4.1 Ludwig Wittgenstein e Il Tractatus Logico Philosophicus.

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4 LA SVOLTA LINGUISTICA 4.1 IL PRIMATO DEL LINGUAGGIO SUL PENSIERO E LA DICOTOMIA PENSIERO/LINGUAGGIO/REALTÀ. LUDWIG WITTGENSTEIN E IL TRACTATUS LOGICO-PHILOSOPHICUS. La “svolta linguistica” è un fenomeno intellettuale nato nei primi anni del secolo decimo-nono. Spesso si accosta la nascita di siffatto fenomeno intellettuale con la nascita della filosofia analitica; di fatto, la “svolta linguistica” ha origine nel momento in cui l'analisi sul linguaggio incomincia a rivestire un ruolo centrale nei salotti e negli ambienti filosofici. Di per sé, tale espressione è stata coniata postuma il fenomeno che rappresenta; infatti, solo nel 1967, quando ormai era un'altra svolta ad essere al centro delle speculazioni filosofiche, ossia la cosiddetta “svolta cognitiva”, Richard Rorty attribuisce questa denominazione al fenomeno in questione 1 . Abbiamo visto in età moderna come la brama di una conoscenza certa abbia condotto molti filosofi all'elaborazione di un metodo cognitivo dal carattere epistemico, e sempre in età moderna abbiamo assistito all'egemonia e all'esaltazione della ragione nei confronti dell'essere delle cose. Ragione che è giudice assoluto, che non può essere sottomessa da cosa alcuna se non dalla ragione stessa, e che è essa stessa a scindere ciò che è possibile conoscere da ciò che invece non può esserlo: il limite della ragione diviene così il limite della conoscenza, o meglio della scienza. Su questa impostazione di fondo, sulla pretesa apoditticità della scienza quale sapere apodittico ed incontrovertibile, agli inizi del Novecento Ludwig Wittgenstein sposta l'attenzione sulla sfera del linguaggio. Il filosofo e logico austriaco credeva che il fondamento ultimo della conoscenza scientifica prima ancora di cadere sotto la «ragione» doveva sottomettersi al «linguaggio», giacché è per mezzo del linguaggio che la stessa scienza si costituisce. A proposito, Marco Bastianelli scrive che: «la tirannia della ragione sull'intelletto, che in Kant è all'origine dell'illusione trascendentale, in Wittgenstein diventa la tirannia del linguaggio sull'intelletto»; e che, ancora, «Wittgenstein ha trasportato una “critica della ragion pura” ad una “critica del linguaggio puro”» 2 . Se infatti, Con Kant si aveva la netta differenza tra ciò che era 1 Richard Rorty definisce per l'appunto questo attento studio posto sulle problematiche del linguaggio “The Linguistic Turn”. Cfr. Richard RORTY, “The Linguistic Turn”, in: AA. VV., The Linguistic Turn, Richard RORTY (ed.), University of Chicago Press, Chicago, 1967; trad. it.: La svolta linguistica, Garzanti, Milano, 1994. 2 Marco BASTIANELLI, Oltre i limiti del linguaggio. Il kantismo nel tractatus di Wittgenstein, Mimesis, Milano, 2008, 73. 1

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4 LA SVOLTA LINGUISTICA

4.1 IL PRIMATO DEL LINGUAGGIO SUL PENSIERO E LA DICOTOMIA PENSIERO/LINGUAGGIO/REALTÀ. LUDWIG WITTGENSTEIN E IL TRACTATUS LOGICO-PHILOSOPHICUS.

