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Page 1: 4 · Web viewCiò permette tra l’altro la creazione di una sub-cultura giovanile esplorata e valorizzata per la prima volta dal Romanticismo. Il lavoro della vocazione, la vocazione

Raniero Regni, Giovani vocazioni al lavoro, in Educare con il lavoro. La vita activa tra produttivismo e consumismo, Armando, 2006, pp. 113-134

Di solito, si fa coincidere l’età adulta con l’esercizio di un lavoro. Anche se nelle società del passato, nelle società premoderne, che erano società della penuria, tutti, ad ogni età, uomini, donne, bambini, dovevano lavorare per vivere, nelle società moderne e soprattutto in quelle opulente di oggi, l’impegno lavorativo coincide con l’ingresso nell’età adulta e viene progressivamente spostato in avanti nella biografia delle persone. L’ingresso nel mondo del lavoro coincide – o, meglio, dovrebbe coincidere - con la fuoriuscita dalla adolescenza e con l’attraversamento di quella linea d’ombra che separa la giovinezza dall’età adulta. Ma è proprio nell’adolescenza e nella giovinezza che si preparano e si sviluppano quegli elementi che poi si dischiuderanno, in maniera più o meno turbolenta e faticosa nella scelta di un lavoro. Ma procediamo per ordine partendo proprio da una riflessione sulle diverse stagioni della vita umana. Ci concentreremo sull’adolescenza, ovvero sul quel momento di ogni vita in cui il tema dell’identità diventa un compito esistenziale centrale e sulla giovinezza che porta a maturazione questo compito, cercando di intercettare la vocazione, di far sbocciare quel seme della propria chiamata, trasformando quell’istinto del lavoro che abbiamo visto operante nell’infanzia in una vocazione professionale capace di riempire una vita.

Le stagioni della vita e l’adolescenza come seconda nascita

I momenti dell’umana esistenza sono stati chiamati con nomi diversi: stagioni, stadi, cicli. Le parole non sono innocenti e rimandano a diverse prospettive1.Partiamo con un osservazione critica preliminare di R. Bellah che, all’interno della sua ricerca sull’individualismo americano, collega il diffondersi nelle e dalle scienze sociali dello schema del ciclo della vita ad una più vasta crisi di ciò che lega l’io alla comunità. Il Sé sceglie dei valori per esprimere se stesso ma esso non è costituito da essi come da una fonte pre-esistente. Il Sé è vuoto, disincarnato e privo di radici, senza senso di continuità e di riconoscenza, senza legami né con la famiglia, né con la comunità, né con il passato, né con i luoghi. Lo schema dei periodi della vita è utile ad un Sé che cerca di dare coerenza a modelli di vita arbitrari. E’ sicuramente vero che il ciclo della vita ha senso se lo si lega a quello di intere generazione e al contesto sociale e storico. Ed è proprio in questo senso che qui lo intendiamo. Stadi, cicli, età, nomi diversi per indicare quindi che la vita cambia, passa da un momento all’altro, che c’è quasi uno scendere e un salire, un emergere ed un declinare, un tornare indietro non in un cerchio ma in una spirale emergente che grazie al passato produce il futuro. Per Jung la vita assomiglia alla luce del sole che sale all’alba, sorge dal mare dell’inconscio nell’infanzia e che poi si avvia al mezzogiorno della vita per poi cominciare a declinare verso la sera della vita e il ritornare di nuovo ad immergersi nel buio mare dell’inconscio. Il mattino è la primavera, il pomeriggio e la sera sono l’autunno, ma dopo l’ascesa di certi valori nella prima metà della vita , si realizza il rovesciamento dei valori. “I valori psichici e il corpo stesso si trasformano nei loro contrari ; non fosse altro che con accenni”2. Il sole ritira i suoi raggi per illuminare se stesso, dopo aver diffuso la sua luce sul mondo. In una diversa prospettiva, ma con alcune significative convergenze, la vita è concepita da un filosofo come R. Guardini in polarità dialettiche in cui le parti e il tutto, le fasi e l’unità si coniugano in maniera tale che non è possibile distinguere nettamente le fasi le une dalle altre. La vita è una totalità che trae senso da tutte le sue fasi e dalla loro intima interazione. Le fasi costituiscono insieme la totalità della vita, ma non nel senso che la vita si compone di queste; la vita è sempre presente: all’inizio, alla fine e in ogni momento. Ma la polarità, che anche per Guadini come per Jung, attraversa la vita va nella direzione di una sintesi e di un equilibrio incessantemente messo in discussione , tra essere e divenire. La vita sta sempre tra mutamento e continuità, che sono possibili proprio perché ogni fase non è assoluta e ciò rende possibile l’unità nella diversità di cui

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l’umana esistenza si compone. E’ sempre lo stesso uomo, ma l’uomo si caratterizza in modo sempre nuovo. Ogni ora accade una sola volta, una volta e per sempre; ogni fase della vita è nuova, non era mai accaduta prima, è unica e poi passa per sempre ma senza scomparire. Perché la vita non è un affastellamento di parti, bensì una totalità che è presente in ogni punto dello sviluppo”3.L’infanzia e la giovinezza, l’adultità e la vecchiaia, “ogni fase è qualcosa di peculiare che non si lascia dedurre né da quella precedente né da quella successiva. Tuttavia ogni fase è inserita nella totalità e ottiene il proprio senso soltanto se i suoi effetti si ripercuotono realmente sulla totalità della vita.”. E questa concezione ha delle consonanze con quella di Erikson che chiama epigenetica, nel senso che la personalità come l'embrione ha origine da un tutto indifferenziato e non preformato e consiste in una successione di potenzialità, che diventano attuali col tempo; ciascuna parte affiora nel corso dello viluppo dell'individuo pur essendo già presente in lui, in un'altra forma, prima della sua emergenza effettiva. Danneggiando una fase si danneggia la totalità e ogni singola parte.Per tutti i teorici dei cicli c’è poi una convergenza sul fatto che lo sviluppo, la vita non accade in maniera lineare ma tra una fase un un’altra si situano delle crisi tipiche. Per Guardini, il passaggio da un’età all’altra è sempre una crisi, un distacco in cui c’è un pericolo: la vita nel grembo materno affronta la crisi spesso fatale della nascita; la pubertà, la giovinezza, l’esperienza della realtà, l’età adulta, la presa di coscienza dei propri limiti, la maturità., l’esperienza della fine, la vecchiaia e la saggezza, la morte. Anche per Erikson il passaggio da un ciclo ad un altro consiste nell’affrontare una crisi che rappresenta al tempo stesso un pericolo, una minaccia ma anche la possibilità dell’emergere di energie che altrimenti sarebbero rimaste latenti. Ogni fase ha poi il suo carattere, il suo Ethos direbbe Erikson, possibilità e compiti morali diversi ad ogni età. Jung, Guardini, Erikson convergono quindi, come vedremo meglio più avanti, su molti aspetti ed anche se illuminano sfaccettature diverse e guardano alla vita da prospettive diverse sicuramente si sottraggono ad una visione individualistica ed autoespressiva del ciclo della vita vedendo bene ciò che lega la vita di ognuno a quella delle generazioni, ciò che lega il ciclo individuale al più grande cerchio dell’esistenza del genere umano sulla terra. Ma se c’è un momento nella vita umana in cui tutti questi aspetti si mostrano in tutta la loro evidenza è sicuramente l’adolescenza. E se la nostra vita è un susseguirsi di morti e rinascite è proprio l’adolescenza ad essere stata definita come seconda nascita. “L’uomo nasce, per così dire, due volte: una per esistere, l’altra per vivere”, così scrive Rousseau nell’Emilio ed è sua credo l’immagine dell’adolescenza come seconda nascita. Egli passa dal vivere all’esistere e gli occhi dell’adolescente tradiscono questo ed altri sentimenti. Poi anche Montessori riprenderà e svilupperà il concetto: “lo sviluppo è una successione di nascite. In un certo periodo della vita, un’individualità psichica cessa e ne nasce un’altra”. E’ una nascita in cui ognuno di noi dà vita a se stesso e coincide con un rinnovamento di tutti gli aspetti della personalità. E come è pericolosa e rischiosa la prima, così è turbolenta e decisiva la seconda. Non a caso è stata definita l’età ingrata, perchè è quel periodo in cui il bambino non è più un bambino ma non è ancora un adulto. Si vive come tra due mondi e quest’esperienza fa dire ad un personaggio H. Hesse, “E vissi come tutti. Ebbi la duplice esistenza del fanciullo che non è più bambino”4. Sì, l’adolescente non è più un bambino ma non è ancora un adulto. Vive in maniera inquieta l’esperienza del “non più” e del “non ancora”. E’ teso tra la comoda posizione di protezione dell’infanzia-passato e i vantaggi, che però tardano a farsi sentire, della maturità-futuro. Si ripresenta la tensione drammatica che forse si era presentata addirittura nella vita prenatale. Il grembo materno che era il paradiso, dopo i nove mesi rischia di diventare una prigione mortale. Così la casa, l’ambiente familiare, quell’involucro protettivo in cui si stava così bene durante l’infanzia, sembra ora all’adolescente insopportabilmente stretto, deve liberarsene, uscire, fuori. Ma come ? Si vorrebbe andare lontano dalla casa e dai genitori, essere autonomi, cavarsela da soli, pur nutrendo sempre il timore malcelato di non farcela. Da qui deriva anche la grande passione degli adolescenti per il motorino, esso è simbolo di una mobilità che amplia il cerchio dello spazio a disposizione. L’euforia dello scorrazzare liberi e lontani, il richiamo della strada, il bisogno di azione e di avventura è proprio di una vita che comincia a decollare verso il futuro. Ma, si sa, il decollo, è un momento rischioso del volo.

