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INDUISMO INDUISMO La parola “Induismo” designa realtà che hanno subito notevoli evoluzioni nel corso di circa 3.500 anni. Il termine stesso non è di provenienza indiana, ma è stato coniato all’esterno dagli invasori musulmani intorno all’anno 730 dell’era cristiana, per designare i seguaci delle tradizioni religiose degli abitanti lungo le rive dell’Indo. Se ci si riferisce all’epoca lontana, si preferisce parlare di “Vedismo”, in quanto i testi sacri fondamentali erano i Veda, composti tra il XVI e il X secolo avanti Cristo. Il termine “Brahmanesimo” invece si applica alle tradizioni religiose delle tribù nomadi provenienti ad ondate successive dalle regioni al nord del Mar Caspio. L'attuale area di diffusione dell'Induismo abbraccia soprattutto l'India, ma è diffuso anche nel Nepal e nella Malaysia e, come minoranza, nel Pakistan. Su un miliardo di indiani gli Induisti sono 1'85% della popolazione, ossia circa 900 milioni.

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INDUISMO

INDUISMO

La parola “Induismo” designa realtà che hanno subito notevoli evoluzioni nel corso di circa 3.500 anni. Il termine stesso non è di provenienza indiana, ma è stato coniato all’esterno dagli invasori musulmani intorno all’anno 730 dell’era cristiana, per designare i seguaci delle tradizioni religiose degli abitanti lungo le rive dell’Indo. Se ci si riferisce all’epoca lontana, si preferisce parlare di “Vedismo”, in quanto i testi sacri fondamentali erano i Veda, composti tra il XVI e il X secolo avanti Cristo. Il termine “Brahmanesimo” invece si applica alle tradizioni religiose delle tribù nomadi provenienti ad ondate successive dalle regioni al nord del Mar Caspio.

L'attuale area di diffusione dell'Induismo abbraccia soprattutto l'India, ma è diffuso anche nel

Nepal e nella Malaysia e, come minoranza, nel Pakistan. Su un miliardo di indiani gli Induisti sono 1'85% della popolazione, ossia circa 900 milioni.

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SANATANA DHARMA

Sebbene si dica che l'induismo è un corpo complesso di diverse religioni e di sampradaya (sotto-tradizioni), è possibile trovarvi unità concettuale per quanto riguarda l'idea della vita. Forse il concetto occidentale di "religione" non è l'approccio migliore per comprendere questo sfaccettato fenomeno religioso. Gli stessi indù definiscono la propria religione sanatana dharma, cioè un'antica guida per orientare i passi dell'uomo nel mondo; si tratta di una specie di filosofia di vita che, tradotta un po' sommariamente, si articola nei seguenti punti: dovere personale e sociale, legge eterna, virtù naturale, moralità fondamentale, principi immutabili.

Per esempio, il dharma del fuoco è il bruciare. Nel contesto umano, il dharma è costituito da regole e norme che esprimono un ideale socio-religioso. Pertanto, il senso più forte del dharma umano si fonda sul codice pratico, lo stile di vita, la responsabilità e il dovere personali, l'ordine socio-religioso ecc.

Soltanto nel XIX secolo gli indù istruiti hanno incominciato a utilizzare la parola dharma con il significato di "religione".

SVILUPPO STORICO DOTTRINALE

L'induismo non ha fondatori o profeti e, in un certo senso, è inaccessibile. Esso è nato dal

popolo, come un complesso di atteggiamenti religiosi verso un Assoluto, intuito come il principio di tutte le cose. E' un insieme di sistemi religiosi, un mosaico di forme religiose e fìlosofìche, nonché di strutture sociali, di tradizioni composite, di miti di popoli di varie epoche. Il legame è costituito solo dal fatto di essere praticato dal popolo indù.

Non si tratta di una religione statica, quanto piuttosto di una religione che nel corso della sua storia ha subito varie evoluzioni e che è ancora in grado di dar vita a molti movimenti riformatori. Caratteristica peculiare dell'Induismo è il cosiddetto «inclusivismo», ossia la proprietà di assimilare altre credenze, così da modificarsi continuamente, lungo la sua storia senza perdere una certa unità e continuità col passato. L'assimilazione degli elementi estranei, è accompagnata da una specie di impermeabilità di fondo. Così con le invasione musulmane, Islam e e Induismo si sono influenzati a

vicenda e tra l’altro il monoteismo islamico ha favorito l’evoluzione del politeismo induista verso il

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culto di un dio supremo. Più recentemente l'induismo ha adottato alcune nozioni anche dalla predicazione cristiana.

Sinteticamente, lo sviluppo dell’induismo si può ricondurre a quattro periodi storico-

dottrinali.

IL PERIODO VEDICO

La Religione induista ha avuto storicamente origine quando i popoli ariani, a partire dal 20° secolo avanti Cristo, occuparono i territori bagnati dall'Indo e dal Gange, dando origine a nuovi popoli chiamati in seguito "indù".

Tra il 1500 e 1'800 avanti Cristo l'esperienza religiosa di questi popoli, fino ad allora tramandata oralmente e nella pratica della vita, fu messa per iscritto da autori rimasti a noi ignoti: nacquero così i "Veda" (=Sapere), che sono raccolte di inni, di preghiere e di formule magiche, scritte in "sanscrito", l'antica lingua indiana.

La religione insegnata dai "Veda" è di fatto politeista: accetta ben 33 divinità, personalizzazioni dei vari fenomeni naturali tra le quali ricordiamo Indra e Varuna. Indra è il dio della tempesta, vanitoso e rozzo, mentre Varuna è il dio del ciclo sconfinato e considerato il custode dell'ordine morale.

I "Veda" attribuiscono importanza centrale al "Sacrificio", che però è spesso inficiato da riti magici, ritenuti così potenti da riuscire a sottomettere gli stessi dei al volere dell'uomo.

IL PERIODO BRAHMANICO

Dall'8° secolo avanti Cristo, in India prende il sopravvento l'idea del "Brahman", ossia dell'Assoluto, dell'Essere universale ma impersonale. Si tratta di una evoluzione religiosa che dal politeismo vedico passa al monismo panteistico: "Brahman è Tutto e Tutto è Brahman".

In questo periodo il "Sacrificio" assume importanza ancora maggiore che nel periodo vedico e i Sacerdoti (i "Brahmani") acquistano un influenza determinante sulla vita religiosa e sociale del popolo.

Gli scritti sacri di questo periodo, i "Brahmana", contengono la descrizione di riti e cerimonie

sacrificali ed anche minuziose spiegazioni di questi riti, illustrati da leggende e da storie fantastiche, spesso di una oscenità disgustosa.

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IL PERIODO DELLE UPANISHAD

A cominciare dal 6° secolo prima di Cristo, avvenne un grande rimescolamento di idee. Sorsero due movimenti riformatori, divenuti religioni autonome, il Buddhismo e il Giainismo. E all’interno del brahmanesimo tradizionale ci fu una reazione al ritualismo esasperato dei sacrifici e gli indù più desiderosi di perfezione (gli "ascèti" o "Guru") ebbero un ripensamento personale di tutta la dottrina vedico-brahmanica.

Attorno ai nuovi maestri si sedevano i discepoli in ascolto delle loro riflessioni su Dio, sull'uomo e sul mondo: nacquero così quegli scritti che portano il nome di "Upanishad" (letteralmente: "sedersi accanto con rispetto") che sono ritenuti ancor oggi dagli indù la più alta e perfetta espressione della rivelazione divina. Le "Upanishad" sono più di 200, ma solo quelle più antiche (una decina in tutto) sono considerate come canoniche. Esse, nel complesso dei libri sacri indù, sono collocate al termine di ogni "Veda", nella terza parte, e perciò sono detti anche "Vedanta" ("anta"="fine": "fine dei Veda"). Lo scopo delle "Upanishad" è di insegnare all'uomo il mezzo per liberarsi dal ciclo delle

"reincarnazioni" e raggiungere l'identificazione della propria anima ("l'Atman") con il "Brahman", ossia con l'impersonale "Tutto".

