Battistima mira anche a un pubblico difruitori medio.

Ecco allora che in questa affa-bulazione mussoliniana si no-

ta già l’arte del compromesso, tesaa sfumare l’anticlericalismo. Gari-baldi si allontana, D’Annunziopure, mentre il re e il papa, comeè noto, si avvicineranno. Al pattonarrativo subentrerà un patto sto-rico, ma già il lettore modello del-l’Amante del cardinale – checchéne dica Mussolini all’inizio deglianni trenta, et pour cause – non èun anticlericale d’antan, ma un let-tore benpensante e cattolico. ■

[email protected]

L. Curreri insegna letteratura italianaall’Università di Liegi

La palude

redenta

di Nicola Villa

Arte

del compromesso

di Luciano Curreri

Babele. Osservatorio sulla proliferazione semantica

Mercato, s. m. Deriva dal latino mercatus-us(commercio). E naturalmente da merx

(merce). Ne scaturiscono il classico “mercante”,ma anche la sospettata “mercanzia”, e poi “mer-catura”, “mercede” (ricompensa), “mercenario”(ossia il militare che combatte per chi gli assegnapiù mercede). Il termine assume inevitabilmen-te una duplice dimensione: ha a che fare con gliscambi di natura economica (sino alle aree fi-nanziarie e azionarie, dove spesso il denaro fisi-camente non si vede e dove tuttavia la circola-zione dei beni e delle ricchezze risulta altissima),ma ha anche a che fare con il luogo materiale, ovirtuale (su Internet, ad esempio), dove avven-gono gli scambi (e che si può identificare con laBorsa, con i mercati generali, dove si trovano i“grossisti”, con i supermercati dalle cangiantigrandezze, con i mercatini delle bancarelle, conil “mercato delle pulci”, tutti mercati-luogo).Nel mercato, inteso nella prima come nella se-conda accezione, e tanto centrale nella vita asso-ciata da avere generato sul piano teorico l’“eco-nomia di mercato”, non di rado assimilata almotore del modo capitalistico di produzione,sussistono, come ritengono moltissimi economi-sti, la libertà d’azione, ma anche le regole chepossono talvolta irrigidire tale libertà (la quale,priva di controllo, e trasformatasi in oligopolio oin monopolio, può, a sua volta, anche negarsi eannientare il mercato stesso). Sussistono anche iprezzi, così come i mezzi di pagamento accetta-ti dai diversi venditori e dai diversi compratori;la concorrenza mai perfetta; l’istantaneità im-provvisa di un’innovazione tecnologica e del-l’apparizione di una nuova merce.

Non manca poi l’intervento pubblico, chepuò derivare, secondo Keynes, dai politici po-teri, dalla volontà di accrescere l’occupazione,dalla formazione di obiettivi nazionali compati-bili con il meccanismo del mercato. E che puògenerare il mercato cosiddetto “nero” (sempre

esistito, nell’agricoltura sovietica così come neitempi di guerra). Per gli economisti classici (sipensi a Smith e soprattutto a Ricardo) hanno lameglio la rendita, il profitto e il salario (impen-sabili senza la proprietà, ma ancor più senza gliscambi). Per Marx, che ai classici deve moltissi-mo, il valore d’uso di un oggetto viene soggio-gato, e indebolito, dal valore di scambio, giac-ché la crescita del saggio di profitto, che attraeil mercato, si deve al capitale (al cui interno sitrovano il lavoro vivo dei lavoratori e il lavoromorto delle macchine frutto del lavoro vivo del-le generazioni precedenti). Per i neoclassici ra-dicali il mercato è tale se si emancipa dai legamisociali. Per Schumpeter, invece, il mercato nonpreesiste. È l’imprenditore che, sino a quandopuò farlo (ma Schumpeter ne intravede la nonlontana scomparsa), lo crea, tanto che il merca-to non viene interpretato come un meccanismo,ma come la creazione permanente di un im-prenditore-inventore non residente in un im-mutabile territorio degli scambi. Diverso è dun-que il liberismo soggettivo-creativo di Schum-peter (vero epos della borghesia) dal liberismooggettivo, con il suo mercato squilibrato, diHayek.

Del mercato si trovano comunque ampie trac-ce già in Mesopotamia, nell’antica Palestina, ov-viamente nell’impero romano. La parola moder-na compare intorno al 1100 in francese e in in-glese. Dante la usa come sinonimo del luogomateriale e insieme del sistema, spesso moral-mente negativo, degli scambi. Il termine, del re-sto, è stato spesso accostato al caos, al chiasso,alla prostituzione, al chiacchiericcio inconclu-dente. L’economia moderna, tra mercantilismoe capitalismo, non esisterebbe neppure rinun-ciando alle riflessioni sul mercato, ma si è misu-rata con un termine sovente caratterizzato da unsignificato sprezzante.

BRUNO BONGIOVANNI

IMPA 7-8 2010 ok 23-06-2010 10:40 Pagina 18

Page 19: 61191478-10-07-INDICE

N. 7/8 19

Narratori italiani

Antonio Pascale

QUESTO È IL PAESE CHE NON AMO

TRENT’ANNI NELL’ITALIA

SENZA STILE

pp. 188, € 12,minimum fax, Roma 2010

“Ache punto è la notte?”potrebbe essere l’in-

terrogazione di sapore biblicocon la quale compendiare ilsenso di questo nuovo libro diAntonio Pascale, prolifico au-tore d’origine casertana giun-to ora alla sua decima opera,la seconda per minimum fax. Ineffetti, la notte di cui parla l’au-tore è quella che da almeno tredecenni avvolge con le sue tene-bre “lunghe e inquiete” il nostropaese, senza che si profili il timi-do baluginare di un’al-ba prossima ventura.Un reportage suTrent’anni nell’Italiasenza stile come enun-cia il sottotitolo, ruvi-do quanto efficace,dove l’autore ci spiega,annodando fili etero-genei e disparati, lostato delle cose. Unanotte italiana, quellache ci mostra Pascale,attraversata dal trionfo incontra-stato dell’industria cultural-pub-blicitaria, dominata dall’impera-tivo categorico della spettacola-rizzazione di circenses semprepiù volgari e demenziali, asservi-ta al dominio di un edonismonarcisista prono esclusivamentealla causa del mercato e del con-sumo. Un paese dove tranquilla-mente la cultura, l’intelligenza ela riflessione vengono additatetout court come disvalori tral’indifferenza generale.

Così tutto ciò che dovrebbetentare almeno di scalfire

questo stato di cose (per esem-pio, assumere, come fa Pascale, ilcarico di un’intellettualità auten-tica, capace di esercitare un pen-siero critico e problematico tesoa rifiutare la logica della semplifi-cazione e ad accogliere la sfidadella complessità, senza abdicareall’esercizio dell’analisi e dell’os-servazione, guardare e capire lecose grazie alla forza pura dellaragione e della passione) è siste-maticamente sostituito dallagrottesca sfilata di pseudo maî-tres à penser che, invece di sgom-brare le macerie di questo tren-tennio consolatorio e anestetico,puntellano allegramente le rovi-ne. Ecco allora, in tragicomicasuccessione, “l’intellettuale vip,il tuttologo moraleggiante, l’im-bonitore spettacolare, il trasgres-sore programmatico” (così foto-grafava la situazione Ferroni inuna recente intervista sul sitohttp://nuke.ilsottoscritto.it). Poi,per fortuna, si apre un testo co-me questo di Pascale e si legge,sin dalla primissima pagina, unafondamentale dichiarazione d’in-tenti: la rivendicazione di unascelta coraggiosa e umile, in net-

ta controtendenza rispetto aimodelli ferroniani succitati,quella cioè di autoindividuarsicome un intellettuale al servizio,un soggetto pensante in gradodi far luce nella notte, indican-do e citando libri e articoli, ra-gionando su fatti ed eventi,sciorinando dati e situazioni.Basterebbe la nutrita, eteroge-nea bibliografia, posta dall’au-tore in esergo, dei libri e degliautori di cui si occupa in questasua indagine colta e puntualeper avere una consistente guidaragionata alla comprensione eall’analisi di questi anni.

È una passione fredda quellache muove questo libro di Pa-scale: una freddezza che non si-gnifica però cinismo o disincan-to o rinuncia, ma semmai unavolontà di esperire un’idea, unateoria valida, facendosi largo inmezzo al ginepraio di un’infor-mazione sempre più malmosto-sa e tendenziosa, che agiscesempre più come strumento didistrazione di massa, dirottandola sua attenzione su questionidel tutto vacue e irrilevanti.L’autore si muove invece comese fosse un detective dello spiri-

to critico, un conra-diano secret sharer agliordini di un’intelli-genza che non abdicaalla tentazione delbatticuore e dell’irra-zionalità o della supi-na acquiescenza allemode più mainstream,ai dispositivi del con-senso di massa e del“così fan tutti”. PerPascale è infatti pro-

prio l’emotività uno dei pericolimaggiori, quella che si frapponefra l’evento e la comprensionedello stesso: “Vista e considera-ta la situazione del nostro paese,dove è proprio il tasso di emoti-vità, sempre così acceso, solen-ne e alato, che ci spinge a smet-tere di pensare (…) possiamospingerci ad affermare che quelcomplesso di reazioni labili e ve-loci che i primatologi chiamano‘emozioni’ può abbassare la no-stra comprensione del doloredel mondo o perlomeno render-la parziale?”. Si capisce facil-mente anche da questa citazioneche l’autore, da buon investiga-tore alla ricerca del senso per-duto, ricorre volentieri a unasorta di modularità espressivache viene continuamente reite-rata alla stregua di un rivelatoretic sintattico-verbale: procedereper interrogazioni assillanti e in-calzanti, sempre supportate dauna mole di fatti e questioni.

Pascale ci spiega che quellodella pursuit of happiness a tutti icosti è solo un equivoco e che aessa va sostituito piuttosto il “di-ritto all’inquietudine”: “Se nonpossiamo essere per forza felici,dobbiamo accontentarci di esse-re intelligenti, e dunque indaga-re, indagare, indagare”. Ma, vo-lendo rinvenire un difetto inquesto libro non banale, si puòdire che talvolta l’autore pare so-praffatto da una specie di empi-to didascalico, di furor pedagogi-cus che non corrobora sempre lapotenza del ragionamento e del-la analisi. Comunque, un libroche resta un’opera necessaria eimportante. ■

[email protected]

L. Accorroni è insegnante e critico letterario

Emerito

discografico

di Linnio Accorroni

Antonio Franchini

SIGNORE DELLE LACRIME

pp. 127, € 13,Marsilio, Venezia 2010

In treno da Benares a Ri-shikesh, nell’India del nord.

Poi la marcia nella valle di Ya-muna, sacra a Visnu, verso ilpasso di Har Ki Dun e le sor-genti del Gange. Infine, il raf-ting sulla corrente del fiume sa-cro. L’ultimo libro di AntonioFranchini è il racconto di unviaggio “verso la cuna del mon-do”. Perché il viaggio verso edentro l’India è sempre un mo-vimento “anadromo”. Quelloche per Furio Jesi (in Egitto) eracome un “andare verso la mor-te”, “verso il limite della distru-zione che coincide con il sensodella rinascita”. E proprio al dioindiano della “distruzione e del-la rinascita”, Œiva, sono dedica-ti il titolo e il significato ultimodel libro. Perché il sentimentaljourney di Franchini appartienesenz’altro alla robusta correntepostmoderna che dallo “shivai-smo” hindu ha ricavato sugge-stioni e motivi d’ispirazione for-ti. D’accordo: “Il libro di Fran-chini non è un saggio su Œiva”(quarta di copertina). Ma comenon pensare alla “Bibliotecaorientale” e “Ramo d’oro”Adelphi, agli dei di Calasso? Co-me ignorare il debito che Fran-chini dichiara nella nota finalecon Alain Danielou e WendyDoniger? Materia che entra inmodo diretto, esplicito, nel tes-suto della scrittura di Signoredelle lacrime, con ampie citazio-ni corsive, parallele a quelle del-le Upanisad e del Libro tibetanodei morti.

Insomma: il libro elabora unaserie di studi raffinati e com-

plessi sulla quella religione mi-steriosa e antichissima che miseradici nella valle dell’Indo, anco-ra prima della calata degli Arii.Una religione oggi ignorata dal-l’India borghese, ma praticatadal popolo e dagli intellettuali,con i suoi culti “tantrici”, cheutilizzano la fisiologia animaleper oltrepassare le barriere cheseparano l’umano dal divino.

Non sarà un caso che Franchi-ni ponga subito la sua esperien-za indiana sotto il segno della“prova iniziatica”, del “novizioerrante” che ha il compito di ac-quisire “il sapere e la conoscen-za”: “Il ‘viaggio’ è sempre unsimbolo di prova iniziatica. Sichiama Brahmacârin il novizioche cerca di acquisire il sapere ela conoscenza”. E se è vero che“tout récit est un récit de voya-ge” (de Certeau), è propriol’“indecidibilità” della scritturadi viaggio (come classificare Levoci di Marrakesch di Canetti, InPatagonia di Chatwin?) a nutrirela sostanza “esoterica” di Signo-re delle lacrime. Un libro costrui-to attorno al nucleo segreto diun’“ascesi”, visto che – diceFranchini con Meister Eckhart –

“una sola opera ci compete: l’an-nientamento di noi stessi”.

Il diario è costruito in “dissol-venza” e incrocia, lasciando spes-so un senso di vertigine, tempi,persone, luoghi diversi e lontani.Capodimonte e lo Swiss Cottagedi Rishikesh, il ghat di Benares,“saccheggiato dalle persone chefotografano ossessivamente, araffica, come cacciatori che spa-rano su tutto ciò che si muove”, ela spiaggia del Lazio, “che miopadre percorreva tutti i giorni,avanti e indietro”: “Adesso locomprendo, adesso che in più diun vecchio ancora eretto nellasua tunica bianca mi è sembratodi vederlo, fantasma che passeg-gia per i ghat sguarniti (…) L’at-tività che i morti svolgono conmaggiore naturalezza è forsecamminare. In mezzo a noi,quando più siamo pochi, distrat-ti”. Œiva si insinua nelle paroledi un vecchio, in una bottega dibarbiere di Lambrate: “Il giornodopo mi sono iscritto alla So-crem, la società per la cremazione(…) Il crematorio è bello, è puli-to, ci sono i cigni, l’acqua (…)Non, non è che parliamo sempredi queste cose. Abbiamo comin-ciato parlando di figa. Lei è arri-vato tardi, caro signore. Ieri serain televisione c’era un program-ma con dieci delle più belle put-tane del mondo. Venivano da tut-ti i paesi, dal Brasile, dalla Thai-landia, dall’Est”. È la fêlure, lacrepa del mondo, nelle parole de-gli allegorici amici francesi e “oc-cidentali” del narratore, quellache si scorge nei giovani “bion-dorossicci” scesi da un volo daMosca “drappeggiati nelle volutedi una garza trasparente rosa”,nell’americano dai capelli rasta“che abbiamo visto tuffarsi daighat come dai blocchi di parten-za di una piscina e battere lunghebracciate di un perfetto crawlnella melma”: “Dico a Luc chesiamo fêlés tutti quanti, cambiasolo il posto e la profondità dellafêlure (…) Su questo Luc con-corda. Conviene che molti suoicolleghi di ospedale, gente chenon recita mantra, non veste infogge bizzarre e non va in pelle-grinaggio da nessuna parte, dan-no assai più fastidio”.

C’è il tentativo delle cose di “re-stare in forma”, ma è un tentativoinutile. L’indagine sullo sforzomuscolare che sta al cuore di ognicreazione, anche quella del mon-do, è il tema ossessivo di Franchi-ni, da Quando vi ucciderete mae-stro? a Gladiatori. Ma a vincere èsempre Kâma, il dio del samsara,che allo stesso modo tormenta levertebre dei direttori editoriali diSegrate – invano soccorsi dai mas-saggi shiatzu – e atterra l’orgogliodi Indra, re degli dei: “O re deglidèi, ho conosciuto la tremendadissoluzione dell’universo. Ho vi-sto tutto perire, sempre di nuovo,alla fine di ogni ciclo. Chi conteràgli universi trascorsi e le creazionisorte sempre di nuovo dall’abissosenza forma delle vaste acque?Chi conterà gli Indra che li abita-no, quegli Indra che fianco a fian-co regnano contemporaneamentein tutti gli innumerevoli mondi,chi gli Indra che sono scomparsi,o anche solo quelli che si succedo-no, salendo uno a uno e scompa-rendo uno dopo l’altro?”. ■

[email protected]

V. Cecchetti è dottore di ricerca in teoria e pratichedelle comunicazioni all’Università di Arezzo

Restare

in forma

di Valentino Cecchetti

La zuccheriera

e la trottola

di Francesco Roat

Enrico Unterholzner

LO STAGNODELLE GAMBUSIE

pp. 153, € 12, Meridiano Zero, Padova 2009

Atutta prima, nel leggeredell’equivoco comporta-

mento di Geremia, il protago-nista di questo romanzo d’e-sordio di Enrico Unterholzner,d’istinto viene da provaresconcerto e disagio. Chi è que-sto individuo che, tornato a ca-sa da un decoroso lavoro impie-gatizio, si trastulla sul divanocon le piccole Pamella e Silfan-tea abbracciandole e cospargen-done le delicate membra con“oliuzzo” e “cremina”? Si trattadi un pedofilo, di un adescatoredi bambine, di uno zio deprava-to? Nulla di tutto ciò. Abbiamosemmai a che fare con un’animacandida, con un poveretto privodi relazioni autentiche che, perscongiurare la solitudine, si è in-ventato una realtà tutta sua dovegli oggetti prendono vita e parte-cipano alle vicende umane, pro-prio come nelle fiabe. È una fia-ba, questa di Unterholzner; unastoria fantasiosa e dolorosa alcontempo. È il resoconto di unapazzia mansueta quanto il perso-naggio chiave della vicenda: in-dividuo “disadattato” o, meglioancora, poco adatto a vivere tragente ordinaria e incapace di ac-cettare chi, come lui, “entrava inaltre realtà dove i vincoli terrenierano lontani, dimenticati”.

Geremia è un eterno fanciulloche, pur avendo superato il

quintale di peso, gioca ancoracon i soldatini e si diverte a com-piere lunghe scivolate sul pavi-mento del corridoio di una abita-zione la quale si fa anticamera diun universo fantasmatico cui eglipuò accedere lasciandosi allespalle le miserie del mondo. Ognisera il solitario appartamento del-lo stralunato personaggio prendemagicamente ad animarsi; il cli-ma emozionale di quelle stanzevuote si riscalda e l’uomo è infer-vorato, raggiante, mentre stringea sé la zuccheriera e la trottola.che altro non sono, secondo Ge-remia, se non sua moglie e figlia.Tuttavia gli esorcismi, si sa, nonsempre funzionano. E alle fanta-sticherie subentra incontenibilela paranoia, in un crescendo psi-cotico davvero allucinante. Cer-to, il protagonista è destinato aperdere/perdersi, ma la sua scon-fitta – indomita, senza resa – rap-presenta poi solo il suggello del-l’essere lui diverso per antonoma-sia. Incarnazione, dunque, del-l’alterità assoluta o dell’altrovepiù alieno e destabilizzante, seGeremia ricorda un po’ certi ma-niacali personaggi di FrancescoRecami, il suo creatore pare ispi-rarsi piuttosto a Calvino per la le-vità di scrittura e l’ironia compas-sionevole nei confronti delleumane debolezze. ■

[email protected]

F. Roat è scrittore e consulente editoriale

IMPA 7-8 2010 ok 23-06-2010 10:40 Pagina 19

Page 20: 61191478-10-07-INDICE

N. 7/8 20

Poesia

Valerio Magrelli

NERO SONETTO SOLUBILEDIECI AUTORI RISCRIVONO

UNA POESIA DI BAUDELAIRE

pp. 230, € 25,Laterza, Roma-Bari 2010

“Sta buona, o mia Pena, esta più tranquilla. / In-

vocavi la sera; eccola: scende; /un’atmosfera oscura avvolge lacittà, / agli uni portando pace,agli altri affanno”: sulle traccedi questi celebri versi di Re-cueillement, Valerio Magrellisi inoltra in un lungo, appassio-nante percorso attraverso le“riapparizioni” del sonetto diBaudelaire nelle riletture di die-ci scrittori del Novecento che lorielaborano e lo riscrivono inse-rendolo nel vivo delle loro ope-re, con innesti impre-vedibili sul tronco dinuovi testi, inattese ir-radiazioni figurali, se-gnali latenti o citazio-ni criptate, interventidi autentica riattiva-zione critica e riflessi-va: esemplari speri-mentazioni, in altritermini, di una vera epropria “assimilazioneri-creativa”.

Si dispiegano così, in un affa-scinante itinerario intertestua-le, le tappe successive di un in-treccio sorprendente di rein-carnazioni, resurrezioni e meta-morfosi della figura baudelai-riana della “Pena”, nella costel-lazione ossimorica della coesi-stenza di salvezza e distruzione,piacere e sofferenza, fissati inpolarità opposte, ma semprepassibili di inversione e rove-sciamento.

Il tema dell’ambigua coabita-zione con il Dolore si attiva co-me un prototipo segreto o unipotesto latente in Repos dansle Malheur di Henri Michaux,si dissemina, al modo diun’ombra testuale deformata einquietante, nella sapiente retedi citazioni orchestrate in unapagina del Voyage au bout de lanuit di Céline, e diviene il pre-testo, nel breve racconto auto-biografico Noces di Colette,per un calembour spregiudica-to e parodico, salvo essere ri-preso in chiave opposta nellaconclusione del testo, a coro-namento di una malinconicameditazione sul tempo e sultramonto delle illusioni dellagiovinezza.

Se Nabokov scandisce, a piùriprese, richiami mascherati e“miraggi” di citazioni della liri-ca di Baudelaire con le esorta-zioni rivolte dal professorHumbert a Lolita nel romanzoomonimo, Beckett mette in sce-na invece, nelle ultime battutedi Fin de partie, un faticoso, in-certo restauro del primo versodi Recueillement attraverso itentativi reiterati di ricordarlo,riportarlo alla memoria rico-struendone i frammenti disarti-colati: un’“anamnesi” poetica

in cui si riflette il rapporto or-mai derisorio con i “resti” o i“brandelli” della tradizioneletteraria, e, allo stesso tempo,la sopravvivenza effimera dellaloro straniante, luttuosa alte-rità. Recueillement ritorna, an-cora, nel titolo dell’ironicaquartina con cui RaymondQueneau conclude la sua rac-colta Fendre les flots, riapparein forma parziale e interrottaarbitrariamente in un capitolocentrale delle Particules élé-mentaires di Michel Houelle-becq e, soprattutto, si trasfor-ma in uno straziante revenanttestuale, sotto il segno dellaperdita più dolorosa e immedi-cabile, nell’“aberrante tradu-zione” lipogrammatica perpe-trata da Georges Perec nellaDisparition.

Nel corso del viaggio di Ma-grelli tra le stupefacenti con-vergenze di autori così diversi,“accogliere Recueillement” si-gnifica insomma riscriverlo, ri-crearlo, trasformarlo, ovvero ri-pensarlo radicalmente ricorren-do a strategie interpretative pa-radossali, come la sconcertantetransmetrizzazione di Jean Pré-

vost, che traspone inottosillabi gli alessan-drini della composi-zione di Baudelaireallo scopo di dimo-strarne la perfetta“intangibilità”, o co-me le letture provoca-torie e ambivalenti diPaul Valéry, in Situa-tion de Baudelaire, del1924, e Poésie et pen-sée abstraite, del 1939,

dove la feroce stroncatura di Re-cueillement coesiste contraddit-toriamente con la sua celebra-zione nei termini di un insupera-to modello artistico, quasi conuna sorta di “ossimoro critico”,comprensibile soltanto sullosfondo globale dell’estetica vale-riana, che pure rivela l’intensitàdella fascinazione per Baudelai-re a cui Valéry sembra non riu-scire a sottrarsi.

Ancorata rigorosamente apuntuali, raffinati son-

daggi testuali, l’indagine diMagrelli esplora una straordi-naria complessità di reperti,forme e modalità di annessionee inclusione del sonetto baude-lairiano, sullo sfondo di unanon meno complessa rete di ri-ferimenti e prospettive teori-che, dalle analisi intertestualidi Julia Kristeva alla teoria deipossibili letterari, dalla ricercapsicoanalitica alla memetica oalle riflessioni sul paradigmadel “parassita” di Michel Ser-res, John Hillis Miller, AnneTomiche, ricordandoci che “gliautori che costituiscono un au-tore, ossia la comunità di opereda cui nasce un’opera, agisco-no su di lui come una sorta dilingua nella lingua”: comestrutture, cioè, nascoste ma“continuamente presenti nelprocesso della produzione”,“cripte per conservare in vitaqualcosa di morto”, “corpiestranei che lavorano il suospazio”, “pulsioni che premo-no per penetrare nel corpo deltesto”. ■

[email protected]

S. Pietri è dottore di ricerca in letteraturafrancese e letterature comparate

Ossimoro

critico

di Susi Pietri

100 POESIE DALLA DDRa cura di Christoph Buchwald

e Klaus Wagenbach

ed. orig. 2009, ed. it. a cura di Sara Sedehi,

trad. dal tedesco di Achille Castaldo,Giovanni Giri e Cristina Vezzaro,

pp. 196, € 19,Isbn, Milano 2009

Se fossero state dotate deirispettivi testi a fronte,

queste cento poesie riferite aiquattro decenni di Ddr pre-senti sull’atlante politico mon-diale avrebbero potuto vanta-re un risalto ancora maggiore.Peraltro certe traduzioni, siapure in assenza del conforto si-nottico, possono suscitare qual-che perplessità. È il caso delnoto distico che nell’originale(citato in nota, esem-pio unico) mette in ri-ma Arbeiterstaat conKartoffelsalat: mi èsembrata una forzatu-ra non necessaria ren-dere quest’ultimo ter-mine con “brasato”,quando il letterale“insalata di patate”avrebbe potuto ga-rantire di per séquantomeno unacomplicità eufonica forte con“stato-proletariato” in grado dinon lasciare evaporare l’energiagnomica del testo tedesco. Aparte il fatto che rispetto allepatate il brasato è già una pie-tanza forse troppo borgheseper dei proletari autentici. Nonè l’unico caso di traduzione di-sinvolta, tendente a riprodurreanche acusticamente la naturacaricaturale del testo di parten-za ma presumibilmente un po’spregiudicata quanto al senso.Insomma, e lo dico pur semprecon simpatia per i traduttori,c’è qui dentro qualche piccolodelitto senza testimone.

Certamente, però: ironia eparafrasi, sarcasmo e antifrasi,forme di criptomnesia elitariain funzione di immunità, agglo-merati di enumerazione caoticacome stivaggio inestricabiledelle centrali di senso, strategiemanovrate del disordine, de-cantazioni verticali del lirico ailimiti dell’uscita di portata delsenso, reinterpretazioni metafi-siche del paesaggio della Hei-mat. Questo, e altro ancora, è ilquadro operativo entro il qualesi pone buona parte dei cin-quantanove, tra autori e autrici(non più che problematicamen-te rappresentato il peso nume-rico di queste ultime, che si at-testerebbe non molto oltre ilventi per cento del totale),scrittori in versi cui si devonole cento poesie del libro.

Il quadro tematico complessi-vo e gli esiti spesso sorprenden-ti dell’invenzione sostanziale eformale tendono a confermareun principio fondamentale e in-quietante: e cioè che un regimedi illibertà, all’interno del qualesi impone in partenza una stra-

tegia di disparità tra il potere echi vive e scrive dentro il suoorizzonte di cogenze e non in-tende celebrarlo, un regime diquesto tipo, dunque, apre il cor-so a un complesso irripetibile diopportunità stilistiche, allegori-che, retoriche e ideative. Un so-lo esempio: le carpe di Cze-chowski e le ostriche di Brauncostituiscono esempi eccellentidi straniamento, mediante l’areadel cibo e della sua messa a pun-to, di una pratica comunitariacome valore in sé, vero spazio dilibertà che passa per la prima-rietà dei rituali. So di osare mol-to, ma mi spingo ad affermareche un sistema di divieti assuntoa codice regolatore da parte del-la censura politica sulle idee fi-nisce per alimentare in poesial’attivazione di risorse vitali eeuforizzanti proprio a livellodella lingua, che è costretta adadattarsi plasticamente al pro-getto plurimo e criptico di ver-balizzazione obliqua del mon-do. Un’occasione da non perde-re, dunque (e quando si comin-cerà, qui da noi, a vivere il neo-liberismo dispotico di Berlusco-ni non soltanto come occasione

di satira o di sdegno,ma anche come hu-mus per allegoriecomplesse dentro l’ar-te alta e antica del ver-so?). Non sarebbecerto la prima voltache, grazie alla repres-sione (che può essereperaltro anche “passi-va” e cioè indiretta e“caramellata” dal velocroccante di uno

pseudolibertarismo modellatosul primato delle merci), leenergie immaginative necessariead aggirare i divieti – e comun-que, in regime liberistico, il limi-te fisico imposto al libro dal gio-go mercantile – creano le condi-zioni per opere letterarie dure-volmente e spesso sorprenden-temente significative. E il casodi Ovidio spedito al Mar Nero?Forse, appunto, ebbe l’inge-nuità di parlare troppo chiaro.

Chiudo citando un passag-gio dall’acuta nota finale

dei curatori: “I poeti dell’Estmaneggiavano il mestiere conmaggiore precisione, lavorava-no prendendo le mosse dallaconoscenza che avevano dellatradizione lirica, in manieraben più consapevole, con allu-sioni, slittamenti, parafrasi,echi e citazioni (…) I lettori liprendevano sul serio, lo Stato liprendeva sul serio, loro stessi siprendevano sul serio”. Ebbene,ci sarà pure da riflettere su que-sto. E non certo per assolveresbrigativamente dei pezzi delregime mentre se ne condanna-no altri. Però è la nozione dicontrollo della tradizione liricae di rilancio intelligente dellesue energie ciò che mi sta acuore sottolineare. Non è im-probabile che la coesistenza traregime Ddr e poesia avvenisseanche all’insegna di un’eticadel lavoro che fosse comunquedotata di spazi di condivisione.Ma a questo punto tutta la vi-cenda dei “passaggi” all’Ovestaprirebbe un capitolo tantocomplesso quanto sostanzial-mente noto. ■

G. Luzzi è poeta, critico e traduttore

Nel regime

di illibertà

di Giorgio Luzzi

Lingue

clandestine

di Franco Pappalardo La Rosa

Evelina De Signoribus

PRONUNCIA D’INVERNO

pp. 76, € 12Canalini e Santoni, Ancona 2009

Preceduti da una Nota diEnrico Capodaglio e ri-

partiti in quattro sezioni, i te-sti della silloge – poesie e bre-vi prose “metriche” – presen-tano un io intento a scevera-re, con lucida acribia, il gru-mo di dolore che gli ha radi-cato dentro l’“innaturale manieradi sopravvivere” in una realtà rag-gelata. Si tratta di un io femmina,di una Elle, la cui scrittura, sinto-maticamente, assume il corponon solo come carne sensibile alletrafitture di quel grumo di dolore,ma anche come centro di control-lo, da parte della stessa, del persi-stere della propria identità (“Michiedo se sono ancora io, / se an-cora sono in possesso del mio cor-po”). Per questo la protagonistadella poesia di De Signoribus siautorappresenta nell’atto di vive-re angoscianti situazioni becket-tiane – fra stanze zeppe di ogget-ti, corridoi, pianerottoli, bui cuni-coli – nelle quali affiorano stranitilacerti di vita, echi di voci, “strac-ci di lingue clandestine”, di rab-bie, rancori, desideri, rimorsi, edove ogni movimento le viene im-pedito (si veda La preghiera). Op-pure si mimetizza nelle enigmati-che creature, Elsa, Anna, Emma,le parlanti le “lingue clandestine”,convocate sul proscenio del tea-trino d’ombre animato dai testi,nella cui eterna vicenda di sogniinfranti, di pena, di sopraffazione,di noia, di disamore, consumatanel chiuso di stanze-prigioni e os-servata con sororale pietas, lei siproietta e si riconosce: “io con-templavo la ferita di Emma cheAnna lasciava sanguinare”. Ben-ché vi compaia qualche conso-nanza di rime (“in un tracollo fit-to e irto / che forse sarà descritto apagina…”), non c’è musica nécanto, in queste corrusche-aguz-ze, intense, scritture; c’è, invece, ilbasso continuo alimentato daiborborigmi di una Elle in soffe-renza, ormai rassegnata a pronun-ciare smozzicate spoglie di parole(di cui si “sovviene il suono, nonil senso”) in un mondo dove “tut-to quello che viene detto è irrile-vante / e senza eco”. ■

[email protected]

F. Pappalardo La Rosaè critico letterario e scrittore

VENT’ANNI IN CD-ROML’Indice 1984-2004

Per acquistarlo:tel. 011.6689823

[email protected]

IMPA 7-8 2010 ok 23-06-2010 10:40 Pagina 20

Page 21: 61191478-10-07-INDICE

N. 7/8 21

Musica

Mario Lavagetto

UN CASO DI CENSURAIL RIGOLETTO

pp. 192, € 15,Bruno Mondadori, Milano 2010

Dopo trent’anni Mario La-vagetto ripubblica, con

poche variazioni e un’appen-dice, il suo memorabile lavorosulle diverse versioni del Rigo-letto verdiano. La filologia deilibretti d’opera costituisce unodei casi più intricati e irrisol-vibili per gli editori. Ci sono li-bretti che cambiano a ogni nuovaesecuzione. In certi casi, ci si trovadi fronte a una selva intricatissimadi redazioni, come nel Don Carlosdi Verdi, che ci aggiunge di suo ladoppia lingua (francese e italiano)delle sue versioni.

In tanti mettono mano ai libret-ti e succede di tutto. Nel caso delRigoletto la frenesia variantisticanon sembra (per quanto risultadai documenti) spiegabile (solo)con le ragioni specifiche del melo-dramma (quelle che Lavagetto de-finisce come una censura preven-tiva che obbedisce, a monte, a re-gole, abitudini, necessità propriedel genere) o con le consuetudinidei vari teatri in cui venne rappre-sentato, ma (soprattutto) con ilruolo delle diverse censure ideolo-giche e morali che hanno messo

sotto esame e costretto a cedimen-ti il testo di Hugo (il libretto deri-va, si sa, da Le roi s’amuse deldrammaturgo francese) e Verdi.Prima di diventare il Rigoletto checonosciamo, e che andò in scena aVenezia nel 1851, il libretto scrittoda Francesco Maria Piave era sta-to l’introvabile La maledizione(dal motivo drammatico e musica-le che contrassegna tutta la vicen-da tragica del buffone), respintodalla censura veneta; quindi unDuca di Vendome, approntato infretta da Piave per aggirare leobiezioni della censura, ma senzail consenso di Verdi, che lo rifiutòin un’importante lettera qui ana-lizzata minutamente da Lavagetto(che mette in appendice a questaristampa del suo saggio il librettomanipolato da Piave). Poi, dovenon fu direttamente proibito, co-me a Ferrara, diventò (a Roma)Viscardello (1853) e, a Napoli, pri-ma Clara di Perth e poi Lionello.

Erano prevedibili, spiega Lava-getto, i punti del testo che le cen-sure avrebbero chiesto di soppri-mere o modificare, e restano più omeno gli stessi dai primi interventiautocorrettori di Piave ai rifaci-menti di Emanuele Bardare in ter-ra borbonica. Sono quelli piùesposti per ragioni ideologiche (unre, o sia pure un duca, che fa taliporcherie e tante leggerezze, per dipiù sposato…) o più sospettabiliper ragioni morali (che succede trail duca e Gilda in quella camera?,

può un depravato buffone diven-tare un personaggio a suo modonobile e alto?). Di qui le versionidiverse (a partire da ambientazio-ne e onomastica) del Rigoletto, checercano in un modo o nell’altro (espesso senza successo anche dalpunto di vista etico-politico che in-teressava) di far andar d’accordol’avanguardia di Hugo-Verdi con itimori politici e moralistici dellevecchie classi dirigenti. Uno diquesti punti critici era, ed è anchenel Rigoletto che conosciamo, unpersonaggio drammaturgicamentee musicalmente equivoco: il ducatenore, che, specie all’inizio del se-condo atto (“Ella mi fu rapita..Parmi veder le lacrime”, e anchenella rumorosa cabaletta “Possen-te amor mi chiama”), sembra sbi-lanciarsi (quasi ce lo spingesse lasua natura di tenore, ruolo nel me-lodramma tipico del giovane av-ventato ma generoso, violento mainnamorato e leale) verso note po-sitive e delicate, abbastanza in con-trasto con quelle del libertino di“Questa o quella per me pari so-no” e “La donna è mobile”. Inte-ressante osservare le variazioni diquesta scena (non ben definibile,come aveva notato Mila, neppurenel testo firmato da Verdi) nei varirifacimenti di Rigoletto, con solu-zioni che in certi casi esaltano il la-to positivo del duca, al punto dafargli promettere (ovviamente fa-cendone uno scapolo) di sposareGilda. Tanto per dire dove pote-vano arrivare i censori. ■

[email protected]

V. Coletti insegna storia della lingua italianaall’Università di Genova

L’imprimatur è mobile

di Vittorio Coletti

Affascinato dai ritmi asimmetrici

di Liana Püschel

Enzo Restagno

RAVEL E L’ANIMA DELLE COSE

pp. 675, € 35, Il Saggiatore, Milano 2009

New York, Chicago, San Francisco, Van-couver, Kansas City, New Orleans…

Era il 1926 quando, nell’arco di soli tre me-si, Ravel percorse il Nord America andandoavanti e indietro: il musicista saliva e scende-va da eleganti cabine di prima classe, stringeva ma-ni, riceveva omaggi, si esibiva senza sosta costrettodai ritmi frenetici del nuovo continente. Nel turbi-nio di visite e interviste sono proprio i ritmi ad af-fascinarlo: quelli della vita quotidiana, ma soprat-tutto quelli della musica americana, così inquieti easimmetrici. Le sottigliezze nella scansione ritmicasono uno degli aspetti più affascinanti della musi-ca di Ravel, che spesso gioca a comprimere e dila-tare il trascorrere del tempo come un incantatoreprodigioso; al di là dei virtuosismi tecnici, è possi-bile rintracciare nella sua produzione un’attentaindagine sul tempo e sulla possibilità di sfuggire al-le sue strette maglie. Enzo Restagno dedica largospazio alla riflessione su questo aspetto, esploran-do la vita e le opere di Ravel attraverso un percor-so che accosta con disinvoltura le sue opere, indu-giando su determinate peculiarità di scrittura co-me la sovrapposizione di ritmo ternario e binariopresente nelle Noctuelles (Miroirs), nel Prélude à lanuit (Rhapsodie espagnole), nel Boléro.

Il libro, frutto di lunghi anni di ricerche e distudi, si presenta come un volume folto e pon-deroso, ma basta sfogliarlo per apprezzarne tut-ta l’agilità: la lettura della biografia scorre comeun piacevole romanzo diligentemente documen-

tato, in cui sono centellinati i più gustosi aned-doti; anche le appendici, spesso così fredde, siinseriscono amabilmente nella narrazione. Lostudioso tenta di entrare nell’intimità ben custo-dita del musicista con l’aiuto di lettere, fotogra-fie, testimonianze raccolte negli archivi o dallaviva voce di quanti lo conobbero. Uomo solita-rio, Ravel concedeva la propria confidenza solo auna ristretta cerchia di amici, ragion per cui la ri-costruzione di pensieri e sentimenti può talvoltasembrare un po’ artificiosa; il rischio dello psico-logismo pretestuoso è comunque scongiurato.Per comprendere le scelte stilistiche e gli atteg-giamenti del compositore, lo sguardo si rivolge aldi là dalla semplice vicenda biografica e racchiu-de tutta l’atmosfera culturale dell’epoca, coinvol-gendo personaggi ed eventi non necessariamen-te conosciuti dal musicista (Ravel avrà visto i di-pinti di Klee o letto i romanzi di Kafka?).

Le pagine dedicate all’analisi musicale non so-no meno avvincenti di quelle in cui sono esposticon partecipazione i capricci e le delusioni delcompositore, poiché all’esame tecnico si acco-stano citazioni letterarie o descrizioni di opered’arte visiva che danno un respiro ampio alle ri-flessioni, rendendole più perspicue ai lettori me-no esperti di musica. La produzione di Ravel èdescritta usando categorie sottratte a un precisoinquadramento storico: Restagno fa ricorso all’i-dea epicurea di atarassia per interpretare L’heu-re espagnole, ai concetti usati da Takemitsu inrapporto alla musica giapponese per spiegare glieffetti di Il est doux (Chansons madécasses) econfronta la ripetitività dei dipinti di Pollockcon il procedimento costruttivo del Boléro; inquesto modo l’ascolto fa a meno dell’orologio eosa intuire gli echi di questa musica nel futuro.

Alex Ross

IL RESTO È RUMOREASCOLTANDO IL XX SECOLO

ed. orig. 2007, trad. dall’inglesedi Andrea Silvestri,pp. 874, € 29,50,

Bompiani, Milano 2009

Nell’ambito della saggisticail difficile equilibrio tra

approfondimento e divulga-zione, tra precisione dell’anali-si ed efficacia delle sintesi vie-ne raggiunto assai di rado. Il li-bro di cui trattiamo offre il ca-so, ancor più raro e per moltiversi esemplare, di una ricostru-zione nella quale rigore metodo-logico e qualità espositiva siesercitano su un campo di osser-vazione di proporzioni vastissi-me, coincidente a grandi lineecon l’intero arco della musicadel Novecento di tradizione oc-cidentale. Critico musicale del“New Yorker”, studioso di com-posizione, storia e letteratura,Alex Ross svolge una minuziosaricognizione sulla cultura musi-cale dell’ultimo secolo, metten-do a frutto le sue ampie letture(di cui recano traccia le numero-se note a conclusione di ogni ca-pitolo) e le sue puntuali espe-rienze di ascoltatore. I premi let-terari conseguiti dall’opera, e lastessa rapidità con la quale l’edi-tore italiano ha provveduto arealizzarne in pochi mesi una se-conda edizione, testimonianodel successo di una formula chepotrebbe forse contribuire a ri-sollevare le sorti di un settore,quello della saggistica musicale,da qualche anno un po’ trascura-to nei programmi editoriali no-strani.

In che cosa consiste questa for-mula? Si tratta, in breve, di un si-stematico intreccio – non certonuovo nel suo genere, ma quirealizzato con notevole maestria– di analisi musicologica edesposizione storica, di considera-zioni tecnico-musicali e narrazio-ne, di riflessione sui problemicompositivi e illustrazione deicontesti culturali e ambientali.Un intreccio nel quale, se non èassente la componente aneddoti-ca e strettamente biografica,emerge tuttavia anche l’analisidei nessi economico-sociali checondizionarono il lavoro deicompositori e la descrizione deiprocessi tecnologici che hannoorientato gli sviluppi musicalilungo l’intero periodo considera-to. Una costante metodologicadel lavoro di Ross consiste pro-prio nella naturalezza con la qua-le i prodotti “alti” della culturamusicale novecentesca di tradi-zione classica – proverbialmente“distanti” dai modelli della musi-ca di consumo – vengono illumi-nati attraverso il confronto con letradizioni popolari e con i lin-guaggi di massa, e osservati dalpunto di vista del loro immanen-te potenziale comunicativo.

Nell’impossibilità di riferirmianche solo a una piccola partedelle centinaia di riflessioni cheRoss dedica ai compositori mag-giori e minori del Novecento,provo ora a segnalare due nodi

che, da un punto di vista stretta-mente storico-musicale, mi paio-no essere tra i più importanti af-frontati nel libro. Nel descrivereil clima musicale europeo neiprimi decenni del Novecento, ein modo particolare negli annisuccessivi alla prima guerramondiale, Ross concede grandespazio a una tendenza che eglistesso definisce come reazionenei confronti del “teutonismo”in musica, vale a dire al tentativodei compositori dei paesi roman-zi e slavi di liberarsi dalle “in-gombranti fortezze” della sinfo-nia beethoveniana e del drammawagneriano. Questo primo moti-vo offre all’autore l’opportunitàdi svolgere osservazioni del tuttopenetranti sulla musica francesee sui compositori dell’Europaorientale, mettendo tra l’altro inbella evidenza l’origine popolare,ad esempio nel folklore russo oiberico, di molte fra le innovazio-ni armoniche e ritmiche dellanuova musica.

Il secondo motivo è dato dalcontatto, avvenuto a partire da-gli anni venti, fra la musica coltaeuropea e la tradizione afroame-ricana. L’assunto centrale, da unpunto di vista storico, è che ildelinearsi di una linea composi-tiva peculiarmente americana,profondamente segnata dall’in-flusso del jazz e della vocalità ne-ra, abbia allora per la prima vol-ta sottratto alla musica tradizio-nalmente “classica” la sua cen-tralità. Ross ha qui buon gioconell’avanzare la sua opzione a fa-vore di un’arte capace di supera-re la distinzione fra alta e bassacultura e nel seguire la vicendache vede da un lato gli artistiafroamericani appropriarsi deimateriali europei nelle forme delblues e del jazz, dall’altro i com-positori di formazione classicaadottare gli stilemi musicali deineri. È un filo conduttore che at-traversa tutto il libro e sospingeil lettore dalla Manhattan mo-dernista degli anni venti all’ap-profondimento dei nessi che col-legano le esperienze del minima-lismo americano al jazz modaledegli anni cinquanta e sessanta.

Molti altri aspetti dovrebbe-ro essere ricordati: la vita

musicale delle grandi capitali eu-ropee, gli scandali delle primeesecuzioni, la parabola della mu-sica seriale, il nodo dei rapportidei compositori con i totalitari-smi del Novecento, l’impulso ri-voluzionario delle avanguardiemusicali del secondo dopoguer-ra e i diversi tentativi di reagirealla loro crisi. Ma forse è più im-portante sottolineare, in chiusu-ra, come questa riflessione suldestino della composizione nelXX secolo resista tenacementealla tentazione di interpretarnela traiettoria come un declino eindichi piuttosto i germi di unarinascita nello sgretolarsi deigrandi miti monoculturali del-l’Occidente e nella possibilità diuna fusione finale nella quale“artisti pop evoluti e composito-ri estroversi” giungano a parlare“lo stesso linguaggio”. ■

[email protected]

P. Crestodina è dottore di ricerca in estetica

Un’arte non addomesticata

di Piero Crestodina

IMPA 7-8 2010 ok 23-06-2010 10:40 Pagina 21

Page 22: 61191478-10-07-INDICE

N. 7/8 22

LetteratureA questo gioco di rimandi,

cornici e specchi deformantisfugge il Rapporto sui ciechi,che sta “come un monolito” alcentro del romanzo. Nella suacompattezza agghiacciante, ilRapporto è la mappa dettagliatadi una strada per l’inferno la-stricata di pessime intenzioni:lo smascheramento del com-plotto ordito dai ciechi per go-vernare il mondo “mediante gliincubi e le allucinazioni, le pe-sti e le streghe, gli indovini e gliuccelli, le serpi e, in generale,tutti i mostri delle tenebre edelle caverne”. La scrittura si faaffilata e tagliente, la voce diFernando Vidal Olmos riempiedi sé la pagina incendiando e ri-ducendo in cenere le tessiturepolifoniche del romanzo, l’iro-nia si fa ghigno spietato, l’ele-gia diviene invettiva. ErnestoFranco, nella prefazione, lo av-vicina fascinosamente, a “unpianeta Kafka compreso in ununiverso Dostoevskij”, ma altree più atroci letture vengono al-la mente.

