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SCHEMI DI ATTACCAMENTO E DISAGIO PSICHICO NELLA PSICOTERAPIA IPNOTICA . UNA VISIONE NEOERICKSONIANA. IPNOSI CLINICA ESTRATTO DELLA TESI SOPRACITATA AD OPERA DEL Dottor Gianni Di Nuzzi Psicologo esperto in Neuropsicologia Specialista in Psicoterapia Ipnotica

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SCHEMI DI ATTACCAMENTO E DISAGIO PSICHICO NELLA

PSICOTERAPIA IPNOTICA . UNA VISIONE NEOERICKSONIANA.

IPNOSI CLINICA ESTRATTO DELLA TESI SOPRACITATA AD OPERA DEL

Dottor Gianni Di Nuzzi Psicologo esperto in Neuropsicologia

Specialista in Psicoterapia Ipnotica

1 INTRODUZIONE

Era una radiosa mattina di primavera, una di quelle mattine così fresche e profumate, che l'intera cattiveria umana pare dissolversi, cedendo il passo al più avvolgente sentore di fratellanza universale. Nella valle di Gressoney, in provincia di Aosta, la natura incantata dominava su tutto, dalle vette scintillanti ancora innevate sui crinali, sino al morbido tappeto di fiori variopinti, lievemente ondeggianti per la piacevole brezza di marzo. Il sole abbacinante squarciava il volteggiare di nubi vaporose, proiettando i suoi bagliori sul volto inquieto di Francesca. Il suo passo era reso incerto da un cupo tremore, mentre si inerpicava sù per il sentiero principale, un sentiero che aveva percorso mille e mille volte, fin da quando era una piccola, gioiosa creatura, dall'aria spumeggiante e vivace. Quel paesaggio la aveva da sempre avviluppata, compenetrando nel suo mondo interiore come un'onda magica e fatata; ma un giorno l'incanto si spezzò. Oggi Francesca ha già compiuto 51 anni, e l'evento che ella riteneva essere causa di tanta sofferenza, quella stessa sofferenza che avrebbe poi deciso di squadernare di fronte ad uno psicologo, lo scrivente, risaliva a 43 anni orsono; eppure ella mi racconta, in seduta, che l'angoscia di oggi nel percorrere quel sentiero, è la stessa che provò, per la prima volta, all'età di 8 anni, a seguito di ciò che lei definisce "una grave violenza psicologica inflitta da mia madre". Vedremo come, a seguito del lavoro terapeutico, sia emerso un quadro

biografico ben più articolato, punteggiato da una sequela di microtraumi anziché da un singolo evento, un percorso evolutivo irto di spine velenose ed insulti esistenziali, delineando di fatto un rapporto materno segnato da gravi lacerazioni affettive, o meglio, secondo il pensiero bowlbiano, un "legame d'attaccamento distanziante-evitante". La breve vignetta clinica qui introdotta, più avanti approfondita, rappresenta per me un richiamo suggestivo all'architettura di base del presente lavoro, una sorta di trait d'union rispetto ad elementi caratterizzanti, i quali, secondo alcuni, potrebbero risultare di non facile giustapposizione. Che cos'ha a che vedere John Bowlby con Milton Erickson? Nulla, si potrebbe obiettare: il primo appartiene comunque all'establishment psicoanalitico, con una formazione tutto sommato "classica", per quanto ebbe poi a differenziarsi nettamente da tale matrice, al punto da venire cacciato dalla società psicoanalitica britannica; il secondo è stato certamente un personaggio sui generis, originale, a tratti bizzarro, abile e intuitivo nell'attività clinica ma non certo ortodosso, poco incline a sistematizzare il suo corposo lavoro in un impianto teorico-concettuale esaustivo. Eppure... Eppure, come spesso accade tra "coloro che fanno la differenza", stagliandosi da un universo di medietà, pare plausibile, a parere di chi scrive, tracciare un filo unitario del tutto solido e consistente, un tessuto comune che insieme scalda e avvicina, un'ampia e soffice coperta che avvolge, quasi amichevolmente, John e Milton, lo psicoanalista britannico e il medico di Phoenix, tutti e due eretici,