E’ in quest’epoca che si impongono le due nozioni, comuni anche col Buddhismo, di “karma”, peso degli atti compiuti nel corso delle vite precedenti, e di “sansara”, ciclo indefinito di rinascite e di rimorti, la cui prospettiva ossessiona il pensiero indiano anche ai nostri giorni, avviene la scoperta dell’atman, il “Se universale” al quale i “se” particolari sono identici, che è propria dell’Induismo e si segue l’ahimsa o non violenza di provenienza buddhista.

IL PERIODO MODERNO

L'Induismo moderno, ha inizio alla fine del XVIII secolo, dopo il primo duro impatto con la

colonizzazione occidentale, che tuttavia ha avuto la funzione di servire da stimolo e da fermento. Accetta come Libri sacri gli antichi "Veda", i "Brahmana" e le "Upanishad", ma anche numerosi scritti più recenti contenenti gli insegnamenti dei "Guru", i filosofi-maestri di vita spirituale indù.

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I TESTI SACRI

I Testi Sacri indù sono moltissimi. Essi sono divisi in due categorie: Shruti, Testi « uditi », o Testi della Rivelazione; e Smriti, Testi « appresi », o Testi della Tradizione.

Ai primi appartengono i Veda (libri della « Conoscenza »), in tutte le loro parti, fino alle Upanishad (i testi delle « sedute » attorno al maestro), chiamate anche Vedànta (« fine, o epilogo dei Veda »). Questi testi sono il documento della fase più antica della Religione indù, chiamata anche Religione Vedica. mentre rappresentano il momento finale di questa prima fase storica, gettano le basi fondamentali del vero e proprio Induismo.

I testi delle Smriti non possono essere elencati qui, ma tuttavia se ne devono ricordare alcuni per la loro grande importanza. C'è un testo, che condensa in « aforismi » (sùtra) i dati essenziali della speculazione sul Bràhman ed è il Bràhma-sùtra di Badarayana, chiamato anche Vedànta-sùtra. Esso rappresenta il testo-base di riferimento per tutte le successive Scuole Vedantiche.

Ma le Smriti più note sono le due epiche: Màhàbharatae Ràmàyana, dove compaiono le due più popolari « incarnazioni» di Vishnu, rispettivamente Krishna e Rama. Il Màhabharata contiene nel suo corpo un libro, che ha assunto tale importanza, da essere considerato opera a parte, la Bhagavad-Gìtà, che occupa quasi tutto il 6° libro della stessa epica. Del Ràmayana, originario di Valmiki, esiste una famosa rielaborazione in hindi, il popolare Ram-charitmànas (« il mare delle gesta di Rama »), conosciuto anche col nome di Ràmayana di Tulsi Das (1532-1624), dal nome del suo autore. Il contenuto di questi testi è universalmente noto in India.

Un altro libro, che gode della stessa popolarità, fa parte di una raccolta di testi, chiamati Purana, (« Antichità »); ed è la Bhàgavatà-Puràna, spesso letta e meditata negli incontri cultuali.

Oltre a questi testi, che sono basilari, i singoli Movimenti religiosi hanno proprie raccolte di testi sacri autorevoli, e opere di maestri e riformatori religiosi, nonché di poeti, che hanno esercitato un grande influsso sulla storia dell'Induismo.

Il filone più strettamente speculativo e teologico è rappresentato invece dalle Scuole Vedantiehe, che fanno capo rispettivamente a Shankara (780-820), Ramanuja (1050- 1137), Nimbarka (XIII sec.), Madhva (1199-1278), Valabha (1479-1531) e Chaitanya (1485-1533).

MAESTRI RECENTI

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Per l'Induismo moderno, ci sono i maestri più recenti. I principali sono legati al movimento di «

rinascita dell'Induismo », cominciato alla fine del XVIII secolo, dopo il primo duro impatto con la colonizzazione occidentale, che tuttavia ha avuto la funzione di servire da stimolo e da fermento.

Rammohan Roy (1774-1833) è il fondatore del Bramo Samàj (1828) nel Bengala. Questo movimento, a cui appartiene anche Devendranath Tagore (1817-1905) e, in parte, il figlio Rabindranath (1861-1941), poi fondatore della Scuola Shantiniketan, e di cui un ramo separato ha visto l'opera del grande Keshab Chandra Sen (1834-1884), ha avuto il merito di riportare l'attenzione e l'impegno di tutti all'origine più pura dell'Induismo vero e proprio, le Upanishad.

Nel Maharashtra abbiamo invece altri due movimenti: il Pràrthana Samaj di Mahadev Govind Ranade (1842-1901) e l’Arya Samàj di swàmi Dayananda Sarasvati (1824-1883). Mentre il primo si pone sulla linea tradizionale dei grandi bhakta del Maharashtra, il secondo opera un ritorno radicale ai Veda, interpretati però in senso teista.

Un altro movimento religioso nasce, sempre nel Bengala, per impulso di Ramakrishna

Paramahansa (1834-1886) e del suo principale discepolo, Swàmi Vivekananda (1862-1902), organizzatore e fondatore della « Ramakrishna Mission ». Ramakrishna è la personificazione della sintesi religiosa induista.

Per lui. Dio è, ad un tempo, personale e impersonale, trascendente e immanente. Padre e Madre; Egli può essere raggiunto con la conoscenza (jnàna) in quanto impersonale, ma al di sopra di questo Egli può essere amato con la devozione (bhakti) nel suo aspetto personale. Ramakrishna, dal canto suo, è stato un grandissimo bhakta e un ardente adoratore di Dio nel suo aspetto di Madre (Kali).

Nel sud, abbiamo Ramana Maharshi (1879-1950), il cui semplice pensiero, fondato su una profonda esperienza di vita vissuta, si ricollega all'identità upanishadica, Atman-Brahman. Per lui, la realizzazione spirituale è possibile, quando l'uomo incomincia a percepire la differenza tra l'ego e I’io (Atman) e a progredire verso una identificazione a Questo. II suo perciò è innanzitutto uno jnàna-yoga sul filone della tradizione advaita (« non-duale, o monistica »).

Nel sud, ha fondato il suo Ashram anche Sri Aurobindo Ghose (1872-1950), il quale tuttavia, per la sua permanenza nel Bengala ha subito fortemente l'influsso di Ramakrishna; il suo è chiamato « Yoga Integrale ». Egli infatti prende elementi da tutti i vari sistemi yoga, ma si fonda essenzialmente sul trimàrga classico: jnàna-karma e bhakti-yoga. Il jnàna-yoga è essenzialmente conoscenza dell'Assoluto, personale e impersonale ad un tempo, trascendente e immanente al mondo in forza della sua Shakti, principio e anima dell'evoluzione cosmica dai livelli più bassi al «mentale » e al « sopramentale ». Il karma-yoga è l'azione disinteressata della Gita, compiuta non per se stessi, ma « per la Madre ». E così l'apice dell'edificio è di nuovo la bhakti, soprattutto rivolta alla Shakti (Madre).

Un altro maestro, molto noto anche in occidente, è swami Ramdas (1884-1963), un grande devoto di Rama, come indica il nome stesso che si è dato Ràm-Dàs (« servitore di Rama »). La sua bhakti, semplice e quasi sconcertante per l'anima razionale, ha un momento importante nel japa, ripetizione costante del mantra, che egli ha fatto echeggiare dovunque è passato: Aum Shrì Ràm, Jai Ràm, Jai Jai Ràm.

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Un altro grande devoto di Rama è stato il Mahatma Gandhi (1869-1948), universalmente conosciuto come uomo politico, ma in India venerato soprattutto come Maestro spirituale. Egli è noto come l'apostolo della non-violenza (Ahimsà). Per Gandhi, occorre precisare, l'Ahimsà non è tanto uno strumento di rivendicazione politica, quanto piuttosto la strada maestra per attingere la Verità (Satyà) di Dio, presente in ogni cosa, e restarvi fedeli, lasciandosi condurre in ogni vicenda unicamente dalla Forza che da Essa promana. In questo senso, l'Ahimsà non è passività e inerzia; essa è la potenza della

Verità in atto (Satyàgraha) e richiede un perfetto controllo di sé e la volontà incrollabile di «procedere in accordo col Bràhman » (Bràhmacharya). Il suo esito è la perfetta Libertà (Moksha), secondo il principio dell'Isha-Upanishad, così caro a Gandhi: « Tutto ciò che noi vediamo in questo grande Universo è permeato da Dio. Rinunciamoci e godiamone » (Isha Upanishad, 1 ): rinunciamoci, perché niente è nostro; usufruiamone e serviamocene, perché Dio ci chiama a collaborare con Lui.