È come se Céline dirigesse unospartito di Lovecraft, come se,ben oltre il termine della notte, ilcontemptor mundi di Bagatelleper un massacro guardasse in fac-cia i responsabili della vacheriecosmica ed eterna, e scoprisseche i loro lineamenti sono quellidi una razza preumana, progeniedi Chtulhu esiliata nei sotterraneie tra le ombre di Buenos Aires.Molti sono i ricordi céliniani, co-me il protagonista, che legge sol-tanto più “la pubblicità e la cro-naca nera” (mentre per Célineera “la pubblicità e i necrologi…sai quel che la gente vuole e saiche sono morti… Basta!”). Céli-niano è anche lo humour del Rap-porto, uno humour che solo perdifetto possiamo definire nerissi-mo; e degna del Céline “chroni-queur des Grands-Guignols” è laterribile traversata della legioneLavalle, impegnata a scortare inBolivia il corpo in putrefazionedel generale che l’ha guidata.

Molte sono poi le citazioni,quasi palmari, da Love-

craft, ma anche dal Poe del Gor-don Pym, dall’Arthur Machen diIl gran dio Pan (secondo il qua-le, come per Sábato, “i gerarchidell’inferno passano inosservatitra di noi”), dal William HopeHodgson di La casa sull’abisso.Quanto peso quella letteraturavisionaria e fantastica abbia avu-to nella cultura argentina puòconfermarlo la Vita di Edgar Al-lan Poe di Cortàzar (Le Lettere,2004), ma anche il racconto diBorges There are more things (inIl libro di sabbia, Rizzoli, 1975),dedicato alla memoria di Love-craft. Ci si potrebbe arrischiarea pensare che il complotto ul-traumano sia divenuto una sortadi Genius loci, se l’incantato flâ-neur del mondo intero BruceChatwin incontrerà In Patago-nia (Adelphi 1982) la temibileBrujeria, evidente emanazionedella setta dei ciechi che finiràcon il perdere Fernando VidalOlmos e forse il mondo intero.Il Creatore, sembra dirci lo gno-stico Sábato, è un re atroce: enon solo per le istanze dell’ana-gramma. ■

[email protected]

L. Bianco è storico dell’arte,iconografo e traduttore

Il Creatore è un re atroce

di Luca Bianco

che fu tra i surrealisti parigininegli anni trenta), la ragazza èsensibile e magnetica, l’antennadi un sismografo che misura ter-remoti psichici di inaudita vio-lenza. Martín e Alejandra sono igiovani che in Prima della fineSábato definirà “eredi di unabisso”: la similitudine si fa rea-le quando conosciamo i genitoridei ragazzi, la “madrefogna” diMartín e la galleria di freaks del-l’anima che condivide conAlejandra le stanze dell’enorme,antico Belvedere, dove un seco-lo di storia argentina, di eroismie di massacri scricchiola tra lepareti in attesa del fuoco. Insie-me e intorno a loro vive una ple-tora di personaggi che paionoabitanti di una Babele immagi-naria, dove la torre è crollata maancora si parla la lingua francadei muratori superstiti: un im-pasto di toni e cadenze che deveaver fatto disperare il traduttoreJaime Riera Rehren, tra violinistie camionisti, politica e campio-

nati di calcio, pettego-lezzi teatrali e discus-sioni letterarie. Vicompare anche JorgeLuis Borges in perso-na, amato e detestatoda Sábato: se nelle pa-gine autobiografiche ein quelle saggistiche loscrittore non perderàoccasione di accarez-zare in contropelo imetafisici arabeschi

dell’autore di Finzioni, in Sopraeroi e tombe ce ne restituisce unicastico ritratto difficile da di-menticare: “Il viso pareva fossestato disegnato e poi mezzo can-cellato con una gomma. Balbet-tava”. Quella Babele è ovvia-mente Buenos Aires, ma è so-prattutto una metropoli del so-gno e della memoria. Fa sorride-re dunque la premura dell’edi-tore, che al romanzo premetteuna mappa dei quartieri in cui levicende si svolgono: come l’iso-la del baleniere Queequeg inMoby Dick, la Buenos Aires diSábato “non era segnata su nes-suna carta: i luoghi veri non losono mai”.

Come il luogo, anche il tempodel romanzo trascolora subito inuna dimensione interiore: tutto ènarrato a giochi fatti, quandoconsummatum est, ma allo stessotempo è presente nel ricordo enel racconto di Bruno, letteratoamico dei due giovani e del pa-dre di lei nonché trasparente al-ter ego di Sábato. Ad amplifica-re questa sensazione di caleido-scopio, in cui ogni personaggio eogni gesto e parola hanno unsenso solo nel gioco di rifrazionie distorsioni che fanno eco e mo-dulano la materia del romanzo,Sopra eroi e tombe contiene, di-stillato e rischiarato in una tene-brosa luce di complotto, il pri-mo romanzo di Sábato, Il tunnel(1948; Einaudi, 2001), e sarà asua volta contenuto nel terzo ca-pitolo della trilogia, il meno riu-scito L’angelo dell’abisso (1974;Rizzoli, 1977), dove alcuni deglieroi sopravvissuti alle tombe ri-torneranno per confrontarsi conl’Apocalisse e con lo stesso Sá-bato, che da narratore si sdoppiain personaggio.

Ernesto Sábato

SOPRA EROI E TOMBE

ed. orig. 1961, trad. dallo spagnolodi Jaime Riera Rehren,

pp. XV-579, € 26,Einaudi, Torino 2009

“Sebbene abbia un solodorso, un libro possie-

de cento volti”: è una fraseche Julio Cortàzar attribuiscea Nâser-e Khosrow, “nato inPersia nel XI secolo”, ed è unbuon viatico per avvicinareSopra eroi e tombe, il secondoe più grande romanzo di ErnestoSábato, ora riproposto da Ei-naudi con una densa prefazionedi Ernesto Franco e in una nuo-va traduzione (la precedente, diFausta Leoni, era passata da Fel-trinelli, 1965 e 1975, a EditoriRiuniti, 1987 e 1997). In Primadella fine (Einaudi, 2000), cheintrecciava i fili dell’autobiogra-fia a quelli di una seni-le e un poco genericacomplainte sui destinidel pianeta e della ci-viltà, Sábato avvertivaall’inizio il lettore:“Dio, se esiste, dev’es-sere mascherato”, a si-gnificare che l’incan-descente materia deisuoi romanzi non erapassibile di un’esegesibiografica, che la veravita abitava tra le pieghe dellefinzioni e delle parole e non traquelle dell’esistenza. Ben piùcrudele è la teodicea che leggia-mo nel Rapporto sui ciechi, terzoterribile capitolo di Sopra eroi etombe: “Dio è un povero diavo-lo, alle prese con un problematroppo complicato per le sueforze. Lotta con la materia comeun artista con la propria opera.Qualche volta, in qualche mo-mento, riesce ad essere Goya,ma generalmente è un disastro”.Ecco, Sopra eroi e tombe, che as-sume di volta in volta le sem-bianze di storia d’amore e diconte philosophique, di poema inprosa e di romanzo di costume,di narrazione epica e di pamph-let letterario, non è che la crona-ca di uno dei disastri di Dio, edelle vittime e dei reduci.

Che sia un disastro ci vienedetto sin dalla primissima

pagina, nella tragica conclusio-ne che aggredisce il lettore adapertura di libro: la protagoni-sta femminile, l’evanescenteoscura e splendida Alejandra, siè suicidata ardendosi viva dopoaver ucciso il padre FernandoVidal Olmos con quattro colpidi pistola. Tra gli effetti perso-nali di Fernando viene scopertoun manoscritto intitolato Rap-porto sui ciechi, da cui “è possi-bile ricavare ipotesi che gette-rebbero una luce particolare suldelitto e che, caduta l’ipotesi diun gesto di follia, favorirebberoun’ipotesi ancora più truce”.Nei primi due capitoli si snodala storia dell’amore tormentato,inafferrabile e dissestato, traAlejandra e l’attonito ma risolu-to Martín: come la Nadja di An-dré Breton (amico di Sábato,

Hugh Nissenson

RALLEGRATI DI QUESTECOSE AL CREPUSCOLO

ed. orig. 2005, trad. dall’inglesedi Natalia Stabilini,pp. 239, € 17,50,

L’Ancora-Cargo, Roma-Napoli 2010

September Eleven. Da quelgiorno, da quel maledetto

11 settembre, quella dizione –il nome di quella cosa – ha ininglese un senso che in italia-no non riesce ad avere. E nonperché quell’immane tragediasia avvenuta là piuttosto chequa. Non perché la distanza ab-bia un qualche peso nel suggeri-re, tanto meno nel determinare,quel di più di senso. È la lingua,l’inglese, che comunica diversa-mente, caricandosi di una tragi-cità che la nostra dizione nonriesce a dare con equivalente in-tensità: September Eleven. Per-ché quello che l’inglese comuni-ca è l’immagine dell’imbuto, delgorgo, dell’accelerazione inarre-stabile verso la fine: dapprima ilcontesto, vasto, comprensivo,apparentemente piano, e poi lachiusa, che tutto strozza. Ormai,da quel giorno, è sufficiente sen-tir pronunciare “September”che già si sente il gorgo, si vedela fine.

Nell’ultimo, splendido ro-manzo di Hugh Nissenson, l’11settembre giunge, improvviso,appena prima della metà dellanarrazione. L’evento, se purquasi completamente fuoricampo, spacca in due la narra-zione: lacerando il quotidianosul quale si era finora focalizza-ta, e riorientandola verso unabalbettante interrogazione sulperché: “Sono vivo perché ierisera ho bevuto troppo. Mi sonoubriacato perché Judy si sposa.O si doveva sposare: Guy èmorto... E gli altri? Siamo intrentuno che lavoriamo allaHotspur. Sono tutti in ufficioper le otto e trenta. Io sonosempre in ufficio per le otto etrenta. Tranne oggi, perché ierisera ero completamente andatoe ho dormito troppo. Propriooggi. Perché? Rispondimi. Cideve essere un motivo”.

Di Hugh Nissenson, il lettoreitaliano attento alla letteraturavera che viene dall’America è ingrado di ricostruire gran partedell’itinerario creativo che lo haportato a essere riconosciutocome uno dei più interessantiscrittori statunitensi viventi. Unitinerario irregolare: perchéNissenson, non essendo una fir-ma che “vende”, non è stato“comprato” – neppure in Ame-rica – dall’industria editoriale;non è stato chiuso, come certegalline letterarie dalle uova d’o-ro, nella gabbia del successo. Lemie radici (1976) fu tradotto daGarzanti; L’albero della vita(1985) da Rizzoli; L’elefante e lamia questione ebraica (1988)dalla Giuntina; Il canto dellaterra (2001), forse il capolavoro,dalla Palomar; e l’ultimo ro-manzo, del 2005, esce adessoper la Cargo. Segnali positivi diun interesse che sopravvive al

tacere delle grancasse e tuttaviaesemplari, nel loro insieme, diun’editoria che riconosce laqualità e la continua tensioneverso l’invenzione, ma poi ne hapaura, e si tira indietro.

Perché quella di Nissenson èuna narrativa che segue, perprofonda convinzione, l’appellodi Ezra Pound allo scrittore mo-derno: “Make it new!”. Sonoromanzi, ma anche racconti, an-che scritti variamente memoria-li, che di volta in volta inventanoun loro linguaggio, rielaboranoimpostazioni di genere narrati-vo, buttano all’aria precedenticollusioni fra tempo e spaziodella storia e tempo e spaziodella narrazione: dal passatoprossimo dell’inizio del Nove-cento nel Lower East Side diNew York (Le mie radici) al pas-sato remoto del primo Ottocen-to in un Ohio di Frontiera (L’al-bero della vita) o, ancor più re-moto, del Massachusetts purita-no: straordinaria invenzione an-che linguistica, questa, di unwork in progress; dalla preistoriadi Nella valle al futuro distopicodi Il canto della terra. Per cuiRallegrati di queste cose al tra-monto è l’unico romanzo foca-lizzato sull’oggi, anzi: sui pochigiorni immediatamente prece-denti e immediatamente succes-sivi a Septembereleven.

Guai però a sospettare nel no-stro scrittore civetterie di acro-bata della novità letteraria.Quella di Nissenson è una ricer-ca inesausta di ciò che lega gli in-dividui, trasversalmente, allapropria specie anche laddove lespecificità epocali sembrino al-lontanare e dividere. Ma, anchequi: guai a sospettare velleità ditrasformismo. Se Nissenson hain casa un archibugio che ha im-parato a smontare e rimontare, acaricare e infine a usare, è per-ché, accanto alle componentiideologiche più profonde delpioniere, è voluto entrare dentroanche ai movimenti minimi delsuo quotidiano.

Perché tutto, nella sua scrittu-ra, deve essere riconoscibile,

anche da chi un archibugio nonha mai preso in mano; anche dachi non si sia mai trovato davan-ti a un serpente a sonagli che staper colpire, come sembra stiaper fare quello – impagliato, cer-to – che si erge da dietro il com-puter fra le pile dei libri che do-cumentano, a tutti i livelli, larealtà della frontiera che, per an-ni, Nissenson ha studiato. Cosìcome, prima di iniziare Il cantodella terra, lo scrittore ha passa-to tre anni a creare l’intero,splendido corpus grafico dell’ar-tista suo protagonista.

L’invenzione, in Hugh Nis-senson, nasce sempre dalla sto-ria: quella dell’individuo, e quin-di quella della specie. E in ognu-na delle sue opere – ognuna di-versa (“Make it new!”), ognunadi una specificità abbagliante –echeggia il grido, non importa sesilenzioso, del sopravvissuto.Del nostro fratello. ■

[email protected]

M. Materassi insegna letteraturadegli Stati Uniti all’Università di Firenze

Il nome di quella cosa

di Mario Materassi

IMPA 7-8 2010 ok 23-06-2010 10:40 Pagina 22

Page 23: 61191478-10-07-INDICE

IMPA 7-8 2010 ok 23-06-2010 10:40 Pagina 23

Page 24: 61191478-10-07-INDICE

N. 7/8 24

Letterature

Hans Höller

LA FOLLIA DELL’ASSOLUTOVITA DI INGEBORG BACHMANN

ed. orig. 1999, trad. dal tedescodi Silvia Albesano e Cinzia Cappelli,

pp. 225, € 18,Guanda, Milano 2010

In un abbozzo di notizie au-tobiografiche rimasto nel

cassetto, Ingeborg Bachmannrievoca il percorso giovanileche l’aveva portata dalla pro-vincia austriaca, dalla natiaCarinzia, terra di confine, co-me non manca di sottolinearel’autrice, alla capitale Vienna equindi alla letteratura: “Alla fi-ne della guerra me ne andai, econ grande impazienza e molteaspettative giunsi a Vienna, l’ir-raggiungibile nella mia immagi-nazione. Fu di nuovo una casadi confine: tra Oriente e Occi-dente, tra un grande passato eun futuro oscuro. Eper quanto successi-vamente sia andata aParigi e a Londra, inGermania e in Italia,questo vuol dire po-co, perché nei miei ri-cordi il cammino dal-la valle fino a Viennarimarrà per sempre ilpiù lungo”. La Vien-na del primo dopo-guerra, rievocata ven-t’anni più tardi nel romanzoMalina, sarà il luogo del diffici-le apprendistato artistico di Ba-chmann e dell’incontro conPaul Celan, arrivato dalla Ro-mania nell’ex capitale dell’im-pero alla fine del ’47.

Dopo aver raggiunto giova-nissima grande successo incampo letterario, Bachmannvolta le spalle a Vienna per nonfarvi più ritorno; le sue “case diconfine” sarebbero state in tan-ti altri luoghi, da ultimo, dopoun inquieto girovagare, a Roma(dove morì a quarantasette an-ni, nel 1973), una capitaleprofondamente cambiata ri-spetto a quella dei primi annicinquanta, ritratta in alcunedelle poesie dedicate al “miopaese primogenito”, l’Italia ap-punto.

La ricostruzione delle topo-grafie reali e esteriori, propriadi numerosi ritratti biograficidedicati a questa autrice, è unfin troppo scontato filo rossoche nei casi più riusciti (comela monografia di Arturo Larca-ti pubblicata nel 2006) si com-

bina con le topografie interiori,suggerite dall’opera stessa diBachmann e da certi suoi titoli,come quello del bellissimo ulti-mo racconto, Tre sentieri per illago, un lago che è realistica-mente il natio Wörthersee, maanche l’omofono Wörtersee, illago di parole. Nell’abbozzo,dopo aver ricordato le fasi del-la sua formazione, Bachmannera arrivata a una considerazio-ne che richiama da vicino leposizioni di Hannah Arendtsulla biografia: il disegno co-struito da una vita nel suo svol-gersi può essere individuatosolo a posteriori, da un altronarratore.

Nell’autore di questo volu-me, la vita di quella che giova-nissima entrò nell’Olimpo dellaletteratura tedesca diventandoun’icona subito al centro diracconti e aneddoti più o menoleggendari, ha trovato un nar-ratore di empatia e rispetto ec-cezionali. La biografia, uscita

in tedesco nel 1999con il semplice titoloIngeborg Bachmann,si legge come un rac-conto affascinante epreciso: prende sem-pre le mosse dai testidell’autrice, fin dagliabbozzi più o menoframmentari dell’ado-lescente sconvolta da-gli avvenimenti dellaguerra (compresi nel

lascito e parzialmente pubbli-cati nell’edizione Werke del1978); si costituisce così unaguida per l’interpretazione del-l’opera, ripercorrendo queisentieri che, pur non condu-cendo al lago di parole perchétutti interrotti e deviati, ricom-pongono il disegno testuale edesistenziale.

Le tracce sono spesso statecancellate dall’autrice, ma gra-dualmente, negli anni, i fram-menti sono riemersi dagli archi-vi e sono stati adeguatamentestudiati.

In tale lavoro di ricomposi-zione Hans Höller è stato il piùattivo ed esperto, e qui ne rac-coglie i frutti più importanti: èstato il primo a parlare dell’ap-partenenza del padre di Bach-mann al partito nazionalsocia-lista e il primo a ricostruirenella sua dimensione storicaquella che la protagonista di untesto incompiuto, Il caso Fran-za, chiama “la più bella prima-vera della mia vita”, vale a direla primavera del ’45, con l’arri-vo degli inglesi in Carinzia.

Fariba Vafi

COME UN UCCELLOIN VOLO

ed. orig. 2002, trad. dal farsi di Hale Nazemi

e Bianca Maria Filippini,pp. 136, € 14,

Ponte33, Firenze 2010

C’è qualcosa di sorpren-dente in Come un uccel-

lo in volo, romanzo dell’irania-na Fariba Vafi da poco pubbli-cato in Italia, nella traduzionedal farsi di Hale Nazemi eBianca Maria Filippini, dallaneonata casa editrice Ponte33di Firenze (www.ponte33.it).Sarà perché lascia trasparireun’immagine inedita dell’Iran dioggi: la sua protagonista e vocenarrante è una giovane donna,madre e casalinga ri-luttante, che si dibattetra le difficoltà quoti-diane del vivere e l’in-differenza del marito;cerca di sfuggire alruolo che la tradizionele ha assegnato (“Nonposso essere una ma-dre, non una figlia,non una moglie”), sisente “come un uccel-lo migratore”, “chiusoin gabbia”, finché trova dentrodi sé il modo di uscirne. Sor-prendente anche lo stile dell’au-trice: una scrittura economa diparole, minimalista, ma attentaai dettagli, elegante.

Forse la sorpresa è dovuta alfatto che sappiamo così pocodella scena letteraria dell’Irancontemporaneo. Eppure unodegli effetti collaterali della Ri-voluzione islamica del 1979 èstato proprio l’emergere di unaricca produzione letteraria, an-che se molto poco è circolato inOccidente. Di questa efferve-scenza le donne sono protagoni-ste: come scrittrici, ma ancheeditrici, fondatrici di riviste let-terarie e di women’s studies,giornaliste, blogger. Non chesiano mancati in passato esempianche notevoli di scrittrici, perlo più poetesse: ma restavano fi-gure in qualche modo eccezio-nali. È un segno delle trasforma-zioni profonde nell’Iran rivolu-zionario, più acculturato, doveun strato più ampio (e diversifi-cato per retroterra sociale) diuomini e di donne ha comincia-to a scrivere – e a leggere.

Non senza difficoltà, certo: ilcontrollo sociale, la censura, lelimitazioni imposte (soprattuttoalle donne) dalle rigide normedella morale islamica reinterpre-tata dal regime. Nonostante que-ste limitazioni, però, una nuovagenerazione di scrittrici si è fattalargo.

Fariba Vafi le rappresenta inpieno. Nata nel 1962 a Tabriz,capoluogo di provincia nell’Iransettentrionale, città di linguaazeri, è cresciuta in una famigliatradizionale. La scrittura per leiè stata una conquista personale,ci ha detto durante un recente

incontro a Roma dove presenta-va l’edizione italiana del suo ro-manzo. Fin da adolescente vole-va fare la scrittrice, racconta. Illavoro significava indipendenza.Ha lavorato come operaia in unafabbrica di abbigliamento, poiha frequentato la scuola di for-mazione della polizia femminileislamica a Tehran; tornata a Ta-briz è stata assegnata al serviziodi guardia carceraria. “Ma ci so-no rimasta solo due mesi”, spie-ga: era troppo, “anche se oggipenso che sia stata un’esperienzaimportante”. Nel frattempo si èsposata, ha avuto due figli, hasempre lavorato per essere indi-pendente. E ha continuato a col-tivare quel suo desiderio di scri-vere, “anche quando facevo altrilavori e mi sembrava impossibilerealizzarlo”. Nel 1988 pubblica-re il suo primo racconto è statoun traguardo.

Oggi Fariba Vafi è una dellescrittrici più note e apprezzate inIran, ha pubblicato una raccoltadi racconti e quattro romanzi di-venuti dei best seller. Il primo,Come un uccello in volo, ha avu-to un successo fulminante quan-do è stato pubblicato, nel 2002,

e ha ricevuto i premiletterari più prestigio-si del paese. È anchel’unico tradotto, in in-glese e francese e orain italiano. Anchequesta nuova impresaeditoriale meritaun’introduzione. Lefondatrici di Ponte33,Irene Chellini, Felicet-ta Ferraro e BiancaMaria Filippini, sono

tre studiose della lingua e cultu-ra iraniana tornate di recente dalunghi soggiorni in Iran, con ilprogetto di far conoscere la let-teratura contemporanea di que-sto paese. “Dopo gli shock dellarivoluzione e della guerra abbia-mo visto la letteratura riprende-re con un nuovo slancio, come ilcinema e le altre arti”, spiega Fi-lippini.

Èemerso un linguaggio nuo-vo, una prosa snellita ri-

spetto a quella dell’antica tradi-zione persiana: “Abbiamo an-che visto un diversificarsi di ge-neri, dal simbolismo a racconticon tracce di surrealismo, allanarrativa di guerra, ai raccontiper bambini”, fino alla scritturaintrospettiva e minimalista diFariba Vafi, aggiunge Ferraro.A differenza, però, del cinema edelle arti visive, note e apprez-zate nel mondo, la produzioneletteraria iraniana stenta a farsiconoscere all’estero.

Fariba Vafi scrolla le spallequando le chiedo delle difficoltàdell’Iran di oggi: “Uno scrittoreha il dovere di scrivere racconti,è questo il suo modo di interve-nire. E oggi, in una società nellaquale scrivere diventa semprepiù difficile, scrivere un bel rac-conto o un bel romanzo è im-portante”. Ma qualcosa aggiun-ge: “Noi abbiamo superato unafase. Per anni le donne hannoparlato di difficoltà, dolore, han-no parlato da vittime. Ora ab-biamo trovato un nuovo lin-guaggio. In fondo abbiamoaperto una strada”. ■

[email protected]

M. Forti è inviata del quotidiano“il manifesto”

La nuova strada

dell’Iran

di Marina Forti

Come ricomporre una vita

di Rita Svandrlik

L’ufficiale inglese che interro-ga la giovane Bachmann sulsuo rapporto con il nazismoparla un perfetto tedesco conaccento viennese: si tratta di ungiovane ebreo che era riuscitoa scappare in Inghilterra, JackHamesh.

Questo incontro tra un figliodelle vittime e una figlia deicarnefici, incontro che si tra-sforma in una relazione senti-mentale e soprattutto intellet-tuale, darà una forte spinta allacoscienza critica rispetto al na-zismo che la giovane si era giàformata durante la guerra,nonché alla sua sensibilità poli-tica, come testimoniano i fram-menti e il diario giovanili. Pro-prio Hans Höller ha curato lapubblicazione di tale diario edelle lettere di Jack Hamesh,che alla fine del suo serviziomilitare emigrò in Israele, madel quale si sono perse comple-tamente le tracce (Kriegstage-buch, 2010).

Höller ha infatti continuato,negli undici anni che separanol’edizione originale da questatraduzione italiana, a lavorarenegli archivi e a curare la pub-blicazione anche di altre corri-spondenze, tra cui quella conHans Werner Henze (2004) equella con Paul Celan (2008);altri carteggi importanti percompletare il quadro sonousciti di recente, come quellodi Celan con gli amici viennesiKlaus e Nani Demus, incontra-tisi nel 1948 proprio grazie aBachmann.

Sarebbe stato dunque auspi-cabile qualche aggiornamentodell’edizione italiana, che ri-mane comunque, grazie anchealla buona traduzione, una pre-ziosa introduzione all’operabachmanniana.

Non si può tuttavia fare ameno di rilevare la man-

canza di gusto nella scelta del ti-tolo, La follia dell’assoluto, chenon corrisponde allo spirito del-la biografia di Höller, lontanada qualsiasi vuota etichetta reto-rica e tesa a rendere giustizia al-l’autrice, in particolare proprioin quegli aspetti della biografiadove maggiormente negli anni sierano depositate le scorie del“linguaggio canagliesco”, comele avrebbe chiamate Bachmann;molto apprezzabile è ad esem-pio l’impegno di Höller nel casodi scrittori che, avendo avuto re-lazioni con lei, ne hanno poi fat-to oggetto di scrittura, comeHans Weigel (già nel 1951) eMax Frisch.

Rimane da osservare che alpubblico italiano non viene re-so un buon servizio poiché nel-la bibliografia finale non è sta-ta prevista una sezione che ci-tasse i lavori critici usciti in ita-liano. È stata invece ripresa labibliografia in tedesco dell’edi-zione del 1999, con qualchesingolo titolo tedesco degli an-ni successivi.

Ma visto che è rivolto a unpubblico ampio, fatto di nonspecialisti, il libro si farà indub-biamente apprezzare per la sualeggibilità e per lo stimolo chefornisce alla lettura delle operedi Bachmann. ■

[email protected]

R. Svandrlik insegna letteratura tedescaall’Università di Firenze

IMPA 7-8 2010 ok 23-06-2010 10:40 Pagina 24

Page 25: 61191478-10-07-INDICE

N. 7/8 25

Letterature d’oltremare

Namita Devidayal

LA STANZA DELLA MUSICA

ed. orig. 2007, trad. dall’inglese di Federica Oddera,pp. 303, € 16,50,

Neri Pozza, Vicenza 2009

La voce di Kesarbai Kerkar,una delle migliori cantanti

hindustani del XX secolo, viag-gia nello spazio come bigliettoda visita terrestre per gli alieni.Questo libro parla del suo ta-lento, del suo guru, il leggenda-rio Alladiya Khan, fondatoredel lignaggio (gharana) di JaipurAtrauli, e soprattutto di Dhon-dutai Kulkarni, discepola di en-trambi. Solo due dei tre virtuosiraggiunsero il successo; Dhon-dutai trascorse una vita quasianonima, circondata solo dallapratica della sua arte e da unamanciata di studenti, fra cuil’autrice del romanzo. NamitaDevidayal è riuscita aricavare dagli aneddo-ti legati alla vita delleicone della musicahindustani una storiaprofonda di aspirazio-ni personali, frustra-zioni e confusione,amplificata dagli enor-mi cambiamenti socia-li che hanno interessa-to l’ambiente dellamusica classica nel-l’India moderna. Per questo il li-bro è originale all’interno di unaproduzione che recentemente havisto apparire un certo numerodi antologie sul tema, che resta-

no però meri repertori di infor-mazione biografica decontestua-lizzata.

La stanza della musica ha unostile narrativo che ricorda quel-lo delle biografie tradizionali,da cui traspare costantementel’ammirazione per il guru e perl’arte tramandata, ma Devi-dayal è una giornalista e riescea evitare il tono nostalgico diun’epoca perduta. A livello dibase il romanzo narra la rela-zione fra Dhondutai e l’autrice.Delinea il quadro delle circo-stanze in cui Namita a undicianni cominciò a studiare musi-ca e di come quest’esperienza siintrecciasse bizzarramente conil suo profilo sociale e con lesue relazioni. Nel far ciò descri-ve come il contesto sociale del-l’India urbana moderna si siamodificato nell’arco di pochianni. E diventa la storia deimusicisti e dei loro patroni.

Gli scarni riferimenti auto-biografici mostrano la difficoltà

di mantenere vivaquesta tradizione peruna generazione chenon vive più in co-stante contatto con ipropri maestri, maviaggia e aspira a unacarriera più remune-rativa. La stanza dellamusica è il luogo diincontro di due sferesociali diverse, cia-scuna portatrice di

una storia viva e pregnante.Cresciuta in una famiglia privi-legiata e aperta, Namita faticaad accettare i valori e le convin-zioni della maestra, dedita to-talmente all’arte e incurantedella povertà e della disappro-vazione sociale; ma allo stessotempo ne è attratta, in un pro-cesso di scoperta di sé. Sa chenon diventerà una cantanteprofessionista, eppure per oltreun quarto di secolo rimane le-gata a Dhondutai. E la “stanzadella musica” diventa lo spaziodove ritagliarsi un momentotutto per sé, fuori dal ruolo dimoglie, madre o professionista.

Il romanzo affascinerà nonsolo gli amanti della musica, maanche chiunque si interessi al-l’Asia meridionale. Ripercorre-re la storia della musica classicahindustani riporta alla culturacomposita di tradizioni musica-li hindu e musulmane dallequali è nato questo stile. Il testoè un’eloquente testimonianzadei limiti delle categorie mo-derne associate alla politicadell’identità, che hanno cancel-lato la ricchezza e la profonditàdi antiche e costanti interazionisociali e artistiche. Anche il let-tore digiuno di nozioni tecni-che può gustarne la lettura co-me un’introduzione – non dimatrice musicologica, ma so-ciale e palpitante d’amore – al-la musica indiana: un’alternati-va a pedanti libri di testo percapire in che cosa il gharana sidifferenzi da altri tipi di asso-ciazioni musicali e che tipo dicultura trasmetta. ■

[email protected]

A. Consolaro insegna lingua e letteraturalindi all’Università di Torino

Preeta Samarasan

TUTTO IL GIORNO È SERA

ed. orig. 2008, trad. dall’inglese di Anna Nadotti e Federica Oddera,

pp. 399, € 21,Einaudi, Torino 2010

Ho realizzato una nano-in-dagine tra conoscenti e

vicini di casa: “Se dico Malesia,che cosa vi viene in mente?”.Non c’è stata molta varietà: Pi-rati della Malesia di salgarianamemoria l’ha fatta da padrone.Qualcuno più abituato agli sca-li aeroportuali si è ricordato didue incredibili grattacieli – i piùalti del mondo? – della capitale,Kuala Lumpur. Poi i discorsi sisono sbriciolati: le “tigri” delSudest asiatico, non in quantobestie feroci, ma come econo-mie in ascesa, le barriere coral-line, il Borneo e altre amenitàturistiche.

Tutto il giorno è sera(Evening is the WholeDay) è il romanzo d’e-sordio di una scrittricenata in Malesia, PreetaSamarasan, educatanegli Stati Uniti, attual-mente residente inFrancia, di professionemusicologa, ferrata so-prattutto nella musicazigana. Questa sempli-ce enunciazione de-scrittiva nasconde quasi senza vo-lerlo la rilevanza “politica” del-l’oggetto libro: non è scritto daun uomo bianco, ma da una don-na di carnagione scura, in inglesee non nella lingua ufficiale dellaMalesia, neppure nella madrelin-gua dell’autrice, che proviene dauna famiglia indiana tamil e chedeve la sua formazione a sistemiconoscitivi “occidentali”. Tuttequeste fastidiose virgolette stan-no a significare la difficoltà dimaneggiare il manufatto libroprima ancora di iniziare a sfo-gliarlo. Per non dire del titolo,che deriva da un verso del poemaepico tamil Kuruntokai, risalenteai primi secoli della nostra era.

Ma non stavamo parlandodella Malesia? Appunto.

Di un paese in cui essere “maleseautentico”, bumiputra, è il risulta-to di una complessa ingegneriapolitica avviata faticosamente ne-gli ultimi decenni. Gli altri, i ma-lesi “non autentici”, sono i cinesie gli indiani, tra cui maggioritarisono gli indiani tamil.

A scanso di equivoci, per leg-gere il romanzo di Preeta Sama-rasan non è necessario fare uncorso accelerato di storia ed et-nologia malese, basta andare allaprima pagina e cominciare: “C’èuna terra che si protende dalcollo sottile dell’istmo di Kra de-licata come la testolina di un uc-cello, e forma la metà di un pae-se chiamato Malaysia”. Conti-nuare entrando in una saga fami-liare in cui si stratificano tre ge-nerazioni e dove lo sguardo nar-ratore è spesso assegnato a unabambina di sei anni, Aasha, lacui relazione affettiva principaleè quella con i fantasmi che po-polano l’abitazione. Forse l’uni-

ca vera esperienza di amicizia,essendo l’intreccio delle altre re-lazioni quasi sempre giocato sul-la corda della tensione, se nondella contrapposizione, che pro-duce in alcune protagoniste“agopensieri”, “coltellopensie-ri”. “Pensieri aspri come manghiacerbi (…) Una persona potevaesserti amica prima del tè e dopoil tè non esserlo più”.

Una volta entrati in questa“Grande Casa” della borghesiatamil malese è difficile uscirneperché Preeta Samarasan è bravaad avvilupparti non solo con latrama a spirale, ma soprattuttocon la selezione quasi perversadei dettagli che costituisconol’incanto della sua scrittura e chele traduttrici rendono con corag-gioso transfert. Entrando nellaGrande Casa si entra anche nellaMalesia, ma sempre dalla portadel mondo tamil; gli altri, quellomalese e quello cinese, stannosullo sfondo. La tentazione di ve-dere questo romanzo come me-

tafora della costruzio-ne nazionale malese, lamaledetta ketuananmelayu, supremaziamalese, come l’apo-strofano i cinesi e gliindiani in lotta per ipropri diritti, è una vo-glia forte, ma impro-duttiva. Non mancanoriferimenti alle vicen-de politiche della Ma-lesia coloniale e post-

coloniale, che le “Voci” e i “Fat-ti” raccontano a loro modo bi-sbigliando nel vento, ma sono ilcontesto, non il succo, che stanelle anime dei protagonisti. Co-sì come l’ombra del vellakaran,del muso bianco che ha calcatoquelle terre, aleggia ogni tanto.Credo però che la pretesa nonbanale, ma arbitraria, che Frede-ric Jameson poneva vent’anni fa– leggere qualsiasi narrazione po-stcoloniale come allegoria dellanazione incipiente – sia infonda-ta. Come certi piatti tamil chedevono stare a cuocere per oreimpregnando di odore le stanze,così Tutto il giorno è sera è unalunghissima bollitura di senti-menti, attese, sogni, lancinantidolori. Una corporea epopea incui si mescolano parole e gemiti,incantevoli profumi e fetore dimerda stagionata, realissime in-nocenze e spudorate malvagità.In questi corpi si gioca la vicendadella famiglia di Raju e dellamorte che fin dalle prime paginenon lascia tranquillo il lettore.

L’insistenza sui corpi, che nelromanzo danzano le loro vite, miviene da un suggerimento cheKrishen Jit, il mirabile uomo diteatro malese, propose qualcheanno fa: nelle società plurali, co-me quella malese, si tende a pen-sare che il “multiculturalismo” siauna negoziazione tra corpi diver-si, tra un corpo indiano tamil euno malese o cinese, mentre inve-ce esso si instaura in ogni singolocorpo. Le “altre” culture, aggiun-go io, non sono mai meramente“altre”, esse convivono in ogni in-dividuo, nel suo corpo vivente informe spesso imprevedibili e noncercate. È questa la ragione percui il romanzo di Samarasan nonè solamente un dramma domesti-

co della Grande Casa tamil nellanazione Malesia, ma è l’epica im-presa di tutti noi di stare al mon-do insieme agli altri, ai corpi di al-tre culture, anche quando si trattidi culture maschili e femminili.

Questo non solo per l’ovvia,ma non sempre esplicita, ragioneche la prima “multiculturalità” èquella di genere, ma anche per-ché leggendo Preeta Samarasannon ho potuto fare a meno di an-dare ad altre scritture asiatichecreate da donne. E non mi riferi-sco solo alle note scrittrici del fi-lone angloindiano, ma penso aMa Ma Lay, eminente scrittricebirmana e al suo La sposa birma-na, in cui, come nel romanzo diSamarasan, c’è una donna, madree moglie, che a un certo puntodella vita si ritira dal mondo per-ché conquistata dalla perfezionedi sé, da una spiritualità asceticache la colloca su un piano chesfiora l’anti-umano. Familiari chenon capiscono, disdegnano e nel-lo stesso tempo subiscono attra-zione da una vita contraria e con-trariata. Un tratto che meritereb-be ulteriore scavo così da collega-re il gesto ad altre scelte di corpifemminili in cerca di una vivibi-lità meno scontata e alle volteestrema. L’altra connessione ècon Il messaggero celeste dellavietnamita Pham Thi Hoai, in cuia condurre lo sguardo sul mondoè ancora una bambina che sascorgere trasparenze dove gli altrivedono solo opacità. Una voceinfantile che vede di più e meglioproprio per la sua visionarietà e ilsuo innocente irrealismo.

Un canone femminile? Do-manda da lasciare aperta per fu-ture letture. ■

[email protected]

C. Canal collabora a “il manifesto”e “Riforma”

Se dico Malesia

di Claudio Canal

La voce di Kesarbai Kerkar

di Alessandra Consolaro

Marco Buemi, SUDAFRICA IN BIANCO E NERO, prefaz. di Nicola Zingaretti,introd. di Giulio Albanese, pp. 143, € 15, Infinito, Castel Gandolfo 2010

I mondiali di calcio sono un’occasione per conoscere meglio ilSudafrica, come in un cannocchiale rovesciato dal nostro “altro mondoche era il mondo”, come lo definiva Nadine Gordimer mutuando paroledi Italo Calvino. Dalla fine dell’apartheid, nel 1994, il Sudafrica tenta diinteriorizzare i costi – in termini di vite umane, di iniquità sociale, di trau-mi psicologici, di sfiducia nelle istituzioni, di assenza di valori etici con-divisi – degli anni di segregazione razziale e di violenza endemica.Marco Buemi, reporter ed esperto sui diritti umani, presenta fotografiedel Sudafrica in bianco e nero, la cui valenza non è soltanto estetica-cromatica (bianco-nero-grigio-seppia), bensì storica. Il bianco e nerotraduce le contraddizioni ancora oggi irrisolte del paese. Le foto mostra-no una gioventù e un’infanzia non gioiose, ma che anelano alla speran-za; due ladri che frugano in una borsetta; madri; lettori; venditori ambu-lanti (banditi per tutto il periodo dei mondiali) con la loro nuova “econo-mia informale”; lavoratori; immagini della borghesia nera, i cosiddetti“black Diamonds” o “Bees”; i simboli del passato: filo spinato elettrifica-to, reticolati di metallo, baraccopoli recintate e carcasse d’auto. E i sim-boli di oggi: il museo dell’apartheid e i memoriali eretti contro l’oblio; unnuovo stadio, le due grandi torri di raffreddamento di una ex centraleelettrica, che caratterizzano lo skyline di Soweto, decorate da muralessul mondo del pallone. Ciò che sempre stupisce delle foto del Sudafricaè il vuoto, l’assenza di folle per le strade, gli spazi abbandonati e deso-lati, capannelli di soli uomini, copertoni d’autocarro e macerie, quelloche Roland Barthes chiama il punctum di una foto, ciò che pungola l’oc-chio, per contrasto. I testi che accompagnano le foto, alternati a frasi delpadre della nazione, Nelson Mandela, sono informativi ed esplicativi diquel contrasto: la posizione ancora discriminata delle donne nere, lanecessità di un migliore sistema sanitario e scolastico, la disparitàsociale, l’Aids, la nuova immigrazione dai paesi confinanti, la disoccu-pazione e il tasso di violenza più ancora che di criminalità in sé, il ruolodelle chiese cristiane. I mondiali offrono speranza, nuove infrastrutture elavoro, anche dopo il campionato, come sottolinea l’ambasciatrice delSudafrica in Italia, Jhenjiwe Mtintso, nell’intervista in appendice al volu-me. Più inquietante, sia nelle foto che nei testi, era il reportage di JodiBieber, Tra cani e lupi. Crescere con il Sudafrica (Contrasto, 2006) suibambini di strada delle township nere e delle periferie povere, sullearmi, nel nuovo Sudafrica.

CARMEN CONCILIO

IMPA 7-8 2010 ok 23-06-2010 10:48 Pagina 25

Page 26: 61191478-10-07-INDICE

N. 7/8 26

Storia

Chris Wickham

LE SOCIETÀ DELL’ALTO MEDIOEVOEUROPA E MEDITERRANEO,

SECOLI V-VIII

ed. orig. 2005, a cura di Alessio Fiore

e Luigi Provero,pp. 992, € 75

Viella, Roma 2009

Chris Wickham, che inse-gna a Oxford e ha dedica-

to all’Italia le sue più impor-tanti ricerche sul campo, haraggiunto da tempo, ancora ingiovane età, i vertici della me-dievistica mondiale. Questa èl’opera della maturità e delladefinitiva consacrazione, nonsolo per la sua impressionantemole, ma anche perché metteinteramente a frutto le duescelte metodologiche che han-no caratterizzato unavita di studi: l’incro-cio delle fonti scrittecon i dati archeologi-ci e il ricorso sistema-tico alla comparazio-ne. Il massimo risul-tato di entrambe leoperazioni è resopossibile grazie aun’attività di letturadi relazioni di scavo edi ricerche storicheaggiornate (dal Mediterraneoorientale al nord dell’Europa)che non ha eguali: l’ansia di ag-giornamento di Wickham è ta-le da condurlo ad affermare,senza affettazione, che “parec-chio è cambiato nella fisiono-mia della storia e dell’archeolo-gia dell’alto medioevo” neiquattro anni intercorsi fra l’e-dizione originale inglese e latraduzione italiana.

La sensazione di una costan-te “presa diretta” con le ri-

cerche in corso accompagna dicontinuo il lettore. Non ci siaspetti, tuttavia, né una rasse-gna descrittiva di casi né unasequela di questioni aperte:perché lo storico è animato dauna robusta volontà di sistema-zione e di risposte. Continuitào frattura fra mondo tardoanti-co e alto medioevo? Non è que-sto tradizionale interrogativoad animare l’autore, dichiaratoavversario delle teorie fondatesulle catastrofi generative e as-sertore delle continuità frazio-nate, per segmenti.

Il vero oggetto del libro sonoi modi di trasformazione di di-versi ambiti regionali, più omeno intensamente condizio-nati dal loro inquadrante pas-sato romano e caratterizzati dadiversi percorsi verso la loca-lizzazione o verso un nuovoruolo entro sistemi più ampi.“Le società” al plurale del tito-lo non sono affatto un artificioretorico, sono l’ossatura stessadell’opera. Le regioni a cui èstato sistematicamente applica-to il progetto comparativo so-no dieci: Danimarca, Irlanda,Inghilterra e Galles, Gallia-Francia, Spagna, Italia, Nord

Africa, il centro della domina-zione bizantina (Egeo e Anato-lia occidentale), Siria e Palesti-na, Egitto. Tutte sono state at-traversate dall’analisi condottain quattro parti: Stati, Strutturedi potere aristocratiche (com-prensive della gestione dellaterra e dei “collassi politici”),Contadini (chiavi d’ingressosul tema dei villaggi e delle for-me d’insediamento), Reti (conle risposte sulle città e sui siste-mi di scambio).

Gli apparati definibili comestatali (e Wickham critica il te-leologismo di chi “aspetta”, inun certo senso, stati di tipomoderno) possono fondarsi sulprelievo fiscale o sulle basi fon-diarie del potere, sulla centra-lità dei regni o sulla prevalenzadelle aristocrazie. La rassegnadi casi serve anche a smentireluoghi comuni, come l’idea se-condo cui sarebbe “destinatoal fallimento (…) un sistema fi-scale i cui principali contri-

buenti potenzialipossano evitare dipagare le tasse”. Ladefinizione di aristo-crazia è molto similea quella di Marc Blo-ch: “Un’élite politica(…) che poteva eser-citare una qualcheforma di potere sem-plicemente per viadella propria iden-tità”. È di grande in-

teresse notare che le sintesi distoria mediterranea-europea,invece di dar peso al comples-sivo impoverimento delle ari-stocrazie, abbiano invece gene-ralizzato l’eccezione contraria,riscontrabile solo in Gallia enell’area siro-palestinese. Uncarattere davvero comune allediverse regioni (la militarizza-zione dell’identità aristocrati-ca) è giudicato dall’autore im-portante, ma non “il più signi-ficativo”. Terminologicamentee concettualmente l’autore faricorso a una nozione tripartitadi feudalesimo: come modo diproduzione; come dominazio-ne basata più sulla terra chesulle tasse; come specifico si-stema di relazioni militari feu-do-vassallatiche. L’uso pluri-mo, una volta esplicitato, puòanche non infastidire chi (co-me me) lo accetta sulla basedelle fonti solo nella terza ac-cezione. Certo talora l’aggetti-vo “feudale” crea confusione:come a p. 406 dove, con il rife-rimento a “diritti di proprietà(feudali)”, non si capisce se leterre siano tenute in proprietào in beneficio. Ma occorre am-mettere che per Wickham ladistinzione fra proprietà e pos-sesso non è decisiva per defini-re i sistemi politico-economici.

