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IL CORAGGIO DI ESSERE UNA FARFALLA

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IL CORAGGIO DI ESSERE

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VLADIMIR LUXURIA

con Stefano Genovese

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Redazione: Edistudio, Milano

ISBN 978-88-566-5731-9

I Edizione 2017

© 2017 – EDIZIONI PIEMME Spa, Milano www.edizpiemme.it

Anno 2017-2018-2019 – Edizione 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10

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Mai sentirsi al sicuro da chi è troppo sicuro di sé

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DIVENtERAI tRANS ANChE tU! 7

Diventerai trans anche tu!

Caro lettore, non so quanti anni tu abbia. E a meno che tu non sia una flop star della tv mi fido degli anni che mi dichiarerai. Facciamo che sei un maschio atletico, uno che ha dei bicipiti possenti e un fisico che trasuda ma-scolinità dopo ogni sforzo fisico come un pollo al girar-rosto trasuda grasso. Se al calcetto ti fai chiamare Ringhio e a letto Siffredi, sappi che la transessualità aspetta anche te. tranquillo, basta solo un po’ di tempo e di pazienza.

Sarai trans anche tu: innanzitutto perché tutti transi-tiamo in questo mondo, siamo solo di passaggio. Si na-sce, si muore, forse ci reincarniamo… chi lo sa. L’unica cosa certa è che non siamo immortali e quella cosa che chiamiamo vita non è altro che un transito nell’esistenza, “racchiusa nel tempo d’un sogno”1, una piccola tappa in un viaggio dell’universo ben più lungo e rilevante del tuo suv o di altri tuoi surrogati di virilità.

Ma sarai trans anche tu perché, come tutti gli uomini, man mano che ti avvicini al passaggio successivo i muta-menti del tuo corpo virano inesorabilmente verso l’altro sesso. Invecchiando, infatti, il corpo dell’uomo diventa più

1 Cfr. W. Shakespeare, La tempesta, atto IV, scena I.

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8 DIVENtERAI tRANS ANChE tU!

femminile, come se fosse la natura a suggerire la strada. Non parlo di dati scientifici, non ne ho i titoli, ma di sem-plici osservazioni su come cambia il corpo dell’uomo.

I pettorali, se mai ci sono stati, si afflosciano e lasciano spazio a un piccolo seno che di solito non supera una se-conda, anche se in spiaggia mi è capitato di vedere delle terze abbondanti, per giunta sempre in topless.

Quella peluria, che faceva tanto tappezzeria macho fino a una decina di anni fa, si dirada notevolmente, come quelle consunte moquette di vecchi alberghi inglesi. Ne saranno felici tutti quei maschietti moderni che sanno che, una volta perduta la gioventù perderanno anche meno tempo a modellare a colpi di pinzetta le sopracciglia e a estirpare il pelo con virilissime depilazioni di ogni parte del corpo. E quando dico ogni parte sapete bene che mi riferisco anche ai “paesi bassi”.

Statisticamente, poi, le donne sono mediamente qual-che centimetro più basse degli uomini ed ecco che quando l’uomo invecchia, proprio per transessualizzarsi, perde alcuni centimetri di altezza in seguito all’incurvamento della colonna vertebrale. E il motto “mi spezzo ma non mi piego” va a farsi fottere.

I muscoli si riducono, anche del trenta per cento, ren-dendo il corpo dell’uomo più armonioso e morbido ri-spetto a quei bicipiti sporgenti e a quelle tartarughe spiag-giate sotto l’ombelico di alcuni uomini.

Che mi scusino gli scienziati se faccio la Angela Piero della situazione ma ho proprio voglia di esagerare.

La presbiopia, che impedisce ai signori di una certa età di vedere bene da vicino, li porta ad alzare il mento nella loro postura abituale, come a guardare lontano, donando loro quell’aria più distaccata, più signorile: un po’ come

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quelle dame dell’Ottocento tutte pizzi e merletti ritratte con lo sguardo rivolto all’infinito.

Infine, con l’ingrossamento della prostata, l’uomo sta-gionato è portato ad andare più spesso in bagno, compor-tamento sociale molto simile a quello mascherato con un continuo incipriarsi il naso del gentil sesso.

