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4. Fuga e clandestinità di ebrei già internati e rimasti nella stessa zona geografia. Dopo aver inquadrato, seppur in sintesi, il contesto storico italiano ed in particolare l’importanza del nesso tra le vicende occorse in provincia di Vicenza e le decisioni prese a livello nazionale relativamente all’istituzione dei campi di concentramento e all’attivazione dell’internamento libero nei comuni, nonché del rapporto con le vie di fuga utilizzate dagli ebrei internati, è interessante conoscere da vicino alcune storie che possono mostrare quanto detto finora. 4.1 I casi Strasser e Kon: in clandestinità nel Nord Italia. 4.1.1 Il caso Strasser La famiglia Strasser era formata da Andrea, da sua moglie Maria e dalla figlia Anna Maria. Andrea esercitava la professione di medico ed era nato a Pilis, nella regione di Pest, in Ungheria, il 30.09.1906, dall’unione di Colman Strasser e di Anna Grossmann. Anche la sua consorte, Maria Klein, nata il 05.09.1909, era di origini ungheresi, precisamente di Tápiószele, una cittadina a circa trenta chilometri da Pilis. La figlia, Anna Maria, venne alla luce a Milano il 21.02.1940. La storia di Andrea è esemplificativa sotto molti aspetti. Si trasferì in Italia nel 1925 (un suo fratello era già in Italia) per potersi iscrivere all’Università (dove si laureò nel 1931) dato che in Ungheria non era più possible farlo, essendo già in vigore una legge discriminatoria nei confronti degli ebrei 86 . Maria Klein lo raggiunse nel 1933 e nel dicembre di quello stesso anno si sposarono. Presa la specializzazione in radiologia ed in ortopedia (probabilmente nel 1934), dopo un breve periodo di servizio a Milano, si trasferì con sua moglie a Loano, in provincia di Savona e prese servizio, a pochi km da Loano, presso l’Istituto di Santa Corona di Pietra Ligure in qualità di assistente provvisorio. 87 86 Oddone, Longo, Jona, Mario (a cura di), Le leggi razziali antiebraiche fra le due guerre mondiali. Atti del Convegno. Accademia Galileiana di Scienze Lettere ed Arti. Padova, 23-24 ottobre 2008. Giuntina, Firenze, 2009. Si veda il sagio di Filippo Franciosi, Le leggi razziali in Ungheria, pp. 109-116. Su questo argomento si veda anche il sito http://www.olokaustos.org/geo/ungheria/ungheria07.htm . La legge XXV del 26 settembre del 1920, Sulla regolazione dell’iscrizione alle Università degli Studi, al Politecnico, alla Facoltà delle Scienze Economiche dell'Università di Budapest e alle Accademie di giurisprudenza, fu presentata al Parlamento ungherese il 22 luglio 1920 dal Ministro per l'Educazione e gli Affari Religiosi, Haller István (I governo di Pal Teleki), ed è nota anche come ‘Numerus Clausus’. I sezione : “Dall’anno accademico 1920-21 possono iscriversi solo persone affidabili fuor di ogni dubbio riguardo alla fedeltà alla Nazione, e ai costumi, e solo in numero tale da poter assicurare loro adeguata formazione.” Si affermava anche che la quantità degli studenti ammessi doveva poi essere proporzionale alle capacità di formazione presenti nel Paese. II sezione . Stabiliva che gli allievi già iscritti negli anni precedenti non erano interessati alle restrizioni ma, anch'essi, erano tenuti a dimostrare il loro patriottismo e una soddisfacente condotta morale. III sezione . All’articolo 3, comma 3, si aggiunge un altro requisito: il numero dei giovani immatricolati sia “proporzionato alla consistenza del gruppo razziale (népfaj) o alla nazionalità di appartenenza”. Non solo era necessario prendere in considerazione il curriculum scolastico delle scuole inferiori frequentate, ma si introduceva per la prima volta la parola razza. Ciò significava che numericamente gli studenti ungheresi dovevano essere ammessi nelle stesse percentuali (o almeno con una approssimazione dei nove decimi) che il loro gruppo etnico o “razziale” aveva rispetto alla popolazione nazionale. Con questa legge la percentuale di ebrei ammessi a frequentare le scuole superiori e le università non potè superare il 6% del totale degli iscritti. Un esempio su tutti, che riguarda direttamente Andrea Strasser, è quello relativo al numero di ebrei iscritti alla Facoltà di Medicina che passò dal 46,5% del 1913-14 e dal 51,6% del 1917-1918 al 21,4% del 1922- 23 con una riduzione del 30%. 87 A Pietra Ligure c’era un ospedale climatico per la cura e la prevenzione delle malattie tubercolari che dipendeva dal Pio Istituto di Santa Corona di Milano la cui sede era in Via Cesare Correnti, 13.

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4. Fuga e clandestinità di ebrei già internati e rimasti nella stessa zona geografia. Dopo aver inquadrato, seppur in sintesi, il contesto storico italiano ed in particolare l’importanza del nesso tra le vicende occorse in provincia di Vicenza e le decisioni prese a livello nazionale relativamente all’istituzione dei campi di concentramento e all’attivazione dell’internamento libero nei comuni, nonché del rapporto con le vie di fuga utilizzate dagli ebrei internati, è interessante conoscere da vicino alcune storie che possono mostrare quanto detto finora. 4.1 I casi Strasser e Kon: in clandestinità nel Nord Italia. 4.1.1 Il caso Strasser La famiglia Strasser era formata da Andrea, da sua moglie Maria e dalla figlia Anna Maria. Andrea esercitava la professione di medico ed era nato a Pilis, nella regione di Pest, in Ungheria, il 30.09.1906, dall’unione di Colman Strasser e di Anna Grossmann. Anche la sua consorte, Maria Klein, nata il 05.09.1909, era di origini ungheresi, precisamente di Tápiószele, una cittadina a circa trenta chilometri da Pilis. La figlia, Anna Maria, venne alla luce a Milano il 21.02.1940. La storia di Andrea è esemplificativa sotto molti aspetti. Si trasferì in Italia nel 1925 (un suo fratello era già in Italia) per potersi iscrivere all’Università (dove si laureò nel 1931) dato che in Ungheria non era più possible farlo, essendo già in vigore una legge discriminatoria nei confronti degli ebrei86. Maria Klein lo raggiunse nel 1933 e nel dicembre di quello stesso anno si sposarono. Presa la specializzazione in radiologia ed in ortopedia (probabilmente nel 1934), dopo un breve periodo di servizio a Milano, si trasferì con sua moglie a Loano, in provincia di Savona e prese servizio, a pochi km da Loano, presso l’Istituto di Santa Corona di Pietra Ligure in qualità di assistente provvisorio.87