Torniamo agli aspetti di pie-no consenso. La gestione

della terra è occasione per ri-cordare che nell’alto medioevosono rari “schiavi di piantagio-ne” (riconducibili alla schia-vitù antica) e famiglie servilicon una quotidianità più para-gonabile a quella dei coloni li-beri: questi ultimi esistono,mantengono la loro libertà giu-

ridica (con buona pace di chicontinua a credere nei “servidella gleba”) e si distinguonosocialmente a seconda che ab-biano anche terre in proprietào coltivino soltanto terre altrui.

La curtis e l’economia cur-tense come “sistema” han-

no differenziazioni enormi, siadi cronologia sia di struttura,nelle diverse zone d’Europa(particolarmente frammentatele aziende bipartite italiane).

Ma, quando si incrociano fraloro i discorsi sui contadini-col-tivatori e i contadini-sudditi, undato sembra incontrovertibile.La condizione personale dellefamiglie dei rustici è fortementecondizionata dalla composizio-ne della maggioranza degli abi-tanti di un villaggio: più legate auno status specifico difendibilequando su un villaggio conver-gono diversi padroni, piccoliproprietari o addirittura appen-dicia di diverse curtes; con mag-giore tendenza all’omogeneitàdi obblighi e prestazioni quan-do la struttura sociale del villag-gio è più compatta.

Può addirittura avvenire (ècitato un bel caso veronese)che alcuni contadini, i qualiper via giudiziaria dimostranocon successo di non essere ser-vi, si vedano sottratta la pro-prietà delle terre (perché le lo-

ro prestazioni sono a quel pun-to interpretate come pagamen-to di terra in affitto).

La politicità delle comunitàdi villaggio (società definite dal-l’autore “tribali”), con la capa-cità di promuovere su un pianopiù complessivo il potere dei lo-ro capi, si riscontra quasi esclu-sivamente nella Bretagna orien-tale; altrove sono realtà insedia-tive, con scarsa funzione socialee quasi nullo rilievo politico.Vera protagonista è la famigliacontadina nucleare, non allar-gata, che instaura reti di relazio-ne (e spesso di scambi economi-ci) senza farsi condizionare dailimiti e dai caratteri dell’inse-diamento, e che non pratica laprimogenitura nelle eredità.

Per le città i secoli in esamesono di crisi: l’archeologia con-ferma, in questo caso, una vul-gata tradizionale, onestamentericonosciuta da un autore checorregge molto di ciò che già sisa, ma non vuole “rovesciare” aogni costo le conoscenze pre-gresse. In Italia gli antichi inse-diamenti urbani divengono“città a isole”, con un certo ri-dimensionamento della capa-cità polarizzante del “foro” tra-dizionale; maggiore continuitàsi registra nel Mediterraneoorientale, ma anche qui con unprocesso di “demonumentaliz-zazione”.

Di grande impegno teorico èil paragrafo sui Sistemi di scam-bio, dallo “scambio non com-merciale” (finalizzato ai legamisociali, quello di Marcel Mausse Marshall Sahlins) allo scam-bio di “redistribuzione” (ope-rata dal detentore del potere,quello di Karl Polanyi). È unalettura avvincente, che induce aragionare con prove solide sutante pigrizie della nostra cul-tura.

Ibeni che sono di lusso in unluogo non lo sono in un al-

tro: la ceramica Sigillata RossaAfricana, rara e costosa in Bri-tannia e Irlanda, è comune inAfrica settentrionale e in Italia.Lo scambio locale su piccolascala è molto più importante,nel definire tendenze economi-che, del commercio a grandedistanza (ma soprattutto moltointeressante è valutare la pre-senza/assenza di scambio all’in-grosso di beni non di lusso, co-me cibi o prodotti artigianali).La microregionalità del mondopost-romano domina nel bilan-cio conclusivo, che è magistralenel preservare le differenze e, altempo stesso, nell’individuaretendenze. ■

[email protected]

G. Sergi insegna storia medievaleall’Università di Torino

Un capolavoro di storia comparata

di Giuseppe Sergi

Da esotico a italiano

di Mauro Ambrosoli

David Gentilcore

LA PURPUREA MERAVIGLIASTORIA DEL POMODORO IN ITALIA

ed. orig. 2010, trad. dall’inglese di Roberto Merlini,pp. 268, € 13, Milano, Garzanti 2010

Èun’intelligente messa a punto della sto-ria del pomodoro in Italia, da curiosità

rinascimentale fino alla coltivazione di mas-sa di oggi. Il libro si legge sempre con cu-riosità e interesse e il lettore si giova dellasicura competenza dell’autore su una vasta docu-mentazione: dai botanici del Rinascimento, ai libridi cucina, agli studi sull’alimentazione, alla storiasociale e politica delle classi subalterne italiane,aprendosi infine alle tematiche attuali (concorren-za internazionale, montagna alimentare e SlowFood). Il pubblico di non specialisti giustificaqualche semplificazione di un tema complesso.

La marcia inarrestabile del vegetale incomin-ciò quando il pomodoro (noto all’inizio come“pomo d’oro” ma anche pomme d’amour) arrivònella Firenze di Cosimo I de’ Medici verso il1544-48, probabilmente come regalo di Pedroda Toledo, viceré di Napoli e suocero di Cosi-mo. Fin verso il 1650 il pomodoro rimase unapianta ornamentale, sospettata di essere veleno-sa (non senza ragione: le foglie e le parti verdisono effettivamente tossiche). Qualche sconsi-derato, come il figlio di Cosimo, Francesco, lomangiava crudo o fritto a fette nell’olio (in ma-niera simile ai pomodori verdi fritti della cucinaamericana dixie e cajun). Dalla metà Seicento igesuiti diffusero nuovi principi di alimentazionee aumentò la quantità delle verdure consumatenella dieta delle classi agiate: il pomodoro entròa fare parte della nuova alta gastronomia. Nelcorso del Settecento si preferì il pomodoro co-stoluto al più piccolo tomatillo, fin allora predo-minante. Verso il 1750 la diffusione del pomo-doro assunse dimensione internazionale: Italiameridionale, Sicilia e Sardegna divennero nuovi

centri di acclimatizzazione di varietà coltivatediverse da quelle di origine. Questa fase conti-nuò nel primo Ottocento, quando numerosistranieri viaggiavano nell’Italia modificata, inetà napoleonica, con soluzioni locali a probleminazionali. Il consumo di vermicelli e spaghetticonditi con la pummarola in sostituzione (o ag-giunta per i più fortunati) del cacio grattugiatodivennero cibo “di strada”, ma anche cucinatodalla piccola e media borghesia.

La fortuna del pomodoro era compiuta: usatofresco come panunto e simili, in salsa e conserva,come concentrato liquido o secco, divenne l’al-leato della pasta fresca o secca, che si aggiunge-va al pane come base dei consumi popolari, masenza sostituire le verdure. La diffusione del po-modoro sul mercato internazionale si deve aiprogressi dell’industria conserviera e all’emigra-zione italiana oltreoceano, che ne divenne ilmaggiore agente commerciale: dal 1876 al 1945più di nove milioni di italiani attraversarono l’A-tlantico almeno una volta. Seguendo le vicendefamiliari dell’emigrazione italiana in Germania,Inghilterra e Americhe, assecondando i bisognialimentari e le relazioni con la nuova società in-globante, i consumi della pasta – e con essa delsugo di pomodoro – finirono presto a trasfor-marsi nello stereotipo alimentare della culturagastronomica italiana. Successo gastronomicoche non mancò di avere ricadute negative in pa-tria durante gli anni della “battaglia del grano”:quando si impose propagandisticamente la co-siddetta dieta mediterranea per bilanciare il fal-limento economico dell’estensione delle cereali-colture sui terreni della penisola, mediamentecalciocarenti e poco adatti alla cerealicoltura.Infine, con acutezza, Gentilcore ricorda che ilsuccesso internazionale dell’alimentazione ita-liana, dovuto all’emigrazione, si tradusse in unaumento dei consumi ma non nell’alterazionedella piramide carboidrati-verdure-proteine ani-mali: l’obesità dei giovani di oggi è riconducile aun regime alimentare dove prevalgono gli zuc-cheri e non i carboidrati.

IMPA 7-8 2010 ok 23-06-2010 10:48 Pagina 26

Page 27: 61191478-10-07-INDICE

N. 7/8 27

Storia

Bruno Maida

PROLETARI DELLA BORGHESIAI PICCOLI COMMERCIANTI

DALL’UNITÀ A OGGI

pp. 183, € 15,10Carocci, Roma 2010

Quando nel 1975 Paolo Sy-los Labini con il Saggio

sulle classi sociali, e poi nel1977 Paolo Macry su “Qua-derni Storici” con l’articolo daltitolo Sulla storia sociale dell’I-talia liberale: per una ricerca sul“ceto di frontiera”, pongono ilproblema di ripensare il caso po-litico italiano, e la sua storia,guardando a quei gruppi inter-medi ignorati fino a quel mo-mento da una storiografiamarxista impegnata a studiare laclasse operaia e le sue organizza-zioni, sembrava che si stesseaprendo una nuova stagione distudi. Nella congiuntura delquasi sorpasso del Pci sulla Dcnelle elezioni del 1975 e del1976, studiare i ceti medi, e cioèle borghesie non produttive, gliimpiegati, i commercianti, gli ar-tigiani, significava rileggere lastoria d’Italia dando centralità agruppi che, contrariamente alleprofezie marxiane, non erano af-fatto scomparsi, ma erano invecelì, numerosi anche se spesso si-lenziosi, a ricordare, con la loro

partecipazione al voto, il contri-buto alla sviluppo e alla moder-nizzazione del paese, il loro esse-re protagonisti anche della ven-tata di secolarizzazione che l’esi-to del referendum sul divorziodel 1974 metteva sotto gli occhidi parte dei politici spesso incre-duli, della complessità del pro-cesso di costruzionedello Stato unitarioitaliano. In un paeseattraversato da moltefratture – Nord-Sud,centro-periferia, città-campagna –, precipi-tato nel fascismo enella guerra a causa diquelle che buona par-te della storiografiachiamava tare costitu-tive dello Stato libera-le – prima fra tutte una borghe-sia nazionale debole e incertanella gestione del potere – stu-diare “i ceti di frontiera” signifi-cava anche rendere più comples-so il quadro mettendolo allostesso tempo in una prospettivacomparativa (in quegli stessi an-ni studi sugli stessi temi eranostati avviati in altri paesi euro-pei).

I frutti di quella stagione furo-no in realtà pochi. La storia so-ciale assumeva cittadinanza pie-na in Italia nel momento in cuialtrove – in Francia, in GranBretagna, in America – comin-ciava a dare segni di crisi e glistudi sulle borghesie e i ceti me-

di dopo una breve fiammata tor-navano a languire. Se ho evocatoquesta stagione per parlare diProletari della borghesia, anchese, singolarmente, questi ed altririferimenti sono assenti dal librodi Maida, è perché questo volu-me, che in maniera corretta edefficace fa il punto su un temaimportante partendo dai pochis-simi lavori disponibili, testimo-nia indirettamente del fallimen-to di studiare in Italia i gruppisociali con i metodi delle scienze

sociali. Maida è del re-sto “costretto” da quelfallimento a scegliereuna chiave di letturache lascia fuori dalquadro i comporta-menti, i caratteri delgruppo, la sua stratifi-cazione interna, l’orga-nizzazione della botte-ga, i livelli d’istruzioneecc., per concentrarsisulla dimensione poli-

tica di questa “ingombrante”presenza.

Nel far questo compie peròuno sforzo di sintesi davvero en-comiabile. Riesce a far parlareun materiale esiguo e componel’affresco di un gruppo d’inte-resse e di una funzione che cre-sce d’importanza nello sviluppodella società dei consumi. I cin-que case studies – due per l’Ita-lia liberale (Morris, Caglioti),uno per il periodo tra le dueguerre (Anastasia), uno per laseconda guerra (Maida) e unoper il secondo dopoguerra (Ba-viello) –, e i pochi lavori dispo-nibili sui caratteri della distribu-zione commerciale e dei consu-

mi in Italia (Zamagni, Scarpelli-ni), forniscono il materiale prin-cipale per una trama che si svol-ge seguendo, e giustamente, lescansioni classiche della perio-dizzazione politica italiana. Giu-stamente perché la condizionedel piccolo commercio in Italiaè segnata e influenzata dalle tra-sformazioni nel sistema istitu-zionale, annonario, giuridico efiscale che seguono i cambi diregime e le congiunture politi-che, e giustamente perché Mai-da sceglie di raccontare questogruppo sociale nei suoi com-plessi e difficili rapporti con loStato da una parte, e, dall’altra,nel suo graduale tentativo di su-perare la frammentazione percostituirsi in gruppo d’interesseal fine di fronteggiare la concor-renza e l’avanzata di nuovi siste-mi di distribuzione commerciale(le cooperative prima, la grandedistribuzione poi). Con scrittura

piana e chiara, Maida ci condu-ce, in cinque capitoli, attraversol’Italia liberale, la Grande guer-ra e la transizione al fascismo,gli anni del regime, quelli dellaricostruzione post bellica e delmiracolo economico, per finirecon il quarantennio di crisi emodernizzazione che ci siamoappena lasciati alle spalle. Cercaanche di fare i conti con i pre-giudizi che vogliono i commer-cianti “per natura quasi incapa-ci di innovazione e stabilmenterivolti a politiche conservatriciquando non autoritarie” e con“l’ambigua e irregolare traietto-ria della modernizzazione”. Lerisposte non sono definitive, mail libro sicuramente traccia uti-lissime piste e suggerisce inte-ressanti letture. ■

[email protected]

D.L. Caglioti insegna storia contemporaneaall’Università di Napoli Federico II

Ceti di frontiera poco studiati

di Daniela Luigia Caglioti

IMPA 7-8 2010 ok 23-06-2010 10:48 Pagina 27

Page 28: 61191478-10-07-INDICE

N. 7/8 28

Storia

DA VERSAILLES A MONACOVENT’ANNI DI GUERRE

DIMENTICATE

a cura di Davide Artico e Brunello Mantelli

pp. 150, € 16,Utet, Torino 2010

“Abbiamo combattutocon decisione per fer-

mare il fronte bolscevico, con-trapponendoci anche agli ordi-ni che ci venivano dal nostrogoverno, messo sotto pressionedall’Intesa”. Con tale appello,rivolto nel novembre 1919alla “patria tedesca e a tutti i po-poli civili del pianeta”, PaulSiewert, comandante della Deut-sche Legion, una formazione mi-litare inquadrata nell’esercitorusso bianco dell’Ovest, inter-pretò il senso di quella “guerradopo la guerra” che si svolse nel-la regione baltica tra 1919 e1922, dove, per assicu-rare un forte presidioantisovietico, l’Intesariconobbe alla Germa-nia lo status tempora-neo di “potenza occu-pante”. È dunque apartire dalla ricostru-zione dello scenariopolitico e militare del-l’Europa centro-orien-tale all’indomani del1918 – nel contestodel quale, si badi bene, la Deut-sche Legion di Paul Siewert e iFreikorps di Rüdiger von derGoltz furono solo due dei nume-rosi attori in campo – che i cura-tori di questa accurata e permolti aspetti innovativa raccoltadi saggi hanno riportato l’atten-zione su una porzione perlopiùtrascurata della storia europea e,al contempo, delineato un qua-dro di massima delle “guerre di-menticate” del periodo interbel-lico: tra queste, il conflitto po-lacco-lituano e quello polacco-ceco per il possesso rispettiva-mente di Vilna e della regione diTe

˛≤ín, la guerra polacco-sovieti-

ca, la contesa polacco-tedescaper la Slesia centro-orientale o,ancora, quella italo-slovena perTrieste.

Più precisamente, prendendoin esame quell’arco di tempo

compreso tra 1918 e 1938, cioètra la pace di Versailles e la Con-ferenza di Monaco, durante cuigran parte del continente euro-peo fu attraversata da una seriequasi ininterrotta di conflitti a“bassa intensità” (geografica-mente circoscritti, ma non menosanguinosi e influenti sul pianodelle conseguenze di lunga dura-ta), i saggi qui raccolti riportanoalla luce un panorama estrema-mente complesso, segnato da uninestricabile intreccio tra guerraregolare, guerra civile e guerrasociale, che consentirebbe, se-condo quanto sostenuto da Da-vide Artico, docente presso l’U-niversità di Wrocl/aw (Bresla-via), e da Brunello Mantelli, pro-fessore a Torino, di richiamarsialla definizione di “Guerra deiTrent’Anni del XX secolo”. Ri-spetto a quella propriamente

detta, quest’ultima si giocò tut-tavia non più sulla contrapposi-zione religioso-confessionale,bensì su quella strettamente po-litico-ideologica. Se l’ideologianazionale e, dopo il 1917, quellaantibolscevica, svolsero dunqueun ruolo chiave nello scatenarsie nel prolungarsi dei conflitti trai nuovi stati nazionali sorti dopoil crollo della Germania gugliel-mina, dell’Austria asburgica edella Russia zarista, gli autori deidiversi saggi non mancano peral-tro di mettere giustamente in ri-salto il fatto che l’una e l’altra fi-nirono spesso per ricoprire lafunzione di puri e semplici pre-testi, al di sotto dei quali conti-nuarono a svolgere una funzionecruciale tanto gli interessi di po-tenza quanto le ambizioni ege-moniche delle stesse classi diri-genti locali.

Come emerge in maniera em-blematica dalle pagine del sag-gio di Evgenij Jureviè Sergeev,dedicato all’analisi della politi-

ca adottata da Lon-dra verso gli stati bal-tici tra 1918 e 1922, laricostruzione puntua-le degli eventi rivelainfatti come la coltreweltanschaulich, concui furono giustifica-te le strategie di voltain volta adottate daivari soggetti naziona-li, si sia perlopiù limi-tata a far da paraven-

to a dinamiche di natura pura-mente realpolitisch: nel casodella Gran Bretagna, per esem-pio, la politica perseguita daDowning Street fu condiziona-ta non solo dall’orientamentodei vari governi che si alterna-rono in quegli anni, ma ancheda molteplici necessità geopoli-tiche, tra cui quella di contene-re l’influenza francese, quelladi impedire un eccessivo inde-bolimento della Germania,quella di frenare l’avanzata bol-scevica e simultaneamente lemire espansionistiche polacche,quella di evitare l’emergere dispinte revansciste a Berlino e aMosca, nonché dalla volontà diassicurarsi ampi spazi di pene-trazione commerciale e finan-ziaria.

Ne consegue pertanto, secon-do quanto è possibile evinceredall’insieme delle analisi quisvolte, che la riconfigurazionepostbellica dell’Europa si rivelònei fatti un vero e proprio falli-mento, non solo perché, alla lu-ce del programma wilsoniano,si ritenne di poter tracciare deiconfini laddove questi, per viadella secolare complessità etni-ca, culturale e linguistica, nonerano tracciabili, ma anche per-ché, sacrificando talora lo stes-so principio dell’autodetermi-nazione nazionale sull’altaredegli interessi imperiali, si finìper creare quelle fatali condi-zioni a partire dalle quali fasci-smo, nazismo e stalinismoavrebbero di lì a poco imposta-to le proprie rispettive strategierevisionistiche. ■

[email protected]

F. Trocini è dottore di ricerca in studi politicieuropei all’Università di Torino

Fabio Fabbri

LE ORIGINI DELLA GUERRA CIVILE

L’ITALIA DALLA GRANDE GUERRA

AL FASCISMO, 1918-1921

pp. 712, € 28,Utet, Torino 2009

Fabio Fabbri ripercorre ifatti del triennio preceden-

te l’arrivo al potere di Mussoli-ni con una dettagliata cronacadegli scontri tra fascisti e socia-listi. Anche Dino Grandi, dauna parte, e Anna Kuliscioff,dall’altra, oltre, più di recente,a uno storico come AlbertoBanti, ebbero a qualificare ilperiodo in questione comequello di una “guerra civile”,che l’autore vede avviarsi il 15aprile 1919 con l’incendio aMilano, da parte dei fascisti, diquella che era la sededell’“Avanti!”. Definizione cheappare oggi inflazionata: è stataapplicata non solo, con sostan-ziale equilibrio, da Claudio Pa-vone alla Resistenza, ma anchead altri contesti della storiacontemporanea (ConstantinePleshakov l’ha evocata in rap-porto alla fine del comunismonell’intero Est europeo).

In realtà, lo scontro fra socia-listi e fascisti in Italia coinvolsesolo in via sporadica e margi-

nale l’insieme dei cittadini; imorti furono infatti tremilalungo l’arco di tre anni. Forse èquindi più giusto parlare di“sprazzi” di guerra civile, chepartirono dalle agitazioni per ilcaroviveri e si verifi-carono anche in altrenazioni europee, dal-la Germania all’Un-gheria, pur con esitidifferenti. Causa del-lo stillicidio di attiviolenti che, perqualche tempo, pre-cipitò la Val Padanae varie altre zone d’I-talia in una spirale disangue, fu, stando al-la definizione fornita all’epocada Leonardo Gatto Roissard,esperto militare dell’“Avanti!”,la “demagogia armata” fasci-sta. Pur essendo esposti allaminaccia di spedizioni fasciste,in quanto radicati sul territo-rio, i socialisti, sul piano dell’a-zione, offrirono infatti una ri-sposta tardiva, come avrebbesuggestivamente raccontatoAngelo Tasca nel subito classi-co Nascita e avvento del fasci-smo (pubblicato nel 1938 inFrancia e altri paesi, ma solodopo la guerra mondiale in Ita-lia). Sul piano istituzionale,gravida di funeste conseguenzefu comunque la situazione disemi-ingovernabilità creatasicon le elezioni del novembre

1919, per le divisioni fra il Ppie il Psi, il quale, con il 32 percento dei voti, era divenuto ilmaggior partito nazionale, untraguardo sempre molto peri-coloso per la sinistra italiana.Non a caso, proprio dalla finedel ’19, si fece palese l’appog-gio offerto ai fascisti da giorna-li conservatori, esercito, forzedell’ordine, organizzazioni

agrarie e gruppi indu-striali (Fiat, Ilva, am-pi settori della side-rurgia); nell’aprile1920, a Decima diPersiceto (Bologna),carabinieri e guardieregie uccisero ottocontadini.

Accadde nel pienodi quella “primavera disangue” che, come di-mostra Fabbri grazie a

una notevole documentazione,inaugurò una fase particolar-mente violenta dell’assalto fasci-sta alle piazzeforti socialiste;questo benché nel giro di pochimesi l’ondata rivoluzionaria cheaveva condotto all’occupazionedelle fabbriche andasse spe-gnendosi. Bisognò aspettare il21 luglio 1921 perché a Sarzanai carabinieri rispondessero, peruna volta (di fatto l’unica), alledevastanti scorribande fascistecome leali servitori dello stato didiritto e non più come alleati de-gli interessi antisocialisti. Ma eraormai troppo tardi. ■

[email protected]

D. Rocca è insegnante e dottore in storiadelle dottrine all’Università di Torino

Creando fatali condizioni

di Federico Trocini

Primavera di sangue

di Daniele Rocca

Berretti a lucerna fedeli ai Savoia

di Dino Carpanetto

Emanuele Faccenda

I CARABINIERI TRA STORIA E MITO1814-1861

pp. 382, € 49, Comitato di Torino dell’Istitutoper la storia del Risorgimento italiano-Carocci,

Torino-Roma 2009

Con le regie patenti del 13 luglio 1814,Vittorio Emanuele I di Savoia fondava il

reparto militare dei carabinieri, sul modellodella gendarmeria francese, un corpo che siera imposto per la polivalenza delle sue fun-zioni, tanto militari quanto di polizia. I carabinie-ri diventeranno in pochi anni a tutti gli effettiun’arma, ossia un settore distinto dell’esercito,dotato di specifico armamento e di compiti auto-nomi, e come tali saranno conosciuti ancor primadella titolazione ufficiale acquisita nel 1861. Nel-lo stato italiano costituiranno un elemento di coa-gulo sociale e di controllo delle tensioni, così daacquisire un alto profilo istituzionale.

Il periodo compreso tra la Restaurazione e l’u-nità d’Italia è l’oggetto di questo libro, che riservamotivi di interesse derivanti da un’attenta ricercasulle fonti interrogate con grande efficacia. Laflessibilità di un reparto militare incaricato al tem-po stesso di compiti di polizia e di guardia del re,un corpo che ha saputo adattarsi alle diverse si-tuazioni in cui è stato chiamato a operare, è un deifili conduttori. Un secondo consiste nel confrontotra la realtà e il mito. La realtà è quella di un cor-po nato come strumento di prevenzione e di re-pressione al servizio del re, in una fase di trapassodi poteri. Il mito consiste nella costruzione retori-ca delle immagini che l’arma porterà nella sua sto-

ria futura: l’eroismo, la fedeltà ai Savoia (anchedurante gli anni del fascismo), l’efficace azionetanto come polizia quanto come reparto militare.In questo disegno l’autore mostra l’insussistenzareale di alcuni episodi che la retorica dell’armaavrebbe assunto a momenti fondativi della suaidentità. È un’operazione che durante il regno diCarlo Alberto si organizza intorno al gesto del ca-rabiniere Giovanni Battista Scapaccino, di IncisaBelbo, caduto nel 1834 nei pressi di Chambéryper mano di congiurati mazziniani. L’illustrazionenella copertina del libro è significativa: da unaparte si vedono i patrioti di Mazzini, veri ceffi dabrigante che inalberano bandiere e coccarde tri-colore, dall’altra il carabiniere Scapaccino, vestitodell’elegante divisa blu, con il tipico copricapoche la fantasia popolare battezzò “a lucerna”, ilquale si ritrae di fronte alla pallottola che lo staper uccidere. Un avvenimento come altri, che as-sume rilievo quando scatta il dispositivo che tra-sfigura l’episodio nel mito, allo scopo di trasmet-tere l’immagine dell’eroismo fissata in un giovanee oscuro militare caduto al servizio della dinastia.

L’altro episodio su cui si sofferma l’autore è la fa-mosa carica di Pastrengo, nel marzo del 1848, ilprimo impiego del corpo in un’operazione bellica,ancora oggi rievocata ogni anno alla festa dell’ar-ma. Tutte le fonti analizzate da Faccenda sono con-cordi nel far derubricare l’evento a semplice ope-razione ordinaria, di basso profilo eroico. Anche inquesto caso conta il meccanismo di costruzionedell’epopea apologetica, che comincia a dispiegar-si verso la fine dell’Ottocento nel quadro di un in-tento celebrativo che, secondo Faccenda, vuole de-lineare il ritratto del carabiniere al servizio dell’Ita-lia, oscurando altre dimensioni del passato dell’ar-ma non congruenti con tale rappresentazione.

IMPA 7-8 2010 ok 23-06-2010 10:48 Pagina 28

Page 29: 61191478-10-07-INDICE

Terrore e gioia di vivere

di Maria Candida Ghidini

Gian Piero Piretto

GLI OCCHI DI STALINLA CULTURA VISUALE SOVIETICA

NELL’ERA STALINIANA

pp. 247, € 22, Raffaello Cortina, Milano 2010

Il libro di Piretto è il risultato di anni distudi sulla cultura staliniana e su come es-

sa ha forgiato nei dettagli e per decenni lavita dei cittadini sovietici. Come nel prece-dente Il radioso avvenire. Mitologie culturalisovietiche (Einaudi, 2001), che prendeva in esa-me anche il periodo rivoluzionario e quello del-la Nep, Piretto si concentra sulla costruzione delconsenso, un aspetto della società totalitaria chespesso passa in secondo piano di fronte a quellodella repressione, più evidente e gravido di con-seguenze nefaste. Non si finirà mai di studiare isistemi coercitivi e repressivi: non sappiamo an-cora tutto e il dovere della memoria è un debitoche abbiamo nei confronti delle vittime e dellefuture generazioni. Tuttavia, questa dimensionerepressiva non è l’unica modalità di azione dellostato totalitario che in Russia è stato in grado dimettere in atto una complessa e duratura strate-gia di persuasione, di lakirovka real’nosti, river-niciatura della realtà. In questo libro emerge be-ne la paradossale coesistenza di terrore e gioia divivere (“Vivere è diventato più bello, più alle-gro” era uno degli slogan all’epoca) di cui eraimpastata la società del tempo. Una sapiente re-gia, attenta ai punti sensibili della cultura che in-tendeva manipolare (la visualità, appunto, perun popolo educato alla contemplazione delleicone), si adoperava per la creazione di una

realtà virtuale che puntava ad avvolgere e fasci-nare le masse, ottundendo la capacità critica, maanche fornendo una via di fuga per poter viverenell’orrore e nella paura. E ciò attraverso laspettacolarizzazione della realtà.

Film, manifesti, l’architettura al servizio dellacostruzione di un immaginario urbano utile a co-stituire una sorta di sfondo collettivo plasmantela vita individuale nei comportamenti più privati(dalla gastronomia alla sessualità). L’interesse diGli occhi di Stalin non sta però solo nella ricchez-za del materiale offerto all’interpretazione. Inquesto suo nuovo libro Piretto non rimane sulpiano di un meccanismo – il funzionamento cul-turale di determinati miti – da smontare. La suaanalisi mostra chiaramente come terrore e gioiadi stato non siano fenomeni in contraddizione,ma l’espressione di un’unica ideologia totalitaria.Tutto è trasformato in spettacolo e il tiranno è lospettatore privilegiato di tale azzardata, e piena dihubris, Gesamtkunstwerk, ossia l’opera d’arte to-tale vagheggiata da tutto il modernismo. Ciò nonè che una delle modalità di essere e di consoli-darsi dello stato totalitario, teso a riempire le co-scienze. Ecco perché è impossibile parlare dellospettacolo e non del suo retroscena, la tragedia.Ecco perché il libro è anche una riflessione suogni manipolazione della realtà: iniziando con unauspicio (“Oggi vedere non dovrebbe più esseresinonimo di credere”), suggerisce in modo lieveuna via da percorrere tramite l’epigrafe da donCamillo della Bassa: “E il mondo nel quale vivia-mo io, te e Stalin non è forse una cosa che si ve-de e si tocca?”. Di fronte all’ideologia globaliz-zante la concretezza del mondo che si vede e sitocca aiuta a dissipare la pericolosa fascinazionedi ogni iperrealtà manipolatoria.

N. 7/8 29

Storia

Loreto Di Nucci

LO STATO-PARTITODEL FASCISMO

GENESI, EVOLUZIONE

E CRISI 1919-1943

pp. 628, € 40,il Mulino, Bologna 2009

Diarchia, policrazia, regnodell’antipolitica. Pur rin-

viando a modelli profonda-mente differenti tra loro, leprincipali interpretazioni del-l’organizzazione e del funzio-namento della dittatura fasci-sta hanno contribuito a scon-fermare l’immagine di un regi-me monolitico e normalizzato,caratterizzato dall’assenza di ri-valità e dal raggiungimento diun perfetto equilibrio interno.Partendo dall’assunto che l’Ita-lia di Benito Mussolini dege-nerò in un vero e proprio “caossistemico”, Loreto Di Nucciapporta nuovi elementi alla ri-flessione sulla conflittualità to-talitaria: se declinata sul terre-no delle relazioni fra stato epartito, essa può rappresentareuna chiave di lettura dell’interoventennio, il filo rosso attraver-so cui ripercorrere non soltantole differenti fasi in cui è plausi-bile scandire il percorso del Pnf(Partito nazionale fascista), maanche le questioni identitarie

connesse all’opera di costruzio-ne e consolidamento del con-senso.

L’antagonismo tra il partito elo stato, sostiene l’autore,affonda le proprie radici neglianni precedenti alla marcia suRoma, quando il fascismocompì il proprio ingresso sullascena presentandosicome una formazioneche, contendendo alleistituzioni liberali ilmonopolio e l’usodella violenza, inten-deva sostituirsi a essepiuttosto che compe-tere per esercitarne ilgoverno. A seguitodella conquista delpotere, il dualismovenne trasferito alladittatura in costruzione e as-sunse progressivamente la for-ma di contrasti tra sottosegreta-ri al ministero dell’Interno e se-gretari del partito al centro, etra prefetti e federali alla peri-feria del sistema; contrasti chesi aggravarono dopo la crisiMatteotti, malgrado gli assiduitentativi del duce e del suo en-tourage di subordinare il Pnfallo stato. Il ponderoso volumedi Loreto Di Nucci ripercorrenel dettaglio le tensioni interneal regime negli anni della nor-malizzazione e della stabilizza-zione totalitaria, ricostruendol’attività delle personalità che si

avvicendarono alla segreteriadel partito e i loro rapporti conil capo del governo e la compa-gine ministeriale.

Se Roberto Farinacci (1925-26) si fece coinvolgere nelle lotteinfra ed extra partitiche, e Augu-sto Turati (1926-30) e GiovanniGiuriati (1930-31) non furono ingrado di garantire il disciplina-mento di un organismo che videcrescere esponenzialmente i pro-pri iscritti e le proprie compe-tenze, i conflitti non diminuiro-

no nell’era Starace(1932-39), investendosempre più esplicita-mente il terreno e imeccanismi del nationbuilding: pur potendofare affidamento suuna presenza capillaree pervasiva nella so-cietà, il Pnf non riuscìa realizzare quella na-zione di “uomini nuo-vi” che costituiva una

parte essenziale del suo pro-gramma politico. Il fallimentodell’“utopia di una fascistizza-zione integrale della patria” fuesacerbato dallo scoppio delconflitto mondiale, vissuto dallamaggioranza degli italiani comeuna “guerra di partito”; fino allaseduta del Gran consiglio del fa-scismo del 25 luglio 1943, du-rante la quale al rifiuto dell’e-vento bellico si sovrappose lasconfessione e l’implosione dellostato fascista. ■

[email protected]

M. Carli insegna storia d’Europaall’Università di Teramo

La fascistizzazione integrale

di Maddalena Carli

Interpretazioni, trovate, aneddoti e sviste

di Ennio Di Nolfo

Tommaso Piffer

GLI ALLEATI E LA RESISTENZA ITALIANA

pp. 366, € 28,il Mulino, Bologna 2010

Quando uno storico, speciese alle prime prove, sco-

pre, o crede di avere scoperto,un gran tesoro di documenti,vien colto da una sorta di verti-gine, come una “sindrome diStendhal”. Come leggerò, or-ganizzerò o interpreterò que-ste fonti? Sono queste le primedomande che lo assalgono. E su-bito dopo: si tratta di carta strac-cia o di un tesoro nascosto?

Per orientarsi, la via più saggiaè collocarsi nella scia di ciò chehanno già scritto, su temi paralle-li, autorevoli studiosi, che in qual-che modo forniscono un appiglioper distinguere il grano dal loglio.Questo è il proposito che Pifferha saggiamente indica-to nelle prime paginedel libro. Tuttavia, fattipochi passi, l’autore ab-bandona il propositopreliminare e si inabissain un cunicolo. In su-perficie tutto apparenormale e solo a pochiiniziati è dato capirel’antinomia fra i due li-velli, ma è quasi sololungo questi cunicoliche il nostro autore si avventura,scoprendo verità sue proprie, chegli altri ignorano, poiché muovo-no sulla superficie del “già noto”.Talora, il nostro eroe sporge il ca-po verso l’esterno e si imbatte inaccadimenti inattesi, che contrad-dicono ciò che egli costruisce eche non riesce a collocare nel giu-sto verso, sicché torna nel suo ri-paro, sino a completarlo e a forni-re la propria verità: gli altri si so-no sbagliati, le parti vanno rove-sciate. Nella Resistenza italiana gliAlleati non hanno avuto un ruolomarginale e, magari, ostile: ne“fanno parte a pieno titolo”.

Questo è, fuor di metafora, uncapovolgimento del sapere co-mune. Ciò che Piffer afferma èmolto chiaro: non è vero che laguerra, la guerra civile e la Resi-stenza fossero combattute in Ita-lia da eserciti, politici, politicanti,scontri militari, accordi, disac-cordi, forze armate regolari, stra-tegie, diplomazia ecc. I veri auto-ri di tutte le soluzioni furono iservizi segreti alleati (dei qualiPiffer ha raccolto alcune carte): ilbritannico Soe (Special Opera-tions Executive) e l’americanoOss (Office of Stategic Services),che intesserono una fitta trama,all’interno della quale tutto il re-sto venne racchiuso. Che c’è dadire in proposito? Nessuno puònegare l’importanza di questedue organizzazioni che, non es-sendo “corpi separati dello sta-to”, come si usa dire oggi, ebberoil compito di aiutare logistica-mente la Resistenza, ma soprat-tutto di controllarne e orientarnele iniziative politiche e militariper impedire che ostacolassero iprogetti degli Alleati per l’Italia.

Sul piano storiografico (quasi)tutte le interpretazioni hanno una

loro rilevanza, purché siano argo-mentate in modo cronologicamen-te, concettualmente e logicamentepersuasivo o, almeno, coerente.Non è questo – e duole dirlo, poi-ché ciò significa che una buonaoccasione è andata persa – il casodel lavoro di Piffer. Per l’autore, lagerarchia delle fonti, l’ordine logi-co degli eventi, la qualità degli in-terlocutori non hanno una precisarilevanza. L’aneddoto insignifican-te o la svista marchiana prevalgonosulla comprensione. Così accadeche egli riesca a scrivere che “nel-l’estate del 1940 (…) niente facevaprevedere un rapido ingresso degliStati Uniti nel conflitto” (mentre il5 gennaio 1940 persino Mussoliniaveva scritto che gli Stati Uniti nonavrebbero mai permesso una scon-fitta britannica). Accade anche chela campagna del Mediterraneoavesse inizio con lo sbarco “deglialleati in Marocco e in Algeria”(sic!) l’8 novembre 1942 e con laloro rapida corsa verso la Tunisia ela Libia, dove ovviamente né Rom-

mel si era mai presenta-to né la battaglia di El-Alamein aveva avutoluogo né, infine, gli ita-liani avevano speso leloro risorse dal giugno1940. Così l’Italia escein fretta dalla guerra ec’è la “svolta di Saler-no”, ma chissà come echissà perché, poichél’autore non menzionané Prunas né Vi≤inskij,

né la conferenza di Mosca né quel-la di Teheran, le cui discussioni edecisioni per l’Italia e per l’Europafurono, a quanto pare, un eserciziotrascurabile. Né, a parte qualchereparto partigiano, esistettero for-ze armate regie, talché chi ha stu-diato la rinascita delle forze arma-te italiane, in lotta contro i tede-schi, ha speso il suo tempo invano.La dialettica fra i partiti e lo scon-tro fra Cln e Clnai è solo un episo-dio fuggevole, e Bonomi, che pureera il presidente del Cln, sarebbedivenuto primo ministro grazie aun accordo fra i partiti antifascistie all’insaputa degli Alleati.

Infine, l’episodio principale nelquale l’Oss e il Soe furono im-

pegnati, cioè il tentativo di otte-nere la resa dei tedeschi in Italia,noto come “Operation Sunrise”,opera di Allen Dulles e WilliamDonovan (la cui corrispondenzacon Roosevelt e Truman su que-sto tema è pubblicata in Italia dal1975) e di John MacCaffery, ècancellato dalla storia, pur essen-do stato descritto con precisioneesemplare da Elena Aga-Rossi eBradley Smith (Operation Sunri-se. La resa tedesca in Italia, Mon-dadori, 2005).

Dal che si desume che, quandosi esce dal cunicolo in cui anchele ombre sembrano vere, qualsia-si ragionamento appare sensato ela trouvaille capovolge la storia.Con una documentazione cosìricca sarebbe stato invece possi-bile ricostruire nei particolari ilcompito di controllo politico emilitare affidato dagli Alleati ailoro servizi segreti. ■

[email protected]

E. Di Nolfo insegna storia delle relazioniinternazionali all’Università di Firenze

IMPA 7-8 2010 ok 23-06-2010 10:48 Pagina 29

Page 30: 61191478-10-07-INDICE

N. 7/8 30

Politica

Sandra Puccini

NUDE E CRUDIFEMMINILE E MASCHILE

NELL’ITALIA DI OGGI

pp. 189, € 18,Donzelli, Roma 2009

L’autrice pone una doman-da a fondamento di que-

sto suo libro: che ne è dei ruo-li e dei comportamenti dei duesessi o generi nel mondo di og-gi? E cerca di dare risposte, al-meno per l’Italia, limitando ac-cortamente il campo, accumu-lando dati, in tono interrogativo,da osservatrice partecipante, se-condo la ricerca etnografica diret-ta. Una prima risposta allusiva èche oggi le donne sono nude e imaschi sono immaturi, cioè disin-volte le une, imbranati gli altri. Eciò è qualcosa di diverso, e quan-to, rispetto a prima? Quale pri-ma? Sempre, con prudenze spa-zio-temporali da antropologa, ilterminus a quo è quello preceden-te il dilagare in Italia della televi-sione commerciale, ovvero, primadel berlusconismo massmediati-co, che è una specificazione italia-na di un fenomeno mondiale chel’antropologo Arjun Appaduraifarebbe rientrare tra i mediasca-pes, flussi di globalizzazione me-diatica omologante. Per com-prendere ciò che siamo diventati,

Sandra Puccini suggerisce il ruo-lo importante, e quasi inaugurale,dei fiction serials: Dynasty o Dal-las di quasi quarant’anni fa, e og-gi la pornografia di Melissa P. esimili, con immagini onnipresen-ti. Lo fa applicandovila nozione di modellidi comportamento,man mano adottati damilioni di persone: pri-ma le donne, poi gliuomini a rimorchio.Inoltre, come si riassu-me in quarta di coper-tina, “In principio cifurono la contestazio-ne, il femminismo e laliberazione sessuale;poi vennero la donna oggetto, lescosciate tutte-tette delle tv com-merciali, l’imperativo dei giovanibelli e disinibiti a tutti i costi, uo-mini compresi. (…) E che diredegli uomini, sospesi tra il sognodell’harem e il mito della tenerez-za materna?”.

Puccini è troppo lontana dallatentazione di darsi ragione dellecose del mondo con la teoria delcomplotto, tanto che non è tenta-ta nemmeno dal far sua, comeipotesi utile, quella di Pasolinidella mutazione antropologica. Lamutazione è cosa troppo ovviaper un antropologo, che semmaiha come problema proprio la plu-ralità fluida e la mutazione peren-ne dei modi di vivere, e la neces-sità perenne di produrre beni di

sussistenza, regole e senso condi-visi. Un problema nuovo è la rapi-dità mondializzata del mutamen-to, inaudita, inedita, frana e derivadicono in molti, tanto che nem-meno più il maschio con la fem-mina si capiscono più, semmai sisono capiti. L’essere umano nonnasce “imparato”, come forse tut-ti gli altri viventi, ma bisognoso diimparare, di diventare un partico-

lare tipo di individuo:magari con una consa-pevolezza, un rammari-co di aver potuto esserealtro, altrove e in altritempi. Temi eterni di ri-flessione spesso negati,interdetti, in nome dellapretesa che il particola-re tipo di umani che si èdiventati in un partico-lare luogo e tempo e so-cietà realizzi l’unico

possibile ottimale tipo di umani inassoluto. Nella complessità deimodi di essere e di divenire, oggiuna causa nuova pare intuibile intutto il nuovo che meraviglia epreoccupa, che l’autrice passa inrassegna. In una formula: a forzadi cercare per millenni il sessosenza riproduzione, dopo i poten-ti anticoncezionali della secondametà del Novecento, sono arriva-te le nuove tecniche di riprodu-zione non sessuale, con questo belribaltamento: dal sesso senza ri-produzione alla riproduzione sen-za sesso. Ma sono sempre le don-ne a tenere le fila del gioco. ■

[email protected]

G. Angioni insegna antropologia culturaleall’Università di Cagliari

Globalizzazione mediatica omologante

di Giulio Angioni

Più nessuno intorno a te

di Gian Giacomo Migone

Due politici preziosi, due libri altrettantopreziosi che meriterebbero attenzione da

parte di chi sente il bisogno di una restituzionedella memoria storica. Due città: Torino e Ge-nova. Diego Novelli (Ritratti. Volti del mio No-vecento, pp. 255, € 15, Melampo, Milano 2010),successivamente parlamentare italiano ed euro-peo, come sindaco ha accompagnato e in parteguidato la trasformazione di Torino negli annisettanta e ottanta. Gli anni della grande immi-grazione dal Sud, del movimento operaio e sin-dacale, anche del terrorismo. Il sindaco ultra-piemontese che ha capito le ragioni di immigra-ti accolti poco meglio di quelli attuali dalla pel-le ancora più scura e, nei limiti dei suoi poteri,ha fatto fronte ai loro bisogni. Il sindaco che haanticipato Tangentopoli: di fronte a malversa-zioni che investivano suoi alleati di giunta si è ri-volto per primo alla Procura della Repubblica.Giornalista di professione, autore di numerosilibri, stimolato da Nando Dalla Chiesa, Novelliha inventato un nuovo genere letterario chesfugge ai difetti tipici dell’autobiografia classica,ovvero la ricostruzione storica a uso privato, co-sparso di ricordi più o meno significativi dellepersone famose incontrate sulla propria strada,quello che gli inglesi chiamano name dropping. IRitratti sono ben trentatre, corrispondenti ad al-trettanti incontri che hanno lasciato un’impron-ta sulla sua vita: da suor Nella, che lo ha accoltoin asilo, al suo predecessore Celeste Negarville(“il marchese comunista”); da Carlin Biancheri,muratore antifascista, a Enrico Berlinguer e, sul-l’altro versante di una peraltro claudicante bar-ricata, Umberto Agnelli e Gian Mario Rossigno-lo; dal ritratto curiosamente adorante di LuigiFirpo (“l’uomo del sapere”) a quello decisa-

mente antipatizzante dell’altro Agnelli, Gianni,sbrigativamente liquidato come avvocato dicomplemento. Ma ciò che rende questa galleriagodibile e istruttiva è la capacità rara ed elegan-te dell’autore di contestualizzarne i soggetti.