Se poi crediamo alla circolarità della vita, poco prima dell’inizio del viaggio c’è uno stadio in cui il feto è in una fase no gender, il sesso non è ancora definito, cosa che in qualche modo biologicamente ritorna con l’invecchia-mento.

Ce lo ricorda di nuovo Shakespeare nel monologo Tutto il mondo è teatro in cui la vita è descritta come uno spet-tacolo teatrale diviso in sette atti, le sette età dell’uomo, la cui ultima è una «seconda fanciullezza, senza denti, senza vista, senza palato, senza memoria, senza niente»2.

Se è vero che invecchiando si diventa saggi, la transes-sualità è dunque cosa saggia. Dopo tutta una vita passata a comportarsi e a dimostrare di essere veri uomini, ci si avvicinerà alla fine di questo viaggio scoprendo di essere trans. C’è solo da aspettare. Essere macho è un ruolo non sempre facile da sostenere, è uno sforzo sovrumano. Solo da anziani ci si può finalmente rilassare e riprendersi dal fiatone di una vita alla rincorsa della virilità. Io, invece, ho fatto una scelta diversa, ho battuto sul tempo l’inelut-tabile: non ho aspettato che fosse la vecchiaia a portarmi consiglio. In questo modo riesco a godermi tutti i frutti di una vita trans, saggia e giovane, libera e bella.

2 W. Shakespeare, Come vi piace, atto II, scena VII.

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QUEStO CORPO NON È DELLA MIA tAGLIA

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L’AUtOStIMA PRENDE CORPO 13

L’autostima prende corpo

tess holliday è una modella alta 1 metro e 65, ma non è certo la sua altezza ad averla portata alla ribalta. ha un bel viso e i capelli rossi, ma neanche questo sarebbe bastato. Sono stati invece i suoi 127 kg a farle guadagnare la luce dei riflettori. Ma a darle una marcia in più è avere accet-tato e apprezzato il proprio corpo, un po’ più da “trop” model. Molte donne tendono a coprire le gibbosità del proprio corpo indossando maglioni lunghi e gonne lar-ghe, come per non infastidire chi le guarda ed è abituato a ben altri cliché di bellezza. Lei si è spinta nella direzione opposta: si piace e non si vergogna di farsi fotografare in biancheria intima e anche senza. Altro che curvy, plus size o nomignoli del genere. È lei stessa a definirsi grassa in un’intervista in cui dice che “grassa” è solo un aggettivo al quale la nostra società ha incollato una valenza negativa.

Definiamo “grassa” una risata volgare, esagerata, sgua-iata. Oppure parliamo alla pancia della gente identificando in quel punto la parte più bassa, primitiva, irrazionale. Sembra che oggi tutto quello che riguarda la pancia e il grasso sia negativo mentre solo qualche secolo fa i ricchi e i colti dovevano essere grassi proprio per dimostrare a tutti lo status di chi poteva permettersi di mangiare tanto. Basterebbe guardare i nudi femminili di Rubens o Renoir per capire quanto sia cambiato il gusto del bello.

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tess ha iniziato la sua battaglia contro il pregiudizio po-stando alcune sue foto in atteggiamenti sexy in bianche-ria intima. Il tam tam della rete non ci ha messo molto a cogliere il suo segnale, raccogliendo attorno a lei migliaia di fan che si riconoscevano nella sua voglia di mostrarsi, di non vergognarsi più del proprio corpo.

A un certo punto della sua storia, il femminismo è sa-lito sul carro. Quel femminismo superstite dal ’68 in cui le donne si univano al grido di Basta depilarsi! Basta tin-gersi i capelli! Accettiamoci come siamo! Buttiamo via il reggiseno! (quella è stata la parte migliore di quegli anni perché sono andata a raccattarmeli tutti io!). Insomma Ba-sta con la donna camuffata per piacere all’uomo! La donna deve essere se stessa e piacersi così com’è.