La “svolta linguistica” è un fenomeno intellettuale nato nei primi anni del secolo decimo-nono. Spesso si accosta la nascita di siffatto fenomeno intellettuale con la nascita della filosofia analitica; di fatto, la “svolta linguistica” ha origine nel momento in cui l'analisi sul linguaggio incomincia a rivestire un ruolo centrale nei salotti e negli ambienti filosofici. Di per sé, tale espressione è stata coniata postuma il fenomeno che rappresenta; infatti, solo nel 1967, quando ormai era un'altra svolta ad essere al centro delle speculazioni filosofiche, ossia la cosiddetta “svolta cognitiva”, Richard Rorty attribuisce questa denominazione al fenomeno in questione1.Abbiamo visto in età moderna come la brama di una conoscenza certa abbia condotto molti filosofi all'elaborazione di un metodo cognitivo dal carattere epistemico, e sempre in età moderna abbiamo assistito all'egemonia e all'esaltazione della ragione nei confronti dell'essere delle cose. Ragione che è giudice assoluto, che non può essere sottomessa da cosa alcuna se non dalla ragione stessa, e che è essa stessa a scindere ciò che è possibile conoscere da ciò che invece non può esserlo: il limite della ragione diviene così il limite della conoscenza, o meglio della scienza. Su questa impostazione di fondo, sulla pretesa apoditticità della scienza quale sapere apodittico ed incontrovertibile, agli inizi del Novecento Ludwig Wittgenstein sposta l'attenzione sulla sfera del linguaggio. Il filosofo e logico austriaco credeva che il fondamento ultimo della conoscenza scientifica prima ancora di cadere sotto la «ragione» doveva sottomettersi al «linguaggio», giacché è per mezzo del linguaggio che la stessa scienza si costituisce. A proposito, Marco Bastianelli scrive che: «la tirannia della ragione sull'intelletto, che in Kant è all'origine dell'illusione trascendentale, in Wittgenstein diventa la tirannia del linguaggio sull'intelletto»; e che, ancora, «Wittgenstein ha trasportato una “critica della ragion pura” ad una “critica del linguaggio puro”»2. Se infatti, Con Kant si aveva la netta differenza tra ciò che era 1 Richard Rorty definisce per l'appunto questo attento studio posto sulle problematiche del linguaggio “The Linguistic Turn”. Cfr. Richard RORTY, “The Linguistic Turn”, in: AA. VV., The

Linguistic Turn, Richard RORTY (ed.), University of Chicago Press, Chicago, 1967; trad. it.: La svolta linguistica, Garzanti, Milano, 1994.2 Marco BASTIANELLI, Oltre i limiti del linguaggio. Il kantismo nel tractatus di Wittgenstein, Mimesis, Milano, 2008, 73.

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possibile conoscere da ciò che non lo era, con Wittgenstein questa differenza è stata traslittera in ciò che si può dire e ciò che non si può – anzi deve – dire3.La tesi di fondo avanzata da Wittgenstein è quella di riformare la filosofia in una più verificabile analisi del linguaggio, poiché la filosofia intesa come metafisica per sua stessa natura non può presentarsi come una disciplina scientifica. Ciò è dovuto al fatto – stando ai pensieri di Wittgenstein – che tutti i discorsi metafisici fanno fronte a termini che non denotano alcuna realtà fenomenica, empirica e fattuale: quali per esempio «Dio», «assoluto», «incondizionato», «io», «nulla», ecc., e giacché questi altro non sono che enunciati composti da proposizioni apparenti, da pseudo-proposizioni, non possedendo significato alcuno conducono inevitabilmente il nostro pensiero all'incantamento4. Questo “parlare senza intendersi” – che Carnap giudicava tipicamente filosofico5 – ha fatto capovolgere l'oggetto privilegiato della filosofia dall'essere al linguaggio. Essendo il linguaggio, per l'appunto, il veicolo attraverso il quale il pensiero si manifesta e si rende sensibile, questo è diventato l'oggetto da indagare, o meglio analizzare, del nuovo modo tipicamente analitico di fare filosofia. Nell'opera Analitici e continentali Franca D'Agostini al riguardo scrive che:«Il punto di arrivo della critica alla metafisica anche in questo caso è il linguaggio, non solo perché attraverso un disciplinamento logico del linguaggio è possibile smascherare e correggere gli errori della metafisica, ma anche perché il linguaggio in certo modo “prende il posto dell'essere”, costituendosi come oggetto filosofico privilegiato»6.3 Sull'influenza del kantismo nella filosofia del logico austriaco ritengo molto interessante il recente testo appena citato di Marco BASTIANELLI, Oltre i limiti del linguaggio. Il kantismo nel