Quella di Speciale (Generazione ribelle.Quaderni ritrovati, pp. 125, € 12, Diabasis,Reggio Emilia 2009) è invece un’autobiografiatradizionale, anche se nella forma di tre qua-derni ritrovati (artificio letterario?). Per unlungo periodo segretario del Pci ligure e percinque anni deputato europeo, Speciale, comeNovelli, è nostalgico dei bei tempi antichi e siaggrappa agli errori di metodo insiti nella svol-ta di Occhetto, senza chiedersi se metodi me-no sbrigativi – ovvero chiedere permesso aTortorella, Ingrao e Napolitano – non avreb-bero fatto sprecare al suo partito un altro de-cennio. Tuttavia, l’autore possiede un’auto-consapevolezza che lo rende capace di unasincerità di testimonianza, rara in quella gene-razione di politici italiani, e di una lucida valu-tazione del declino della politica. Mai la bru-talità della liquidazione di Natta è stata resacon tanta efficacia. E righe come le seguentisono sufficienti ad assicurare a questo librici-no, un posto duraturo nella memorialistica diun’epoca: “Si è persa progressivamente la me-moria e la riconoscenza, come un segno di al-lentamento della solidarietà e dell’amicizia. Latrasformazione della politica porta questo consé: non c’è più nessuno intorno a te, né nelpresente, né nel passato. Gli altri non contano,e il più delle volte sono soltanto un ostacolo oun peso, spesso dei nemici. Entrano in scenasoltanto se ti sostengono e solo per il tempostrettamente necessario”.

Franco Cordero

IL BRODODELLE UNDICI

L’ITALIA NEL NODO SCORSOIO

pp. 194, € 14,Bollati Boringhieri, Torino 2010

Vox clamantis in deserto?Battista avvistatore? De-

tratta la spinta profetica (per-ché qui si fa piuttosto un loi-cissimo conteggio di cose), è ilsenso che procede dalle pagi-ne che Franco Cordero scriveinstancabile per annunciarenon già la venuta del Signore acui i Vangeli alludono, ma benpiù terribilmente il precipiziod’abisso sui cui orli stiamo alle-gramente ballando il trescone.

Il suo ultimo libro ha un tito-lo che, quanto all’origine, suo-na misterioso ai non sabaudi, Ilbrodo delle undici, ma che ilsottotitolo un poco di piùschiarisce: L’Italia nelnodo scorsoio.

Tutto è spiegabilecon un detto in pie-montese (“ël bròd o ‘lbreu d’ondes ore”)con cui si designava lascodella dell’ultimacolazione concessa alcondannato prima delcapestro. Bell’immagi-ne locale per dire che– come italiani – nonsiamo distanti dal giorno dellacondanna. Lo dico subito, per-ché non ci si aspetti da me un’a-nalisi incommossa: non sarò unrecensore di giuste e doverosedistanze. Sarò piuttosto il (bre-ve) cantore di un libro che vorreifosse letto da tutti. Perlomenoda tutti coloro che ancora nonabbiano ceduto al facile fascinodell’“Unto” e del “Predestina-to”, poiché non arrivo a pensareche il libro possa giovare ai piùduri d’orecchi, sicuro come sonoche qui ci vogliono i cosiddettilettori forti: gente che non sispaventa di parole difficili, im-magini pregnanti, sintagmiestrosi, sintassi inflessibile, illu-minanti aperçus (e ironici upper-cut). Questo non è un libro pertutti, insomma. Irto com’è, sec-co, colto, concreto, e – a modosuo – antico: ossia capace di en-trare nel tempo per scavalcarnecontinuamente i recinti.

Cordero non è mai ovvio. Sca-va nei sotterranei della nostra sto-ria e risale – autoritraendosi nelruolo dell’“anamnesta” – al “co-dice genetico”, alla “continuitàcromosomica”, ai “genomi delladottrina berlusconiana”. Ossiada un lato gli italiani di “età men-tale infantile”, e dall’altro l’“ego-crate” che li incanta e li incatena:il grande pifferaio che li porta aperdizione. Parrebbe una fiabamacabra, quella di una specie dipsicopompo ridens, mentre non èche la realtà di una lunga storia.

Non è un caso che queste pagi-ne (sempre accompagnate dapuntuali distinguo) siano intessu-te di rimandi a Hitler, a Mussoli-ni, ma anche a Savonarola o a Co-la di Rienzo, a cui è dedicato uncapitolo magistrale, condotto conincastri di citazioni dalla famosa

Vita dell’Anonimo romano. Maanche, per ragioni affini, all’inte-gerrimo ministro Giuseppe Pri-na, vittima di schieramenti pro-miscui e di gallofoba populace.Per non tacere del losco “affaire”Moro o del diversamente losco“affaire” (leggasi affaire&affari)Licio Gelli, vero e proprio Batti-sta di una lignée degna dello Zo-la cliente di Bernard (oh, la bellafilibusta dei tanti venerabili “olo-nesi” fino al “Divo Berlusco”,l’“Olonese” per antonomasia!).Nell’età del “brodo delle undici”quale potrà mai essere la salvezzache ci aspetta? Da quale sparigliopotrà venire? Da quali maglie sa-prà sgattaiolare? Domande reto-riche che Cordero non ha la pre-tesa di tradurre in risoluzioniconsolatorie. Rebus sic stantibus,c’è poco da sperare in un colpodi fortuna. A meno che si vogliacadere in uno dei soliti vizi dell’i-talica gente, non solo malata dicantafavole e di lotofagica “erbatelevisiva”, ma dell’attesa che la

soluzione venga dal so-lito deus ex machina,dalla trasformistica de-roga degli azzeccagar-bugli, dal gioco deibussolotti, dalla morrae dall’enalotto. A luibasta darci avviso dellecose che vede, non di-sdegnando – come giu-rista e come storico –di incrociare i dati, discoprire manovre, di

dettare amare sentenze, di com-parare istruttive messinscene.

Del resto, che cos’è il con-fronto con il passato se non

un modo per sfuggire all’appiat-timento bruto sul presente, perdisseppellire brandelli di memo-ria congelata, per appellarsi an-cora una volta alla risorsa “resi-stente” della ratio e del rigore in-tellettuale? Così va spiegato il ri-chiamo iniziale non solo a Duc-cio Galimberti e ad AntoninoRèpaci, ma anche a WalterBenjamin. Mi pare fosse proprioBenjamin (di cui si cita qui findalle prime righe Angelus No-vus) a giudicare un libro dall’in-dice dei nomi. Se così è, l’“er-rante cabalista moderno” avreb-be ben potuto condividere –proprio a partire dal fondo – labontà di questo manuale di reni-tenza. Una splendida requisito-ria che, nonostante tutto, sa in-trecciare sul suo icastico telaioparole nette come giustizia e bel-lezza, logica e morale. ■

[email protected]

G. Tesio insegna letteratura moderna econtemporanea all’Università del Piemonte Orientale

Ballando il trescone sull’abisso

di Giovanni Tesio

VENT’ANNI IN CD-ROML’Indice 1984-2004

Per acquistarlo:tel. 011.6689823

[email protected]

IMPA 7-8 2010 ok 23-06-2010 10:48 Pagina 30

Page 31: 61191478-10-07-INDICE

N. 7/8 31

Migrazioni

Laura Boldrini

TUTTI INDIETRO

pp. 217, € 18,Rizzoli, Milano 2010

Tutti indietro è un libro inu-suale quanto la sua autri-

ce. Laura Boldrini, la portavo-ce in Italia dell’Alto Commis-sariato Onu per i rifugiati, si èritagliata un profilo d’eccezio-ne nel nostro paese. In un pe-riodo di sconquasso politico, ma anche etico, in Italia, ha saputodare voce alle ragioni dei più de-boli: i rifugiati, le vittime di regimie di conflitti. Ha parlato di diritti edi diritto internazionale, combi-nando impegno e competenza conquel tanto di grazia e di emozionenecessario a smuovere un’opinio-ne pubblica sempre più incallita.Dopo oltre dieci anni nella veste diportavoce si è guadagnata l’aurapiù desiderata dai politici: la tantosospirata “visibilità”.Naturale, dunque, l’in-vito a scrivere un libroper raccontare le sueesperienze e le battaglieche l’hanno vista prota-gonista. Meno scontatal’autorizzazione a scri-vere (confermata dallostesso alto commissarioAntonio Guterres), a di-mostrazione del ruolonon più da sempliceportavoce, bensì quasi da testimo-nial, ruolo che Boldrini ha saputoricoprire in Italia.

Questa situazione d’eccezioneha influito sulla trama del libro.Per illuminare “l’universo scono-sciuto” di quel mondo in fuga dicui si occupa, l’autrice ha volutocondividere le storie di uomini,donne e anche bambini approdatiin Italia. Sono storie emblemati-che, a cominciare da quella diSayed, il ragazzo afgano partitobambino dal suo paese e approda-to in Italia, dopo nove anni di viag-gio, aggrappato al telaio di un ca-mion. C’è anche la storia di Titti,una giovane eritrea, unica supersti-te, insieme al fratello e un amico,del naufragio di un gommone sulquale viaggiavano settantotto per-sone. O anche Paul, detto “tunaboy” dai suoi compagni perché eratra gli uomini salvati dalla Marinaitaliana dalla rete per tonni sullaquale erano appollaiati.

Da buona portavoce, però,Boldrini ha voluto andare

oltre le storie personali per rac-contare il lavoro, suo ma anche dialtri colleghi, impegnati in teatridifficili come il Kosovo e l’Afgha-nistan in guerra, o in quell’avam-posto della nostra nascente “for-tezza Europa” che è stato l’isoladi Lampedusa.

L’intento è anche pedagogico:correggere la confusione che re-gna quando si parla di questomondo, con una pericolosa ten-denza a fare di ogni erba un fascio,trattando tutti i migranti approda-ti in Italia nello stesso modo. Cate-gorie di persone, come i rifugiati ei richiedenti asilo, che godono, co-me ricorda l’autrice, di diritti in-ternazionalmente riconosciuti,bollati come “clandestini” dai me-

dia e dai politici nazionali, incu-ranti dell’imbarbarimento che neconsegue. Nella sua introduzionel’autrice rivela anche la necessitàdi una denuncia più precisa, rive-lando che ha deciso di scrivere il li-bro nel momento in cui il governoitaliano ha messo in atto i respingi-menti in mare. Una politica checonsiste nell’intercettare in altomare le fragili imbarcazioni in arri-vo dalla Libia per riportare indie-tro, indiscriminatamente, tutti i lo-ro passeggeri. Un capovolgimentodello spirito e della lettera delleconvenzioni internazionali, chevietano esplicitamente di respin-gere chi cerca protezione. Il centrodi Lampedusa vuoto, com’è oggi,non è una vittoria, come sottoli-nea, ma una sconfitta, perché lasua premessa sono i centri e le pri-gioni della Libia pieni di migrantiprivati di ogni diritto ed espostiad abusi, nonché al pericolo di unaltro respingimento, quello versoil deserto, con esito mortale quasicerto. Con un certo pudore, l’au-

trice parla poco di que-sti abusi, in particolaredi quelli di cui sono vit-time le donne, che pa-gano, come lascia in-tendere, un dazio terri-bile in termini di vio-lenze, per avere tentatole vie di fuga che attra-versano il Sahara e ilMediterraneo.

Il libro racconta didue delle più originali

ed efficaci iniziative di Boldrini.La prima, il premio “Per Mare”,inventato per incentivare pescato-ri e marinai a salvare i naufraghiabbandonati in balia del mare,una triste violazione della più anti-ca delle leggi marinare, che può,in larga misura, essere attribuitaalla riluttanza dei governi d’Euro-pa ad accogliere chi fugge. La se-conda iniziativa fu proposta airappresentanti dei giornalisti ita-liani dopo la scandalosa coperturada parte di quasi tutti i media na-zionali del massacro di Erba, unastrage attribuita senza esitazione almarito tunisino di una delle vitti-me, accusa che si rivelò poi infon-data, ma che fu tranquillamenteavallata sull’onda dei pregiudiziimperanti: la “Carta di Roma”, uncodice deontologico elaborato,come scrive l’autrice, “affinché inItalia le materie collegate al dirittodi asilo e all’immigrazione sianooggetto di un’informazione cor-retta e completa”, fu approvatanel 2007. (Il rapporto sul primoanno di monitoraggio dell’accor-do, ha confermato che stereotipi epregiudizi imperano tuttora).

Il libro, che chiude sul desolan-te spettacolo della caccia all’uomocontro i lavoratori immigrati negliaranceti della piana di Gioia Tau-ro, descrive un paese pericolosa-mente in bilico tra un modello diconvivenza tollerante e aperto,come quello testimoniato dai sin-daci di due comuni limitrofi aGioia Tauro, Riace e Caulonia,dove l’accoglienza ai rifugiati èpresa a modello in tutta Europa, eil rischio di imbarbarimento. Lau-ra Boldrini è senza dubbio testi-mone dell’Italia migliore. ■

[email protected]

T. de Zulueta è giornalista

SCARTI DI UMANITÀRIFLESSIONI SU RAZZISMO

E ANTISEMITISMO

a cura di Francesco Migliorino

pp. 228, € 18,il melangolo, Genova 2010

Un interrogativo si dibatteda qualche tempo anche

in sedi internazionali: se siacorretto, e anche opportuno,tenere distinti i diversi ambitidelle discriminazioni e delle di-suguaglianze e insistere su unoo su un altro come particolar-mente grave, e degno di atten-zione. Volta a volta, in determi-nate sedi e occasioni, le differen-ze etniche e razziali, di genere, diprincipi religiosi o di praticheculturali; l’omofobia, condizionidi disabilità fisica o psichica, ri-ferimenti a particolari tradizioni,“culture”, “valori”. Il problemaè che si rischi – valorizzando unaparticolare scelta di attenzione edi impegno a scapito delle altre,e tenendo ciascun ambito sepa-rato – di privilegiare un proble-ma, un aspetto, e che manchiuna lettura dell’insieme dei fat-tori e dei meccanismi. Non faci-le trovare la risposta.

Facendo riferimento al sottoti-tolo del libro curato da France-sco Migliorino, Riflessioni su raz-zismo e antisemitismo, sappiamo

subito dove ci si colloca: nel pre-sente e nel passato dei nostri“razzismi”. E però le parole Scar-ti di umanità (un titolo forte, bru-tale vorrei dire) portano a mette-re al centro un dato che segnatutta la storia dell’u-manità (e che certo va-le ancora nel presen-te). Una parte dellapopolazione, o del si-stema in cui viviamo,si colloca in posizioniche consentono di do-minare, di escludere oanche di annientare al-tri, tutti quelli senza ri-conoscimenti e diritti,in varie forme “diver-si” (nel fisico o nelle relazioni onei comportamenti; o a secondadelle risorse – economiche, socia-li – di cui dispongono). In lunghisecoli di storia europea, gli ebrei,i popoli colonizzati e, oggi, gli“immigrati”, gli “stranieri”. Isla-mofobia, discriminazioni e vio-lenze volta a volta contro “negri”,“marocchini”, zingari; e ancora,antisemitismo. Su questo, nel li-bro, troviamo riflessioni che “ag-giungono” a quello che già sap-piamo o che crediamo di sapere.Molte sono le voci e gli approcci,con riferimento a fasi diverse del-la nostra storia.

Su due linee di approfondi-mento mi soffermo brevemente:le ritengo utili per riflettere sulcontesto attuale. Come si orga-

nizzano le risorse a disposizione(la politica, la scienza, le armi,naturalmente; oggi i meccanismimediatici, il senso di insicurezzae le dinamiche del “populismo”)per tenere sotto controllo gli al-tri. Episodi e scelte ideologiche,e messaggi degli anni del nazi-smo e del fascismo, con obiettiviche sono un “popolo etnicamen-te puro”, la “normalità“, la “di-

sinfestazione della so-cietà”, la “bonificaumana”: così nell’in-troduzione e nel saggiodi Migliorino, ma è unfilo di lettura comune atesti diversi per impo-stazioni e riferimenti edati. In quegli anni, ildisegno di un popoloreso sano, forte, “per-fetto” (con costante at-tenzione al ruolo della

“famiglia” e all’importanza dellacrescita demografica) e dunquedi come rendere invisibili quelliche sono “altri”, diversi, e peri-colosi: il mondo carcerario e imanicomi criminali, i criteri perl’internamento, la “scienza” (me-dicina, psicologia e psichiatria,antropologia criminale, dirittopenale) e le pratiche che si sonosviluppate e incarnate in leggi eistituzioni. Temi che oggi ritro-viamo nel discorso politico e inuna diffusa opinione pubblica, omeglio, in una “cultura” chesembra essere sempre più condi-visa. È bene rifletterci. ■

[email protected]

L. Balbo insegna sociologiaall’Università di Ferrara

Pescatori di naufragi

di Tana de Zulueta

Disegnare un popolo sano

di Laura Balbo

Tronchi di vita scaricati dal mare

di Ilda Curti

Fabio Sanfilippo ed Emanuela Alice Scialoja

A LAMPEDUSAAFFARI, MALAFFARI, RIVOLTA E SCONFITTA

DELL’ISOLA CHE VOLEVA DIVENTARE

LA PORTA D’EUROPA

pp. 167, € 13, Infinito, Roma 2010

Protagonista di questo reportage, scritto dadue giornalisti che non rinunciano alla fa-

tica dell’inchiesta e dell’approfondimento, èLampedusa. Isola percorsa dai venti del Me-diterraneo, a metà strada tra l’Africa e l’Eu-ropa, lembo dimenticato di roccia e spiagge. Illu-sa cicatrice di un’Europa che ha smarrito il sensodella sua civitas e misura con il compasso la pro-prietà del mare e delle sue acque. Lampedusa e glisbarchi: spiagge affollate di turisti e, poco più inlà, laceri tronchi di umanità in fuga, che se nongalleggiano affondano, e con loro l’etica, l’acco-glienza, i diritti. Il reportage ha il pregio di “met-tere in fila” una cronaca che a noi del continentearriva a singhiozzo, quando l’ennesima emergen-za degli sbarchi buca la cronaca locale per diven-tare notizia della sera. Tra una notizia e l’altra, siperde il senso della complessità e delle contraddi-zioni che a Lampedusa durano da sempre.

Ci sono le storie dei moderni naufraghi, spaesa-ti e frastornati, sopravvissuti all’inferno. Ci sono isogni di chi vorrebbe ricominciare ad avere, sem-plicemente e umanamente, un’altra chance, uscen-do dal recinto del mare per abbracciare la libertàdalla paura. Poi, ci sono le storie degli isolani, chesi sono sentiti raccontare le mirabili sorti di pro-getti di sviluppo, di infrastrutture e di ricchezza. Etirano le reti nelle quali inciampano cadaveri che

rotolano sulla battigia e vengono accolti nel silen-zio. Ci sono le storie di straordinaria solidarietà, diprofughi che scappano dal centro di permanenza evengono accolti nelle case. C’è l’empatia della gen-te del mare, che si arrabbia con chi comanda, manon sa odiare chi fugge. Ci sono i turisti, e l’econo-mia che gira loro intorno: i tronchi di vita scaricatidal mare non è bene che si vedano, perché il rac-capriccio potrebbe turbare la spensierata stagionedelle vacanze. Poi c’è lui, il centro di permanenza:infrastruttura in cui si sono sparsi fiumi di danaroe non si capisce bene dove siano andati. Intrecci diinteressi, mani rapaci, promesse non mantenute,cupidi occhi che vogliono metterci le mani sopra.Pieno fino a strabordare, con i panni stesi sulle in-ferriate di una prigione con nulla intorno. Popola-to da uomini e donne stanchi: i controllori e i con-trollati accomunati dalla stanchezza di non saperecome andrà a finire. C’è il sindaco che tuona con-tro il governo e la gestione delle risorse. Ci sono leindagini e le condanne per corruzione, concussio-ne, abusivismo edilizio: la miseria amorale di chiusa la vita umana e il territorio per fare affari. Ci so-no i funzionari ministeriali, gli addetti alla sicurez-za e al controllo, gli operatori umanitari, l’Unchr,le ong, i medici e gli operatori sanitari. I documen-ti, la burocrazia, gli interpreti, gli aerei che partonoe smistano i sopravvissuti da altre parti.

Da un po’ di tempo di Lampedusa non si sentepiù parlare: le emergenze degli sbarchi non ci so-no più. Miracolosamente rigettati e respinti dal-l’altra parte del mare, o nei suoi fondali. Lampe-dusa continua a essere la cicatrice d’Europa, scon-fitta e dimenticata. Sanfilippo e Scialoja ci ricor-dano che il silenzio di oggi è un rumore semplice-mente rimandato o rimosso. Un fragore che si in-frange nelle onde di un mare diventato galera.

IMPA 7-8 2010 ok 23-06-2010 10:48 Pagina 31

Page 32: 61191478-10-07-INDICE

N. 7/8 32

Filosofia

Jürgen Habermas

DALL’IMPRESSIONESENSIBILE ALL’ESPRESSIONE

SIMBOLICASAGGI FILOSOFICI

ed. orig. 1997, trad. dal tedescodi Carlo Mainoldi,

pp. 118, € 15,Laterza, Roma-Bari 2009

Più che una raccolta di sag-gi, questo volumetto ha-

bermasiano recentemente edi-to da Laterza è una galleria diritratti, che Habermas dedicaa studiosi e filosofi della suagenerazione o di quelle prece-denti. La raccolta è compostaprevalentemente da scritti o di-scorsi la cui genesi è occasiona-le (si va, tanto per fare qualcheesempio, dalla laudatio perGeorg Henrik von Wright al sa-luto rivolto ad Apel nel momen-to della sua nomina a professo-re emerito); tuttavia, letti nel lo-ro insieme, anche questi inter-venti d’occasione non mancanodi gettare luce su temi o aspettiche hanno caratterizzato la ri-flessione habermasiana negli ul-timi anni.

Fra i testi che si leggono conmaggior piacere vi è certamenteil ritratto che Habermas dedicaall’amico e collega Karl-OttoApel. L’autore ricorda di averconosciuto Apel, più anziano dilui di sette anni (Apel è del 1922,Habermas del 1929), quandonegli anni cinquanta decise diproseguire i suoi studi universi-tari a Bonn. E mette bene in evi-denza quello che già allora,quando Apel teneva i suoi semi-nari come assistente di ErichRothaker, costituiva uno deisuoi tratti di carattere più signi-ficativi e affascinanti: la passioneintegrale e senza riserve per ladiscussione filosofica, al puntotale che, come scrive Habermas,da una piccola cerchia di perso-ne Apel era già considerato un“maestro di filosofia”. Vengonocosì in luce le differenze ma an-che le affinità tra i due studiosi,che hanno insegnato entrambi aFrancoforte: mentre Habermasè un intellettuale tutto calatonella sfera pubblica, Apel “è an-zitutto un filosofo e uno studio-so, con una traccia di impoliti-cità”. Un impoliticità che perònon gli ha impedito, nota ancoraHabermas, di dire la sua in mo-do chiaro e netto quando lo haritenuto necessario.

Molti altri sono però, accantoad Apel, i profili intellettualiche Habermas propone in que-sto libretto. Il più ampio èquello dedicato a Ernst Cassi-rer e ai suoi studi nella londine-se biblioteca Warburg. Giusta-mente Habermas fa notare,mettendo quindi in risalto an-che un suo debito, come Cassi-rer sia stato determinante perimprimere una svolta di tipo se-miotico-linguistico alla filosofiatrascendentale di Kant. Lettoin questa prospettiva, Cassirerpotrebbe essere inserito a pie-no titolo fra i protagonisti della“svolta linguistica” che ha se-gnato la filosofia del Novecen-

to. Peccato però, nota ancoraHabermas, che lo stesso Cassi-rer abbia sottovalutato l’impor-tanza della sua propria apertu-ra alla dimensione linguistica,non riuscendo a staccarsi dallapiù antica impostazione gno-seologica. Così, nella sua Filo-sofia delle forme simboliche, lequattro dimensioni sulle qualiegli si sofferma (mito e linguag-gio, arte e scienza) “sono consi-derate dalla visuale gnoseologi-ca come altrettanti molteplicimondi nei quali lo spirito si og-gettiva con pari originarietà”. Illimite fondamentale della teo-ria delle forme simboliche, pe-raltro, viene individuato da Ha-bermas nel fatto che non èchiaro che rapporto vi sia tra lafilosofia e le forme simbolichedi cui essa traccia il quadro:qual è il luogo della filosofia, senon è né una forma simbolicatra le altre, né una forma supe-riore e includente tutte le altre?

L’altro classico al quale il vo-lume dedica un breve profilo èJaspers (anch’egli, come Cassi-rer, non è certo un pensatoreche per Habermas sia stato par-ticolarmente importante).

Interessante, qui, è l’ottica apartire dalla quale Jaspers vie-

ne discusso: al centro dell’atten-zione è la sua ricerca di una “fe-de filosofica” che sia in grado ditrascendere il conflitto tra le fediparticolari, e dunque di costitui-re una sorta di terreno per unpossibile dialogo globale. Ha-bermas ne coglie lo spunto perribadire la sua difesa di un’eticadella comunicazione basata sul-l’idea che i sostenitori dei puntidi vista anche più lontani devo-no riconoscersi reciprocamentecome partner con i medesimi di-ritti, ovvero come “partecipantia un discorso in cui in linea diprincipio ogni parte può ap-prendere dall’altra”. Questa, perHabermas, è la vera alternativateorica ai fondamentalismi, e aessa bisogna quindi attenersi,anche quando sembra che nonabbia molte gambe per cammi-nare nella pratica.

Una rapida carrellata, infine,sugli altri ritratti che com-

petano il volume. A Georg Hen-rik von Wright, Habermas, checome lui è stato molto sensibileal tema “spiegazione e compren-sione”, non risparmia riconosci-menti, anche se gli rimprovera dinon aver voluto andare oltre unavisione non-cognitivista dellamorale. Un avvicinamento, sem-pre molto prudente, alle que-stioni della teologia, della reden-zione e dell’utopia lo troviamoinvece nei brevi scritti dedicatiallo studioso della mistica ebrai-ca Gerschom Scholem, al teolo-go Johann Baptist Metz e al filo-sofo Michael Theunissen. L’uni-co non filosofo presente nel vo-lume è il cineasta e scrittoreAlexander Kluge, di cui Haber-mas celebra l’elogio in occasionedel conferimento al regista delpremio Lessing. ■

[email protected]

S. Petrucciani insegna filosofia politicaall’Università “La Sapienza” di Roma

Leonardo Ceppa

IL DIRITTO DELLA MODERNITÀ

SAGGI HABERMASIANI

pp. 257, € 24,Trauben, Torino 2009

In Italia l’opera di JürgenHabermas ha seguito una

curiosa parabola: recepita en-tusiasticamente ai suoi inizi,quando era identificata con ilmarxismo e con la teoria criti-ca prima maniera, a partire da-gli anni ottanta ha perso granparte della sua capacità di su-scitare interesse negli ambientiintellettuali. Così, mentre oggiin gran parte d’Europa, negliStati Uniti, e persino in Estre-mo Oriente lo studio della teo-ria habermasiana del diritto edella democrazia deliberativacostituisce ormai uno dei pas-saggi obbligati per chiunque siaccosti alla filosofiapolitica o alla teoriasociale, in Italia (e inparte in Francia) sipensa che qualchebreve articolo o un li-bro di quarant’anni fasia sufficiente a farsiun’idea. Sennonché,come insegna Hegel,ciò che è noto nonsempre è anche cono-sciuto.

Bene ha fatto quindi Leonar-do Ceppa a proporre una rifles-sione approfondita sui princi-pali motivi teorici dell’Haber-mas maturo, da Fatti e norme(testo da lui stesso magistral-mente tradotto e curato) fino aipiù recenti scritti sul postseco-larismo.

Non si tratta di un libro faci-le, perché affronta problemi dicui in Italia si occupa una cer-chia molto ristretta di addetti ailavori, spesso in maniera setto-riale. L’Habermas dei filosofi èdiverso da quello conosciutodai sociologi, quello noto aigiuristi è differente da quellodei teologi. Ma proprio in ciòsta uno dei pregi di quest’ope-ra: illustrare il pensiero di Ha-bermas nell’ampiezza del suodisegno teorico, senza perdernemai di vista i motivi ispiratoridi fondo.

Il volume raccoglie saggi sud-divisi in tre sezioni: la prima è

dedicata alle intuizioni filosofi-che di fondo. La seconda affron-ta alcuni tra gli sviluppi più re-centi, primo fra tutti il ripensa-mento del tradizionale paradig-ma del secolarismo. La terzaconsidera poi altri autori, comeGünther o Teubner, e il loro ap-porto (di continuità o di rottura)allo sviluppo delle tematichefrancofortesi.

Sarebbe però riduttivo vede-re in questo libro soltanto unarassegna di temi habermasiani.Accanto alla discussione criticasul maestro francofortese, Cep-pa sviluppa un proprio percor-so teorico che prende formalentamente nel corso della let-tura, fino a mostrarsi con mag-giore chiarezza nella parte fina-

le del volume. La prospettivada cui l’autore muove è quelladi uno studioso italiano di for-mazione tedesca, studioso diSchopenhauer e Adorno prima,di Habermas e della problema-tica del diritto nella società glo-bale successivamente, situatonel lacerante campo di tensionetra i due paesi.

Commentare Habermas di-venta così anche un modo permettere in risalto, per contra-sto, le “strettoie ideologiche”che imbrigliano la cultura ita-liana in sterili contrapposizio-ni, come quella tra dialettici epositivisti (che continua a per-sistere, a volta sotto mentitespoglie, per una sorta di effet-to inerziale) o quella, più re-cente, tra clericali e laicisti. Imodesti risultati scientifici checi relegano (tranne rare ecce-zioni) ai margini della filosofiae delle scienze sociali contem-poranee sono più facilmentecomprensibili nelle loro cause

se vengono messi inrelazione alla nostrapeculiare e coriaceaimpermeabilità neiconfronti degli ap-procci di teoria nor-mativa. Il normativi-smo di matrice kan-tiana, infatti, purecosì diffuso (si pensi,oltre ad Habermas, aRawls, a Dworkin, o,nel campo delle teo-

ria della società, a Frazer,Cohen, o Benhabib), è unapianta che fatica a cresceredalle nostre parti, dove, comescrive Ceppa, “qualunque pre-tesa di trascendenza normati-va, universalismo pratico, fon-dazione razionale, è vista comedogmatica e reazionaria (inquesto senso Bobbio dicevache compito dell’intellettuale è‘seminare dubbi’)”.

Occorre, quindi, cercare dimettere in discussione quellasorta di senso comune secondocui all’esaurimento delle gran-di narrazioni della metafisicanon potrebbe che seguire lacura estetizzante del frammen-to, o l’elegante esercizio dell’i-ronia. Come se chi si lascia allespalle per sempre la metafisicafosse davvero condannato a ri-nunciare alla costruzione, falli-bile ma ambiziosa, di nessi teo-rici sistematici, di proposte, dispiegazioni e diagnosi sui pro-blemi nostro tempo.

La critica all’italico disfatti-smo normativo risalta soprat-tutto dal modo in cui Ceppaanalizza due dei più importantitemi dell’attuale riflessione ha-bermasiana: il nesso tra dirittoe politica e il problema del po-stsecolarismo. La concezionegiuridica di Habermas è pre-sentata nel contesto di quella“trascendenza dall’interno”che rappresenta una delle figu-re di pensiero più affascinantidel teorico tedesco, legatacom’è all’idea che l’agire comu-nicativo contenga, anche neipassaggi più comuni della pras-si quotidiana, dei momenti diidealità.

La sfida avvincente di pensa-re una trascendenza tutta terre-

na con gli strumenti postmeta-fisici della teoria sociale è unpunto su cui Ceppa torna spes-so, per mostrare come con ciòHabermas si collochi in unostretto ma fecondo crinale tral’idea kantiana di autonomia,ancora prigioniera dell’involu-cro metafisico, e l’alternativa,altrettanto fallace, dei vari ap-procci realisti (o cinici che dirsi voglia) che, da Hobbes aNietzsche, cercano l’uscita dal-la metafisica nella descrizioneriduttiva di un mondo in cuiconta solo la forza, e tutto il re-sto non è che maschera del po-tere.

Dello stesso tenore è il com-mento al tema habermasianodel postsecolarismo, che l’auto-re utilizza per un’efficace criti-ca di due fondamentalismi: ilfondamentalismo religioso, chenon è disposto ad accettare leconquiste di civiltà del proce-duralismo giuridico, e il fonda-mentalismo positivistico, chenel suo riduzionismo scientisti-co non è in grado di riconosce-re il valore, anche per i non cre-denti, della tradizione religiosacome fonte preziosa di intuizio-ni morali.

Che la problematica moralesia, in ultima analisi, il centrodel complesso edificio teoricodi Habermas emerge chiara-mente nella terza parte del te-sto, dove il confronto con laposizione di Teubner consentedi toccare alcuni fra i nodi piùsensibili della teoria haberma-siana. Quest’ultima sezione dellibro considera l’alternativa tradue modelli di normatività:quello del cognitivismo moralehabermasiano e quello più de-bole, e riconducibile all’umani-smo schopenhaueriano dellacompassione, che risulta dallateoria di Teubner. Ceppa sce-glie qui una strategia voluta-mente difficile, che però gliconsente di esplicitare al me-glio tutti gli aspetti della postain gioco.

Da un lato presenta conprecisione le ragioni di

entrambe le posizioni, con il fi-ne di cercare i loro possibilipunti di contatto. Dall’altra èegli stesso a riconoscere comela prospettiva di Teubner (cuipure il nostro autore guardaspesso con simpatia) rimanga,nonostante tutti gli sforzi disintesi, sostanzialmente incon-ciliabile con il cognitivismo ha-bermasiano. La democraziaper Habermas non si limita aessere semplicemente una for-ma di governo preferibile o op-portuna (come direbbe Teub-ner), ma trae invece la propriagiustificazione dal suo legamecon la comunicazione linguisti-ca, che pur senza poterci ga-rantire verità e massime assolu-te, ci offre tuttavia gli strumen-ti per poter distinguere di voltain volta, fallibilisticamente maragionevolmente, tra il vero e ilfalso, il giusto e l’ingiusto.

Il confronto tra le due conce-zioni rimane quindi aperto e irri-solto, con numerosi spunti di ul-teriore approfondimento che in-vogliano alla lettura: sia di Ha-bermas che di Teubner. ■

[email protected]

W. Privitera insegna sociologiaall’Università di Milano Bicocca

Pensare una trascendenza tutta terrena

di Walter Privitera

Ritratti d’occasione

di Stefano Petrucciani

IMPA 7-8 2010 ok 23-06-2010 10:48 Pagina 32

Page 33: 61191478-10-07-INDICE

N. 7/8 33

Filosofia

Achille Varzi

IL MONDO MESSO A FUOCOSTORIE DI ALLUCINAZIONI

E MIOPIE FILOSOFICHE

pp. 207, € 16,Laterza, Roma-Bari 2010

Sono varie le voci che par-lano nell’ultimo libro di

Achille Varzi, e dal gioco dispecchi della loro interazioneemerge un’immagine dei rap-porti tra scienza, filosofia esenso comune che è quasiuna visione del mondo, tantoforte è l’impressione che ci dà diavere messo ogni cosa al suo po-sto. Due delle voci appartengo-no rispettivamente a MaurizioFerraris e a Roberto Casati, aiquali il libro è dedicato. Ferrariscompare nelle vesti di Hylas, Ca-sati sostiene in più punti il durolavoro di Varzi, che a sua voltaora veste i panni di Philonous,ora invece lo attacca,diventando da ultimoil solo responsabile diquanto leggiamo. Ilprologo ripropone undialogo del 2003 traFerraris e Varzi su on-tologia e metafisica, acui seguono cinquemissive, che Varzi in-dirizza soprattutto aHylas (paradigma delfilosofo realista), ma inparte anche all’alter ego Philo-nous. L’epilogo ripresenta il rac-conto L’ineffabile sfera (anch’es-so del 2003), dove si narra delQuadrato, abitante di Flatlan-dia, che azzarda l’ipotesi dellatridimensionalità per risolverel’assillante problema della formaposseduta dall’universo bidi-mensionale che egli abita.

Le metafore visive del titolo edel sottotitolo del libro si diri-gono in primo luogo controquelle forme di realismo cheammettono un mondo popola-to da tutto ciò che entra nell’o-rizzonte della nostra umanaesperienza, anche se non soloed esclusivamente di quella or-dinaria.

Tale realismo soffre, secon-do Varzi, di miopia ontolo-

gica, nel senso che non ricono-sce “diritto di cittadinanza aquelle entità che fanno a pugnicon lo status quo ontologico sucui si reggono la nostra filosofiae la ricerca scientifica più con-solidata”. Il fatto che noi par-liamo di numeri, classi, funzio-ni e significati come di “entità”in un senso non del tutto diver-so da quello in cui parliamodelle cose concrete, non ci au-torizza ad assumere che dellepresunte “entità astratte” fac-ciano effettivamente parte delnostro mondo e non piuttosto“dei sogni di certi filosofi”. Lasituazione non migliora con gliodori, i sapori, i colori, le emo-zioni, le capriole, le mode, lepieghe della camicia, gli erroridi calcolo e molte altre cose an-cora, perché proprio questo è ilproblema: che noi ci riferiamoa tutto ciò come a cose, non si-gnifica ancora che di cose si

tratti. Ma l’incalzare del ragio-namento si trasforma in verasfida quando veniamo indotti ariflettere e a prendere posizio-ne sulla natura di quegli inno-cui elementi d’arredo che sonoi tavoli: cosa ci autorizza a rite-nere che un tavolo sia un ogget-to costituito da una superficiedi appoggio (in legno, plastica,metallo) sostenuta da circaquattro gambe e non piuttostoche sia uno sciame di particelledisposte in un certo modo e dicui noi ci serviamo per certiscopi? E infine, va da sé che, senemmeno di un tavolo è lecitodire che è un oggetto, figuria-moci se ha senso dirlo del de-naro, dei matrimoni o dei con-tratti, come vorrebbe l’ontolo-gia sociale di Maurizio Ferraris,espressione attualissima delrealismo qui sotto accusa. Madunque Varzi è uno scientistaammalato di “occamite”? Unoche riconosce diritto di esisten-za solo a quelle entità certifica-

te dalla fisica ed esigeun’ontologia scarna,di quiniana memoria,un catalogo del mon-do ridotto all’osso,senza doppioni? Larisposta è in buonaparte negativa.

Sebbene sia ridu-zionista, difensore diun’ontologia che nonammette il tavolo delsenso comune accan-

to allo sciame di particelle che“tavoleggiano”, Varzi non è co-munque uno scientista. Nessu-na scienza, infatti, potrà maidirci che cosa sono le differenzedi altezza o i tagli o i buchi; ocome si possa stabilire che il ta-volo di oggi, sporco di marmel-lata, sia lo stesso tavolo pulitodi ieri. Su tutto ciò e su proble-mi analoghi solo le sottili anali-si della logica, dell’ontologia edella metafisica possono illumi-narci. L’interesse della riflessio-ne di Varzi non sta nel chiederel’abdicazione del senso comunedinnanzi alla forza del saperescientifico, ma nel ritenere pos-sibile un equilibrio fra tutte leparti che, a diverso titolo, sonointeressate a rendere conto deimolti aspetti del reale. NellaQuarta missiva, ad esempio,una variazione sul tema delladistinzione tra apparenza erealtà sembra contribuire a taleequilibrio: è la distinzione trauso refenziale e uso attributivodelle descrizioni. Se è lecito ri-conoscere al senso comune l’u-tile funzione di organizzare ilmondo secondo strutture co-gnitive tipicamente umane, alta-mente efficaci, non per questodobbiamo sentirci impegnati adifendere la veridicità descritti-va degli enunciati che veicolanoi suoi contenuti. Tutto quelloche è richiesto, affinché il sensocomune funzioni, “è l’efficaciadel riferimento”. Così al di làdelle immagini del mondo cheesso ci fornisce troviamo intattala pretesa di riuscire a conosce-re “il mondo come è fatto lui,non il mondo come ce lo so-gniamo e disegniamo noi”. Ed èsolo alle teorie impegnate in ta-le impresa che, secondo Varzi,

compete l’uso attributivo delledescrizioni. Un unico mondodunque, dinnanzi alla duplicitàdei modi di descriverlo e allamolteplicità delle immagini chepossiamo formarci di esso.

Il quadro, tuttavia, si complicase mettiamo a confronto quantoappena detto con il riconosci-mento che “nemmeno le imma-gini che emergono dalle scienzefisiche sono esenti dall’effetto in-vasivo della nostra azione orga-nizzatrice”. Varzi ci ricorda chenon possiamo né dobbiamoaspettarci che le scienze parlinoun linguaggio neutrale, capace dirispecchiare confini ed entità ve-re. Tutti i confini, a suo avviso,possono essere soltanto de dicto.Se la natura ha qualcosa da dire,per il fatto di dirlo a noi, deveservirsi delle nostre convenzioni.E qui Varzi non esita a dichiarar-si convenzionalista, anche sechiarisce subito che il suo non èun convenzionalismo a tuttocampo, che potrebbe essere con-fuso con l’irrealismo di Good-man o con il relativismo alla Put-nam. La nozione di confine dedicto, infatti, “ha senso solo nellamisura in cui esiste della materiasottostante su cui tracciare le no-stre linee” ed è sui modi di con-cepire tale materia, nonché sullepossibili relazioni che essa è ingrado di intrattenere con i confi-ni da noi tracciati che, ancorauna volta, la riflessione ontologi-ca e quella metafisica hanno mol-to da dire. Per il convenzionali-smo realista di Varzi “‘esiste’corrisponde al comune quantifi-catore esistenziale”. Noi decidia-mo quali e quante entità de dictointrodurre nel nostro catalogo,ma le parti della materia che co-stituiscono la “base” delle nostreentità sono quelle che sono. Nel-la Terza missiva, per esempio,troviamo esposte le sue ragioniper una concezione quadridi-mensionalista della cosiddetta“base”. In ogni caso, per il con-venzionalismo realista i giochi re-stano sempre aperti.

La metafisica è rivedibile,proprio come la scienza. A

questo serve, tra l’altro, l’ostina-ta difesa, nella Quinta missiva,della distinzione tra ontologia emetafisica, tra cosa c’è e che co-s’è. Se infatti non ammettessimola possibilità di concordarequanto meno sul catalogo delmondo, la discussione sulla na-tura degli enti in esso inclusinon potrebbe nemmeno comin-ciare, e neanche il disaccordosarebbe possibile. Per questoaspetto, difendere la specificitàdella metafisica, distinguendoladall’ontologia, è come voler ga-rantire il principio del confron-to democratico in filosofia. ■

[email protected]

M. Andronico insegna filosofiadel linguaggio all’Università di Ferrara

Il comune quantificatore esistenziale

di Marilena Andronico

Alberto Voltolini e Clotilde Calabi

I PROBLEMI DELL’INTENZIONALITÀ

pp. 337, € 21,Einaudi, Torino 2009

La parola “intenzionalità”, adifferenza dell’uso che se

ne fa nel linguaggio comune,nel gergo filosofico corrispon-de all’incirca alla proprietà del-la mente di essere sempre, o al-meno nella maggior parte deicasi, diretta verso qualcosa. Ilnostro percepire, desiderare,credere, dubitare ecc. sembrarichiedere un oggetto verso cuidirigersi. Infatti, come immagi-nare un desiderio che non siaun desiderio di qualche cosa inparticolare? Le discussioni filo-sofiche sull’intenzionalità, daPlatone in avanti, caratterizza-no molti momenti della storiadel pensiero occiden-tale, con un picco diinteresse nella scola-stica. Grazie ai con-tributi di Brentano, iltema dell’intenziona-lità assume nel Nove-cento una straordina-ria centralità. Dopouna fase in cui è qua-si esclusivamente lafilosofia di tradizionefenomenologica a oc-cuparsene, oggi le discussionisull’intenzionalità costituisco-no un capitolo fondamentaledella filosofia analitica contem-poranea.

Come mai ci si continua a oc-cupare di un problema vecchioquanto Platone? Alberto Vol-tolini e Clotilde Calabi ci mo-strano le numerose e ottime ra-gioni per le quali, oggi più chemai, è importante occuparsi diintenzionalità. Il volume esplo-ra il complesso panorama degliattuali dibattiti filosofici sullanatura della mente a partire dauno dei suoi principali quesiti,ovvero che cosa sia, per unostato mentale, avere intenziona-lità. Questa domanda non è ri-levante solo per il filosofo, chetipicamente affronta il proble-ma sotto il profilo teorico, mainteressa anche chi, da lingui-sta, neurobiologo, psicologoecc., lo affronta sotto il profiloempirico. Il testo, pur mante-nendo un carattere genuina-mente filosofico, riesce a dialo-gare con lettori eterogenei siaper formazione sia per interes-si. Gli autori assolvono al nonfacile compito di mettere in lu-ce i punti in cui la discussionefilosofica sull’intenzionalità si

interseca con problemi tipici didiscipline diverse dalla filoso-fia. Un intero capitolo è dedica-to all’intenzionalità delle espe-rienze percettive, con una par-ticolare attenzione alle espe-rienze non veridiche, quali leallucinazioni e le illusioni per-cettive. Inoltre, poiché gli og-getti intenzionali possono esse-re anche visti alla stregua deglioggetti fittizi, come i personag-gi frutto della creazione lettera-ria, il libro in più punti propo-ne riflessioni che raggiungonodirettamente i teorici della let-teratura. Sullo sfondo c’è poi ilgrande problema della coscien-za, attualmente considerato lanuova frontiera delle scienzecognitive. Gli autori presenta-no le diverse prospettive sullarelazione tra coscienza e inten-zionalità e sulla sua naturalizza-zione, in altre parole sulla pos-sibilità che una proprietà men-tale come quella dell’intenzio-nalità possa essere studiata con

gli strumenti dellescienze naturali.

A dire il vero, loscopo dichiarato dagliautori è di fornireun’introduzione aitanti aspetti del pro-blema dell’intenzio-nalità, ma il risultatova ben oltre gli intentidichiarati. Certamen-te, il lettore che cercaun’introduzione non

resterà deluso. Il libro fornisceuna chiara analisi delle catego-rie terminologiche e concettualinecessarie al trattamento dei fe-nomeni mentali. Inoltre, le di-verse posizioni teoriche che siincontrano e scontrano nei di-battiti contemporanei sono pre-sentate con esaustività e con uncostante uso di esempi, che neagevolano la comprensione. Unulteriore pregio del libro è quel-lo di fungere da mappatura del-le discussioni sulla natura delmentale: gli autori riesconoabilmente (e amabilmente) aorientare il lettore in un percor-so che attraversa gli intricati di-battiti sull’intenzionalità, for-nendo una bussola per distri-carsi tra concetti filosofici, pro-poste teoriche e complesse ar-gomentazioni.