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L’adolescenza è un’età di transizione e come ogni transizione è un’età di vulnerabilità. Lo stesso corpo dell’adolescente, pur con tutta la riserva di energie, nel suo scatto di crescita è più vulnerabile. K. Lorenz la paragona alla muta del granchio, il quale per crescere deve abbandonare il vecchio carapace che gli sta stretto ma mentre abbandona la corazza che l’ha difeso e non ha ancora costruito quella nuova è vulnerabile e i predatori ne approfittano. “Tra il momento della demolizione e il momento della ricostruzione si colloca necessariamente un periodo di maggiore vulnerabilità…Questa muta delle idee e degli ideali tradizionali, questo cambiamento di pelle è una fase critica nello sviluppo dell’individuo umano, foriera di numerosi pericoli. In questa fase del suo sviluppo, infatti, il giovane essere umano è particolarmente vulnerabile all’indottrinamento”5. Non a caso molte dei comportamenti devianti, dalla tossicodipendenza alla malattia mentale alla delinquenza giovanile, si verificano in concomitanza con la crisi adolescenziale tra i tredici e i diciotto anni. L’analogia zoologica non è fuori luogo perché l’adolescenza inizia nella chimica e nella biologia e coincide con una crescita corporea, con uno scatto di crescita corporea che avviene improvvisamente e rapidamente con le sue ben note componenti di tempesta ormonale. L’adolescente, maschio o femmina, si trova a dover indossare un nuovo vestito di carne e se il bambino è il suo corpo, per l’adolescente c’è la scissione tra corpo reale e corpo vissuto. Non ha più solo un corpo né è soltanto un corpo, egli sente con forza il vivere un corpo-vivente. Miti e fiabe ha detto tutto questo alla loro maniera. L’adolescente è un brutto anatroccolo, non sa di essere un cigno. Sente che il suo corpo è più del suo corpo e si vergogna. Si sente come il Principe rospo e non sa che un semplice bacio sarà sufficiente a trasformarlo. Alla crescita si associa la maturazione sessuale, bambini e bambine che fino a qualche tempo prima avevano giocato assieme si separano, i due sessi si differenziano prima di potersi ritrovare. Anzi, per paura dell’indistinzione tendono ad esagerare le caratteristiche distintive in forme di esibizione. Con la sessualità, dice la psicoanalisi assistiamo alla reinsorgenza dell’inconscio e i rapporti con se stessi e con gli altri in questa età di cambiamento si fanno saturi di sensazioni contrastanti. Qualcuno parla di una “regressione al servizio dello sviluppo”6. Quelle tensioni inconsce che c’erano state durante l’infanzia e che si erano sopite durante l’età scolare, quelle tensioni che erano latenti, ovvero c’erano ma non si vedevano, ora esplodono riemergono alla luce ed esplodono con una forza nuova. La dinamica dello sviluppo porta alla differenziazione dei sessi. Lo stesso sviluppo sembra avvenire in maniera diversa per ragazze e ragazzi: per questi avviene per separazione mentre per le femmine per affiliazione. Seguiamo la ricostruzione che ne fa R. Bly7. La funzione di proibizione: Super-Io, lato maschile delle cose. Funzione di aspirazione: chi voglio essere , L'io-ideale, il nobile compagno. Ci fa sentire che noi siamo fatti per qualcosa di meglio. E' come un amico, è un amico, ci accompagna dovunque (forse è il lato femminile della psiche, bellezza e raffinatezza). Due figure: una che applica le norme, più o meno saggiamente, farà sapere quali sono gli standard della bontà e del successo, ti dirà che cosa non devi fare e in generale abbasserà la tua autostima per farti conformare alle norme. L'altra, la funzione di aspirazione, tenderà a sollevarti al di sopra delle limitazioni morali, intellettuali ed emotive in cui al tua famiglia ha sempre convissuto e cercherà di farti diventare migliore, più saggio, nobile, profondo. In questa periodo della vita tutto diventa sessuale, il ragazzo teme di avere tracce di femminilità nel suo corpo, prende in giro le ragazze vuole stare solo con i maschi in rozze e oscene ossessioni. Poi scocca l'attrazione per una ragazza: il gesto della mano con cui si ravviva i capelli gli sembra misterioso oltre ogni dire. Ci vuole coraggio per avvicinarsi a lei e parlarle. Un momento si sente sicuro di sé e un momento si sente goffo, brutto e stupido. Sente lutto e innamoramento: lutto per la perdita della madre, il lutto di un esule, in altri momenti si sente a casa sulla terra per la prima volta. Il nobile compagno ama la perfezione, si sente un ribelle, sente che la vita non è ancora iniziata. Due rischi: gettarsi nella vita troppo in fretta; oppure di ritrarsi nell'isolamento. Non sa nulla di sentimenti. Crede che l'eccitazione sia la porta verso i sentimenti, ma tutto quello che ottiene è più eccitazione. Alla fine dell'adolescenza, se non vi è iniziazione o una guida efficace, succede una cosa triste. La fiamma del pensiero, il divampare della creatività, il falò della tenerezza, tutti questi fuochi cominciano a spegnersi. I ragazzi si

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consolidano. Prendono quello che trovano intorno a sé, le poche opinioni locali, la cultura del bere. Sentono che non hanno più tempo per sentire i traumi, una desensibilizzazione che spesso diventa l'essenza della vita maschile, molto più che il potere e il dominio sugli altri, il tenersi tutto dentro. Accumulano la rabbia nel corpo, non la riescono ad esprimere in maniera sana e feconda. Provano rabbia ma non sanno che cosa farne. Molti non diventano violenti ma vivono un consolidamento inespressivo, senza violenza, ma anche senza spontaneità o creatività. la desensibilizzazione rispetto alla rabbia e al dolore diventa il loro compito. Per le ragazze avviene in maniera diversa, Bly sostiene che le femmine potrebbero avere uno sviluppo diverso. La bambina è in relazione con la madre, ama la madre ma a diciotto mesi scopre il padre e questo amore idealistico per il padre dura fino a 3 anni. L’esperienza di amare e di esser riamata da un essere maschile amorevole si deposita nella sua anima come uno strato geologico. I due amori le permetteranno di entrare ed uscire da femminile e dal maschile, con una certa sicurezza e facilità. Il padre rappresenta sempre la via d’uscita verso il mondo fuori dalla casa. Non l’invida del pene ma ciò che la bambina invidia veramente è l’accesso al mondo. La bambina vuole separarsi quanto è possibile senza danneggiare la relazione non di più. Le donne crescono per affiliazione. La vita femminile consiste nel vivere incoraggiando gli altri a vivere. Il compito di una ragazza adolescente è realizzare il lavoro degli affetti che è diverso da un’opera di separazione. Bisogno di spazi aperti e di solitudine. Si confidano al diario come ad una persona. Sono disposte ad accettare la loro parte maschile. Ritardare un’attività sessuale prematura. Perdite per le figlie nella società orizzontale: adattarsi ai valori della società dei consumi: ossessione per il successo, richiesta di un corpo snello, attività sessuale precoce, precoce uso di droghe, la superficialità delle relazioni, l’intercambiabilità dei partner sessuali, permissività nei confronti del sesso ricreativo. Perdono contatto con le loro madri, nonne e comunità femminili. Estinzione della passione: nella cultura occidentale la passione va verso l’estinzione. La passione è collegata alla presenza di grandi aspettative fra uomini e donne, ed al rischio di soffrire: una lunga conquista irta di difficoltà. Le condizioni per la passione non esistono né a livello sociale né a livello psicologico. La passione è legata alla presenza schiacciante della legge morale sociale. Ieri gli amanti violavano la legge per ottenere la passione. E poi c’era un lungo tempo di attesa, di scoperta, in cui si sogna l’altro, si aspetta un suo sguardo. I tempi si sono accorciati. Le forti tensioni interne si riverberano in comportamenti spesso contraddittori, contraddizioni vissute e patite sia dagli adolescenti che da quelli che hanno a che fare con loro come genitori e come educatori. L’adolescenza è stata definita anche il regno dei contrari. Con oscillazioni frequenti e rapide, il giovane e la giovane adolescente passano dall’egoismo all’altruismo, dall’apatia all’iperattività, dalla depressione malinconica all’esaltazione, dalla solitudine alla socialità, dalla fede cieca al dubbio radicale, dal primato della ragione a quello della passione. Quest’ultima tensione è poi dovuta anche al fatto che lo stesso sviluppo cognitivo entra nell’adolescenza nella sua fase più alta. Direbbe Piaget che è il periodo in cui la mente diventa capace di operazioni formali, il pensiero pensa il pensiero, passando da una logica operativa ad una formale. Anche per questa ragione l’adolescenza è un’età filosofica per eccellenza, un’età metafisica nella quale il giovane gioca con il pensiero, con le ideologie, cerca idee potenti da condividere in un gruppo, cerca un compito, una persona, un’idea a cui essere fedele, ma è anche esposto alla propaganda ideologica. Passa dalle fedi subite alle fedi con sapute, ma rischia di rimanere vittima dell’indottrinamento. Ed anche dal punto di vista educativo avrebbe bisogno di grandezza (Montessori), di pensare in grande, di fare cose grandi e di essere esposto alla grandezza, in compiti in cui poter canalizzare tutte le sue straordinarie energie. La sua passione intellettuale si rivolge al nuovo, è tipica dell’adolescente la neofilia fisiologica, e questo svolge una funzione anche nel metabolismo sociale, nella dialettica delle generazioni , per cui il giovane adolescente vede la possibilità dove adulti e anziani vedono invece la dura necessità. L’adolescenza è anche l’età dell’esodo, del passaggio dalla famiglia alla società. L’adolescente, dice Montessori, è un neonato sociale. Egli sente il bisogno di ampliare il cerchio delle sue esperienze e di farlo di persona. Da solo o meglio assieme agli amici. E’ questa infatti un’età

