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TECNOLOGIE E MATERIALI AEROSPAZIALI – Ver. 01 CAP. 37 – TECNOLOGIE DI FORMATURA IN PRESSA, IN FORNO ED IN AUTOCLAVE CON SACCO DA VUOTO Materiale didattico per uso personale degli studenti. Non è consentito l’uso di questo materiale a scopo di lucro. E’ vietato utilizzare dati, informazioni e immagini presenti nel testo senza autorizzazione. Copyright Dipartimento Ingegneria Aerospaziale - Legge Italiana sul Copyright 22.04.1941 n. 633. G. Sala, L. Di Landro, A. Airoldi, P. Bettini 1 Dipartimento di Ingegneria Aerospaziale – Politecnico di Milano CAPITOLO 37 37 TECNOLOGIE DI FORMATURA IN PRESSA, IN FORNO ED IN AUTOCLAVE CON SACCO DA VUOTO Sinossi e tecnologie di produzione dei materiali compositi possono essere suddivise in due grandi categorie: le tecnologie per la produzione di compositi a matrice termoindurente e quelle per la produzione di compositi a matrice termoplastica. In termini di applicazioni commerciali circa il 75% dei manufatti in composito sono realizzati con resine termoindurenti. Nel settore aerospaziale queste resine sono assolutamente predominanti. Oltre ad essere processi più maturi (i primi compositi in fibra di vetro e matrice poliestere risalgono ai primi anni ’40) e quindi ormai ben consolidati, il successo di queste tecnologie è dovuto ad una serie di vantaggi. I termoindurenti richiedono pressioni di esercizio inferiori in virtù dello stato liquido in cui si trova la resina all’inizio del processo stesso; unitamente alle basse temperature di polimerizzazione (nettamente inferiori rispetto a quelle delle resine termoplastiche), ciò consente l’uso di impianti più semplici ed energeticamente meno dispendiosi. La loro bassa viscosità aumenta inoltre la bagnabilità delle fibre riducendo così la percentuale di vuoti e porosità. Gli attrezzi di formatura sono infine molto meno costosi. Fra le tecnologie per la produzione dei compositi a matrice termoindurente, quelle di formatura sono certamente le più datate. Grazie alle elevate prestazioni dei manufatti che si possono ottenere alcuni di questi processi sono ancora oggi quelli più utilizzati soprattutto in quei settori dove sono richieste produzioni in piccole serie. Ne sono un esempio i processi di formatura in autoclave che costituiscono la tecnologia principale nel settore aerospaziale e cui verrà dato amplio spazio all’interno del capitolo. 37.1 Generalità e tecnologie di formatura sono tutti quei processi produttivi caratterizzati da una deposizione del composito (fibre e matrice) su di uno stampo opportuno che conferisce allo stesso la forma desiderata a seguito di un processo di polimerizzazione. In generale, queste tecnologie possono essere distinte in due categorie in funzione della modalità con cui le fibre vengono deposte sullo stampo. Si chiamano Lay-up processes i processi basati sulla sovrapposizione di un determinato numero di lamine. Tali lamine sono generalmente costituite da fibre continue (fibre lunghe) organizzate in tessuti con differenti stili di tessitura oppure disposte in un’unica direzione (in tal caso si parla di L L

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TECNOLOGIE E MATERIALI AEROSPAZIALI – Ver. 01 CAP. 37 – TECNOLOGIE DI FORMATURA IN PRESSA, IN FORNO ED IN AUTOCLAVE CON SACCO DA VUOTO

Materiale didattico per uso personale degli studenti. Non è consentito l’uso di questo materiale a scopo di lucro. E’ vietato utilizzare dati, informazioni e immagini presenti nel testo senza autorizzazione. Copyright Dipartimento Ingegneria Aerospaziale - Legge Italiana sul Copyright 22.04.1941 n. 633.

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CAPITOLO

37 37 TECNOLOGIE DI FORMATURA IN

PRESSA, IN FORNO ED IN AUTOCLAVE CON SACCO DA VUOTO

Sinossi e tecnologie di produzione dei materiali compositi possono essere suddivise in due grandi categorie:

le tecnologie per la produzione di compositi a matrice termoindurente e quelle per la produzione di compositi a matrice termoplastica. In termini di applicazioni commerciali circa il 75% dei manufatti in composito sono realizzati con resine termoindurenti. Nel settore aerospaziale queste resine sono assolutamente predominanti. Oltre ad essere processi più maturi (i primi compositi in fibra di vetro e matrice poliestere risalgono ai primi anni ’40) e quindi ormai ben consolidati, il successo di queste tecnologie è dovuto ad una serie di vantaggi. I termoindurenti richiedono pressioni di esercizio inferiori in virtù dello stato liquido in cui si trova la resina all’inizio del processo stesso; unitamente alle basse temperature di polimerizzazione (nettamente inferiori rispetto a quelle delle resine termoplastiche), ciò consente l’uso di impianti più semplici ed energeticamente meno dispendiosi. La loro bassa viscosità aumenta inoltre la bagnabilità delle fibre riducendo così la percentuale di vuoti e porosità. Gli attrezzi di formatura sono infine molto meno costosi. Fra le tecnologie per la produzione dei compositi a matrice termoindurente, quelle di formatura sono certamente le più datate.

Grazie alle elevate prestazioni dei manufatti che si possono ottenere alcuni di questi processi sono ancora oggi quelli più utilizzati soprattutto in quei settori dove sono richieste produzioni in piccole serie. Ne sono un esempio i processi di formatura in autoclave che costituiscono la tecnologia principale nel settore aerospaziale e cui verrà dato amplio spazio all’interno del capitolo.

37.1 Generalità e tecnologie di formatura sono tutti quei processi produttivi caratterizzati da una deposizione del

composito (fibre e matrice) su di uno stampo opportuno che conferisce allo stesso la forma desiderata a seguito di un processo di polimerizzazione. In generale, queste tecnologie possono essere distinte in due categorie in funzione della modalità con cui le fibre vengono deposte sullo stampo. Si chiamano Lay-up processes i processi basati sulla sovrapposizione di un determinato numero di lamine. Tali lamine sono generalmente costituite da fibre continue (fibre lunghe) organizzate in tessuti con differenti stili di tessitura oppure disposte in un’unica direzione (in tal caso si parla di

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lamine di fibre unidirezionali)1. Se le lamine sono già impregnate di resina (pre-impregnati o pre-preg) i processi si chiamano Dry Lay-Up (ovvero laminazione a secco), viceversa se ciascuna lamina viene impregnata di resina direttamente sullo stampo in fase di laminazione si parla di processi Wet Lay-Up (ovvero laminazione ad umido).

Figura 37.1 – Lay-up process.

Sono invece chiamati Spry-up processes i processi basati sulla deposizione a spruzzo di fibre discontinue (fibre corte, chopped) deposte sullo stampo contemporaneamente alla resina (non c’è distinzione fra deposizione a umido o a secco). L’uso di fibre discontinue comporta l’ottenimento di manufatti con prestazioni meccaniche molto modeste, motivo per il quale questa tecnologia non è praticamente utilizzata in ambito aerospaziale2. I metodi per laminazione, soprattutto se utilizzati con i preimpregnati, permettono viceversa di ottenere prestazioni molto elevate. Essi consentono inoltre di produrre componenti con forme anche relativamente complesse, ciò che li rende i processi produttivi più

1 E’ possibile utilizzare per questi processi anche fibre discontinue organizzate in mat.

2 Non essendo in uso nel settore aerospaziale i processi spry-up non verranno discussi nel presente capitolo.

largamente utilizzati nelle costruzioni aeronautiche e spaziali.

(a)

(b) Figura 37.2 – Tecnologie di formatura: wet lay-up (a) e spray-up technique (b).

Figura 37.3 Tecnologia di formatura spry-up. Esempio di applicazione automatizzata di fibre di vetro discontinue e resina.

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La Figura 37.4 mostra la pala del rotore di un elicottero. Essa costituisce uno dei primi esempi di una parte della struttura primaria realizzata interamente in composito. La sua produzione è basata essenzialmente su una serie di cicli di formatura in autoclave.

Figura 37.4 – Pala del rotore principale dell’elicottero Agusta A109. Essa è interamente realizzata in composito mediante processo di formatura in autoclave.

In Figura 37.5 è invece mostrata la gondola motore dell’ Airbus A330 prodotta dall’italiana Alenia AerMacchi. Tutte le gondole motore dei grandi velivoli commerciali sono costituite da speciali pannelli sandwich in composito realizzati anch’essi in autoclave.

Figura 37.5 – Gondola motore dell’Airbus A330. Essa è costituita da speciali pannelli sandwich prodotti in autoclave.