Infine, va segnalato il costantericorso all’argomentazione

come pratica discorsiva e meto-do filosofico, che ha lo scopoprincipale di chiarire i punti diforza e di debolezza delle diver-se proposte teoriche a confron-to. Al lettore è lasciata l’ultimaparola nel decidere quale, fra leteorie presenti sul mercato, è lapiù convincente o, almeno, lameno problematica. Il libro as-sume così anche un carattere diesempio di pratica filosofica:non solo mostra di che cosa sioccupano i filosofi, ma anche dicome fanno filosofia. Anche perquest’ultimo tratto il libro siporta di là dal carattere intro-duttivo e dimostra una profon-da portata didattica. ■

[email protected]

N. Dolcini insegna filosofia del linguaggioall’Università di Macerata

La mente diretta verso qualcosa

di Nevia Dolcini

LE NOSTRE NUOVE MAIL

Mimmo Cándito [email protected]

Monica Bardi [email protected] Feroldi [email protected] Innocenti [email protected] La Rosa [email protected] Magone [email protected] Olivero [email protected] Valletti [email protected]

IMPA 7-8 2010 ok 23-06-2010 10:48 Pagina 33

Page 34: 61191478-10-07-INDICE

N. 7/8 34

Arte

Ititoli, si sa, ingannano: ma inun’epoca di ipertrofia del

marketing editoriale, è raro chepromettano meno di quello chedanno. È questo il caso del li-bro di Bruno Zanardi, che nonè solo un libro di restauro. Es-so rigetta, infatti, l’autoreferen-zialità che ha ridotto all’auti-smo la teoria e la prassi del re-stauro: Zanardi non si concen-tra sulle possibilità tecniche, sucosa possiamo fare con i mezzidi oggi, ma si interroga sui fini,sui risultati e sui limiti di tuttoquesto. Così ha scritto un librodi storia dell’arte – anzi, di sto-ria della cultura – che si occupadel rapporto tra due storici del-l’arte del Novecento italiano. Ilmovente narrativo è il raccontodi come il massimo “filosofoetico” del restauro (GiovaniUrbani, 1925-1994) seppe svi-luppare un proprio pensieroautonomo da quello del massi-mo “filosofo ontologico” delrestauro (il suo maestro CesareBrandi, 1906-1988).

Zanardi è parte della storia cheracconta: è allievo di Urbani, ed èconvinto che quegli integrò, al-largò e alla fine superò la teoria diBrandi, riuscendo a renderla piùstoricamente consapevole. Ma illibro non è un’apologia di Urba-ni, né una demistificazione diBrandi: Zanardi procede – conpositiva filologia storica – con-frontando testi, individuandomomenti di frattura, isolando nu-clei trainanti, illustrando tappegenetiche, acquisendo testimo-nianze dirette. A tal fine glossa erende accessibili, in un capillarecommento storico, i pensieri diUrbani, scanditi, a loro volta, inuna prosa che per implacabilitàmorale e chiarezza mentale ri-chiama quella di don Milani.

La prima discontinuità tra ilpensiero di Urbani e quello delsuo maestro si giocò, nel 1960,intorno al giudizio sull’arte con-temporanea. In quell’anno, unBrandi fino ad allora severamen-te scettico verso l’astrattismo e lesue conseguenze aderì con entu-siasmo improvviso al linguaggiodi Alberto Burri, il più estremodegli artisti italiani. Le idee di Ur-

bani erano invece perfettamenteriassunte nel titolo della confe-renza che tenne nello stesso annopresso la Galleria nazionale d’Ar-te moderna di Roma: La parte delcaso nell’arte d’oggi. Un testo cheappare ancora oggi a GiorgioAgamben un “piccolo capolavo-ro”. Due anni dopo Urbani scri-verà della riduzione dell’arte “al-la ‘cosa-che-tutti-possono-fare’ eche, di conseguenza può piacerea tutti: allo specialista perché vivede rappresentata in sintesi unasfida a ciò che è capace di pensa-re dell’arte; e alla persona incolta,perché vi vede qualcosa che, co-me gli oggetti d’uso quotidiano,non richiede maggior sforzo digiudizio che un semplice ‘mi pia-ce’, o ‘ non mi piace’”.

Urbani, profondo lettore diHeidegger, temeva che la con-seguenza più grave di questaderiva soggettivistica ed estetiz-zante fosse l’insanabile rotturacon l’arte del passato, dellaquale nessuno sarebbe più riu-

scito a sentire la “verità”. Comescrive – commentando una ce-lebre pagina di Hegel – l’EdgarWind di Arte e anarchia (uscitoin italiano nel 1966, e amatissi-mo da Urbani), è così che “l’ar-te diventa una splendida super-fluità”. È nella lucida, dolenteconsapevolezza di questo solcoche Zanardi individua la radicedi tutto il pensiero di Urbani. Avolerne sintetizzare il nucleo, sidirebbe che Urbani non pensail restauro come un intervento

volto a migliorare la percezioneestetica di un singolo oggetto,ma come strategia, insieme cul-turale e operativa, che assicurila conservazione della presenzamateriale, e contemporanea-mente del ruolo morale, dell’ar-te del passato nel mondo di og-gi. In pratica questo vuol direche “il miglior restauro è quel-lo che non si fa” (come ricordaSalvatore Settis nella prefazio-ne al volume), e che la vera sfi-da è quella di una conservazio-ne preventiva e programmata,capace di tutelare tutto l’am-biente culturale che integra leopere d’arte nella natura che leha storicamente generate.

E non si trattava di chiacchiere.Il paragrafo che racconta la Brevestoria del piano pilota per conser-vazione dei beni culturali in Um-bria mostra il servitore dello statoGiovanni Urbani mentre si scon-tra, kafkianamente, con l’ottusaburocrazia ministeriale, con latronfia miopia dei colleghi so-printendenti e con il disimpegnocivile, o i paraocchi ideologici,degli universitari. E la posta ingioco non era da poco: se Urbanifosse stato ascoltato, assai minori

sarebbero state le perdite artisti-che e umane del 1997 ad Assisi,in tutta l’Umbria e nelle Marche,e, un anno fa, all’Aquila.

Si deve essere davvero grati aZanardi per aver ridato voce aGiovanni Urbani. Chi, oggi,potrebbe dire con altrettantaautorevolezza che quando il re-stauro si riduce a una “periziatecnica fine a se stessa”, si af-fianca come “causa storica, gio-cata al di sopra delle nostre te-ste (…) di un degrado questavolta portato non sulla materia,ma sulla verità dell’opera”? Ecosa direbbe Urbani, se potessevedere il circo dei restauri edelle grandi mostre, lo sfrutta-mento della storia dell’arte daparte della politica, dei media edell’università: insomma, quel-la cinica industria dell’intratte-nimento “culturale” fioritaproprio sul degrado della veritàdell’opera?

Ma, in fondo, la fulminantediagnosi di tutto questo Urbanil’aveva già emessa nel 1989: “Sedovessi indicare la ragione prin-cipale dei nostri mali me la pren-derei con la coercizione ideolo-gica e linguistica per cui unatrentina di anni fa ci trovammotutti a non parlare più di opered’arte e di testimonianze stori-che, ma di beni culturali”. ■

[email protected]

T. Montanari insegna storia dell’artemoderna all’Università di Napoli Federico II

Una conservazione preventiva

di Tomaso Montanari

Bruno Zanardi

IL RESTAUROGIOVANNI URBANI

E CESARE BRANDI, DUE TEORIE A CONFRONTO

pp. 228, € 32,Skira, Milano 2009

C’era aspettativa intornoalla pubblicazione del

recente saggio di Bruno Zanar-di, e l’aspettativa non è statatradita. È un libro bello e sgra-devole, intelligente e urticante,certamente è e sarà un libroutile. Zanardi riprende untema centrale delle sue riflessionidell’ultimo decennio “intorno alrestauro” – il pensiero e l’azionedi Giovanni Urbani – e lo mette aconfronto, per la prima volta inmodo sistematico, con la teoriadel restauro di Cesare Brandi. Il“racconto” (così lo definisce l’au-tore) parte dall’inizio del rappor-to fra il primo direttore dell’Isti-tuto centrale del restauro (Bran-di) e uno dei primi allievi dellaScuola per restauratori (Urbani)e prosegue a indagare sul loropercorso professionale e intellet-tuale, fino a individuare il puntodi partenza e il tracciato della di-versa evoluzione del pensiero diciascuno dei due attorno al co-mune interesse per il restauro e laconservazione del patrimonio ar-tistico in Italia, e non solo.

Si tratta di un’operazione criti-ca tutt’altro che scontata e certa-mente coraggiosa, condotta daZanardi con un’abilissima regianella scelta dei testi di Brandi e diUrbani proposti nel volume. Lecitazioni incalzano il lettore in undialogo intenso e sempre più ser-rato, fino a portarlo forzatamentead abbracciare la tesi che l’autoresostiene da molti anni: la maggio-re adeguatezza dell’approccioglobale e sistemico di Urbani ri-spetto a quello prevalentementeestetico di Brandi, alla luce dellemutate esigenze conservative delpatrimonio dopo il boom econo-mico italiano degli anni sessanta,pur riconoscendo l’autore a en-trambi il merito di essere stati imassimi teorici del restauro delNovecento.

Zanardi ha certamente ragionenel volere provocatoriamente sfa-tare quanto di mitico e quasi mi-stico si è addensato nel corso deidecenni attorno alla teoria, sentel’esigenza di rileggere il fonda-mentale testo di Brandi nella suadimensione storica e non comeun testo sacro, astorico, eterno eimmutabile, denunciando con lu-cidità (ma anche con esagerata fa-ziosità) gli abbagli cui può avercondotto in alcuni casi tale ap-proccio nella sua applicazionepratica. Come ho avuto modo diconstatare più volte nel settenna-to della mia direzione all’Icr, so-prattutto durante le missioni al-l’estero, la teoria andrebbe utiliz-zata e trasmessa come uno stru-mento di orientamento, comeuna bussola, non come il Vange-lo o il Corano.

Ma l’aspetto davvero originaledella rilettura di Brandi, proposta

da Zanardi attraverso il filtro delpensiero di Urbani, consiste nel-l’aver messo in evidenza con chia-rezza la fragilità (secondo l’ auto-re) del cosiddetto “restauro scien-tifico” (cardine, come è noto, del-la missione istituzionale dell’Icrfin dalla sua fondazione, nel 1939,come argine alle integrazioni arti-stiche dell’immagine), perché an-ch’esso soggetto, in realtà, al “gu-sto dell’epoca”, gusto che, al mo-mento dell’inizio della Scuola perrestauratori e dei primi interventieseguiti dall’Istituto sotto la dire-zione di Brandi, era il “gusto del-l’arte astratta”, cioè della produ-zione artistica di quegli anni.

La novità dell’affermazione diZanardi non consiste tanto nelcollegamento fra restauro e gu-sto dell’epoca, aspetto più voltesottolineato, per esempio, daAlessandro Conti, Paolo Mon-torsi, Giorgio Bonsanti, ma nel-l’aver individuato proprio nel di-verso approccio critico intornoall’arte contemporanea l’iniziodella divergenza teorica fraBrandi e Urbani.

Nello stesso giro di anni in cuiBrandi pubblica Segno e immagine(1960) e la monografia su Burri(1963), Urbani stronca l’artistaumbro (Burri: una questione di ele-ganza, in “Il Punto”, 1930, V, n.30) e decide poco dopo (1964) diinterrompere la sua collaborazionecon il settimanale romano e la suaattività di critico militante, sottoli-neando così il suo divorzio ideolo-gico dalla produzione artistica deltempo presente, che, invece, conti-nuerà a suscitare l’interesse dellostorico dell’arte senese. È in que-sto momento che va fissato, secon-do Zanardi, il punto di partenzadelle “due vie di Brandi e Urbani(…) ormai divenute tra loro com-pletamente indipendenti”. A sup-porto della sua tesi – di nuovo, lasuperiorità del pensiero di Urbanirispetto a quello di Brandi anchenel campo della storia dell’arte, edell’arte contemporanea in parti-colare – l’autore cita celeberrimitesti (celeberrimi in sé, non soloperché oggetto dell’interesse diUrbani) di Hans Sedlmayr (La ri-voluzione dell’arte moderna, 1955;Garzanti, 1958), Edgar Wind (Ar-te e anarchia, 1963; Adelphi,1966), fino ai contributi di GiorgioAgamben (L’uomo senza contenu-to, 1970; Quodlibet, 2005) e diJean Clair (La crisi dei musei. Laglobalizzazione della cultura, Skira,2008; cfr. “L’indice”, 2009, n. 4),le cui posizioni segnano le diversetappe di una linea di pensiero chesi consolida nel corso della secon-da metà del secolo scorso in ungiudizio negativo e senza appellosull’arte di oggi. Questo, secondoZanardi, dimostrerebbe come ilmodo di vedere il problema daparte di Urbani non rimanga “sto-ricamente consegnato agli anni incui nacque”.

Ora, non c’è dubbio che gli ar-ticoli di Urbani sull’arte contem-poranea siano ricchi di stimoli e,proprio perché in controtendenzarispetto alla maggior parte dellacritica di quegli anni, diventinoper lo storico di oggi particolar-

La teoria non è un dogma

di Caterina Bon Valsassina

Nella seconda metà del Novecento l’Italia è stata per il mondo intero la capitale del restauro. Ripercorrendo questa storia recente, Bruno Zanardi disegna nuovi

IMPA 7-8 2010 ok 23-06-2010 10:49 Pagina 34

Page 35: 61191478-10-07-INDICE

Èancora attuale il pensieroteorico sul restauro di Cesa-

re Brandi? Poco dopo la stesuradella Carta del restauro del1972, alcuni architetti e archeo-logi avevano espresso opinionicritiche nei confronti della teoriadel restauro formulata dallo stu-dioso senese, ma mai come nelrecente volume di Bruno Zanar-di era stato messo così fortemen-te in discussione il principale te-sto teorico moderno sul restau-ro, tradotto in quindici linguediverse e conosciuto in tutto ilmondo. Partendo dall’analisi de-gli scritti di Giovanni Urbani,contenuti nel volume Intorno alrestauro (Skira, 2000), Zanardiintende dimostrare una decisaposizione di rifiuto da parte diUrbani del pensiero di Brandisul restauro, ne sostiene la ormaiavvenuta “storicizzazione” ovve-ro il suo superamento e ribadi-sce la necessità attuale di adotta-re le strategie della manutenzio-ne e della conservazione pro-grammata teorizzate da Urbani,rinunciando, secondo l’opinionedell’autore, a inutili interventi direstauro estetico.

Certamente va riconosciuto aZanardi il merito di aver mante-nuto viva l’attenzione nei con-fronti del pensiero e dell’operadi Giovanni Urbani, una delle fi-gure di maggiore rilievo nellastoria della conservazione e del-la tutela del Novecento. Urbanitentò strade assolutamente nuo-ve e ideò strategie, tra le quali ri-mane emblematico il Piano na-zionale di sviluppo del 1974, conil quale il nascente ministero deiBeni Culturali avrebbe potutomodernizzare l’intera nazionenel settore del restauro e dellaconservazione attraverso un at-tento decentramento, lasciandoall’Istituto Centrale per il restau-ro la guida metodologica. Perun’imperdonabile miopia nullafu fatto per dare concretezza atale proposta. Il 1974 fu un annosegnato da altre grandi novitàche avrebbero mutato l’indirizzodel restauro italiano e che vedo-no al centro ancora GiovanniUrbani: il volume Problemi diconservazione (Compositori,1973), il Piano pilota per la con-servazione programmata in Um-bria, lo spostamento dell’atten-zione dal restauro alla conserva-zione, dall’intervento sulla sin-gola opera alla difesa complessi-va del patrimonio tangibile e delsuo contesto.

Cinquant’anni di innovazioniteoriche e metodologiche

hanno contribuito a porre l’Ita-lia in primo piano nel settore delrestauro e della conservazione,ma oggi questo importante com-parto è attraversato da unaprofonda crisi, compiutamentedescritta da Salvatore Settis nel-l’introduzione al volume di Za-nardi. L’Istituto superiore per laconservazione e il restauro, cheBrandi fondò e diresse dal 1941,richiede rapide misure di soste-gno affinché possa continuare asvolgere il suo ruolo in Italia eall’estero. La formazione dei re-stauratori, la cui impostazione

metodologica è indiscutibile me-rito di Brandi, faticosamentereimpostata in tempi recenti conun impianto accademico piùadeguato, deve essere aiutata auscire dallo stallo in cui si trova.

L’ipotesi di disaccordo teoricodi Urbani verso Brandi rappre-senta una novità. Finora, al con-trario, era stata sempre sottoli-neata un’evidente complementa-rietà tra il pensiero di Brandi e leriflessioni di Urbani, questionerimarcata nella proposta meto-dologica di Michele Cordaro.Proprio Cordaro nel 1994, nellavoce Restauro, pubblicata nelvolume di aggiornamento del-l’Enciclopedia Italiana di Scienze,Lettere ed Arti, riferisce le novitàche erano venute nel decennioprecedente da Urbani e riassu-me il dibattito che si era accesoattorno ad alcune questioni no-dali, come l’efficacia e l’esito de-gli interventi compiuti sugli edi-fici e sui monumenti all’aperto,nel rapido progredire del degra-do causato dagli agenti inqui-nanti, come ancora i problemiconnessi con il rischio sismico.In quella stessa sede AlessandraMelucco Vaccaro, pur confer-mando le opinioni criticheespresse in precedenza, relativea una presunta inapplicabilitàdell’impostazione brandiana alrestauro delle opere e dei manu-fatti archeologici, riconosce lavalidità del principio generaledel restauro come “momentocritico e conoscitivo, interno allaricerca storica”.

A riprova della continuità tra ipercorsi di Brandi e Urbani de-ve essere ricordata la militanzadi entrambi, di cui non si fa cen-no nel volume, nell’associazioneItalia Nostra, prima di Brandi, apartire dal 1957, e poi di Urba-ni, nel 1976. Brandi, nel primonumero del bollettino di ItaliaNostra, scriveva a difesa dellavia Appia Antica, e quello fu l’i-nizio di un impegno che lo stu-dioso senese mantenne sino allafine a difesa del territorio, delpaesaggio e del patrimonio sem-pre più insidiati. Negli ultimicinque anni, in occasione delcentenario della nascita di Bran-di, sono stati organizzati oltrequaranta tra convegni e giornatedi studio in ogni parte del mon-do, nel corso dei quali è stata at-tentamente analizzata l’influen-za del pensiero dello studiososenese anche in aree culturali di-verse da quella europea e ne èstata dimostrata l’attualità. Per-tanto l’ipotizzato dissenso diUrbani nei confronti di una teo-ria del restauro non più attuale,argomento centrale nel volumedi Zanardi, dovrà essere sotto-posto a ulteriori verifiche. Cer-tamente questo interessante vo-lume costituisce un’importanteoccasione di discussione, ripor-tando l’attenzione sulla conser-vazione e il restauro, un ambitodi studi, di prassi e di pensieroche non deve indebolirsi pertrascuratezza. ■

[email protected]

M. Micheli insegna storia e tecnica del restauroall’Università di Roma Tre

Le strategie della manutenzione

di Mario Micheli

N. 7/8 35

Arte

mente interessanti per acume eintelligenza di visione. SandraPinto, ad esempio, a propositodella memorabile mostra su Kazi-mir Malevic della Galleria d’artemoderna del 1959, cita un artico-lo di Urbani comparso su “IlPunto” del 23 maggio, eviden-ziando come fuori dal coro caoti-co della critica ci fosse stato“qualcuno (…) capace di rilancia-re e alzare di molto la posta. Stoparlando di Giovanni Urbani,storico, non critico”, e ritenendola sua definizione del ruolo“drammaticamente riproduttivo”del pittore russo l’unica che aves-se resistito alla verifica del tempo(Sandra Pinto in Da Giotto a Ma-levic, catalogo della mostra alleScuderie del Quirinale, Electa,2004). Zanardi ha compiuto, per-ciò, un’opera egregia nel propor-re al lettore una selezione degliscritti di Urbani in materia, moltomeno noti di quelli sulla conser-vazione e il restauro e di più diffi-cile reperibilità, che è e sarà digrande utilità per gli studiosi.

Lascia più perplessi, invece, co-me l’autore utilizzi gli strumentidello storico, forzandoi dati per confermare lasua tesi. Perché gliscritti di Brandi debbo-no essere inquadratistoricamente e quelli diUrbani no? Solo per-ché, successivamente,Agamben, Clair, Pintohanno espresso posi-zioni simili? È una ra-gione sufficiente e vali-da? Perché, a proposi-to dell’apertura di Brandi per l’ar-te di Burri dopo un primo mo-mento di rifiuto, Zanardi riferiscecome questa inversione di rottada parte dello storico dell’arte se-nese fosse stata il frutto dell’ami-cizia con Argan e soprattutto del-l’opinione dell’amico pittoreGiorgio Morandi, sottendendo inciò un suo giudizio negativo di sa-pore moralistico per essersi, pre-sumo, discostato dal parere di Ur-bani?. Cambiare idea è un segnodi vitalità e curiosità intellettuali;anche Longhi, ad esempio, modi-ficò la sua considerazione su Pi-casso, inizialmente negativa(1932), in una cauta apertura,vent’anni dopo (1953).

Sul tema “a favore” e “contro”l’arte contemporanea sono statiscritti metri lineari di bibliografia,che entrano nel vivo della produ-zione artistica del tempo presentedisegnando un universo comples-so, ma Zanardi sceglie a prioriunicamente quanto collima conciò che vuol dimostrare, riducen-do la complessità alla semplifica-zione di una visione manichea,

con vincitori e vinti, buoni e catti-vi; attiva, insomma, una partita adue fra Brandi e Urbani che i dueprotagonisti del libro si sono benguardati dal voler giocare nella lo-ro vita reale. È l’autore che inrealtà vuole giocare questa partitaper uno scopo più sottile che nonha a che fare, se non tangenzial-mente, con le “cose della storiadell’arte” (Longhi). La diversa po-sizione di Brandi e Urbani sull’ar-te contemporanea e, in particola-re, sull’astrattismo dal 1960 in poisarebbe, secondo Zanardi, la cau-sa prima del cambiamento semprepiù marcato delle loro reciprocheposizioni intorno al restauro: “PerUrbani l’arte contemporanea nonha più alcuna continuità con glielementi veritativi dell’arte delpassato (…). Questo fa sì che lacura e la custodia dell’arte del pas-sato, in quanto patrimonio finito enon più rinnovabile, siano divenu-te insuperabile responsabilità acui il destino chiama l’uomo d’og-gi (…) egli perciò riprende a tempopieno l’originario ruolo di restaura-tore (… ed) evidenzia i limiti con-cettuali del restauro estetico (…)rivendicando alla tecnica un ruolocreativo pari a quello dell’arte del

passato” (corsivo mio).Sappiamo tutti come

da questa premessa,che Zanardi analizza emette in luce egregia-mente, l’evoluzionesuccessiva del pensieroe dell’azione di Urbani,soprattutto durante lasua direzione dell’Icr(1973-1983), abbiadavvero fondato l’o-dierna scienza della

conservazione, cominciando a de-lineare quella rete di interazioniindispensabili fra scienza e tecni-ca, che avrebbe necessariamenteallargato la visione delle esigenzeconservative dalla scala del singo-lo manufatto a quella di insiemi dibeni georeferenziati e intrinseca-mente vincolati a un territoriocon determinate caratteristicheambientali e antropiche. Unesempio notissimo della proget-tualità di Urbani in questa dire-zione è il Piano pilota per la con-servazione dei Beni culturali inUmbria del 1976, delle cui vicen-de Zanardi racconta nel suo sag-gio le ragioni della mancata rice-zione da parte degli organi politi-ci e amministrativi nazionali e lo-cali alla fine degli anni settanta.

L’insuccesso nel 1976 del Pianopilota va attribuito, condivido inquesto l’opinione di Zanardi, alloscarto fra la lungimiranza del pro-getto dell’allora direttore dell’Icre la visione parziale e cultural-mente miope in materia dellaclasse politica, allora come oggi.Questo, però, nulla toglie al peso

culturale della figura di Urbani, ela strada da lui segnata non è co-stellata solo di fraintendimenti odistorsioni del suo pensiero. Bastipensare all’art. 29, comma 1 delCodice dei beni culturali e delpaesaggio (D. Lgs. n. 42 del 22gennaio 2004), nel quale per laprima volta il legislatore, recepen-do proprio il pensiero di Urbani,ha introdotto i termini di “conser-vazione”, “prevenzione”, “manu-tenzione”, “studio” come parteintegrante di una programmazio-ne coerente e coordinata di atti-vità di cui il restauro è solo unodegli aspetti. Basti pensare aquanto sia fortemente presenteancora oggi, nei tecnici dell’Icr,l’eredità di Urbani anche in detta-gli solo apparentemente seconda-ri, dal modo di strutturare una re-lazione di restauro a quello di ar-chiviare la documentazione foto-grafica e grafica. Urbani ha inse-gnato un metodo che non è anda-to perduto. Non è vero neppure,come sostiene Zanardi, che Urba-ni non abbia avuto allievi: e gli al-lievi dell’Istituto? E lo stesso Za-nardi? E restauratori eccellenticome Mara Nimmo, Lidia Rissot-to, Anna Marcone, Francesca Ro-mana Mainieri, per citare solo al-cuni dei nomi che hanno diffusoattraverso l’insegnamento il pen-siero di Urbani?

La visione apocalittica e cata-strofista di Zanardi, anche sepuò contenere frammenti di ve-rità, non giova a nessuno (nep-pure alla memoria di Urbani) elo porta, ad esempio, a non ac-corgersi che il nuovo nome del-l’Icr, trasformato in “Istituto su-periore per la conservazione e ilrestauro”, non è questione di de-finizioni e frutto di “sciatteriaistituzionale”. Se l’autore avesseletto il decreto ministeriale usci-to successivamente (ottobre2008), che specifica compiti e fi-nalità dell’Istituto collegati alnuovo nome, si sarebbe accortoche la modifica è ben più impor-tante e strutturale, perché eleval’Iscr al rango di Istituto dotatodi autonomia speciale, restituen-dogli in parte il ruolo che gli erastato sottratto nel 1975 con l’e-quiparazione fra l’allora Icr el’Opificio delle pietre dure.

Purtroppo, anche in questo li-bro Zanardi non riesce a resisterealla tentazione del laudator tem-poris acti e della conseguente mi-tizzazione del passato – caratteri-stica comune e diacronica di tuttii tecnici dell’Icr – rappresentatodalla figura di Urbani; per farlo,deve trovare un mito da distrug-gere e se la prende con la maggiorfortuna critica del pensiero diBrandi: tutto il saggio è costruitosu questo “partito preso”, su que-sto ragionare per coppie di oppo-sti (Urbani / Brandi, arte del pas-sato / arte contemporanea, l’“Ita-lia poverissima e bellissima deglianni cinquanta” / l’Italia inquina-ta del post boom economico deglianni sessanta). È questo il limitedel saggio come metodo storico,ma è anche la ragione della sua in-dubbia utilità come provocazionee stimolo per una politica cultura-le, anzi per un’“ecologia cultura-le” (Zanardi) più cosciente diquella attuale. ■

[email protected]

C. Bon Valsassina è soprintendente del Polo museale di Venezia

Fatti in casa

Gian Luigi Beccaria, IL MARE IN UN

IMBUTO. DOVE VA LA LINGUA ITALIANA,pp. 239, € 18, Einaudi, Torino 2010

Giovanni Borgognone, SUPERPOWER

EUROPE? INTERPRETAZIONI STATUNI-TENSI DEL “SOGNO EUROPEO”, pp. 355,€ 37, Giuffrè, Milano 2010

Federico Taddia e Telmo Pievani,PERCHÉ SIAMO PARENTI DELLE GALLINE,pp. 87, €11,90, Editoriale Scienza, Firen-ze 2010

ruoli per i protagonisti e propone stimolanti e inconsuete valutazioni dei loro scritti. Diamo conto della complessità dell’opera attraverso tre interventi

IMPA 7-8 2010 ok 23-06-2010 10:49 Pagina 35

Page 36: 61191478-10-07-INDICE

N. 7/8 36

Premio Calvino

Se io fossi un editore, mi af-fretterei ad accaparrarmi i

diritti per la pubblicazione diLa contorsionista ride di Anto-nio G. Bortoluzzi. Per due mo-tivi almeno: il primo perché nevale la pena (e su questo tor-nerò più avanti), il secondoperché è in grado di soddisfareil gusto sia dei lettori di raccon-ti (che in Italia non abbondano,ma che tuttavia non devono es-sere negletti per mere ragionidi mercato), sia degli aficiona-dos della più composita struttu-ra romanzesca.

Proprio così, perché il testosi presenta come un insieme diquattordici racconti, ciascunodei quali ha una propria com-piuta dimensione narrativa euna ben definita autonomia,ma che nell’insieme sono comei capitoli di un romanzo di cre-scita o, se si preferisce, di for-mazione. Genere piuttosto pra-ticato nella letteratura occiden-tale (e anche in quella del restodel mondo, per quel poco chene so), che spazia, per quantoriguarda il “tono”, dalla favolairridente allo scavo psicologicosofferto e implacabile. Tantoper intenderci: da Pinocchio a Iturbamenti del giovane Törless.E anche genere che non cono-sce momenti di ombra e dioblio, perché ruota intorno auno dei grandi temi esistenziali,quello della fatica dello sbozzo-larsi, del passare dallo statoprovvisorio di crisalide alla for-ma compiuta, insomma del di-ventare uomini (e donne, ovvia-mente).

Il protagonista dei racconti ocapitoli è sempre lo stesso eparla in prima persona, il luogoin cui le storie o la storia si di-pana è il Nordest delle Prealpibellunesi, il tempo non è indica-to con precisione, ma da alcuniparticolari (la vicenda, evocata,di Alfredino Rampi, morto nelpozzo a Vermicino; la canzoneCervo a primavera di Cocciante)si può collocare tra la fine deglianni settanta e i primi anni ot-tanta.

C’è un cugino che “è forte edè sempre tre anni avanti a me enon c’è verso di prenderlo”,che viene continuamente as-sunto a modello dalla madredel protagonista “per comeaiuta in casa, come lavora neiprati, com’è ubbidiente e comeè diventato grande nell’ultimoanno. Soprattutto questa fac-cenda che è diventato grande”.Ma nel cugino, che ha sempreammirato, il ragazzino che rac-conta non si riconosce più,quando scopre che ha abban-donato i fumetti per le rivisteporno, e insieme alla delusioneprova uno sbalordito e confusotimore, il timore del mondooscuro che ruota intorno alsesso.

Ci sono gli amici Gian Franze Ale con cui andare al circo,luogo con misteriose meravigliecome la “mangiatrice di uomi-ni” che è una tigre che “conuna zampata ti apre a metà” e“una balla rimane di qua e unadi là”, ma anche scenario di ap-parizioni meno sorprendenti,come “il cavallo bianco che è

preciso a quello del bagno-schiuma Vidal”, oppure di for-te impatto visivo ed emotivo,come la contorsionista che a uncerto punto “ha questi due pie-doni bianchi ai lati della testa.Sembrano tagliati a qualcuno eappoggiati lì… Non so se pen-sare a Cita o al Cottolengo”.

Ci sono i compagni grandi egrossi (bocciati due volte) chesottopongono i più piccoli al ri-to “della tetta nera” (cioè allostrizzamento della medesima si-no a illividirla) ogni volta chesalgono sullo scuolabus, mentrel’autista, distratto o sadico, guar-da da un’altra parte.

C’è la scoperta delle differen-ze di classe attraverso la diversitàdelle merende e la vergogna diun logo cucito al rovescio dallamadre su una maglietta difettataavuta in regalo.

Poi si passa all’adolescenza,con le mille curiosità e paure ri-guardo al sesso, con l’improvvisascoperta della presenza della

morte e lo sgomento che essaprovoca, con le prime avvilentiesperienze di lavoro, con l’in-contro-scontro di adulti incallitinell’indifferenza o smarriti nel-l’ebbrezza alcolica.

Insomma, come in molti ro-manzi di formazione, c’è il pas-saggio dall’infanzia all’adole-scenza e da questa alla primagiovinezza, ma questo passag-gio (per tornare al “primo moti-vo”) è raccontato senza sbava-ture sentimentalistiche, senzalagnosa nostalgia o arcadico in-tenerimento. C’è una sorpren-dente e funzionante economiadi mezzi, c’è una capacità di co-gliere i particolari minimi diuna vicenda e di renderli incisi-vi e memorabili senza caricarli,ma raccontandoli con una leg-gerezza smagata che si apparen-ta a quella di due libri che mistanno nel cuore (di AmélieNothomb e di Roddy Doyle). E,come valore aggiunto, c’è lamaestria degli excipit, la lorosecchezza incisiva o la loro ca-pacità di chiudere la storia conuna mossa elegante come unpasso di danza.

Allora, dov’è l’editore? ■

In una delle coraggiose e origi-nali collane ideate da Maria

Antonietta Schepisi per Antigo-ne, “Acheronta movebo” e“Transizioni”, è comparso LaMalerba di Cesare Cuscianna, fi-nalista al Premio Calvino 2009.Ma prima qualche parola sullecaratteristiche delle collane, chesi muovono tra saggistica e nar-rativa. I temi sono di tipo psico-logico, psicanalitico o psichiatri-co. Quasi tutti gli autori proven-gono da questi campi e oltre adaver prodotto testi scientifici so-vente si cimentano anche inesposizioni narrative di casi daloro trattati, o addirittura si lan-ciano nel mare aperto della lette-ratura. Particolarmente interes-sante è, a questo proposito, Rê-veries (2008) di Antonino Ferro,membro della Società Psicoana-litica Italiana, fantasticherie chelo accompagnano fuori dalla

stanza d’analisi, alcune delle qua-li pervengono allo statuto di rac-conto. Nel 2009 è uscito il pro-mettente primo lavoro narrativodella psicoterapeuta torinese Da-niela Ronchi della Rocca, Falenafuggiasca, vero e proprio roman-zo con al centro un bel perso-naggio di donna in fuga da sestessa. Nella collana “Acherontamovebo” nel 2008 è comparso Ionon amavo mia madre dell’anali-sta Enrichetta Buchli, che trattacon perizia letteraria il caso clini-co di Rachele, affermata docentein un’università degli Stati Uniti,che rivive, narrandolo, il traumadel rifiuto subito sin dalla nascitada parte della madre. Ultimeprove a uscire in chiave narrativasono Gabriel ha capito dell’anali-sta Alberto Spagnoli sul temadell’amore senile, o meglio deldiritto ad amare sempre, anchesul piano sessuale, anche in ma-niera “indecente”, indipendente-mente dall’età, dalla prestanza fi-sica e dalle differenze cronologi-che, e, appunto, La Malerba diCesare Cuscianna, medico lau-reato in Psicologia (con una tesisu Joseph Conrad), i cui interes-si da sempre gravitano attornoalla letteratura. Nel 2002 Cu-scianna ha pubblicato, pressoCierre Grafica, una notevole rac-colta di poesie, Spietate purezze,in cui si delinea una turbata, con-sapevole e lancinante esistenzia-lità (il privilegio di sentire senzacapire / altro non fu che tremolioindistinto / sulla superficie dellecose); ha pubblicato sulla rivista“Sud” e altrove racconti folgo-ranti – come La città delle madrie Ville Lumière – la cui cifra è lasintesi, la capacità di cogliere ilbersaglio delle solitudini e dellenostalgie. Ha vinto premi per lapoesia e per il racconto. La suaproduzione non è ampia, masempre di alto livello. Sicura-mente Cuscianna ha fatto pro-pria la lezione beckettiana del“levare”. Nella Malerba, testo distraordinaria tensione e tenuta, sidispiega con tocco magistraleun’ossessione che rasenta la schi-zofrenia. Una quarantenne ano-ressica per desiderio di perfezio-ne, sola e incapace di affetti, sispecchia e si esamina cogliendonel proprio corpo i primi segnivisibili di invecchiamento. Il de-siderio maschile è per lei sempli-cemente una conferma di vita,un impulso ad esistere. L’ultimaavventura dei sensi è quella colgiardiniere Gurkha, un misterio-so nepalese, che possiede feroce-mente e meccanicamente la don-na nello scenario di un lussureg-giante giardino di villa fin de siè-cle. Gurkha scomparirà, a uncerto punto, dopo aver assassina-to le altre donne che vivono nel-la casa, lasciando un vuoto disenso incolmabile nella padronadella voce narrante che impu-dentemente confessa. E come unCristo sulla croce la donna escla-ma alla fine, blasfema: “Gurkhapassione mia, vita mia, perché mihai abbandonata?” ■

[email protected]

M. Marchetti è insegnante e traduttore

La fatica di sbozzolarsi

di Margherita Oggero

La striscia del Calvino, 14

Tra narrativa e analisi

di Mario Marchetti

Il nuovo bando del Premio Italo Calvino

Ventiquattresima edizione 2010-2011

1) L’Associazione per il PremioItalo Calvino in collaborazione conla rivista “L’Indice” bandisce laventiquattresima edizione delPremio Italo Calvino.

2) Si concorre inviando un’o-pera inedita di narrativa in lin-gua italiana (romanzo oppure rac-colta di racconti, quest’ultima dicontenuto non inferiore a tre rac-conti e di lunghezza complessiva dialmeno 30 cartelle).

Si precisa che l’autore non de-ve aver pubblicato nessun’altraopera narrativa in forma di li-bro autonomo, presso caseeditrici a distribuzionenazionale. Sono ammes-se le pubblicazioni suInternet, su riviste oantologie. Nei casidubbi: edizioni a paga-mento, edizioni locali,edizioni a cura di associa-zioni culturali o di enti lo-cali, è necessario rivolgersi alla Segreteria delPremio. Qualora intervengano premiazioni opubblicazioni dopo l’invio del manoscritto, siprega di darne tempestiva comunicazione.

3)L’ammissione di opere premiate in altriconcorsi verrà valutata con giudizio insindacabi-le dall’Associazione. In tali casi è dunque neces-sario rivolgersi alla Segreteria del Premio primadi inviare il materiale.

4) Le opere devono essere spedite alla Segre-teria del Premio presso l’Associazione PremioItalo Calvino c/o “L’Indice”, via Madama Cri-stina 16, 10125 Torino, entro e non oltre il 15ottobre 2010 (fa fede la data del timbro postale)in plico raccomandato, in duplice copia cartaceadattiloscritta ben leggibile (corpo 12, stampatosu una sola facciata e non fronte-retro). Le ope-re devono inoltre pervenire anche in copia digi-tale su dischetto o CD-ROM recante titolo e no-me dell’autore, in formato word o pdf. Il CDdovrà essere allegato al pacco contenente la co-pia cartacea. È bene che il testo sia rilegato confascetta e non con spirale.

I partecipanti dovranno indicare sul fronte-spizio del testo il proprio nome, cognome, indi-

rizzo, numero di telefono, e-mail, datadi nascita, e riportare la seguente au-

torizzazione firmata: “Autorizzol’uso dei miei dati personali ai sen-si della L. 196/03”.

Per partecipare si richiede diinviare per mezzo di vaglia postale

(intestato a “Associazione per ilPremio Italo Calvino”, c/o L’Indi-ce, Via Madama Cristina 16, 10125Torino) euro 60,00 che serviranno a

coprire le spese di segreteria.I manoscritti non verranno resti-tuiti.

5) Saranno ammesse al giudi-zio della Giuria le opere sele-

zionate dal Comitato di Let-tura dell’Associazione per il

Premio Italo Calvino. Inomi degli autori e i ti-toli delle opere finalistesaranno resi pubblici(anche in rete) in occa-sione della premiazione.

6) La Giuria è compo-sta da 4 o 5 membri, scelti dai promotori delPremio. La Giuria designerà l’opera vincitrice,alla quale sarà attribuito un premio di euro1.500,00. “L’Indice” si riserva la facoltà di pub-blicare un estratto dell’opera premiata e delleeventuali opere segnalate dalla Giuria. I dirittirestano di proprietà dell’autore.

L’esito del concorso sarà reso noto entro ilmese di maggio 2011 mediante un comunicatostampa e la pubblicazione sulla rivista “L’In-dice”.

7) Ogni concorrente riceverà entro la fine digiugno 2011 – e comunque dopo la Cerimonia dipremiazione – via e-mail o per posta, un giudi-zio sull’opera da lui presentata.

8) La partecipazione al Premio comporta l’ac-cettazione e l’osservanza di tutte le norme delpresente regolamento. Il Premio si finanzia at-traverso la sottoscrizione dei singoli, di enti e difondazioni.

Per ulteriori informazioni si può telefonare ilvenerdì dalle 9.30 alle 16.00 al numero011.6693934, o scrivere all’indirizzo e-mail: [email protected].

IMPA 7-8 2010 ok 23-06-2010 10:49 Pagina 36

Page 37: 61191478-10-07-INDICE

N. 7/8 37

Qu

ad

ern

i

Vittorio ColettiRecitar cantando, 40

Massimo QuagliaEffetto film:Bright Stardi Jane Campion

Grande stagione, quella scaligera diquest’anno. Impreziosita da un

magnifico Novecento, prima con lememorie Da una casa di morti diJaná∞ek (cfr. “L’Indice”, 2010, n. 5) epoi con la Lulu di Alban Berg, il cuiterzo atto fu completato nella redazio-ne solo nel 1979, su vasti e precisi ap-punti dell’autore, da Friedrich Cerha,dopo che nessuno, neppure Schönbergo Webern, se l’era sentita di metteremano al lavoro incompiuto, andato inscena in forma di frammento nel 1937,a Zurigo, due anni dopo la morte delcompositore.

La Lulu è uno dei capolavori del tea-tro musicale moderno ed è un testo incui le ragioni teatrali fanno tutt’unocon quelle musicali che, peraltro, in-nervano il testo di un’armatura internae ne potenziano al massimo la dramma-ticità. Dietro l’opera di Berg ci sonodue testi di Wedekind (Lo spirito dellaterra e Il vaso di Pandora), unificati dal-la figura della protagonista Lulu e cuci-ti da Berg attraverso un interludio ametà del secondo atto. L’opera nove-centesca lavora su grandi testi, come sivede anche dall’altra celebre opera diBerg, il Wozzeck, ricavato da un abboz-zo teatrale del grande Büchner. C’è unadimensione letteraria in precedenzatrascurata o meno accurata; una vo-lontà di confrontarsi con i massimiprodotti letterari che l’opera teatraleeredita soprattutto dalla musica ro-mantica tedesca, in cui la pratica delLied aveva abituato proprio al confron-to diretto con le pagine più alte dellapoesia (e anche in Berg i due mondi,Lied e opera, convivono e si concilianoproprio in nome delle scelte letterarieimportanti). In precedenza, gli adatta-menti di testi di teatro di prosa o di ro-manzi o poemi avvenivano sottoponen-do gli originali alle ragioni della musicache vi doveva trovare i suoi grandi mo-menti melodici e sinfonici. Anche icompositori moderni, ovviamente, rie-laborano i testi di partenza, ma li acco-stano con il rispetto dovuto ai grandicapolavori e li adattano prima alla loroidea di teatro musicale che alle esigen-ze in sé del discorso musicale.

Nella Lulu si vede benissimo. Il lavo-ro di taglia e cuci di Berg su Wedekindha esaltato la teatralità della vicenda diLulu, unendo in un solo testo l’ascesae la caduta di questa donna che divoragli uomini e ne è divorata. A sottoli-neare la simmetria rovesciata delle duesezioni, Berg aveva disposto che le par-ti dei tre clienti di Lulu, decaduta aprostituta nel terzo atto, fossero inter-pretate dagli stessi cantanti che, nelprimo e secondo atto, erano stati i suoitre mariti, il Primario, il Pittore eSchön, tutti morti a causa sua o permano sua. È un’invenzione di Berg,sottolineata da parallelismi musicali,che sigilla il cerchio tragico della vitadi Lulu, donna di grande sensualità,ma capace di inibirsi qualsiasi emozio-ne: simbolo al tempo stesso erotico emortifero. La dimensione teatrale è co-sì imponente e dominante che, a miogiudizio, la Lulu andrebbe cantata intraduzione, perché la scena ha caratte-ristiche tipiche del moderno teatro diprosa e lo spettatore deve capire sem-pre i dialoghi tra i personaggi, ancheper coglierne il moderno carattere diincompiutezza, di frammento carpito

casualmente a una conversazione, l’in-sensatezza (frequente), la nascosta vio-lenza, o i sottintesi ironici. Leggere latraduzione sul display, a parte la diffi-coltà di rendere nella linearità dellascrittura i frequenti casi di pezzi di in-sieme affollati e diversificati, con i per-sonaggi che parlano tra loro a gruppicontemporaneamente, distrae troppolo spettatore dalla scena. A Milanoquesta era peraltro bellissima (regia diPeter Stein), quanto bravissimi sonostati gli attori.

Tra di loro la Lulu di Laura Aikin haimpressionato non solo perché ha te-

nuto la scena per tre ore abbondanti conun canto senza riposo e di faticosa altez-za, ma perché attrice bravissima, fisica-mente perfetta (corpo stupendo, nervosoe morbido al contempo). Ma anche Na-tascha Petrinsky nel ruolo della lesbicacontessa Geschwitz e Franz Mazura inquello del vecchio Schigolch, amante epadre perverso, sono stati perfetti.

La Lulu mostra e fa rimpiangere lepossibilità perdute o non esplorate delmoderno teatro musicale, in cui l’atona-lità (contenuta e corretta in Berg da mol-te simmetrie legate ai vari personaggi), lamancanza di melodia funzionano dastraordinario potenziatore drammatico.Lo strumentale è stupendo, non solo neisuoi brani sinfonici, che Berg aveva giàestratto per esecuzioni autonome. La di-rezione di Daniele Gatti ne ha reso lesfumature e le sonorità con precisione eintensità, giovandosi anche di una dislo-cazione anomala e molto accorta deglistrumenti nella fossa dell’orchestra: dicui dev’essere sempre chiaro il dupliceruolo di alter ego delle voci, destinato acompletarne la vocalità sempre tesa espezzata, ma anche di struttura squisita-mente strumentale, fatta di travature cheripensano in termini musicali l’interadrammaturgia. Per di più, a un certopunto, nel passaggio tra prima e secondaparte della vita di Lulu, la trovata di affi-dare a un film muto o ai suoi cartigli lasintesi degli eventi, che precipitano laprotagonista dal successo mondano almarciapiede, enfatizza il commento or-chestrale, facendone una colonna sonorache integra e scavalca in capacità mime-tica e sintetica la pellicola stessa. Il risul-tato è un insieme di grande teatro, altamusica e straziata vocalità, resa perfettadei colori drammatici, squallidi e infer-nalmente grandiosi della vicenda.