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sensibile alle grandi amicizie, all’esperienza del noi. C’è il gusto di fare le cose assieme ai coetanei e ai ragazzi un po’ più grandi. I momenti in cui si fanno degli amici sono quelli in cui siamo spesso costretti a cambiare, a riprogettare ciò che facciamo e ciò che siamo. Gli amici ti capiscono perché anch’essi sono come te alle prese con gli stessi problemi e non devi spiegare quello che ti accade, anche se poi è vero che l’adolescente oscilla tra iper-specializzazione-gregarismo e ipo-socializzazione-isolamento.Altri studiosi come D. Winnicott insistono sul fatto che l’adolescente è un essere isolato. La protezione gelosa dell’isolamento personale fa parte della ricerca dell’identità. Nella crisi della pubertà c’è un rafforzamento delle difese contro l’essere scoperto, essere scoperto prima di essere disposto ad esserlo. Per questa ragione “gli adolescenti formano degli aggregati piuttosto che dei gruppi e, con il sembrare tutti uguali, sottolineano la solitudine essenziale di ognuno di loro” 8 . Un gioco raffinato di nascondersi in cui è una gioia nascondersi ma è un disastro non essere scoperti.

Conquista la propria identità soltanto chi rischia di perderla

Ma veniamo al tema per noi centrale che è per noi quello del bisogno di scoprire la propria identità. Il compito esistenziale fondamentale, la sfida tipica dell’adolescente è quello di conquistare l’identità. La domanda implicita che prima trovava risposta senza essere posta “chi sono io?”, diventa ora esplicita e si coniuga con altre domande: “chi voglio essere io?” e “di che cosa sono capace?”. L’adolescente sente la forza di queste domande, sente il bisogno di una nuova continuità con se stesso, vorrebbe diventare padrone del proprio volto e conquistare se stesso. “Lo scopo di questo sviluppo è distinguersi, in quanto io dagli altri; è porsi come persona libera e responsabile; è acquisire un proprio giudizio sul mondo e sulla propria posizione nel mondo; è diventare un io, per muoversi verso l’altro, per potere, in quanto io, dire tu”9. Egli sente come non mai nella sua vita la tensione tra il desiderio di trovarsi e la paura di perdersi. Come abbiamo visto, sembra una vera e propria legge quella che regola il passaggio da una stagione all’altra della vita, solo attraverso il conflitto e rischio si raggiunge la maturità. E non c’è conflitto evolutivo senza ansietà, depressione, tensione, senza cioè un correlato emotivo. La conquista della propria identità sembra richiedere poi una via ancora più paradossale, infatti sembra che conquisti la propria identità soltanto chi rischia di perderla. Così osserva J. Bruner10

commentando un racconto di J. Conrad11 che, come altri capolavori del romanziere polacco-inglese mostra, con suggestive metafore marinare, la tensione della conquista dell’identità. In un racconto intitolato Il compagno segreto, un giovane capitano al suo primo ingaggio in questo ruolo non sa se è capace di svolgerlo questo ruolo e non lo sanno neanche i membri dell’equipaggio. In una notte di bonaccia tipica dei mari tropicali, quando la nave è ferma in assenza di vento egli vede salire a bordo un uomo. Si tratta di un ufficiale evaso da una nave dove era tenuto prigioniero. Così almeno egli racconta. In ogni caso egli lo nasconde nella sua cabina e lo protegge. Quando la navigazione riprende egli vuole portare questo suo “compagno segreto” il più vicino possibile alla costa per permettergli di scivolare in acqua e fuggire. Il momento è decisivo, la scena si svolge di notte, il capitano spinge la nave verso la costa, i marinai eseguono gli ordini di manovra ma trattengono il respiro perché vedono la minacciosa ombra del promontorio avvicinarsi. Ad un certo punto temono che il naufragio sarà inevitabile. Invece il giovane capitano, in questa manovra abilissima ma follemente temeraria, utilizzando come punto di riferimento il suo cappello bianco che aveva regalato al compagno segreto che era nel frattempo scivolato in mare, riesce a calcolare la velocità della nave e il suo abbrivio e riesce a dare la manovra di virata quando tutti credevano invece in un errore fatale. Da quel momento il capitano capisce di essere padrone della sua nave, conquista una sicurezza e assieme ad essa la stima dell’equipaggio che sente che d’ora in poi anche in situazioni difficili potrà fidarsi delle capacità di chi comanda la nave. La psicoanalisi ha letto il racconto insistendo sul doppio della personalità, ma la lettura bruneriana, che coincide con quella di Erikson, ne cava invece una metafora per indicare la crisi della conquista dell’identità che per essere tale deve correre il rischio – si intenda bene, solo il rischio – di perdersi. “Per ottenere l’identità bisogna

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rischiare di perderla del tutto. E’ la regola che presiede al fronteggiamento delle crisi”, e questa tornerà altre volte nell’esistenza, perché è evidente che l’identità non si conquista una volta per tutte. E le crisi si attraversano, come dirà altrove Erikson, non ci si costruisce dentro. Il problema dell’identità infatti si collega con quello dell’azione che si riannoda con quanto detto nel primo capitolo. L’adolescente è alle prese con un classico dilemma psicologico ed esistenziale: come faccio a sapere chi sono fin tanto che sono preso da ciò che faccio? O, meglio, quale è il significato di questa azione per la mia identità? L’introspezione, ci vuol dire Conrad, non finisce nella stasi ma nell’azione. E l’azione affascina l’adolescente, ne sente il richiamo e il pericolo contenuto nella sua irreversibilità. Erikson12 indica come antitesi evolutiva la tensione tra identità e confusione dell’identità ed aggiunge che in questa dialettica c’è anche la tensione tra il desiderio di essere come qualcuno altro, quello che lui chiama il processo di identificazione, e quello di una fedeltà a se stessi secondo una fisionomia originale. Forse è vero quello che osserva P. Roazen che i cicli della vita di Erikson, non sono tanto la descrizione di ciò che accade ma di ciò che si vorrebbe che accadesse, ma in ogni caso, se il processo si sviluppa normalmente, la fuoriuscita da sé presuppone un ritornare a sé, un passaggio dall’identificazione all’identità. In questa ricerca si inserisce anche quello che può essere definito il comportamento teatrale. L’adolescente tenta ruoli diversi e, in una società della discontinuità generazionale e della incoerenza della socializzazione come sono le nostre, in una società dello spettacolo e del consumo questo è ancora più evidente. In questi comportamenti dell’adolescente c’è un aspetto giocoso e teatrale, anche se le esibizioni sono disperatamente serie. L’adolescente sembra avere una scarsa capacità di risolvere i conflitti che la sua evoluzione gli impone. Questa capacità deriva dalla ripetuta esperienza di aver risolto in passato le proprie difficoltà. Da questo anche la nevrosi apparente dell’adolescente. Egli, osserva Bettelheim13, è semplicemente troppo giovane e non ha avuto un numero sufficiente di esperienze per risolvere i propri conflitti interni, per poter nutrire la fiducia di poterli dominare con successo. Egli entra nel tunnel della disperazione con una certa facilità ed ogni crisi, ogni fallimento gli sembra insuperabile. Ha troppa poca vita alle spalle e questo buio gli si presenta per la prima volta nella vita per sapere che l’uscita dal tunnel e la luce è lì, dietro l’angolo.Dalla stessa fonte nasce anche la rivolta, un altro tipico atteggiamento dell’adolescente. Egli sente che ribellarsi è giusto. Sente che deve prendere le distanze dagli adulti, dai genitori, da tutti., altrimenti non sarà mai libero e autonomo. La rivolta è fisiologica ma, come avrebbe detto A. Camus, dentro ogni rivolta riposa un consenso. Egli dice no, ma allo stesso tempo cerca dire sì ad un altro Se stesso diverso; sembra non ascoltare ma in realtà registra ogni risposta, ogni reazione degli altri alla suo furia ribelle. In questo frangente turbolento “c’è il pericolo che egli non compia il passo verso l’autonomia e rimanga dipendente; o che persista nella ribellione e non impari che cos’è l’ordine liberamente accettato”14. Il rischio è anche quello della dipendenza ribelle di essere cioè dipendente dalla posizione a cui si oppone paradossalmente perché non ne ha una propria e per sapere che cosa pensa deve aspettare qualcuno cui opporsi. Ma nella ribellione gli adolescenti cercano qualcuno cui essere fedeli”, dice Erikson, “per non cadere nel cinismo e nell’apatia, i giovani debbono in qualche modo riuscire a convincersi che coloro che hanno successo nel mondo degli adulti sono i migliori”. La fedeltà è secondo lui la forza che si manifesta proprio nell’adolescenza e si contrappone al rifiuto di ruolo, così come la ricerca dell’identità si contrappone alla sua antitesi evolutiva che è la dispersine dell’identità. La sottile ambivalenza della rivolta la si vede anche nel bisogno che qualcuno si opponga alla loro rivolta. Qui il ruolo dei genitori è ancora decisivo, con coerenza e senza aggressività, bisogna contrapporre i propri valori e comportamenti a quelli dell’adolescente. Infatti, come osservò genialmente C. Lasch15, l’atteggiamento cosiddetto comprensivo ed egualitario dell’adulto nei confronti delle sue rivendicazioni, viene percepito dal giovane come una resa, una resa ben accetta e deludente allo stesso tempo. Da una parte la resa dei genitori dimostra la sua forza, dall’altra

