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3.1.5/1 3.1.5. GIULIETTA E ROMEO 180 Raffaello de Rensis, Conversando con Zandonai - In attesa di “Giulietta e Romeo”, «Il Messaggero», 31.1.1922 - p. 3 col. 1-2-3 Il maestro Zandonai un po’ sbuffante, un po’ sudante, ma dall’aria abbastanza soddisfatta se ne discendeva, nel pomeriggio di ieri, per via Nazionale. Io che non sbuffavo, non sudavo, né avevo l’aria soddisfatta non essendovi alcuna ragione per tutto ciò, me ne salivo per la stessa via. Era dunque inevitabile che c’incontrassimo, anzi che quasi ci battessimo muso contro muso. Era anche inevitabile che io gli domandassi: -Maestro, e Giulietta? -Giulietta? sta bene in salute, ha mosso or i primi passi e, per quanto mi abbia già fatto molto sbuffare e sudare, son soddisfatto. Esco in questo momento dal Costanzi, ove s’è iniziata la lettura in orchestra. -E l’orchestra incontra le solite difficoltà delle sue pensose e nutrite partiture? -Affatto! Questa mia ultima partitura è semplice, spontanea, rapida, come semplice, spontaneo e rapido è l’amore di Giulietta e Romeo. Niente acrobatismi strumentali, come ne ho fatti per il passato e come ne han fatto e fanno tutti i giovani musicisti italiani timorosi di apparire ignoranti. La dottrina armonica e strumentale della quale ci siamo impossessati, siccome era nostro dovere per non diminuire al confronto degli stranieri, ci era necessaria come il pane, anche a costo di soffocare un po’ della nostra natia ispirazione e di essere tacciati di esotismo e di servilismo. Ma ora che tutti i ferri del mestiere sono nelle nostre mani, occorre servirsene per un unico grande scopo, per un unico luminoso miraggio: quello di ricercare noi stessi, esprimere noi stessi, rievocare la nostra arte gloriosa, esaltare la nostra musica immortale, cantare con la nostra ugola privilegiata, gridare col nostro cuore pulsante e generoso. -Sicché Giulietta canta? Romeo canta? -Ecco, il carattere della mia opera, s’io non erro, e come il pubblico sentirà e giudicherà, è predominantemente vocale nel senso che l’eloquio dei personaggi e specie dei due infelicissimi amanti si sviluppa in un’onda melodica chiarissima e di facile percezione e, m’auguro, di facile comunicativa. Io non sono stato premuto o afflitto da alcuna preoccupazione di scienza o di sistemi, mi sono abbandonato totalmente, ciecamente... -... nelle braccia di Giulietta... -... no, a me stesso e al mio animo e mi sono immedesimato nella sublime passione dei giovanetti veronesi sino a gioire, a soffrire... e starei per dire, a morire con essi. Ho cercato di penetrare la natura del soggetto essenzialmente lirico, ingenuo, puro, che non ammette complicazioni intellettuali od esibizionismi tecnici, ho creato intorno ai leggendari amanti un’atmosfera appropriata, assai diversa dall’ambiente e dal colore locale e storico della Francesca, di cui l’amore sensuale torbido, fatale, contorto m’induceva alla ricerca psicologica paziente e minuziosa. In una parola, quel processo interiore di semplificazione a cui tendo, e credo dimostrato chiaramente nella successione delle mie opere, coincide e meglio si adatta e più saldamente si afferma nella Giulietta. -Sicché niente indagini storiche, nessuna riproduzione di ambiente, nessun elemento di luogo e di tempo?

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3.1.5. GIULIETTA E ROMEO

180 Raffaello de Rensis, Conversando con Zandonai - In attesa di “Giulietta e Romeo”, «Il Messaggero», 31.1.1922 - p. 3 col. 1-2-3

Il maestro Zandonai un po’ sbuffante, un po’ sudante, ma dall’aria abbastanza soddisfatta

se ne discendeva, nel pomeriggio di ieri, per via Nazionale. Io che non sbuffavo, non sudavo, né avevo l’aria soddisfatta non essendovi alcuna ragione per tutto ciò, me ne salivo per la stessa via. Era dunque inevitabile che c’incontrassimo, anzi che quasi ci battessimo muso contro muso. Era anche inevitabile che io gli domandassi:

-Maestro, e Giulietta? -Giulietta? sta bene in salute, ha mosso or i primi passi e, per quanto mi abbia già fatto

molto sbuffare e sudare, son soddisfatto. Esco in questo momento dal Costanzi, ove s’è iniziata la lettura in orchestra.