Con Lulu, ma non solo con Lulu, l’o-pera lirica, spettacolo nell’Ottocen-

to tradizionale e popolare, diventa nelNovecento opera d’avanguardia, pursenza perdere il contatto con la dimen-sione narrativa ed emotiva proprie delteatro musicale tradizionale. Il presur-realismo di Wedekind, ai suoi tempiscandaloso e spregiudicato, annotato daKarl Kraus e dall’ambiente viennese diprimo Novecento (i due testi di We-dekind sono del 1898 e del 1906), tornanel Berg degli anni trenta ancor più sti-lizzato e surreale, come aveva osservatoAdorno. Lulu, che Kraus aveva mirabil-mente definito sonnambula dell’amore(come ricorda Paolo Petazzi nel bel sag-gio sul programma di sala scaligero), de-scrive anche nella “denaturata vocalitàdel soprano di coloratura” la leggerezzae il mistero della donna bella e distrutti-va, e mostra come la misura tragica si co-

niughi in Berg con movenze marionetti-stiche, disanimate, sottolineate fin dall’i-nizio da una musica da circo. Persino ilcostume da Pierrot trasformato nel se-ducente body con cui Lulu recita all’ini-zio serve a disegnare la donna bambolasexy e sgonfiabile, macchina d’amore eoggetto d’odio, in un gioco che sta fra ilteatro operistico tradizionale (la donnacorteggiata o senza passioni) e quellod’avanguardia (marionette, atteggiamen-ti stilizzati, automatismi comportamen-tali, anemotività).

Spesso l’opera prende giustamente no-me dalle donne che ne sono protagoni-ste: ma è raro che il protagonismo sia co-sì assoluto e fagocitante, che la femme fa-tale risulti così controversa, vera e finta,angelica e demoniaca, come la potenteLulu di Alban Berg.

Alla Scala è stato grande anche il Si-mon Boccanegra diretto da Barenboim.Anzi, lo è stato davvero solo per la dire-zione di Barenboim, disturbata pur-troppo dai soliti minorati per i qualiVerdi deve fare molto rumore e ignora-no di quanti pp, ppp e persino pppp sia-no costellate le sue partiture, Simone eAida in testa. La regia tutta stilizzata diTiezzi è stata infatti poco convincente edecisamente insensata nella scena fina-le, con il coro dei popolani e patrizi ge-novesi del XIV secolo trasformati inborghesi e militari dell’Ottocento, innotabili colleghi di Verdi, fotografati inun grande ritratto: ma si può?

Peccato, perché se c’è un’opera chepuò sfruttare un bel fondale marino,

un palazzo antico proteso sul mare èproprio il Simone, “opera storica” (comesi direbbe “romanzo storico”), anche seormai di secondo Ottocento, con la sto-ria chiamata a comunicare incertezze e aprovocare ferite private più che procla-mare verità e sicurezze pubbliche. Lamano di Boito (del 1881), sul testo ini-ziale (del 1857) di Piave, a sua volta rica-vato da un dramma spagnolo del Gutiér-rez (lo stesso del Trovatore) si sente nellibretto, che resta sì sconclusionato econtorto nella vicenda (tra il prologo egli altri atti passano venticinque anni),ma regala pagine stupende, come il duet-to tra Simone e Fiesco, l’intensa, coralescena del Consiglio e l’intero prologo. Icantanti hanno fatto del loro meglio, macon qualche limite: stupendi per passio-ne e impegno, meno per intonazione, idue grandi vecchi, Furlanetto (nei pannidel basso Fiesco) e Domingo, abbassatoa baritono (ma con squillo tenorile in-cancellabile) per la parte del Boccane-gra. Ottimo solo il Paolo Albiani di Mas-simo Cavalletti. Ma, ripeto, su tutto èsvettata la concertazione di Barenboim,capace di non far rimpiangere quella ma-gistrale di Abbado. A Milano il maestroha dato una lettura delicata, struggentedella partitura, tutta volta a esaltare ilgrande ruolo dello strumentale, la qua-lità sinfonica di una delle opere musical-mente più alte di Verdi, forse la musical-mente “tedesca” del bussetano. Nono-stante i quattro fessi che hanno provatoa mortificare il grande direttore, l’esecu-zione resterà tra le memorabili di que-st’opera difficile, intrigante, tra le piùprofonde e belle di Verdi. ■

[email protected]

V. Coletti insegna storia della lingua italiana

all’Università di Genova

Recitar cantando, 40

di Vittorio Coletti

IMPA 7-8 2010 ok 23-06-2010 10:50 Pagina 37

Page 38: 61191478-10-07-INDICE

N. 7/8 38

di emancipazione nettamente in anticipo rispettoai tempi. L’affermazione concreta di questo suoanimo indipendente e incurante dell’opinionepubblica passa, per esempio, attraverso gli origi-nalissimi abiti da lei stessa ideati e realizzati, l’in-traprendenza di stampo moderno con cui conduceil gioco del corteggiamento (appare rivelatrice intal senso la sequenza nella quale chiede a John do-ve dorme), l’ostinazione nel perseguire l’anti-conformista disegno, avallato alla fine anche dallamadre, di contrarre matrimonio con un uomo diumili origini e per di più privo di adeguati mezzieconomici per mantenere una moglie.

Il legame sentimentale che s’instaura nell’ambitodella coppia provoca un evidente influsso posi-

tivo su Keats, intimamente e profondamente tor-mentato dalla già purtroppo notevole esperienzadel dolore (la perdita di genitori, nonni, fratelli)maturata in una quindicina di anni. Fanny gli sipropone infatti con la spontaneità, la semplicità ela spensieratezza tipiche dell’età giovanile, e riescein parte a contagiarlo con la levità non superficia-le del proprio atteggiamento (solo parzialmente,dal momento che la componente nera della perso-nalità del poeta configura un dato caratteriale pro-babilmente preesistente ai luttuosi eventi biografi-ci, tanto da spingerlo ad affiancare il concetto diamore e quello di morte). I benefici riscontrabilinella dimensione del privato hanno poi ovviamen-te il loro corrispettivo sul fronte letterario, come sievince dal fatto che Keats ricomincia a scrivere, di-mostrando di aver completamente superato unatemporanea crisi d’ispirazione. Una simile, se nonfelicità, maggiore serenità, scatena inevitabilmentela gelosia dell’amico e collega Charles Brown, cheprova nei suoi confronti un’inconscia tensioneomosessuale. Costui ha peraltro una teoria alquan-to elitaria circa il compito dell’intellettuale, che de-ve esclusivamente concentrarsi sull’atto creativo,sottraendosi alle distrazioni del mondo. Ed è esat-tamente il rapporto vita-arte che accomuna BrightStar con Un angelo alla mia tavola (1990) e Lezionidi piano (1993). Una trilogia costruita attorno auna dicotomia declinata ogni volta in modo diver-so: salvarsi dalle difficoltà di una realtà fortementeostile grazie al talento lirico (Un angelo alla mia ta-vola), fuggire dalle dinamiche della civiltà per rifu-giarsi nella bellezza consolatoria e rassicurante del-la musica (Lezioni di piano), accogliere le moltepli-ci sollecitazioni provenienti dalla quotidianità alloscopo di stimolare la produzione di versi (BrightStar). Gli ultimi due film sono inoltre collegati fradi loro in quanto riflettono pure sul legame do-cente-discente, sebbene nel passaggio dalle lezionidi piano a quelle di poesia s’inverta il ruolo e la

funzione dell’eroina: là l’insegnante Ada imparadall’allievo George a liberarsi affettivamente e ses-sualmente, qui l’alunna Fanny insegna al maestroJohn il metodo per risvegliare la sua fantasia.

La Campion si cimenta quindi nuovamente conil tema della contrapposizione tra natura e cultura,sostenendo come al solito la supremazia della pri-ma sulla seconda. Il suo approccio antropologicosi traduce anche in questa occasione in un raccon-to decisamente affascinante, capace di suscitareuna grande partecipazione emotiva da parte deglispettatori. Il merito di tale straordinaria empatia èda ricercarsi nelle scelte di sceneggiatura – basatasul libro Keats di Andrew Motion – e di regia, frut-to di una concezione e di un impiego oggettiva-mente peculiari del linguaggio audiovisivo. Agget-tivo non utilizzato a caso, poiché la cineasta è ingrado di valorizzare sia le risorse insite nelle im-magini in movimento, sia le proprietà specifichedella colonna sonora.

Basta in effetti osservare il perfetto amalgamacha ha ottenuto fondendo insieme gli splendidi

brani orchestrali di Mark Bradshaw – alcuni auto-grafi, altri rivisitazioni di pagine mozartiane – coninquadrature accuratamente studiate, in particolarecon la scenografa e costumista Janet Patterson e conil direttore della fotografia Greig Fraser. Inquadra-ture la cui riuscita non risiede nei comunque super-bi esiti estetici, ma nel mettersi al servizio della sto-ria. Al di là dei rimandi interni e delle citazioniesterne – piani che sembrano presi di peso da pre-cedenti progetti dell’autrice o riferiti a quadri dellapittura britannica romantica – si ha sempre la fon-data impressione che ciascuna di esse sia assoluta-mente indispensabile per suggerire un’atmosferaoppure per evocare una condizione psicologica, in-somma per restituire l’intelligibilità generale dell’o-perazione. Perché pure quei pezzi di montaggio chesi potrebbero definire di sola transizione fra situa-zioni differenti rappresentano in verità tasselli ne-cessari tramite i quali la regista prosegue un discor-so avviato ai tempi di Un angelo alla mia tavola (conKerry Fox, là nelle vesti di Janet Frame adulta e quainterprete della madre di Fanny, incaricata di passa-re il testimone): rinnovare i canoni del genere bio-grafico, trasformando la letteratura da materia a for-ma dell’espressione filmica. Ed ecco allora che lestrofe della Frame nel passato e le rime di Keats og-gi diventano la poesia per immagini di una dellepersonalità più significative del contemporaneo pa-norama cinematografico internazionale. ■

[email protected]

M. Quaglia è critico cinematografico,e insegna cinema all’Aiace di Torino

Presentato in concorso al Festival di Cannes 2009e annunciato in arrivo sugli schermi italiani da

mesi (per la precisione dallo scorso settembre), ap-proda finalmente anche da noi l’ultima fatica di Ja-ne Campion. Il continuo slittamento in avanti delladata di uscita sembra un chiaro indice della scarsafiducia da parte della casa di distribuzione (01) nel-le effettive potenzialità commerciali della pellicola.Timori inspiegabili per almeno un paio di validi mo-tivi. Da un lato perché Bright Star rappresenta unprodotto d’essai, di nicchia, che, pur non ponendo-si logicamente l’obiettivo di competere con gli in-cassi dei cosiddetti blockbuster, può tuttavia conta-re, proprio in quanto tale, su uno zoccolo duro dispettatori cinefili. Certo è che la collocazione allaconclusione della stagione non favorisce il conse-guimento di un risultato soddisfacente al botteghi-no. Normali regole di mercato di cui però bisognaessere pienamente consapevoli, soprattutto quandoci si occupa di un’attività così complessa e delicatacome la diffusione del cinema di qualità. E poi, fat-tore di non secondaria importanza, poiché si trattadi un ottimo lavoro, che non deluderà sicuramentei numerosi fan dell’autrice neozelandese, in astinen-za da ormai sei anni (In the Cut, 2003), e, anzi, in-crementerà senza ombra di dubbio la loro schiera dinuovi, entusiasti adepti.

Il titolo è mutuato da quello del sonetto Brightstar, would I were stedfast as thou art (Stella lucen-te, foss’io come te costante), composto nel 1819 dalcelebre poeta romantico inglese John Keats (1795-1821) e ispirato da Fanny Brawne, conosciuta nelsettembre 1818 e con la quale sboccia subitoun’appassionata storia d’amore, terminata soltantoa causa della prematura morte per tubercolosi del-lo scrittore. Un titolo che focalizza perciò imme-diatamente l’attenzione sulla ragazza, vero fulcronarrativo di una vicenda che consente alla registadi arricchire la sua filmografia di un ulteriore coin-volgente e convincente ritratto femminile. La cen-tralità del personaggio è attestata dalla sua presso-ché totale onnipresenza scenica e dall’assunzionedel suo punto di vista. Aspetti, entrambi, che in-ducono addirittura a pensare l’esistenza di Keatscome impossibile, sul versante visivo, al di fuoridello sguardo della sua amante. Membro di una fa-miglia matriarcale – il padre, sempre malato, erascomparso quando era ancora molto piccola e ilfratello minore costituisce una figura marginale,seppure diegeticamente intrigante –, denota, sullascia di tutte le altre protagoniste delle opere firma-te dalla Campion, un’innegabile libertà di spirito,saggiamente contemperata con le rigide conven-zioni sociali dell’epoca. Un’adesione in fondo este-riore a quei modelli comportamentali, che non leimpedisce di sviluppare e manifestare un desiderio

Quando la vita insegna

di Massimo Quaglia

Qu

ad

ern

i -

Eff

etto

fil

m

Bright Star di Jane Campion, con Abbie Cornish,Ben Whishaw, Paul Schneider, Kerry Fox, Gran Bretagna-Australia-Francia 2009

IMPA 7-8 2010 ok 23-06-2010 10:50 Pagina 38

Page 39: 61191478-10-07-INDICE

ViaggiMichel Onfray, FILOSOFIA DEL VIAGGIO. POETICA

DELLA GEOGRAFIA, ed. orig. 2007, trad. dal france-se di Luigi Toni, pp. 114, € 12,50, Ponte alle gra-zie, Milano 2010

All’alba della civiltà, il libro della Genesipone l’odio tra due fratelli: Caino, il contadi-no stanziale, e Abele, il nomade mandrianofavorito da Dio. Sin d’allora, la dialettica tranomadismo e sedentarietà accompagna, se-condo il filosofo francese Michel Onfray, tut-ta la storia dell’umanità, che parrebbe ripete-re all’infinito l’eterna violenza delle civiltà se-dentarie sulle vite nomadi, dall’aspetto sfug-gente e barbaro. Schierandosi decisamentedalla parte dei vagabondi, Onfray proponeuna “filosofia del viaggio” che riassume – inmodo piacevole ma forse poco originale – ilpensiero di chi ha descritto e teorizzato l’ar-te di viaggiare “dopo la fine dei viaggi”. Rac-cogliendo la lezione di illustri precursori, daBouvier a Chatwin, da Deleuze a Brunet, lateoria poetica di Onfray parte dalla classicaequiparazione tra viaggio e letteratura, che –ripetuta in modo schematico – potrebbe ap-parire contraddittoria. Se ogni viaggio nascedalla lettura di un atlante, di un romanzo o diuna poesia, il viaggiatore che non voglia re-carsi da turista o da colone nei luoghi a lun-go immaginati e desiderati deve però dimen-ticare le sue letture, per non applicare ai luo-ghi e alle civiltà che incontra i propri para-metri culturali. Il “viaggiatore-poe-ta” che Onfray crea prendendo amodello se stesso e la “poetica del-lo spazio” di Bachelard corre peròun rischio. Se il viaggio trascorrefrettolosamente, nell’attesa di torna-re a casa per scrivere le proprie im-pressioni e il mondo si riduce a quelche si vede dal finestrino dell’ae-reo, le memorie del viaggio sarannoinevitabilmente ricordi di egotismo.Dal nostro atlante letterario, zeppodi viaggiatori sentimentali, si alzaallora per contrasto un’altra vocepoetica, quella di un pastore erran-te dell’Asia. Quel pastore, come igrandi viaggiatori del Novecento,approfittava del viaggio per porrealla luna le domande essenziali sulla propriarealtà e sulle condizioni in cui tutti gli indivi-dui, e non solo lui, sono costretti a vivere.

STEFANO MORETTI

Attilio Wanderlingh, SCAPPO VIA!, pp. 301, € 14,90,Intra Moenia, Napoli 2010

Il desiderio di fuggire e di allontanarsi dallapropria casa per iniziare una nuova vita è undesiderio piuttosto frequente sia nella storiache nella letteratura. Attilio Wanderlingh cispiega quali sono i trucchi per insediarsi inluoghi da sogno, sopravvivendo con meno dimille euro al mese. Le mete pensate dall’auto-re sono numerose e variegate, dal vicino Egit-to all’esotica Santo Domingo, dalla Tunisia alBrasile, in un’analisi di alcune tra le più cono-sciute mete turistiche riviste dagli occhi dell’a-bitante e non del viaggiatore, senza però tra-scurare itinerari turistici destinati al residenteappena arrivato. Ogni località è studiata e de-scritta con attenzione, mostrando sì gli aspet-ti più belli e interessanti, ma senza trascurarei lati negativi, offrendo una visione oggettivadelle problematicità che il novello Gauguinpotrebbe ritrovare nella propria meta. La veraforza di Scappo via! rimangono comunque leidee e le soluzioni per riuscire a vivere e so-pravvivere con meno di mille euro o addirittu-ra di riuscire a guadagnare dalla propria fuga.Con estrema attenzione vengono mostrati icosti delle case, degli affitti, della vita e an-che, perché no, dei vizi che ci si può permet-tere con una somma che in Italia spesso nonbasta per vivere. È l’organizzazione che l’au-tore identifica come il sistema migliore persoggiornare senza problemi, trovando nellanuova casa il proprio eden. Si potrebbe pen-sare però che queste soluzioni siano utili solo

N. 7/8 39

Sch

ede a pensionati, dal momento che viene conside-

rata una spesa mensile fissa, ma non è così,Wanderlingh mostra anche come sia possibileguadagnare trasferendosi in uno di quei luoghi,con qualche idea e tanta buona volontà è infat-ti possibile trasformare la propria nuova casa inuna terra lontana in una fonte di reddito. In de-finitiva Scappo via! è uno strumento utile nonsolo a coloro che davvero sognano la fuga, maanche a chi semplicemente desidera viaggiareverso mete lontane risparmiando.

FEDERICO FEROLDI

Francesco M. Cataluccio, VADO A VEDERE SE DI

LÀ È MEGLIO. QUASI UN BREVIARIO MITTELEURO-

PEO, pp. 409, € 15, Sellerio, Palermo 2010

Il titolo, da solo, varrebbe l’intero libro. Unafelice intuizione, che racchiude sia il desideriodi un altrove spostato sempre oltre, sia l’espe-rienza culturale di un assiduo viaggiatore e in-tellettuale poliedrico come Francesco Cata-luccio, polonista, autore di apprezzati saggisulla Polonia e il Centro Europa, da anni colla-boratore presso le più prestigiose case editri-ci italiane. La sua vocazione, coltivata nel cor-so dell’intera vita, ha origini lontane, nasce dauna ribellione e da un incontro. La ribellione ècontro il padre, la cui passione per la culturatedesca, nonostante la sua esperienza di par-tigiano e la strenua lotta contro l’invasore pro-veniente da quella parte di mondo, lo spingea iscrivere il figlioletto di tre anni e mezzo alla

Scuola svizzera di Firenze. Con la complicitàdella mamma, l’esperienza sarà di brevissimadurata e, anni dopo, all’università, l’opzioneper lo studio del polacco diverrà un residuo diquella precoce contestazione. L’incontro av-viene invece con il piccolo Gabriele Sacerdo-te, suo compagno presso la scuola elementa-re fondata dal pedagogista Ernesto Codigno-la, e con sua nonna Rachele Rapaport daLeopoli, che li introduce entrambi nel mondoincantato dei Giusti e dei racconti biblici. In-sieme alla sua nonna Giulia Vitale, livorneseappartenente a una famiglia di marinai, rap-presentano i tre speciali traghettatori di Cata-luccio verso un mondo affascinante, inondatodi cultura ebraica, popolato di spettri crudeli odolenti, ma anche di esseri accoglienti e pae-saggi incantevoli. Il viaggio che propone Ca-taluccio è un percorso autobiografico ininter-rotto, che sceglie di organizzare in capitoli de-dicati ciascuno a una città: Varsavia, Praga,Budapest, Mosca, ma anche Parigi, BuenosAires, Erevan e altre ancora. Nonostante il ri-gore della scelta narrativa, ciascun capitolosembra vivere di vita propria, in cui i ricordi sidispongono nella forma apparentemente ca-suale del rimando e dell’evocazione. A un in-contro reale ne corrisponde almeno uno lette-rario, ai luoghi conosciuti si contrappongonoquelli immaginati, i ricordi vissuti si fondonocon quelli che discendono dai libri, dai film,dalle parole di celebrità di elevatissima taratu-ra, come delle persone più semplici. Cataluc-cio ha la fortuna di conoscere a fondo e di-ventare l’accompagnatore ufficiale di RyszardKapuscinski, invitato a Buenos Aires per l’i-naugurazione di una mostra di sue fotografiee per un seminario di giornalismo, con il qua-le si perde alla ricerca dei luoghi toccati daWitold Gombrowicz. Con il regista KrzysztofKieslowski instaura una duratura amicizia, chelo conduce, fra gli altri momenti di incontro tra

la Polonia e Parigi, a una visita della cittadinaottocentesca di Otwok, luogo di cura polaccoimmerso in un bosco incontaminato, dove nel1940 costruirono un ghetto, in cui fu rinchiusoanche Calal Perechodnik. Costretto a coadiu-vare i tedeschi nel trasporto dei suoi stessiparenti verso Treblinka, autore di memorie ter-ribili, è morto a Varsavia nei giorni dell’insurre-zione. L’autore compie un viaggio ad amplis-simo raggio, si sofferma su episodi buffi e sur-reali, che rimandano agli anni della Guerrafredda e alle incongruenze della libertà ritro-vata, non mancando di rievocare tanti episodidella Shoah, la scomparsa di intere comunità,la carneficina di Katyn, le tragedie che inquella parte di Europa sembrano essere piùacute, più immani, più irreparabili. Catalucciolo sa: non sempre e ovunque di là è meglio,ma la ricerca persistente, il desiderio di spo-stare sempre più avanti l’orizzonte noto, di im-battersi in luoghi evocativi, di scovare la paro-la che sa illuminare il mondo sono l’unico an-tidoto allo spaesamento perseguito come mo-dus vivendi.

DONATELLA SASSO

Cecilia Stazzone De Gregorio, RIMEMBRANZE DI

UN VIAGGETTO IN ITALIA SCRITTE DA UNA SIGNO-

RA SICILIANA, pp. 122, € 18, Il Poligrafo, Vicenza2010

Le testimonianze di viaggi in Italia di manodi viaggiatori italiani non sono frequentissi-

me. Che poi sia una donna ad af-frontare la sfida, è caso ancora piùraro. Esce, per le cure dell’italiani-sta Riccarda Ricorda, il contributodella marchesa Cecilia StazzoneDe Gregorio, dove lei racconta, concura per il dettaglio e concreto inte-resse per le novità architettoniche,il suo viaggio a Napoli a partire dal-la natia Palermo. Siamo nel 1847,Cecilia è stata allevata in un am-biente cosmopolita ed è dotata diuna scrittura sobria, conosce le lin-gue straniere e il padre l’ha sempreaiutata a coltivare i suoi interessi

letterari. Non è dunque così sor-prendente che questa donna esca

dall’anonimato per lasciare unatraccia di sé, dei suoi spostamenti tra Italiameridionale, Veneto e Liguria, fino a Milano.Un testo ricco di appunti, di riferimenti stori-ci, artistici, molto utile per comprendere lapercezione che i contemporanei avevano delproprio ambiente. Si chiude con l’immaginedi una percorso in gondola che si consumaveloce come la fiamma “tanta fu la dolcezzache inondò allora i nostri petti, e tanto ci sem-brò poco quel tempo alla scambievole effu-sione di teneri affetti!”.

CAMILLA VALLETTI

Antonietta Pastore, LEGGERO IL PASSO SUL TATA-

MI, pp. 192, € 13,50, Einaudi, Torino 2010

Traduttrice di professione e grande cono-scitrice del Giappone, Antonietta Pastorequesta volta prova a raccontare da scrittricela sua esperienza diretta di un paese che haavvicinato non solo per ragioni professionali.Capitata lì al seguito di un compagno moltoamato, Antonietta Pastore si trova costretta afrequentare un mondo che le è poco familia-re dal punto di vista delle abitudini. Ed eccoallora che sorgono mille incidenti dovuti allasua goffaggine o alle convenzioni di un’edu-cazione diversa. Sono questi senz’altro gliepisodi più divertenti del libro, e anche ca-paci di fare riflettere su quanto diamo perscontato e su quanto ci portiamo dietro nelnostro bagaglio di pregiudizi positivi. Unascrittura pulita, mai noiosa, descrive momen-ti particolari del quotidiano e piccoli riti fami-liari. Una lettura che sta a metà tra il raccon-to e il diario di viaggio, emanazione diretta,per certo gusto antropologico, degli scritti diun altro grande viaggiatore italiano prestatoall’Oriente, Fosco Mariani.

(C.V.)

Viaggi

Fantastico

Varie

Classici

Fumetti

Psicologia

Politica italiana

Teoria politica

Infanzia

disegni di Franco Matticchio

IMPA 7-8 2010 ok 23-06-2010 10:50 Pagina 39

Page 40: 61191478-10-07-INDICE

Edgar Rice Burroughs, VIRGINIA E GLI UOMI-

NI MOSTRO, ed. orig. 1929, trad. dall’inglese diNello Giugliano, pp. 153, € 21, Donzelli, Ro-ma 2010

Scelta insolita, quella di Donzelli, perriportare sugli scaffali Edgar Rice Bur-roughs (1875-1950), creatore di Tarzan edi John Carter, dominatore assoluto del-la narrativa avventurosa della primametà del Novecento e da tempo assentedalle nostre librerie. Originariamentepubblicata con il titolo di A Man Withouta Soul, la novella The Monster Men rap-presenta uno dei tentativi più riusciti, daparte di Burroughs, di colonizzare il na-scente mercato della science fiction. Me-scolando senza troppe inibizioni partiuguali di Frankenstein (Mary Shelley,1818), di L’Isola del dottor Moreau (Her-bert George Wells, 1896) e dell’avventu-ra esotica per cui eragiustamente famoso,Burroughs ottiene unastoria oggi irrimediabil-mente datata, ma cheper l’epoca dimostranotevoli intuizioni. Lastoria è bizzarra: il pro-fessor Maxon, atipicoscienziato folle, si ritirasu un’isola del Mar del-la Cina per proseguiresenza complicazionilegali i propri esperi-menti sulla creazioneartificiale della vita; e ilsuo fine ultimo è creare dalla materiainerte un uomo che possa sposare sua fi-glia Virginia (ragazza peraltro piacente,e per la quale gli spasimanti naturali nonsembrano mancare). I risultati sarannoovviamente molto diversi da quelli attesi.Burroughs riprenderà il tema nel succes-sivo The Sinthetic Men of Mars (1940). Inogni caso con questa storia minore rie-sce a garantire una serata di sano intrat-tenimento nostalgico, e crea dal nulla ilcliché del mostro deforme che fugge conla bella sotto braccio, puntualmente ri-preso dalla copertina del ’29, riprodottaper la presente edizione. Divertente.

DAVIDE MANA

Philip K. Dick, TUTTI I RACCONTI. 1964-

1981, ed. orig. 1987, trad. dall’inglese di Bian-ca Russo, Vittorio Curtoni, Mario Galli, DelioZinoni, Beata della Frattina, Angela Campa-na, Hliia Brinjis e Claudio Lo Monaco, introd.di Carlo Pagetti, pp. 710, € 25, Fanucci, Roma2009

Ormai da due decenni, Philip K. Dickha cessato di essere considerato “sem-plicemente” un autore di genere, e i suoimeriti letterari sono ormai ampiamentericonosciuti. Ma nonostante l’estremapopolarità di oggi, l’attenzione per i ro-manzi ha forse distratto il pubblico main-stream dalla sua produzione breve: at-traverso i racconti si scopre un Dick leg-gero, spesso ferocemente ironico, capa-ce di affrontare i propri temi ricorrenti (lanatura del reale, la questione del potere,la coscienza umana) con un taglio menoossessivo rispetto ai romanzi, ma con al-trettanta lucidità. Ultimo tomo nell’edizio-ne integrale della narrativa breve di Phi-lip K. Dick per Fanucci, questo volumeraccoglie i lavori pubblicati dall’autoreamericano su una varietà di riviste (acominciare da “Galaxy” e “Amazing”) eantologie (prima fra tutte Dangerous Vi-sions, curata da Harlan Ellison nel1967): e guarda a quello che viene con-siderato il suo periodo di maturità artisti-ca, alle prese con la forma narrativa pro-babilmente a lui più congeniale. Il volu-me allinea titoli imprescindibili (Bacco,tabacco… e Fnools, Memoria totale, Lafede dei nostri padri, Le formiche elettri-che, Temponauti), che compendianotutti i temi cari all’autore, e che probabil-

mente già compaiono sullo scaffale del-l’appassionato, con alcuni lavori maipubblicati in precedenza. Un’ampia in-troduzione di Carlo Pagetti e un’appen-dice con le note dell’autore alle storie ar-ricchiscono il volume.

(D.M.)Robert J. Sawyer, FLASHFORWARD. AVANTI

NEL TEMPO, ed. orig. 1999, trad. dall’inglese diMaurizio Nati, pp. 323, € 14,90, Fanucci, Ro-ma 2009

Nei dieci anni trascorsi dalla sua uscitaoriginale, Flash Forward (questo il titolo in-glese) è diventato la base di una serie ditelefilm, e la copertina dell’edizione Fa-nucci, che ne ripropone alcuni fotogram-mi e cita direttamente il canale sul qualesintonizzarsi per seguirlo, lascia immagi-nare uno dei motivi per cui il popolare ro-manzo arriva finalmente nel nostro paese.

Non che il libro diSawyer – uno dei porta-bandiera della nuovafantascienza scientifica– abbia bisogno distampelle mediaticheper meritarsi la lettura.Bob Sawyer è un autorecompetente, con unbuon controllo dell’azio-ne e non ha paura di af-frontare idee pericolo-se. La premessa di Fla-shforward è semplice:che cosa succedereb-be se ogni abitante del

pianeta potesse, per due minuti, vedere ilproprio futuro, a ventun anni di distanza?Sawyer gioca con la fisica quantistica perfornire una base razionale e scientifica aun meccanismo narrativo che, sfruttando icliché della fantascienza e del poliziesco,gli permette di incalzare i temi del liberoarbitrio e della predestinazione. Nel com-plesso, tuttavia, pare che Sawyer sia più aproprio agio nel gestire la scienza rispet-to alla filosofia, e se le vicende degliscienziati del Cern e la caccia al bosonedi Higgs offrono una realistica rappresen-tazione della vera ricerca scientifica, la ri-soluzione del dubbio filosofico non con-vince completamente. Sarebbe stato for-se opportuno mettere in campo un castpiù ampio, e raddoppiare almeno il nume-ro delle pagine, seguendone le vicende.Come in effetti hanno fatto gli sceneggia-tori del telefilm.

(D.M.)

Barbara Hambly, Kim Newman e altri, IL

GRIMORIO DI BAKER STREET. LE AVVENTURE

SOPRANNATURALI DI SHERLOCK HOLMES, a cu-ra di J. R. Campbell e Charles V. Prepolec, ed.orig. 2008, trad. dall’inglese di Susanna Raule,introd. di Enzo Verrengia, pp. 340, € 14,50,Gargoyle, Roma 2010

Pochi personaggi quanto Sherlock Hol-mes, chiuso il relativo canone alla mortedell’autore, hanno conosciuto avventureapocrife: e il mercato editoriale (anche ita-liano) sforna ogni anno un certo numero diqueste estensioni, spesso in chiave di pa-stiche. Come questa piacevolissima rac-colta di undici racconti che conduconol’arcidetective su terreni un po’ diversi dalpoliziesco classico, attraverso fantasy,fantascienza e horror, ma con continuigiochi di ibridazione dei generi. Vi incon-triamo le indagini congiunte di Holmes edi un Peter Pan psicopompo sulla via del-l’Isola-che-non-c’è, e il tragico rapporto diWatson con uno spiacevole djinn incon-trato in Oriente; il caso di Holmes alle pre-se con il Mondo Perduto di un altro gran-de personaggio doyliano, il professorChallenger, e il suo incontro con il caccia-spettri Carnacki di William Hope Hodg-son, e via discorrendo, in un turbine doveprotagonisti e personaggi di contorno (lamoglie di Watson, per esempio) mutanocontinuamente status ed esistenza, in un

gioco illusionistico di mondi alternativi. Ilche in fondo non rappresenta una veraforzatura alle coordinate del razionalistaHolmes: basti rammentare le propensionispiritistiche di Conan Doyle, le sue indagi-ni su presunte fotografie di fate o le vena-ture gotiche di talune avventure holmesia-ne (Il cane dei Baskerville, per esempio),per non parlare dei brividi sovrannaturalidi alcuni degli splendidi Racconti del ter-rore e del mistero. La raccolta in esame,con testi di Barbara Hambly, ChristopherSequeira, Barbara Roden, M. J. Elliott,Martin Powell, Rick Kennett & Chico Kidd,Peter Calamai, J. R. Campbell, Chris Ro-bertson, Bob Madison e del maestro delpastiche Kim Newman, è coronata dallebelle introduzioni di Enzo Verrengia (Va-riazioni in Holmes), David Stuart Davies(Potrebbero mettercisi anche i fantasmi) eCharles V. Prepolec (Una riflessione preli-minare sulle Storie per le quali il mondonon è ancora pronto).

FRANCO PEZZINI

Laurell K. Hamilton, NEL CUORE DELLA NOT-

TE, ed. orig. 2005, trad. dall’inglese di Gianlui-gi Zuddas, pp. 428, € 18,60, Nord, Milano2009

La creatura più nota dell’autrice, enor-memente popolare negli Stati Uniti, èsenz’altro la cacciatrice di vampiri AnitaBlake, eroina di un fortunato ciclo di ro-manzi pure in corso di traduzione perNord: e la principessa-fata Meredith, pro-tagonista di questa diversa saga giuntaalla quarta puntata, con un piede tra imortali e un altro tra i continui intrighi del-la corte sidhe, ne è in qualche modo unasorella minore. Già la lunga conferenzastampa delle prime pagine del romanzo,con il confronto tra i cronisti umani e laprincipessa reduce da un attentato, è em-blematica dello spirito di storie fortementegiocate sulle curiose differenze di usi delmondo Faerie, a partire dalla vita sessua-le vivace e improbabilmente fantasiosa.Se infatti il “romanticismo sexy” (definizio-ne da quarta di copertina che accentua dicaso in caso sostantivo o aggettivo) statrionfando nella nuova vulgata vampire-sca e anzi ne rappresenta una delle piùgettonate caratteristiche, proprio il ciclo diMeredith Gentry rivela l’estrema elasticitàdi questa maliziosa, più o meno ironicadeclinazione del rosa e il suo utilizzo in unpiù ampio panorama fantastico, noto soloin minima parte ai lettori nostrani. È in-somma lecito immaginare che tramontatala stagione dei Lunghi Canini, la formulapotrà riproporsi senza soluzione di conti-nuità con protagonisti anche piuttosto di-versi. Certo, l’attenzione con cui Hamiltondescrive minutamente l’abbigliamento deipersonaggi, sottolineando le caratteristi-che sensuali di belloni muscolosi dai ca-pelli lunghissimi, finisce con il corteggiareil kitsch: ma è interessante cogliere la pa-rentela ideale (voluta? forse no) di questisidhe un po’ apocrifi con un orizzonte di fi-gure non meno bizzarre, intente ad azzuf-farsi in calzamaglie variopinte nei cieli afumetti dei supereroi statunitensi. Insom-ma, dimenticate Tolkien.

(F.P.)

Karoline Leach, LEWIS CARROLL. LA VITA SE-

GRETA DEL PAPÀ DI ALICE, ed. orig. 2009,trad. dall’inglese di Simone Buttazzi, pp. 430,€ 22, Castelvecchi, Roma 2010

La particolare inclinazione letteraria diLewis Carroll e soprattutto la centralitàdella figura femminile puerile nei suoi ro-manzi hanno storicamente indotto la criti-ca, sin dalle prime biografie scritte senzaconsultare materiali originali, a diffonderel’immagine di un uomo che concedesse leproprie attenzioni a bambine, in modoesclusivo e maniacale, allontanandosene

N. 7/8 40

Sch

ede

- F

an

tast

ico quando superavano la fatidica soglia dei

quattordici anni. In questo volume, fruttodi un’accurata ricerca d’archivio tra le fon-ti di prima mano, Karoline Leach smontain maniera argomentata la fama di pedofi-lo, più o meno “puro”, che da sempre gra-vita intorno all’esistenza dell’autore, il cuivero nome, come è noto, era CharlesLutwidge Dodgson. Originario di una fa-miglia conservatrice dell’Inghilterra delNord, pastore anglicano, docente di ma-tematica a Oxford (elementi da cui la ne-cessità di uno pseudonimo letterario), ol-tre che scrittore Carroll fu anche un gran-de appassionato di fotografia, con i cele-bri ritratti di fanciulle (parecchi dei quali,splendidi, sono riprodotti nel volume) chehanno inevitabilmente concorso a raffor-zare l’alone di morbosità intorno alla suafigura. Secondo la ricostruzione di Leach,al contrario, “una fetta considerevole del-le sue child-friends” era ben oltre la pu-bertà, fra loro c’erano persino maturedonne sposate o vedove. Furono, oltre alresto, queste amicizie, che sfidavano le ri-gide convenzioni della società vittoriana,a renderlo chiacchierato quando ancoraera in vita, unitamente al “mito” della suaverginità e di una vita condotta in reclu-sione monacale, dicerie smentite dalle let-tere e dai diari. Il perdurare di queste fal-se credenze fu dovuto, secondo la bio-grafa, al fatto che la famiglia, subito dopola morte di Dodgson, distrusse molte car-te private in un ostinato rifiuto di renderepubblico qualunque documento lo riguar-dasse. L’enigma rimane però, dato che imateriali sopravvissuti sono disponibili or-mai da più di cinquant’anni, “come mainessuno se n’è accorto prima?”, perché lepersone che hanno scritto su di lui sem-brano averlo fatto “prigioniere di un teore-ma”: ed è appunto a indagare in questosenso il “fenomeno Carroll” che l’autricededica gran parte della sua ricerca.

GIULIANA OLIVERO

David Almond, ARGILLA, ed. orig. 2006, trad.dall’inglese di Maurizio Bartocci, pp. 224,€ 13, Salani, Milano 2010

Tenebroso questo Argilla, di cui moltihanno parlato con riferimenti a Mary Shel-ley, Graham Greene e, aggiungiamo,Stephen King. L’ambientazione è quellache David Almond (vincitore dell’Hans Ch-ristian Andersen Awards 2010, il nobel perla letteratura d’infanzia) conosce bene: lacittadina operaia del Nord-est inglese do-ve lui stesso crebbe, Felling, negli annisessanta. Protagonisti i tredicenni Davie,voce narrante, e Giordie, chierichetti cheraggranellano mance a matrimoni e fune-rali, inebriati dalle prime sigarette, recalci-tranti alle ragazze, presi da lotte tra ban-de. A spingerli sul baratro dell’adolescen-za sarà Stephen Rose, dal vissuto inquie-to: espulso dal seminario, padre morto mi-steriosamente, madre in una struttura psi-chiatrica. Ospitato dalla zia “Mary la mat-ta”, outsider del paese, su consiglio delparroco O’Mahney non andrà a scuola esaranno Davie e Giordie il ponte con larealtà dalla quale Stephen si è allontanato.Ma il “nuovo” ha un dono che ammalieràDavie fino a farselo suo alleato: dar vita al-le statue d’argilla che crea. La creazionedi una sorta di Golem e l’uccisione diMouldy, il cattivo della banda rivale, faran-no capire al protagonista il male di cui èpreda e risorgere il suo istinto di emanci-pazione. Potrebbe essere un libro greve,ma Almond ha il talento di una scrittura cri-stallina e un intento onesto verso i suoi let-tori, non solo ragazzi. “Il sentire” dell’ado-lescenza, con le domande sulla vita, lamorte, il bene, il male, il diverso, muovonoil romanzo in senso ascensionale. Il moto-re della storia, che non scade nel fantasyo nel gotico e non cerca un lieto fine paci-ficatore, è quel bisogno di assoluto sem-pre in sordina dentro di noi.

ELENA BARONCINI

IMPA 7-8 2010 ok 23-06-2010 10:50 Pagina 40

Page 41: 61191478-10-07-INDICE

Claudia Palombi e Laura Rigo, PESCIOLINO

DOVE SEI, pp. 12, € 10, Panini, Modena 2009Lucia Salemi, QUESTA È LA MIA FACCIA,pp. 14, € 7, Panini, Modena 2009Chiara Carminati, Simona Mulazzani e Gio-

vanna Pezzetta, RIME PER LE MANI, pp. 32,con cd audio, € 20, Panini, Modena 2009

La collana “Zerotre” di Franco CosimoPanini è nata alla fine del 2008 ed è subi-to stata insignita (nel 2009) del Premio An-dersen, nella categoria miglior progettoeditoriale “per la grande attenzione concui il progetto è stato realizzato in ogni siapur piccolo dettaglio; per aver coinvoltonomi importanti e affidabili sia sul versantedei testi che su quello dell’illustrazione eper gli ottimi risultati raggiunti fin dai primititoli”. La collana è in effetti la prima rivoltain maniera organica ed esclusiva ai piùpiccoli, ai quali tradizionalmente erano de-stinati soltanto libri-non-libri (gomma cheschiacciata suona, animaletti con le pagi-ne e altre simili amenità), ma sui quali ulti-mamente si è concentrata l’attenzione didiversi editori. L’idea che “leggere fa beneanche ai piccolissimi” è quella su cui insi-ste da anni il progetto “Nati per leggere”,voluto nel 1999 da associazioni di bibliote-cari e pediatri con l’obiettivo di promuove-re la lettura ad alta voce ai bambini di etàcompresa tra i sei mesi e i sei anni. “Natiper leggere” è attivo in tutta Italia con cir-ca 220 progetti locali promossi da biblio-tecari, pediatri ed enti pubblici, ha pubbli-cato diverse bibliografie ragionate e stalentamente costruendo una nuova fasciadi lettori, giustamente sempre più esigen-ti. Ma se i libri rivolti ai bambini e alle bam-bine fra i tre e i cinque anni sono anche inItalia moltissimi, e molti di ottima qualità,non altrettanto si può dire di quelli rivoltiagli zero-tre anni. Per questo motivo e per-ché la motivazione con la quale è statapremiata da Andersen (grande cura deidettagli e serietà di autori e illustratori) èassolutamente condivisibile, la collana“Zerotre”, curata e progettata da Emanue-la Bussolati e Antonella Vincenzi, è effetti-vamente encomiabile. Attualmente com-prende una ventina di titoli suddivisi tra li-bri materici, emozionali e narrativi. Proprioguardando ai materici, che pure sono i più

tradizionali, si coglie l’attenzione con laquale sono prima di tutto pensati e poi rea-lizzati: in Pesciolino dove sei, per esempio,il libretto con le pagine di gomma contienebrevi filastrocche che raccontano il bagnodi un bambino/bambina insieme a un pe-sce rosso; e allegato al libro c’è lo stessopesciolino (nota bene, di gomma dentroma di spugna fuori) con il quale è possibi-le far fare il bagno al piccolo lettore. In-somma: un gioco che diventa libro che di-venta gioco. Lucia Salemi ha invece scrit-to e illustrato uno degli ultimi titoli tra gli“emozionali”, Questa è la mia faccia, im-mediatamente esaurito e ristampato. Sale-mi aiuta i piccolissimi a decifrare le emo-zioni collezionando facce deluse, lusinga-te, piangenti, arrabbiate, che possono es-sere poi sostituite dalle foto del bambinoche legge (deluso, lusingato, piangente,arrabbiato), in modo da rendere il titolo an-cora più veritiero. Infine, tra i “narrativi”, ilbel Rime per le mani di Chiara Carminati,Simona Mulazzani e Giovanna Pezzetta,che raccoglie quindici filastrocche su al-trettante parti del corpo affiancate da bre-vissimi suggerimenti su piccoli giochi concui animarle. Al libro è allegato un cd conle filastrocche in musica, ciascuna arran-giata secondo un genere differente; ancheil cd è estremamente curato, le musichemai difficili ma neppure banali né stupida-mente bambinesche.

SARA MARCONI

Michèle Petit, ELOGIO DELLA LETTURA, ed.orig. 2002, trad. dal francese di Laura De To-masi, pp. 171, € 14, Ponte alle Grazie, Milano2010

Michèle Petit elogia la lettura in tutti isuoi aspetti, a partire da anni di osserva-zioni sul campo nelle banlieues francesi,cercando di comprendere dove e comeun’attività solitaria possa cambiare l’esi-stenza di persone che vivono in contestisocialmente sfavoriti. Di questo e di altroparla nel suo appassionato Elogio dellalettura (traduzione, precisa, di Laura DeTomasi), in cui riassume appunto moltianni di militanza in questo ambito. Al di

nando sensazioni contrastanti, di accetta-zione e presa di distanza, con esiti chespesso fortunatamente sfuggono alle pre-visioni.

LUCA SCARLINI

LA COMUNICAZIONE DELLA SALUTE. UN MA-

NUALE, a cura della Fondazione Zoé, pp. 480,€ 29, Raffaello Cortina, Milano 2009

La comunicazione su salute e malattia ètema di grande attualità in pubblicazioni edibattiti per tante ragioni: la modifica in at-to del rapporto medico-paziente da rap-porto paternalistico a relazione centratasulla soggettività del malato, la ridefinizio-

ne, nel codice deontologico,della cura come proposta enon come imposizione, il dirit-to del paziente a una scelta li-bera e quindi necessariamen-te informata e, non ultimo,l’opportunità di maggior tra-sparenza comunicativa per ri-durre il rischio di denunce.Psicologia e psiconcologiahanno dedicato spazi di rifles-sione e ricerca per mettere apunto linee guida per la co-municazione di notizie negati-

ve (le informazioni che influiscono in modointenso sulla qualità di vita) e strategie perla gestione delle emozioni del malato e deisuoi familiari. Il manuale affronta quindi unargomento molto significativo e sentito, an-che a livello sociale. Si presenta come te-sto corposo, con l’obiettivo di offrire al let-tore una visione generale del problemasotto svariate angolature: dall’antropologiaalle parole più opportune per accompa-gnare la prescrizione di un farmaco, dalrapporto curante-paziente al conflitto di in-teressi, dalle notizie negative all’incontrocon pazienti difficili, dalla deontologia alladivulgazione mediatica. Il tentativo di af-frontare un campo così vasto, da punti divista diversi, seppur legati dall’importanzadella comunicazione, rende alcune partiestremamente sintetiche e sviluppate piùsul piano teorico che su quello pratico.