86 Oddone, Longo, Jona, Mario (a cura di), Le leggi razziali antiebraiche fra le due guerre mondiali. Atti del Convegno. Accademia Galileiana di Scienze Lettere ed Arti. Padova, 23-24 ottobre 2008. Giuntina, Firenze, 2009. Si veda il sagio di Filippo Franciosi, Le leggi razziali in Ungheria, pp. 109-116. Su questo argomento si veda anche il sito http://www.olokaustos.org/geo/ungheria/ungheria07.htm. La legge XXV del 26 settembre del 1920, Sulla regolazione dell’iscrizione alle Università degli Studi, al Politecnico, alla Facoltà delle Scienze Economiche dell'Università di Budapest e alle Accademie di giurisprudenza, fu presentata al Parlamento ungherese il 22 luglio 1920 dal Ministro per l'Educazione e gli Affari Religiosi, Haller István (I governo di Pal Teleki), ed è nota anche come ‘Numerus Clausus’. I sezione: “Dall’anno accademico 1920-21 possono iscriversi solo persone affidabili fuor di ogni dubbio riguardo alla fedeltà alla Nazione, e ai costumi, e solo in numero tale da poter assicurare loro adeguata formazione.” Si affermava anche che la quantità degli studenti ammessi doveva poi essere proporzionale alle capacità di formazione presenti nel Paese. II sezione. Stabiliva che gli allievi già iscritti negli anni precedenti non erano interessati alle restrizioni ma, anch'essi, erano tenuti a dimostrare il loro patriottismo e una soddisfacente condotta morale. III sezione. All’articolo 3, comma 3, si aggiunge un altro requisito: il numero dei giovani immatricolati sia “proporzionato alla consistenza del gruppo razziale (népfaj) o alla nazionalità di appartenenza”. Non solo era necessario prendere in considerazione il curriculum scolastico delle scuole inferiori frequentate, ma si introduceva per la prima volta la parola razza. Ciò significava che numericamente gli studenti ungheresi dovevano essere ammessi nelle stesse percentuali (o almeno con una approssimazione dei nove decimi) che il loro gruppo etnico o “razziale” aveva rispetto alla popolazione nazionale. Con questa legge la percentuale di ebrei ammessi a frequentare le scuole superiori e le università non potè superare il 6% del totale degli iscritti. Un esempio su tutti, che riguarda direttamente Andrea Strasser, è quello relativo al numero di ebrei iscritti alla Facoltà di Medicina che passò dal 46,5% del 1913-14 e dal 51,6% del 1917-1918 al 21,4% del 1922-23 con una riduzione del 30%. 87 A Pietra Ligure c’era un ospedale climatico per la cura e la prevenzione delle malattie tubercolari che dipendeva dal Pio Istituto di Santa Corona di Milano la cui sede era in Via Cesare Correnti, 13.

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Cartolina spedita il 3 agosto del 1933, ritraente l’Istituto Santa Corona di Pietra Ligure (Padiglione 18 a mare – Reparti per adulti della divisione Elio Chirurgica)

Cartolina, inviata il 29 gennaio 1945, ritraente il Pio Istituto Santa Corona di Pietra Ligure (1° padiglione chirurgico infantile e femminile).

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Il 6 febbraio del 1936, Andrea Strasser si iscrisse all’albo dei Medici della provincia di Savona. Col passare del tempo gli fu riconosciuta la sua competenza, tanto che si trovò a sostituire il Primario Radiologo e il medico addetto ai laboratori. Con l’emanazione delle leggi razziali del 1938, la situazione lavorativa e di vita della famiglia Strasser si complicò fino a precipitare nel baratro dell’instabilità, dell’esclusione e dell’internamento. Fu la fine di quelli che Andrea chiamava “gli anni verdi”. Il Regio Decreto n. 1381 del 7 settembre 1938, contenente provvedimenti nei confronti degli ebrei stranieri, fu pubblicato il 12 settembre nella Gazzetta Ufficiale del Regno n° 208. Proprio quel giorno, con un notevole tempismo, il Consiglio di Amministrazione88 del Pio Istituto di Santa Corona si riunì per adottare la deliberazione 315/1938: “licenziamento per appartenenza alla razza ebraica”. I documenti mostrano un atteggiamento improntato da una parte a semplice presa d’atto delle leggi, dall’altra al riconoscimento di un problema che sembra derivare dallo stesso essere ebreo di Andrea Strasser. Nello Stralcio del Verbale della Seduta del 12 settembre 1938 si dice (corsivo dell’autore): “Ritenuto che per effetto del D.R.L. 7/9/38 n. 1381 (…), il dr. Andrea Strasser, (…), dovrà lasciare l’Italia essendo lo stesso straniero e di razza ebraica (…) delibera a – di addivenire al licenziamento dell’assistente starodinario dr. Andre Strasser cadendo lo stesso, per essere straniero e di razza ebraica, sotto le disposizioni del R.D. L. (…)”. In un documento successivo, del 25 ottobre 1938, il Pio Istituto di Santa Corona scrive al dr. Strasser: “Unita alla presente Vi trasmettiamo la copia della consigliare delberazione 12 settembre u.s. portante il Visto prefettizio, con la quale viene disposto l’abbandono da parte Vostra del servizio presso gli Istituti di Pietraligure.” Dalle parole usate sembra quasi che sia Andrea Strasser a voler scegliere di abbandonare il lavoro e andarsene all’estero e che non si voglia (comprensibilmente da parte di un Consiglio di amministrazione) affermare in modo esplicito che il problema derivasse dalle leggi razziali citate solo per mostrarne il naturale effetto e probabilmente per allontanare la responsabilità dal Consiglio stesso. Nel secondo documento, diretto al dr. Strasser, nemmeno una volta è citata la parola straniero, razza o ebreo, anzi si coglie l’occasione per “un ringraziamento per l’opera da Voi data a favore del Pio Istituto”. Forse l’Istituto era davvero dispiaciuto per il fatto di dover fare a meno di Andrea Strasser e non conosciamo quali fossero i rapporti tra il medico e l’ente, ma la sensazione che se ne ricava è di un distacco dagli eventi celato dietro disposizioni provenienti dall’alto. Né Andrea Strasser poteva essere consolato dal ricevere ciò che gli spettava: l’indennità di licenziamento e preavviso e il compenso per alcuni arretrati. La verità è che il medico si ritrovò

88 Il Consiglio di Amministrazione risultava composto dal Presidente Avv. Carlo Valvassori Peroni (assente in quella seduta), dal Consigliere Anziano dr. Emilio Viganò (presidente della seduta in sostituzione dell’avvocato Peroni), dal Segretario Generale dr. Giuseppe Banfi e dai consiglieri Conte Giorgi di Vistarino, rag. Gerardo Polastri, seniore Gian Antonio Mina, oltre agli assenti giustificati avv. Massimo Della Porta e on. Alessandro Gorini.

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privo di qualsiasi diritto ed obbligato a lasciare l’Italia entro sei mesi dall’entrata in vigore del suddetto R.D.L., come previsto dall’articolo 489. La prima reazione di Andrea e della moglie Maria fu quella di chiedere, tramite il comune di Loano dove erano residenti, una proroga per soggiornare nel Regno per un periodo che superasse la data limite del 12 marzo 1939. Una prima richiesta, datata 5 novembre 1938, fu accolta, concedendo una proroga di sei mesi. Il 25 marzo 1939 seguì una seconda domanda per un ulteriore soggiorno, di cui non conosciamo la risposta, ma che probabilmente fu positiva, visto che i documenti ci segnalano gli Strasser a Milano fino al 1940. Di certo, dal 1° novembre 1938 Andrea Strasser fu costretto a lasciare l’Istituto e il 28 febbraio del 1940 fu cancellato definitivamente dall’Albo dei Medici della Provincia di Savona “perché di razza ebraica”, come certifica il Commissario Ministeriale dr. Ugo Merlati in un documento del Sindacato Provinciale Fascista Medici. Anche in questo caso, la cancellazione segue in modo pedissequo quanto previsto dalla Legge del 29 giugno 1939 n° 1054, in particolare agli articoli 5 e 6 (“La cancellazione dagli albi o dai ruoli viene deliberata dai predetti organi non oltre il febbraio 1940-XVIII, ma ha effetto alla scadenza di detto termine.”). La Legge prevedeva alcuni casi di “discriminazione” in cui Strasser non avrebbe comunque potuto essere incluso, visto che gli articoli fanno continuo ed esplicito riferimento agli ebrei italiani. Da un documento del dopoguerra, datato 15.06.1956 e contenente una dichiarazione del prof. Felice Perussia (Direttore dell’Istituto di Radiologia dell’Università di Milano e della Divisione Radiologica dell’Istituto per lo studio e la cura dei tumori di Milano), si deduce che Andrea Strasser aveva frequentato negli anni 1939 e 1940, in qualità di medico interno, l’Istituto di Radiologia, facendo così pratica di roentgendiagnostica e di terapia con i raggi X e con il radium. Ciò vuol dire che dopo il licenziamento i coniugi tornarono a Milano dove Andrea potè lavorare come radiologo, ovviamente non in modo ufficiale, all’Istituto dei tumori, probabilmente per interessamento dello stesso prof. Perussia. Al di là del riconoscimento del lavoro di Strasser, è importante notare il riferimento agli anni, 1939 e 1940, e ciò permette di comprendere che il licenziamento dal Pio Istituto Santa Corona e i provvedimenti dovuti alle leggi razziali non avevano scoraggiato Andrea, portandolo a cercare un nuovo lavoro, probabilmente utilizzando le residue possibilità legate al fatto che la sua cancellazione dall’albo avvenne solo nel 1940. Proseguendo, dai documenti risulta che l’8 marzo 1940 i coniugi Strasser risiedevano ancora a Milano, in Via Procopio 8, e che, nello stesso periodo, Andrea richiese al Regio Consolato Generale