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dimostra che coloro che possono ancora proteggerlo sono in realtà deboli e questa è un’esperienza deludente proprio nei moneti di maggiore turbolenza adolescenziale. E’ difficile diventare grandi in una società che è stata definita senza padri e senza maestri, in cui il principio di autorità è stato oggetto di un attacco sistematico e di una demolizione continua. Se l’adolescenza è un passaggio e questo passaggio è una crisi, questa oggi avviene in un contesto esso stesso in crisi. Una sfaccettatura di questa crisi è la crisi del principio di autorità, ovvero di quell’insieme di principi che consentono all’adulto di educare e di proteggere il giovane. Secondo qualcuno, genitori, educatori, superiori in genere, dentro e fuori la scuola e le altre istituzioni educative e dentro e fuori della famiglia, non sembrano più rappresentare un simbolo sufficientemente forte per i giovani, per cui la relazione con l’adulto “viene percepita come simmetrica”16. Questa appare di tipo contrattuale, nel senso che nulla predefinisce la relazione, nessun principio, nessun valore, stabilisce un’anteriorità al di fuori della relazione stessa. E se in tutte le culture è sempre esistito un rapporto tra anteriorità e autorità, la nostra sembra averlo in gran parte dissolto. L’autorità è spesso sostituita dalla celebrità, la grandezza dal successo. Il principio di realtà che l’autorità aiuta a conquistare imponendo la procrastinazione del desiderio, viene sostituito da un basso utilitaristico che ne rappresenta la parodia, la caricatura cinica. Ma questo declino, contro tutte le previsioni – per la verità miopi - non ha significato minore disagio per i giovani, né minori conflitti e neanche una minore disponibilità all’autoritarismo. Il non aver interiorizzato la Legge simbolica incarnata dall’autorità porta allo scontro con le leggi. Il senso di arbitrarietà e di confusione che consegue al declino del valore dell’autorità non fa diminuire l’aggressività e in molti casi addirittura favorisce il passaggio all’azione violenta. Infatti, ”il principio di autorità si differenzia dall’autoritarismo in quanto rappresenta una sorta di fondamento comune ai due termini della relazione, in virtù del quale è chiaro che uno rappresenta l’autorità e l’altro ubbidisce; ma allo stesso tempo è convenuto che entrambi ubbidiscano a quel principio comune che , per così dire, predetermina dall’esterno la relazione. Il principio di autorità è quindi fondamento dell’esistenza di un bene condiviso, di un medesimo obiettivo per tutti: io ti ubbidisco perché tu rappresenti per me l’invito a dirigersi verso questo obiettivo comune perché so che questa ubbidienza ti ha permesso di diventare l’adulto che sei oggi, come io lo sarò domani, in una società del futuro garantito”. Come vedremo più avanti la nostra è una società in cui è difficile diventare adulti, è una società che è stata definita degli eterni adolescenti dove quella che era una situazione di passaggio di più o meno lunga durata diventa una situazione cronica. C’è chi ha sostenuto che l’adolescenza è un’invenzione storica e sociale17, altri sostengono con diverse sfumature che la giovinezza non è né un fatto biologico né un fatto giuridico ma è piuttosto una definizione sociale. Se non è propriamente un’invenzione storica almeno una sua valorizzazione sembra coincidere – con la rivoluzione industriale sul piano socioeconomico e sul piano culturale al romanticismo18. La lunghezza della giovinezza è un dato storico e sociale, non è un fatto biologico né giuridico, ma è una definizione sociale. “In termini biologici si potrebbe definire la giovinezza come quel periodo che inizia il giorno in cui si perde l’ultimo dente da latte e finisce quando si scopre il primo capello bianco”. E’ solo dopo la rivoluzione industriale che adolescenza e gioventù si affermano come età separate dal resto del corso della vita. L’industrializzazione aumenta la divisione del lavoro, la differenziazione sociale e contemporaneamente permette con la ricchezza prodotta di procrastinare l’ingresso dei giovani nel lavoro. L’adolescenza è un lusso permesso dalla ricchezza; una zona interstiziale nuova creata dalla specializzazione dei lavori e dall’aumento della scolarizzazione e della connessa “etica dell’istruzione” che impone , indipendentemente dal suo valore affettivo nello svolgimento di una professione, l’acquisizione di titoli di studio sempre più elevati. L’adolescenza e la giovinezza sono però come l’infanzia segregate dalle attività serie e questo è dovuto, non solo al bisogno di specializzazione e di acquisizione di un livello sempre più altro di cultura generale. Mentre la scolarizzazione aumentava, la partecipazione al lavoro dei giovani si è andata riducendo. La disoccupazione giovanile è divenuta poi progressivamente e soprattutto oggi non solo un fattore

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congiunturale ma strutturale e funzionale. Ciò permette tra l’altro la creazione di una sub-cultura giovanile esplorata e valorizzata per la prima volta dal Romanticismo.

Il lavoro della vocazione, la vocazione del lavoro nella giovinezza

Se è nell’adolescenza che matura la vocazione e il richiamo verso un lavoro è però nella giovinezza che questa si dischiude. Gli stessi conflitti adolescenziali la nutrono. Per certi versi, l'uomo che resta creativo continua per il resto dei suoi giorni a trasformare in arte i residui dei conflitti infantili e adolescenziali. Ma l’adolescente è troppo preso dal passaggio stretto che sta attraversando e dalle tempeste che lo agitano per poter udire le voci interiori e pensare al suo futuro. Il giovane, volente o nolente, è chiamato a farlo. Come nota genialmente Romano Guardini, sembra esserci uno strano paradosso in questo meccanismo sociale e individuale. Il giovane, dice Guardini si trova a dover affrontare scelte decisive della sua vita, come quella di una professione e quella della scelta di un partner, ma le affronta nel momento in cui egli sembra avere le idee meno chiare. “Ciò rappresenta spesso un autentico rischio, poiché un tale passo, che determinerà tutto il suo futuro, viene compiuto in un momento in cui manca nel giovane un giudizio lucido sulla realtà delle proprie capacità e dell’ambiente circostante”19. Ma, osserva Guardini, il paradosso si scioglie se si considera che quello della giovinezza è anche il periodo nel quale c’è un senso dell’assoluto molto forte e ci sono energie così potenti che da esse può venire il coraggio del salto e della decisone. Ciò, naturalmente, non elimina il rischio del fallimento, dell’intraprendere strade sbagliate, dell’interpretare male le voci del mondo e le proprie voci interiori.Il lavoro, lo abbiamo detto più volte e in modi diversi, è parte dell’identità. Alle domande “chi sono?” e “che cosa voglio fare della mia vita?”, si associano nella giovinezza quelle relative a quale attività, quale lavoro?” “che cosa voglio fare da grande, cioè ora?”. E queste domande intime ed individuali, non sempre esplicite ed udibili ed udite, rischiano di farsi drammatiche. Anche per questa tensione che grava sul giovane risuona ancora vera l’espressione di Paul Nizan “avevo ventenni, e non permetterò a nessuno di dire che questa è l’età più bella della vita”. Ieri e oggi il tempo delle scelte è anche un tempo difficile. Personalmente ci arrivai completamente impreparato, per motivi soggettivi (indecisione personale) ed oggettivi (pochi o nessuno si era preoccupato, dentro e fuori la scuola, di fare quello che oggi ha almeno un nome: orientamento formativo). Cercavo di ascoltare le mie confuse voci interiori per capire quale fosse la mia vocazione, la mia strada e faticai non poco a capirlo o a credere, per il resto della mia vita, di averlo capito. Mi sentivo un piccolo Tonio Kroeger di provincia, che pensava che per lui non ci fosse una strada, mentre alla fine la strada è uscita.Parentesi personale a parte, la vocazione chiede di essere capita e se è vera la teoria di Hillman20 (e se non lo è ha comunque un suo valore esistenziale ed educativo) ogni anima avverte dentro di sé questa chiamata. Può sussurrare o gridare dentro di noi, ma la vocazione ci abita. Essa rappresenta la ragione per cui si è vivi e si è al mondo. Hillman non crede alla semplice forza dell’eredità biologica, né alla forza del passato psicologico in senso freudiano, così come non crede agli stadi di sviluppo piagetiani, né tantomenpo alla idea di compensazione, per cui il bambino povero poi cerca di diventare l’uomo ricco di successo. Lo sviluppo non è legato alle influenze passato, quanto piuttosto alle rivelazioni di un futuro intuito nella voce della vocazione. La vocazione, il destino,il carattere, l’immagine innata che ci abita sono sin dall’inizio dentro di noi. La quercia che noi diverremo è già tutta dentro la ghianda. Ciascuna persona viene al mondo perché chiamata e deve riconoscere questa voce ed allineare la sua vita al suo destino. Teoria platonica e neoplatonica quella che sostiene che ciascuna persona viene al mondo perché chiamata. I giovani sanno e se non lo sanno lo sentono, che ad un certo punto la vocazione fa irruzione in una giovane vita, l’angelo chiama. Certo la vocazione è apparentemente crudele perché ci strappa ad una vita che altri hanno segnato e sognato diversa. Ma è anche bella. Perché si basa sulla certezza che Pound avrebbe riassunto così: amo dunque sono. La mia passione per qualcosa mi salva. “Di tutti i peccati della psicologia, il più