Di contro, nonostante alcune fasi del processo possano essere talvolta automatizzate, le tecnologie di formatura sono essenzialmente processi manuali. Ciò

comporta bassi volumi produttivi ed alti costi di produzione soprattutto se confrontati con quelli di altre tecnologie quali la pulltrusione e la filament winding. Per tutte le tecnologie di formatura è possibile suddividere il ciclo produttivo essenzialmente in tre fasi: taglio, laminazione e polimerizzazione. La fase di taglio è quella che consente di ottenere le lamine della forma e dimensioni desiderate, la laminazione è la fase di deposizione delle lamine sullo stampo ed infine la fase di polimerizzazione consiste nel far avvenire la completa reticolazione della resina e quindi nel conferire al manufatto le sue proprietà finali. In ciascuna di queste fasi le tecniche e modalità di esecuzione e, talvolta anche gli impianti produttivi variano in funzione del semilavorato che viene utilizzato. Nel caso dei prepreg è possibile utilizzare tecniche di taglio e di laminazione (siano esse manuali che automatizzate) che riducono le difficoltà nell’allineamento e nel posizionamento delle fibre nelle direzioni desiderate. L’elevato grado di viscosità3 della resina con cui sono pre-impregnati i rinforzi conferisce infatti alle lamine di prepreg una certa stabilità dimensionale ed un buon livello di maneggiabilità. Unitamente ai vantaggi intrinseci dei prepreg, i quali consentono un efficiente controllo del contenuto e della distribuzione di resina nel laminato, il controllo degli spessori, una netta riduzione del contenuto di vuoti, ciò permette di ottenere laminati con prestazioni nettamente superiori a quelle ottenibili con le tecnologie wet lay-up. Di contro, i prepreg proprio per la supposta stabilità dimensionale che possiedono, hanno una drappabilità limitata e sono per questo motivo difficilmente utilizzabili per la produzione di forme molto complesse. Si comprende quindi come, in taluni casi, sia necessario utilizzare tessuti secchi effettuando la stratificazione e l’impregnazione manualmente. E’ opportuno far notare che con un processo wet lay-up non è generalmente possibile deporre strati con fibre esclusivamente unidirezionali. Non essendoci la resina infatti, è l’intreccio di trama e ordito a mantenere assieme le fibre ed a consentire la deposizione delle singole lamine sullo stampo. Ricordando dal capitolo 32 che l’utilizzo dei tessuti conferisce ai laminati caratteristiche meccaniche inferiori rispetto ai laminati UD (ove le singole lamine sono costituite esclusivamente da fibre di rinforzo in una sola direzione), la necessità di utilizzare i tessuti appare come un ulteriore limite a carico di questo tipo di processi di formatura. Ove è possibile e, soprattutto, ove sono richieste ai manufatti prestazioni molto elevate (come accade generalmente per i componenti delle strutture primarie

3 Si ricorda che la viscosità diminuisce all’aumentare della temperatura. A temperatura ambiente, ovvero la temperatura alla quale viene effettuata la laminazione dei pre-impregnati, la resina degli stessi è molto viscosa.

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aerospaziali) è quindi sempre preferibile adottare tecnologie dry lay-up. Viceversa, i processi wet lay-up, che sono fra i più semplici processi produttivi dei materiali compositi e probabilmente anche i più “antichi”, sono largamente utilizzati in molti altri settori.

37.2 Dry lay-up Process E’ certamente il processo di formatura più utilizzato per i materiali compositi avanzati. Come è già stato accennato più volte in questo e nei capitoli precedenti, l’elemento base di questa tecnologia è il preimpregnato (da cui il termine prepreg lay-up con cui talvolta vengono denominati questi processi). Esso viene commercializzato in rotoli di larghezze predefinite e spesso viene stoccato in freezer per rallentare il processo di reticolazione della resina che è già completamente innescato estendendone così la shelf life (ovvero estenderne la scadenza).

Figura 37.6 – Tipologie di prepreg. Vengono generalmente stoccati in freezer, protetti da pellicole e sigillati entro sacchi di plastica.

Al fine di evitare la contaminazione con qualsiasi agente esterno (es. particelle di polvere) e di evitare l’assorbimento di umidità il preimpregnato è fornito racchiuso entro opportuni sacchi di plastica sigillati. Per gli stessi motivi, ove possibile, sia la fase di taglio sia quella successiva di laminazione vengono effettuate in un’apposita camera ad ambiente controllato (clean room). In clean room oltre a mantenere entro livelli prestabiliti il grado di polverosità dell’aria attraverso un opportuno sistema di filtraggio, si controllano la temperatura, che viene mantenuta costantemente in un range tra i 22°C e i 25°C, e l’umidità relativa (fissata al 50%).

Figura 37.7 – Tipiche clean-room per la lavorazione dei materiali compositi.

Figura 37.8 – Clean-room classe 10000 del Dipartimento di Ingegneria Aerospaziale Compositi del Polietcnico di Milano.

In Figura 37.8 è mostrata la clean room in dotazione al Laboratorio Compositi del Dipartimento di Ingegneria Aerospaziale del Politecnico di Milano. Essa è una camera pulita di classe 10000 ovvero il livello di polverosità dell’aria è mantenuto entro le 10000 particelle di polveri sottili per ogni 1 metro cubo. Tutte le clean-room sono dotate di un doppio sistema di entrata e tutti gli operatori nella stanza devono indossare speciali tute da lavoro comprensive di cuffia e copriscarpe.

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37.2.1 Il Taglio Il taglio del preimpregnato può essere eseguito manualmente oppure può essere un processo completamente automatizzato. Nel primo caso l’operazione viene effettuata su speciali tavoli da taglio dotati di una copertura di materiale non contaminante e di durezza elevata. Tale copertura consente di ridurre al minimo le possibili inclusioni nel preimpregnato che si generano a seguito delle micro-incisioni che l’attrezzo da taglio produce sulla superficie del tavolo. L’attrezzo da taglio più semplice e ancor oggi molto diffuso è il coltello a lame in acciaio intercambiabili (noto più comunemente con il nome di cutter). L’uso di opportune dime consente di effettuare tagli precisi e di ottenere lamine delle dimensioni desiderate. Si noti che tale operazione, apparentemente semplice, richiede in realtà molta attenzione e presenta un livello di difficoltà crescente con la complessità della forma del manufatto che si vuole realizzare. Ad eccezione dei laminati piani infatti è sempre necessario per ogni singola lamina (che dovrà assumere la forma tridimensionale dello stampo) determinarne lo sviluppo bidimensionale e realizzare una dima dedicata (le dimensioni variano da lamina a lamina). Va da sé che anche le dime, che possono essere realizzate di un materiale qualsiasi, debbano avere delle opportune coperture (generalmente possono essere utilizzate lamine metalliche rivestite con un film teflon) per evitare contaminazioni al preimpregnato.

Figura 37.9 – Taglio manuale dei preimpregnati effettuato su tavolo da taglio

Il taglio può essere eseguito anche mediante attrezzi con lame in acciaio ricoperte con carburi, lame a moto alterno oppure cesoie (manuali o motorizzate). Recentemente si sono resi disponibili ulteriori nuovi attrezzi (quali ad esempio le cesoie ceramiche) che hanno una migliore efficienza e permettono di ottenere un’accuratezza superiore allo standard. Il loro sviluppo è tuttavia limitato dai costi molto elevati (dovuti ad una elevata usura). L’utilizzo di attrezzi da taglio con lame a moto alterno consente di ottenere una buona accuratezza e riduce

notevolmente i tempi di esecuzione. Esso ha origine nell’industria tessile. La lama può effettuare il taglio o impattando verticalmente il preimpregnato dall’alto come una ghigliottina oppure penetrando nel materiale ed avanzando lungo la direzione di taglio attraverso rapidi colpi verticali. In entrambi i casi questa tecnica consente di tagliare simultaneamente molti strati di materiale, di seguire traiettorie curve oppure dotate di angoli acuti; la lama può inoltre essere retratta durante il funzionamento per oltrepassare aree che non debbano essere tagliate. Simili ai sistemi con lame a moto alterno sono quelli con lame ad ultrasuoni. Questi sistemi di taglio sono basati su vibrazioni meccaniche ad altissime frequenze (molte migliaia di vibrazioni al secondo) indotte alla lama per mezzo dell’energia vibratoria ultrasonora prodotta da una sorgente integrata nel sistema.

Figura 37.10 Pistola per taglio ad ultrasuoni manuale.

Caratteristica della tecnica di taglio ad ultrasuoni è quella di limitare l’attrito fra utensile ed oggetto da tagliare con una conseguente riduzione di dissipazione termica. Il limitato riscaldamento locale nella zona di taglio ne fa una tecnica particolarmente adatta ai preimpregnati. Essa consente alti volumi produttivi ed un’elevata accuratezza anche nel taglio di più lamine sovrapposte (ovvero di prepreg già laminati/stratificati). Di contro, un tipico problema degli ultrasuoni, è la nascita di punti di non vibrazione sulla superficie del coltello. Questi punti, la cui distribuzione lungo la lama dipende dalla lunghezza delle onde ultrasonore, ostacolano l’azione di taglio ogni qualvolta entrano in contatto con il preimpregnato riducendone la bontà del taglio. Questo problema può essere ragionevolmente trascurato se lo spessore da tagliare è inferiore ai 20mm. Un’altra tecnica per tagliare più strati contemporaneamente è il taglio per tranciatura mediante opportuni utensili chiamati fustelle. Questi non sono altro