89 Articolo 4 del R.D.L. 7/9/1938 n° 1381: “Gli stranieri ebrei che, alla data di pubblicazione del presente decreto-legge, si trovino nel Regno, in Libia e nei Possedimenti dell'Egeo e che vi abbiano iniziato il loro soggiorno posteriormente al 1° gennaio 1919, debbono lasciare il territorio del Regno, della Libia e dei Possedimenti dell'Egeo, entro sei mesi dalla data di pubblicazione del presente decreto. Coloro che non avranno ottemperato a tale obbligo entro il termine suddetto saranno espulsi dal Regno a norma dell'Articolo 150 del testo unico delle leggi di P.S., previa l'applicazione delle pene stabilite dalla legge.” Il R.D.L. 1381 non venne mai convertito in legge. Le sue disposizioni vennero riprese nel R.D.L n° 1728 del 17 novembre 1938 che all’articolo 17 ricordava che era “vietato agli ebrei stranieri di fissare stabile dimora nel Regno, in Libia e nei Possedimenti dell'Egeo”, mentre all’articolo 24 riprendeva il R.D.L di settembre affermando che “gli ebrei stranieri e quelli nei cui confronti si applica l'art. 23, i quali abbiano iniziato il loro soggiorno nel Regno, in Libia, e nei Possedimenti dell'Egeo posteriormente al 1º gennaio 1919, debbono lasciare il territorio del regno, della Libia e dei Possedimenti dell'Egeo entro il 12 marzo 1939 - XVII. Coloro che non avranno ottemperato a tale obbligo entro il termine suddetto saranno puniti con l'arresto fino a tre mesi o con l'ammenda fino a lire 5000 e saranno espulsi a norma dell'art. 150 del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, approvato con R. decreto 18 giugno 1931 - IX, n. 773.”

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d’Ungheria un attestato relativo alla propria cittadinanza. Il certificato comunicava che Andrea aveva ritirato, l’8 agosto del 1933, il decreto di svincolo dalla cittadinanza ungherese (emesso dal Regio Ministero degli Interni il 28 luglio 1933) e che quindi non risultava più cittadino ungherese. Solo due giorni prima, il 6 marzo 1940, l’Ufficio dello Stato Civile di Milano rilasciò ai coniugi Strasser l’atto di nascita della figlia Anna Maria, venuta al mondo il 21 febbraio. Sul certificato viene messo in risalto l’appartenenza alla razza ebraica della piccola Anna Maria, come da prassi, mentre in alto a destra un appunto segnala: “In anagrafe risulta ungherese”. Al di là dei necessari adempimenti burocratici, è interessante capire perché Andrea Strasser richiese l’attestato del Consolato ungherese subito dopo il rilascio dell’atto di nascita della figlia e, ancor prima, per quale motivo nel 193390 avesse chiesto la perdita della cittadinanza ungherese. Secondo Stefano Twardzik, nipote di Andrea Strasser, mal consigliato, riteneva che la rinuncia alla cittadinanza ungherese potesse favorirli nell’ottenere quella italiana. Il risultato fu che divennero apolidi, così come risulta dai documenti relativi all’internamento della famiglia Strasser in provincia di Vicenza. In effetti, potremmo pensare che Andrea (per le leggi dell’epoca la moglie seguiva il destino del marito), da persona istruita ed informata, abbia letto o abbia richiesto notizie sulla cittadinanza italiana. La legge n° 555 del 13 giugno 1912, rimasta in vigore con poche modifiche fino all’approvazione della legge n° 91 del 5 febbraio 1992, al comma 3 dell’articolo 1 recitava: “Art. 1. - È cittadino per nascita: 3. chi è nato nel [Regno] se entrambi i genitori o sono ignoti o non hanno la cittadinanza italiana, né quella di altro Stato, ovvero se il figlio non segue la cittadinanza dei genitori stranieri secondo la legge dello Stato al quale questi appartengono.” Se la rinuncia alla cittadinanza ungherese, nel 1933, può essere legata ad un eventuale ottenimento della cittadinanza italiana dopo 5 anni di residenza (articolo 4 della L. n° 555), probabilità comunque spazzata via dal R.D.L del 7 settembre 1938 (Art.3: “Le concessioni di cittadinanza italiana comunque fatte a stranieri ebrei posteriormente al I gennaio 1919 s’intendono ad ogni effetto revocate”), la richiesta dell’attestato nel 1940 (solo due giorni dopo l’atto di nascita) potrebbe essere stato un tentativo, a fronte della dimostrata perdita della cittadinanza ungherese, di assicurare ad Anna Maria la cittadinanza italiana, dato che entrambi i genitori risultavano non avere la cittadinanza italiana né quella di un altro Stato. Non conosciamo quali siano stati i ragionamenti della famiglia Strasser, ma l’appartenenza alla razza ebraica, a seguito delle leggi razziali del 1938, rendeva vano qualsiasi tentativo di trovare uno spiraglio o una falla nelle strette maglie della legislazione italiana. Erano in trappola: un passato costituito da un’Ungheria fortemente antisemita (per di più formalmente alleta della Germania dal 20 novembre 1940), un presente caratterizzato dalle leggi razziali italiane del 1938 e dalla Legge di Guerra, approvata con R.D. l’8 luglio del 1938 n° 1415 che non guardava di buon occhio gli stranieri e che in alcuni casi ne prevedeva l’internamento91, rafforzata e chiarita dal Decreto del Duce del 4 settembre 1940.

90 Secondo Stefano Twardzik la domanda di rinuncia alla cittadinanza ungherese fu presentata nel 1939 o nel 1940. 91 Regio Decreto 8 luglio 1938 n° 1415: Titolo V, Capo I (Internamento): “Il Ministro dell'interno, con suo decreto, può disporre l’internamento dei sudditi nemici atti a portare le armi o che comunque possano svolgere attività dannosa per lo Stato”.