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mortale è la sua indifferenza per la bellezza. Una vita, in fondo, è una cosa bella”(57). Come l’albero, che è il simbolo per eccellenza della crescita, la vocazione cresce perchè discende in noi, si approfondisce ed emerge. L’educazione dovrebbe contribuire non al chiasso assordante e petulante dei precetti, ma al silenzio che ascolta. Il mentore dovrebbe vedere qualcosa di essenziale nell’anima di ogni giovane ed aiutarlo a comprenderlo. La vocazione non necessariamente è la spinta a qualcosa di grande, non è la spinta al successo che esalta solo le persone che emergono. Per Hillman, e il suo invito va esattamente nella direzione di una vita activa che non vuol dire attivismo quale si sostiene in questo libro, “nessuna anima è mediocre”(310). Per la teoria della ghianda ognuno di noi è un eletto, “il carattere non è quello che faccio, ma il modo come lo faccio”(313). Il carattere è il destino dell’uomo. Se il carattere conforma la vita non importa quanto oscuramente sia vissuta, questa può essere una vita piena. La chiamata interiore, che non ha solo bisogno di essere istruita ma di essere coltivata nel senso che dà all’espressione Saint-Exupery21, ha bisogno di qualcosa che vi si opponga come ha bisogno di trovare un mezzo per esprimersi. Spesso il lavoro è tale strumento. “La terra ci fornisce, sul nostro conto, più insegnamento di tutti i libri. Perché ci oppone resistenza. Misurandosi con l’ostacolo l’uomo scopre se stesso. Ma per riuscirci gli occorre uno strumento. Gli occorre una pialla, o un aratro”. La chiamata può avere il volto deciso e terribile del destino, oppure può avere una voce più dimessa che sussurra ma in ognuna è presente una forza che afferra. Chi non l’ascolta finisce per cementare nel buoi la sua anima e poi per tutta la vita finirà per serrare ogni fessura da cui può entrare la luce e, come diceva un poeta, si può morire a quarant’anni di un proiettile che ci si è sparati nel cuore a venti. E’ quello che si rivela allo scrittore-aviatore Saint-Exupery nel bel mezzo di una tempesta e pensa agli uomini che ha appena lasciato nell’autobus che lo conduceva all’aeroporto, uomini che avevano tutta l’aria di aver rinunciato da tempo ad ascoltare la voce che li abitava, la voce della vocazione. Questa la sua amara considerazione: “Non ti senti abitatore d’un pianeta errante, non ti poni mai le domande senza risposta, sei un piccolo borghese di Tolosa. Nessuno ti ha mai afferrato per le spalle quando era ancora tempo. Adesso, la creta di cui sei composto si è seccata, si è indurita, e nessuno potrebbe ormai ridestare in te il musicista addormentato; o il poeta, l’astronomo che forse c’erano all’inizio”. L’argilla di cui siamo pure fatti ha bisogno di questo soffio per animarsi altrimenti la vita perde la sua direzione e il suo senso. E questo va fatto in un momento come quello della giovinezza in cui ancora tutto è possibile. Altrimenti la vita finisce nella tragica parabola contenuta ne Il Castello di Kafka in cui un contadino chiede udienza all’imperatore ed attende di fronte alla porta. Attende tutta la vita, invecchia nell’attesa e quando la guardia si avvia a chiudere la porta egli, con le ultime forze, domanda come mai non sia stato ammesso all’udienza e la guardia gli dice che la porta era stata aperta solo per lui e che è lui che non ha mai varcato la soglia ed ora è troppo tardi. La porta della vita deve essere varcata, si deve scommettere sull’essere afferrati dalla vocazione. Alla vocazione deve corrispondere sul piano cognitivo e della volontà la capacità di progettare la propria vita. E qui ci scontra con la società del breve termine, che anche in questo domina sul lungo termine, con la società dell’incertezza che rende difficile vedere la propria vita sottoposta ad un progetto di lungo periodo, con testimoni durevoli della propria esperienza lavorativa. La flessibilità e l’incertezza erodono il progetto – e quando non diventa ancora più ostinata - rendendo sfocata la vocazione. L’uomo occidentale si identifica con una professione e la sua vita con una carriera. Secondo Berger22 ci sono almeno tre livelli per classificare l’esperienza lavorativa umana. La prima è quella di un lavoro nel quale ci si può identificare e nel quale ci si può realizzare, la seconda è quella , al contrario in cui il lavoro è solo una forma di sofferenza e un affronto all’amor proprio, la terza, quella forse più diffusa, per cui il lavoro non è né autorealizzazione né una tortura, ma rappresenta un’area amorfa della vita e che, pur non procurando una grande soddisfazione, è tuttavia sopportabile e non ostacola la ricerca dell’autosoddisfazione in altre sfere dell’esistenza.