-E l’orchestra incontra le solite difficoltà delle sue pensose e nutrite partiture? -Affatto! Questa mia ultima partitura è semplice, spontanea, rapida, come semplice,

spontaneo e rapido è l’amore di Giulietta e Romeo. Niente acrobatismi strumentali, come ne ho fatti per il passato e come ne han fatto e fanno tutti i giovani musicisti italiani timorosi di apparire ignoranti. La dottrina armonica e strumentale della quale ci siamo impossessati, siccome era nostro dovere per non diminuire al confronto degli stranieri, ci era necessaria come il pane, anche a costo di soffocare un po’ della nostra natia ispirazione e di essere tacciati di esotismo e di servilismo. Ma ora che tutti i ferri del mestiere sono nelle nostre mani, occorre servirsene per un unico grande scopo, per un unico luminoso miraggio: quello di ricercare noi stessi, esprimere noi stessi, rievocare la nostra arte gloriosa, esaltare la nostra musica immortale, cantare con la nostra ugola privilegiata, gridare col nostro cuore pulsante e generoso.

-Sicché Giulietta canta? Romeo canta? -Ecco, il carattere della mia opera, s’io non erro, e come il pubblico sentirà e giudicherà, è

predominantemente vocale nel senso che l’eloquio dei personaggi e specie dei due infelicissimi amanti si sviluppa in un’onda melodica chiarissima e di facile percezione e, m’auguro, di facile comunicativa. Io non sono stato premuto o afflitto da alcuna preoccupazione di scienza o di sistemi, mi sono abbandonato totalmente, ciecamente...

-... nelle braccia di Giulietta... -... no, a me stesso e al mio animo e mi sono immedesimato nella sublime passione dei

giovanetti veronesi sino a gioire, a soffrire... e starei per dire, a morire con essi. Ho cercato di penetrare la natura del soggetto essenzialmente lirico, ingenuo, puro, che non ammette complicazioni intellettuali od esibizionismi tecnici, ho creato intorno ai leggendari amanti un’atmosfera appropriata, assai diversa dall’ambiente e dal colore locale e storico della Francesca, di cui l’amore sensuale torbido, fatale, contorto m’induceva alla ricerca psicologica paziente e minuziosa.

In una parola, quel processo interiore di semplificazione a cui tendo, e credo dimostrato chiaramente nella successione delle mie opere, coincide e meglio si adatta e più saldamente si afferma nella Giulietta.

-Sicché niente indagini storiche, nessuna riproduzione di ambiente, nessun elemento di luogo e di tempo?

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-Precisamente, ed in questo concetto ho tenuto conto di uno schietto consiglio di Gabriele d’Annunzio a proposito della Francesca: ho pensato e scritto tutto da me, senza ricorrere a pergamene e ad archivi. L’amore di Giulietta è l’amore di tutti i tempi, è la glorificazione dell’amore grande, illimitato e ripudia elementi che ne fissino l’epoca e la terra: è l’amore sublime che può nascere soltanto sul suolo italiano, sotto il nostro sole come i fiori più belli.

In Conchita sì, ho fatto del vero e proprio ambiente, recandomi in Spagna, frequentando strade, campagne, osterie, fermandomi lunghe ore nei baile (una specie di caffè concerti) e cogliendo impressioni musicali autentiche e notando canzoni caratteristiche e ritmi speciali; ma in Giulietta, tranne alcuni episodi indispensabili allo sfondo, ogni nota è sgorgata dal mio essere. Sono stato preso irresistibilmente da un fervore lirico e sentimentale che investe e impregna anche i passaggi sinfonici, anche l’intermezzo che descrive la cavalcata febbrile di Romeo tra pioggie e fulmini.

-E dica maestro, il libretto che è la piaga perenne e sanguinante del moderno teatro di musica, l’ha favorito pienamente questo suo concetto?

-Sì, posso dirlo con vero compiacimento. Io da moltissimi anni accarezzavo l’idea di una Giulietta, la quale, sebbene trasportata in musica da innumerevoli autori sino a Gounod, mi sembrava che reclamasse la sua schietta voce, il suo schietto cuore; ma le difficoltà del libretto mi fece[ro] rimandare il disegno: finché nel Rossato ho trovato il collaboratore ideale, il collaboratore non librettista di professione, che sentisse l’atto subietto nella sua nuda bellezza e che questa rendesse senza perplessità e senza schiavitù di formalismi.