tractatus di Wittgenstein, Mimesis, Milano, 2008, nel quale, esattamente nel III capitolo intitolato: dalla critica della ragione alla critica del linguaggio, espone una sintetica enunciazione di alcune delle tesi più rappresentative circa il kantismo nel Tractatus. A tal proposito è interessante la considerazione che l'autore presenta in ripresa con il pensiero di Karl Otto Apel. Scrive a pagina 73 del testo: «mentre Kant ha posto la questione della metafisica come riflessione sulle condizioni di possibilità dell'esperienza e ha formulato come principio supremo il postulato dell'identità delle condizioni di possibilità dell'esperienza e delle condizioni di possibilità degli oggetti dell'esperienza, Wittgenstein ha trasposto una “critica della ragion pura” in una “critica del linguaggio puro”. La tesi fondamentale che scaturisce da queste osservazioni è che «caratterizzando così la dimensione della metafisica, il giovane Wittgenstein si pone di fatto nell'orizzonte problematico della “filosofia trascendentale”». Secondo Apel, infatti, nella sua prospettiva, il confine kantiano tra ragione teoretica e apparenza trascendentale è determinato dalla distinzione logico-linguistica tra senso e nonsenso, tra ciò che si può dire e ciò che si mostra soltanto».4 Wittgenstein all'inizio delle Bemerkungen coniava un nuova terminologia per intendere tale incantamento. La nuova dicitura introdotta da Wittgenstein era quella delle «ruote che girano a vuoto», in diretto riferimento a quelle parti del nostro linguaggio superflue per la rappresentazione. Dice a proposito Diego Marconi che: «la teoria delle “ruote che girano a vuoto” è la forma che assume la teoria della demarcazione tra enunciati sensati e insentati». Diego MARCONI, “Wittgenstein e le ruote che girano a vuoto”, in: Il pensiero debole, Gianni Vattimo – Pier Aldo Rovatti (eds.), Feltrinelli, Milano, 2010, 173.5 Cfr. Franca D'AGOSTINI, Analitici e continentali, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1997.6 Ivi, 146.2

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Il logico austriaco era mosso dall'ambizione di trovare un linguaggio universale, univoco e privo di fraintendimenti, attraverso il quale fosse possibile aspirare ad un'oggettività del sapere. La filosofia conseguentemente non era più vista come una dottrina alla ricerca della verità, considerazione questa che la lasciava in balia di correnti e stili di pensiero diversi e talvolta opposti, ma come un'attività. Wittgenstein era fortemente convinto che operando sugli enunciati linguistici attraverso l'analisi logica, ovvero sulla scomposizione delle proposizioni nelle loro forme più semplici, fosse possibile attribuire alla filosofia il sapere rigoroso della scienza. Nasceva così quel fenomeno intellettuale denominato “The Linguistic Turn” secondo il quale la filosofia doveva operare secondo l'analisi logica del linguaggio al fine di riconoscere alla scienza e solo ad essa l'ampliamento della conoscenza.Wittgenstein si fa portabandiera di codesta concezione della filosofia mediante i pensieri trascritti nella sua unica opera filosofica: il Tractatus Logico-Philosophicus (ricordo infatti che tutti gli altri lavori di Wittgenstein sono stati pubblicati postumi la sua morte dopo rivisitazioni da parte dei suoi più stretti collaboratori). L'opera è strutturata in 7 proposizioni principali e 526 sotto-proposizioni, ordinate gerarchicamente, che trattano i temi della struttura logica delle proposizioni, la natura dell'inferenza logica, la gnoseologia, i principi della fisica, l'etica e il Mistico. In questa opera, con introduzione di Bertrand Russell e presentata come tesi di dottorato, Wittgenstein espone in modo sistematico il problema del rapporto pensiero/linguaggio/realtà, con il significato di fondo che – come per Frege – attraverso le proposizioni il pensiero si esprime sensibilmente. Russell introduce il lavoro di Wittgenstein sottolineando che:«Muovendo dai principi del simbolismo e dalle relazioni che necessariamente intercorrono tra parole e cose in ogni linguaggio, il Tractatus applica il risultato di questa indagine a vari campi della filosofia tradizionale, mostrando in ciascun caso, come la filosofia tradizionale e le soluzioni tradizionali nascano dall'ignoranza dei principi del simbolismo e dal cattivo uso del linguaggio»7.È proprio sul linguaggio che il logico austriaco verte le maggiori attenzioni tanto da rintracciare un limite al pensiero attraverso il linguaggio stesso. Il primo requisito per un linguaggio ideale – dice Wittgenstein – è che vi sia un unico nome per ogni entità semplice, e che non vi sia mai lo stesso nome per due differenti entità semplici. Il nome è un simbolo semplice nel senso che esso non ha parti le quali sono esse stesse dei simboli8. Ad ogni nome corrisponde un fatto; ciò comporta che il nome e il fatto denotato si trovano in una correlazione univoca, eliminando ogni fraintendimento sull'interpretazione – che di fatto viene così ad essere una soltanto – degli enunciati linguistici. Detto ciò, la filosofia andando ad 7 Bertrand RUSSEL, Introduzione al Tractatus logico-philosophicus, in: Ludwig WITTGENSTEIN,