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Secondo Bellah23, queste sono le possibili interpretazioni del lavoro nella civiltà occidentale odierna, prese da un’analisi fatta negli Stati Uniti ma che possono valere anche come categorie generali. Intanto c’è l’idea, che l’individualismo esaspera e rende affannosa, del trovare se stessi, che possiede un lato luminoso e buono, ovvero quello del dover contare su se stessi, come scrive Emerson “fidati di te stesso: ogni cuore vibra a questa corda d’acciaio". Ma il lato negativo è che la ricerca del vero sé socialmente non situato è frainteso nella società del successo che pensa erroneamente che la vita sia una corsa in cui vince chi arriva prima, mentre, si sa, che la vita è un bersaglio e vince chi fa centro ed ognuno ha il suo. Il lavoro può essere un posto, un Sé definito dal successo economico; una carriera, per cui il lavoro segna il progresso di una persona nella vita, il potere diffuso e senso di competenza che l’accompagna; una vocazione che rende il lavoro di una persona moralmente inseparabile dalla sua vita, lega la persona ad una più ampia comunità, una totalità in cui la vocazione di ciascuno è un contributo al bene di tutti. Il lavoro come vocazione – osserva Bellah - non può mai essere puramente privato, diventa una relazione morale tra perone. Impegnarsi a diventare un buon falegname, artigiano, dottore àncora il sé ad una comunità di persone che praticano la falegnameria, la medicina, l’arte. Una professione, una vecchia parola che si distacca dalla vocazione che si rifà a standard impersonali di eccellenza, piuttosto che incastonare un individuo in una comunità, seguire una carriera significa salire e spostarsi. Il lavoro è legato all’autostima, la disoccupazione è una perdita di identità, la mancanza di vocazione significa assenza di un significato morale di quello che si fa. Nel lavoro come vocazione e come professione richiama riecheggia la concezione protestante analizzata in maniera esemplare da M. Weber, l’etica protestante del lavoro che trasforma l’idea e la pratica cattolica di vocazione alla vita religiosa in un rendere sacro il lavoro e se non lo lega proprio alla salvezza sicuramente lo collega alla realizzazione di sé nel mondo e questo accade oggi anche nella parte del mondo non interessata dal protestantesimo. Secondo l’approccio psicosociologico, quando si percorrono gli stadi di una carriera occupazionale esterna (ad esempio, dagli studi di medicina, al diventare un medico), si seguono anche una carriera interiore durante la quale la consapevolezza interiore la stessa identità subisce delle modifiche: dallo studente di medicina al diventare un dottore c’è un mutamento di identità che conferma questo legame profondo, almeno nella cultura occidentale tra lavoro e immagine di sé. Giovani vocazioni al lavoro, nel senso che durante l’adolescenza e la giovinezza la vocazione è al lavoro e di solito è il corso della vita che comincia a scoprirci il progetto che siamo. Il lavoro interiore della vocazione diventa, se lo diventa, anche una professione in cui si fa quello per cui si è nati. Purtroppo, questi ultimi, vengono chiamati gli happy few, i pochi-fortunati, perché in realtà questo incontro tra la propria chiamata, il proprio carisma e la vita professionale avviene, stranamente ma correntemente, in un numero non troppo alto, sempre una minoranza, di persone. Come ha scritto A. Negri nell’introduzione alla sua monumentale Filosofia del lavoro a cui ci siamo spesso riferiti, “dove c’è vocazione, chiamata, ascesi, appunto, lì può esserci la libertà propria della scholè, dell’otium, del loisir, del lusus. Solo con la coincidenza del lavoro e della vocazione, si può sciogliere in parte o in tutto la pena del primo…..Solo allora, cioè, si può avvertire come e quanto sia naturale che l’uomo lavori, come e quanto il non lavorare possa equivalere addirittura ad un morire”24. Lavorare allora è lo stesso che vivere, è lo stesso che essere. Se nella vita tutto è agire, nell’oggi, nell’ora è in azione il futuro, anzi il futuro è per certi versi vitalmente anteriore al nostro presente. Quello che i giovani saranno è precedente e sta indirizzando quello che fanno e sono, anche se non lo sanno. E’ questo che intende Ortega quando parla dell’”io futuro”, dell’”io devo essere”, un io che è compito, anticipazione e progetto, è ciò che chiede di essere che non può separare il suo vitale presente dal proprio vitale futuro. “Da ciò che sono in anticipo scaturisce il mio fare attuale ed il mio contorno presente. La mia vita, dunque, anticipa essa stessa costantemente ed essenzialmente. La vita è anticipazione”25. L’io futuro non è l’io che pensa a ciò che sarà, ma è l’io che fa se stesso nel progetto, perché ogni pensare è fare. Ma la vocazione si scontra con la circostanza. L’io che si deve essere è indistruttibile, osserva Ortega, ciò che si amputa è una sua realizzazione e tanto più la si amputa tanto più si avverte la realtà inesorabile di quello. Sopravvive

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come progetto, e si rivolge costantemente contro la nostra vita presente e l’accusa e la tormenta per il crimine che ha commesso di negarlo, di prescindere da esso “. La vita del giovane, carica del progetto che lui è, si incontra-scontra con la realtà, il suo dover essere “tale” si scontra il suo effettivo essere “quale”.Seguendo ancora il ragionamento di Ortega, egli distingue l’io che è mero progetto, l’io che aspira e combatte per realizzarsi e l’io che inesorabilmente esige di essere realizzato, quantunque sia impossibile la sua realizzazione, ovvero l’io come vocazione. Da questo ne scaturisce un elemento tragico proprio di ogni umano esistere. La vocazione che invoca e convoca ad una particolare esistenza non potrà mai essere completamente realizzata nel mondo, nel contro-io, nelle circostanze. Ma giustamente incuranti di questo elemento tragico, proprio di ogni esistenza, adolescenti e giovani, con il vento nel cuore, veleggiano verso la vita. Assolvono alla vita che è un compito. Il vento che li agita è quello della vocazione, essa è “il sentirsi chiamato ad essere l’ente individualissimo ed unico che, in effetti, si è. Ogni vocazione è, parlando con rigore, vocazione per essere proprio quel medesimo io, me ipsum”.Vocazione e futuro fanno tutt’uno, così come educazione e futuro si incrociano e trovano un sostegno nel valore della speranza. Ma che ne è del progetto di vita e della stessa educazione come aiuto alla vita dei giovani in un contesto in cui la crisi dell’idea di progresso ed anche dell’idea di sviluppo illimitato fanno del futuro non più una promessa ma una minaccia?

Educare, l’altro nome dello sperare

Nella preoccupata indagine sul mondo giovanile cui abbiamo già accennato, due psicoterapeuti francesi parlano della nostra come dell’epoca delle passioni tristi26. Sono in aumento esponenziale le richieste di aiuto da parte dei giovani e delle loro famiglie come se un’innegabile e insopportabile tristezza attraversasse la nostra società. La complessità del tutto naturale del vivere è forse diventata patologica? Esiste una incapacità reale di farsi carico di una situazione di angoscia senza considerarla di competenza tecnica? Sindromi di carattere ansiogeno, difficoltà di sopportare le frustrazioni, passaggi violenti all’atto, un sentimento di emergenza, di crisi, di destabilizzazione, un sentimento permanente di insicurezza si fanno sempre più diffusi tra i giovani. Si tratta di crisi che avvengono in una società essa stessa in crisi. Ma quale crisi? Mancanza di futuro. È innegabile che, soprattutto per i giovani che pure sono il futuro, proprio quest’ultimo è andato cambiando di segno. Ieri, con la fede nel progresso, il futuro era una promessa, il significato del presente stava nel futuro, oggi l’insignificanza del presente sta nel futuro come minaccia, per cui anche l’evitare l’infelicità sembra impossibile. L’incapacità di immaginare un futuro positivo, la mancanza di una profezia e di una politica fanno vivere, pure nel pieno benessere, il futuro come una minaccia. E il consumo, da solo, non può che confermare che la nostra è una società ricca ma senza gioia. Una volta Albert Camus ha scritto che si può vivere senza felicità ma non senza speranza. E che succede quando non ci sono più speranze? Sempre Camus ha detto “bisogna inventarle”. Credo che esista un legame molto stretto tra educazione, futuro e speranza. Non c’è educazione senza cambiamento e non c’è cambiamento educativo senza un traguardo futuro in cui ognuno sarà migliore di quello che era. In educazione, come diceva G. Gentile, è sempre questione di avvenire. Quindi non c’è educazione senza futuro.In mancanza di ideali e valori educativi forti, si pensa, o si pratica involontariamente, che l’utile sia l’unico movente dell’apprendimento e della stessa educazione delle nuove generazioni. Dentro e fuori la scuola si cerca di insegnare e di apprendere le competenze, ovvero quell’uso infinito di mezzi finiti, che consiste nell’arte di utilizzare le conoscenze. Ma che ne è delle competenze senza la costruzione di senso e significato. In altre parole si può imparare qualcosa semplicemente perché questo qualcosa è utile? L’attività mentale non è solitaria, né avviene senza aiuto, anche quando ha luogo dentro la testa. Quando la famiglia è riunita a tavola e i suoi membri cercano di dare un senso insieme agli avvenimenti della giornata, o quando i bambini cercano di aiutarsi a capire il mondo

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adulto, o quando maestro ed apprendista interagiscono sul lavoro, lì c’è apprendimento perché c’è costruzione di significati27. Se educare è l’altra faccia dello sperare, non è possibile separare del tutto educazione, speranza e verità. Così come non è possibile separare del tutto il sapere e il credere: e come credere nel sapere in un’epoca credula e irreligiosa come la nostra? Al sapere moderno manca la capacità di venerazione, che deriva dall’aprire lo sguardo su orizzonti più ampi, quello di una superiore armonia che altre epoche ed altre civiltà hanno riconosciuto. “Sì, va bene, ma quanto mi hai dato?”. Questa domanda che fa spesso indignare gli insegnanti è sintomatica, da una parte, di un’educazione scolastica incapace di giustificare stessa e, dall’altra, dell’utilitarismo. L’educazione allora non è più un invito a desiderare il mondo o a desiderare di apprendere qualcosa di importante, ma finisce per coincidere sia con l’invito ad evitare le minacce, sia con l’imperativo di fare solo ciò che è utile. L’apprendimento dell’utile sotto minaccia di mancanza di futuro, ignora che l’intelligenza può essere guidata soltanto dal desiderio. E perché ci sia desiderio deve esserci anche piacere e gioia. La passione è la madre del pensiero, l'emozione è la madre della conoscenza. Allora è necessario promuovere forme e spazi di socializzazione animati dal desiderio; creare legami sociali e di pensiero, dar vita ad un’educazione capace di essere custode della conoscenza ma anche della speranza. E’ necessario contrapporre allora le passioni gioiose che sono possibili, paradossalmente , soltanto in un contesto in cui siano presenti modelli e limiti, autorità e legami, assieme a libertà e creatività. Allora prendere decisioni non seguendo soltanto la logica economica, individualistica ed edonistica del soggetto autointeressato che cerca di ottimizzare la propria utilità, ma anche la logica dell’appropriatezza che ci collega ad un orizzonte di memorie, ruoli e tradizioni. Queste ci vincolano e ci limitano ma sono anche la nostra forza. Tutto ciò che rafforza irrigidisce anche, ma senza queste strutture non siamo più liberi ma più soli, più impotenti e disperati. Per cui l’educazione con il lavoro presuppone anche una pedagogia dei legami che il lavoro stesso, così come l’abbiamo inteso, contribuisce a creare.