L’appoggio femminista alla vita di tess arriva quasi su-bito. Un convegno organizzato dal gruppo australiano Cherchez la Femme invita tess holliday a intervenire a una conferenza dal titolo Feminism and Fat. Per pubbli-cizzare l’evento, il gruppo pubblica su Facebook l’invito con allegata una foto di tess in bikini. Peccato che il so-cial rifiuti la pubblicazione della foto argomentando che “l’immagine mostra il corpo in modo non desiderabile”. Alla richiesta di spiegazioni il team di Facebook affonda la lama dicendo che quella foto mostra “condizioni medi-che gravi come cellulite e obesità e va contro la filosofia di Facebook che promuove uno stile di vita sano e sportivo”. Il messaggio che fa capolino tra le righe è che una donna grassa non è desiderabile come qualunque altra donna. Questo fa esplodere l’ira delle femministe e delle donne in generale. Come spesso accade in questo mondo ormai così piccolo, la vicenda si gonfia e si sgonfia nell’arco della

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L’AUtOStIMA PRENDE CORPO 15

giornata: il tempo di un giro di media dall’Australia all’A-merica, toccando tutti i paesi che ci stanno in mezzo, e il social si scusa e pubblica la foto incriminata. È doveroso ricordare come Facebook sia un social prettamente ame-ricano, paese nel quale il problema dell’obesità è molto sentito: tornelli della metropolitana allargati, sedili più grandi negli aerei di alcune compagnie, reality televisivi come Big Looser in cui i concorrenti obesi gareggiano tra loro a chi perde più peso. La stessa Michelle Obama, da sempre paladina della buona alimentazione e portavoce dei rischi dell’obesità, vi ha fatto una comparsata come testimonial. L’ex first lady ha voluto un orto alla Casa Bianca proprio per educare a un’alimentazione più cor-retta. (Che fine faranno le zucchine e le melanzane presi-denziali? Melania riuscirà a maneggiare gli ortaggi senza che le si spezzino le unghie finte e i suoi tacchi non spro-fondino nel terriccio?)

Dietro ogni persona c’è una storia. Nel caso di tess, per esempio, c’è il trauma di una bambina che ancora prima di compiere dieci anni ha assistito alla scena del patrigno che spara in testa alla madre la quale non muore, resta pa-ralizzata. Forse nel cibo ha trovato sollievo.

Ognuno trova conforto come può. Io a volte lo trovo nel sesso. Ogni volta che mi sento triste, che sono pro-vata emotivamente, mi sale la libido. C’è da dire, però, che molto spesso è più facile avere a portata di mano un barat-tolo di nutella che quello che serve a me. Non ho ancora trovato un supermercato con una corsia con una serie di uomini appetibili sistemati sugli scaffali. In un mondo ide-ale ci sarebbero men-store h24, magari anche discount per donne di tutte le pochette: reparto ferramenta con uomini

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duri capaci di montarti (anche le mensole); corsia degli alimentari con l’etichetta su ogni uomo che ti indichi la percentuale di grasso, la provenienza, il grado di matura-zione e soprattutto la scadenza; settore farmaceutico con uomini che guariscono dall’astinenza (in alcuni casi dalla carestia), dal mal di testa, dal cattivo umore con massicce dosi di principio attivo.

Quando sono stata a Los Angeles per qualche tempo, nella palestra dove andavo c’erano donne e uomini obesi che arrancavano sui tapis roulant. Quello che mi ha col-pita era la loro faccia, quella della rassegnazione. Non ci credevano neanche loro ma lo facevano per mettere a po-sto la coscienza o per accontentare i genitori o i partner. tanto poi bastava uno smoothie o un frappuccino per re-cuperare il sorriso e tante, tante calorie.

Puoi anche ritrovarti in una condizione in cui i pro-blemi del rapporto con il proprio corpo si sommano. Ba-sta pensare, per esempio, a una persona transgender e obesa come lo era Divine, la famosa attrice drag queen americana o la più nostrana Platinette. In questi casi, la via di salvezza più frequentata è la sfrontatezza: prendere la società di petto ed esagerare pur di non soccombere. Il risultato è una Platinette irriverente e tagliente, grazie anche alla sua grande intelligenza e sagacia. Oppure una Divine che nel film Pink Flamingos di Roger Waters ar-riva ad appostarsi dietro un barboncino che sta defecando per rubare la cacca appena fatta e mangiarsela, proprio a km zero. E non è finzione: non ci sono tagli nella scena né effetti speciali. Sembra che il messaggio per tutte sia: non aspetto che mi collochiate voi fuori da ogni convenzione sociale, lo faccio io per prima e per mia scelta.