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Il carattere forte e determinato di Andrea Strasser e la volontà di trasmettere alle persone care la sua esperienza si ritrovano perfettamente in uno scritto privato che lui redasse per suo nipote Stefano.92

“L’allarme aereo (…) ci capitò per la prima volta, a Milano, la notte stessa di quello sciagurato 10 giugno 1940 (la tua mamma aveva allora appena quattro mesi di età!): le sirene suonarono appena 10 - 12 ore dopo il discorso del duce, radiotrasmesso in tutta l’Italia mediante altoparlanti - predisposti nelle piazze e nelle vie principali (…). Stavo anch’io a sentire il discorso, giunto in bicicletta mentre rincasavo dall’Istituto dei Tumori, ove lavoravo allora. Mi ero fermato all’angolo tra via Palestro e corso Venezia, appresso ai Giardini Pubblici, ove un altoparlante stava gracidando. Osservavo l’espressione di sorpresa mista a sgomento sulla faccia della gente, raccolta in gruppo a sentire la ben nota voce, mentre scandiva, perentoria, le frasi roboanti, destinate alla storia. La gente era disorientata e preoccupata, nonostante la sicumera con la quale il duce tentava di prognosticare una facile e rapida conclusione del conflitto. Non vi fu entusiasmo dei presenti, nè consenso, nè applausi; l’assembramento si è sciolto in silenzio. (…). Sta di fatto che quella notte suonarono le sirene d'allarme in tutti i quartieri di Milano, si spegnevano le luci dell'illuminazione stradale e si oscuravano le finestre, mentre fuori rimbombavano i primi colpi dei cannoni antiaerei. Ad un certo punto si udì il ronzio d'un motore d'aereo che volava alto sopra le nuvole e s'allontanava poi senza gettar le temute bombe. Tornò ancora le notti seguenti, limitandosi sempre a ronzare intorno come un grosso invisibile calabrone, tanto che i soliti meneghini buontemponi lo denominarono ‘Pippo’: tel chì el noster Pippo, el gha bon temp! dicevano bonariamente, con simpatia; finchè una notte ci svegliammo al rumore non già di uno, ma di svariati Pippo e in mezzo al rintronare dell’antiaerea che pareva quello d’un fuoco d'artifizio, udivamo ben distinti se pur distanti, i cupi tonfi delle bombe esplose. E la mattina appresso si parlava del quartiere colpito, a Porta Volta, ove tra altri edifici venne colpita una scuola. Sono andato a vederla anch'io qualche giorno dopo, e più che sgomento, avvertivo meraviglia ad osservare l'angolo demolito dell'edificio scolastico, con le sue aule messe a nudo, visibili in alcune cattedre e banchi coperti di polvere e di calcinacci. Meraviglia per quel segno, allora per noi tutti nuovo, di una barbarie insensata e inutile, incredulità pure nel rendermi conto che degli esseri umani - seppure anche costretti a farlo - potessero giungere a tanta scelleratezza. Sì, c’era ingenuità in noi e mancanza di esperienza diretta, anche se le notizie di simili e di gran lunga più scellerate devastazioni di guerra ci erano giunte, anni prima, dalla Spagna, dall’Etiopia, e più recentemente dalla Polonia purtroppo, anzicchè finire entro le due settimane pronosticate dai fascisti vanagloriosi, la guerra è durata cinque interminabili anni e ci ha dato l’opportunità di vedere, di subire altri bombardamenti, a decine, a centinaia, con la distruzione di città intere, al punto da abituarci alla visione delle rovine fumanti, ai palazzi ischeletriti e anneriti dagli incendi, alle vie divelte e rese irriconoscibili, ai cumuli delle macerie senza fine, simili a dei tumuli, a delle tombe primordiali di una necropoli da sogno allucinante.”93

92 Andrea Strasser, “Scritti per Stefano 1978-1980”. È possibile leggere quelle parole e ricostruire la storia di Andrea Strasser grazie alla gentile concessione degli appunti del nonno da parte di Stefano Twardzik. 93 Andrea Strasser, “Scritti per Stefano”, cit., p. 2-4. La cartina di Milano della pagina seguente è tratta dal sito http://www.storiadimilano.it/Repertori/bombardamenti.htm.

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In un’Italia in guerra, in fuga dagli attacchi degli Alleati, isolati e perseguitati dalle leggi razziali, gli Strasser conobbero quello che è considerato il più grande campo di internamento fascista: Ferramonti di Tarsia, in provincia di Cosenza. Andrea Strasser vi fu tradotto alla fine di dicembre del 1940, dopo una breve detenzione nelle carceri di San Vittore a Milano, dal 30 novembre al 22 dicembre 1940. Un documento del 21 agosto 1941, relativo alla moglie Maria Klein, che era a Ferramonti con la figlia già dall’11 luglio 194094, ci informa che per lei fu disposto il foglio di via obbligatorio per la 94 Stefano Twardzik afferma che la nonna e la madre poterono rimanere a Milano.

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provincia di Vicenza, “nello stesso comune che sarà assegnato al di lei marito”, con ingiunzione di presentarsi a Vicenza entro 10 giorni. Lo stesso giorno, con distinta comunicazione ministeriale, anche Andrea Strasser fu oggetto di trasferimento nel vicentino, precisamente a Roana, dove arrivò il 29 agosto. In realtà Maria Klein arrivò a Roana più tardi, dato che le fu concessa una proroga di 15 giorni, per “forte esaurimento nervoso e deperimento organico che non le consentono di potere intraprendere il viaggio.” Dal certificato ufficiale rilasciato dopo la guerra dalla Questura di Vicenza, il 15 giugno 1945, risulta che Andrea, Maria e Anna Maria “dal I settembre 1941 al 9 dicembre 1943 sono stati internati in questa Provincia provenienti dal campo di concentramento di Ferramonti di Tarsia, quali stranieri di razza ebraica. La suddetta famiglia durante il periodo di internamento godeva del sussidio giornaliero spettante agli internati civili di guerra.” Il sussidio veniva elargito agli internati civili di guerra che non erano in grado di mantenersi con i propri averi. Venivano date 8 £ per il capofamiglia (4,81 € di oggi), 4 £ per la moglie (2,4 €) e 3 £ per i figli (1,8 €), oltre a 50 £ mensili per l’alloggio (30 €), somme aumentate negli ultimi mesi prima dell’armistizio a 9 £ per il capofamiglia e 6,5 per la moglie. Per operare un confronto appropriato, val la pena ricordare quali fossero i prezzi all’epoca. Raccogliendo dati da varie zone d’Italia, possiamo trovare che il costo di un biglietto del tram era di 15 centesimi e quello del cinema 3 o 4 £, mentre un paio di scarpe potevano costare 15 o 16 £ e un vestito 60 o 70 £. Per quanto riguarda i generi alimenari un kg d’olio arrivò a costare 45 £, un kg di carne di manzo 27 £ e uno di salame 50 £. Nel 1942, il pane costava 2,60 £/kg (prezzo “tessera-calmierato”) e, invece, 23 £/kg al mercato nero. Volendo sommare le entrate della famiglia Strasser (due genitori ed una figlia) derivanti dal sussidio statale, ne deriva che Andrea poteva contare su quelli che oggi ammontano a 144,44 € al mese, Maria su 72,22 €, la figlia su 54,16 €. Comprendendo anche il sussidio per l’alloggio, una famiglia di tre persone come quella degli Strasser aveva a disposizione 500 £, equivalenti a circa 300 € al mese. Con la difficile situazione economica dovuta alla guerra e con la svalutazione della lira, quel valore che fa riferimento al 1941, corrisponde per il 1942 a 260 € al mese e per il 1943 (ultimo anno di internamento) a 155 €. Gli anni dell’internamento ci riservano una sorpresa. Le memorie di Andrea Strasser e alcuni documenti del dopoguerra chiariscono il ruolo da lui ricoperto a Mezzaselva di Roana, luogo di internamento con la sua famiglia. Il dottor Alfredo Campiglio (Primario-Chirurgo Direttore dell’Istituto Elioterapico Ortopedico Chirurgico di Mezzaselva di Roana) attestò, in un documento del 16 giugno 1956, che Andrea aveva prestato servizio nel suo Istituto dal maggio 1942 al settembre 1943, “esplicando, in un periodo particolarmente critico a causa delle vicende belliche, che comportava la scarsità di personale sanitario negli ospedali, le funzioni di aiuto, svolgendo per di più, con molta competenza, le funzioni di radiologo”. Per il prof. Campiglio, Strasser fu “un ottimo, scrupoloso collaboratore, benviso dai pazienti, ed ha eseguito anche personalmente, con perizia, numerosi interventi della nostra specialità.” Il documento, così come quello del prof. Perussia già citato, fa parte di un plico di 7 pagine relativo alla ricostruzione degli anni della sua formazione e del suo lavoro al fine di veder riconosciuti i suoi studi e di ottenere nuovamente, dopo anni di fughe e resistenza, l’abilitazione alla professione di medico. Ancor più straordinarie le pagine dedicate al nipote Stefano, in cui Andrea Strasser ripercorre alcuni eventi significativi dell’internamento in provincia di Vicenza, prima a Noventa e poi a Roana, e del suo ruolo come medico a Mezzaselva di Roana.