ciascuno a modo proprio. Questo panno caldo e morbido si può riassumere in un'unica parola, semplice e complessa allo stesso tempo, un contenitore il cui contenuto non è mai pienamente investigabile: "relazione". Nella sua trilogia Attaccamento e perdita (1969; 1973; 1980) Bowlby spiega quali sono i meccanismi che sono alla base della costruzione di quella speciale relazione che lega il bambino alla madre (o a qualsiasi altra figura sostitutiva) ed esplora le possibili conseguenze della rottura o della perdita dei legami affettivi primari. In sostanza, per tale autore, il tipo di relazione primaria di cui il bambino fa esperienza si pone, a seconda del caso specifico, come un fattore di rischio o come un fattore di protezione rispetto allo sviluppo psichico dell'individuo. Dal canto suo, Erickson ha magistralmente incarnato l'abilità terapeutica nell'entrare in contatto con il mondo dell'altro, penetrandolo e "utilizzandolo" nel perseguire il più alto degli obiettivi: il benessere psicofisico di coloro che ad esso si rivolgevano in cerca di aiuto. Abile persuasore, medico e psicoterapeuta dal volto umano, la naturalezza con la quale riusciva a sviluppare una solida alleanza terapeutica, "convincendo" per guarire, ha prodotto una fioritura di numerose divulgazioni, talvolta dal sapore leggendario, in merito alle sue straordinarie capacità. Sapiente costruttore di quel "campo relazionale che era il naturale mezzo espressivo di Erickson" (Hoffman L., in Erickson M., 1983), l'originalissimo Milton ci ha regalato pagine di affascinante letteratura psicoterapeutica, ove l'esserci insieme

all'altro nel realizzare nuove forme, l'utilizzazione del campo relazionale come strumento valevole molto più di ogni specifica tecnica, rende ragione, forse, del mio azzardo nel volerlo accostare a Bowlby. E chiedo venia se, a tratti, risulterò insistente su alcuni temi essenziali, ma ritengo che si configuri come un'insistenza d'obbligo nell'analisi che qui svilupperò, poiché credo che almeno un assunto di base, a tutt'oggi, venga deliberatamente sottovalutato o ignorato da molti modelli teorici che si prefiggono l'obiettivo della comprensione e della cura psicologica: mi riferisco a ciò che possiamo affermare oggi, sul piano scientifico, a riguardo dell'efficacia in psicoterapia. Limitandomi ad un laconico richiamo, che sedimenti sullo sfondo del presente lavoro: che cosa dicono le ricerche più accreditate sull'efficacia in psicoterapia? Tutte convergono verso una conclusione essenziale: non sono ravvisabili una o più tecniche specifiche, di questo o di quell'altro modello, a rendere ragione dell'efficacia suddetta, piuttosto si possono individuare alcuni "fattori comuni", variabili aspecifiche che risultano essere presenti, indipendentemente dal modello di trattamento, quando una psicoterapia giunge a buon esito; il principale di questi fattori è senz'altro la relazione terapeutica (Lang M., Del Corno F., 1989), alla quale "si attribuisce un'importanza fondamentale, elevandola allo status di variabile responsabile dell'efficacia terapeutica, in quanto empatia, affidabilità, credibilità e supporto sono correlate a trattamenti efficaci" (ibid.). Ecco dunque ciò che emergerà, spero, dallo sfondo del presente lavoro:

la restituzione di un senso altissimo al concetto di relazione. Se, come validamente affermano le ricerche sopracitate, curare il disagio mentale significa prevalentemente coltivare e sviluppare relazioni empatiche e funzionali, va da sé che tenere insieme un modello teorico che legge la sofferenza psichica in termini di relazioni primarie disfunzionali (il pensiero di Bowlby) con un modello teorico che utilizza la relazione come prezioso e irrinunciabile strumento terapeutico (il pensiero di Erickson e della scuola AMISI) non si pone più come un azzardo, bensì come un'integrazione dalle notevoli potenzialità. Una questione di "rapport", dunque, per recuperare un linguaggio più congeniale alla mia formazione specialistica. Come mi è stato insegnato in questa scuola, ciò che significativamente ci differenzia dagli stregoni da palcoscenico è che non consideriamo l'ipnosi come strumento terapeutico fine a sé stesso, bensì come una tecnica indubbiamente proficua quando fluidificata all'interno di quel canale speciale che è il rapport con il nostro paziente, o meglio, giungendomi l'intensa eco di Mosconi (1998) quando storicizza Erickson, "quello che egli [Erickson, n.d.r.] ci descrive ‘è' ipnosi. Spetta semmai a noi saperla trasformare in una terapia basata sul rapporto duale che deve farci imparare a correggere tutto ciò che ostacola o non favorisce quel rapporto così particolare ed esigente". Vedremo come tutto ciò si dispiegherà nel presente elaborato, punteggiando l'esposizione con gli elementi della ricostruzione storica, della

comprensione diagnostica, ovviamente della descrizione dei casi clinici e, infine, della profondità relazionale, emozionale e comunicativa intercorsa tra la mia persona e quelle persone qui presentate che mi hanno concesso il privilegio di aiutarle.