Giovani tra lavoro e consumo

Abbiamo visto il crogiolo in cui si fonde la personalità dell’adolescente ed abbiamo visto il lavoro della vocazione giovanile. Molti dei compiti irrisolti nell’adolescenza vengono consegnati alla stagione successiva, la giovinezza, che sembra dover affrontare problemi molto simili quasi senza soluzione di continuità. Ma qui le scelte non possono essere più rimandate e cominciano a pesare perché, anche se non sono irreversibili, sono comunque più decisive di quelle fatte da ragazzi. Dopo quella lunghissima estate (ma anche l’ultima) dopo gli esami di maturità, per molti giovani si spalanca il mondo delle scelte, l’affascinante mare aperto della vita, piena di promesse ma anche di insidie, perché la vita come il mare è pericolosa anche quando è calma. Una parte dei giovani, anche se una percentuale sempre minoritaria, ha già scelto di andare a lavorare prima di raggiungere la maggiore età e per questi adolescenti la giovinezza e l’adultità è arrivata prima28, con il primo lavoro è arrivata una minima indipendenza economica ed anche la agognata autonomia e il rispetto dalla e della famiglia. Il lavoro poco qualificato è disponibile, sembra essere solo una scelta temporanea in attesa che se non proprio i sogni si realizzino, ma poi ci si accorge che è difficile trovare soddisfazione in lavori a bassa qualificazione che rischiano di diventare l’orizzonte definitivo della vita professionale. Succede che però nel contesto della società dei consumi, per chi inizia a lavorare presto “non avviene nessun ingresso nella vita adulta”29, i cinque giorni di durissimo lavoro servono spesso a rendere più legittimo lo sballo degli alrtri due, quasi un risarcimento cercato nel luogo sbagliato per un adolescenza rubata. Alla precocità non segue spesso la maturità. Per chi può invece continuare a studiare e a qualificarsi le offerte sono fin troppe ma come succede per il lavoro e per la vita in genere nelle società tardo moderne, nelle società del lavoro flessibile il rischio è sempre molto alto. Di infilarsi in lunghi anni di formazione in cui lo studio può diventare

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un alibi per l’indecisione; di cadere nel precariato, di sottoccupazione, di missmatch tra formazione e professione. “La società del rischio e le imprevedibili dinamiche dei fabbisogni professionali delle aziende vengono tradotte sistematicamente nell’idea che sia comunque sempre meglio studiare”. Il nostro mondo è pieno di tendenze opposte, di paradossi. La giovinezza è esaltata ed adorata, lo slogan “vivi la tua giovinezza” è un imperativo categorico del nostro tempo. Ma a volte esaltata, a volte adulata, altre volte denunciata è anche molto spesso esclusa sia dal lavoro che dal potere. Il più delle volte è inseguita e intercettata dal marketing e dal mercato. Chi sono? Chi voglio essere? Quale vocazione per quale professione? Le domande che i giovani si pongono vengono intercettate dalla società che offre le sue strade o le traduce nella lingua dei ruoli sociali e culturali. Ma oggi gran parte dei vecchi percorsi lineari del genere studio-lavoro, degli automatismi sociali e delle tradizioni familiari nella scelta di un lavoro sono venuti meno. Lo scenario è quello di inediti processi di scelta, in cui viene fuori tutta l’equivocità dell’emancipazione e della libertà; quello della frammentazione, quello del rischio.Gli inediti processi di scelta mostrano gli equivoci dell’emancipazione e della libertà, il miraggio della libertà e dell’autodeterminazione vengono propagandate senza possedere tutti gli strumenti per esercitarle. I giovani possono scegliere tutto ma non possono rappresentarsi il futuro. La società ha dilazionato tutti i processi di scelta, dalla fine degli studi all’autonomia abitativa, dalla stabilità lavorativa al matrimonio. I giovani conoscono questo slittamento dell’ingresso nella vita adulta il quale si associa ad una cultura che esalta la possibilità di mantenere aperta la possibilità di scegliere. Da Lasch a Bauman molti analisti del nostro tempo segnalano la tendenza ad appiattire l’orizzonte temporale, ad evitare scelte per il sempre, scelte irreversibili o, quantomeno, a procrastinarle, a rinviarle il più tardi possibile. Questo si combina con l’imperativo del breve termine, “l’orizzonte temporale si è schiacciato , mentre quello spaziale si è dilatato”. Tutto sembra avere una data di scadenza, dai rapporti affettivi a quelli con il lavoro. E se si può dire quale facoltà si frequente, dove andremo in vacanza la prossima estate, è difficile dire che cosa faremo tra tre o quattro, è quasi impossibile spingere oltre l’orizzonte temporale. Se gli impegni a lungo termine sono impossibili o vengono visti come una trappola e si vuole lasciare aperte tutte le porte, si realizza una strana miscela, di cui i giovani finiscono per essere vittime consenzienti, tra procrastinazione delle scelte per il sempre ed eliminazione dell’attesa. Una vocazione dovrebbe essere alimentata dall’impegno e dallo sforzo continuo nel tempo per ottenere dei risultati. Questo comporta una specie di ascetismo, la capacità di rinuncia e l’energia per sottoporre la propria vita ad un progetto. Come l’amore si serve dell’interdetto per caricare il desiderio e trasformalo in passione capace di bruciare a lungo, così anche l’impegno nella formazione e nel lavoro si nutre dell’attesa. Se amare vuol dire consegnarsi al destino30, così scegliere un lavoro vuol dire rischiare in un impegno a lungo termine. Ma come l’amore oggi è spesso sostituito dal semplice desiderio e questo dalla voglia - e la voglia, osserva Bauman, è il desiderio meno l’attesa - così il lavoro o l’impegno nella formazione è sostituto spesso dal velleitarismo e dal delirio di onnipotenza di chi vuole risultati immediati e senza sforzo. Niente code, niente attese, niente lentezza, ”per questo “non è più l’orologio ma il timer il vero misuratore del tempo sociale, tutti promettono un tempo entro il quale qualcosa avverrà”. In questo iato tra impossibilità di immaginare un futuro e procrastinazione delle scelte c’è l’ipercinesi dei giovani, che non si esprime in un progetto, e in cui la dimensione estetica sembra prendere il sopravvento su quella morale. Forse questo lasciare aperto e incompleto il processo di socializzazione è funzionale allo sviluppo? E’ funzionale alla formazione, alla scelta lavorativa oppure al consumo? Se la società dà troppo tempo all’individuo di scoprire se stesso, se dà all’adolescente troppo tempo per costruire la sua personalità è possibile che egli non metta meglio a fuoco la sua identità ma che, all’opposto, la defocalizzi sino a perderla.La conseguenza a cui si accennava è la frammentazione, un presente in frantumi che impedisce visoni d’insieme, progetti coerenti. La perdita del limite produce i suoi effetti antipedagogici, crea