Logisch-Philosophische Abhandlung, in «Annalen der Naturphilosophie», XIV, 1921, 185-262; ed. ingl.: Tractatus logico–philosophicus, Routledge and Kegan Paul, London, 1961; trad. it.: Tractatus logico–philosophicus e Quaderni 1914 – 1916, Einaudi, Torino, 2007, 3.8 Ivi, 5.

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analizzare le proposizioni che rispecchiano i fatti del mondo acquista lo scopo di una chiarificazione concettuale. Per Wittgenstein, il mondo è la totalità dei fatti, non delle cose9, e il linguaggio è una sorta di specchio del mondo avente la particolare caratteristica di descrivere i fatti che lo costituiscono. Ma perché Wittgenstein parla di fatti e non di cose? Che cosa sono questi fatti? Se è attraverso il linguaggio che è possibile conoscere/esprimere il mondo, ovvero la totalità dei fatti, come si attua questa possibilità? Wittgenstein parla di questo problema nel § 2 del Tractatus:«Ciò che accade, il fatto, è il sussistere di stati di cose»10.«Lo stato di cose è un nesso d'oggetti (entità, cose)»11.«Parrebbe quasi un'accidente se alla cosa, che potesse sussistere per sé sola, successivamente potesse convenire una situazione.Se le cose possono ricorrere in stati di cose, ciò deve essere già in esse.(Qualcosa di logico non può essere solo-possibile. La logica tratta di ogni possibilità, e tutte le possibilità sono i suoi fatti.)Come non possiamo affatto concepire oggetti spaziali fuori dallo spazio, oggetti temporali fuori dal tempo, così noi non possiamo concepire alcun oggetto fuori della possibilità del suo nesso con altri.Se posso concepire l'oggetto nel contesto dello stato di cose, io non posso concepirlo fuori della possibilità di questo contesto»12.In termini esplicativi il fatto è ciò che accade, e l'insieme di tutto ciò che accade è il mondo. Il logico austriaco puntualizza che la “cosa”, puramente e indipendentemente intesa, non è né concepibile né possibile. La “cosa” per essere tale deve essere necessariamente in relazione con altre “cose”; la “cosa” sussiste necessariamente in quanto correlazione fra “cose”, e questa suddetta correlazione fa essere, appunto, la “cosa” un fatto. Ma come avviene la descrizione della realtà tutta partendo dal semplice fatto? Di questo l'autore del Tractatus Logico-Philosophicus si occupa nei paragrafi dedicati alla proposizione. Ma prima di andare avanti cerchiamo di tenere a mente una mappa concettuale del Tractatus Logico-Philosophicus. Prendendo in considerazione le sette proposizioni fondamentali possiamo osservare che:1. Il mondo è tutto ciò che accade.2. Ciò che accade, il fatto, è il sussistere di stati di cose.3. L'immagine logica dei fatti è il pensiero.4. Il pensiero è la proposizione munita di senso.5. La proposizione è una funzione di verità delle proposizioni elementari (la proposizione elementare è una funzione di verità di se stessa).6. La forma generale della funzione di verità è: [ρ, ξ, N(ξ) ].9 Ludwig WITTGENSTEIN, Tractatus logico–philosophicus e Quaderni 1914 – 1916, cit., § 1.1, 25. 10 Ivi, § 2, 25.11 Ivi, § 2.01, 25.12 Ivi, § 2.0121, 26.