Il movimento di « rinascita dell'Induismo » non ha avuto solo il merito di operare un ritorno ai Testi Sacri, e di purificare la pratica religiosa dal formalismo e dal ritualismo; ma ha anche decisamente portato l'attenzione ai problemi umani e sociali dell'India. Dietro il suo impulso, sono sorte opere assistenziali, educative, sanitarie e di riforma strutturale del corpo sociale. In questo modo, l'impulso mistico, tradizionale di tutto l'Induismo, ha assunto una dimensione nuova di solidarietà verso l'umano. Così si può affermare che la rinascita dell'Induismo ha aperto un'epoca nuova nella storia della Religione indiana.

L’INTUIZIONE CENTRALE

L'Induismo è il risultato della storia di un popolo, che ha dedicato le sue migliori energie alla ricerca spirituale. Il punto fermo di questa ricerca, la pietra miliare, a cui si farà sempre riferimento, è

l'intuizione che la Realtà è Una. Il mondo, l'uomo e gli Dei, le cose che sono state, che sono e che saranno: tutto questo è l'unica e

medesima Realtà: « tutto è Bràhman » (Ch. Upanishad 13, 14 ) . E quando la persona ha attinto una conoscenza illuminata, essa pure può dire: « io sono Bràhman » (Bh. Upanishad, 1,4). Il Bràhman è l'« Uno, senza secondo » L'io profondo dell'uomo, l'Atman, è anch'esso identico al Bràhman. « Questo Atman dentro il mio cuore è più piccolo di un grano di riso o di frumento, di un seme di senape o di un grano di miglio, o del germe di un grano di miglio; e tuttavia, questo Atman dentro il mio cuore è più grande della Terra, più grande delle Regioni intermedie, più grande dei Cieli... Questo Atman dentro il mio cuore è il Bràhman stesso (Ch. Upanishad 13, 14 ). E per quanto riguarda l'uomo, da secoli, l'Induismo ripete la frase di Uddalaka a suo figlio Shvetaketu: « tu sei Quello » (Ch. Upanishad 6, 5 ). Viene così riconosciuto che il Bràhman-Atman è l'unico Assoluto, la radice e il fondamento di tutto, il Signore che regge e sostiene ogni cosa, la guida interiore e il fine di ogni vivente.

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IL MONDO E’ CREATO?

In questo senso, il mondo non è creato e non ha consistenza in se stesso. Sia che esso venga concepito come màya, « illusione » (presso Shankara, per esempio), o venga piuttosto descritto come il

«gioco » reale di Dio, lila (presso i Vishnuiti, ad esempio), esso è, in tutti i casi, l'eterna manifestazione dell'Eterno Esistente, il volto fenomenico dell'Eterna Persona, la dimora mutevole del Permanente Inabitante.

Quando si parla di « creazione » e « distruzione », inizio e fine, queste parole non si riferiscono ad un inizio temporale del mondo e ad una sua fine per sempre; ma si riferiscono piuttosto ai processi

ciclici di apparizione e sparizione delle cose, di uscita e rientro delle medesime nella loro eterna Origine.

Tutto ciò che appare è lo stesso Bràhman, che si manifesta attraverso ogni cosa; Egli è la Realtà vera di ogni sua manifestazione. Soltanto se si considera un fenomeno a sé stante, si può parlare di inizio e di fine, di nascita e di morte; ma il fenomeno stesso è sempre stato in seno al Bràhman, e sarà in Lui eternamente custodito.

LA MORTE

Non solo l'uomo non muore, ma in realtà egli non è mai nato. «Non c'è mai stato tempo, in cui nè io, nè tu, nè questi re degli uomini non esistessimo; nè mai ci sarà tempo, in cui cesseremo di esistere. Come l'anima (letteralmente, 1'" incorporato") passa attraverso l'infanzia, la giovinezza e la vecchiaia, e permane sempre la stessa; così essa permane dietro il mutamento dei corpi »(B. Gita II, 12): questa è la risposta che Krishna da’ ad Arjuna nella Bhagavad-Gìta, ma è anche la risposta che l'Induismo ha dato e darà sempre a chiunque l'interpella su questo soggetto.

L'Io profondo di ogni uomo, la verità della sua Persona è l'Atman, ed esso è identico al

Brahman: « ingenerato e immortale, immutabile ed eterno, non è ucciso con l'uccisione del corpo... Come l'uomo smette vestiti vecchi e ne indossa nuovi, così, avendo smesso corpi usati, l'Inabitante ne assume nuovi... »(B. Gita II, 20)

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SANSARA

Gettato nell'oceano del mondo fenomenico, che ondeggia ciclicamente tra creazione e dissoluzione, l'uomo resta anch'esso in balia del ciclo di nascite e rinascite (samsara), come un naufrago in balia delle onde. E come questi non risolve la sua situazione, nuotando semplicemente da un'onda ad un'altra onda, finché non toccherà la riva; così l'uomo non potrà uscire dal samsara, finché

non attingerà l'Assoluto. Questo è il problema della « Liberazione » (Moksha, o Mukti), come viene chiaramente posto,

fin dal tempo delle Upanishad. Erroneamente, Liberazione è stata intesa come « fuga » dal mondo. Per l'Induismo, non si tratta di « fuggire », ma piuttosto di « rientrare » in seno al Brahman. E poiché Questo è tutta la realtà, rientrare in seno al Brahman vuoi dire prendere posto al centro della realtà, assidersi in seno all'Origine di tutte le cose; per questo, colui che ha realizzato il Brahman, è tutte le cose.

Ma, come può essere ammesso il “sansara”? Dobbiamo ricordare che, l'induista è innanzitutto un uomo di fede e perciò dà fiducia e credito a quello che i rishi, che hanno « visto » la verità, gli

hanno comunicato e detto. In base a questo fiducia, egli crede che l'uomo che viene al mondo era in cammino fin dall'eternità per quel giorno e l'eternità è di nuovo il resto del cammino che deve percorrere. Egli è sempre stato e sempre sarà. E come ora egli è emerso dal seno del Brahman alla superficie della Storia, così pure, a livelli più o meno infimi, più o meno elevati, egli ha sempre fluttuato tra le onde di questo oceano, che è il fenomeno cosmico, e ancora fluttuerà, se la grazia della «

Liberazione » non lo riporterà di nuovo in seno al Brahman. Questa è la verità, in cui l'Induismo crede. Come poi questo avvenga, che cosa significhi assumere diversi « corpi », e come sia possibile

per l'uomo conservare la propria « identità » attraverso tutto questo, è una risposta che richiede nell'interpellato e nell'interpellante una « Conoscenza », che non necessariamente coincide con quella che l'uomo ha ora.

KARMA

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Ciò che lega l'uomo al ciclo delle nascite e rinascite è il Karma, termine sanscrito che si può tradurre con “azione”. Secondo la dottrina del Karma, ogni azione buona o cattiva ha un effetto notorio e anche un effetto soprasensibile, produce cioè un merito o un demerito che aderisce al soggetto. Le buone o le cattive azioni compiute nel presente influenzano le nascite future . Se l'uomo osserva perfettamente la Legge (Dharma), potrà ottenere una rinascita nobile; tuttavia per la Liberazione il suo impegno non è sufficiente.

La Gita dirà chiaramente che l'uomo non può essere liberato in forza delle azioni compiute

secondo la Legge. La Liberazione è il perfetto congiungimento con l'Origine ultima di tutte le cose: questo presuppone che si faccia pieno spazio alla Sua presenza e alla Sua azione. Essa è l'opera propria del Supremo Signore (Param-Ishvara) : a Lui l'uomo deve affidarsi. « Abbandona ogni Dharma, dirà Krishna ad Arjuna, e prendi rifugio in Me soltanto; Io ti libererò da ogni peccato e da ogni male, non temere » (B. Gita XVIII, 66).