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che dei punzoni aventi un profilo tagliente in acciaio che riproduce il contorno (la sagoma) delle lamine da tagliare. Il taglio viene effettuato premendo tali punzoni contro il preimpregnato posizionato sul tavolo da taglio con una forza sufficiente perché essi oltrepassino completamente il preimpregnato stesso. Affinché non si danneggi il profilo delle fustelle il tavolo deve essere, in tal caso, preventivamente rivestito di uno speciale materassino in plastica all’interno del quale possa penetrare parzialmente il profilo stesso. Il contributo di tale materassino è fondamentale per ottenere una buona qualità del taglio. Esso deve essere costituito di un materiale con durezza inferiore a quella del profilo della fustella, ma superiore a quella del materiale da tagliare. Per la maggior parte dei compositi viene utilizzato un pad in polipropilene (durezza 75-78 Shore D); in altri casi, quali ad esempio i per i tessuti arammidici (che hanno una durezza superiore), si utilizzano materassini più duri realizzati in nylon (durezza 84 shore D). Questa tecnica è stata fra le prime ad essere implementata sulle macchine industriali ed è ancora molto utilizzata soprattutto nel settore tessile. Le macchine fustellatrici (die cutting systems) permettono di automatizzare le procedure di taglio raggiungendo alti ratei produttivi e mantenendo nel contempo un’ottima ripetibilità. Esse sono essenzialmente costituite da: x una pressa (cutting press); x un materassino plastico (plastic cutting pad); x un set di fustelle (cutting die). In Figura 37.11 sono riportate due tipiche macchine fustellatrici. E’ evidente il principio di funzionamento: l’operatore posiziona sia il materiale da tagliare che le fustelle sul piano della pressa la quale, azionata manualmente, esegue l’operazione di tranciatura. Esistono due tipologie di presse: le comuni presse idrauliche a traversa mobile (hydraulic beam press) e le presse meccaniche a rulli (roller press). Le beam presses sono generalmente dotate di due piastre piane parallele una delle quali è vincolata alla traversa mobile. Il materassino di plastica (circa 25mm di spessore) può essere vincolato sulla superficie della piastra superiore oppure montato su di un dispositivo che, ruotando automaticamente, cambia posizione al materassino stesso dopo ogni singolo taglio migliorando sia la qualità del taglio che, soprattutto, la durata del materassino. E’ importante notare che la velocità di esecuzione del taglio è indipendente dalla forma, dalla dimensione, dallo spessore e dal materiale del preimpregnato che deve essere tagliato. Questo tipo di pressa ha un tonnellaggio limitato in un range che va circa da 70tons a 200tons.

Figura 37.11 Tipiche macchine fustellatrici.

Le roller presses eseguono il taglio grazie alle forze di compressione esercitate da coppie di rulli in acciaio contro-rotanti attraverso cui prepreg e fustelle sono forzati a passare. Il materassino è in questo caso posizionato direttamente a contatto con il prepreg prima di azionare il movimento dei rulli. A differenza delle beam presses, queste presse hanno un tonnellaggio illimitato, motivo per il quale il loro utilizzo è preferito per tagli di piccole dimensioni.

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Tabella 37.1 – Confronto tra le caratteristiche di una pressa da taglio idraulica ed una meccanica a rulli.

Figura 37.12 Die-cutting System per materiali compositi.

Le caratteristiche principali di entrambe le tipologie di pressa sono riassunte e confrontate in tabella 37.1. Per innalzare il rateo produttivo di queste macchine la maggior parte dei moderni die-cutting systems possono essere semi-automatizzati o completamente automatizzati. La Figura 37.12 esemplifica le fasi del processo per un impianto del primo tipo (si parla in tal caso di taglio meccanicamente assistito): x posizionamento set di fustelle (manuale o

meccanicamente assistito); x taglio prepreg in fogli (di lunghezza desiderata e di

larghezza pari a larghezza rotolo) attraverso cesoia a ghigliottina (automatizzato);

x sovrapposizione fogli su fustelle mediante opportuni riscontri (manuale);

x avanzamento verso stazione di taglio mediante nastro trasportatore (manuale o automatizzato);

x taglio alla pressa fustellatrice (automatizzato); x rimozione fogli tagliati (lamine), marcatura e

stoccaggio (manuale); x rimozione fustelle (manuale, meccanicamente

assistita). Questo sistema da taglio è molto utilizzato in quanto è relativamente semplice ed economico, consente elevati ratei produttivi e non è eccessivamente ingombrante (richiedono un’area di circa 3x10mt). La Figura 37.13 illustra come avviene il taglio “in continua” per avanzamento incrementale del nastro trasportatore. Un tale sistema, che può essere applicato sia alle presse meccaniche sia alle presse idrauliche, risulta particolarmente vantaggioso per queste ultime (Figura 37.14).

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Figura 37.13 Sistema di avanzamento incrementale del nastro trasportatore in una macchina fustellatrice.

Applicato ad una beam press ed azionando la traversa mobile della pressa dopo ogni singolo avanzamento del nastro, è possibile infatti tagliare lamine lunghe svariati metri superando i limiti dimensionali longitudinali imposti dalle dimensioni dei piani della pressa stessa.

(a)

(b)

Figura 37.14 Macchine fustellatrici con nastro trasportatore: macchina con beam press (a) e macchina con roller press (b).

Dato l’elevato costo dei prepreg è di assoluta importanza massimizzare la produzione riducendo al minimo gli sfridi durante le operazioni di taglio. Ciò equivale ad ottimizzare il posizionamento delle fustelle sui fogli di preimpregnato effettuando un processo di nesting come illustrato in Figura 37.15.

Figura 37.15 Esempi di die-nesting layout.

Si può notare che, laddove è possibile, le fustelle hanno un lato in comune (die nesting) eliminando completamente gli sfridi tra le lamine. In taluni casi è possibile dividere le lamine di dimensioni maggiori in più parti così da poter realizzare un layout delle fustelle più efficiente. Le parti vengono successivamente riunite in fase di laminazione. I layout di nesting, che possono essere generati anche manualmente attraverso la realizzazione di pattern miniaturizzati, sono generalmente creati al computer mediante software dedicati . Partendo dal modello 3D del componente da realizzare questi programmi effettuano prima lo sviluppo 2D di tutte le lamine e successivamente generano il layout di nesting più efficiente. Grazie all’ampia diffusione che nell’ultimo decennio hanno avuto in tutti i settori industriali le macchine CNC (Computer Numerical Control) altre tecniche di taglio si

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sono recentemente aggiunte a quelle tradizionali. Sviluppate in origine per il taglio di materiali altrimenti difficilmente lavorabili, queste tecniche, che possono essere impiegate anche per i preimpregnati, sono il taglio laser (laser cutting) ed il taglio a getto d’acqua (water jet cutting).

Figura 37.16 – Tecnica di taglio laser.

Il taglio laser si effettua tramite la radiazione emessa da un raggio focalizzato di luce coerente, con l’ausilio di un gas ad alta pressione. Il gas ausiliario rimuove il materiale volatile e fuso dal percorso seguito dal raggio durante la lavorazione. Il fascio luminoso può essere focalizzato concentrando un’elevata quantità di energia in un singolo punto. L’energia così concentrata permette di raggiungere, in breve tempo, temperature molto elevate, superiori alla temperatura di vaporizzazione di diversi materiali. Controllando la densità della potenza sprigionata, attraverso l’energia del raggio e la dimensione del punto di focalizzazione si possono eseguire sia operazioni di taglio, sia di saldatura di metalli. I tipi più comuni di laser industriali sono il laser a CO2, il laser Nd:YAG (a stato solido) e il laser a eccimeri. Spesso, durante il processo di taglio il raggio in uscita viene fatto vibrare con altissimi picchi di potenza, con il risultato di aumentare la velocità di lavorazione. I vantaggi del taglio laser sono: la velocità di avanzamento, la bassa deformazione, la qualità d’incisione, la minima produzione di scorie ed un’ampiezza di taglio ben delimitata. Il taglio a “water jet” si basa sull'impiego di un liquido costituito per la maggior parte da acqua filtrata e da una piccola percentuale di polimero liquido, la cui funzione è quella di diminuire la divergenza del getto. Tale liquido viene pompato mediante un intensificatore idraulico a pressioni dell'ordine di 50.000psi ed un accumulatore smorza le pulsazioni generate dalla pompa alternativa in modo da avere una pressione relativamente costante. Successivamente il liquido viene inviato ad un ugello di zaffiro di piccole

dimensioni (circa 0.01-0.04mm). In queste condizioni il liquido esce a circa 2.5 volte la velocità del suono. L'energia cinetica posseduta dal getto va ad agire sulla superficie del materiale in lavorazione, generando una elevata pressione dell'ordine di 140.000psi, superiore alla resistenza a compressione di molti materiali.

Figura 37.17 – Tecnica di taglio water jet.

Il risultato è una erosione ad alta velocità del materiale ed un taglio netto. Il "cuore" dell'impianto è l'intensificatore di pressione, in pratica una pompa alternativa alimentata da olio idraulico. Il rapporto di intensificazione è generalmente 20:1. È anche possibile iniettare nel getto d'acqua del materiale abrasivo come silice granulare. Questa tecnica di taglio permette la lavorazione di materiali e spessori non lavorabili con procedimenti tecnici tradizionali, come metalli particolari, leghe, materiali sintetici, vetro acrilico, materiali rivestiti e stratificati, legno, gomma, pietra e ceramica. Le lavorazioni “water jet” non implicano emissioni di polveri o gas, producono spigoli di taglio che non necessitano di alcuna rifinitura e non provocano danneggiamenti meccanici o alterazioni termiche nei materiali lavorati. Se caratteristiche peculiari di entrambe le tecniche sono la velocità e l’accuratezza di esecuzione del taglio, di contro gli impianti sono molto costosi. Oltre al fattore economico la loro diffusione nel settore dei compositi è rallentata per altri due motivi. Il fascio luminoso del taglio laser, riscaldando ad elevata temperatura la zona di taglio, può alterare e degradare le caratteristiche della resina dei preimpregnati. Parimenti, l’acqua del getto può, entrando a diretto contatto con il prepreg, contaminare il materiale. Benché tali due effetti siano di modesta entità e possano essere talvolta ritenuti ininfluenti, entrambe le tecniche hanno finora trovato poche applicazioni nel settore aerospaziale. Seguendo la stessa filosofia con cui sono progettate le macchine da taglio laser e water jet, è possibile automatizzare anche le altre tecniche pocanzi presentate.