2 Una panoramica storica: dall'ipnosi a Freud, da Freud a Bowlby, da Bowlby all'ipnosi

Nel complesso e articolato quadro storico della psicologia, che Luciano Mecacci (1992) suddivide in “prospettive”, appare subito chiaro che l’ipnosi si pone, storicamente, come precorritrice di quell’ampia tradizione denominata “psicodinamica”, all’interno della quale l’impianto psicoanalitico di Freud si

imporrà rapidamente come il “mainstream”, il tentativo più sistematico di spostare il focus dell’attenzione da una visione organicistica del disturbo mentale ad una visione più qualitativamente psicologica. La preponderanza della psicoanalisi freudiana è riconducibile a svariati fattori, nessuno dei quali la colloca di diritto in una posizione suprema rispetto ad altri modelli. Partiti dall’ipnosi, approdati poi alla psicoanalisi come stupefacente e inedita rivelazione del XX secolo (in realtà il concetto di inconscio era già stato teorizzato, sia in letteratura [ad es. Kleist, 2001] sia in psichiatria [Mecacci, ibid.]), ci troviamo oggi nel pieno della cosiddetta “svolta relazionale”, dove cioé le ricerche sull’efficacia in psicoterapia si concentrano, più che sull’utilizzo di una specifica tecnica, sui processi dinamici che prendono forma nella speciale relazione tra clinico e paziente. In questo capitolo, mi prefiggo appunto l’obiettivo di ripercorrere il tracciato storico di tale evoluzione, evidenziando come, di fatto, il concetto ipnotico di “rapport” costituisca, a tutt’oggi, un perno centrale dotato di enormi potenzialità. 2.1 Inizio di un'evoluzione Cominciamo con l’aiuto di Mosconi (1998), attingendo fedelmente dalla sequenza di ‘alcune date da ricordare’: 1734 Nascita di F. A. Mesmer 1751 Nascita di Puységur 1778 Mesmer a Parigi

1784 Inchiesta della “Grande Commissione” 1815 Morte di Mesmer 1820 Prima dimostrazione pubblica di anestesia ipnotica da parte del chirurgo DuPotet presso l’hotel Dieu a Parigi 1823 Nascita di Liébault 1825 Morte di Puységur 1825 Nascita di Charcot 1829 Cloquet esegue una mastectomia in ipnosi 1830 Dudet esegue estrazione dentaria in ipnosi 1837 J. Elliotson inizia l’ipnosi in Inghilterra 1838 Il Consiglio di Facoltà impedisce ad Elliotson l’uso dell’ipnosi 1840 Elliotson comunica una casistica di 75 interventi in ipnosi e successivamente un’altra di 315 casi 1843 Primo parto in ipnosi di Ch. Lafontaine 1843 J. Braid pubblica Neurypnology, or the Rational of Nervous Sleep 1848 Elliotson fonda a Londra il “Mesmeric Hospital” 1856 Nascita di Sigmund Freud 1859 Nascita di P. Janet 1860 Liébault a Nancy 1866 Braid e Liébault pongono le basi della moderna psicoterapia

1866 Nasce la scuola di Nancy 1882 Bernheim a Nancy 1882 Charcot comunica le proprie esperienze con l’ipnosi 1884 Bernheim pubblica De la suggestione 1885 Freud alla scuola di Charcot 1886 Prime comunicazioni di Freud sull’ipnosi 1886 Primi risultati in Italia sull’ipnosi da parte di C. Lombroso 1886 Bernheim pubblica Suggestive Therapeutics 1886 Forte opposizione di Bernheim alla Scuola di Charcot 1887 Bernheim si incontra con A. Forel 1887 Freud usa l’ipnosi sui suoi pazienti privati 1889 Freud a Nancy con Bernheim 1889 A Parigi primo congresso internazionale sull’ipnotismo 1892 Freud comunica in università un caso guarito con l’ipnosi 1892 Freud riferisce a Breuer il “fenomeno transferenziale” 1895 Freud dichiara il suo abbandono dell’ipnosi 1900 A Parigi il 2° Congresso internazionale di ipnotismo 1902 Nascita di Milton H. Erickson 1925 V. Benussi pubblica La suggestione e l’ipnosi con gli studi che saranno poi proseguiti dall’allievo C. Musatti 1957 Riappare in Italia l’interesse per l’ipnosi

1957 Prima appendicectomia in Italia con l’ipnosi 1958 Primo parto in Italia con l’ipnosi 1958 Fondata a Pavia la Associazione Medica Italiana per lo studio dell’Ipnosi 1967 Roma, Primo Congresso Nazionale sull’Ipnosi – AMISI. Sviscerare tale elencazione nei dettagli travalica l'obiettivo di sintesi storica che qui mi prefiggo, dunque intenderò procedere ponendo in essere solo alcune tappe significative. Come ricostruisce Piero Parietti in Del Corno, Lang (1989), possiamo fissare un punto di partenza nel lavoro di A. Mesmer, il quale "inserisce la relazione terapeutica nel contesto di una concezione globale dell'universo, concepito come percorso da un 'fluido' avente la possibilità di passare dal mondo esterno al soggetto tramite l'intervento del 'magnetizzatore'." In sostanza, egli teorizza la presenza di un fluido vitale universale, capace di condizionare le proprietà dei corpi, e quindi riconducendo la manifestazione della malattia ad uno squilibrio del fluido medesimo; perciò, l'obiettivo della terapia si concretizzava nel ripristino del "magnetismo naturale" e conseguente riottenimento dell'"armonia dei nervi". Ma come si produce, di fatto, tale armonia? Al di là dei dettagli tecnici, ciò che risulta interessante, e che ci permetterà di tracciare un filo di continuità particolarmente utile sul piano di talune argomentazioni, è l'utilizzo di un tramite, che in alcuni casi si