MAURA ANFOSSI

fuori di qualsiasi orientamento normativo,il libro colpisce soprattutto per la forte ri-vendicazione della non irregimentabilitàdella pratica del leggere, che spesso èaccesa da casi, incontri, per lettrici (piùnumerose e agguerrite) e lettori. Le inter-viste riportate con adolescenti di originearaba che scoprono la Shoah, inesistentenel loro mondo familiare scandito da slo-gan contro Israele, o con giovani da altreparti del globo, altrettanto migranti, cheimprovvisamente mettono in discussionela relazione patriarcale, ricorrono in que-ste pagine. La biblioteca pubblica, peral-tro, lungi dall’essere presentata comeesclusivo luogo di indottrinamento, vienefinalmente proposta anche come effettivospazio della “perdizione”, visto che ognistoria ne tira a sé un’altra, inun percorso che è tanto piùvalido quanto meno prevedi-bile e rispondente a canoni“socialmente utili”. Le paginestrazianti di Walter Benjamindi Infanzia berlinese, regestodi luoghi della memoria chepresto sarebbero andati infiamme, fanno da viatico aquesta ricerca sull’impattodella relazione con i libri, chepassa in primo luogo dal rit-mo della quotidianità. Trauna madre che declama alla propria neo-nata, affetta da malattia, la favola meravi-gliosa dell’Uccellino azzurro di MauriceMaeterlinck, ottenendo reazioni non con-siderate dai medici, al giovane ThomasBernhard di Respiro, che ritrova il gustodella vita dopo l’esplosione della tuberco-losi, affrontando le pagine furenti dei De-moni di Dostoevskij, si susseguono le tra-me della Storia in cui la lettura ha svoltoun peso rilevante per portare ad accetta-zione, dubbio, inquietudine o certezza.Nell’epoca digitale, quando il libro è og-getto che molti pensano come in crisi,malgrado le cifre e le statistiche contrad-dicano le previsioni di qualche anno fa,come ben riassume Francesco Cataluc-cio nel recente, efficace, libro Che fine fa-ranno i libri? (pp. 59, Ä 4,80, Nottetempo,Roma 2010), l’atto di leggere mantiene in-tatte le sue molte sfaccettature, determi-

N. 7/8 41

Sch

ede

- V

ari

e

Henry James, MADAME DE MAUVES, ed. orig.1879, a cura di Cristina Giorcelli, trad. dall’in-glese di Barbara Del Mercato, pp. 260, testo in-glese a fronte, € 16, Marsilio, Venezia 2010

Malva, viola e lavanda, i colori del cre-puscolo e del lutto, sono le tonalità chesi diffondono impalpabilmente in Mada-me de Mauves, romanzo breve scrittoda Henry James nel 1873, pubblicatodapprima sulla rivista “Galaxy” nel 1874,poi, con varie revisioni, nella raccolta APassionate Pilgrim and Other Tales del1875, in The Madonna of the Future andOther Tales nel1879 (è questa laversione propostanell’impeccabile tra-duzione di BarbaraDel Mercato, con te-sto a fronte) e infineinserito, nel 1908,nel tredicesimo vo-lume dell’edizionedetta “definitiva”delle opere jamesia-ne presso Scribner.Come ricorda l’intro-duzione di CristinaGiorcelli, Madamede Mauves si collo-ca nel primo periodo, o nella fase “pre-paratoria”, dell’apprendistato letterario diHenry James, conclusosi idealmente nel1881 con Ritratto di signora, ma anticipaper molti versi tecniche narrative, struttu-re tematiche, problemi teorici e formaliche accompagneranno la scrittura jame-siana fino agli ultimi romanzi della MajorPhase, a cominciare dall’esplorazione

del cosiddetto “tema internazionale”: isottili, laceranti dilemmi della coscienzascatenati dal conflitto culturale – se nondal doloroso scontro di civiltà – tral’ethos puritano del Nuovo mondo e laseduzione irresistibile della corrotta mapur raffinatissima, aristocratica Europa,trasfigurata nello spazio elettivo del ro-manzesco, della finzione, del sortilegioletterario. Attraverso l’educazione senti-mentale frustrata di Richard Longmore,con le sue immancabili “illusioni perdu-te”, si dipana una delle più esemplari in-dagini jamesiane sulle identità incerte e

sulle rappresenta-zioni inadeguate efallimentari di sog-gettività in formazio-ne infinita o indefini-tamente bloccata,sospese tra duemondi, ma sempresdoppiate nell’esi-tante iniziazione airisvolti ambivalentidel loro universo im-maginario: ovverodel loro ambiguorapporto con lo sta-tuto destabilizzantedella realtà e con la

fascinazione oscura e minacciosa dellafinzione. La complessa, drammatica par-tita sentimentale giocata dai quattro pro-tagonisti si snoda nei percorsi tortuosi eindiretti di un racconto enigmatico che sitrama, impenetrabilmente, intorno a unsegreto inquietante e inviolabile, nel piùpuro stile jamesiano: il “silenzio reveren-ziale” della sfuggente, elusiva Euphemia

suo famosissimo romanzo, Le grandMeaulnes. Rimaste quasi tutte inedite,furono rese note dal suo fraterno amicoJacques Rivière che le aveva presentatecon un commosso saggio critico e bio-grafico nel 1924. Le poesie, in particola-re, stupiscono e incantano per la presso-ché immediata adesione delle parole alsentimento che le detta; la strumentazio-ne metrica, retorica e stilistica è “miraco-losamente” diafana; l’attenzione dell’io li-rico è tutta rivolta al mondo esterno, delquale ricostruisce spontaneamente l’u-nità e la consonanza tra persone, natura,animali e cose; lo sguardo esteriorizzatodà loro quel particolare timbro narrativoche non sfocia però nell’impoetico, per-ché comunque strette nel racconto di“istanti privilegiati”. In queste poesie siassiste, quasi in presa diretta, alla cri-stallizzazione dei temi, delle immagini edei sentimenti che saranno più distesa-mente sviluppati nel romanzo, che nonavrà però la stessa felicità espressiva. “Ilbalzo in paradiso”, che è il motore po-tente della poetica dello scrittore, l’origi-ne prima della sua scrittura, nelle poesieè ancora in corso o se ne attende anco-ra la ripetizione. Il romanzo, per ragionibiografiche e poetiche ben illustrate daRivière, opacizzerà la luce abbagliantedel giovanissimo poeta. Per stuzzicare lacuriosità dei lettori – che si vorrebberonumerosi – si potrebbe suggerire di con-frontare il “Piove” superbamente lirico diD’Annunzio, quello altrettanto superbo edisincantato di Montale, con il “Pioviggi-na” autenticamente modesto di Alain-Fournier.

PAOLO MANTIONI

de Mauves, gelida e marmorea vestaledella più rigorosa intransigenza eticanonché “vittima” innocente, apparente-mente, dell’amorale “prosa del mondo”europea, fino al ripiegamento della co-scienza nell’equivoca ascesi della rinun-cia e nella più dolente astensione dallavita, prefigurando così l’Isabel Archer diRitratto di signora, la Maggie Verver diLa coppa d’oro, la Milly Theale di Le alidella colomba. Ma, come sempre, anchele “colombe” di Henry James sono abita-te da un’inespugnabile ambivalenza. Cir-cuita dagli inganni del cinico e dandybarone de Mauves, accerchiata dalle in-stancabili inchieste del giovane Longmo-re, “osservatore” beffato dalla sua stessapassione ermeneutica, Euphemia rilan-cia fino all’ultimo l’enigma della sua in-flessibile vocazione sacrificale, lascian-do intravedere, fra le trappole, i miraggi,le riverberazioni della luminosa misticadella rinuncia, la perversità abissale rac-chiusa nell’imperscrutabile “innocenza”jamesiana.

SUSI PIETRI

Alain-Fournier, MIRACOLI, ed. orig. 1924, conun saggio di Jacques Rivière, a cura di Luana Sal-varani, trad. dal francese di Luana Salvarani(prose) e Marzio Pieri (poesie), pp. 141, € 15,50,Medusa, Milano 2010

C’è da essere davvero grati a chi haproposto al pubblico italiano questo vo-lume di Alain-Fournier. Si tratta di poesiee prose che hanno preceduto di qualcheanno la redazione e la pubblicazione del

Sch

ede

- C

lass

ici

IMPA 7-8 2010 ok 23-06-2010 10:50 Pagina 41

Page 42: 61191478-10-07-INDICE

Paul Chadwick, L’UMANO DILEMMA, ed. orig.2005-2006, trad. dall’inglese da Elisa Canuti,pp. 160, € 15, Comma 22, Bologna 2010

Un tempo Ron Lithgow scriveva di-scorsi per un influente senatore america-no. In seguito a una complessa e sfortu-nata vicenda, è diventato Concrete: unacreatura di cemento, ovvero cuore e cer-vello in un corpo smisurato, goffo e peri-coloso. Ron-Concrete è assistito in Ca-lifornia dalla bella biologa Maureen Von-negut e dal giovane e scapestrato scrit-tore Larry Munro, oltreché dal cane a trezampe Tripod. Ossessionato dalla bel-lezza, dal sesso (è apparentemente pri-vo di organi genitali) edal modo di usare ilproprio nuovo corpoper sostenere giustecause, in L’umano di-lemma l’uomo di ce-mento accetta di pre-stare la sua immaginee, spera, la propria in-telligenza per soste-nere un controversoprogramma di control-lo demografico. Quan-to più Concrete siespone pubblicamen-te, tanto più la sua vitapersonale e quella deisuoi collaboratori sicomplica; la sovrap-popolazione del pia-neta e i rimedi possibi-li fanno da sfondo sociale a una riflessio-ne tutta psicologica sulla relazione dicoppia, sulla fiducia, sulla capacità di fe-rire e quella di scusarsi. La scrittura diPaul Chadwick è assai sofisticata, abba-stanza da rendere verosimili il raccontodel modo in cui l’uomo di cemento e lafredda biologa si cercano e si trovano,oltreché il colpo di scena finale. Mentrenon hanno bisogno di chiose la già cre-dibile sofferenza di un uomo solo (il col-laboratore di Concrete, Larry), quelladelle sue donne tradite e la descrizionedel loro continuo incrociarsi e lasciarsi.Chadwick ha amalgamato nel suo perso-naggio di cemento un vecchio leitmotivdella letteratura a fumetti e non – l’uomosensibile intrappolato in un corpo orribilee sgraziato – con una scrittura sensibilealle altalenanti dinamiche dei rapporti in-terpersonali. L’umano dilemma è, perora, il punto più alto di questa bellissimaserie che in Italia arrivò per merito dell’e-ditore Phoenix negli anni novanta, e cheprosegue ora grazie a Comma 22. Alla fi-ne, si chiude il volume francamente am-mirati, forse perfino un po’ innamorati, diun uomo di cemento o di una donna di-segnata, o magari di entrambi: insomma,si attende con un sottile piacere il prossi-

mo incontro, sperando che il terzo inco-modo non sia la complessa vita editoria-le dei fumetti in Italia.

ANDREA CERIANA MAYNERI

Blutch, IL PICCOLO CHRISTIAN, ed. orig. 1998-2008, trad. dal francese da Gianfranco Zucca,pp. 118, € 14, Rizzoli-Lizard, Milano 2010

Tomo I: il piccolo Christian alle ele-mentari. Finalmente la verità sull’infan-zia. Sbugiardati tutti coloro che ci hannosempre raccontato che è l’età della leg-gerezza e della spensieratezza. È inve-

ce solo l’inizio di unalotta continua con igenitori, gli insegnan-ti, i compagni, le re-gole. Tomo II: il picco-lo Christian alle me-die. La conferma sul-l’adolescenza: un’etàingrata. La vita era giàdura, ma adesso lo èancora di più: la giun-gla dei rapporti con icompagni, l’autoritàfamiliare che diventasempre più stretta, ilprimo, incomprensibi-le e ostinato amore, ladelusione, la lotta conse stessi, il proprioaspetto e il giudiziodegli altri, la distanza

tra i desideri e la realtà. E il piccolo Ch-ristian ha un solo modo per difendersida questa irruzione dell’età difficile nelsuo universo infantile: rifugiarsi in unmondo a parte, assorbito dal cinema edalla forsennata lettura dei fumetti. Inquesta assurda dimensione, la fantasiainconfessabile è diventare Farrah Faw-cett ed entrare nelle Charlie’s Angels,mentre i suoi amici e confidenti sonoSteve McQueen, Lucky Luke, BruceLee, John Wayne e uno spettacolareMarlon Brando, che nel finale lo mettealla prova sulla faccenda più importantee dolorosa della vita: l’amore. Il piccoloChristian, sognatore e imbranato, since-ro e semplice, bruttino e un po’ sfigato,ci ricorda con humour e senza retoricache cosa significa essere bambini e chela capacità di immaginare di vivere millevite rifugiandosi nelle fantasie non vamai perduta: mai accontentarsi di sognida poco. È così che il piccolo Christian,che regalava i suoi disegni ai bulli perdifendersi dalle loro prepotenze, è di-ventato il celebre autore di fumetti Blut-ch, al secolo Christian (!) Hincker, cheora ci rapisce con il racconto della suagiovinezza. Il suo tratto abbozzato esemplice, in un rigoroso bianco e nero

nella prima parte, originariamente pub-blicata nel 1998, diventa più libero edelegante nella seconda, successiva didieci anni (2008), e viene arricchito conla tricromia, nero, rossiccio e bruno. L’e-dizione italiana raccoglie in un unico vo-lume le due uscite, regalandoci un ca-polavoro in cui i testi e i disegni si inse-guono e completano in un modo crudo ediretto, verrebbe da pensare, quasi in-fantile.

ANNAMARIA CERVAI

Emmanuel Guibert, Didier Lefèvre e Frédé-

ric Lemercier, IL FOTOGRAFO, ed. orig. 2003-2006, trad. dal francese da Donatella PennisiGuibert, pp. 280, € 29, Coconino Press - Fan-dango Libri, Bologna 2010

Il ricordo. Un nuovo nome, Ahmadjan.Una Leica svela l’Afghanistan dilaniatodalla guerra tra sovietici e Mujahidin: nelluglio del 1986, il fotografo Didier Lefè-vre, scomparso tre anni or sono, affron-ta una marcia di quattro mesi al seguitodi una spedizione di Medici senza fron-tiere, una marcia che cambierà il corsodella sua vita. Tornerà a Parigi con quat-tromila negativi. Di quel reportage, ilquotidiano francese “Liberation” pubbli-ca sei scatti nel dicembre dello stessoanno. Il resto giace negli archivi di Lefè-vre, per vent’anni, finché il suo amicoEmmanuel Guibert, uno dei nomi di pun-ta della nuova scena del fumetto france-se, gli propone di ricavare un libro daquell’esperienza. Nasce così Il foto-grafo, sceneggiato e disegnato sulla ba-se dei ricordi e delle fotografie di Lefè-vre. Come in La guerra di Alan, vincitoredel prestigioso Premio Micheluzzi, Gui-bert cerca di ricostruire e indagare i vis-suti di persone reali, facendosi da partee ancorandosi alla voce del fotografofrancese quale unico orizzonte legittimoentro cui procedere. Guibert ha raccoltoe registrato nel corso di anni le memorieorali di Didier Lefèvre; ha quindi trascrit-to le interviste, attenendosi, per il resto,solo alle testimonianze dirette di amici eparenti. Il risultato è la rappresentazionerispettosa di un’unica voce: lo sguardonarrante di Lefèvre. L’arretramento del-l’autore è evidente persino nel linguag-gio artistico: Guibert nega a se stesso ilprotagonismo e si limita a supportare loscorrere del reportage, adottando untratto spoglio che sembra subire il fasci-no della fotografia. Gli spiragli apertidalla Leica si affacciano sulla vita di Di-dier Lefèvre, ed è proprio la vita, sostie-ne Guibert, che va celebrata anche nel-la più drammatica delle condizioni. Pub-blicato in Francia in tre volumi, Il foto-grafo è ora presentato in Italia da Coco-

N. 7/8 42

Sch

ede

- F

um

etti nino Press, per la prima volta in un uni-

co volume, introdotto dalla preziosa pre-fazione di Adriano Sofri.

MAURA DESSÌ

Andrea Pazienza, ASTARTE, prefaz. di RobertoSaviano, postfaz. di Marina Comandini Pazien-za, pp. 104, € 20, Fandango Libri, Roma 2010

A quanto ci è dato sapere, a Pazienza,come al Coleridge di Kubla Kan, appar-vero in sogno le vicende narrate nella suaultima creazione, Astarte, rimasta purtrop-po incompiuta ed edita postuma. L’operatratta delle gesta di Astarte, “il capo deicani da guerra di Annibale, suo guardianoinseparabile e fedelissimo amico”, comeegli stesso si presenta, iniziando così lasua commovente biografia: almeno neisogni, infatti, noi e gli altri animali comuni-chiamo con lingua uguale. Certo, le tavo-le, di riflesso, sono anche una finestra sulcarattere del condottiero cartaginese cheosò mettere in ginocchio Roma. Ma chi siintrufola nella galassia onirica di Pazien-za, dapprima in modo informe, poi sem-pre più nettamente (il tratto dal caos delleprime tavole diventa via via sempre piùpreciso e essenziale), non è Annibale,che popola i sogni solo dei “grandi dellastoria”, bensì il suo fidato molosso. È perbocca di Astarte, infatti, che ci è dato co-noscer cammino, imprese, ambizioni edebolezze del suo diletto padrone e dellesorti alterne del popolo cartaginese. Stili-sticamente Astarte è privo del barocchi-smo tipico di un certo Pazienza. Il disegnoè misurato, a volte quasi naïf: è la nascitadi uno stile epico originale, contropartegrafica del ruolo di bizzarro cronista stori-co che Pazienza attribuisce a se stesso.D’altra parte, anche qui c’è traccia dell’e-gocentrismo o, più precisamente, dell’e-gologia a cui Pazienza ci ha abituati in al-tre opere (su tutte Pompeo). Sebbene, in-fatti, all’inizio della lettura si possa pensa-re che l’alter ego di Pazienza sia Astarte,“un cane molto forte” accucciatosi nei so-gni di “un uomo molto debole”, tuttavianon può sfuggire come Annibale abbia lafisionomia del fumettista. Ecco svelata laprofonda ambizione dell’autore: non solopretendere, come Rimbaud, di essere unaltro, per poter osservar se stesso dal difuori, con occhi e capacità di giudizio al-trui, ma anche, e soprattutto, assurgerealmeno in sogno e nel microcosmo dellesue storie a una sorta di coscienza collet-tiva dei grandi personaggi che hanno se-gnato la storia della nostra civiltà. Il volu-me, di veste grafica strepitosa, riproponele tavole nella loro misura originale ed èimpreziosito da un’antologia di scritti sullavita di Annibale.

FABIO MINOCCHIO

David B., IL GRANDE MALE, ed. orig. 1996-2003, trad.dal francese da Francesca Scala, pp. 378, € 22, CoconinoPress - Fandango Libri, Bologna, 2010

Chiudete gli occhi. Lasciatevi per un attimo rapire dalpassato e immaginatevi bambini. Cercate di ripercorrere ilbosco dei vostri ricordi: ci saranno certamente momenti,odori, sensazioni, emozioni, volti e parole che saranno ri-masti iscritti nella vostra memoria e che forse, se dovesteraccontarli ai vostri figli, si tingerebbero di una leggeraepicità. Ecco, David B. con Il grande male vi racconta lasua storia, riportandovi indietro nel suo tempo, nei suoiluoghi d’infanzia e di adolescenza. Un racconto che è unviaggio, tanto meraviglioso quanto reale, proprio comel’universo dei bambini. L’opera, uscita in Francia in seivolumi, dal 1996 al 2003, riconosciuta a livello interna-zionale come uno dei capolavori del graphic novel, ha re-so David Beauchard uno dei maggiori autori del fumettocontemporaneo, e ora Coconino Press insieme a Fandan-go la pubblica in un’unica edizione integrale.

Il grande male è l’epilessia, nonché il filo d’Arianna sulquale si svolge la narrazione dell’autore. L’esistenza di

David, il piccolo François nel racconto, viene percorsasenza sosta dalla malattia del fratello maggiore Jean-Chri-stophe, a cui è fortemente legato: i due fratelli si cercano,si adorano, si odiano, perdendosi e ritrovandosi continua-mente; il loro rapporto si evolve e cambia con l’avanzaredella malattia, contro la quale nessuna cura vince. Larealtà dell’epilessia, “morte quotidiana” che paralizza eannienta la vitalità e la fantasia del piccolo Jean-Chri-stophe, è troppo dura anche per François, che però sfogala sua rabbia rifugiandosi nell’universo favoloso e miticodella sua fantasia, ovvero nei suoi disegni, perché è lì chela malattia, assumendo le sembianze di un mostro serpeg-giante, si materializza e può essere sconfitta. Questo rac-conto autobiografico, narrando la formazione della co-scienza di François attraverso la lotta contro la malattia ela morte, percorre anche la Storia, che emerge dal ricordodel racconto dei nonni, rielaborata con l’intelligenza vivi-da e immaginifica del bambino, appassionato di guerre,battaglie cruente, personaggi epici lontani nello spazio enel tempo.

David B. ha la capacità di rapire il lettore, una vol-ta catapultandolo insieme a François e i suoi fantasmi

nei boschi di Olivet, un’altra nella tragica quotidia-nità delle crisi epilettiche del fratello, un’altra ancoratra le paure costanti di una famiglia, che, come un cor-po unico, si muove instancabilmente, seppure sopraf-fatto, colpito e disilluso, verso una possibile via di gua-rigione. La sceneggiatura è un’armatura solida, riccadi evocazioni poetiche. Le parole di Pessoa (“Siedi alsole, abdica e sii re di te stesso”) e di Eluard accompa-gnano i sogni e gli incubi di François adolescente, co-sì come Gengis Khan, che viveva nella sua fantasia dibambino. Il tratto è duro e deciso, preciso nel crearepreziosissimi ricami. Le pagine in bianco e nero spessosi riempiono a tal punto da non lasciare spazio al re-spiro: un’atmosfera angosciante, marcata da chiaroscu-ri efficacissimi a creare emozioni, batte il tempo di unanarrazione che non cede il passo alla noia. Ora riapri-te gli occhi, prendete Il grande male e tuffatevici den-tro. Siate pronti a cavalcare il cheval blême, a incon-trare personaggi inquietanti e a entrare nel meccani-smo macchinoso della coscienza di un giovane sogna-tore.

MARIA ELENA INGIANNI

IMPA 7-8 2010 ok 23-06-2010 10:50 Pagina 42

Page 43: 61191478-10-07-INDICE

Antonino Ferro, TORMENTI DI ANIME. PASSIONI, SINTO-MI, SOGNI, pp. 216, € 21, Raffaello Cortina, Milano 2010

Sostiene Pessoa, nella Prefazione a Quaresma, che certiargomenti modellino la nostra mente in base alla loro natu-ra. Nino Ferro, che è senza dubbio alcuno lo psicoanalistaitaliano più letto, conosciuto e amato all’estero, dà allestampe per Cortina il suo nono (!) volume di clinica psicoa-nalitica, a testimonianza di questo assunto. Questo trattatocostituisce infatti un’appassionata testimonianza di come illavoro nella stanza di analisi possa fornire in continuazionenuovi argomenti per modellare il pensiero umano, trasfor-mando allo stesso tempo anche la nostra mente, cioè l’appa-rato che la natura ci ha fornito per pensare. Nonostante lacitata, rigogliosa produttività, l’autore tiene, un po’ vezzosa-mente, a definirsi analista “minimalista”, sostenendo fer-mamente la necessità di intraprendere ogni nuova analisiforniti soltanto di un “bagaglio leggero”. Se, infatti, in psi-coanalisi quasi tutto è cambiato, nell’arco di un secolo, Fer-ro tiene a ribadire quanto siano invece rimasti invariati i tresoli ingredienti fondamentali: analista, paziente e setting.

Il pensiero di Ferro, in quanto pensiero vivo e bruli-cante di creatività in ogni direzione, non è sistematico:quando anche si organizza, per ragioni didattiche, restaorganizzato per poco. Le teorizzazioni, preziose al mo-

mento, hanno vita breve; già dopo due casi clinici, il si-stema di riferimento è mutato, perché è mutato il pazien-te, ed è contemporaneamente mutato anche l’analista.

Per questo motivo, si perdonano volentieri all’autorealcune ripetizioni e alcuni refusi minori, stupefatti dallaricchezza e della vitalità delle presentazioni cliniche edal pensiero che, grazie a queste, si organizza attorno adue determinanti maggiori. Da un lato, il tema manife-sto del libro: quella centralità dell’esperienza onirica, at-tiva e creativa anche nello stato di veglia, che Ferro hamutuato da Bion e, attraverso l’esperienza di Corrao,portato a un raffinato livello di utilizzo. Dall’altro, il te-ma più sotterraneo ma portante, vero leitmotiv del vo-lume: quello della consapevolezza della morte, o megliodella nostra difficoltà, come specie, ad avvicinarci a que-sta consapevolezza, attraverso cui scontiamo la nostraimperfezione, tanto più evoluta, quanto più consapevoledelle difese che mette in atto.

Lo stile di Ferro è, come sempre, gradevole e accatti-vante; può divenire ironico e provocatorio, come quandotesse l’elogio di tutti i meccanismi di difesa (se esistono,servono) oppure nobilita la stupidità umana (a propositodi meccanismi di difesa, il più diffuso) o, ancora, riscattale analisi interrotte dalle critiche dell’establishment psi-coanalitico. Alcuni paragrafi sono veri e propri pezzi di

bravura, come la dissertazione sui pro e i contro dell’ave-re una mente, straordinario lascito evolutivo, pesante-mente caratterizzato da numerosi effetti collaterali; altripassaggi appaiono genialmente folli, come lo sguardo eco-grafico degli anoressici sugli aspetti scissi, o l’identifica-zione di nuove sindromi, come quella da mancato prese-pe. Insomma, la joint venture paziente-analista, nello stu-dio di Ferro, marcia contro tutti i venti di crisi, testimo-niandoci come, a fronte della leggerezza e della godibilitàdella sua prosa, le situazioni cliniche che riporta, gronda-no, come è giusto, dolore e fatica, e sono proposte per unlavoro serio e terapeutico, non certo per sterile, accademi-ca esibizione. Conclude il volume una nutrita serie diesercizi e giochi psicoanalitici, che possono costituire siaun finale open del lungometraggio psicoanalitico, che pre-luda alla separazione dalle narrazioni, sia un test di veri-fica dell’apprendimento, come oggi usa, quando ci si ag-giorna.

A proposito dell’enorme produzione editoriale dell’au-tore, si dice che un anonimo graffitaro abbia impresso, difronte alla casa di Andrea Camilleri, a Roma, una scrittache recita: “Stai scrivendo troppo… continua così!”. Nonmi stupirei se, un giorno, qualcuno dovesse copiare questafrase su un muro di via Cardano, a Pavia.

PIERLUIGI POLITI

André Holley, IL CERVELLO GOLOSO, ed orig.2006, trad. dall’inglese di Aglae Pizzone,pp. 226, € 22, Bollati Boringhieri, Torino 2009

È questo un libro ricco di informazioniscientifiche, frutto di un’accurata selezio-ne delle ricerche più attuali, supportatedalle moderne tecniche di neuroimaging,che ci introduce nel misterioso mondodel gusto. Odori, profumi e aromi, con tut-ta la complessità che li caratterizzano, lafanno da padrone, unitamente agli aspet-ti emotivi e affettivi che, insieme a quellicognitivi, contribuiscono a orientare lenostre scelte “golose”. Apprendiamo co-sì, ad esempio, ladifferenza che pas-sa tra odore e aro-ma: il primo, perce-pito prima che i cibisiano introdotti inbocca, il secondoderivato dalle mole-cole volatili sprigio-nate dalla mastica-zione, che risalgononella cavità nasale;oppure, quanto siarilevante l’azione ge-nerata da alimenti ebevande sulle terminazioni del nervo tri-gemino, che veicola le sensazioni acute,piccanti, pungenti; o, ancora, come il gu-sto dipenda dalle percezioni di elementichimici (sapori, aromi e sensazioni trige-minali), ma anche da tatto e sensibilitàtermica. Certo, le sensazioni olfattive egustative nel loro insieme potrebbero es-sere rese meglio con il termine di sentoreo flavour, proprio della lingua inglese. Il li-bro riporta numerosi esperimenti, attra-verso i quali si è giunti a intuire i proces-si di attribuzione del gusto, oltre all’eleva-to numero di variabili in grado di influen-zare le scelte degli alimenti e le preferen-ze alimentari di ciascuno di noi. Vienesottolineato il ruolo, non certo trascurabi-le, dell’apprendimento nelle scelte ali-mentari, della maggiore o minore familia-rità con certi cibi piuttosto che con altri. Inultimo, viene ribadito quanto oggi l’ani-male umano sia sottoposto a stimoli trop-po complessi e variegati per chiarire qua-le fattore davvero determini le preferenzerispetto a un altro. Se il nostro primitivoantenato poteva operare rapidamente lesue scelte alimentari sulla base di neces-sità, bisogni, avversioni, utili per la so-pravvivenza, il suo moderno erede, “ilconsumatore sapiens” che si aggira per isupermercati, è sottoposto a un’eccessi-va varietà di stimoli, non ultimo quelli eco-nomici, che ne orientano le decisioni.

MARIACRISTINA MIGLIARDI

James S. Grotstein, UN RAGGIO DI INTENSA

OSCURITÀ. L’EREDITÀ DI WILFRED BION, ed.orig. 2007, trad. dall’inglese di Isabella Negri,pp. 401, € 37, Raffaello Cortina, Milano 2010

James Grotstein, analizzando di Bion, ciaiuta ad avvicinarne la complessità attra-verso questo libro completo e ricco. Ricor-da come Bion sapeva “mutare le prospet-tive dei suoi interlocutori, inducendoli apassare dalla certezza all’incertezza, inmodo che essi potessero aprirsi all’emer-gere spontaneo di una risposta latente alloro interno”, rivelando nel contempo il suoprofondo rispetto per l’altro e la propria

personale umiltà.L’ossimoro del titolosi viene, ovviamente,chiarendo nel testo.Se con Freud, infatti,l’analisi si prefiggedi recuperare ricordisepolti, e con Mela-nie Klein prende inconsiderazione ilmondo interno e ladistruttività che osta-cola la capacità diamare, con Bion l’at-tenzione si sposta

dalle pulsioni alle emozioni. L’elaborazio-ne di Grotstein fa venire alla luce diversiaspetti dello psicoanalista britannico: unBion “mistico”, capace di rappresentare lepossibilità illimitate che si stagliano davan-ti a noi; un Bion epistemologo, che recu-pera, nel modo in cui il bambino si rappor-ta alla frustrazione, la possibilità di cresce-re nella verità piuttosto che nel diniego onel pregiudizio; un Bion esploratore e in-trepido viaggiatore psicoanalitico, cheriformula il concetto di identificazioneproiettiva come forma di comunicazioneemotiva normale tra il bambino e la madre;ancora, un Bion teorico della psicosi, chesostiene come gli psicotici non possanopensare o provare sentimenti, per l’intolle-rabilità del dolore emotivo, né sappianodormire, perchè incapaci di separare ilsonno dalla veglia, la coscienza dall’in-conscio. Animato dallo sforzo di conferiredignità scientifica alla psicoanalisi, Bion siè occupato, come nessuno, della ricercadella verità, che per lui significa veritàemotiva, e del suo opposto, la falsità, chesubentra, come un filtro, quando la verità èintollerabile. Infine, Grotstein ricorda l’im-portanza per Bion dell’ambiente nel pro-teggere la salute mentale e influenzare leforme di malattia, sottolineando la respon-sabilità dell’analista nell’orientare l’oscilla-zione tra fantasia e realtà, in vista di tra-sformazioni sempre più mature.

(M.M.)

dicamento scientifico, lasciando entram-bi una gran mole di lavori aperti, miniereper sollecitare le menti di quelli che ven-gono dopo di loro. Questo libro ne è unottimo frutto.

ANNA VIACAVA

DA MENTE A MENTE. INFANT RESEARCH, NEU-

ROSCIENZE E PSICOANALISI, a cura di Elliot L.

Jurist, Arietta Slade e Sharone Bergner, ed.orig, 2010, trad. dall’inglese di Diego Sarraci-no, pp. 437, € 38, Raffaello Cortina, Milano2010

Raccolta di scritti di numerosi influentiautori che fanno il punto sulla relazione tra“infant research”, neuroscienze e psicoa-nalisi nello studio dei processi di menta-lizzazione. Si pone come seguito di Rego-lazione affettiva, mentalizzazione e svilup-po del sé di Peter Fonagy e collaboratori(Raffaello Cortina, 2005), il cui contributoapre anche questo volume.

Gaetano Benedetti, UNA VITA ACCANTO ALLA

SOFFERENZA MENTALE. SEMINARI CLINICO-

TEORICI (1973-1996), a cura di Claudia Bar-tocci, pp. 384, € 39, FrancoAngeli, Milano2010

Questo libro raccoglie i seminari che Be-nedetti, psichiatra e psicoanalista presti-gioso, allievo di Bleuler e docente all’Uni-versità di Basilea, pioniere nella cura dellepatologie psicotiche gravi, tenne a Milanotra il 1973 e il 1996. Attorno a lui e a Johan-nes Cremerius venne a costituirsi la Scuo-la di psicoterapia psicoanalitica di Milano el’Associazione di studi psicoanalitici.

Fausto Petrella, OCCASIONI DI DIALOGO.

QUARANT’ANNI DI PRESENTAZIONI, INTERVI-

STE E RECENSIONI PSICOANALITICHE, pp. 327,€ 25, Antigone, Torino 2010

Raccolta degli scritti che l’autore defini-sce occasionali: recensioni, prefazioni, in-terviste, commenti, prodotti a fianco deimolti lavori scientifici in quarant’anni di at-tività professionale come professore dipsichiatria all’Università di Pavia e comemembro, e per alcuni anni presidente,della Società psicoanalitica italiana.

Mauro Mancia, NARCISISMO. IL PRESENTE

DEFORMATO DALLO SPECCHIO, pp. 120, € 13,Bollati Boringhieri, Torino 2010

Una riedizione postuma del libro sulnarcisismo pubblicato da Laterza nel1990, riscritta da Mancia poco prima del-la morte in alcune parti relative alla me-moria dell’inconscio, all’Edipo come cer-niera tra generazioni, alla società e allacultura dominante. Con un’accurata pre-sentazione di Luigi Longhin.

Luca Casadio, TRA BATESON E BION. ALLE

RADICI DEL PENSIERO RELAZIONALE, pp. 214,€ 22, Antigone, Torino 2010

Wilfred R. Bion, psicoanalista e genialeteorico del funzionamento mentale, eGregory Bateson, antropologo, biologo,epistemologo, fondatore della teoria si-stemica, entrambi vissuti dall’inizio aglianni ottanta del XX secolo, inglesi di ori-gine ma cittadini del mondo, entrambiesploratori di campi eccentrici rispetto aigruppi scientifici di appartenenza, furonotra i primi a individuare la relazione comefondamento della formazione della mentee della sua possibile osservazione. Casa-dio esordisce in questo libro con un den-so capitolo in cui mappa l’arcipelago del-le varie famiglie psicoanalitiche, per poidedicarsi a ciascuno dei due autori, alleloro vite personali e scientifiche, alle lororicerche, di cui fornisce una sintesi dei te-mi principali, per poi passare al cuore delsuo lavoro, in cui confronta concetti epercorsi e rintraccia parentele e differen-ze alla ricerca del comune paradigma re-lazionale. Le interazioni fra gli individui efra i gruppi sono viste come processi diinfluenzamento reciproco in perenne tra-sformazione, l’identità individuale comeprodotto di un sistema dinamico che sievolve e si trasforma. Accomuna i dueautori (Bateson con il suo concetto di pat-tern che connette, Bion con la sua grigliarelazionale che produce pensiero) unpunto di vista insaturo che pone doman-de su cosa è la mente, che confini ha, co-me la si può osservare, come interagiscecon le altre menti; e non accetta rispostebanali, quelle che Bateson, citando Il ma-lato immaginario di Molière, definisce“principi dormitivi”, sonniferi. Il pensieroecologico di Bateson e l’ottica gruppaledi Bion si basano sull’immaginazione, at-tenti a una logica relazionale e emotiva,propria di una scienza delle cose viventi.Per tentare di spiegarlo, l’autore ricorre alconcetto di abduzione di Charles San-ders Peirce, secondo cui la conoscenzaprocede non solo per deduzioni logiche,ma anche per estensioni laterali, confron-tando fenomeni diversi che possono in-contrarsi sotto le stesse regole. È la logi-ca del pensiero emotivo, sensibile a rela-zioni e contesti, capace di creare imma-gini e concetti nuovi a partire dall’espe-rienza, curioso e nomade. I due protago-nisti hanno, ciascuno per la sua strada,senza forse mai incontrarsi, visitato conti-nenti, solcato oceani, visitato culture al-tre, e lo hanno fatto tollerando l’incertez-za, la sofferenza, lo spaesamento; hannolasciato, come direbbe Bion, scalpitare iloro cavalli selvatici forti del loro solido ra-

N. 7/8 43

Sch

ede

- P

sico

logi

a

IMPA 7-8 2010 ok 23-06-2010 10:50 Pagina 43

Page 44: 61191478-10-07-INDICE

Michela Nacci, STORIA CULTURALE DELLA

REPUBBLICA, pp. 149, € 14,50, Bruno Monda-dori, Milano 2009

Per Michela Nacci tentare una storia“culturale” significa fare una storia delleidee che sono state prodotte e degli intel-lettuali che hanno prodotto cultura nonchéuna storia delle istituzioni che hanno resopossibile tale tipo di produzione. L’autriceparte da un assunto che giustifica l’interaoperazione interpretativa messa in atto inquesto acuto saggio storiografico: l’Italiarepubblicana ha visto più che mai centralee cruciale il ruolo dell’intellettuale, in so-stanziale continuità con la fase liberale efascista della nostra storia. Da lì semprepartiamo: fatta l’Italia, occorre fare gli italia-ni. Così si è sempre pensato dagli annisessanta dell’Ottocento e così ancora oggisi pensa tra le fila di un’intellettualità rigoro-samente umanistica, filosofica e letteraria,al più giuridica, secondo un costume an-cor più diffuso nei tempi odierni, ma mai diformazione scientifica, tecnica e pratica.L’ingegnere, se vuole farsi ascoltare dall’o-pinione pubblica, ha da trasformarsi inpensoso filosofo o sociologo, se possibile“neoapocalittico”. Influente più di tutti sulmodo di pensare l’italianità, quella da de-nunciare e quella da costruire, è stato ed èil magistero di Gobetti, nato e segnato dal-l’avvento del fascismo. Fino a tutti gli annisettanta, scrive Nacci, la riflessione sul fa-scismo è il punto di partenza obbligato perpensare l’identità della cultura italiana.Bobbio ha proseguito e alimentato la dia-gnosi del fascismo come autobiografia del-la nazione. Nonostante i contenuti delle ca-tegorie di destra e sinistra si siano erosi esiano divenuti nel tempo più volatili, l’anti-fascismo resta l’unica bussola impegnatanel primo decennio del Duemila. Nacci di-segna uno scenario politico-culturaleodierno più postideologico e rassegnato diquanto in realtà non sia.

DANILO BRESCHI

Paolo Bagnoli, IL SOCIALISMO DI TRISTANO

CODIGNOLA, pp. 313, € 18, Biblion, Milano2010

Tristano Codignola è una di quelle per-sonalità del socialismo italiano che meglione hanno interpretato, con voce critica eproblematica, le inquietudini e i travagli po-litici. A questo scomodo ruolo non era cer-to estraneo il suo passato nel Partito d’a-zione, al quale era approdato dal liberalso-cialismo, sebbene negli anni a venire lesue elaborazioni teoretiche tenessero so-prattutto conto dell’esperienza di Giustiziae Libertà e del pensiero di Carlo Rosselli, ilcui Socialismo liberale sarà il suo vero rife-rimento ideale per ogni analisi della con-

temporaneità. E se c’è un elemento checolpisce nei suoi lunghi saggi, come nellesue più scarne eppure ficcanti lettere, èproprio questa costante convinzione che lacostruzione di una società socialista si do-vesse fondare sui principi e sui metodi del-la democrazia, respingendo “in modo in-transigente – scriverà in un articolo del1980, richiamandosi a Piero Gobetti e Car-lo Rosselli – così l’eguaglianza imposta conl’autorità come la libertà intesa quale privi-legio di classe”. Laparte più interessan-te, e meno nota, èrappresentata dall’e-pistolario, ma anchealcuni scritti qui ripro-posti (quali la relazio-ne sull’andamentodel primo congressodel Partito d’azione egli interventi sullascuola) ci restituisco-no preziosi frammen-ti di storia e una seriedi particolari sui qua-li forse non si è mai abbastanza riflettuto insede storiografica. Con questo libro, Ba-gnoli ci consente di riscoprire, con unapassione civile in disuso, una figura di “ele-vato profilo morale e intellettuale”, alienadalla facile retorica come dai giochi di par-tito e di potere. Del resto, Codignola, comemolti altri azionisti, “non è uomo della poli-tica partitica”, concependo la politica “co-me continua iniziativa, incessante costru-zione organizzativa, infaticabile capacitànello stare (…) sulle idee e sui problemi”.

ROMEO AURELI

Fabrizio Loreto, L’UNITÀ SINDACALE (1968-

1972). CULTURE ORGANIZZATIVE E RIVENDI-

CATIVE A CONFRONTO, pp. 393, € 18, Fonda-zione Di Vittorio-Ediesse, Roma 2009

La parola d’ordine “uniti si vince” era giàcomparsa nel 1962 nelle lotte contrattualidei metalmeccanici, ma è nell’arco dellaperiodizzazione proposta dall’autore chel’unità sindacale parve vicina a realizzarsiin modo organico, in forme stabili e ben ol-tre l’unità d’azione che in altre fasi avevaavvicinato le diverse correnti ideali e orga-nizzative del movimento sindacale italiano.Incubata in un tempo più lungo, è dietro laspinta dell’autunno caldo che la costituzio-ne di un sindacato unitario sembrò a por-tata di mano. Le tappe di quel processosono ripercorse in un’ottica interna al sin-dacato, che ricostruisce le aspirazioni didirigenti e militanti, i tentennamenti di partedi essi e gli ostacoli che non pochi oppo-sero allo scioglimento delle Confederazio-ni. Si trattò di un processo disomogeneo,nel quale realtà territoriali e categorie forti

si spinsero più avanti, mentre gli stati mag-giori confederali operarono a volte comeun freno. Alla fine l’unità sindacale nacquemutilata, nella forma ibrida della Federazio-ne Cgil-Cisl-Uil, realtà in cui il veto incro-ciato degli schieramenti avrebbe paraliz-zato l’azione politica. Se l’unità non si rea-lizzò non fu però solo per l’istinto di con-servazione di apparati burocratici che nonvollero farsi da parte. I principali partiti deltempo mal sopportarono la supplenza sin-

dacale, il costituirsicioè in quella stagio-ne del sindacato co-me soggetto politicoautonomo: la Dc te-mendo che l’unità si-gnificasse l’egemo-nia comunista in se-no al sindacato, ilPci, prossimo a in-camminarsi sulla viadel compromessostorico, storcendo ilnaso davanti a un’u-nità vista come una

sorta di centrosinistra sindacale. Un aspet-to, questo, un po’ ai margini di una rico-struzione per il resto sempre rigorosa.

NINO DE AMICIS

Paolo Andruccioli, IL TESTIMONE. GUIDO

ROSSA, OMICIDIO DI UN SINDACALISTA, pp. 174,€ 20, Ediesse, Roma 2009

Il libro ricostruisce, attraverso il raccon-to dei protagonisti, la vicenda dell’assas-sinio del sindacalista ucciso dalle Br il 24gennaio 1979, divenuta nel tempo para-digma dell’impegno del movimento sinda-cale contro il terrorismo e del clima politi-co in cui era maturato. La morte di Rossa,delegato del consiglio di fabbrica dell’Ital-sider di Genova, segnava un salto di qua-lità nella strategia terrorista: era la primavolta che la violenza prendeva di mira unoperaio, un membro di quella classe innome della quale la delirante propagandabrigatista rivendicava ferimenti, attentati eassassini. La portata nefasta del terrori-smo rosso venne sottovalutata inizialmen-te da alcuni settori del sindacato: si sa-rebbe trattato di un fenomeno di infiltra-zione, le sedicenti Brigate rosse non pote-vano essere tali. Questo primo giudiziovenne corretto e nella seconda parte de-gli anni settanta si acquisì la consapevo-lezza che esso era un movimento autono-mo, il quale, approfittando delle forme diradicalità operaia, puntava a insediarsinelle grandi fabbriche, contendendo alsindacato “revisionista” l’egemonia sulsuo stesso terreno e potendo contare suuna propria base sociale in una piccolafascia di impiegati e tecnici e in una ancor

N. 7/8 44

Sch

ede

- P

olit

ica

ita

lia

na più ristretta di operai. Il salto di qualità

corrisponde nella storia del brigatismo aquella che molti studiosi del terrorismohanno rilevato come una cesura, anche alivello statistico per gravità e tipologia de-gli attentati, tra la direzione di Curcio, dal1969 al 1977 e la “gestione” Moretti, cheva dal 1978 al 1980. Il coraggio civile del-l’operaio comunista Guido Rossa, uccisoperché aveva denunciato alla magistratu-ra un fiancheggiatore delle Br in fabbrica,venne salutato da una folla immensa, oltreduecentocinquantamila persone, che par-teciparono al suo funerale.

(N.D. A.)