DIVINITA VICINA E NASCOSTA

La Moksha (la liberazione definitiva) non è avvertita come un fatto dipendente dall'esistenza o non esistenza di Dio, o dall'esistenza di più dèi o di un solo Dio. Dio è un'entità sopra-personale, vale a dire ineffabile, come nella tradizione Shaiva, o personale, cioè oggetto di devozione, come in quella Vaishnava. La questione può essere riassunta in questo modo: la Divinità è intimamente vicina a noi (Ishta devata), ma è assolutamente trascendente e assolutamente Altra (Brahman). Si tratta di un Dio nascosto (deus absconditus), la cui divinità è oscurata e distorta dai veli della vita mondana e soltanto in certi casi si rivela in tutta la sua potenza e il suo splendore (Ishvara). La Divinità è l'Unico che discende come amico personale (Avatara). La Divinità è onnipresente, onnisciente, onnipotente, eterna, benevola, beata, imperitura, autorivelatrice, autoilluminante, superiore alle previsioni (neti-neti), senza attributi (Nirguna), senza forma (Nirvishesha) e senza limiti (Nirupadhita). Il potere della Divinità permea tutto ciò che esiste (Chidvìlasa).

DIO PERSONALE O IMPERSONALE?

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Il Bràhman-Atman delle Upanishad presenta un'immagine di Dio come Assoluto Impersonale. Questa concezione, che ha avuto un grande influsso in seno all'Induismo, troverà in Shankara (780-820

d.C.) il suo più convinto sostenitore. Per Shankara tutto è Bràhman, il mondo è mayà, « illusione », e solo l'ignoranza, o meglio, la « non conoscenza » (avidyà) può attribuire alla realtà fenomenica una consistenza che in effetti non ha. Finché l'uomo resta vittima dell'ignoranza, non può attingere la Liberazione. Egli potrà essere liberato unicamente attraverso una « conoscenza » (jnànà), che gli permetta di vedere il mondo come illusione e il Bràhman come unica realtà.

La Bhagavad-Gìtà non è su questa linea. Essa introduce una concezione personale di Dio, che resterà determinante per tutta la storia dell'Induismo. Per la Gita, Dio non è soltanto l'Immutabile e Immanifesto Bràhman, ma soprattutto la « Persona Suprema », Purush-ottama (B. Gita XV, 17). La via dell'Immanifesto Bràhman è difficile da percorrere, dirà Krishna ad Arjuna , « ma per coloro che adorano Me come Termine supremo, ...Io divento per loro il salvatore da quest'oceano del samsàra mortale » (B.

Gita XII, 5).

La consistenza della "personalità" dell'Essere supremo non è molto chiara, non pare concepita come "oggettiva", ossia inerente all'Essere supremo stesso, ma come "modo soggettivo" del fedele di considerare Dio, al fine di poter stabilire con Lui un "colloquio interpersonale". E per questo che tale "personalità" viene spesso attribuita anche agli idoli. Il pensiero di Gandhi riassume bene questa "consistenza soggettiva" della personalità di Dio: «Io, soleva ripetere, non considero Dio come una persona... ma per coloro che sentono il bisogno di una sua presenza personale, Dio è una persona. Le definizioni di Dio sono innumerevoli... io adoro Dio solo come Verità».

Comunque la concezione personale di Dio è importante per capire il tipo di yoga, che la Gita presenta come strumento di Liberazione.

YOGA

Yoga significa « unione » e connota, al tempo stesso, i mezzi e gli strumenti per realizzarla. In rapporto al diverso modo di concepire il Termine di questa unione e i metodi per realizzarla, si danno diversi tipi di yoga. Questo spiega come la stessa parola, all'interno dell'Induismo, abbia assunto significati e usi differenti.

Lo yoga classico (« yoga della forza », o hatha-yoga; e «yoga regale », o raja-yoga) comprende un insieme di tecniche fisiche e psichiche, che mirano al perfetto « raccoglimento » in Sé (samadhi), alla totale unione col proprio Atman, al completo possesso di Sé. Ma fino a che punto questo Atman sia la stessa cosa che la « Suprema Persona » (Purush-ottama), lo yoga classico di per sé non lo dice.

La Gita accetta le tecniche dello yoga, ma solo dopo aver posto chiaramente come Termine dell'« unione » l'immagine personale di Dio, perché dopo tutti gli sforzi umani è Lui che viene incontro al Suo devoto, ed in questo incontro si realizza la Liberazione. “Lo yogì, che dimora sempre nell'Atman con mente ferma, ottiene la pace suprema del Nirvana”, fin qui lo yoga classico; poi la precisazione di Krishna: “che ha sede in Me” (B. Gita VI, 15). O ancora: “Colui che è raccolto nello yoga e vede l’Atman in tutte le cose e tutte le cose nell'Atman, vede con visione retta”. Fin qui ancora lo yoga; poi l'equivalente della Gita: “Colui che Mi vede dovunque e vede ogni cosa in Me, da lui non vado smarrito, nè da Me egli va smarrito” (B. Gita V, 29).

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TRIPLICE VIA DELLA LIBERAZIONE

Solo dopo queste precisazioni, la Gita stabilisce la triplice via dello yoga, per il raggiungimento della Liberazione. La triplice via di Liberazione (trimarga), che viene indicata nella Gita e poi accettata, pressoché unanimemente, in seno a tutto l'Induismo, si chiama: Karma-yoga (via all'azione), Inàna-yoga (via della conoscenza), Bhakti-yoga (via della devozione).

Il Karma-Yoga

II Karma-yoga è la via dell'azione, ma non dell'azione intesa in senso vedico, come suscitata e

definita dal desiderio (kàma) dei suoi frutti. Il Karma-yoga è la via di colui, che sapendo esattamente

che è Dio che agisce in ogni cosa, affida a Lui ogni sua azione e la compie senza attaccamento ai frutt i (nish-kàma karma). « Tu consegna tutte le azioni a Me e con la mente concentrata nell'Atman, libero da desiderio ed egoismo, combatti senza inquietudine » (B. Gita III, 30). L'uomo, che è radicato in Dio, « non ha nulla da acquistare, con azioni da fare o da evitare, nè dipende da alcun essere esistente per l'ottenimento di qualcosa » (B. Gita II, 18; egli è semplicemente il vettore dell'eterna Azione di Dio, che è in atto per il mantenimento dei mondi (Loka-samgraha), per il dono gratuito di vita, che definisce il Suo eterno e permanente Sacrificio; l'azione del Karma-yogì dev'essere compiuta secondo le modalità e

il disegno di questo Divino Sacrificio (B. Gita III ); solo in questo modo, essa è strumento di Liberazione e, progressivamente, manifestazione dello stato raggiunto di Libertà.

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Jnana-Yoga

Lo Jnana-yoga è la via della conoscenza. Ma anche qui, secondo la Gita, Jnàna non è solo la

conoscenza che tutto è Bràhman, che ogni cosa ha origine dal Bràhman e nel Bràhman si dissolve. Questo Arjuna lo sa già e, nel vivo desiderio di vedere il volto del suo Signore (Ishvara), egli prega

Krishna di mostrargli la Sua « Forma » Divina (Rùpa). Krishna gli accorda la grazia e ad Arjuna, che si è prostrato adorante, così parla: « Questa, che, per Grazia, ti è stata mostrata col potere del Mio yoga, o Arjuna, è la Mia suprema Forma, piena di splendore, universale, infinita, primeva, che non è stata vista da nessun altro che da te. Né con lo studio dei Veda, né coi sacrifici, né con le elemosine, nè con l'osservanza dei Riti, né con severe austerità, posso Io essere visto in questa Forma nel mondo degli uomini » ". Questo è lo jnàna-yoga, come lo intende la Bhagavad-Gìtà, che è ben altra cosa dal risultato di uno sforzo d'indagine conoscitiva umana, né è la semplice riduzione della realtà fenomenica all'Impersonale Bràhman, ma è piuttosto la Grazia di una rivelazione, la manifestazione graziosa di un Volto inaccessibile.