realizzava mediante il tocco delle mani dell'operatore. Siamo nel 1784; il clamore suscitato dalla vicenda fu tale, che Luigi XVI istituì una "Grande Commissione" di scienziati avente lo scopo di verificare la bontà delle affermazioni di Mesmer rispetto ai risultati conseguiti. Ebbene, la Commissione decretò che gli effetti ottenuti non avevano nulla di scientifico, e altro non erano che la conseguenza di immaginazione e suggestione: il metodo di Mesmer venne implacabilmente stroncato. Nonostante ciò, altri studiosi procedettero lungo questo filone di ricerca, anche perché, come un seguace di Mesmer ebbe a dire a Bernheim, "se Mesmer non possedeva altro segreto che quello di essere capace di portar beneficio alla salute attraverso l'immaginazione, non sarebbe pur sempre questo un risultato sufficiente?". Accenniamo dunque al più celebre degli epigoni, colui che di seguito avrebbe impresso un mutamento radicale nella storia della psicoterapia: Sigmund Freud. 2.2 L'approccio di Sigmund Freud Il celebre medico viennese svolse un ruolo davvero peculiare in ambito ipnologico, dimostrandosi capace di cogliere alcune caratteristiche del fenomeno meritevoli di attenzione. Freud apprese la tecnica ipnotica in Francia presso Charcot, commentando inizialmente come segue: "il medico traspone il malato nello stato di ipnosi, gli trasmette la suggestione, variabile di volta in volta in base alle circostanze, secondo cui egli non è malato e dopo il risveglio non sentirà nessuno dei sintomi del suo male; poi lo risveglierà e

può abbandonarsi alla speranza che la suggestione abbia fatto il suo dovere nei confronti della malattia" (S. Freud, 1890). Egli comunque coglie l'aspetto molto intenso e rimarchevole della relazione, evidenziando la straordinarietà dell'atteggiamento del soggetto ipnotizzato, che pare essere isolato rispetto al mondo esterno, ma particolarmente ricettivo verso l'induttore. Successivamente, Freud incontra J. Breuer, insieme al quale definisce meglio il concetto di "stato ipnoide", inteso come l'emergere, in talune circostanze, di rappresentazioni mentali-affettive particolarmente intense ma tagliate fuori dai rapporti associativi con il rimanente contenuto della coscienza. Questo processo è favorito dall'induzione di uno stato di rilassamento nel paziente, il quale può, in tale maniera, recuperare e "abreagire" la potente carica emotiva inibita alla base del disturbo. Al trattamento applicato faceva seguito un rilevabile miglioramento sintomatologico, che tuttavìa Freud riteneva essere effimero e quindi ancora insoddisfacente. Egli ne concluse che la sindrome isterica oggetto dei suoi studi era eziologicamente riconducibile ad un impulso conflittuale non "scaricato", di natura inconscia, e che la terapia stessa dovesse consistere nella liberazione di tale energia e conseguente elaborazione del vissuto psichico. Mentre giungeva a tali considerazioni, purtroppo Freud sentenziò altresì l'inapplicabilità del metodo ipnotico, poiché, a suo dire, la condizione di semiincoscienza in cui si trova il paziente non consente a quest'ultimo di elaborare il proprio vissuto psichico, per cui il sintomo scomparso può riapparire sotto altra forma. Oggi sappiamo che si