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Certo, l’obesità è una malattia e non è assolutamente da incoraggiare. Questo però non autorizza la società a criminalizzarla, a far sentire gli obesi brutti e indesidera-bili. tutto si riconduce all’accettazione del proprio corpo. Il problema della relazione con la propria materia è così ampio che la transessualità è solo una delle sue varianti. In generale, quando ci approcciamo a una persona che non conosciamo, traiamo conclusioni e chiavi di interpre-tazione dai soli dati che abbiamo a disposizione, ovvero quello che vediamo: com’è vestito, di che colore ha la pelle, se è grasso o magro. Su questi pochi dati proviamo subito a farci un’opinione, a dare un giudizio che, con così po-chi elementi, sarà solo un pregiudizio.

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Fighe e sfigate

Quando ero deputata ricevevo molte lettere nella mia ca-sella di posta a Montecitorio, lettere quasi sempre di per-sone disperate. Le leggevo tutte, lo sentivo come un mio dovere, anche se farlo mi faceva sentire come Atlante, con il mondo e tutti i suoi problemi sulle spalle, il globo da reggere con le sole braccia, a rischio anche che mi venis-sero dei bicipiti poco femminili.

tra tutte queste lettere me ne arriva una dal carcere di Pisa, scritta a mano, con qualche erroruccio grammati-cale, come se fosse scritta da un bambino. La scrive Ari-stide e insieme alla lettera, che conservo ancora, nella bu-sta trovo una sua foto: un uomo obeso al punto tale da essere costretto a camminare con un deambulatore, una sorta di girello su cui scaricare il proprio peso. Nella mis-siva mi racconta di essere un detenuto costretto a fare i propri bisogni a letto perché la sua mole gli impedisce di entrare nella porticina del bagno del carcere. Si era rivolto a destra e a manca per ottenere gli arresti domi-ciliari per motivi di salute. Non sto a pensarci troppo e vado direttamente a Pisa a trovarlo, a vedere di persona come stanno le cose. Parlo con la direttrice del carcere e dopo pochi giorni, grazie al suo avvocato, riesce a otte-nere i domiciliari.

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FIGhE E SFIGAtE 19

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Racconto di Aristide perché mi sono chiesta come mai quella sua storia mi avesse colpita così tanto. La ragione è che nel suo caso c’è una parte che mi interroga sull’ac-cettazione del corpo, quel decidere di stare bene con se stessi, tema molto importante.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità definisce la sa-lute come «stato di completo benessere fisico, psichico e sociale e non semplice assenza di patologia». Nessuno di noi ha un corpo perfetto, o meglio, è perfetto quel corpo con il quale ogni individuo si ritrova, lo riconosce come involucro adatto alla propria personalità, cucito secondo la taglia della sua mente. Questo abbatte per definizione uno dei tanti tabù per cui nessun uomo o donna ha alcun diritto ad agire sul proprio corpo, a modificarne delle parti, a in-tervenire per correggere quei tratti che non sente propri.

Quando non ero ancora così famosa, andavo in pale-stra in tuta e solitamente tornavo a casa a fare la doccia. Un giorno, una ragazza che incontravo spesso ai tapis rou-lant mi chiese perché non facessi mai la doccia nello spo-gliatoio. tergiversai qualche istante e abbozzai un paio di scuse come il pudore, la timidezza. Lei tirò su la maglietta, mi mostrò una cicatrice enorme che aveva sull’addome e mi disse: «Nessuno è perfetto», citando il catartico finale di A qualcuno piace caldo.