Bhakti-Yoga

Che tutto questo possa essere ottenuto unicamente mediante la via della Bhakti, Krishna lo

dice immediatamente dopo: « È veramente difficile vedere questa Mia Forma, come tu solo hai visto; persino gli Dei desidererebbero vederla. Né coi Veda, né con l'austerità, né con l'elemosina, né coi sacrifici, posso Io essere visto in questa Forma, come tu Mi hai visto. Ma attraverso una devozione perfetta (Bhakti), posso Io in questa Forma essere conosciuto, visto e penetrato in realtà, o Arjuna. Colui che fa le azioni per Me, che Mi adora come il Supremo, che è devoto esclusivamente a Me, che è libero

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da attaccamento e senza inimicizia verso alcuna creatura, viene a Me, o Arjuna » (B. Gita XI,522). E così, senza rigettare la tradizione dello yoga; l'idea vedica del karma, la concezione vedantica della jnàna, la Gita reinterpreta e assume tutto alla luce e nella prospettiva della bhakti. E questa è anche la via, che l'Induismo segna alla reale Liberazione.

BHAKTI

Non potremmo mai capire l'Induismo vero, se non lo accostiamo alla luce dei possenti movimenti bhakti, che l'hanno sempre animato. Ogni altro movimento rappresenta un aspetto, un approccio, un'aggiunta, un complemento, ma l'anima vera dell'Induismo è sempre stata e sarà sempre la bhakti. E questo è anche l'Induismo reale, quotidiano, della gente comune dell'India.

Non si può qui fare una storia dei movimenti devozionali in India. Diciamo soltanto che, dopo il netto superamento di ogni concezione politeistica pre-upanishadica, l'Induismo ha tranquillamente rimesso in luce figure di Dei del pantheon vedico, quali Vishnu, Shiva e le Shakti, sapendo perfettamente che questi non erano più « Dei », ma aspetti manifestativi dell'unico Dio personale. Attorno a questi « Dei » sono nati e si sono sviluppati i più bei movimenti spirituali di tutta la Religione indù.

LE DIVINITA

Fatta questa premessa, si può parlare degli Dei dell'Induismo, che sono molti. Oltre a Vishnu, Krishna, Rama, Shiva, Brahma, vanno menzionati: Ganesha (corpo umano e testa di elefante), figlio di Shiva, Dio della Conoscenza e della Liberazione, e Karttikeya, pur esso figlio di Shiva, Dio del coraggio e della potenza; Hanuman (in forma di scimmia) alleato e fedele servitore di Rama, Personificazione della fedeltà; Agni, Dio del Fuoco, invocato nei Sacrifici, mediatore tra Dio e gli uomini; Manasha, Regina dei serpenti (naga); ecc.

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A molti di questi Dei sono attribuite delle Shakti. Anche le Shakti, benché molteplici, sono

l'unica e identica « Madre Divina». Di essa così scrive Swàmi Ramdas: « Dio, la Realtà suprema, ha preso, in virtù del Suo Potere infinito, la forma dell'universo e di tutti gli esseri, le cose e le creature che vi si trovano. Tutte le attività sono dirette e controllate dal Suo Potere. Questo Potere è la Madre Divina. Essa è il Principio creatore e motore, autore, conservatore e distruttore dell'universo. La Madre Divina non è altro che la Divina Shakti. Essa è sempre in noi. Se vogliamo la pace, dobbiamo prendere rifugio in Lei ».

Saraswati, o Vak (la « Parola »), Shakti di Brahma, è la Dea della Sapienza, protettrice delle scienze, delle lettere e delle arti. Lakshmi, o Shri, è la Shakti di Vishnu, Dea dell'armonia, della dolcezza, della bellezza e dell'opulenza; essa incarna tutti gli ideali della sposa indiana. Essa accompagna Vishnu in tutte le Sue «incarnazioni »; e così è Sita per Rama, Radha o Rukmini per Krishna; e prende altre forme e altri nomi per le altre « incarnazioni» di Vishnu.

Ma la Shakti per eccellenza è quella che è riferita a Shiva. E poiché Shiva è, ad un tempo, terribile e benefico, Dio della morte e della risurrezione, della distruzione e della liberazione, la sua Shakti, sotto diversi nomi, presenta aspetti differenti e complementari, contraddittori solo in apparenza. Come Kali (la « Nera »), Essa è terribile e distruttrice nella sua danza di morte, ma anche benevola come il motivo e lo scopo per cui distrugge. Come Durga, l'inaccessibile, e Chandi, l'impietosa. Essa distrugge gli Asura (Demoni) e perciò è anche la Dea della protezione. « Non intraprendete mai niente di difficile, senza invocare Durga — soleva dire Vivekananda —, Essa dirigerà la vostra mano e lavorerà per voi»( J

Herbert: Induismo vivente). Ma essa è anche l'amabile e «radiosa » Uma, o Parvati, figlia dell'Himalaia (Parvat), che, grazie alle sue ardenti austerità, ottiene di sposare Shiva, lo yogì ascetico delle alte vette. Come la giovane e bella Gauri, Essa è quella che fa ardere il cuore dei devoti per Shiva. Come Annapurna, Essa è la compagna di Shiva nel Tempio di Benares ed è venerata nelle case indù, come quella che da’ il riso necessario alla loro sussistenza. Come Sharada, essa è di nuovo la terribile, eppure è stata la Dea d'elezione della dolce e compassionevole sposa di Ramakrishna, Sharadadevi. «La Madre può tutto, ed Essa da’ tutto, scrive Ma Ananda Moyi, Quando uno ha trovato la Madre, non manca più di nulla » (B. Gida XVIII, 57 ).

SHAKTISMO- SHIVAISMO-VISHNUISMO

Tre grandi correnti religiose sono il Shaktismo, il Shivaismo e il Vishnuismo.

Shaktismo

II culto della Shakti, considerata in se stessa, o in rapporto al suo partner maschile, mette in

evidenza e considera l'aspetto «materno » del Divino. La Shakti è l'Energia eterna di Dio, che crea, conserva e vivifica tutte le cose. Normalmente Essa procede da Dio, come l'eterno, mistico Seno, in cui Egli dà vita ad ogni cosa esistente. La Shakti è all'opera incessantemente per il mantenimento dei mondi. E come Essa è unita permanentemente al Suo mistico Sposo, così opera perché ogni cosa sia ricondotta al suo Principio e al riconoscimento del suo Ishvara (Signore).

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Shivaismo

Shiva rappresenta l'aspetto « paterno » in Dio, in quanto all'opera nel mondo per far procedere i tempi della ciclica creazione e dissoluzione delle cose. In questo senso, egli è normalmente associato alla Shakti, che rappresenta il Suo potere di generazione e concepimento delle cose. Egli è rappresentato come il «Distruttore», non nel senso occidentale di « annichilatore », bensì nel senso ciclico-orientale di Colui che porta a compimento una fase, perché la successiva è già pronta, che affretta i tempi, perché una nuova era è giunta. Così Egli, mentre è « Distruttore », ricrea incessantemente le cose; la sua danza nel cerchio di fuoco (Nataràja, « re della danza ») è essenzialmente creatrice; il simbolo del toro Nandi, su cui siede, e quello del linga (simbolo fallico) che Lo rappresenta, stanno ad indicare di nuovo la sua attività « virile » e creatrice. E in tutto questo, Egli resta paradossalmente l'eterno yogì, assorto in Sé, intoccato, incontaminato, potente e trascendente. Signore di Sé e delle cose.

Vishnuismo

Vishnu è probabilmente l'immagine di Dio, che ha ottenuto il maggior culto in India, anche perché Egli è legato alle Sue «discese o incarnazioni » (avatàra), alcune delle quali (Krishna e Rama) sono universalmente popolari in India e sono quelle (specialmente Krishna) che hanno dato origine alle più esaltanti manifestazioni devozionali di tutti i tempi. Vishnu è il Dio « che pervade e penetra ogni cosa », ma soprattutto Egli è il « Dio con l'uomo » (Nara-Nàrayana), è il «conservatore » nel senso del Dio benevolo e provvidente, che non vuole che alcuno vada perduto. Egli è il Dio che non abbandona l'uomo, ma lo sostiene e difende potentemente. Per questo, Egli « discende » tutte le volte che il mondo e l'umanità hanno bisogno di Lui, nei momenti più critici. La dottrina dell'avatara implica almeno due

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cose: che Dio è persona e può manifestarsi in forma personale nel mondo; che Egli, per primo, prende

l'iniziativa per la salvezza della creatura. «Quantunque Io sia ingenerato e imperituro, quantunque Io sia il Signore dei viventi, essendo padrone della Mia natura, vengo a nascita per mezzo della Mia stessa maya. Ogni volta che c'è decadenza di Dharma (legge) e insorgere di Adharma (ingiustizia), o Arjuna, allora Io Mi manifesto, per la liberazione dei giusti, per la distruzione degli ingiusti e per il ristabilimento della giustizia. Io nasco di età in età. Colui che conosce, nella vera luce, la Mia divina nascita e la Mia divina azione, dopo aver abbandonato il corpo, non viene di nuovo a nascita, egli viene a Me, o Arjuna » (B. Gita IV, 6-9), così dice Egli stesso, in persona di Krishna, nella Gita.