Arturo Rossato è un nome quasi nuovo al gran pubblico, ma egli oltre a contare al suo attivo alcune applaudite commedie in dialetto veneto, vari volumi di liriche e di prose (il suo più recente volume di novelle, L’amore che ride, va incontrando fortuna) è anche noto nel giornalismo milanese come un polemista formidabile. Inoltre ha composto un libretto tratto dalla Tempesta di Shakespeare per il maestro Lattuada ed ha condotto a termine la riduzione della Bisbetica domata.

-Anche per Giulietta, come i suoi innumerevoli predecessori, ha ricorso al poeta inglese? -No, vivaddio, il Rossato, com’era appunto mio desiderio, ha attinto direttamente alle

fresche e abbondanti fonti della novellistica italiana, e precisamente a Luigi da Porto e a Matteo Bandello, allontanandosi perciò dalla complessa e non sempre felice ricostruzione dello Shakespeare e avvicinandosi, nei limiti delle necessità sceniche, alla tradizione, che è tanto gentile e seducente.

-Mi vuol narrare brevemente, maestro, la trama del libretto del Rossato? Ciò dicendo, essendomi accorto che ormai Zandonai, così parco di parole, mi aveva offerto, contro la sua e la mia stessa volontà, sufficiente materia per una intervista, lo trassi lievemente in un caffè, gli porsi elegantemente una sedia e cominciai: siamo a Verona verso il 1300...

-Già, ed anche a Mantova, per poi tornare a Verona. -Il primo atto è, al solito, un atto di preparazione... -Già, ma ci conduce anche nel centro della tragedia con una zuffa tra Capuleti e

Montecchi, con uno scontro tra Tebaldo, il cugino di Giulietta, e un giovine mascherato, che è poi Romeo, e con una romantica scena d’amore sotto gli argentei raggi della luna. I due leggendari innamorati, l’uno nella strada e l’altra sul balcone, intrecciano il dolce dialogo di ogni notte...

Il maestro trae di tasca una gualcitissima bozza del libretto e legge: GIULIETTA - Anima mia, che fate solo in quest’ora? ROMEO - Quel che vuole amore! GIULIETTA - Pavento...

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ROMEO - Deh! Bel fioretto. Non datevi pena per la mia vita! I vostri occhi soavi valgono più di cento spade. E morrei, morrei starne lontano, ch’essi sono il mio dolce sacramento!

Ma il maestro chiude d’un tratto e d’un colpo le stampe, s’alza e dice: Ma dove andiamo a

finire. Ho fretta, ho fame e mia moglie mi attende... -Giustamente. L’accompagnerò e mi dirà quel che accade dopo il duetto. -Accade che Romeo dà la scalata al balcone e imprime un ardente bacio sulle labbra di

Giulietta. -E l’atto non potrebbe chiudersi più lietamente. -Al secondo atto siamo in un giardino di casa Capuleti. Giulietta con l’amica Isabella

ascolta un cantatore che passa per la via. Poi si fa il gioco bizzarro del Torchio. Entra in iscena il focoso Tebaldo. Duello con Romeo che trovavasi colà nascosto, ed uccisione di Tebaldo. Le genti sono in tumulto. Romeo, abbracciata Giulietta, fugge.

Il terzo atto s’apre sopra una vivace e pittoresca scena in Mantova, dove è bandito Romeo. Un Cantastorie racconta la morte di Madonna Giulietta Capuleto, avvenuta poco prima del suo maritaggio col Conte di Lodrone. Romeo ascolta, getta un urlo, lo afferra per il petto singhiozzando, interrogando, lamentando. Indi ingroppa il destriero e sotto una bufera infernale (l’intermezzo) corre verso Verona. Giunge al chiostro ove giace il corpo di Giulietta “con le mani in croce sul petto”; tenta invano di forzare la cancellata, finché disperato ingoia un veleno che porta seco. Giulietta, che aveva presa la bevanda “che assopisce come morta”, si desta, scorge Romeo che geme e si getta folle e bianca tra le sue braccia. Romeo muore e Giulietta, reggendo il capo di lui, affranta ma rasserenata, si spegne anch’essa.

Tutto d’un fiato ha parlato Zandonai, conchiudendo con un sospiro: e pare che basti. -Sì, maestro, ne ho abbastanza, e la lascio libero. Eravamo già dinanzi al portone dell’albergo e l’ho salutato col rituale romano: in bocca al

lupo!