Si può voler bene a se stessi grazie o nonostante il pro-prio corpo. Mi spiego. Se sono grassa ma sto bene così, mi sento a mio agio e soprattutto il peso non mi causa pro-blemi di salute, non devo ammazzarmi in palestra o fare interventi di liposuzione solo perché quelle fighe portano tutte la taglia 40. Se sto bene posso accettarmi senza in-

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tervenire sul mio corpo. Ma se sono nato con un corpo da maschio e dentro di me, nell’intimo della mia perso-nalità, sento di essere una donna, allora è il caso di in-tervenire sul corpo per correggere la disforia di genere, come viene chiamato ufficialmente, o per «correggere la fortuna», come diceva più poeticamente De André nella sua bellissima canzone Princesa. Io ho capito e accettato quello che ero dentro e ho fatto quello che volevo e po-tevo per far assomigliare il mio corpo a me stessa. So be-nissimo i miei limiti, so che non resterò mai incinta e che il mio seno non allatterà nessun bambino. So di essere nato maschio ed è proprio su questo mio orgoglio che ho lavorato, che non è quello di essere una donna ma di es-sere nato maschio e aver fatto un percorso diverso in sim-biosi con la mia femminilità. ho imparato che rispetto al dato naturale della femminilità, l’essere donna può es-sere un traguardo da raggiungere. Lo sottolineo per ri-cordarlo a tutte quelle donne che maledicono il proprio sesso: esiste chi, come me, lo considera una vera benedi-zione. Per loro è stato un dono di natura, io mi sono fatta un regalo da sola.

La transizione è la strada per armonizzare il proprio corpo alla percezione che si ha di se stesse, piacersi e stare bene. Si parte dal mettere la gonna, poi si assu-mono gli ormoni e si prosegue fino all’intervento chirur-gico di rettifica dei caratteri sessuali primari (rcs). Ma visto che l’obiettivo è quello di trovare la propria iden-tità, ognuna di noi percorre la strada solo fino al punto che ritiene più adatto a sé. La necessità e il desiderio di diventare donna non è una meta definita, uguale per tutte, né si deve consentire agli altri di decidere il punto di arrivo che non sempre vuol dire, ad esempio, avere

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FIGhE E SFIGAtE 21

una vagina. Come se ad avercela si è “fighe” e se non ce l’hai sei “sfigata”.

Solo quando ti appropri di te stessa puoi aspirare a diventare una Princesa, senza titoli nobiliari ma con la speranza di scriverti da sola il titolo della tua vita, anche quando è tragica, come quella della transessuale brasiliana Fernanda Farias de Albuquerque nella versione De André.

“Che Fernandinho è come una figlia mi porta a letto caffé e tapioca e a ricordargli che è nato maschio sarà l’istinto sarà la vita.”

E io davanti allo specchio grande mi paro gli occhi con le dita a immaginarmi tra le gambe una minuscola fica.

Nel dormiveglia della corriera lascio l’infanzia contadina corro all’incanto dei desideri vado a correggere la fortuna.

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Specchio specchio delle mie brame

Durante i miei due mesi e mezzo di Isola dei famosi era bandito l’uso dello specchio e qualsiasi oggetto su cui po-tersi riflettere. Mi ricordo, alla fine del reality, come fui scioccata quando mi riguardai per la prima volta. Rifiutai quell’immagine e scoppiai a piangere: non era mio quel corpo provato, scheletrico e bruciato.

Il selvaggio Calibano, nella Tempesta di Shakespeare, si arrabbia quando vede se stesso riflesso nello specchio per la prima volta: «I hate that image and it’s false»3 (“odio quell’immagine ed è falsa”). Per alcuni la differenza tra la nostra immagine interiore e ciò che effettivamente si vede riflesso può essere altrettanto traumatica. Decidere di mutare il proprio corpo, quindi, è il tentativo di col-mare quel gap e liberarsi del demone dello specchio, im-parare a vedersi con la mente: «quando un occhio guarda dentro un altro occhio riconosce se stesso»4 e imparerà finalmente a volersi bene.

E il culturismo c’entra qualcosa in tutto questo? La sua definizione in inglese è body building, ovvero “costruzione del corpo”. Le immagini dei culturisti spesso sembrano quelle figure dei libri di anatomia o le rappresentazioni

3 W. Shakespeare, La tempesta, atto III, scena 5.4 Platone, Alcibiade I.

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SPECChIO SPECChIO DELLE MIE BRAME 23

scultoree del Marsia punito e appeso, scuoiato vivo per aver sfidato Apollo nella musica.