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TECNOLOGIE E MATERIALI AEROSPAZIALI – Ver. 01 CAP. 37 – TECNOLOGIE DI FORMATURA IN PRESSA, IN FORNO ED IN AUTOCLAVE CON SACCO DA VUOTO

Materiale didattico per uso personale degli studenti. Non è consentito l’uso di questo materiale a scopo di lucro. E’ vietato utilizzare dati, informazioni e immagini presenti nel testo senza autorizzazione. Copyright Dipartimento Ingegneria Aerospaziale - Legge Italiana sul Copyright 22.04.1941 n. 633.

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La Figura 37.18 mostra lo schema di una macchina da taglio semi-automatizzata. Essa è costituita essenzialmente da: un sistema di alimentazione in cui è alloggiato un rotolo di di preimpregnato; un tavolo dotato di sistema di depressione per vincolare i fogli di preimpregnato durante l’esecuzione del taglio; un sistema di movimentazione a 2 o più assi con annessa testa portautensile modulare ed infine l’utensile corredato del suo sistema di alimentazione. Comunemente chiamate anche plotter da taglio queste macchine supportano diverse tipologie di utensile quali il coltello pneumatico, il coltello elettrico oscillante, la lama rotante nonché la lama ad ultrasuoni (Figura 37.20).

Figura 37.18 Schema di funzionamento di una macchina da taglio semi-automatizzata.

Nel caso in cui si voglia automatizzare completamente il processo di taglio è possibile equipaggiare i plotter con un sistema a ripresa di materiale. L’avanzamento incrementale del preimpregnato sul tavolo è completamente automatizzato ed il sistema di controllo dell’impianto è in grado di riprendere il taglio sul materiale esattamente nello stesso punto dove si era arrestato al passo precedente. Queste macchine sono totalmente controllate via software; spesso il programma di nesting è direttamente integrato nel sistema.

Figura 37.19 – Esempio di una moderna macchina da taglio a CNC.

Figura 37.20 – Sistema di movimentazione di una moderna macchina da taglio con sistema di teste intercambiabili: testa laser (a), testa ad ultrasuoni (b).

37.2.2 La laminazione La laminazione è la fase di deposizione delle lamine sullo stampo. Al pari della fase di taglio essa può essere eseguita manualmente oppure essere parzialmente o anche totalmente automatizzata. Ancor più che la fase di taglio, nel settore aerospaziale la laminazione viene sempre e rigorosamente effettuata in clean-room al fine di evitare inclusioni qualsiasi fra una lamina di prepreg e quella successiva4. Rimandando al capitolo 42 la descrizione delle tipologie e delle caratteristiche degli stampi utilizzati nei processi di formatura, si assume qui, per semplicità di trattazione ma senza ledere di generalità, di utilizzare uno stampo aperto (single-side) 5. Prima di effettuare la laminazione è necessario applicare alla superficie dello stampo un’agente distaccante per evitare che la resina del laminato aderisca allo stampo 4 Si ricorda a tal proposito che nella maggior parte dei casi il cedimento dei componenti in composito avviene per delaminazione ed essa è spesso causata da difettosità presenti nell’interlamina stessa introdotte in fase di laminazione. 5 Si rimanda al capitolo 42 anche per una disamina di tutti i materiali di consumo che verranno introdotti in questo capitolo.

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stesso. Esiste una vasta varietà di distaccanti che differiscono per la composizione chimica, per il range di funzionamento, piuttosto che per la modalità di applicazione. Generalmente è preferibile adottare distaccanti liquidi da applicarsi a spruzzo o direttamente con un panno di cotone. Alternativamente è possibile, per geometrie semplici, rivestire lo stampo con un sottile film antiadesivo (ad esempio films di PTFE® di spessore inferiore a 0,15mm).

Figura 37.21 – Laminazione manuale (a) e laminazione automatica (b).

La deposizione delle lamine di prepreg è talvolta preceduta dalla stesura sullo stampo di un’ulteriore lamina denominata peel-ply. Essa è un sottile tessuto di nylon, disponibile in diverse grammature, che viene utilizzata ogni qualvolta si debba conferire alla superficie del laminato la rugosità superficiale ottimale per l’esecuzione di un incollaggio. In tal caso il peel-ply viene rimosso dal laminato solamente pochi istanti prima di eseguire l’operazione di incollaggio così da evitare rischi di contaminazione alla superficie. Grazie alla sua perfetta adesione al laminato, il peel-ply viene spesso utilizzato come pellicola protettiva per tutto il periodo di eventuale stoccaggio del componente (indipendentemente dalla necessità di eseguire successivi incollaggi). Un’altra funzione del peel-ply è quella di intrappolare eventuali sostanze volatili provenienti dallo stampo durante il ciclo di polimerizzazione. L’aspetto cruciale della laminazione è ovviamente il corretto posizionamento delle lamine di pre-impregnato. Le tecniche di deposizione automatizzata che verranno descritte in seguito garantiscono un elevato livello di accuratezza ma sono applicabili per lo più a geometrie semplici quali pannelli piani, pannelli a singola curvatura o elementi con forme comunque non complesse. In molti casi si deve necessariamente ricorrere ad una laminazione manuale ed il livello di difficoltà per il rispetto delle tolleranze (± 2° circa) nel posizionamento delle lamine può essere anche molto elevato. Per facilitare l’operazione si utilizzano opportuni sistemi di riscontro quali ad esempio delle griglie di riferimento apposte intorno alla superficie di laminazione oppure delle tracciature laser effettuate con i più moderni Laser Projection Systems (Figura 37.23).

Figura 37.22 – Laminazione manuale mediante sistema di riscontri per facilitare l’allineamento delle fibre.

Figura 37.23 – Laser projection System per assistere la laminazione.

Una delle tecniche più utilizzate, soprattutto per la laminazione di componenti di grandi dimensioni, è la cosidetta ply-on Mylar Technique. Essa consiste nell’utilizzare dei fogli di plastica trasparenti e dimensionalmente stabili (Mylar) su cui sono stampati il contorno delle lamine e l’orientazione delle fibre. Tali modelli (uno per ogni lamina) sono mantenuti nella corretta posizione sullo stampo attraverso opportuni perni di allineamento di cui è dotato lo stampo stesso (a cui corrispondono dei fori sui fogli). La procedura consiste nel posizionare la singola lamina sul modello corrispondente, deporre l’assieme sullo stampo ed infine rimuovere il modello. E’ una procedura semplice e sufficientemente accurata anche se comporta costi aggiuntivi non trascurabili (i modelli non sono riutilizzabili). Nella sovrapposizione delle lamine si deve fare particolare attenzione alla rimozione di tutte le pellicole protettive del preimpregnato. Per evitare che accidentalmente una o più di queste pellicole rimangano all’interno del laminato e per verificare che sia eseguita l’esatta sequenza di laminazione si utilizzano i ply-book (anche chiamati ply chart o manufacturing chart) sui quali è riportato l’elenco

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dettagliato di tutte le operazioni da eseguire durante la laminazione. In questi ply-book è riportata la sequenza di laminazione e, per ciascuna lamina, il numero di identificazione, le dimensioni e la posizione in pianta sullo stampo. Ogni lamina deposta sullo stampo, così come ogni pellicola protettiva che viene rimossa, è spuntata dall’operatore sul ply-book. Nel settore aerospaziale, in cui i requisiti sono sempre più stringenti, la fase di laminazione è monitorata costantemente dal personale del controllo qualità (per componenti di grandi dimensioni la sequenza di laminazione è controllata ogni 4-5 strati). Nella deposizione delle lamine giocano un ruolo molto importante il grado di appiccicosità (tack level) e drappabilità o formabilità (drape level) del preimpregnato. Un’elevata appiccicosità è garanzia di adesione fra lamina e stampo o fra lamina e lamina. Essa però non consente nessun errore di posizionamento perché, anche a seguito di una leggerissima pressione di contatto, non è più possibile rimuovere la lamina per un successivo riposizionamento. Allo stesso modo un buon livello di drappabilità consente di conformare la lamina allo stampo, ma se è troppo elevato si incorre nella possibilità di alterare la corretta disposizione delle fibre nella lamina stessa. Il giusto compromesso dipende dalla forma e dalle dimensioni degli stampi. Poiché entrambe queste caratteristiche aumentano all’aumentare della temperatura, è anche possibile agevolare la fase di laminazione partendo da una condizione di bassa appiccicosità e drappabilità (low tack and drape level) ed aumentarla durante la stesura delle lamine attraverso un riscaldamento locale delle stesse (circa 10°C mediante pistola termica). In pratica la stesura della lamina avviene mediante una successione di più passi in ciascuno dei quali si depone una parte di lamina e la si riscalda affinché essa rimanga adesa allo strato sottostante. Per far aderire al meglio le lamine e far fuoriuscire le bolle d’aria rimaste intrappolate nel preimpregnato si utilizzano appositi rulli in PTFE® di differenti dimensioni (squeezing roller). L’evacuazione dell’aria è ulteriormente favorita effettuando delle compattazioni intermedie ogni 4-5 strati di prepreg mediante un sacco da vuoto riciclabile6. Per aumentare il rateo produttivo la fase di laminazione può essere automatizzata a diversi livelli. Si parla di laminazione meccanicamente assistita quando sono automatizzate solamente alcune fasi del processo e la deposizione delle lamine sullo stampo è eseguita dall’operatore. Si parla di laminazione

6 Per le compattazioni intermedie il sacco da vuoto viene realizzato mediante membrane elastomeriche. Per la chiusura del sacco si usa plastilina.

completamente automatizzata quando l’operatore non interviene neppure in questa fase del processo. Nel primo caso le lamine vengono movimentate per aspirazione attraverso nastri trasportatori e robot che aiutano l’operatore nella fase finale di deposizione delle stesse sullo stampo. Generalmente questi impianti integrano anche un sistema di taglio. Il secondo caso è quello ad esempio delle macchine a deposizione automatica di nastri (Automatic tape laying Machine).