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7. Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere.Nel § 1 si dice che cosa è il mondo, nel § 2 che cosa è un fatto, nel § 3 che cosa è un pensiero, nei § 4, § 5, § 6 che cosa è una proposizione (seppur sotto aspetti differenti) e nel § 7 – come espresso nella prefazione – di tutto il suo senso.Rispondendo alla domanda posta poc'anzi, Wittgenstein, attraverso un'accurata e certosina analisi, distingue le proposizioni in atomiche e molecolari: sono dette atomiche quelle proposizioni non riducibili ad altre proposizioni, costituite da un predicato ed un oggetto e che risultano essere “vere” o “false” mediante un confronto con i fatti atomici; mentre, l'unione – con l'utilizzo degli operatori o connettivi logici13 – di due o più proposizioni atomiche, formano le proposizione molecolari, più complesse e mediante le quali è possibile esprimere la totalità dei fatti del mondo. Il passo successivo alla distinzione delle proposizioni è quello della verifica degli enunciati linguistici per constatare se ciò che è stato espresso risulta essere vero, falso o insensato. Per Wittgenstein, infatti, tra il vero e il falso c'è una terza possibilità: il non-senso. Un linguaggio significante è un linguaggio che raffigurava uno stato di cose (i fatti del mondo), un linguaggio non significante è un linguaggio privo di senso. Le proposizioni costituite da nomi, segni, che denotano qualcosa, risultano essere proposizioni significanti a prescindere dalla condivisione o meno della forma logica con i fatti. Se poi, tali proposizioni hanno in comune con i fatti la forma logica sono oltre che significanti anche vere; mentre, se non hanno in comune con i fatti la forma logica sono comunque significanti, ma false. Le proposizioni costituite da nomi che invece non denotano nessun fatto appaiono prive di senso a causa dell'impossibilità di verifica della condivisione della forma logica con il fatto che, appunto, viene a mancare. L'autore del Tractatus sostiene che è con l'applicazione del principio di verificazione14 che è possibile distinguere quelle proposizioni che condividono con il fatto la forma logica, quelle che non la condividono e, infine, quelle impossibili da verificare. A tal punto dobbiamo focalizzarci sull'aspetto che l'eredità kantiana ha assunto nel pensiero di Wittgenstein circa la riproposizione della cosa in sé; la quale, nella filosofia del logico austriaco, ha determinato quella tanto importante quanto radicale dicotomia del “dire/mostrare”. Orbene, seppur Wittgenstein abbandona chiaramente la nozione di cosa in sé (come anche altre nozioni fondamentali della filosofia kantiana quali il sintetico a priori, la tavola delle 13 Alla voce «Connettivo», in: Enciclopedia di Filosofia Garzanti, 204. «In generale, particella linguistica che, applicata a proposizioni, genera proposizioni più complesse. Sono connettivi per es., le particelle: mentre, se...allora, oppure, sebbene ecc». 14 Alla voce «Verificazione, principio di», in: Enciclopedia Garzanti di Filosofia, 1191. «Il criterio di significanza empirica proposto dal positivismo logico, in base al quale un enunciato che non sia analitico è dotato di significato “cognitivo” o fattuale se e solo se la sua verità o falsità risulta accertabile mediante osservazioni empiriche. Un enunciato, insomma, è verificabile se e solo se empiricamente verificabile».5