Trimurti

Nell’induismo popolare c’è la credenza in una triade divina, la "Trimurti", molto nota in

occidente, con "Brahma", il dio creatore e quindi autore della molteplicità delle cose; "Visnù" è il dio conservatore, il protettore del cosmo e della legge morale, che esercita il suo compito mediante numerose "incarnazioni" o "Avatara"; "Shiva", il dio distruttore che, distruggendo rende possibile la rinascita e il rinnovamento generale del mondo.

Ma si deve precisare che la Trimurti è una elaborazione teologica posteriore, che non riproduce reali movimenti devozionali all'interno dell'Induismo. Non esistono movimenti devozionali

rivolti alla Trimurti, o a Brahma. Mentre lo Shivaismo e il Vishnuismo hanno animato tutta l'India. E all'interno di questi due movimenti, Shiva e Vishnu, rispettivamente, svolgono anche il ruolo di Supremo Creatore.

GRAZIA DIVINA

Nell'ambito della concezione personale di Dio, si fa strada anche il concetto di « Grazia ». «Consegnata ogni azione a Me, consacrato interamente a Me con lo yoga dell'intelligenza e della volontà, vivi col cuore e la coscienza sempre unito a Me. Se in ogni momento col cuore e la coscienza resti unito a Me, con la Mia Grazia (Prasàdà) supererai tutti gli ostacoli » (B. Gita XVIII, 57)

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Prasàdà è l'amore, la benevolenza, la compassione di Dio, ma è anche l'aiuto reale che Egli da’ al suo devoto. In termini rituali, Prasàdà è il cibo che viene offerto a Dio e che da Lui è ridonato agli uomini come offerta della Sua « Grazia » e della comunione con Lui.

Nelle Scuole Vishnuite (Vallabha, per esempio), il dono della « Grazia » divina è talmente reale, che diventa il nome stesso del devoto: colui che si abbandona a Dio e si affida a Lui diventa oggetto della Sua elezione, più precisamente egli è in atto reiezione divina espressa, egli è Pushti, « Grazia d'elezione ».

Nell'ambito dello Shivaismo parimenti (Shiva-Siddhànta, per esempio), la funzione preminente di Shiva è il dono e l'elargizione della « Grazia » (Anugraha). Essa ha il suo momento culminante nella Shakti-nipàta, « discesa della Shakti, o del Potere divino », con cui uno è posto nella condizione di arul (« grazia »).

Anche nella concezione della Shakti, si trovano elementi espliciti dell'« inabitazione » della « Grazia » divina nell'uomo. Nel Tantrismo particolarmente, la Shakti risiede assopita nel chakra mùlàdhara, alla base della spina dorsale, come Shakti kundalini, ed aspira a ridestarsi ed ascendere al chakra sahashradala, alla sommità del capo, per ricongiungersi al Suo divino Sposo, Shiva. È Essa che risveglia, sorregge e guida l'aspirazione dell'uomo alla perfetta unione con Dio. È Essa che, dentro l'uomo, accoglie le sollecitazioni e l'invito del Suo divino Sposo e dal cuore dell'uomo grida verso di Lui.

COMANDAMENTI ?

Esistono dei Comandamenti precisi o un Codice morale nell'Induismo? Fin dal tempo dei Veda, la Religione indù è chiamata sanàtana Dharma, « Legge etema ». Il Dharma eterno dev'essere inteso innanzitutto non nel senso di un codice di norme etiche e giuridiche, quanto piuttosto nel senso

della Essenza eterna, che fa essere ogni cosa quale dev'essere e non altrimenti. In un certo qual modo, il sanàtana Dharma è il Logos eterno, che definisce e determina la natura reale di tutte le cose. Esso viene espresso in codici etici e giuridici, che sono l'immagine e la figura del Dharma eterno. Così possiamo intendere come l'Induismo sia chiamato, fino ai nostri giorni, sanàtana Dharma, anche se i codici etici e giuridici, che lo esprimono, hanno subito lungo i secoli mutamenti e adattamenti.

Gli ideali di vita (purushàrtha) dell'indiano sono quattro: kàma (il piacere), artha (il benessere), dharma (la rettitudine) moksha (la liberazione). Questo quarto ideale, introdotto al tempo delle Upanishad, finisce per assorbire e relativizzare gli altri tre. Dallo stesso momento, tutti i mezzi e le vie, che vengono indicate per la liberazione, dai gradi inferiori dello yoga, al trimàrga classico, presuppongono e contengono indicazioni pratiche di condotta, che costituiscono una vera e propria «

morale ». Alla luce di questi orientamenti fondamentali e portanti, vengono accolte e risistemate indicazioni

precedenti, relative ai diversi stati di vita (varna) e ai diversi stadi dell'esistenza umana (ashrama). Queste indicazioni costituiscono il varnàshrama-dharma.

Le caste (varna) originarie sono esse pure quattro: i Brahmana, o casta sacerdotale; gli Kshatriya, all'origine i guerrieri, poi classe del potere politico ed amministrativo; i Vaishya, classe del potere economico (allevatori di bestiame, proprietari terrieri, commercianti ; i Shudra, classe del proletariato, o dei semplici lavoratori manuali. Ad ognuna di queste varna corrispondono doveri precisi,

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definiti come sva-dharma, « legge propria » del proprio stato. Tutti i movimenti di rinnovamento all'interno dell'Induismo, da quelli bhakti ai movimenti religiosi moderni, hanno fortemente polemizzato e combattuto contro la discriminazione castale. Ciò non toglie che ad ognuno, secondo il proprio stato (varna), venga riconosciuto un insieme di doveri, che definiscono la « morale propria » di quello stato di vita.

Gli ashrama indicano invece i diversi stadi della vita dell'uomo. Anch'essi sono quattro: Bràhmacharya, lo studentato, è il periodo in cui il giovane si ritira nelle scuole della foresta e si impegna ai quattro voti solenni (castità, povertà, studio, ubbidienza); Garhasthya segue a questo periodo, col rientro nella vita urbana e l'assunzione dei doveri della vita familiare e sociale; Vànaprasthya è la fase successiva, quando l'uomo ha svolto tutti i suoi doveri familiari e sociali, e di nuovo si ritira nella foresta, sia per dedicarsi maggiormente allo studio e alla vita spirituale, che per diventare a sua volta maestro e collaboratore dei maestri dei nuovi Brahmachari; Sannyasa è il quarto stadio, connesso intimamente coll'ideale della moksha, e consiste nel completo abbandono di ogni cosa e di ogni rapporto e nell'assunzione della vita di monaco peregrinante. Naturalmente, ognuno di questi stadi ha il suo proprio dharma, che ognuno assume ed a cui è tenuto, in proporzione di quanto entra in quel particolare stadio di vita.

Oltre a questo significato generale, Ashrama o Ashram indica anche il luogo, dove si trovano assieme persone, sotto la guida di un maestro (guru), per praticare particolari discipline a scopo spirituale. Ovviamente, le persone che fanno parte di un Ashram sono tenute anche a speciali osservanze proprie dell'Ashram, o suggerite dal maestro a tutti coloro che vogliono seguire le sue orme.

In conclusione, il varnàshrama-dharma, assunto alla luce di tutte le indicazioni date dalle diverse Scuole o Movimenti, per il raggiungimento della moksha, ulteriormente determinato da norme particolari dei singoli Ashram e guru, rappresenta l'arco completo della « morale » indù.

LE CASTE

Come i Veda hanno quattro parti e l’insieme dei sacerdoti ha quattro classi, così anche la società vedica si divide in quattro gruppi sociali, che è meglio indicare col termie sanscrito “ varna”, che con la parola portoghese “casta”.