Figura 37.24 – Automatic tape laying machine.

La Figura 37.24 illustra lo schema di una macchina di questo tipo. Essa è dotata di un dispenser che può portare nastri di prepreg di larghezze variabili tipicamente fra i 50 e i 100mm. Benché siano nate per laminare pannelli piani, le larghezze ridotte dei nastri consentono deposizioni anche su traiettorie con moderate curvature (ad esempio per i pannelli di superfici alari). Ovviamente se il raggio di curvatura è troppo piccolo una macchina i questo tipo non può essere utilizzata. Il dispenser è montato su un sistema di movimentazione a più assi. Dopo aver indicizzato l’area di lavoro, la macchina effettua automaticamente, muovendosi su linee parallele, la deposizione del nastro, la compattazione dello stesso e la rimozione della pellicola di carta protettiva. Quando viene raggiunto il bordo dello stampo il nastro viene tagliato mediante l’utensile montato sulla testa da taglio e ricomincia il ciclo in una nuova posizione. Questo processo è ripetuto fino alla completa stratificazione del laminato. Essendo il taglio del nastro sempre effettuato normalmente alla direzione di sviluppo del nastro stesso non sempre è possibile far coincidere la linea di taglio con il bordo del laminato. Anche nel caso semplice di un pannello a pianta rettangolare la deposizione di nastri orientati a 45° comporta necessariamente degli sfridi ai bordi. In generale quindi la quantità di sfridi dipende dalla sequenza di laminazione. Essa può in ogni caso essere ridotta diminuendo la larghezza del nastro come è esemplificato in Figura 37.25.

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Figura 37.25 – Dipendenza della quantità di sfridi dalla larghezza del nastro in un processo di deposizione automatica.

Queste macchine sono abbastanza ingombranti e costose ma hanno un alto volume produttivo ed una elevata accuratezza di deposizione.

Figura 37.26 –Automatic tape laying Machines.

Le prime tape laying machine sviluppate erano dotate di un sistema di movimentazione della testa di deposizione a 2 gradi di libertà ovvero le due traslazioni nel piano di deposizione e potevano essere utilizzate esclusivamente per laminare pannelli piani. Oggigiorno sono disponibili impianti a controllo numerico con sistemi di movimentazione a 5 assi (Figura 37.26). Lo sviluppo di sistemi per la produzione integrata e automatizzata di componenti in composito anche con forme relativamente complesse ha avuto inizio verso la fine degli anni ’70 sotto la spinta dell’aviazione militare che aveva fra gli obbiettivi sia il contenimento dei costi sia soprattutto la riduzione dell’errore umano ed il conseguente incremento delle prestazioni dei manufatti. Lo schema di Figura 37.27 si riferisce ad un centro di laminazione integrato sviluppato, realizzato e messo in servizio per l’Air Force americana dalla Grumman Corporation nei primi anni ’80. Esso è un sistema automatizzato modulare per la laminazione di molte tipologie di pannelli di rivestimento per velivoli militari. La figura 37.28 illustra alcune immagini dell’impianto.

37.2.2.1 Sacco da vuoto Nei processi di formatura il sacco da vuoto ha tre compiti fondamentali. Il primo è quello di evacuare le bolle d’aria presenti nel laminato. Il secondo è quello di evacuare tutte le sostanze volatili presenti nella resina del pre-impregnato ed il terzo è infine quello di favorire l’adesione fra le lamine. Nonostante la sovrapposizione delle lamine sia svolta con la massima cura e siano effettuate le compattazioni intermedie, piccole bolle d’aria rimangono ancora intrappolate fra gli strati. Pur tuttavia, l’azione del sacco durante lo svolgimento del ciclo di polimerizzazione è più efficace in quanto la resina, resa più fluida dall’innalzamento della temperatura, consente una veicolazione migliore all’aria. Al pari delle bolle d’aria, anche le sostanze volatili contribuiscono ad aumentare il contenuto di vuoti nel laminato. A differenza dell’aria però esse non possono essere evacuate neppure parzialmente dalle compattazioni intermedie in quanto sono intrappolate dalla resina a livello intralaminare. L’aumento di fluidità durante le prime fasi del ciclo di polimerizzazione ed il processo stesso di reticolazione della resina liberano queste sostanze che possono così fuoriuscire dal laminato ed essere aspirate. Tali sostanze volatili possono essere residui di solventi utilizzati nella produzione della resina oppure di altre sostanze utilizzate nella fase di impregnazione delle fibre. Il terzo compito del sacco da vuoto è quello di contribuire all’adesione fra le lamine. L’azione aspirante del sacco produce un flusso di resina, dallo stampo verso la superficie esterna, attraverso lo spessore del laminato.

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Figura 37.27 – Schema di un centro di laminazione integrato a più moduli.

Figura 37.28 – Immagini dell’Integrated Laminating Center dell’Air Force americana.

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Figura 37.29 – Schema di un tipico sacco da vuoto per la polimerizzazione dei laminati in composito.

La fluidità della resina ancora una volta facilita questo flusso. Come risultato è favorita l’azione adesiva della resina fra gli strati e si creano forti legami interlaminari. La Figura 37.29 illustra un tipico sacco da vuoto. Esso è costituito da differenti strati di materiali di consumo ognuno dei quali assolve un ben determinato compito. In ordine di deposizione, partendo dalla superficie superiore del laminato, si ha: 1) Peel-ply. Tessuto di vetro che conferisce alla

superficie superiore del laminato la rugosità ottimale per successivi incollaggi ed effettua azione protettiva di tale superficie. Disponibile in differenti grammature e spessori;

2) Film separatore microforato. Film in PTFE® che consente la separazione dal laminato di tutte le pellicole costituenti il sacco; i microfori consentono il passaggio della resina in eccesso, dell’aria e delle sostanze volatili che fuoriescono dal laminato durante il processo di polimerizzazione. Le dimensioni e la spaziatura dei microfori determinano la quantità di resina che può fluire dalla superficie del laminato e, conseguentemente, influenzano il contenuto di fibre nel manufatto finale. In assenza di microfori è possibile evitare completamente la perdita di resina. Spessore 0,05mm;

3) Bleeder. Materassino in poliestere, fibra di vetro o cotone atto ad assorbire la resina in eccesso che fuoriesce dal laminato. La conformazione del materiale è tale da avere elevate capacità di assorbimento e da evitare la completa chiusura di tutti i pori per effetto della pressione applicata. In funzione della grammatura e dello spessore

possibile ottenere differenti livelli di assorbimento. Anche in questo caso la scelta della tipologia e della quantità di bleeder da utilizzare dipende dal contenuto di resina che è richiesto al manufatto finale.

4) Barrier. Film in PTFE® o materiale antiaderente non poroso per consentire la separazione tra bleeder e breather e facilitare l’apertura del sacco e la rimozione del laminato dallo stesso a polimerizzazione avvenuta.

5) Breather. Simile al bleeder ma con maggiore porosità ha la funzione di distribuire uniformemente il vuoto in tutto il sacco. Funziona come una membrana osmotica permettendo la fuoriuscita di aria e sostanze volatili. Assolve anche il compito di evitare che pieghe e difetti di giacitura del sacco da vuoto possano essere trasferite al laminato sottostante. Una funzione ulteriore è quella di proteggere il film con cui viene realizzato il sacco da vuoto da eventuali spigoli dello stampo che potrebbero causare rotture accidentali. Per laminati sottili o basso contenuto di resina è talvolta possibile utilizzare esclusivamente il bleeder (che agisce in tal caso anche da breather).

6) Sacco da vuoto. Film polimerico, tipicamente nylon, fortemente espandibile per potersi conformare facilmente all’assieme stampo-laminato-altri materiali di consumo sottostante. Per cicli di polimerizzazione ad alte temperature (superiori ai 200°C) si utilizzano film di poly-imide (Kapton®). Al sacco da vuoto sono applicate anche le valvole che permettono la fuoriuscita dell’aria e di tutte le sostanze volatili. Grazie all’azione del breather è generalmente possibile avere un solo punto di aspirazione.

Per sigillare il sacco da vuoto allo stampo viene utilizzata della comune plastilina. Essa è un materiale polimerico in

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forma di nastro con un livello di appiccicosità tale da consentire l’adesione fra le parti. Il sacco da vuoto è dotato infine di trasduttori di temperatura e prese di pressione per il controllo in retroazione del ciclo di polimerizzazione. Una o più termocoppie vengono distribuite all’interno del sacco direttamente a contatto del laminato. Esse sono fatte fuoriuscire attraverso il nastro di sigillante. Le prese di pressione, al pari dei punti di aspirazione, sono realizzate mediante l’applicazione al sacco di una o più valvole.

Figura 37.30 – Sacco da vuoto chiuso e pronto per essere messo in autoclave.

Talvolta, perifericamente al laminato, vengono posizionate delle dighe contenitive (dam) con la duplice funzione di limitare la fuoriuscita di resina e bloccare la possibilità di movimento alle fibre (sia il movimento intralaminare sia quello relativo fra le lamine. Questo fenomeno è accentuato nella polimerizzazione di laminati UD con disposizione prevalente delle lamine in una direzione e si manifesta soprattutto nelle fasi iniziali del ciclo di polimerizzazione allorquando la resina diventa estremamente fluida.