I body builder evidenziano i fasci muscolari rispon-dendo al canone estetico di questa disciplina. Mentre per l’uomo è più accettabile quella cooperativa di muscoli in eccesso, nelle donne culturiste è più inquietante. L’imma-ginario borghese è abituato al solito sistema binario dove l’uomo è quello forte e la donna è quell’essere fisicamente più aggraziato, morbido. In questo canone, le culturiste rimescolano le carte in tavola. Un po’ come quando si va a vedere le sculture di Michelangelo nelle Cappelle Me-dicee di Firenze e ci si ritrova davanti all’Aurora che si ri-sveglia, una statua con un fisico muscoloso con due seni appiccicati quasi per sbaglio.

Basta entrare nella sala pesi di una palestra per vedere l’avventore di turno che, mentre tira su un milione di chili, non stacca lo sguardo dai tanti specchi che lo circondano. Lo stesso che, senza una qualsiasi superficie riflettente, si sente disorientato e cerca, come in astinenza, la prima ve-trina di un negozio mentre cammina sul corso per iniet-tarsi la sua dose di compiacimento. Per non parlare degli altri dopati di se stessi chi si ammirano gli addominali an-che mentre stanno facendo sesso perché per loro anche quella è un’attività fisica. Va bene tutto. Ognuno è libero di fare ciò che vuole. Ma quando una passione diventa ossessiva e si perde il senso della misura, si passa subito al disagio, al malessere mentale. In psichiatria questa pa-tologia si chiama vigoressia: l’ossessione di ottenere un fi-sico perfetto che, in quanto ossessione, non si avrà mai.

Da anni sostengo che la treccani dovrebbe inserire nei suoi tomi la specie dell’Homo palestrandum, quell’essere

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che nidifica esclusivamente all’interno di palestre, si accop-pia solo con individui della stessa specie e quando lo fa è solo per confrontare i propri muscoli con quelli dell’altro.

Questo vale per i culturisti come per chi insiste con gli interventi estetici e si ritrova con labbra a canotto, zigomi a pomello e occhi così tirati che se sbagli chirurgo più che un capolavoro di donna ti ritrovi asimmetrica come un quadro di Picasso. Per chi pianta le tende nelle clini-che estetiche non esiste il riconoscimento di una patolo-gia specifica, ma è solo questione di tempo.

Fare palestra per tenersi in forma è sano. Definire i pro-pri muscoli riducendo la massa grassa è un obiettivo lode-vole. Quando però la grandezza del bicipite non basta mai e si arriva all’eccessivo esercizio o all’assunzione di steroidi anabolizzanti, quella stessa attività perde il suo valore sa-lutare. Così come succede per il cibo: mangiare fa bene, mangiare nulla è anoressia, mangiare troppo è bulimia.

Il disturbo alimentare dell’anoressia, come e più di tutti gli altri disturbi, ha il proprio centro nella psiche, nella te-sta e nell’animo di chi ne soffre. Così lo è la bulimia, che ha la stessa origine psicologica e le stesse caratteristiche patologiche ma che differisce dall’anoressia nella pratica e nelle modalità di sviluppo. Purtroppo hanno spesso la stessa triste conclusione. In questa sede non ne voglio par-lare in termini scientifici, non saprei farlo. Mi va di affron-tarle in termini di visioni e sensazioni che mi hanno col-pita quelle poche volte che ho avuto modo di conoscere persone che ne hanno sofferto.

La persona anoressica ha un solo desiderio: sparire. Non crede più nella vita, non crede nelle relazioni e la

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strada che trova per rinnegare l’amore è proprio il rifiuto del cibo. La prima forma di affetto, di amore incondizio-nato che dà un genitore al figlio è proprio il nutrimento. Inizia da quando si è ancora un feto, in contatto diretto con la madre attraverso il canale di nutrimento. Prosegue con l’allattamento al seno materno e poi ancora fornendo il cibo per tutta l’infanzia e l’adolescenza. Rifiutare il cibo è una sorta di suicidio dilazionato, ritardato nel tempo. Non è il suicidio meditato o repentino ma è, invece, un lasciarsi morire lentamente rifiutando tutto quello che il mondo ci offre.