Il loro funzionamento è strettamente connesso con le credenze religiose. Nell’inno X 90 si trova il mito dall’uomo cosmico ( purusa), tagliato a pezzi dagli dei, da cui sono rispettivamente nati: dalla bocca il brahmano, dalle sue braccia il “ksatrya”, dalle sue cosce il “vaisya” , dai piedi è nato il “sudra”. E queste sono le quattro principali "caste o varna”: dei Sacerdoti (Brahmani), dei Guerrieri (Kskhatriya), dei Commercianti (Vaishhya ) e dei Lavoratori manuali ( Shudra); ma ognuna di esse è composta da numerose "sotto-caste". I più demeritevoli si reincarneranno addirittura fuori di ogni casta: sono i cosiddetti "Intoccabili" o "Paria", ai quali sono negati persino alcuni diritti civili. L'appartenenza a una "casta" più o meno alta è frutto del bene o del male fatto in una vita precedente.

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Quando nel 1947 l'India acquistò l'indipendenza dagli Inglesi, il Mahatma Gandhi tentò di sopprimere la categoria degli "Intoccabili", ma non vi riuscì.

TOLLERANZA

Se si osserva tutta la storia dell'Induismo, sia sul piano dottrinale che su quello etico, si nota una grande varietà ed elasticità. Realmente, per la sua lunga tradizione, l'Induismo ha assimilato dottrine e

pratiche, in apparenza diverse e contraddittorie, e, con grande tolleranza, le ha lasciate vivere e svilupparsi nel corso dei secoli. Questo atteggiamento è connaturale all'Induismo, che viene definito anche la Religione delle « molte vie ». Già nel Rig-Veda si legge: « La Verità è una, gli uomini la chiamano con nomi diversi » (Rig Veda I, 164). Consapevole che la molteplicità e la diversità dipendono dalla limitatezza umana, la Bhagavad-Gìtà non esita a dire: « È meglio seguire la propria legge d'azione (svadharma), quantunque imperfetta, piuttosto che una legge altrui, anche se ben applicata » . E Krishna rassicura Arjuna con queste parole: « Qualunque sia la Forma di Me, che un devoto con piena fede adori. Io sono che animo la sua fede. Con questa fede, egli adora quella Forma; e in forza della sua fede e della sua adorazione egli ottiene ciò che desidera; ma sono di nuovo Io che esaudisco i suoi desideri ». ( B. Gìtà

VII, 21) Per quanto possa sembrare sconcertante, questo atteggiamento per l'Induismo è coerente. Per

esso infatti, la Realtà è Una; e come Dio si manifesta nella molteplicità del mondo, così Egli può essere compreso, cercato e raggiunto dagli uomini, attraverso molteplici vie. « Molti sono i sentieri, che conducono alla Verità, scrive Ma Ananda Moyi, ma la Verità è una, e non conosce distinzioni »(J

Herbert) .

CERIMONIE

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Dalla tradizione vedica, l'Induismo anche moderno ha ereditato il rito del Sacrificio (Yajna), consistente nell'offerta alla Divinità di burro fuso, cereali e soma, e qualche volta anche animali. Normalmente queste offerte sono consumate nel fuoco e il sacerdote prega Agni, il Dio del Fuoco, intermediario tra gli uomini e la Divinità, di portare le offerte al Suo cospetto.

Il rito invece post-vedico più comune è la Pùjà, cerimonia di venerazione della Divinità, durante la quale la statua del Dio viene unta, vestita, ornata e profumata; vengono offerti cibo e bevande, che però non sono consumati nel fuoco, ma ridati ai fedeli come prasada; il Dio è invocato e adorato con pietà profonda. In alcune particolari circostanze, l'immagine del Dio è portata processionalmente fuori del Tempio (yàtrà).

La forma normale della preghiera è chiamata Japa, e consiste nella recitazione e ripetizione di mantra (parole, o formule sacre). Il mantra più importante è OM, o AUM, che indica il Bràhman. Un

altro molto comune è il Ga-yatrì-mantra, che si rivolge al Sole, invocato sotto il nome di Savitri: “OM!

bhùr-bhuvanab-suvah, tat Savitur varenyam, bhargo devasya dhìmahi, dhiyo yo nah pracodayàt, “OM!” . Egli riempie la Terra, l'Atmosfera e i Cieli; meditiamo sulla gloria eccelsa del divino vivificatore Savitri; possa Egli illuminare i nostri spiriti » (Rig-Veda III,62)

Ci sono poi particolari riti (Samskàrà), per i diversi stadi della vita dell'uomo: per la nascita, per l'iniziazione o ammissione ai pieni diritti e doveri della propria casta (per le tre caste superiori), per l'inizio e la fine dello studentato, per il matrimonio e l'assunzione dei doveri della vita familiare e sociale; Samskara infine per i malati gravi e per i defunti.

Oltre a questi riti, legati ai diversi momenti della vita dell'uomo, ci sono cerimonie occasionali come i voti (Vrata). Il giovane, quando entra nello stato di Bràhmacharya, fa quattro voti solenni (castità, povertà, studio, ubbidienza); ci sono poi voti più particolari, per la protezione del marito, per quella dei figli, per il sole nei mesi invernali, per i buoni raccolti, ecc. . Normalmente ogni buon induista osserva infine specifici riti giornalieri, pratiche settimanali, cerimonie legate ai mesi lunari, e grandi feste annuali.

RICORRENZE ANNUALI

In primavera si celebra l'Holì, che in origine era probabilmente una festa stagionale. Essa coincide con la luna piena del mese di Phàlguna (febbraio/marzo); è celebrata con l'holì (una mistura di acqua, calce e kurkuma) e con polvere rossa, che i celebranti si spruzzano reciprocamente. Oggi è connessa alla venerazione di Dei particolari, specie Krishna. A Puri (Orissa), l'Holì è associato al Dola-yàtrà (processione del dondolo), dove Krishna e Rama sono portati processionalmente a spalle sul dondolo. Nel sud, c'è una festa stagionale simile, molto popolare, che si chiama Pongal, ed è celebrata nel mese di Tai (gennaio/febbraio, nel calendario» lunare Tamil), con l'offerta delle primizie del nuovo riso bollito.

Più precisamente legato alla venerazione di Divinità, è il Dasharà. Originariamente il Dasharà è il « decimo » giorno della Dùrga-pùjà, che viene celebrata, specialmente nel Bengala, nei primi dieci giorni del mese lunare di Ashvina (settembre/ottobre). La Dùrga-pùjà onora la Shakti di Shiva (Durga, o Kali), ed è perciò particolarmente cara ai Shakta e Shivaiti. Ma al decimo giorno si uniscono» anche i Vishnuiti, in quanto si celebra la vittoria di Rama (« incarnazione » di Vishnu) sul demone Ravana e la liberazione di Sita (sposa di Rama). In qualche luogo è onorata, in questo giorno, anche Sarasvati, Shakti

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di Brahma, protettrice delle Scienze e delle Arti, che ha una sua festa particolare in gennaio/febbraio (Vasanta-panchàmi o Sarasvatì-pùjà).

Poco dopo il Dasharà, all'inizio del mese di Kàrttika (ottobre/novembre), c'è la festa del Dìvàlì, dedicata in modo particolare a Lakshmi, Shakti di Vishnu, e celebrata con luci e grandi illuminazioni notturne. Come si vede, di nuovo, queste feste sono collegate al Vishnuismo, Shivaismo e Shaktismo.

A Shiva è consacrato ogni 14° giorno del mese lunare; e in modo particolare il 14° del mese di

Magha (gennaio/ febbraio), celebrato come festa del Shivaràtrì, « notte di Shiva ». Ganesha, figlio di Shiva, è onorato nella festa del Ganesha-chaturthì (agosto/settembre). E a Karttikeya, altro figlio di Shiva, è consacrata la luna piena del mese di Kàrttika (ottobre/novembre), celebrata come Kàrttika-pùrnimà.

Altre feste sono proprie del Vishnuismo. Tra queste ricordiamo il Ratha-yàtrà, (in giugno/luglio), celebrato in modo particolare a Puri (Orissa), in onore di Vishnu, come Jagannath, «Signore del mondo », con processione di giganteschi carri. Delle due « incarnazioni » di Vishnu, Rama e Krishna, si celebra il giorno natale, rispettivamente in marzo/aprile (Rama navamì) e agosto/settembre (Krishna-janmashtami). Un'altra festa in onore di Krishna, popolare specialmente nel Maratha, è il Rasa-

yàtrà, « festa della danza ». Ricordiamo infine, in settembre, il Pitri-paksha, dedicato alle anime degli « Antenati ».