Figura 37.31 – Posizionamento di dighe all’interno del sacco da vuoto.

Esse possono essere parte integrante dello stampo oppure possono essere realizzate direttamente attorno al laminato utilizzando barre metalliche o di PTFE

oppure sovrapponendo più strisce elastomeriche (neoprene, silicone) espandibili (Figura 37.31). Un problema tipico che si riscontra nei processi per laminazione in stampo aperto è quello di riuscire a replicare eventuali spigoli presenti nello stampo. Questo problema dipende principalmente da due fattori. Il primo fattore è il livello di drappabilità delle lamine; il secondo fattore è quello che viene denominato “effetto ponte” del sacco da vuoto. I casi illustrati in Figura 37.32 illustrano gli effetti di questi due fattori sia nel caso di spigolo esterno (a) sia nel caso di spigolo interno (b). Per ridurre questi effetti vengono utilizzati materiali elastomerici che, posizionati sopra il laminato in corrispondenza dello spigolo, agiscono durante il ciclo di polimerizzazione come distributori ed intensificatori di pressione grazie alle loro elevate caratteristiche di formabilità ed espandibilità termica. La Figura 37.33 mostra il posizionamento di un nastro elastomerico (intensifier pressure strip) in corrispondenza di uno spigolo interno.

(a) (b)

Figura 37.32 – Problemi di drappabilità del prepreg.

E’ facilmente intuibile dalla figura che in caso di assenza del nastro il sacco da vuoto non riuscirebbe ad aderire perfettamente al laminato e a compattarlo (come se il sacco fosse “corto”). Questo è l’effetto ponte per il quale si forma un’area sottostante al sacco che non permette la compattazione in corrispondenza dello spigolo. La presenza del nastro riempie tale area ed annulla quest’effetto. Diversamente, l’effetto dovuto alla drappabilità del prepreg è più difficilmente eliminabile. Pur utilizzando gli intensificatori elastomerici, spesso si ottengono laminati con difetti di forma non accettabili. Nella maggior parte dei casi è preferibile eliminare il problema alla radice progettando e disegnando il componente senza spigoli vivi. In genere è’ sufficiente imporre un piccolo raggio di curvatura (dell’ordine di alcuni mm) al laminato (ovvero allo stampo). La dimensione minima di tali raggi di curvatura dipende dalla drappabilità del materiale, dalla sua grammatura, dall’orientazione e dalla dimensione delle fibre (se disposte perpendicolarmente allo spigolo entra in gioco la rigidezza flessionale delle stesse).

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Figura 37.33 – Problemi di effetto ponte del sacco da vuoto in corrispondenza di uno spigolo interno e posizionamento di un nastro intensificatore di sforzo.

In Figura 37.34 è illustrata la tecnica per realizzare delle variazioni di spessore nel laminato. Al fine di non introdurre forti concentrazioni di sforzo che potrebbero far superare gli ammissibili del materiale tale variazione di spessore viene in genere introdotta gradualmente attraverso una zona di rastremazione realizzata direttamente in fase di laminazione. Nel caso in figura lo spessore si dimezza passando da 52 lamine a 28. La metà delle lamine totali dunque si interrompe (ply drop-off). Poiché in corrispondenza dell’interruzione di ogni singola lamina si ha una zona localizzata a forte concentrazione di sforzi si può limitare questo effetto distribuendo lungo lo spessore le lamine che si interrompono (ply drop-off distribuito).

Figura 37.34 – Tecnica per la variazione di spessore in un laminato (Ply drop-off delle lamine interne).

37.2.3 La polimerizzazione La polimerizzazione è la fase che conferisce al laminato le sue caratteristiche finali. Perché ciò avvenga è necessario agire contemporaneamente su due parametri: temperatura e pressione. E’ noto dal capitolo 32 che la resina dei preimpregnati (tipicamente resina epossidica) sia già catalizzata e quindi il processo di polimerizzazione sia già

innescato. L’innalzamento della temperatura favorisce tuttavia la reticolazione sia accelerando il processo sia conferendo alla resina caratteristiche e prestazioni superiori. Per ogni sistema di resina esiste un ciclo di polimerizzazione ottimale (ed una corrispondente temperatura di polimerizzazione) che permette di ottenere la reticolazione completa della resina e, conseguentemente, le caratteristiche fisiche e meccaniche migliori. Ciò tuttavia non è sufficiente. Perché la resina esibisca caratteristiche meccaniche elevate è infatti necessario ridurne anche il contenuto di vuoti. Per comprendere l’importanza di questa affermazione basti pensare che la resistenza a taglio interlaminare (Interlaminar Shear Strength), che è una caratteristica del laminato governata essenzialmente dalla fase matrice, si riduce del 7% per ogni 1% di contenuto di vuoti.

(a)

(b)

Figura 37.35 – Contenuto di vuoti in due campioni di resina ottenuti con (a) e senza (b) il sacco da vuoto.

L’evacuazione di bolle d’aria e di tutte le sostanze volatili può essere ottenuta efficientemente con l’azione combinata di una pressione esterna (al sacco), che preme il laminato contro lo stampo, e della depressione esercitata

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TECNOLOGIE E MATERIALI AEROSPAZIALI – Ver. 01 CAP. 37 – TECNOLOGIE DI FORMATURA IN PRESSA, IN FORNO ED IN AUTOCLAVE CON SACCO DA VUOTO

Materiale didattico per uso personale degli studenti. Non è consentito l’uso di questo materiale a scopo di lucro. E’ vietato utilizzare dati, informazioni e immagini presenti nel testo senza autorizzazione. Copyright Dipartimento Ingegneria Aerospaziale - Legge Italiana sul Copyright 22.04.1941 n. 633.

G. Sala, L. Di Landro, A. Airoldi, P. Bettini 18 Dipartimento di Ingegneria Aerospaziale – Politecnico di Milano

dal sacco da vuoto. La pressione esterna amplifica infatti l’azione del sacco ottenendo un laminato con un livello di compattazione più elevato. L’effetto benefico di ciò è ben evidente nei laminati spessi in cui la sola azione del vuoto non è sufficiente a generare una soddisfacente adesione interlaminare. Di contro la resistenza a taglio può essere aumentata del 20% se alla pressione esterna si sovrappone l’azione del sacco. Affermata l’importanza di conferire una certa pressione esterna al laminato durante la sua polimerizzazione l’impianto tipicamente utilizzato allo scopo è l’autoclave.

37.2.3.1 La polimerizzazione in autoclave L’autoclave è essenzialmente un serbatoio in pressione in cui è possibile variare la temperatura e la pressione nonché il vuoto all’interno del sacco. Con questo tipo di impianto il laminato viene sottoposto ad un ciclo di polimerizzazione in temperatura mentre contemporaneamente agisce su di esso uno stato di pressione idrostatico. Il punto di forza dell’autoclave sta proprio nella possibilità di esercitare uno stato di pressione idrostatico. Questa sollecitazione fa sì che sul laminato agisca uno stato di sforzo che è in ciascun punto diretto come la normale del laminato in quel punto. E’ verificata la condizione migliore per la compattazione delle lamine. Conseguenza di ciò, ed è il motivo principale per il quale la formatura in autoclave è la tecnologia più utilizzata in ambito aerospaziale, si ottengono dai manufatti le caratteristiche meccaniche migliori rispetto a quanto ottenibile con altre tecnologie. Affinché il ciclo in autoclave sia eseguito correttamente è necessario garantire l’isolamento tra il volume interno al sacco da vuoto e l’atmosfera esterna pressurizzata. Questo compito è assolto dal sacco da vuoto indipendentemente dal livello di depressione creato. Se non ci fosse questa separazione la pressione idrostatica sarebbe per definizione presente ovunque e quindi anche all’interno del laminato (ovvero fra lamina e lamina) con il risultato che non agirebbe nessuna differenza di pressione e quindi non si avrebbe nessuna compattazione. In altre parole a compattare il laminato è la differenza di pressione che si crea fra l’esterno e l’interno del sacco; se viene a mancare questa differenza di pressione le lamine sono in equilibrio e non vengono spinte contro la superficie dello stampo. Nell’autoclave dunque, il sacco da vuoto ha una funzione fondamentale che va oltre i compiti propri già discussi al paragrafo precedente: senza il sacco non è possibile effettuare la compattazione. Le dimensioni della camera interna e le specifiche operative dell’impianto sono completamente customizzabili. Spesso vengono dimensionate e costruite in funzione del componente che deve essere prodotto come mostra la Figura 37.36.

(a)

(b)

Figura 37.36 - Dimensionamento dell’autoclave in funzione del componente da produrre: pale di elicotteri (a) e componenti della struttura primaria di velivoli di grandi dimensioni (b).

Le autoclavi di grandi dimensioni sono dotate di un sistema di movimentazione motorizzato per introdurre ed estrarre il componente da polimerizzare. Le autoclavi per compositi a matrice termoindurente tipicamente hanno range operativi fino a 200°C di temperatura max. e 10bar di pressione. Ciò consente di contenere i costi di capitalizzazione rispetto agli impianti in uso per i termoplastici che richiedono temperature e pressioni di esercizio superiori (tipicamente doppie) e conseguentemente tecnologie costruttive più performanti. Ciononostante i costi rimangono molto alti. Su di essi c’è inoltre un’influenza sempre maggiore delle norme di sicurezza. Unitamente al suo basso rateo produttivo ciò rappresenta il suo principale svantaggio perché diventa difficile ammortizzare gli investimenti iniziali. Nel costo ciclo non è peraltro trascurabile il costo del materiale di consumo necessario per la realizzazione del sacco da vuoto. Per ridurre parzialmente il costo ciclo è comunque possibile polimerizzare contemporaneamente più componenti (aventi ovviamente lo stesso ciclo di polimerizzazione) tramite più sacchi essendo la camera dotata di più linee del vuoto.