Il meccanismo dell’anoressia è diabolico. Inizia con una parvenza salutare, di cura: voglio essere più bella, che oggi equivale a dire essere più magra. Poi si innesca un meccanismo per cui non si è mai abbastanza magri sem-plicemente perché lo si può essere sempre di più. Senza preavviso scatta l’ossessione per il corpo: non pensi che a quello, al corpo, al grasso, a pesarti, allo specchio che ti gela il sangue come davanti a un film horror. Salire sulla bilancia diventa come salire sul patibolo che ti sei co-struita da sola, autocondannata dal tuo giudizio sempre troppo severo.

Non ti piacerai mai più e ti lasci andare, fino alla fine, fino a lasciarti morire lentamente, con un inconsapevole desiderio di punire gli altri, chi ti sta intorno, costringen-doli ad assistere inermi e impotenti a questa fine.

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to bear or not to bear

I bears, in italiano gli “orsi”, sono il più grande esem-pio di marketing vincente. hanno trasformato il cicciot-tello peloso, magari pure stempiato, in un oggetto del de-siderio; un essere lontano anni luce dallo stereotipo del gay bello, biondo e palestrato che solo a volte si concede al comune mortale.

L’identità bear nasce a metà degli anni Ottanta negli Stati Uniti, Gran Bretagna e Australia, ma ben presto le comunità si sono diffuse altrove. In Italia si formano i primi gruppi all’inizio degli anni Novanta e anche in questo caso la rete ha velocizzato la creazione di gruppi, i contatti all’interno delle diverse città.

L’immaginario omoerotico per eccellenza era quello dell’atleta statuario, curiosamente tipico dell’epoca fasci-sta, basta pensare allo Stadio dei Marmi del Foro Italico di Roma: meglio fascista e frocio.

Gli orsi si sono detti: “Ok, noi non siamo né atletici, né glabri, né slanciati, né aitanti. Corriamo ai rimedi, faccia-moci una bella lasagna e impariamo a piacerci così”. In-fatti il loro stile è diametralmente opposto al classico gay stile Big Jim. E non parlo solo del look. Mi riferisco anche a quell’atteggiamento enigmatico, allo sguardo sempre un

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po’ imbronciato del muscoloso, sempre attento al proprio look, allo stile e alla postura. Gli orsi sono tutta un’altra cosa: allegri, ridanciani, con la voglia di divertirsi, bere e farsi delle gran mangiate tutti insieme. Il gay muscoloso passa la serata a guardarsi intorno distaccato, superiore, e finisce col togliersi la maglia in pista per esporre il risultato di tanta fatica in palestra. La serata dell’orso, invece, fini-sce spesso con una spaghettata aglio&olio&peperoncino alle quattro del mattino con la pancia “sblusata” sulla cin-tura dei jeans.

In discoteca il gay effeminato lo riconosci subito dal co-siddetto movimento repentino, quello scatto di sguardo al passante di turno, come se lo sentissi quel rumore: tac! Le “sfrante” (i gay più che effeminati) pare che addirit-tura riescano a ruotare il collo a 360°, tipo il gufo reale o come Meryl Streep in La morte ti fa bella. Il macho pale-strato fa di tutto, invece, per controllare l’istintivo scatto, si volta in modo lento e meditato, si “affretta lentamente” o, come direbbe l’imperatore Augusto, festina lente. Al contrario, lo sguardo bear aperto e gaio ha sempre un sor-riso e un solo messaggio: se vieni con me ti faccio una par-migiana che non te l’ha mai fatta nessuno.

Alla loro fisicità e al look da taglialegna, gli orsi asso-ciano un atteggiamento spesso effeminato, il che li rende molto socievoli ma stranianti verso la solita società duali-stica che divide il mondo in machi e damigelle. Straniante perché la gaiezza di questi individui spiazza totalmente l’uomo etero-normato, colui che fa dell’eterosessualità l’u-nica norma. Io preferisco la Norma di Bellini. Ricordo un episodio dei Simpson in cui homer, temendo che il figlio Bart stia diventando gay, lo porta in un’acciaieria per mo-

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strargli come vivono e lavorano gli uomini duri. tutti i di-pendenti della fonderia hanno la barba e camicie a scac-chi ma si rivelano essere dei bear che proprio lì vivono e si divertono tra party e disco music.

L’uomo più desiderato dalla comunità bear italiana pare sia Gerry Scotti. A sua insaputa.

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