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categorie ecc.), rimane nel suo pensiero quel in sé, non esprimibile né tanto meno formalizzabile, ma che nonostante ciò si mostra nella sua piena ineffabilità linguistica. La suddetta dicotomia, non presente nella filosofia kantiana, in quanto per Kant il noumeno, essendo inconoscibile, non mostra sé (o anche se lo fa risulta impossibile da percepire in quanto non esperibile), per Wittgenstein anche se ciò resta indicibile non per questo risulta inconoscibile dato il suo costante mostrar-si. In Wittgenstein non c'è quell'impossibilità radicale di conoscere ciò che sfugge all'esperienza fenomenica come avviene in Kant, ma c'è piuttosto il tentativo di non esprimere questa datità ineffabile dato che nel momento in cui si viene a fare prova di ciò, si cade in una paradossale ed insensata contraddizione: provare a determinare l'ineffabile, tentare di dire l'indicibile, spiegare sensatamente l'insensato, è – per Ludwig Wittgenstein – formulare una tesi priva di senso. Su quanto appena espresso Hilary Putnam scrive che:«Il tono wittgensteniano consiste nel cercare di far sì che il lettore non si senta spinto ad affermare né “Noi possiamo descrivere la realtà come essa è in sé” né “Noi non possiamo descrivere la realtà come essa è in sé”».A questo punto emergono quesiti ai quali non possiamo non dare attenzione: tutte quelle proposizioni costituite da nomi che non denotano alcunché di empirico-fattuale (le idee kantiane per intenderci) sono da considerarsi insensate? Poiché non è possibile verificarle attraverso i principi metodici delle scienze naturali, sono per questo prive di senso? Esperienza significa esperimento? Ma tornando ora al pensiero del Wittgenstein del Tractatus Logico-Philosophicus si può notare che egli, fondando la propria filosofia sul rigore della scienza, ha la necessità di catalogare tutti gli enunciati senza significato come privi di senso. Scrive nel punto 4.2 del Tractatus che:«Il senso della proposizione è la sua concordanza, o non concordanza, con le possibilità del sussistere, e non sussistere, degli stati di cose»15.Da quanto detto, ne consegue non solo l'archiviazione di tutte le proposizioni che non denotano alcun “fatto” come prive di senso, ma soprattutto l'individuazione del limite della conoscenza nel linguaggio: tutti gli enunciati che non possono essere sottoposti al vaglio critico della verifica empirica, non rappresentando nessuna immagine dei fatti, risultano essere “nulli” per ogni atto cognitivo, sicché – asserisce Wittgenstein – nonostante sia possibile pensare proposizioni prive di senso, diviene assurdo enunciarle, dato che la ragione non possiede i mezzi per rilevare il loro criterio di verità/falsità.«Tutto il senso del libro si potrebbe riassumere nelle parole: Tutto ciò che può essere detto si può dire chiaramente, e su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere. Il libro vuole dunque tracciare al pensiero un limite, o piuttosto – non al pensiero stesso, ma all'espressione dei pensieri: Ché, per tracciare un limite al pensiero, noi dovremmo poter pensare ambo i lati di questo limite (dovremmo, dunque, poter pensare quel che pensare 15 Ludwig WITTGENSTEIN, Tractatus logico–philosophicus e Quaderni 1914 – 1916, cit., § 4.2, 56.