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Un altro aspetto che riduce i costi ciclo è l’esecuzione di cicli di co-curing. Con tale termine sono identificati tutti quei cicli durante i quali l’incollaggio di due o più componenti in composito è effettuata contemporaneamente alla loro polimerizzazione. Perché ciò sia possibile anche in questo le temperature e le pressioni di polimerizzazione dei prepreg e dei film di adesivo devono essere compatibili. A fronte dei costi così elevati rimane però il fatto che le prestazioni meccaniche dei manufatti che si ottengono con questa tecnologia sono difficilmente ottenibili altrimenti. Nei cicli standard la camera dell’autoclave è pressurizzata con aria. Essendo tuttavia la reticolazione un processo fortemente esotermico con possibilità di autocombustione del materiale in taluni casi è preferibile l’utilizzo di gas inerti che non possano alimentare (a differenza dell’aria), eventuali principi di combustione. I fattori che possono determinare la necessità di utilizzare gas inerti (quali azoto o anidride carbonica) sono: x temperature di polimerizzazione delle resine

superiori ai 180°C; x inerzia termica degli stampi elevata; x spessori dei laminati da polimerizzare elevati. Se è evidente l’influenza dei primi due fattori non altrettanto chiara può esserlo quella del terzo. La pericolosità di avere elevati spessori risiede nel fatto che quando si innesca la reticolazione la parte più interna del laminato può subire un brusco riscaldamento (a causa della reazione esotermica) che non riesce ad essere controllato dal sistema. L’impianto di raffreddamento non è in tal caso sufficiente a contrastare il gradiente termico del nucleo del laminato e la reazione non è più controllata.

Figura 37.37 – Esterno dell’autoclave in dotazione ai Laboratori Scientifici del Dipartimento di Ingegneria Aerospaziale del Politecnico di Milano

In Figura 37.38 è mostrata l’autoclave in dotazione ai Laboratori Scientifici del Dipartimento di Ingegneria Aerospaziale del Politecnico di Milano.

Figura 37.38 – Interno dell’autoclave in dotazione ai Laboratori Scientifici del Dipartimento di Ingegneria Aerospaziale del Politecnico di Milano.

Essa ha una camera a chiusura rapida, in acciaio al carbonio, cilindrica e dotata di asse orizzontale. Le sue caratteristiche costruttive principali sono le seguenti: x Diametro interno: 1500 mm; x Diametro interno utile al netto della coibentazione:

1200 mm; x Altezza dal piano di carico alla generatrice superiore:

1000 mm; x Lunghezza interna utile: 2200 mm; x Lunghezza totale esterna: 4200 mm; x Pressione di esercizio: 15 bar; x Potenza max. riscaldatori: 125KW; x Temperatura di esercizio massima (aria): 450°C; x Gradiente max. di temperatura: 10°C/min. L’impianto è inoltre dotato di: x un fondo mobile con chiusura rapida a baionetta ad

anello rotante, incernierato al recipiente mediante bandiera laterale di supportazione: è completo di ingranaggi a leva e settore dentato per la manovra di rotazione del fondo stesso;

x due selle di appoggio in lamiera composta, atte a sopportare il peso dell’autoclave, il carrello porta materiale ed il materiale da polimerizzare;

x un binario interno in ferro profilato per lo scorrimento del carrello portamateriale;

x un dispositivo di sicurezza, una valvola antinfortunistica e di sicurezza secondo quanto imposto dalle norme di sicurezza;

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x coibentazione della superficie interna dell’autoclave, eseguita con materiale coibentante di spessore 150 mm, ricoperture in lamierino di ferro spessore 1 mm per il fasciame, e 3 mm per i fondi;

x verniciatura interna effettuata con alluminio per alte temperature;

x strumentazione automatica per comando, regolazione e registrazione autoclave, in particolare regolazione della temperatura, della pressione e del vuoto tramite microprocessore;

x una elettropompa per vuoto di tipo rotativo a palette metalliche silenziata secondo le norme;

x un compressore per il pompaggio dell’aria, silenziato secondo le norme;

x monitoraggio completo di allarmi sonde per la segnalazione della temperatura, trasmettitore di pressione per l’autoclave, trasmettitore di pressione per sacchi, trasmettitore a vuoto per lo stampo.

Come evidenziato in Figura 37.38 l’autoclave è costituita da due blocchi: il primo rappresentato dalla camera, dai compressori e da tutti gli impianti ancillari; il secondo da un quadro elettrico di comando che gestisce completamente l’intero impianto e dal quale è possibile impostare il ciclo desiderato, regolare i parametri con controllori PID (Proporzionale, Integrativo e Derivativo) in retroazione e registrare il segnale di tutte le sonde distribuite all’interno della camera. La Figura 37.39 mostra un tipico ciclo di polimerizzazione di una resina epossidica configurato per l’esecuzione in autoclave. Questi cicli sono generalmente forniti dal produttore del preimpregnato e dipendono essenzialmente dalle caratteristiche chimico-fisiche della resina e dalla bagnabilità del delle fibre di rinforzo.

Figura 37.39 – Tipico ciclo di polimerizzazione in autoclave per un composito a matrice epossidica.

Il primo passo per la definizione del ciclo di polimerizzazione ottimale è la determinazione sperimentale delle curve di viscosità e di gelificazione

della resina. Queste curve possono essere ottenute mediante spettroscopia dinamico meccanica effettuando delle scansioni tempo/temperatura dipendenti (Figure 37.40-42). Dall’analisi di queste curve, si può stabilire sia la temperatura di polimerizzazione, ovvero la temperatura di mantenimento a cui far avvenire la polimerizzazione del laminato, sia il rateo di temperatura nella fase di riscaldamento iniziale. In questo modo si definisce completamente il ciclo di temperatura (per la fase di raffreddamento il discorso è meno critico, generalmente si imposta un gradiente che consenta di mantenere un campo di temperatura uniforme all’interno del sacco (tipicamente 2÷3°C/min).

Figura 37.40 – Curva di viscosità di una resina epossidica standard.

Figura 37.41 – Curva di gelificazione per una resina epossidica standard.

Il passo successivo è la definizione del ciclo di pressione, che è funzione sia della bagnabilità delle fibre sia delle caratteristiche della resina. La determinazione del ciclo ottimale è per certi versi più difficoltosa e critica rispetto al ciclo di temperatura perché non c’è una procedura rigorosa da seguire ed è necessario sempre mettere a punto il ciclo attraverso prove sperimentali. A prescindere da ciò, la pressione è in stretta relazione con la viscosità ed il tempo di gelificazione della resina. E’ importante applicare la pressione quando la resina è ancora sufficientemente fluida per favorire la sua distribuzione nel laminato ed ottenere un buon grado di compattazione.

Ciclo di polimerizzazione

0

40

80

120

160

0 20 40 60 80 100 120 140 160 180Tempo [min]

Tem

pera

tura

[°C

]

-1,5

-1

-0,5

0

0,5

1

1,5

2

2,5

3

3,5

Pres

sion

e [b

ar]

Temperatura Pressione

Vuoto

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G. Sala, L. Di Landro, A. Airoldi, P. Bettini 21 Dipartimento di Ingegneria Aerospaziale – Politecnico di Milano

Figura 37.42 – Curve di viscosità ottenute per spettroscopia dinamico-meccanica.

L’ultimo passo è infine la definizione del ciclo del vuoto (è il termine tecnico con cui viene indicata la depressione esercitata all’interno del sacco da vuoto). Anche in questo caso è l’evidenza sperimentale a stabilire, sulla base della permeabilità dei preimpregnati, il livello di vuoto necessario a garantire

un determinato contenuto di vuoti nel laminato. Per i materiali standard può essere ritenuta sufficiente una depressione di circa 0.7bar. Osservando il ciclo indicato in Figura 37.39 si può notare che il vuoto non viene mantenuto per tutta la durata del ciclo di polimerizzazione. Ciò perché dopo che la resina ha raggiunto un livello di polimerizzazione prestabilito l’effetto del vuoto si riduce notevolmente e può essere ritenuto superfluo (nei cicli standard). In tal caso è possibile disattivare la linea del vuoto per preservare l’impianto.