Oltre a queste ricorrenze annuali, ci sono feste in occasione di particolari congiunzioni astrali, come la Kumbha-mela, la Ardha-Kumbha-mela e la Purna-Kumbha-mela, rispettivamente ogni 3, 6 e 12 anni, celebrate con particolari solennità ad Hardwar, Allahabad, Ujjain e Nasik.

L'induismo possiede inoltre luoghi sacri di pellegrinaggio (Città, Fiumi, Templi), che richiamano periodicamente devoti da tutto il paese. Si ricordano 7 città sacre: Benares, Hardwar, Mathura, Ayodhya, Kanchipuram, Ujjain, Dwaraka; a cui si possono aggiungere: Maduraì, uno dei più importanti centri dello Shivaismo dravidico, e Prayaga (vicino ad Allahabad), dove si tengono importanti mela annuali (« fiere », ma con celebrazioni anche religiose). I fiumi sacri si contano pure in numero di

7: Gange, Yamuna, Godavari, Sarasvati (oggi scomparso), Narmada, Indo e Cauvary. I templi più importanti, dedicati a Shiva, si trovano a Ramesivaram e Chidambaram (stato di

Madras), Benares e Kedarnath (nell'Uttar Pradesh) e Hamarnath (sull'Himalaia). Templi di Vishnu sono a Trivandrum (Kerala), Srirangam (Madras) e Badrinath (Himalaia). I più

famosi templi di Krishna sono a Pandharpur (Maharashtra) e Vrindavan. Il tempio più importante dedicato a Rama è ad Ayodhya.

Dedicati alla Shakti, abbiamo templi a Cape Comorin (Kerala), Madurai e Kanchipuram (Madras), Benares e Kalighat (Bengala), Kamakhya (Assam), Nabadwip (Bengala), Puri (Orissa; dove è venerato anche Krishna), Dakshineswar (vicino a Calcutta) e Belur Math.

CHI E’ L’INDU ?

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La sintesi fin qui esposta dell'Induismo moderno è molto teorica: in realtà l'Induismo è oggi suddiviso in numerosissime sette con credenze (e con riti) tanto differenti le une dalle altre che è quasi impossibile elencarle ed anche solo numerarle.

L’indù è un pellegrino in cerca della Verità Assoluta. La sua caratteristica essenziale è la scoperta del mondo intcriore. Il suo scopo ultimo è sperimentare l'unione totale con l'Assoluto.

Per raggiungerlo non esiste un'unica via imposta dall'esterno: ciascun individuo è incoraggiato a tracciare il proprio percorso e a trovare la propria strada, nessuno è tenuto ad aderire a un credo dogmatico: ciò che conta è il modo in cui ci si comporta, ciò che è veramente importante è l'anelito ad avvicinarsi al Sattyasa sattyam, la Verità Assoluta, nel modo che ogni individuo riterrà il migliore per lui.

Pertanto si può dire anzi che ogni indù vive di fatto il "suo" induismo personale, talvolta così diverso da quello degli altri da sembrare una religione totalmente diversa. In un opuscolo intitolato "Thè essential of Hinduism", 25 eminenti dotti indù hanno tentato di dare una qualche definizione dell’indù. Hanno detto: Indù è colui che ammette, anche solo parzialmente, o l'uno o 'altro di questi elementi: l'autorità dei Libri sacri; la credenza in qualche specie di dio o di dèi; la "Reincarnazione" o trasmigrazione delle anime; il "Karma"; la legge delle Caste; il bagno nel sacro fiume Gange, dal quale si esce purificati dai peccati.

Si può forse dire che è indù, chi è nato nell’induismo, si ritiene induista, accetta l’autorità dei libri sacri, crede nella divinità e nelle dottrine del Karma-Sansara e della moksha (liberazione) e sa di essere tenuto all’osservanza del varnasharma dharma (doveri della sua casta).

INDUISMO

(Sintesi)

E’ un corpo complesso di diverse religioni e di sotto-tradizioni (sampradaya ), credenze, pratiche religiose. Più che di una religione gli indù parlano di “sanathana dharma” ossia “ordine permanente”. Il “Dharma” è l’ordine o la legge eterna dell’universo. Assegna ad ogni creatura il suo posto in esso e nella società, è anche una Legge morale, che indica la virtù e il dovere; è infine la realtà

trascendente, ciò che è “vero” nel senso proprio del termine. L’uomo non può che venerare il “dharma”, tributando onore alle diverse divinità o stare in silenzio davanti a questo mistero che abbraccia l’universo.

Ciò che appare a noi è, secondo alcuni è “maya” (illusione) o secondo altri “lila” (“gioco” reale

di Dio ). E’ comunque l’eterna manifestazione dell’Eterno, del Permanente. Tutto ciò che appare è Brahman, che si manifesta attraverso ogni cosa, che è la Realtà vera di ogni manifestazione. Creazione o distruzione non indicano un’inizio e una fine temporale del mondo, ma l’inizio e la fine di un fenomeno a se stante.

Lo spirito interiore dell’individuo ( atman) che vive nel corpo umano, ignorando la sua vera identità, è identico al Brahman e vive una situazione di karma, di azioni , di atti che pesano e hanno conseguenze, nell’esistenza attuale e nelle vite future, fino alla purificazione finale e all’unificazione dell’atman nel brahman. Il ciclo delle rinascite è il sansara. Per sfuggire al sansara e per fare esperienza dell’Assoluto l’indù si sforza di vivere secondo il “dharma”, che prescrive il comportamento di tutti e di ciascuno secondo la sua pozione nella società.

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Le tradizioni religiose dell’induismo hanno importanti valori, ma anche limiti e pericoli. La

concezione di Dio come mistero trascendente e ineffabile o come essere personale è elevata, ma non esclude che si cada da una parte nel panteismo e dall’altra, specialmente a livello popolare, nel politeismo idolatrino.

Ammirevole è il primato conferito alla vita spirituale, specialmente se lo confrontiamo con il materialismo e il secolarismo occidentali; purtroppo però comporta un deprezzamento del mondo, della storia e della società, ridotti ad apparenza illusoria e considerati insignificanti, anzi di ostacolo in rapporto con la salvezza.

Nobile è l’etica e appassionata la ricerca delle salvezza definitiva, tuttavia vi si riscontra un carattere marcatamente individualista, che esclude ogni solidarietà e mediazione salvifica, ogni idea di redenzione e di comunione dei santi; non a caso anche il culto è un fatto essenzialmente privato.

Generoso è lo spirito di tolleranza verso le altre religioni; ma si confonde con il relativismo e il sincretismo; le religioni, secondo la mentalità induista sono tutte vere e tutte imperfette; Cristo stesso può essere accettato come una discesa della divinità, rifiutando però che sia unico e assoluto.

Malgrado le ombre non siano di poco conto, si intravedono raggi intensi di quella luce che “illumina ogni uomo” ( Gv 1, 9 ). Soprattutto sulla via della devozione arrivano a maturazione esperienze gioiose di amore personale verso Dio, simili a quelle dei santi cristiani, come testimonia questa splendida preghiera del poeta Tukaran del XVII secolo: “Tu tieni la mia mano e mi guidi con

fermezza, sempre e dovunque presente al mio fianco, mentre io vado e mi appoggio a Te, tu porti il mio carico pesante… Io riconosco in ogni uomo un amico, in ogni incontro un congiunto. Come un bimbo felice vado giocando nel tuo caro mondo, o Dio

Bibliografia

Il Cristianesimo e le religioni Comm.Teol. Internazionale L.E.V.1997

Camminare insieme P. C. Dial. interreligioso L.E V. 1999

I Cristiani e le grandi religioni J. Joncheray- D. Gira Elledici 200

Le grandi religioni J. Joncheray- D. Gira Rizzoli 2004

Guida alle religioni a cura di F. Pierini Ed. Paoline 1983

Le grandi religioni del mondo M. Borrmans.....D. Spada Ed. paoline 1980

La Bhagavad-Gita Ass. int. Coscienza di Krsna Ed. Bhaktivedanta

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