trattò di una sentenza ingiusta, dettata da posizioni arbitrarie e personali, e non certo dall'evoluzione di paradigmi scientifici, come cercherò di spiegare meglio più avanti; ma così andò, Freud passò al metodo delle "libere associazioni", e dunque venne alla luce la sua figlia prediletta: la psicoanalisi. Tratteggiamone brevemente i contorni. Si voglia, anzitutto, rilevare una premessa di base, che valga come riferimento per ogni trattazione: autori, teorie e modelli debbono essere sempre e necessariamente inquadrati nel loro specifico contesto storico-culturale, nondimeno ciò vale per la psicoanalisi, sviluppatasi all'interno di una fisionomia societaria ben precisa: la Vienna borghese fin de siècle. Dunque, muovendo da tali premesse, Freud si imbatte in casi clinici definiti di "isteria", da intendersi come un corollario di sintomi fisici e psichici (es. contratture, paralisi parziali, inibizioni, etc.) non riconducibili ad una causa organica, bensì a fattori psicologici; senza dilungarci sull'eziologia postulata da Freud, egli appunto si avvicina inizialmente all'ipnosi sotto la spinta di Charcot e di Breuer, salvo poi passare al metodo delle "libere associazioni", e definendo un suo impianto teorico-concettuale che qui non ripercorro per esigenze di sintesi  . Detto essenzialmente, Freud teorizza una struttura psichica "tripartita" come segue: l'Es, depositario del mondo dell'inconscio, le energie pulsionali-istintuali; il Super-io, senso morale ereditato dai dettami genitoriali e societari; l'Io, sede della coscienza, l'esame di realtà obbligato a   Per eventuali approfondimenti si consulti, ad es., il Manuale di psicologia dinamica (Lis et al., 1999).

mediare tra le altre istanze. Secondo tale impianto, la psicopatologia insorge quando le forze suddette entrano (inconsciamente) in conflitto, e quest'ultimo, incapace di trovare una strada risolutiva, prende forma e consistenza mediante lo sviluppo di una precisa sintomatologia. Tra le varie tecniche terapeutiche ideate da Freud dopo l'abbandono dell'ipnosi, faccio menzione della già sopracitata, detta delle "libere associazioni", ricordando le parole dello stesso autore, da rivolgere al paziente: "lei osserverà che durante il suo racconto le vengono in mente diversi pensieri, che vorrebbe respingere con determinate obiezioni critiche. Sarà tentato di dirsi: questo o quello non c'entra oppure non ha alcuna importanza, oppure è insensato, perciò non c'è bisogno di dirlo. Non ceda mai a questa critica e nonostante tutto dica, anzi dica proprio perché sente un'avversione a dire" (Freud, 1913). Di qui in poi la psicoanalisi si sviluppò rapidamente, diffondendosi non soltanto negli ambienti clinici e accademici, ma anche in senso più largamente culturale, come una sorta di "visione del mondo". Eppure... Eppure divergenze e dissensi si erano già manifestati. Limitandomi ad una osservazione, per poi introdurre uno dei due autori di riferimento del presente elaborato, si consideri quanto segue: Freud non approdò mai ad una validazione scientifica delle proprie tesi, ma si limitò ad inferire arbitrariamente ciò che secondo lui doveva essere accaduto al bambino, vagliando la psicopatologia manifestata dall'adulto. Questo è di per sé un limite che non ha bisogno di ulteriori precisazioni. Comunque sia, il padre della psicoanalisi rimane un

personaggio straordinario, capace di spostare l'asse culturale-accademico dell'epoca da una visione organicista (i riduzionisti di Kraepelin) ad una visione più squisitamente "romantica" e "psicologica" (il concetto di "uomo colpevole"). Grande è il debito di riconoscenza che la comunità psicologica può legittimamente avvertire nei confronti di Freud, ma, a mio avviso, ancor più grande è il riconoscimento da tributare ai post-freudiani, in particolare ai cosiddetti "intersoggettivisti", i fautori della ben nota "svolta relazionale"; in tal senso, significativa risulta essere la figura monumentale di John Mostyn Bowlby. 2.3 La svolta relazionale Medico e psicoanalista britannico, capace di influenzare numerose discipline con la sua spinta innovativa, egli sistematizza il suo articolato pensiero nella monumentale trilogia “Attaccamento e perdita” (1969; 1973; 1980), con la quale propone un punto di vista per certi versi rivoluzionario rispetto alla corrente dominante nell’establishment psicoanalitico dell’epoca. Le sue riflessioni, oggi, potrebbero apparire scontate, e forse anche dozzinali; bisogna quindi che riecheggi quella premessa di base che ho voluto sopra evidenziare, in merito alla contestualizzazione di ogni teoria e modello, e che ci permette di tracciare una schematica sequenza: 1) la sperimentazione dell’ipnosi in ambito clinico denota il beneficio del rapport(o) clinico-paziente nel trattamento dei disturbi mentali; 2) il dogmatismo di Freud rinuncia a tale beneficio per adottare un modello pseudobiologico della mente, all’interno del