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non si può). Il limite non potrà, dunque, venire tracciato che nel linguaggio, e ciò che è oltre il limite non sarà che nonsenso»16.Da come si può leggere nell'introduzione del Tractatus, il velo di silenzio che deve avvolgere tutti gli enunciati privi di senso, altro non fa che inabissare tutte le proposizioni metafisiche e comunque tutte quelle proposizione costituite da nomi “vuoti”. Franca D'Agostini prende atto che:«Nell'ambiente analitico, “metafisico” è un tipo di discorso che tratta di cose o entità ulteriori alla comune esperienza e a ciò che la scienza definisce reale: poiché la scienza e l'esperienza determinano le “condizioni di asseribilità” degli enunciati, ne consegue che la metafisica non rispetta i limiti del linguaggio (ovvero le condizioni in base alle quali si può determinare il significato), e formula perciò espressioni prive di senso, o dotate di un senso solo apparente»17.Ma questo dovere, questa auto-imposizione a non parlare di ciò, elimina di fatto ogni dubbio sulle domande e sulle problematicità che da sempre hanno caratterizzato la metafisica e, in ultima analisi, i desideri più profondi dell'umano? Per ora è interessante notare che è lo stesso Wittgenstein a sollevare questo problema nel paragrafo del Tractatus dedicato al “das Mystische”. Egli, pur concludendo con l'affermazione del silenzio, scrive:«Non come il mondo è, è il Mistico, ma che esso è»18. «Noi sentiamo che, persino nelle ipotesi che tutte le possibili domande scientifiche abbiano avuto risposta, i nostri problemi vitali non sono ancora neppure sfiorati. Certo allora non resterà più domanda alcuna; e appunto questa è la risposta»19.Chiunque abbia letto il Tractatus avrà sicuramente constatato che il testo – la cui tesi principale è dare una risposta al problema cardinale della filosofia, cioè la questione dei limiti dell'esprimibilità – cade in un paradosso, lo stesso che il suo autore ha alacremente cercato di combattere attraverso una diligente analisi sul linguaggio. Ma come è possibile, allora, che l'opera abbia un senso se è scritta con proposizioni insensate? Wittgenstein cerca di mostrare qualcosa di non esprimibile, di ineffabile? Le proposizioni del Tractatus riescono a mostrare qualcosa pur non dicendo niente? Alcuni studiosi di Wittgenstein hanno difeso questa possibile interpretazione, altri l'hanno messa fortemente in dubbio, ma quale sia il corretto taglio critico che si vuole imprimere nella lettura di questo enigmatico filosofo suscita tutt'oggi, a più di mezzo secolo dalla sua morte, forti polemiche e accesi dibattiti. Personalmente, dopo lo studio delle opere uscite postume, dei diari segreti e del percorso spirituale che lo ha accompagnato per 16 Ivi, Prefazione.17 Franca D'AGOSTINI, Analitici e continentali, cit., 124.18 Ludwig WITTGENSTEIN, Tractatus logico–philosophicus e Quaderni 1914 – 1916, cit., § 6.44, 108.19 Ivi, § 6.52, 108.

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gran parte della sua vita, propendo più per quell'interpretazione del Tractatus che enfatizza il mostrarne un senso etico che sfugge al linguaggio20.Ma a prescindere del parere – del tutto opinabile e soggettivo – che do alla lettura del Tractatus logico-Philosophicus, è importante ai fini di questo lavoro focalizzarci sulla “svolta linguistica”. Essa, invero, è stata una vera e propria rivoluzione intellettuale negli ambienti filosofici di inizio Novecento, non solo perché ha spostato l'oggetto di analisi della filosofia dal pensiero al linguaggio, ma perché ha la ferma convinzione che solo mediante il linguaggio è possibile delineare un limite al pensiero, alla ragione, e alle stesse proposizioni linguistiche. È oltremodo importante anche un altro aspetto che questo capovolgimento ha fatto scaturire: quello inerente la più propriamente detta “pragmatica del linguaggio”. Se in questo breve testo ci siamo soffermati a descrivere il pensiero del “primo” Wittgenstein e il fenomeno intellettuale della “svolta linguistica”, anche l'aspetto pratico del linguaggio – quello appartenente alla pragmatica – riveste un ruolo centrale nelle speculazioni filosofiche del secolo scorso. Codesto aspetto è stato estremamente necessario per l'altra svolta che ha caratterizzato il Novecento filosofico, ossia la svolta cognitiva; in quanto, ammettere che il significato di un termine (e anche della più generale proposizione) è dettato dall'uso che il parlante ne intende fare, (ciò è la tesi di fondo della pragmatica del linguaggio) è re-attribuire – seppur indirettamente – il carattere intenzionale all'atto cognitivo.Alessandro Belli

20 Vorrei fare un rimando ad una proposizione che va nella direzione etica del Tractatus che il logico austriaco esprime in Briefe an von Ficker: «Grazie al mio libro, l'etico viene per così dire delimitato dall'interno; e sono convinto che, in senso stretto, l'etico sia da delimitarsi solo in questo modo. In breve credo che: tutto ciò su cui molti oggi parlano a vanvera, io, nel mio libro, l'ho definito semplicemente tacendone». Ludwig WITTGENSTEIN, Briefe an von Ficker; trad. it.: Lettere a Ludwig von Ficker, Armando, Roma, 1974, 73.

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