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miraggi, cronicizza i deliri di onnipotenza adolescenziali, semina disorientamento quando scadenze improrogabili chiedono l’assunzione personale di responsabilità31. La società moderna conosce una maggiore frattura tra generazioni : socializzazione anticipata e differenze sociali da una generazione all’altra fanno sì che le persone vivono come in mondi diversi. Mentre la socializzazione nelle società tradizionali era integrata e coerente e forniva all’individuo dei sicuri modelli di crescita, la socializzazione nella società moderna è caratterizzata da un alto livello di discontinuità e incoerenza. Persone poco sicure di sé, personalità incomplete, con una forte precocità associata a poca maturità. Sembra quindi aver ragione chi sostiene che “il mondo adulto non dà molti buoni esempi, non suggerisce alle giovani generazioni cosa fare e in chi credere, non libera posti accanto a sé: l’età giovanile si dilata suo malgrado e finisce per trovare come compito evolutivo non un processo di autonomia che non ha modo di dispiegarsi in nulla, non l’apporto di nuove idee, di creatività e fantasia a stili di vita adulti ossidati nelle routine e nemmeno il semplice ricambio della forza lavoro, bensì i consumi, bruciare le merci che il sistema (dei padri) iperproduce” .L’orizzonte che sembra aver sequestrato le giovani generazioni è il consumo. Come abbiamo già visto i giovani rappresentano per il consumismo il pubblico più adatto la loro cultura incline all’arte, alla spontaneità, alla creatività, al comunitarismo, alla dimensione espressiva della personalità vengono intercettate dai consumi. Vulnerabili al sogno, carichi di desideri, con una scarsa nozione dei limiti, gli adolescenti sono il bersaglio ideale. Mentre gli adulti sono alle prese con l’iperlavoro per tutta la settimana e i vecchi non hanno forza e voglia per dedicarsi ala consumo, i giovani hanno tempo, energia, informazioni, reti di rapporti e trovano il modo di farsi dare del denaro dai genitori e sono per questo il target perfetto e più dinamico dell’intera operazione della moda. L’effetto del consumo sull’identità adolescenziale e giovanile è quello del “furto” generazionale, dell’espropriazione di contenuti d’esistenza. L’assenza di progetto che pure è parte costitutiva dell’identità, (in quanto per definizione il consumo è istantaneo) si combina con l’esigente soddisfazione dei propri gusti sui quali non si transige e a cui è richiesta linearità e coerenza.”Si è quello che si ha, quello che si indossa, quello che capita di fare, e tutto ha alle spalle rigorosamente una merce, perché il consumo non ha lasciato spiragli identitari, possibilità di azioni che non passino per acquisti…il mercato s’avvicina ai giovani più di qualunque altra istituzione”. Il mercato e il consumo alimentano l’idea che le scelte possono essere sempre e soltanto reversibili e mai per sempre. La stessa rivolta giovanile, dagli anni sessanta in poi, è stata utilizzata per propagandare i beni di consumo. Anzi, oggi, il branding, la vendita non di oggetti ma di marche, che vende un imballaggio di senso, un atteggiamento generale di fronte alla vita, parassitizza la stessa rivolta giovanile contro il potere delle marche e delle multinazionali. Il rischio è che manchi completamente la distinzione tra scelte reversibili, quelle del consumo, e scelte irreversibili, quelle della vita. Il precariato nel lavoro alimenta l’idea che anche la vita è fatta solo di scelte reversibili. Ma sembra che solo le scelte irreversibili, legate al limite e alla responsabilità , all’esperienze e alle proprie capacità facciano davvero crescere. Ma , ed è questa la tesi centrale del nostro libro, il consumo e il lavoro sono strettamente intrecciati, ma la società dei consumi presenta una frattura fra produzione e consumo, cerca di far dimenticare la produzione e se il momento decisivo è il consumo, allora la fatica di chi produce non è più orgoglio ma solo pena e disprezzo. Infine c’è il terzo elemento che caratterizza non solo quella che un tempo si chiamava la condizione giovanile ma l’intera società ed è il rischio. “Ciò che contraddistingue il regime del rischio – scrive U. Beck che è colui che ha reso famoso questo aggettivo associato alla nostra società e al nostro tempo – non è il fatto che la società sia divisa in vincitori e perdenti. E’ sempre stato così, in tutte le società di tutte le epoche. Il fatto decisivo è che per gli individui che lavorano diventano incomprensibili e indistinte anche le regole sul come si vince e sul come si perde”32. I giovani devono prendere decisioni in assenza di informazioni corrette, di scenari attendibili, di precedenti a cui rifarsi e ciò comporta dei rischi. I giovani vivono concretamente quella che è stata definita la

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società del rischio. Non hanno a che fare solo coi i pericoli, ovvero con le minacce di eventi esterni alla loro volontà ma soprattutto con il rischio, ovvero con il timore di un danno futuro in seguito ad una decisone personale33. Un mondo del lavoro diventato flessibile nasconde molte trappole in cui cadono soprattutto i giovani: da una parte ci sono la libertà di scelta, l’autonomia e il diritto all’autoaffermazione, ma quello che si ottiene più di frequente è mancanza di sicurezza, sradicamento e futuro incerto. I giovani vivono più degli adulti la società del rischio, vivono sulla loro pelle l’insicurezza e l’insoddisfazione che la accompagna. Per far fronte alla incertezza avrebbero bisogno di sicurezza, ma questa deriva da risorse interne, dalla capacità di sperare e di avere fiducia. “La vfiducia riduce la complessità sociale andando al di là delle informazioni disponibili e generalizzando aspettative di comportamento attraverso la sostituzione delle informazioni mancanti con una sicurezza garantita internamente”34. Ma come si può avere “fiducia nella fiducia”? Se può essere appresa non è una semplice scelta, ha bisogno di essere nutrita sin dall’infanzia e confermata dal mondo adulto. La fiducia accresce la “tolleranza nei confronti dell’ambiguità”, nei confronti di un ambiente complesso e incerto, aumenta il potenziale di azione. La sfiducia restringe l’orizzonte temporale, la fiducia lo allarga. La fiducia si nutre di futuro, e crea futuro, quello di cui hanno bisogno i giovani. In mancanza di questo, l’esito è una sempre più difficile maturità e adultità. Si è provato tutto, ma non si ancora fatto nulla, “ i giovani hanno spesso ai giorni nostri la convinzione di averle provate tutte, di percepire le cose con acutezza maggiore di quella che potevano avere i genitori alla loro età, ma il cinismo e l’ironia che mostrano con ostentazione e orgoglio non toglie niente al fatto che , nella maggior parte, in fondo non hanno visto niente”35. La perdita o il furto di esperienza sono evidenti, la visone sostituisce la realtà, il vedere prende il posto del capir, il partecipare è fatto senza il creare, il consumo finisce per isolare infantilizzare. Ovvero la possibilità di diventare adulti senza diventare maturi.

Note

1 Nota. Gli stadi della vita (Die Lebenswende) li definisce in un saggio straordinario del 1931 C. G. Jung vedendoli in una prospettiva di psicologia del profondo (trad.it., in C. G. Jung, Opere, vol. 8, La dinamica dell’inconscio, pp. 415-432). Le età della vita (Die Lebensalter) le definisce R. Guardini in un saggio del 1957 che guarda al tema da una prospettiva filosofica (trad. it., Vita e pensiero, 1992). I cicli della vita (The life Cycle) li definisce E. Erikson lo psico-sociologo danese-americano in un memorabile saggio del 1982 (trad. it., Armando, 1999).2C.G. Jung, op. cit., p. 4273 R. Guardini, op. cit., p. 74. La citazione successiva è tratta da p. 354Peter Kamenzind, trad. it., Mondadori, Milano 5 K. Lorenz, Il declino dell’uomo, trad. it., Mondadori, Milano, p.616P. Blos, L’adolescenza, trad. it. , Franco Angeli, Milano. Vedi anche Armando7La società degli eterni adolescenti, trad. it., Red Edizioni, Como, 8D. W. Winnicott, Dalla pediatra alla psicoanalisi: scritti scelti, Martinelli, Firenze 19759R. Guardini, op. cit., p. 4310Identità e romanzo, in Il conoscere. Saggi per la mano sinistra, trad. it., Armando, Roma, 1968, pp.73-90. La citazione a cui ci riferisce più avanti è a p.81.11Il compagno segreto, (1909), trad. it., Rizzoli, 1984. Ma su di un tema analogo verte anche il più famoso La linea d’ombra del 1917.12I cicli della vita, ed. cit.. Vedi anche Gioventù e crisi di identità, trad. it. ,Armando, Roma, 1974Sull’opera di Erikson vedi P, Roazen, trad. it., Armando13B. Bettelheim, Un genitore quasi perfetto, trad. it., Feltrinelli, Milano14E. Erikson, I cicli della vita, ed. cit. p. 45. la citazione successiva è tratta da p. 7015La cultura del narcisismo, trad. it, Bompiani, Milano e L’io minimo, trad. it., Feltrinelli, Milano 16 M. Benasayag, G,. Schmit, op. cit., pp.26. La citazione successiva è da p.2817E’ la tesi di B. Betteleheim18Non è un caso che la scoperta della macchina a vapore da parte di Watt è del 1765e la pubblicazione dell’Emilio da parte di Rousseau sia del 1762. Su questo vedi P. Berger, Sociologia della vita quotidiana, trad. it. Il Mulino, Bologna. Le citazioni successive sono tratte dalle pp.249 e 253 19R. Guardini, op. cit., p.4820J. Hillman, Il codice dell’anima. Carattere, vocazione, destino, trad. it., Adelphi, Milano 1997

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21 A. de Saint-Exupery, Terra degli uomini, trad. it., Mursia, Milano, p. 173. Le citazioni successive si riferiscono alle pp. 25, 3622P. Berger, op. cit., 23R. Bellah, op. cit.24A. Negri, op. cit., p. 43 25Ortega. Y Gasset, op. cit., p. 121. Le citazioni successive si riferiscono alle pp. 125, 13126 M. Benasayag, G,. Schmit, op. cit.27J. Bruner, Il significato dell’educazione, trad. it., Feltrinelli, Milano28 Su questo A. Luciano, Imparare lavorando. La nuova scuola dell’obbligo e il lavoro, UTET, Torino 1999 e M. Gallina, F. Mazzucchelli, La scuola del lavoro. L’orientamento al lavoro degli adolescenti come prevenzione del disadattamento, Raffello Cortina Editore, Milano, 200129S. Laffi, Il furto. Mercificazione dell’età giovanile, L’ancora del Mediterraneo, Napoli, 2000, p.79. Le citazioni successive si riferiscono alle pp. 79, 9.30Z. Bauman, Amore liquido. La fragilità dei rapporti interpersonali, trad. it., Laterza, Bari. La citazione successiva si riferisce alla p. 3131 S. Laffi, op. cit., p.69. Le citazioni successive si riferiscono alle pp. 11, 7632U. Beck, p. 12333N. Luhmann, Sociologia del rischio, trad. it., B. Mondatori, Milano. 34N. Luhmann, La fiducia, trad. it., Il Mulino, Bologna 200235 P. Mausquelier, Al capitalismo piace vestire i giovani, “Diorama”,273, 2005, p. 31