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L’internamento a Roana “Nell’agosto del 1943 eravamo confinati sull'Altipiano di Asiago, in uno dei ‘sette comuni’ dalla popolazione di antica origine germanica (gotica?), ove la gente, appunto, oltre l’italiano - obbligatorio - parlava una lingua, il cimbro, pressochè incomprensibile anche per chi, come me, conosceva bene il tedesco. Là a 1000 metri d'altitudine, l’estate era bella calda, ma breve, l’inverno lungo e crudo, col termometro sempre sotto zero, salvo nelle brevi giornate di sole, e la neve permanente per quattro mesi circa, copriva i campi, i boschi sterminati di abeti e di faggi, i tetti delle case, lasciando appena appena libera la strada principale che congiungeva, scendendo a valle e risalendo a monte, le frazioni, i villaggi con il centro di Asiago. Stavamo lì dal maggio del 1942, trasferiti, tutti e tre, da Noventa Vicentina a Canove di Roana, per l'intercessione del mio collega e vecchio amico (dai tempi di S. Corona a Pietraligure, 10 anni prima), il prof. Campiglio, che dirigeva il Sanatorio di Mezzaselva (m 1500). Vi aveva più di cento ricoverati, specie di tubercolosi ossea, ed essendo stato richiamato al servizio militare il suo assistente, aveva bisogno di uno come me, già esperto nel ramo. Lavoravo così in quell’Istituto dalle 8 alle 16, salendovi la mattina presto col camioncino del latte e discendendone, di solito a piedi lungo la strada asfaltata tutta curve, d’inverno, o per i sentieri scorciatoi in mezzo al bosco odorante di pini nella buona stagione. Solamente se il tempo era molto brutto, scendevo con la corriera che collegava l'Istituto con la stazione ferroviaria di Canove.”

I bombardamenti su Milano

“Fu quindi proprio in quei giorni, attorno a Ferragosto, che dovevo rimanere su all’Istituto anche per la notte, dato che il professore se n’era partito per alcuni giorni. Andava a trovare i suoi parenti a Tortona. (…). Stavamo a respirare l’aria profumata della pineta circostante, sotto il cielo stellato ma buio, quando verso le 23 notammo un accendersi spegnersi di pennellate di luce lontana, al di là di quelle colline. Parevano lampi d’un temporale, ma nessun seguito di tuoni ci giungeva all’orecchio. Un temporalone, verso il Garda, pensavamo, chissà se diretto a queste parti? I temporali su quell’altipiano sono spesso terrificanti, assumono a volta i caratteri d’un uragano, divellendo alberi, scoperchiando le case, incendiando i casolari a colpi di folgore. Ma quella sera e le notti seguenti, quel lampeggiare continuo, quei bagliori tremolanti sull’orizzonte, non accennavano ad esaurirsi, avevano l’aspetto di un lontano smisurato fuoco d’artifizio, e noi per delle ore lo stavamo ammirando. Finché un giorno si udiva alla radio, e con voluto ritardo si poteva leggere sul giornale, che Milano è stata ripetutamente bombardata da aerei anglo-americani, il suo centro distrutto dalle fiamme delle bombe incendiarie, la Galleria, la Scala, Palazzo Marino e tutti i palazzi di Corso Vittorio Emanuele in rovine, oltre a parecchi stabilimenti industriali... Ecco quindi, come avevo assistito, ignaro, a quel tremendo disastro di guerra, da circa 200 km di distanza, credendolo una serie di temporalini, o magari un’allegra sequela di festosi fuochi d’artifizio di Ferragosto! Quando, dopo un anno e mezzo, nel febbraio 1944 tornai clandestinamente a Milano per riunirmi, con la tua nonna e tua mamma, in quei due locali con cucinino all’ultimo piano di corso Sempione 79, locali che ci servivano come rifugio per circa un anno - cioè sino al mio arresto da parte delle SS, il 24.4.45 - ho potuto rivedere poco per volta la nostra città atrocemente ferita, devastata; provavo una tristezza indicibile e un presagio di altre sciagure ancor più gravi.”

Dopo l’8 settembre: nell’ombra. A differenza della stragrande maggioranza degli ebrei internati nei comuni, in provincia di Vicenza così come nelle altre province italiane, che fuggirono verso il Sud Italia, verso la Svizzera e, in alcuni casi, verso la Jugoslavia, gli Strasser, dopo l’annuncio dell’armistizio, rimasero a Roana ancora per qualche tempo. Un documento del Podestà di Roana diretto alla Regia Questura di Vicenza del 10 settembre 1943 informa che “nel periodo di tempo dal controllo serale al controllo del mattino, tutti gli internati ebrei stranieri sono fuggiti. È rimasta in Canove solamente la famiglia del Dr. Andrea Strasser, che non era concentrata nel locale di isolamento all’uopo arredato. (…) Non si sa dove essi siano diretti.” Le ricerche continuarono e, in un documento del 16 settembre, questa volta inviato alla Prefettura, il Podestà ripete le stesse identiche parole, compreso il riferimento alla presenza

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della famiglia Strasser. Per gli altri “si ritiene che gli internati siano fuggiti alla volta di Trieste per rientrare in Jugoslavia.” Come succedeva di solito, le questure diramavano dei telegrammi per la ricerca e l’arresto degli ebrei in fuga. Stando ai documenti, il questore di Pavia, Ermanno Durante, rispose, il 18 luglio del 1944, di aver rintracciato Andrea Strasser a Vigevano il 14 luglio e lo stesso Strasser, all’albergo presso cui si era fermato, aveva affermato di essere residente a Roana in via XX Maggio, 4, destinazione per la quale sarebbe partito il 15 luglio. Il telegramma inviato dalla Questura di Vicenza permette di capire che le ricerche iniziarono intorno al 12 dicembre 1943 (gli Strasser lasciarono Roana il 7 dicembre). A seguito della risposta arrivata da Pavia, il questore di Vicenza, Cesare Linari, il 26 luglio 1944 scrisse nuovamente ricordando che Andrea Strasser “deve essere fermato et tradotto campo di concentramento punto Poiché questa Provincia non esistono campi concentramento il Ministro est pregato comunicare Questura Pavia ove predetto ebreo dovrà essere tradotto punto”. In effetti il campo di concentramento provinciale di Tonezza del Cimone era stato chiuso subito dopo la consegna degli ebrei, rastrellati in provincia e lì detenuti, alla polizia germanica che li inserì nella transport liste del treno del 30 gennaio 1944, partito da Milano e diretto ad Auschwitz. Il lavoro meticoloso del questore Linari non portò ad alcun esito e lo stesso questore di Pavia, Angelo Musselli, in una ulteriore risposta del 1° agosto 1944, non potè far altro che ricordare quanto da lui stesso affermato nella precedente comunicazione e che, forse perché preso dall’idea del possibile arresto, Linari95 non aveva capito: Strasser era partito il 15 luglio e quindi non era stato possibile arrestarlo. Dov’era realmente il dott. Strasser? Lo rivelano i ricordi dello stesso Strasser:

“In uno dei giorni dell’ultima decade del dicembre 1943 - non ricordo più, se era prima o dopo Natale - ero in viaggio, in treno, da Vicenza a Follina (…) Mio accompagnatore era Padre Amedeo, anziano frate del Convento dei Servi di Maria - detti anche Serviti; sono stato ospite involontario di questo convento annesso al Santuario di Monte Berico che dalla cima della collina omonima domina la città di Vicenza. Infatti, a metà dicembre, il prof. Campiglio, direttore dell’Istituto Elioterapico-Ortopedico di Mezzaselva, mi ha ‘fatto sparire’ in quel convento, per farmi evitare il sicuro arresto da parte delle ‘SS’. La tua nonna e Anna, allora non ancora quattrenne, hanno trovato ricovero, sempre ad opera del professore, presso il Collegio delle Dame Inglesi, un ordine religioso a Vicenza, assai signorile (…), non meno di quello dei Serviti. Questi ultimi si dedicavano alla gestione del Santuario e dei tanti loro conventi e collegi sparsi in Italia e nel mondo e soprattutto all’insegnamento, al pari dei gesuiti, ai quali pure assomigliavano per il saio nero, il livello culturale elevato dei monaci, l’organizzazione assai efficiente e per una mentalità moderna nei loro rapporti col mondo laico.”96

95 Alla fine della guerra, il questore Musselli fu condannato dal Tribunale straordinario di guerra di Pavia e fucilato all’alba del 1° maggio 1945 (si veda Giampaolo Pansa, Il sangue dei vinti, Sperling Paperback, 2005, p. 58, anche su http://books.google.it/books?id=RbkXbAs_L5sC&lpg=PA57&ots=5ZttM7enaz&dq=angelo%20musselli%20questore%20pavia&hl=it&pg=PA58#v=onepage&q=angelo%20musselli%20questore%20pavia&f=true). Per quanto riguarda il questore Linari, va ricordato che insieme a Comparini e a Sartori, fu riconosciuto colpevole, con una sentenza della Corte di Assise del 22 giugno 1945, di collaborazionismo e dell’omicidio di Giacomo Possamai di 17 anni. Comparini e Sartori furono condannati alla pena di morte mediante fucilazione alla schiena, mentre Linari, ritenuto il mandante, a 30 anni di reclusione per l’esclusione dell’aggravante. Linari fu poi amnistiato l’anno dopo la sentenza, grazie al decreto legge del 22 giugno 1946, il decreto Togliatti. Si veda il lavoro di Sonia Residori, La “pelle del diavolo”. La giustizia di fronte alla violenza della guerra civile (1943-45) su http://www.istrevi.it/lab/page/qe_map.php?p=17-LB-QR01-Residori&c=1&s=0&a=0. 96 Strasser, A., cit., pp. 7-8.

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Andrea Strasser con il dott. Forte, Istituto Elioterapico-ortopedico di Mezaselva di Roana, 1943Anna Maria Strasser, Noventa 1941

Anna Maria Strasser e la mamma Maria Klein, Canove di Roana 1943

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Andrea Strasser, la figlia Anna Maria e la moglie Maria Klein, Vicenza 1941

Maria Klein; Anna Maria Strasser in braccio alla signora Frigo, Canove di Roana, luglio 1943. La famiglia Strasser, Canove 1943.

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Riepilogando, Strasser dichiara che a metà dicembre, periodo corrispondente a quello indicato nel primo telegramma diramato dalla Questura di Vicenza per la ricerca della famiglia, fu aiutato dal dottor Campiglio che trovò per loro un nascondiglio: Andrea presso il convento del Monte Berico e Maria Klein con la figlia Anna Maria presso il Collegio delle Dame Inglesi. Quest’ultimo è oggi sede dell’Istituto Vescovile “Antonio Graziani” e si trova in Contrà San Marco, 49. Aperta il 15 gennaio 1837, la Casa dell’Istituto Beata Vergine Maria operò nel campo dell’educazione. Nel vortice della seconda guerra mondiale e dei bombardamenti che colpirono pesantemente la città di Vicenza (la prima incursione risale al giorno di Natale del 194397), l’Istituto venne sfollato, ma solo in parte.

97 La fotografia e la didascalia sono tratte dal sito http://nuovastoria.freehostingcloud.com/2GM/rif/25-dic-43.html.

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Una parte della Comunità con le educande si trasferì a circa due km da Velo d’Astico, nella villa “La Montanina”, celebre dimora voluta da Antonio Fogazzaro98, distrutta durante la prima guerra mondiale e poi ricostruita negli anni Venti grazie all’opera di Don Francesco Galloni, ex cappellano degli Alpini. Qui egli fondò “L’Opera Pro Oriente” con l’aiuto delle suore dell’Ordine delle “Figlie di Maria”. Oggi la villa è gestita dalle Suore Passioniste di San Paolo della Croce.

Come espresso chiaramente sul sito della Scuola Dame Inglesi di Vicenza99, “non si tardò poi ad accogliere fuggiaschi e senza tetto, ad ospitare scuole della città che erano state sinistrate; i locali, pur mal ridotti e senza riscaldamento, divennero rifugio per chiunque avesse avuto bisogno. A pianterreno, nel punto giudicato più sicuro, si stabilì il ‘rifugio’ per gli innumerevoli ed interminabili tempi di allarme e bombardamento”. Tornando agli Strasser, è significativa la descrizione che Andrea fa della vita presso il convento di Monte Berico:

“Ho trovato quindi rifugio, una buona tavola - in quei tempi di carestia già sensibile dovuta alla guerra! - e una cella tutt’altro che nuda, con un buon letto. Vi erano in quel momento pochi altri ospiti, tra i quali un paio - un giovane sui 30 anni ed un signore anziano - evidentemente importanti per censo o per la posizione sociale - ché i padri serviti li trattavano con particolare riguardo. Mangiavamo tutti alla stessa tavola, religiosi e profani, e il buon cibo vi era servito assieme a delle conversazioni di livello elevato, sempre in un’atmosfera amichevole e piuttosto vivace. Questi frati erano ben informati delle cose del

98 Si veda http://www.micheleberta.it/5valli/viaggio.htm. La fotografia è tratta dal sito http://www.lombardiabeniculturali.it/fotografie/schede/IMM-1s020-0000945/ e ritrae la villa nel 1916. 99 www.dameinglesi.it/index.php?option=com_content&view=article&id=53&Itemid=29.

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mondo, erano colti, educati e democratici, almeno a parole. Il loro discorso evitava ogni questione di religione, di razza, di nazionalità, per non mettere a disagio gli ospiti che vi si trovavano, appunto, per sfuggire la rabbia nazifascista a causa della loro appartenenza religiosa (ebrei) o la convinzione ed eventuale attività politica, contrarie al regime dominante. Ho capito, dopo i primi giorni di spiegabile mio disagio, che degli ospiti simili a me si davano il cambio, là dentro, fermandosi per una o due settimane, per essere poi dislocati in altre località più sicure. Infatti, avevo capito dai discorsi, che ogni tanto la polizia fascista o quella tedesca eseguivano delle perquisizioni nel convento; la data e l’ora delle quali venivan però regolarmente anticipate ai frati da una fonte misteriosa, sicchè tutto finiva sempre con le scuse a denti stretti di qualche ufficiale altezzoso delle SS. Molti ospiti, come me, si trovavano lì senza soldi, pochi, di famiglie abbienti, versavano per contro, forti somme ai frati. Così, quando ebbi ad esprimere al Padre Superiore la mia preoccupazione per l’impossibilità di compensare in danaro la loro generosa ospitalità, questi - un giovane con laurea di mentalità moderna - mi rassicurò: c’è sempre qualcuno che può e quindi ci compensa anche per coloro che non sono in grado di farlo!”100