181 Tristano, Le prime indiscrezioni su “Giulietta e Romeo” di Zandonai al Teatro Costanzi - In una sala del “Costanzi” - Zandonai al piano - «Urla, tempesta!» - Il duetto d’amore - Il lamento del “Cantatore”, «Il Giornale d’Italia», 1.2.1922 - p. 3, col. 3-4-5 (con un ritratto fotografico di Zandonai in una cornice ovale)

Sabato, alle ore 17, nella gran sala di prova al pianoforte al Teatro “Costanzi”, il maestro

Zandonai è da oltre un’ora seduto al pianoforte, circondato dagli interpreti ch’egli ha prescelto per la sua nuova opera Giulietta e Romeo, che Roma dovrà, verso il 10 di febbraio, tenere a battesimo.

Ormai il “Costanzi” novera nella sua storia pagine che illustrano simili avvenimenti d’arte. Quante opere dal 1890 – dall’epoca cioè in cui la musica teatrale si ridestò con un palpito di rinascente vita all’ombra di Verdi, intento nonostante gli ottant’anni a comporre il Falstaff, l’ultimo sorriso di una verde vecchiezza – quante opere dal 1890 a questa di Zandonai, che sta sciogliendo i primi vagiti, non si sono avvicendate sotto l’arcoscenico dello Sfrondini?

Cavalleria Rusticana segnò il primo squillo di tromba. E sorse così la cosidetta giovane scuola: Mascagni, Puccini, Giordano, Franchetti, Leoncavallo, Cilea, Luporini...

E dopo Cavalleria la storia del “Costanzi” nota: Amico Fritz, Tosca, Iris, Le Maschere, La Fanciulla del West (se di questa non si voglia tener conto della première al “Metropolitan” di New York), Il Piccolo Marat, per non accennare che alle opere più insigni.

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Adesso è la volta di Giulietta e Romeo, che giunge dopo quella Francesca da Rimini che ha posto nella pubblica estimazione Riccardo Zandonai in prima fila.

Nella sala del “Costanzi”, dunque, nessuno tenta parlare. Parla per tutti il pianoforte attraverso le mani animatrici di Zandonai, parlano all’autore gl’interpreti della sua nuova opera con gli accenti delle agili voci. Perfino Carlo Clausetti – che per la Casa Ricordi è già sulla piazza, vigile, autorevole sentinella – si tace, nonostante la sua facondia e il suo spirito di acuto sottile osservatore e di aspro critico. Egli gode della nuova musica come me. Un editore trasformato per l’occasione in... statua di carne. Emma Carelli non resiste alla consegna del silenzio – e la voce del... cantor è sempre la stessa. Ella va su e giù per la sala, dando qualche consiglio a questo e a quel comprimario.

Zandonai è instancabile. È da due ore che sta al piano e non se ne allontanerà che fra due ore.

Il 3° atto della Giulietta volge alla fine. “Romeo”, pardon, il tenore Fleta, in abiti da passeggio, in ispregio dei costumi del ‘300,

ancora in custodia nei ben chiusi bauli, canta: Urla tempesta - sii tu il mio cuor dannato! Zandonai ha eseguito con le concitate mani, i capelli in disordine, gli occhi accesi, poco

prima del grido di schianto del tenore, la “Cavalcata di Romeo”, un pezzo orchestrale che fa da intermezzo fra l’un quadro e l’altro onde è diviso l’ultimo atto. È una pagina... Ma non è possibile riprodurre nessuna impressione. Zandonai non consente indiscrezioni.

Ma Clausetti, che ha meno responsabilità del musicista, ci svela... il mistero della scena con la quale si conclude la nuova opera.

«Allo schiudersi del velario – è stato detto – dopo l’intermezzo (testé eseguito) siamo nel piccolo chiostro del convento veronese. Sul fondo, a traverso le arcate, si vede il giardino. Da un lato, dopo gli archi, si avanza la cappella dei Capuleti, chiusa dal fitto cancello di ferro: è illuminata da una lampada e, nell’interno, sopra l’arca coperta di veli e di fiori, si intravvede il corpo disteso di Giulietta, con le mani sul petto. Dorme ella insepolta l’ultima sua notte e all’alba sarà rinchiusa nell’arca.