quale il valore della relazione è sostanzialmente negato (la cosiddetta “neutralità” dell’analista); 3) Bowlby, a differenza di Freud, conduce ricerche tese a valutare lo sviluppo del bambino in maniera diretta: il concetto di “relazione” riacquisisce un’innegabile centralità. In buona sostanza, per Freud la psicopatologia prende le mosse dalle fantasie psichiche conflittuali del bambino, per Bowlby invece si configurano traumi relazionali concretamente avvenuti nella realtà. Bowlby giunge alle sue conclusioni grazie ad una pratica clinica diretta, rivolta a bambini ospedalizzati o collocati in orfanotrofio, rilevando le conseguenze spesso drammatiche di un abbandono precoce, di un maltrattamento, di una deprivazione affettiva o di un accudimento inadeguato. Attingendo non solo dalla psicoanalisi, ma anche dall’etologia e dall’evoluzionismo, egli arriva a concepire quella speciale relazione d’attaccamento tra bambino e caregiver (colui che accudisce) come un sistema biologicamente acquisito, una predisposizione istintiva al legame che solitamente avviene in modo sufficientemente naturale. Tale relazione, con il tempo, si struttura in forma di memoria implicita, orientando l’individuo nelle successive relazioni, come una sorta di schema inconscio. In sintesi, a seconda della tipologia di attaccamento di cui si fa esperienza, traumatica o confortevole, iperprotettiva o distanziante, e via di seguito, si organizzeranno nel soggetto specifici schemi di funzionamento (definiti da Bowlby “Internal Working Model”), i quali renderanno ragione di una data struttura di personalità e di una certa tendenza relazionale (sempre a livello di memoria

implicita-procedurale). Sistematizzando tali riflessioni, come ad esempio concettualizzato dai lavori epigoni di Ainsworth et al. (1978), emergono differenti tipologie di attaccamento, che possiamo così schematizzare:

Tipologie dell’attaccamento

Comportamento materno

Risposta del bambino

Legame sicuro (B) Sensibile ai segnali del bambino, responsiva, supportiva

Sufficiente autoregolazione emotiva, competenze relazionali

Legame ansioso-ambivalente (C)

Imprevedibilità, affetto o rifiuto scollegati dalle richieste del bambino

Comportamento ambivalente, difficoltà emozionali, angoscia relazionale

Legame ansioso-evitante (A)

Rifiuto persistente del contatto fisico, anche in situazioni di stress

Freddezza relazionale, coartazione affettiva

Legame disorganizzato (D)

Maltrattamento, abuso, interazioni traumatiche e/o confusive

Comportamento disorganizzato, stati dissociativi, struttura borderline

Bowlby venne fortemente osteggiato dalla società psicoanalitica per le sue idee “eretiche”, che comunque egli continuò a propugnare, favorendo un’ampia fioritura di lavori e modelli nell’alveo di quella già citata “svolta relazionale”, e ricollocando nella giusta posizione il rapporto tra genitore e

bambino nello sviluppo della psicopatologia, così come il rapporto tra clinico e paziente nel trattamento della medesima1. Oggigiorno, la teoria dell’attaccamento gode di ampia credibilità nel mondo scientifico ed accademico, e, a mio avviso, potrebbe coniugarsi in maniera fruttuosa con quel filone psicoterapeutico abilmente confezionato sulle specificità della persona, quel cantiere prolifico di idee, strategie e risorse intessute nell’abito della peculiarità del singolo individuo, anziché nella generalizzazione e nell’omologazione teorica, un modello che respinge le rigide gabbie mentali del dogma, per farsi naturale depositario di conoscenza ed esperienza, muovendosi con sagace spontaneità lungo le vie della narrazione metaforica, mentre il peso e la delimitazione della razionalità cominciano a sfilacciarsi, percorrendo quel sentiero che permette di “[…] raggiungere via via i tuoi obiettivi… quelli più vicini... modifica il tuo modo di pensare… modifica il tuo modo di sentire… modifica il tuo modo di agire… modifica i pensieri, le sensazioni, la condotta… […] verso i quali il tuo sentiero ti conduce, pian piano entra in quel bosco e prova questa nuova esperienza… tocca questa nuova realtà…” (Mosconi G., 1998): mi riferisco dunque alla psicoterapia ipnotica, secondo il prezioso lascito di colui che è stato definito “il maggior esperto di ipnosi dei nostri tempi” (Rosen S., in Erickson H. M., 1983), capace di fare breccia nella corazza più monolitica per apportare un vero cambiamento terapeutico, “utilizzando” e “ristrutturando”, come uno stratega 1 Peraltro, alcuni importanti psicoanalisti si sono prodigati nell’integrare la matrice psicoanalitica con la teoria dell’attaccamento (Fonagy P., 2002).