Piero Ottone, ITALIA MIA, pp. 189, € 15, Lon-ganesi, Milano 2009

A mezza strada tra resoconto di una vitapassata tra i giornali e diagnosi dei malidella nazione, il libro di Piero Ottone, diret-tore di un’aurea stagione del “Corriere del-la Sera”, individua a più riprese le cause diun declino ogni giorno più preoccupante. Ilprincipale problema dell’Italia sarebbe, asuo dire, la mancanza di una classe diri-gente in grado di pilotare il vascello, concoraggio e d’intesa, per le acque agitate diun mondo sempre meno governabile. E lamalattia oggi ben percepibile non insorgeimprovvisa: è un’eredità storica, un morbodi secolare incubazione. Il lamento perl’assenza di un classe dirigente dotata disenso etico e di autentico disinteresse è illeitmotiv del libello: “Ci sono gli individui divalore. Ma gli individui, per avere succes-so, per affermarsi, per imporre i loro criterie il loro stile, insomma per rendere, devonofare squadra”. Esistono consolanti encla-ves: la Banca d’Italia, la Marina, il ministe-ro degli Esteri: ma sono isole in un arcipe-lago che sgomenta. Ovviamente la replica-ta enunciazione è più l’effetto di una cre-scita patologica che una malattia, rimossala quale le cose andrebbero a posto. MaOttone naviga in superficie, non si adden-tra in anfratti pericolosi, da sondare concura. In questo la sua visione assomiglia aquella di Indro Montanelli e sfocia anch’es-sa nel sogno di un’ipotetica élite. In un pun-to l’autore sfiora il tema e abbozza unospunto classista: “La causa prima della no-stra inferiorità – afferma – è la mancanza diuna valida classe dirigente, nel senso piùlato del termine; una classe di cui l’aristo-crazia è storicamente l’origine, il fonda-mento”. Berlusconi, purtroppo, non deveessere demonizzato come una greve ano-malia. È il capo che incarna in maniera pla-teale, e con un condimento stomachevoledi populismo, i vizi dei parvenu d’assalto.Non ha certo ascendenze aristocraticheda esibire.

(R.B.)

VALDO SPINI, VENT’ANNI DOPO LA BOLOGNINA, pp. 190,€ 14, Rubbettino, Soveria Mannelli 2010

Non vuol essere una sistemazione storica questo paca-to saggio sui vent’anni e più che ci separano dal 12novembre 1989, la fatidica data del discorso pronuncia-to da Occhetto alla Bolognina. Da allora in poi, secon-do Valdo Spini, è stato tutto un succedersi di errori. Inprimo luogo perché la stiracchiata costruzione del Pdsnon imboccò da subito una strada riconducibile senzatroppi distinguo alla socialdemocrazia europea. E poiper un confuso accavallarsi di “impazienze”. La catego-ria dell’“impazienza”, attinente invero più a una sceltadi tempi che di direzione e contenuti, ricorre ossessiva-mente nelle pagine di questo svelto promemoria, a spie-gare i passi falsi di Occhetto, D’Alema, Fassino eVeltroni. Quattro “impazienze”, dunque, ed ecco losconcertante risultato finale.

L’impazienza di Occhetto fu quella di improvvisareuna “gioiosa macchina da guerra”, traballante e ineffi-cace. D’Alema ebbe anche lui eccessiva fretta, nel 1998,di salire a Palazzo Chigi invece di perseverare nell’edi-

ficazione di una “Cosa” dai connotati filosocialisti.Piero Fassino nel 2007 ha condotto “i Ds all’appunta-mento del Partito democratico senza farsi in qualchemodo scudo dell’appartenenza socialista europea”.Infine, Veltroni si sbarazza di Prodi e corre da solo conun partito che dichiara imprudentemente “a vocazionemaggioritaria”. Anche per queste spericolate accelera-zioni, e per rendere più facile la marcia, vengono, aparere di Spini, malamente rivisitate, o alleggerite,tematiche fondanti, quasi fossero zavorra: dall’antifasci-smo alla Costituzione, dalla laicità alla questione mora-le. La stessa malferma struttura del partito è influenza-ta dal populismo in voga e le primarie sono l’appari-scente surrogato di una partecipazione debole e di unconfronto interno asfittico. La segreteria Bersani, daultimo, ha sottolineato anch’essa, al suo esordio, che “ilPd non intende essere un partito socialdemocratico”: senon una quinta impazienza, la prosecuzione su una stes-sa linea di ambiguità. Per “ricomporre l’ampio campo dielettori che ancora può sostenere e giustificare una can-didatura del centrosinistra alla guida del paese” la curache l’autore consiglia è quella di una realistica politica

di alleanze e di una costituente che compia un lavoromai condotto a termine.

Il cahier de doléances tocca molti punti. Alcunimeritevoli di approfondimento. Individuare, però, nellequattro impazienze le ragioni delle difficoltà o delle bat-tute d’arresto è più che riduttivo. L’opinione pubblica –vien subito da controbattere – era armata di santapazienza? Viviamo in tempi favorevoli a elaboratealchimie e defatiganti mediazioni tra correnti? Quantisi sono più preoccupati di inalberare logore identità ohanno difeso aree di rendita con superati ideologisminon hanno peccato di impazienza, ma hanno provocatoritardi e equivoci letali. E circa l’auspicata scelta “socia-lista” non si può dimenticare che, per molti motivi, inItalia non era purtroppo agevole pronunciare la parola.La formula contenuta nella primissima dichiarazione diintenti di Occhetto enunciava un tema che avrebbedovuto avere più ascolto: “È all’ordine del giorno pen-sare al socialismo come processo di democratizzazioneintegrale della società, pensare alla democrazia comevia al socialismo”.

ROBERTO BARZANTI

IMPA 7-8 2010 ok 23-06-2010 10:50 Pagina 44

Page 45: 61191478-10-07-INDICE

Ugo Grozio, IL DIRITTO DELLA GUERRA E

DELLA PACE. PROLEGOMENI E LIBRO PRIMO, acura di Fausto Arici e Franco Todescan, introd.di Guido Fassò, pp. XLVI-210, € 25, Cedam,Padova 2010

L’opera di Grozio si può leggere anzi-tutto calandola nel suo tempo. In questaprospettiva essa appare come uno sforzointellettuale per rispondere alla sfide chele società europee dovevano affrontare inquella fase. Nell’epoca dell’espansionecoloniale e delle compagnie commercialioccorreva riflettere sulla navigabilità deimari; nel periodo in cui si veniva fissandoun sistema degli stati, era necessario tro-vare regole sicure per la pace e per laguerra, indicando delle norme di compor-tamento. Tuttavia, il tentativo di sistema-tizzare giuridicamente i rapporti economi-ci e di potenza non esaurisce il senso del-la sua riflessione, che presenta anche unaltro profilo. Questo si può riassumerenell’esigenza di fondare un ordine politicosu alcuni principi intrinseci di equità. Perintenderlo basterà soffermarsi su un pun-to particolare. La famosa affermazione(contenuta nei Prolegomeni) relativa allavalidità dei principi del diritto naturale an-che se Dio non esistesse non è il prodro-mo di un soggettivismo senza limiti supe-riori, ma un appello appassionato alla ra-gione per orientarla in modo confacente aquelle istanze di giusti-zia che sono il caratte-re distintivo degli esse-ri umani. Grozio ci ri-corda, in definitiva, chelo ius non può ridursi aun comando imperso-nale, o una proceduradefinita, ma deve esse-re anche iustum. Il pri-mo volume di questanuova traduzione deltrattato sulla pace e laguerra è corredato daun apparato di noteche consente non soloriscontri sicuri alle fonticlassiche richiamate nel testo, ma ancheutili rimandi alla letteratura sull’argomento.Come introduzione si ristampa un saggiodi Fassò che, nonostante risalga a parec-chi decenni fa, costituisce ancora un’es-senziale introduzione al pensiero grozia-no.

MAURIZIO GRIFFO

Josef Dietzgen, L’ESSENZA DEL LAVORO MEN-

TALE UMANO E ALTRI SCRITTI, a cura di PaoloSensini, trad. dal tedesco di Valerio Consonni,pp. 200, € 14, Mimesis, Milano-Udine 2010

Tra i principali esponenti del movimen-to operaio ottocentesco, Dietzgen (1828-1886), renano di origine e conciatore diprofessione, rappresenta una figura permolti aspetti anomala, rimasta sinora mi-sconosciuta, se si esclude la fortuna chele sue opere riscossero nella Ddr. Segna-to da un vistoso senso di inquietudine(che nel 1849 lo spinse a emigrare negliStati Uniti, nel 1851 a tornare in patria, nel1864 a trasferirsi a San Pietroburgo, nel1869 a tornare ancora in Germania e nel1884 a trasferirsi definitivamente negliStati Uniti), Dietzgen militò tra le fila delnascente movimento dei lavoratori e, do-po la lettura del Manifesto e del Capitale,sviluppò un intenso rapporto di collabora-zione con Marx ed Engels, con il precisointento di giungere alla formulazione diun’originale teoria della conoscenza che,partendo dal confronto con Kant, Feuer-bach ed Hegel, rendesse possibile il su-peramento dell’idealismo speculativo edel materialismo meccanicista. I due testiqui raccolti, L’essenza del lavoro mentaleumano del 1869, in realtà già tradotto initaliano da Colletti nel 1953, e L’acquisi-zione della filosofia, pubblicato postumonel 1895, rappresentano due momenti

cruciali della riflessione di Dietzgen suiprocessi di formazione della conoscenza,sulla concezione della verità e infine sullacritica della cosiddetta “cosa in sé”. Nelcaso specifico di questa edizione (cheavrebbe dovuto essere “critica”) suscitatuttavia forti perplessità la grossolana su-perficialità delle pagine introduttive, in cuimanca completamente un inquadramentoapprofondito del pensiero di un autore,che, a prescindere dalle effettive possibi-lità di una sua rilettura in chiave attuale, fupur sempre salutato da Marx come il “filo-sofo del socialismo”.

FEDERICO TROCINI

Emile Durkheim, IL DUALISMO DELLA NATU-

RA UMANA E LE SUE CONDIZIONI SOCIALI, a cu-ra di Giovanni Paoletti, pp. 83, € 10, ETS, Pi-sa 2010

Questo intenso testo di Durkheim fudiscusso presso la Société française dephilosophie e poi pubblicato, con qualchelieve variazione, nel 1914, sulle pagine di“Scientia”, la rivista di Eugenio Rignano.Dialogando idealmente con Pascal, Plato-ne e Kant, il noto sociologo francese met-te qui in relazione il tema tradizionale deldualismo della natura umana – si pensi al-le celebri antinomie tra anima e corpo, tra

ragione e sensibilità,tra personale e imper-sonale, tra sacro e pro-fano – con quello delrapporto tra singolo in-dividuo e società. Co-me sinteticamente anti-cipato da Paoletti nellasua brillante introduzio-ne, mettendo a fuoco iconcetti di duplicità edi dualità, Durkheimsvolge una riflessionearticolata in tre diversidiversi momenti, rispet-tivamente dedicati alladuplicità/dualità umana

come “credenza”, come “fatto” e infine co-me “effetto” delle condizioni sociali. Criti-cando ogni variante, empirista e idealista,del monismo, e postulando la “dualità co-stitutiva della natura umana”, il sociologofrancese constata l’esistenza di un anta-gonismo irreversibile tra i diversi centri digravità che governano la vita interiore del-l’uomo, sicché il prevalere di uno compor-ta sempre il sacrificio dell’altro e quindiuna condizione permanente di lacerazio-ne, destinata talora a degenerare in formepatologiche. Le antinomie che costituisco-no la natura umana si traducono dunque,sul piano sociale, nella contraddizione tral’impulso che spinge all’individualità equello invece che, sotto l’effetto degli“ideali collettivi”, spinge alla socialità: ed èdel tutto inverosimile, secondo Durkheim,immaginare una condizione futura in cuil’uomo possa ritenersi dispensato dal resi-stere a se stesso, perché tale contraddi-zione si accrescerà di pari passo con ilprogredire della civiltà.

(F.T.)

Hans J. Morgenthau, IL CONCETTO DEL POLI-

TICO. «CONTRA» SCHMITT, a cura di Alessan-dro Campi e Luigi Cimmino, pp. CXVIII-200,€ 16, Rubbettino, Soveria Mannelli (Cz) 2010

Negli ultimi decenni, sull’onda dellabreve memoria autobiografica che lostesso Morgenthau pubblicò nel 1977 edella brillante biografia intellettuale firma-ta da Christoph Frei nel 1993, gli studiosihanno cominciato a guardare all’autore diPolitics amongs Nations a partire da pro-spettive via via meno scontate. In partico-lare, rispetto al Morgenthau “americano”,padre del realismo politico, gli studi piùrecenti si sono soffermati soprattutto sulMorgenthau “tedesco”, ossia su quella fa-

Giorgio Israel in merito a un articolo ap-parso sul “Corriere della sera” che infor-mava del divieto impartito nel 1946 dalSanto Uffizio ai cattolici di restituire allefamiglie di origine i bambini ebrei cheerano stati ospitati presso organizzazionicattoliche. Bersellini si inserisce nel di-battito proponendo alcuni spunti di rifles-sione e aprendo una serie di interrogati-vi sulla questione ebraica in generale esui suoi temi specifici in particolare: inte-grazione e separazione, identità e assi-milazione, distinzione tra il sentimentonazionale e quello religioso, laicità dellostato e tutela della sfera religiosa, dog-matismo e relativismo etico. Per discute-re di queste tematiche Bersellini dà vocea pensatori di cui condivide le posizioni,primo fra tutti Piero Martinetti, uno deidodici docenti universitari italiani che nel1931 rifiutarono il giuramento di fedeltà edi sottomissione al regime fascista, e inparticolar modo dà voce a un breve sag-gio scritto dal filosofo canavesano, rima-sto incompiuto, pubblicato integralmentein questo volume e intitolato L’ebraismo.A questo punto l’analisi filosofica, che findall’inizio, più o meno velatamente, haaccompagnato l’indagine storica, pren-de vigore e si concentra su quello chediventa il trait d’union dell’intero studio:la ragione umana, di cui Bersellini offreun’immagine che si rifà volontariamentea quella kantiana, “la facoltà, critica efantastica insieme, di intuire e ordinare larealtà in concetti e sintesi ideali semprepiù ampie, fino a raggiungere quell’unitàe coerenza di pensiero che rappresenta-no lo sforzo e la creazione più alti del no-stro spirito” e che costituiscono la “viamaestra alla soluzione del male” che staalla base dei conflitti che segnano la sto-ria umana.

ELENA FALLO

GLI ISMI DELLA POLITICA. 52 VOCI PER ASCOL-

TARE IL PRESENTE, a cura di Angelo d’Orsi,pp. 499, € 28, Viella, Roma 2010

In questo volume, curato da Angelod’Orsi insieme a Francesca Chiarotto, ungruppo di docenti e ricercatori, in largaparte attivi presso l’Università di Torino,analizza 52 -ismi della politica, dal nazio-nalismo all’utopismo, dall’azionismo altrasformismo. Viene così a configurarsiun’utile minienciclopedia del pensieropolitico, che chiama in causa anche itentativi di applicazione, nella storia, del-le varie teorie. Ciò comporta, negli auto-ri, una forte attenzione verso l’evoluzionedelle forme istituzionali. Alcuni -ismi sonoinfatti stati al centro del recente dibattitopubblico, come quando le critiche all’o-perato di Washington nei confronti dell’I-raq furono tacciate di antiamericanismo(Vaudagna nota che in realtà lo spaziooccupato dal vero antiamericanismo èda sempre circoscritto, né dovrebbe ri-guardare la dimensione della critica al-l’operato di un governo; la stessa cosa sipotrebbe dire delle forzature nell’identifi-care critiche al governo di Israele e anti-semitismo); negli ultimi anni, necessariamoneta comune per tutti gli schieramen-ti è poi stato il riformismo, un -ismo sem-preverde, la cui attuale impasse in sededi concretizzazione legislativa è, per Lu-ca Briatore, da ricondurre alle diffuse dif-ficoltà nello strutturare progetti di lungagittata. L’evoluzione della società e del-l’economia da un lato, le strumentalizza-zioni frutto dello scontro politico dall’altropongono anche altri problemi alla disa-mina: talora, come nell’ecomarxismo del-l’americano O’Connor, due -ismi si fon-dono, mentre altre volte, e lo si può nota-re nella trattazione dell’islamismo, affida-ta a Renzo Guolo, va operata una distin-zione fra più -ismi da alcuni, invece, in-debitamente accostati (in questo caso,fra totalitarismo e islamismo).

DANIELE ROCCA

se giovanile della sua attività di studioso,compresa all’incirca tra 1929 e 1937, du-rante la quale, oltre a tre monografie e anumerosi saggi, l’autore scrisse anche unnumero imprecisato di testi sinora rimastiignoti e tuttavia estremamente rilevanti.Con il proposito di contribuire sia allacomprensione dei rapporti strutturali esi-stenti tra la fase giovanile e quella maturadella sua produzione intellettuale, sia allosvelamento della trama più profonda del-la sua riflessione politica (si pensi anzitut-to ai debiti culturali contratti nei confrontidi autori come Friedrich Nietzsche, FranzOppenheimer e Hugo Sinzheimer), i duecuratori di questo interessante volumehanno perciò raccolto e tradotto tre testiinediti – L’origine del politico a partire dal-la natura umana (1930), Alcune conside-razioni logiche sul concetto di politico diCarl Schmitt (1932) e Sul senso dellascienza nella nostra epoca e la missionedell’essere umano (1934) – in cui Mor-genthau, entrando in polemica serratacon Carl Schmitt, elaborò un’originaleconcezione del “politico”, che, fondata supresupposti psico-sociologici, sarebbestata destinata a ritrovarsi, sia pure in ma-niera non apertamente dichiarata, sia nel-la seconda versione di Der Begriff des Po-litischen (1932) di Schmitt, sia nei suoiscritti del dopoguerra.

(F.T.)

Michele Maggi, LA FILOSOFIA DELLA RIVOLU-

ZIONE. GRAMSCI, LA CULTURA E LA GUERRA

EUROPEA, pp. 243, € 28, Storia e Letteratura,Roma 2009

Con il disfacimento del blocco comuni-sta e la fine della stessa Unione Sovieticail pensiero di Gramsci può essere rilettosvincolandolo totalmente dal campo in ri-ferimento al quale era stato misurato ostudiato, magari per esaltarne antiveg-genza ed eterodossia. Maggi in questa ri-cerca si preoccupa che di Gramsci non siperda, comunque, una visione d’insieme:“Sgombrare la strada dai detriti dell’usopolitico degli scritti di Gramsci non signifi-ca però dimenticare le finalità di tutta lasua elaborazione, separandola dalle ten-sioni pratiche che l’hanno attraversata eche a sua volta ha contribuito a convo-gliare”. Più che procedere alla ricerca difonti, conviene immergere Gramsci nelcontesto delle correnti culturali europee, apartire dall’“idealismo militante” del primoNovecento italiano. I tentativi di addome-sticarlo annettendolo a una visione demo-cratico-pluralistica urtano contro il mas-siccio scoglio del partito-stato, fulcro del-l’intero suo sistema. E nel soggetto storicocollettivo incaricato di dare un’etica uni-versale a un eroico gruppo dirigente siproiettano istanze utopiche in contrastocon gli svolgimenti reali. “La tensione traidealismo e realismo attraversa tutta la ri-flessione dei Quaderni”. Sicché resta in-negabile l’ambiguità di questo eccelso or-ganismo, estraneo alla complessità delledinamiche dello stato moderno. Da un talpunto di vista la posizione di Gramsci ac-quista una tragicità che sconsiglia ridutti-vismi di maniera. Il suo partito “non ha piùniente di comune con gli attori plurimi delconflitto politico, non ha più nulla a che fa-re con il confronto di poteri particolari, maè il legislatore originario, demiurgo di unainstaurazione totale”. Così la tensione uto-pica finiva per colludere con una stretta edura ideologia.

ROBERTO BARZANTI

Guido Bersellini, APPUNTI SULLA QUESTIONE

EBRAICA. DA NELLO ROSSELLI A PIERO MAR-

TINETTI, pp. 142, € 18, FrancoAngeli, Milano2010

L’occasione, da cui prende avvio il li-bro, è offerta da una notazione fatta da

N. 7/8 45

Sch

ede

- T

eori

a p

olit

ica

IMPA 7-8 2010 ok 23-06-2010 10:50 Pagina 45

Page 46: 61191478-10-07-INDICE

Irène Cohen-Janca, L’ALBERO DI ANNE, ill. diMaurizio Quarello, ed. orig. 2009, trad. dalfrancese di Paolo Cesari, pp. 32, € 14, Orec-chio Acerbo, Roma 2010

Si potrebbe pensare che della storia diAnne Frank si sia detto e narrato tutto ilpossibile, in tutte le possibili variabili emodalità espressive: diario, testimonian-za, romanzo, fumetto, graphic novel, film,documentario, pièce teatrale. L’albo diJanca-Cohen e Quarello, però, ci dice e cimostra che la stessa storia può esserenarrata di nuovo con forza poetica e di ve-rità, basta cambiare ancora una volta –sapendolo fare – lo sguardo di chi rac-conta con parole e disegni. Qui a raccon-tare è l’ippocastano che vive nel giardinoal numero 263 di Prisengracht ad Amster-dam. Dove ha visto una bambina tredi-cenne con una stella gialla sull’impermea-bile rinchiudersi con la famiglia in una sof-fitta il 6 luglio 1942. Poi cambia lo sguar-do, ora è quello di Anne, che l’albero im-magina lo contempli di nascosto mentrescrive il suo diario. Finché il 4 agosto 1944una delazione porta all’arresto e all’avviofatale nel campo di Bergen-Belsen doveAnne morirà di tifo, stenti e disperazione.Ora, dopo centocinquant’anni, anche l’al-bero è vecchio, malato, sta morendo, mada un piccolo ramo piantato nel posto la-sciato vuoto nascerà ungermoglio. Come daldiario e dal ricordo diAnne continuerà a so-pravvivere la speranzache comunque bisognadare al piccolo lettore,al quale non è mai trop-po presto per racconta-re o leggere la verità ele durezze della Storia,anche le più nefande.Quadrello disegna condelicatezza e pari inten-sità artistico-narrativa,con toni virati che varia-no dal grigio al bruno almarrone al rossiccio, labellezza e l’imponenza dell’albero, la re-clusione, la guerra, la deportazione, l’or-rore finale. Nell’ultima tavola un bimbo incalzoncini corti innaffia il nuovo arboscel-lo verde. Da sei anni.

FERNANDO ROTONDO

Eitaro Oshima, LA TIGRE E IL GATTO, ed.orig. 2009, trad. dal giapponese di Su Kimura,pp. 36, € 13,50, Babalibri, Milano 2010

In Cina vivono molte specie di tigri egatti, tutti appartenenti alla famiglia dei fe-lini, che sanno arrampicarsi sugli alberi,come il leopardo e il leone, ma la tigre no.Come mai? Forse all’origine c’è una certainimicizia, che viene spiegata da questaleggenda popolare cinese riscritta e illu-strata dal giapponese Eitaro Oshima. Unavolta la tigre era un animale stupido chenon sapeva nemmeno cacciare, e perquesto veniva preso in giro, all’oppostodel gatto, che era più piccolo ma veloce eabile, così da catturare molte prede. Pre-gato a lungo, il gatto decise di insegnarealla tigre: ad avvicinarsi silenziosamenteappiattendosi nell’erba, a correre rapidacome se il corpo fosse una molla, a salta-re dall’alto. Imparata l’arte, la tigre volleanche sapere “che sapore ha il gatto” eprese a inseguirlo finché, quando era pro-prio lì lì per prenderlo, il gatto spiccò unsalto su un albero: “Accidenti Messer Ti-gre, mi sono completamente dimenticatod’insegnarti un’ultima cosa: Come arram-picarsi sugli alberi”. E qui le tavole, finoradisposte orizzontalmente a doppia pagi-na, si rovesciano verticalmente, sopra ilgatto trionfante e sotto la tigre scornac-chiata. Da noi un vecchio proverbio dice-va che il diavolo insegna a fare le pentolema non i coperchi. Da allora data l’avver-sione fra i due: la tigre non è capace di ar-

rampicarsi e continua ad aggirarsi nelleforeste alla ricerca del gatto, mentre que-sto preferisce vivere nelle case degliumani, come lo si vede nell’ultima paginaaccucciato comodo e sicuro su una se-dia. Oshima disegna con la perizia dell’e-sperto ornitologo e appassionato animali-sta i movimenti plasticamente fluidi e leespressioni vagamente umane dei felini(non antropomorfizzati, però), i loro senti-menti di attesa, sorpresa, sbigottimento,paura, soddisfazione, con colori caldi epastosi. Da quattro anni.

(F.R.)

Brian Wildsmith, PABLO E IL CACCIATORE,ed. orig. 1979, trad. dall’inglese di Pico Floridi,pp. 32, € 13,50, Il Castoro, Milano 2010

Continua il meritorio recupero da partedel Castoro delle opere di Wildsmith, tra imaggiori illustratori di libri per bambini nelmondo (in Giappone c’è un museo dellesue opere). Questa è una delicata favolet-ta animalista, immersa in una tripudiantefesta di colori, forme e figure in movimen-to, in cui un cane, addestrato con il giocodel bastoncino, quando deve riportareun’anatra ferita ne ha compassione, la na-sconde su un’isoletta nel canneto, portan-

do indietro un rametto, edi nascosto va a curarlae sfamarla; così farà conaltre anatre. Finché ilcacciatore si insospetti-sce, segue Pablo e…“Quando ero piccolo –dice l’autore – avevamoun cane cieco che veni-va curato dal cane delvicino. Così ho imparatoche gli animali provanocompassione per i lorosimili”. Pure chi scriveha cura del proprio gat-to cieco: talora anche gliumani provano compas-sione per gli esseri vi-

venti non umani. Persino i cacciatori, tal-volta. Fra gli altri albi pubblicati dall’editri-ce in occasione della Fiera del libro perragazzi di Bologna spicca Pina la moscadell’argentino Gusti, non un’ennesimastanca storia di caccia, ma tanto gusto eumorismo con una grande sorpresa fina-le, grazie anche a un sapiente e misuratoequilibrio di linee e colori. Pico Floridi, edi-tor e collaboratrice di “Repubblica”, è an-cora traduttrice di Non aprire quella porta!di Michaela Muntean e Pascal Lemaitre,incontinente ed esilarante esternazione diun maialino scrittore continuamente inter-rotto nel lavoro contro un lettore impiccio-ne e portatore di disordine tra lettere e pa-role, nonché autrice, con l’illustratriceAmelia Gatacre, di Quante famiglie!, pic-colo saggio visivo e bonario sulla famigliatradizionale nucleare, ma anche su quellaallargata, monogenitoriale, multietnica emulticulturale, adottiva e affidataria, persi-no tra due gay con bambino adottato. Daquattro anni.

(F.R.)

Lucia Panzieri, UN LEONE E DUE BICI, ill. diFrancesca Chessa, pp. 48, € 14,50, Lapis, Ro-ma 2010

Lucia Panzieri è espressione perfettadella casa editrice con la quale pubblicapiù spesso: ha iniziato a scrivere relativa-mente da poco (e Lapis festeggia in questigiorni i suoi primi dieci anni di attività) e rie-sce a raccontare storie sempre diverse esempre in equilibrio tra leggerezza eprofondità (e Lapis ha un catalogo estre-mamente variegato e di sempre maggiorequalità e interesse). Questo suo ultimo albo– illustrato da Francesca Chessa, torinesecon una bibliografia di tutto rispetto spar-pagliata in giro per il mondo – racconta la

bellezza dell’avere fratelli e sorelle, cosanon banale in quest’Italia di figli unici. Ilpunto di vista è quello di un terzogenito,ovvero (come scopriamo dalla dedica),quello dell’autrice stessa: ruolo privilegiatoperché tutto è perdonato al più piccolo, masoprattutto perché tenuto al riparo, protettoe scaldato dalla presenza degli altri due.Panzieri continua il suo discorso di famigliebelle e allegre, di parole piccine e grandiaffetti: per limitarci ai soli libri pubblicati daLapis, aveva incominciato nel 2006 rac-contando con abile e non scontato equili-brio l’arrivo di un fratellino (Fratellino Zuc-cavuota) e con altrettanta grazia una storiain cui tutti sono diversi e tutti uguali di fron-te al sonno (I bambini della nanna, subitoentrato nel “paniere” di Nati per leggere); el’anno successivo aveva proseguito par-lando della solidità tranquilla di una madre,protezione e forza per i suoi figli (Unamamma albero). I suoi libri piacciono mol-to ai bambini e alle bambine, anche permerito dei suoi illustratori, scelti con cura eintelligenza dalla casa editrice; autrice, illu-stratori, ruolo della casa editrice: un esem-pio felice di qualità italiana, da segnalare.Da 3 anni.

SARA MARCONI

Nick Place, MISSIONE BANANA, ill. di GiorgiaAtzeni, ed. orig. 2003, trad. dall’inglese di Mi-chele Piumini, pp. 224, € 8,50, Salani, Milano2010

Nick Place è un ragazzone australianosportivo e amante della street art che scri-ve cose come “era esattamente uguale auna donna terrestre, a parte le cinquegambe, le quattro braccia e i tentacoli” e“c’era un piccolissimo porcellino d’Indiamunito di armatura a punte ed elmo d’ar-gento con una gigantesca piuma blu; trale zampe brandiva un enorme martello adue teste, almeno dodici volte più grandedi lui”. Questo suo primo libro per ragazzi(in Australia ne sono già usciti altri tre) erastato annunciato da Salani con il titolo di“Un desiderio supermegagalattico”: e daun desiderio eccezionalmente grandeprende infatti l’avvio la missione dei fratel-li Banana, che dovranno vedersela con unmondo in equilibrio tra la realtà e il surrea-le per riuscire a far tornare il buon umoreal loro malinconicissimo padre. La masto-dontica anatra Quack Quack Bric-à-Brac,il cavallino marziano Jingle Bells alle Sey-chelles, il terribile Cioccoleone, StazioneSpaziale Zucchinì e i suoi parenti rimaioli,il Caffè Occhio Stellante e i frullati di coc-cinella, e poi alieni che guidano malissi-mo, supereroi con sigla incorporata, unbambino di otto anni che muove le stelle egoverna il tempo insieme a tre gatti risso-si, un orango segretario, due principessedei sogni e vari altri personaggi dello stes-so tenore popolano questo buffo romanzoche riesce a parlare anche di genitori se-parati e nuove famiglie. Stufi di non trova-re niente in frigo a casa del padre, ma so-prattutto di vedere lui sempre più triste,Harlan e Ainsley Banana studiano il mododi procurarsi una vice mamma (quella ve-ra abita a pochi passi, gode di ottima sa-lute e intrattiene civili e affettuosi rapporticon l’ex coniuge, ma ha ormai un nuovo, eperaltro simpatico, fidanzato). Cosa nonfacile, dato che “non si comprano”, a dif-ferenza di quello che pensa la piccola Ain-sley. Per fortuna entra in azione una pic-cola creatura volante (una frungola, sortadi fatina dei soffioni) che – stupita del fattodi non vedersi richiedere l’ennesimo ponye neanche “l’ultimo gadget di Harry Pottero una montagna di cioccolato” – decide diesaudire il desiderio, al termine di una se-rie di avventure pericolosissime. Il libro èdivertente, il traduttore decisamente abilee l’idea che sia meglio avere genitori con-tenti sotto tetti diversi (piuttosto che nonscontenti e litigiosi sotto lo stesso tetto) as-solutamente condivisibile. Dagli otto anni.

(S.M.)

N. 7/8 46

Sch

ede

- In

fan

zia DIREZIONE

Mimmo Cándito (direttore)[email protected] Bertini (vicedirettore)Aldo Fasolo (vicedirettore)

REDAZIONE

Monica [email protected],Daniela [email protected],Elide La [email protected],Tiziana Magone [email protected], Giuliana [email protected],Camilla [email protected]

COMITATO EDITORIALE

Enrico Alleva, Arnaldo Bagnasco, AndreaBajani, Elisabetta Bartuli, Gian Luigi Beccaria,Cristina Bianchetti, Bruno Bongiovanni, GuidoBonino, Giovanni Borgognone, Eliana Bou-chard, Loris Campetti, Andrea Casalegno, En-rico Castelnuovo, Guido Castelnuovo, AlbertoCavaglion, Mario Cedrini, Anna Chiarloni,Sergio Chiarloni, Marina Colonna, AlbertoConte, Sara Cortellazzo, Piero Cresto-Dina,Lidia De Federicis, Piero de Gennaro, Giusep-pe Dematteis, Tana de Zulueta, Michela diMacco, Giovanni Filoramo, Delia Frigessi, An-na Elisabetta Galeotti, Gian Franco Gianotti,Claudio Gorlier, Davide Lovisolo, Giorgio Luz-zi, Danilo Manera, Diego Marconi, FrancoMarenco, Walter Meliga, Gian Giacomo Migo-ne, Anna Nadotti, Alberto Papuzzi, FrancoPezzini, Cesare Pianciola, Telmo Pievani, Pier-luigi Politi, Nicola Prinetti, Luca Rastello, Tul-lio Regge, Marco Revelli, Alberto Rizzuti,Gianni Rondolino, Franco Rositi, Lino Sau,Domenico Scarpa, Rocco Sciarrone, GiuseppeSergi, Stefania Stafutti, Ferdinando Taviani,Mario Tozzi, Gian Luigi Vaccarino, MassimoVallerani, Maurizio Vaudagna, Anna Viacava,Paolo Vineis, Gustavo ZagrebelskySITO

www.lindiceonline.coma cura di Carola Casagrandee Federico [email protected]

EDITRICE

L’Indice ScarlRegistrazione Tribunale di Roma n. 369 del17/10/1984PRESIDENTE

Gian Giacomo MigoneCONSIGLIERE

Gian Luigi VaccarinoCOMITATO DI GESTIONE

Federico Feroldi, Daniela Innocenti,Gian Giacomo Migone, Stefano SchwarzDIRETTORE RESPONSABILE

Sara CortellazzoREDAZIONE

via Madama Cristina 16,10125 Torinotel. 011-6693934, fax 6699082UFFICIO ABBONAMENTI

tel. 011-6689823 (orario 9-13)[email protected] PUBBLICITÀ

Stefano Schwarz - 338/[email protected]À CASE EDITRICI

Argentovivo srl, via De Sanctis 33/35, 20141Milanotel. 02-89515424, fax 89515565www.argentovivo.itargentovivo@argentovivo.itDISTRIBUZIONE

So.Di.P., di Angelo Patuzzi, via Bettola 18,20092 Cinisello (Mi)tel. 02-660301Joo Distribuzione, via Argelati 35, 20143Milanotel. 02-8375671VIDEOIMPAGINAZIONE GRAFICA

la fotocomposizione,via San Pio V 15, 10125 TorinoSTAMPA

Medigraf S.p.A. - Stab. di Roma - So.Gra.Ro.(via Pettinengo 39, 00159 Roma) il 26 giugno2010RITRATTI

Tullio PericoliDISEGNI

Franco MatticchioL’Indice usps # (008-884) is publishedmonthly for € 100 by L’Indice Scarl, ViaMadama Cristina 16, 10125 Torino, Italy. Distributed in the US by: Speedimpex USA,Inc. 35-02 48th Avenue – Long Island City,NY 11101-2421. Periodicals postage paidat LIC, NY 11101-2421. Postmaster: send address changes to:L’indice S.p.a. c/o Speedimpex –35-02 48thAvenue – Long Island City, NY 11101-2421

IMPA 7-8 2010 ok 23-06-2010 10:51 Pagina 46

Page 47: 61191478-10-07-INDICE

N. 7/8 47

Tutti i titoli di questo numerOALAIN-FOURNIER - Miracoli - Medusa - p. 41

ALMOND, DAVID - Argilla - Salani - p. 40ANDRUCCIOLI, PAOLO - Il testimone. Guido Rossa, omici-dio di un sindacalista - Ediesse - p. 44ARTICO, DAVIDE / MANTELLI, BRUNELLO (A CURA DI) - DaVersailles a Monaco - Utet - p. 28

B., DAVID - Il grande male - Coconino Press - Fandan-go Libri - p. 42

BAGNOLI, PAOLO - Il socialismo di Tristano Codignola -Biblion - p. 44BERSELLINI, GUIDO - Appunti sulla questione ebraica -FrancoAngeli - p. 45BLUTCH - Il piccolo Christian - Rizzoli-Lizard - p. 42BOLDRINI, LAURA - Tutti indietro - Rizzoli - p. 31BRUNAZZO, MARCO – Come funziona l’Unione europea –Laterza – p. 9BUCCHI, MASSIMIANO - Scientisti e antiscientisti - il Mu-lino - p. 16BUCHWALD, CHRISTOPH / WAGENBACH, KLAUS (A CURA

DI) - 100 poesie dalla DDR - Isbn - p. 20BUEMI, MARCO - Sudafrica in bianco e nero - Infinito - p. 25

CAMPOPIANO, MICHELE / GORI, LUCA / MARTINICO,GIUSEPPE / STRADELLA, ELETTRA (A CURA DI)– Dia-

loghi con il presidente - Edizione della Normale – p. 9CANGELOSI, ROCCO ANTONIO – Il ventennio costituziona-le dell’Unione Europea – Marsilio – p. 9CANTELMI, TONINO / TORO, MARIA BEATRICE / TALLI,MASSIMO - Avatar - Magi - p. 17CARMINATI, CHIARA / MULAZZANI, SIMONA / PEZZETTA,GIOVANNA - Rime per le mani - Panini - p. 41CASADIO, LUCA - Tra Bateson e Bion - Antigone - p. 43CATALUCCIO, FRANCESCO M. - Vado a vedere se di là èmeglio - Sellerio - p. 39CEPPA, LEONARDO - Il diritto della modernità - Trauben -p. 32CHADWICK, PAUL - L’umano dilemma - Comma 22 - p. 42COHEN-JANCA, IRÈNE - L’albero di Anne - Orecchio Acer-bo - p. 46COLOMBO, ARTURO – Voci e volti dell’Europa – Fran-coAngeli – p. 9CORBETTA, STEFANO / DELLA BELLA, ANGELA / GATTA,GIAN LUIGI (A CURA DI) - Sistema personale e “sicurezzapubblica” - Ipsoa - p. 8CORDERO, FRANCO - Il brodo delle undici - Bollati Borin-ghieri - p. 30

DAWKINS, RICHARD - Il più grande spettacolo dellaterra - Mondadori - p. 16

DE CHIRICO, GIORGIO - Scritti. Vol. 1 - 1911-1945 - Bom-piani - p. 10DE SIGNORIBUS, EVELINA - Pronuncia d’inverno - Canali-ni e Santoni - p. 20DEVIDAYAL, NAMITA - La stanza della musica - Neri Poz-za - p. 25DI NUCCI, LORETO - Lo Stato-partito del fascismo - il Mu-lino - p. 29DICK, PHILIP K. - Tutti i racconti. 1964-1981 - Fanucci -p. 40DIETZGEN, JOSEF - L’essenza del lavoro mentale umano ealtri scritti - Mimesis - p. 45D’ORSI, ANGELO (A CURA DI) - Gli ismi della politica -Viella - p. 45DURKHEIM, EMILE - Il dualismo della natura umana e lesue condizioni sociali - ETS - p. 45

FABBRI, FABIO - Le origini della guerra civile - Utet -p. 28

FACCENDA, EMANUELE - I carabinieri tra storia e mito -Comitato di Torino dell’Istituto per la storia del Risorgi-mento italiano-Carocci - p. 28FAGIOLO, SILVIO – L’idea dell’Europa nelle relazioni in-ternazionali- FrancoAngeli – p. 9FERRO, ANTONIO - Tormenti di anime - Raffaello Cortina -p. 43FODOR, JERRY / PIATTELLI PALMARINI, MASSIMO - Gli er-rori di Darwin - Feltrinelli - p. 16FOER, JONATHAN SAFRAN- Se niente importa - GUANDA -P. 14FONDAZIONE ZOÉ (A CURA DI) - La comunicazione dellasalute - Raffaello Cortina - p. 41

FRANCHINI, ANTONIO - Signore delle lacrime - Marsilio -p. 19FREEMAN, JOHN - La tirannia dell’e-mail - Codice -p. 17

GENTILCORE, DAVID - La purpurea meraviglia - Gar-zanti - p. 26

GRAZIOSI, ANDREA - L’università per tutti. Riforme e cri-si del sistema universitario italiano - il Mulino - p. 7GRILLI, ANTONIO – Le origini del diritto dell’Unione eu-ropea – il Mulino – p. 9GROTSTEIN, JAMES S. - Un raggio di intensa oscurità -Raffaello Cortina - p. 43GROZIO, UGO - Il diritto della guerra e della pace - Ce-dam - p. 45GUALTIERI, ROBERTO / RHI-SAUSI (A CURA DI) – L’Europae la Russia a vent’anni dall’89 - il Mulino – p. 9GUIBERT, EMMANUEL / LEFÈVRE, DIDIER / LEMERCIER,FRÉDÉRIC - Il fotografo - Coconino Press - Fandango Li-bri - p. 42

HABERMAS, JÜRGEN - Dall’impressione sensibile all’e-spressione simbolica - Laterza - p. 32

HAMBLY, BARBARA / NEWMAN, KIM E ALTRI - Il grimoriodi Baker Street. Le avventure soprannaturali di SherlockHolmes - Gargoyle - p. 40HAMILTON, LAURELL K. - Nel cuore della notte - Nord -p. 40HÖLLER, HANS - La follia dell’assoluto - Guanda -p. 24HOLLEY, ANDRÉ - Il cervello goloso - Bollati Boringhieri -p. 43

JAMES, HENRY - Madame de Mauves - Marsilio - p. 41

LAVAGETTO, MARIO - Un caso di censura. Il Rigoletto- Bruno Mondadori - p. 21

LEACH, KAROLINE - Lewis Carroll. La vita segreta delpapà di Alice - Castelvecchi - p. 40LORETO, FABRIZIO - L’unità sindacale (1968-1972) - Fon-dazione Di Vittorio-Ediesse - p. 44

MAGGI, MICHELE - La filosofia della rivoluzione - Sto-ria e Letteratura - p. 45

MAGRELLI, VALERIO - Nero sonetto solubile - Laterza -p. 20MAIDA, BRUNO - Proletari della borghesia - Carocci -p. 27MAZZA, OLIVIERO / VIGANÒ, FRANCESCO (A CURA DI) - Il“pacchetto sicurezza” 2009 - Giappichelli - p. 8MECACCI, LUCIANO - Manuale di storia della psicologia -Giunti - p. 17MIGLIORINO, FRANCESCO (A CURA DI) - Scarti di umanità -il melangolo - p. 31MORGENTHAU, HANS J. - Il concetto del politico - Rub-bettino - p. 45MUSSOLINI, BENITO - L’amante del cardinale - Salerno -p. 18

NACCI, MICHELA - Storia culturale della Repubblica -Bruno Mondadori - p. 44

NANZ, PATRIZIA – Europolis – Feltrinelli – p. 9NISSENSON, HUGH - Rallegrati di queste cose al crepu-scolo - L’Ancora-Cargo - p. 22NOVELLI, DIEGO - Ritratti. Volti del mio Novecento - Me-lampo - p. 30

ONFRAY, MICHEL - Filosofia del viaggio - Ponte allegrazie - p. 39

OSHIMA, EITARO - La tigre e il gatto - Babalibri - p. 46OTTONE, PIERO - Italia mia - Longanesi - p. 44

PALOMBI, CLAUDIA / RIGO, LAURA - Pesciolino dove sei- Panini - p. 41

PANZIERI, LUCIA - Un leone e due bici - Lapis - p. 46PASCALE, ANTONIO - Questo è il paese che non amo - mi-nimum fax - p. 19PASSERINI, LUISA – Sogno d’Europa - Rosenberg & Sel-lier – p. 9PASTORE, ANTONIETTA - Leggero il passo sul tatami - Ei-naudi - p. 39PAZIENZA, ANDREA - Astarte - Fandango Libri - p. 42PENNACCHI, ANTONIO - Canale Mussolini - Mondadori -p. 18PERNIOLA, MARIO - Strategie del bello - Mimesis - p. 13PETIT, MICHÈLE - Elogio alla lettura - Ponte alle grazie -p. 41PIFFER, TOMMASO - Gli alleati e la resistenza italiana - ilMulino - p. 29PIRETTO, GIAN PIERO - Gli occhi di Stalin - Raffaello Cor-tina - p. 29PLACE, NICK - Missione Banana - Salani - p. 46POE, EDGAR ALLAN - Tutti i racconti del mistero, dell’in-cubo e del terrore - Newton Compton - p. 12PUCCINI, SANDRA - Nude e crudi - Donzelli - p. 30

REA, ERMANNO - Rosso Napoli. Trilogia dei ritorni edegli addii - Rizzoli - p. 11

RESTAGNO, ENZO - Ravel e l’anima delle cose - Il Sag-giatore - p. 21RICE BURROUGHS, EDGAR - Virginia e gli uomini mostro -Donzelli - p. 40ROSS, ALEX - Il resto è rumore - Bompiani - p. 21RUFFOLO, GIORGIO - Un paese troppo lungo - Einaudi -p. 6

SÁBATO, ERNESTO - Sopra eroi e tombe - Einaudi - p. 22SALEMI, LUCIA - Questa è la mia faccia - Panini - p. 41

SAMARASAN, PREETA - Tutto il giorno è sera - Einaudi -p. 25SANFILIPPO, FABIO / SCIALOJA, EMANUELA ALICE - ALampedusa. Affari, malaffari, rivolta e sconfitta dell’i-sola che voleva diventare la porta d’Europa - Infinito -p. 31SAWYER, ROBERT J. - Flashforward. Avanti nel tempo -Fanucci - p. 40SCARLINI, LUCA - Sacre sfilate - Guanda - p. 13SPATARO, ARMANDO - Ne valeva la pena - Laterza - p. 5SPECIALE, ROBERTO - Generazione ribelle - Diabasis -p. 30SPINI, VALDO - Vent’anni dopo la Bolognina - Rubbetti-no - p. 44STAZZONE DE GREGORIO, CECILIA - Rimembranze di unviaggetto in Italia scritte da una signora siciliana - Il Po-ligrafo - p. 39SYLOS LABINI, FRANCESCO / ZAPPERI , STEFANO- I ricer-catori non crescono sugli alberi - Laterza - p. 7

UNTERHOLZNER, ENRICO - Lo stagno delle gambusie -Meridiano Zero - p. 19

VAFI, FARIBA - Come un uccello in volo - Ponte33 - p.24

VARZI, ACHILLE - Il mondo messo a fuoco - Laterza -p. 33VOLTOLINI, ALBERTO / CALABI, CLOTILDE - I problemidell’intenzionalità - Einaudi - p. 33

WANDERLINGH, ATTILIO - Scappo via! - Intra Moenia- p. 39

WICKHAM, CHRIS - Le società dell’alto medioevo - Viella -p. 26WILDSMITH, BRIAN - Pablo e il cacciatore - Il Castoro -p. 46

ZANARDI, BRUNO - Il restauro. Giovanni Urbani e Ce-sare Brandi, due teorie a confronto - Skira - p. 34

IMPA 7-8 2010 ok 23-06-2010 10:51 Pagina 47

Page 48: 61191478-10-07-INDICE

IMPA 7-8 2010 ok 23-06-2010 10:51 Pagina 48