I frati erano molto vigili e tendevano a ruotare le persone “ospitate”, portando quelle già presenti in luoghi meno esposti alle “visite” nazifasciste e accogliendo nuovi rifugiati. Si trattava di una vera e propria rete di protezione. Infatti, dopo due settimane, alla fine di dicembre del 1943, Andrea Strasser si ritrovò sul treno diretto a Follina:

“Ero quindi sul treno semivuoto in buona compagnia di padre Amadeo, anziano e apparentemente di salute cagionevole e di poche parole. L’accelerato trotterellava senza fretta facendo parecchie soste nella precoce oscurità dicembrina. Poco illuminate le stazioni, rari i viaggiatori; in quello scompartimento freddo e buio eravamo soli. Appresi allora di essere diretti a Follina, dove mi sarebbe toccato di abitare nel collegio dell’Ordine, al sicuro di ogni sorpresa sgradevole, sino a quando i miei amici non avranno trovato per me una sistemazione a Milano. Ero triste e preoccupato nel sentirmi allontanare, chilometro dopo chilometro, dalla tua nonna che aveva allora 34 anni e da Anna, entrambe tuttora a Vicenza presso le suore inglesi.”101

Di certo, il trasferimento si rendeva necessario. Strasser aveva vissuto sulla sua stessa pelle il pericolo dovuto alla sua presenza a Vicenza, città sicuramente più controllata delle località di montagna.

“Ero uscito nel pomeriggio da Monte Berico, col permesso e le molte raccomandazioni di prudenza, del Priore, soprattutto quella di non attardarmi per le vie della città. Andai infatti a trovare le mie presso le suore, nel collegio sito nella parte opposta di Vicenza. Era stato questo uno dei pochissimi incontri nostri, in quel periodo triste, zeppo di paure e di brutti presagi. Incontri brevi, seguiti con malcelata disapprovazione delle suore, corrette ma glaciali nelle formalità di rito. E proprio quel giorno mi sono attardato più del solito, dato che la tua nonna aveva ricevuto notizie da Milano, da Alice, secondo le quali vi era disponibile un alloggio di sfollati in quella città; e quindi si apprestava a partire. Tanto più, disse che ‘le suore non gradiscono la nostra presenza e Anna vorrebbe mangiare la minestra fatta dalla mamma...’ Mi congedai che era già buio fuori e in istrada m’accorsi di aver trasgredito alla consegna del Priore, essendo già passate le sei, l’ora del coprifuoco. Piovigginava anche, ero senza ombrello, dal nord tirava un vento gelido, presagio di neve. Mi affrettai lungo le vie deserte, quando udii il suono petulante delle sirene d’allarme aereo, e mi misi a correre a testa bassa. Ero già giunto vicino alla stazione ferroviaria che sta a fianco della collina del santuario, mio rifugio, e deviai a sinistra per affrontarne la scalinata ampia e ripida che porta all’ingresso del convento, quando udii l’alt! e fermatomi, subito col cuore in gola, vidi la pattuglia di due poliziotti sbucati dall’oscurità. Uno mi gettò la luce d’una torcia elettrica in faccia, l’altro aveva la destra sulla pistola. ‘Chi siete? Fuori i documenti!’ ordinava questi, aveva l’accento meridionale. Mi tremava ancora la mano mentre estraevo e porgevo la carta d’identità (falsa!) procuratami dai frati, ma il cervello era lucido: non dovevo cadere in trappola! Dopo aver esaminato il documento alla luce della torcia, il poliziotto riprese a

100 Strasser, A., cit., pp. 8-9. 101 Idem, p. 10.

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domandare: ‘E che diavolo fate qui, con il coprifuoco e l’allarme?’ – ‘Scusate’ risposi ‘sto andando alla stazione, di corsa, devo prendere il treno.’ – ‘Che treno, per dove?’ - ‘Per Milano’, dissi deciso, ‘abito lì come si vede dal documento.’ ‘Che mestiere avete?’ ‘Sono medico; ero qua da amici..’ Stettero a soppesare, poi quello della pila disse: ‘Beh, per questa volta... ma via! sparite!’ Così di corsa andai alla stazione, dove ho ripreso fiato e coraggio, ed appena cessato il frastuono delle esplosioni della contraerea e finito l’allarme, tornai all’aperto e salii di corsa i molti, troppi, interminabili gradini della scalinata al convento. Il mio scampanellare doveva essere lungo ed energico oltre misura, chè il padre guardiano mi accolse tutto accigliato, e nel richiuderlo sbattè con rabbia il portone…”

Gli ultimi ricordi di Andrea Strasser fanno riferimento ancora a quel viaggio verso Follina e alla paura per l’allarme aereo e per i nuovi bombardamenti che colsero Andrea e padre Amedeo nel treno fermatosi nella stazione di Castelfranco Veneto. Dalle memorie di Andrea Strasser non è possibile sapere esattamente quando ci fu il successivo trasferimento a Milano, ma, da quanto detto nel brano appena riportato, si può comprendere che l’informazione avuta da Maria Klein sulla possibilità di recarsi a Milano e di alloggiare in una casa messa a disposizione degli sfollati, fu subito sfruttata. Tanto più che erano forniti di documenti falsi che, nel caso di Andrea, erano stati prodotti o consegnati dai frati del Monte Berico. Fatto sta che, stando a quanto riportato da Strasser, la famiglia è a Milano nella seconda metà del 1944102:

“Noi ci siamo sistemati in due locali con cucinino all’ultimo piano d’uno stabile (il n° 89 di Corso Sempione), nei pressi di piazza Firenze, e si usciva solo per la spesa o per far passeggiare Anna, giungendo d’estate anche fino al Parco (…), ma incombeva sempre il pericolo dei bombardamenti, ora anche diurni rastrellamenti improvvisati dai fascisti.”

Braccati dalla paura, liberi ma prigionieri di ogni ombra, gli Strasser vissero in una Milano cupa che Andrea associa ai continui bombardamenti.

“Proprio in occasione di una mia passeggiata con Anna suonò l’allarme, mentre ci trovavamo a metà di corso Sempione. In quel tempo ero ancora in grado di correre, e tenendo Anna per mano, ci dirigemmo di corsa verso casa. Ma ne eravamo ancora lontani, quando ebbe inizio la sparatoria dei cannoni antiaerei e si udiva da lontano, nel cielo terso, il rombo degli aeroplani. Non c’era riparo alcuno in vista e quindi si seguitava a correre. Oramai il corso tutto alberato appariva deserto, i tram vuoti, fermi sui binari, le macchine ferme anch’esse al riparo illusorio dei platani giganteschi. I pochi militi armati in giro sollecitavano i ritardatari, come noi, con grida e bestemmie, via, via ai rifugi, gridavano e ci minacciavano coi fucili. Eravamo giunti già a 200 metri forse da casa e quindi dal rifugio antiaereo sistemato nella cantina, quando - sempre accompagnati dal rombare minaccioso dei loro quattro motori - apparvero gli aerei, grossi uccelli neri che volavano in formazione a oltre mille metri d’altezza, nitidi contro il cielo azzurro, e lo spavento ci fece fermare gambe e respiro. Come impietriti, stavamo lì, immobili sotto un platano, lo sguardo fisso su quelle sagome terrificanti. Ma Anna appariva divertita, per nulla impaurita. Disse anche: quegli uccelli lassù non mi sembrano cattivi. Non bisogna sparare sui poveri uccelli! E i ‘poveri uccelli’, come se l’avessero sentita e compresa, seguitavano a volare, tranquilli e alti nel cielo, nè seminavano sulla città, quella volta, le loro bombe micidiali. Erano diretti altrove.”103

Verso la fine di febbraio del 1945, nel primo pomeriggio, i bombardamenti colsero di nuovo la famiglia Strasser. Andrea si era ammalato di polmonite bilaterale e non era in grado di scendere nel rifugio, così Maria Klein e la piccola Anna Maria fuggirono dall’appartamento, incitate dallo stesso Andrea.