della psiche, analitico e intuitivo allo stesso tempo. Soffermiamoci dunque sulla ponderosa e carismatica personalità di Milton H. Erickson. 2.4 Uno psicoterapeuta dal volto umano Nella ricca e suggestiva biografia di Milton Hyland Erickson (1901-1980), medico e psicoterapeuta americano di origine svedese, si compenetrano diverse sfaccettature, nessuna delle quali può apparire ininfluente, ai fini di un’attenta disamina del personaggio in questione; disamina che, lo si voglia o meno, sfuggirà tenacemente ad ogni tentativo di inquadramento sistematico, per la stessa volontà dell’uomo e scienziato Erickson, da sempre poco incline ad essere imbrigliato in questa o quella corrente ufficiale. Nella succitata compenetrazione, lo spessore dell’uomo e la naturale abilità dello scienziato si fondono armonicamente, dando vita ad un impasto di competenze difficili da imitare. Egli fu, anzitutto, uomo sofferente e malato, flagellato dai segni crudeli della poliomelite, costretto, suo malgrado, a fare i conti con la ciclica recrudescenza della patologia. Eppure, come solo i più determinati sanno fare, egli tramutò la sua sofferenza in una straordinaria risorsa, delineò il suo concetto di “utilizzazione” e convertì l’umiliazione della disabilità nella grandezza di un punto di vista differente, un vertice osservativo sulla malattia, anziché ingabbiato in essa. Persino il suo rapporto con la malattia assume talvolta connotazioni leggendarie. Infezione devastante e contagiosa, oggi pressoché scomparsa nei paesi evoluti, il suo decorso produce danni organici e cerebrali spesso permanenti, con paralisi muscolari e convulsioni. Nel XX

secolo, la medicina si dichiarava in genere impotente nei confronti di tale flagello, e il giovane Erickson, diciassettenne quando la malattia fece la sua comparsa, venne dato per spacciato dai medici dell’ospedale ove si trovava degente, e alla madre del ragazzo venne detto: “purtroppo morirà presto, forse in questa stessa notte” (ved. Mosconi G., 2004). Il giovane Milton parve udire tale sentenza esiziale, producendosi, nel suo profondo e ricco mondo interiore, in uno slancio di rinnovata vitalità che nessuno forse era in grado di scorgere, e che tuttavìa ben presto si manifestò: “quelle parole, anzi, costituirono per il giovane Milton come un impegno con se stesso, così richiamò tutte le sue forze per sopravvivere e per veder nascere per un’ultima volta l’alba. […] e quando vide sopra di sé il viso di sua madre […] cercò di esprimergli un ultimo desiderio: “sposta quel mobile, lì di fronte, ti prego, e fà in modo che il suo specchio possa riflettere verso i miei occhi, domani mattina, i colori dell’alba che arriverà”. (ibid.). Erickson non vide l’alba della mattina seguente poiché cadde in un coma profondo… dal quale comunque si risvegliò! Nonostante l’infausta previsione di morte, egli continuò a vivere, come sappiamo, per i successivi sessantadue anni, operando fecondamente come psicoterapeuta privato nella sua casa di Phoenix. Quindi il giovane Milton sopravvisse, crebbe, e divenne l’ipnotista più originale e innovativo dei nostri tempi. Ma che tipo di modello psicoterapeutico ebbe a definire? Qui comincia la difficoltà – o la facilità, a seconda della prospettiva – nel tratteggiare il pensiero di Erickson; egli infatti,

“più che aver sviluppato teorie interpretative che si sarebbero aggiunte alle già numerose esistenti, stabilì dei principii basati su un tipo particolare di interazione, finalizzati al cambiamento della persona ed attuati con un sistema di riferimento e di comunicazione terapeutica che, in modo sintetico, definiscono la via più diretta per fare dell’ipnosi un prodotto della capacità tecnica e della intuizione creativa, cioé un’arte” (Mosconi G., 1998). Mi rendo conto che tale constatazione potrebbe suscitare qualche perplessità, soprattutto in coloro che, nella loro pratica clinica, abbisognano di una guida sicura, cercando un riflettore illuminante, una sorta di protocollo cui uniformarsi. Vale dunque la pena ribadire alcune imprescindibili riflessioni: in primo luogo, come già accennato, le ricerche sull’efficacia in psicoterapia non hanno dato ragione a nessuno, cioé nessun modello può vantare una qualsivoglia superiorità rispetto agli altri esistenti. Le ricerche hanno piuttosto sottolineato la centralità della relazione per il buon esito dei trattamenti; oltre a ciò, dopo un lungo periodo di forzature (molto probabilmente non ancora superato!) in cui i clinici si adoperavano per piegare il paziente alle proprie teorie di riferimento, i tempi sono ora maturi per compiere l’operazione opposta, ossìa piegare le teorie alle peculiarità del singolo paziente, cogliendo istruttivamente una splendida metafora di Gabbard (2002), secondo la quale appare rassicurante esplorare una caverna disponendo di una mappa molto dettagliata, anziché muoversi a tentoni, per tentativi ed errori; il rischio in cui ci si imbatte, però, è quello di avere tra le mani la