«Ma prima dell’alba giunge Romeo. Tenta invano lo sventurato di forzare la cancellata, invano chiama la triste sposa; disperato del suo destino tracanna il veleno che ha con sé e si appoggia lì presso in attesa della morte. Giulietta apre in quella gli occhi smarriti dal letargo: scorge Romeo che geme, apre il cancello e si getta folle e bianca fra le sue braccia, mentre l’alba già illumina il cielo e fa sentire dall’esterno le sue prime voci. Ma il veleno compie la sua opera e Romeo cade in preda al delirio. Giulietta, reggendo nel grembo il capo di lui, invoca Romeo e, affranta ma rassegnata in quella mistica aurora, si spegne sul corpo dello sposo».

E la musica? Ascolterà e giudicherà il pubblico fra poche sere. Roma non si è mai ingannata, ed ha una buona preparazione in materia. L’errare humanum est è un aforisma che non gli appartiene.

Gilda Dalla Rizza, che creerà la parte di “Giulietta”, canta al suo “Romeo”:

Con te, con te, sempre con te passare pura e soave nell’eternità e come le campane, alto, gridare il tuo bel nome per l’immensità Romeo! Romeo! Romeo!

E, come un’eco, un canto liturgico, voci dal chiostro:

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Luce di Dio, sorridi ai vivi e ai morti! E si conforti nostra suora vita...

Un contrasto musicale si disegna netto: le voci degli amanti, la voce del chiostro. Pausa. Zandonai si tace. Gilda Dalla Rizza interloquisce e svela al Maestro la intima

impressione prodotta dalla commossa voce della sua sensibilità, così come ella è riuscita a far sua questa nuova anima canora. E il tenore Fleta gesticola, soddisfatto, articolando monosillabi, a gioia repressa degli squillanti acuti che ha dispensato con munifica signorilità in tutto il 3° atto.

Zandonai sorride. Par quasi che, ricordando l’estate trascorsa a Sacco, nella ridente Val di Loppio presso Rovereto, egli rinnovi a sé stesso la gioia quando in una giornata di sole pose fine alla sua opera.

Questo 3° atto è nato nelle giornate torride dell’agosto. Ed è balzato fuori dalla fantasia dell’artista in un lampo di genialità. Perché... Ma non è lecito dir nulla sulla musica.

Zandonai è di nuovo dinanzi al piano. E inizia il 1° atto. Il baritono Maugeri – che il pubblico ha ammirato vigoroso “Gianciotto” nella Francesca

al “Costanzi”, canta... È “Tebaldo”, il Capuleto, una figura cupa. È stato detto qualcosa su questo 1° atto. Tebaldo Capuleto entra in scena e si unisce ad un gruppo di dame mascherate, con cui

motteggia, per recarsi alla festa, non senza aver prima ammonito i suoi dell’osteria di far buona guardia perché ha sospetto che un “falconello” di parte avversa si aggiri con segreto fine intorno al palazzo.

La brigata dei Montecchi, avvinazzata, esce ora dall’osteria con la donna, intonando una canzonaccia; alcuni dei Capuleti se ne risentono, li affrontano. La zuffa si appicca fra le due parti, si dà mano alle spade, già corrono botte, quando un giovane cavaliere mascherato sbuca dal vicolo del ponte, si getta di sorpresa fra i contendenti, li divide, li rampogna; ma egli si trova subito di fronte Tebaldo che un Capuleto è corso a chiamare in palazzo. Tebaldo raccozza la sua gente ed impone allo sconosciuto di levarsi la maschera: questi non si svela ma tenta di placare l’avversario; gli animi invece si esasperano e, sotto l’incitamento di Tebaldo, il quale, facile all’ira, sfida il mascherato – che gli resiste calmo ed inerme, solo invocando la pace – si rimette mano dalle due parti alle spade che più furiosamente s’incrociano. In quella però ecco accorrere un Capuleto gridando che sta per giungere la scolta; chi vien preso con l’armi in pugno è bandito: fuggite, fuggite! Le due fazioni si sbandano confusamente, anche Tebaldo è tratto via. Solo il giovane cavaliere mascherato si cela dietro le colonne di un portico, mentre la scolta, guidata dal banditore, traversa la piazza al passo cadenzato del tamburo.

E dopo? Ma non è l’ora di riassumere adesso il libretto. Zandonai prosegue nella “prova”. Ed eccoci al duetto d’amore. Si scioglie la melodia in bocca a “Giulietta”:

Parlate piano... E “Romeo”:

Piano, che tu sola, tu sola, oda, Giulietta: La notte è piena e il dì tanto lontano.