37.2.3.2 La polimerizzazione in forno ed in pressa In alternativa all’autoclave, soprattutto per la polimerizzazione di componenti a cui non sono richieste prestazioni meccaniche particolarmente severe, è possibile utilizzare tecnologie meno costose. Fra queste, una delle più semplici è l’utilizzo del forno assistito da vuoto. In questo caso si può agire direttamente solo sulla temperatura e sul vuoto. La compattazione del laminato può avvenire in tal caso o per la sola azione del sacco da vuoto oppure mediante l’utilizzo di tooling appositi. Rimandando al capitolo 42 per una trattazione dettagliata di questi attrezzi, il concetto fondamentale sul quale si basano la maggior parte di questi è quello di promuovere una variazione di volume e o di forma degli stessi attraverso la quale esercitare una pressione sul laminato. Il caso più semplice è quello dei tooling elastomerici: essendo di materiale con elevato coefficiente di espansione termica, un mandrino siffatto può ad esempio essere utilizzato insieme ad uno stampo femmina per esercitare dall’interno una pressione (che prema il laminato contro lo stampo femmina) a seguito del riscaldamento di tutto l’assieme alla temperatura di polimerizzazione. Lo stesso effetto può essere ottenuto con altri generi di mandrini espandibili quali ad esempio le vesciche elastomeriche. Esse sono essenzialmente delle guaine che, utilizzate come mandrini, possono essere gonfiate con aria pressurizzata fino ad esercitare la pressione richiesta sulle pareti interne del laminato che, allo stesso modo del caso precedente, viene anche in questo caso premuto contro le pareti interne di uno stampo femmina. Sfruttando l’effetto opposto di quello degli attrezzi espandibili è possibile utilizzare coperture termoretraibili (tipicamente in forma di nastri o fogli) con cui rivestire l’assieme laminato-stampo maschio. L’innalzamento della temperatura provoca in questo caso una riduzione di dimensione della copertura che fa nascere uno stato di compressione che preme il laminato sullo stampo. Tra il termoretraibile ed il laminato si interpone generalmente una cartelletta flessibile, tipicamente di materiale metallico e opportunamente trattata con agente distaccante, per conferire al laminato una buona finitura superficiale.

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G. Sala, L. Di Landro, A. Airoldi, P. Bettini 22 Dipartimento di Ingegneria Aerospaziale – Politecnico di Milano

Essendo un impianto molto più semplice dell’autoclave, e conseguentemente anche molto più economico, la polimerizzazione in forno è largamente utilizzata, soprattutto se non è necessario garantire prestazioni meccaniche particolarmente elevate ai manufatti. Essa è inoltre una delle tecnologie ampliamente utilizzate per la produzione integrale di componenti di dimensioni non standard. Nel settore nautico è frequente la polimerizzazione di scafi in forni appositamente assemblati.

Figura 37.43 – Tipico forno industriale controllato con programmatore/regolatore PID.

La Figura 37.43 mostra un tipico forno industriale. Esso è costituito di una camera coibentata, un sistema di riscaldatori a resistenze dotato di agitatori interni per uniformare la temperatura, termocoppie per la misura della temperatura in più punti, linea del vuoto collegata ad una pompa e un sistema di controllo industriale PID. Non è presente un sistema di raffreddamento: i cicli terminano con una discesa non forzata della temperatura. Ciò che non ha peraltro nessun effetto negativo sulle prestazioni del manufatto. Unica conseguenza è la dilatazione dei tempi ciclo. L’assenza di un sistema di raffreddamento è peraltro abbastanza frequente nei forni industriali. Un’altra tecnologia alternativa all’autoclave ed utilizzabile per la produzione di pannelli piani e laminati con forme sufficientemente semplici è la pressa a piani riscaldati, che può essere assistita da vuoto oppure no. Mediante coppie di stampi e controstampi essa può essere impiegata per la produzione di manufatti di piccole dimensioni con sviluppo prevalente nel piano. Le presse si contraddistinguono per la possibilità di applicare una forza distribuita in direzione verticale. A differenza dell’autoclave, in cui la pressione è idrostatica, solamente la componente di tale forza agente in direzione normale alla superficie del

laminato, contribuisce alla sua compattazione. Nel caso di un pannello piano tutta la forza agisce in direzione normale (ovvero verticale) e quindi le differenze rispetto all’autoclave sono minime. Nel caso invece di un componente con forma più complessa non tutte le parti del laminato si compattano allo stesso modo. In questo caso le differenze rispetto all’autoclave possono essere sostanziali. E’ possibile che ci siano zone del laminato (aventi la normale orizzontale) sulle quali non agisce alcuna pressione di compattazione derivante dall’azione della pressa.

Figura 37.44 – Stampi per la produzione di componenti in composito mediante pressa a piani riscaldati.

Di seguito, a puro scopo esemplificativo, si descrive la pressa a piani riscaldati in dotazione al Dipartimento di Ingegneria Aerospaziale del Politecnico di Milano.

Figura 37.45 – Pressa a piani riscaldati in dotazione ai Laboratori Scientifici del Dipartimento di Ingegneria Aerospaziale del Politecnico di Milano.

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G. Sala, L. Di Landro, A. Airoldi, P. Bettini 23 Dipartimento di Ingegneria Aerospaziale – Politecnico di Milano

Essa presenta un’incastellatura a collo di cigno ed è del tipo ad un montante. Il piano inferiore è fissato rigidamente al telaio della macchina mentre quello superiore, vincolato meccanicamente al pistone idraulico, è in grado di muoversi verticalmente. Entrambi i piani sono costituiti dalla sovrapposizione di quattro piastre con funzioni specifiche e differenziate disposte come in Figura 37.46.

Figura 37.46 – Schema della pressa a piani riscaldati in dotazione ai Laboratori Scientifici del Dipartimento di Ingegneria Aerospaziale del Politecnico di Milano.

La piastra 1, in materiale refrattario, ha la funzione di isolare termicamente le piastre adiacenti dalla restante parte della macchina. La piastra 2, in lega d’alluminio, rappresenta di fatto lo scambiatore di calore del sistema di raffreddamento. Essa ha dei fori passanti che, opportunamente collegati, consentono il passaggio del fluido refrigerante. Analogamente la piastra 3, sempre in lega d’allumino, è deputata al riscaldamento dei laminati mediante 5 resistenze elettriche alloggiate all’interno. Infine la piastra 4 costituisce il piano d’appoggio del materiale o di un eventuale stampo. Sulla superficie a contatto con la piastra 3 vi sono delle scanalature che accolgono le termocoppie attraverso le quali viene rilevata la temperatura. Come tutte le presse idrauliche, la pressa è dotata di un impianto oleopneumatico che produce la forza meccanica agente sul laminato; la pressione del circuito è regolata da un’apposita valvola manuale e controllata da un manometro. Il sistema di riscaldamento è costituito da tre elementi principali: le resistenze, le termocoppie e le schede elettroniche di controllo. Ad ogni resistenza è associata una termocoppia che trasmette alla scheda corrispondente il valore di temperatura raggiunto. Questa scheda confronta la misura col valore di temperatura impostato dall’operatore (mediante un pannello di controllo) e regola l’intensità di corrente nella resistenza.

Il sistema di raffreddamento è costituito più semplicemente da due scambiatori di calore e dalle tubazioni che collegano gli stessi all’impianto idrico esterno. Si ottiene un raffreddamento forzato con acqua a temperatura ambiente. Opportune valvole consentono di aprire e chiudere il circuito. E’ da notare che i due piani (superiore e inferiore) hanno masse diverse, inerzia termica diverse e quindi gradienti di temperatura diversi. Ciò è dovuto essenzialmente allo spessore aggiunto alla base del piano inferiore per consentire la chiusura a pacco delle piastre al fine di produrre anche laminati molto sottili. L’ultima osservazione riguarda il ciclo di raffreddamento. Per come è strutturato l’impianto non è possibile regolare il rateo di discesa della temperatura che tuttavia può essere controllato mediante le termocoppie del sistema di riscaldamento.

37.2.4 Produzione di un componente mediante tecnologia di formatura in autoclave

Molto sinteticamente, si riassumono di seguito i passi che guidano la produzione di un componente in composito mediante tecnologia di formatura in autoclave. 1) Taglio

1.1) Rimozione prepreg dal freezer e attesa scongelamento 1.2) Preparazione dime per il taglio manuale mediante cutter su

tavolo da taglio 1.3) Taglio e numerazione lamine secondo la manufacturing

chart

2) Pulitura superficie stampo mediante acetone o MEK (metiletilketone)

3) Laminazione 3.1) Applicazione agente distaccante su superficie stampo 3.2) Deposizione peel-ply (opzionale) 3.3) Stratificazione laminato

3.3.1) Ripetere i passi da a per tutte le lamine 3.3.2) Rimozione pellicola protettiva dalla lamina e

spunta su manufacturing chart (MC) 3.3.3) Deposizione lamina sullo stampo e spunta su MC 3.3.4) Compattazione singola lamina ed evacuazione

aria mediante squeezing roller 3.3.5) Rimozione pellicola protettiva superiore dalla

lamina e spunta su MC 3.4) Compattazioni intermedie ogni 4-5 lamine mediante sacco

da vuoto elastomerico 3.5) Preparazione sacco da vuoto

3.5.1) Deposizione peel-ply (opzionale) 3.5.2) Film separatore microforato 3.5.3) Bleeder 3.5.4) Barrier 3.5.5) Breather

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3.6) Posizionamento termocoppie 3.7) Posizionamento plastilina 3.8) Posizionamento sacco da vuoto 3.9) Chiusura sacco 3.10) Applicazione valvole

4) Polimerizzazione 4.1) Introduzione sacco nell’autoclave 4.2) Connessione trasduttori 4.3) Inserimento parametri ciclo di polimerizzazione 4.4) Esecuzione ciclo

5) Apertura sacco e rimozione laminato 6) Contornatura laminato 7) Rimozione peel-ply (opzionale)

Bibliografia

[1] A. Brent Strong:

“Fundamentals of Composites Manufacturing, Materials, Methods, and Applications”, 2nd Edition.

Society of Manufacturing Engineers, 2009

[2] Lubin, G.:

“Handbook of Composites”

Van Nostrand Reinhold Company, New York, 1982.

[3] Mazumdar, S.K.:

“Composites Manufacturing” CRC Press, Boca Raton, 2002

[4] VV. AA. :

“Composites” ASM International, Metals Park – Ohio, 1987