mappa di una caverna completamente diversa da quella nella quale ci si trova! Tornando al nostro Erickson, noi oggi sappiamo che egli curava i suoi pazienti in modo originale ed efficace, trattando le patologie – o le crisi esistenziali – più disparate, dispiegando, con estrema naturalezza, un processo di crescita e di autoconoscenza capace di condurre le persone ben oltre la stagnazione dei problemi lamentati. Erickson, in sostanza, si prefigge l’obiettivo di modificare il mal adattamento dei pazienti promuovendo un cambiamento capace di smuovere ed utilizzare le risorse naturali del paziente. Egli, infatti, concepisce un inconscio radicalmente diverso da quello freudiano, un inconscio marcatamente positivo, depositario di risorse, cioé di tutto quello che l’individuo ha imparato nella sua esistenza, codificato nei circuiti mnestici e recuperabile grazie ad apposite sollecitazioni psicoterapiche. Tali sollecitazioni, con Erickson, prendono la forma di induzioni, suggestioni, paradossi, aneddoti, apologhi, estrinsecati con grande spontaneità e tangibile coinvolgimento. L’ipnosi, dunque, non è che una tecnica, all’interno di una cornice psicoterapeutica di più ampio respiro, consistente nell’indurre uno stato modificato di coscienza, verso cui la nostra psiche è naturalmente predisposta, grazie al quale, anche in virtù di cambiamenti neurofisiologici, si inverte l’ordinaria dominanza emisferica, quindi la funzionalità dell’emisfero destro emozionale, ove le risorse inconsce attendono di essere mobilitate, prevale rispetto all’attivazione dell’emisfero sinistro razionale. Per compiere tutto ciò, al di là delle specifiche strategie e

tecniche utilizzate, occorre esserci nella realtà soggettiva del paziente, calarsi in essa per comprenderla appieno, ascoltare ed osservare, lasciarsi orientare, “in altre parole, si tratta di immagini di esperienze che devono essere vivificate con l’aiuto del terapeuta, il quale partecipa empaticamente alla sofferenza, ne cerca la chiave di lettura e le traduce in termini comprensibili per il paziente” (Giacosa S., 2011). Dunque, siamo in presenza di una visione certamente non punitiva, bensì ottimistica e positiva, della psiche. Come ancora ci ricorda Giacosa (ibid.) riferendosi al modello neoericksoniano della scuola A.M.I.S.I., le metafore, le induzioni e tutti gli strumenti a disposizione del terapeuta permettono di recuperare gli elementi positivi che giacciono nel magazzino dell’inconscio, un patrimonio che l’individuo può impiegare per la ricerca del proprio benessere; “la trance ipnotica possiede, secondo Erickson prima e Mosconi in seguito, capacità e stimoli catalizzatori tali da indirizzare il paziente verso la soluzione dei propri problemi”. In conclusione del presente capitolo, dovrebbe forse risultare più intelligibile il tracciato storico-evolutivo che ho tentato di percorrere: partendo dall’ipnosi, segue un modello interpretativo squisitamente intrapsichico, poi ridimensionato da una “svolta relazionale”, intersoggettivista, cui potrebbe concettualmente far seguito, a mio avviso senza incongruenze, il modello neoericksoniano, un modello che pone in assoluta evidenza il carattere inalienabile del rapport empatico e della specificità di ogni singola persona.

Vedremo in seguito come tale convinzione possa venire corroborata dalle esperienze dirette dei casi clinici riportati. Intanto, visto l’accostamento tra John Bowlby e Milton Erickson, proviamo ad elencare alcuni presumibili punti di convergenza:

ambedue gli autori rifiutano, esplicitamente o implicitamente, la concezione dell’inconscio freudiano come totalizzante modello esplicativo dei disturbi mentali;

sia Bowlby sia Erickson si occupano direttamente di problematiche evolutive, acquisendo di fatto un modello di mente basato sull’esperienza diretta anziché su reificazioni teoriche;

si configura in entrambi i casi il ruolo precipuo della relazione, nell’eziopatogenesi del disturbo mentale (la diagnosi di matrice bowlbiana) e nelle applicazioni psicoterapeutiche (il rapport ericksoniano).

Di seguito cercherò di sviscerare alcune riflessioni sul concetto di diagnosi, evidenziando anche in questo caso le particolarità di Bowlby e di Erickson, per cogliere quelle venature e quelle articolazioni di pensiero più congeniali all’architettura del presente elaborato. [...] [...] [...]

Alcuni riferimenti bibliografici: Del Corno, F., Lang, M. [a cura di] (1989), Trattamenti in setting individuale, Franco Angeli, Milano. Erickson, M. H. (1983),La mia voce ti accompagnerà. Tr. it. Astrolabio, Roma. Loriedo, C., Burkhard, P. (2001), The new hypnosis. The utilisation of personal resources, MEG-Stiftung, Munich. Mosconi, G. (1998), Teoretica e pratica della psicoterapia ipnotica, Franco Angeli, Milano. [Le indicazioni bibliografiche suddette costituiscono solo una minima parte dell'ampia bibliografia presente in originale].