102 Stefano Twardzik riporta che già nel febbraio 1944 il nonno raggiunse in clandestinità i suoi a Milano, che erano arrivati lì da poco. 103 Strasser, S., cit., p. 14.

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“Ed uno ne cadde proprio vicino, a non più di 50 metri (come potevamo poi vedere dal cratere scavato nella via retrostante la nostra casa) e fu subito come terremoto, porte e finestre si spalancarono di colpo, volavano i vetri per polverizzarsi sul pavimento, tremavano le pareti, oscillava il lampadario e la mia branda si è mossa come in un tentativo di fuga. Dalla scala, attraverso l’ingresso spalancato entrava il rumore crepitante dell'intonaco che, s’andava staccando dalle mura ed insieme l’odore e il polverone del calcinaccio sparso. Raggomitolato sotto la coperta pensai: la prossima può essere la nostra... se no, siamo salvi. E venne anche la prossima bomba con il ben noto fischio in un acuto crescendo, ma cadde più lontano e se pure faceva ritremare tutto quanto intorno, mi faceva esultare, sebbene ancora rintronato dal febbrone e con la stanchezza di piombo nelle membra: eravamo salvi! Ma la paura, la vera animalesca fifa ci assalì solamente più tardi, quando ormai tutti gli inquilini ed anche i miei erano risaliti in casa e quando, guardandoci in faccia, potevamo leggere a vicenda, nei nostri occhi, il terrore ancora lì latitante. Senza quasi parole, comprendevamo lo stato d’animo di ognuno e ci sembrava che fosse urgente fare fagotto e scappare da quest’alloggio-trappola! Ma sarebbe stato inutile: tutto il mondo, allora, era una trappola per noi, il rifugio stesso lo poteva diventare, con tutti i brigatisti neri armati di mitra, che vi si riparavano e che per un semplice capriccio, potevano esigere documenti da noialtri, interrogarci, arrestarci, se sospetti e consegnarci alle SS!”104

Purtroppo il presagio si avverò e Andrea Strasser il 22 febbraio 1945 fu arrestato e poi rinchiuso dal 24 febbraio al 26 aprile del 1945 nel V braccio del carcere di San Vittore, ossia il braccio per i detenuti fermati per motivi razziali. La moglie e la figlia riuscirono a scampare all’arresto, vivendo in clandestinità fino alla Liberazione.

“Era, questa nostra prigione, una ‘supertrappola’ (si direbbe nel gergo odierno!), perchè, essendo impossibile la fuga, vi stavamo giorno dopo giorno consapevoli che la nostra vita dipendeva dalle decisioni e i rispettivi ordini di un comando della polizia militare germanica, per noi irraggiungibile. E trappola era pure perchè durante i molti, quasi giornalieri allarmi o nel corso dei frequenti bombardamenti notturni, noialtri prigionieri restavamo rinchiusi nelle nostre celle o cameroni, la nostra esistenza era quindi legata alla volontà d’un altro comando, quello dell’aviazione militare angloamericana, anch’esso irraggiungibile. (…). Allora ero rassegnato e quasi indifferente verso la sorte: per quasi cinque anni ero vissuto tra disagi e pericoli, avevo superato momenti critici, con la mia vita appesa ad un filo, ed ora, forse davvero vicino alla liberazione, preferivo evitare di pensare con speranza al dopo. Sicuro: bastava una bomba, nemmeno tanto grossa; sopra di noi non v’era che un tetto logorato dal tempo, mentre l’uscio del camerone era chiuso da fuori con un catenaccio robusto.”105

Non si conoscono con precisione gli avvenimenti che portarono all’arresto di Andrea Strasser, pochi giorni dopo il bombardamento da lui descritto, ma da altri documenti emerge un elemento importante: dal luglio del 1944 faceva parte del Corpo Volontari per la libertà, come attesta la sua tessera di riconoscimento n° 203. Veniamo così a scoprire che Andrea Strasser fu partigiano con funzione di medico.

104 Ivi, pp. 15-16. 105 Ivi, p. 17.

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Come visto, furono mesi difficili e lo dimostrano due documenti, uno del 25 settembre 1956 e uno del 26 febbraio 1958, in cui il dott. Michele Dragonetti certifica lo stato di salute di Andrea Strasser e contestualmente ci fornisce altri dettagli della sua vita negli anni di guerra. Nel primo documento, Dragonetti riportò l’anamnesi e affermò che Andrea soffrì di bronchiti acute già nel 1940, in occasione di un primo arresto e della detenzione nel carcere di San Vittore, dal 30 novembre al 31 dicembre. Dunque, mentre la moglie e la figlia si trovavano già a Ferramonti di Tarsia, Andrea era ancora a Milano, prima di essere arrestato. Lo stato di salute peggiorò e il dott. Dragonetti lo curò direttamente presso l’alloggio clandestino di corso Sempione 89, dal 5 gennaio al 24 febbraio 1945, data dell’entrata di Andrea Strasser a San Vittore. Quel giorno, Andrea Strasser non fu visitato a casa sua, ma si recò egli stesso nello studio del dott. Dragonetti in via Londonio 31. Fu in quell’occasione che fu fermato dalla polizia germanica e arrestato. Gli anni di fuga, clandestinità e prigionia procurarono ad Andrea Strasser notevoli problemi di salute e “dall’inverno dell’anno 1946 all’inverno del 1955, malgrado le numerose cure fatte, fu sempre soggetto a ricadute lunghe di forme bronchiali subcroniche, a volte complicate da accessi asmatici e quindi da disturbi cardio-vascolari circolatori. Il 4 novembre 1955 fu ricoverato

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d’urgenza nell’Ospedale Maggiore di Milano (…). Rimase degente per circa un mese e quindi nuovamente ricoverato nel dicembre dello stesso anno”106 Se il dopoguerra fu caratterizzato dai segni lasciati dai lunghi anni di persecuzione, molto più limpida e serena appare la voce di Strasser nello scritto al nipote quando conclude:

“Il caso ha voluto che uscissi vivo da quel macello ed ora, non più lontano dall’estremo mio traguardo e dopo oltre trenta anni di vita migliore vissuta in libertà, penso che con te vicino e con la nonna e Anna e tuo papà e i tanti buoni amici ancora rimasti – sia valsa la pena di continuare a vivere!”107

E così fu. Si riprese la sua vita. Bussò a tutte le porte per ottenere un appartamento per la sua famiglia. Grazie anche all’interessamento del Comitato d’Iniziativa Intellettuale del PCI (richiesta del 7 maggio 1945), dell’American Joint Distribution Committee (richiesta del 3 agosto 1945) e del Direttore del Reparto dell’Ospedale Maggiore di Milano, prof. Mario Lapidari, presso cui lavorò subito dopo la guerra come assistente (richiesta dell’11 dicembre 1945), riuscì a ritrovare una casa. In seguito richiese ed ottenne i documenti (atto notarile del 13 novembre 1957) che attestavano la sua laurea in Medicina (tesi discussa il 2 luglio del 1931 e voto finale di 110/110) e gli conferivano l’abilitazione all’esercizio della professione di medico chirurgo, e potè quindi ricostruirsi un futuro.

106 Certificato medico valutativo del dott. Michele Dragonetti del 25 settembre 1956. 107 Ivi, cit., p. 18.