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E “Giulietta”:

Tanto lontano! Ma cinguetterà la lodoletta, ma la triste aurora dalla mie braccia ti ritoglierà, ed io qui rimarrò, tacita e sola, e invan ti chiamerà l’anima mia.

E “Romeo”:

Io ti illuminerò come un’aurora, e perché viva o mora, con teco lascerò l’anima mia...

Sono ormai trascorse quattro ore di prova. È tempo di dare riposo agli artisti e – perché

no? – all’autore. Zandonai parla di Shakespeare e s’intrattiene a discorrere con una foga meridionale, egli

ch’è un trentino, della leggenda dei due giovanissimi amanti veronesi. E mostra di conoscere e di aver meditate tutte le opere di poesia e di musica inspirate alla tragedia shakespeariana.

Nessuno ignora che abbiamo su questo tema circa venti melodrammi e tutti nati nell’800. Felice Romani scrisse tre libretti su “Giulietta”, uno dei quali musicato da Bellini. Ma non uno di questi melodrammi resisté alle ingiurie del tempo. Neppure Bellini riuscì a trarsi dall’oblio che pesò su Giulietta e Romeo.

Forse per questo Zandonai parve invogliarsi con maggior fervore a musicarne le vicende. È un atto di audacia, senza dubbio, ma ormai pure per la Francesca, divenuta popolare e fra i più bei melodrammi della nostra epoca, egli ha sfidato il destino e lo ha debellato. Perché egli non ignorava che dell’episodio dantesco prima di lui s’invaghirono e vi si cimentarono con vana fatica parecchi operisti.

Tutti i libretti di Giulietta e Romeo, fino al più recente, quello del Gounod, presero le mosse dalla tragedia di Shakespeare, riducendola, adattandola più o meno alle varie esigenze della scena lirica; ma il librettista di Zandonai, Arturo Rossato – il noto valente scrittore – ha preferito attingere direttamente alle fonti novellistiche italiane, prediligendo la novella quasi ignorata del vicentino Luigi Da Porto – il poeta più ornato di Vicenza cinquecentesca – che fu il primo cantore della leggenda di Giulietta e Romeo.

Perciò i tre atti del dramma musicato da Zandonai non si avvicinano all’azione scenica di Shakespeare se non negli episodi divenuti tradizionali, derivati anch’essi dalla novellistica italiana e senza dei quali il dramma non sarebbe più quello amato e conosciuto dal nostro popolo.

La nuova opera, dunque, è in tre atti e l’ultimo atto in due quadri. L’azione, che si svolge nel 1300 a Verona e in uno dei quadri a Mantova, è riassunta da tre personaggi principali: Giulietta Capuleto, Romeo Montecchio e il cugino di Giulietta, Tebaldo, l’impetuoso giovane di parte capuleta, quale fu tramandato dalla leggenda. Tra le poche figure secondarie spicca quella di un “Cantatore” medievale, che appare nel primo quadro del 3° atto a Mantova.

V’è, infatti, nell’opera di Zandonai un lamento del “Cantatore” che musicalmente... Ieri, intanto, Zandonai ha iniziato le prove in orchestra. La sala al buio era deserta: nessun

indiscreto.

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Fra cinque o sei giorni cominceranno le prove con gli artisti di canto. E Gilda Dalla Rizza, il tenore Fleta, il baritono Maugeri, la Ricci, la Donati, la Rettori [sic], la Bortolasi, La Torelli, il tenore Nardi, il tenore Palai sono in attesa di passare dalla sala di prova al pianoforte sul palcoscenico.

182 A[driano] Belli, Ad una prova di “Giulietta e Romeo” di Riccardo Zandonai, «Il Corriere d’Italia», 11.2.1922 - p. 3, col. 1-2-3-4 (con la riproduzione di due bozzetti: quello dell’Atto I e quello dell’Atto III, scena IIa

Sul palcoscenico del Teatro Costanzi. Un’atmosfera di penombra rotta solo da brevi zone

luminose. Giù dall’orchestra sale un’onda sonora che avvolge e commenta un dialogato drammaticissimo tra il tenore (Fleta) e il baritono (Maugeri). Mi fermo un istante per domandare. È il duetto tra “Tebaldo” e il “Mascherato” al primo atto. Affretto il passo, per quanto lo consentano cumoli di attrezzi, corde, “pezzati”, scene...

Il duetto d’amore

Per la breve scaletta sono in platea. È quasi deserta. Qua e là veggo qualche collega, e poi Nicola D’Atri, Clausetti, Giacompol, e l’inseparabile amico di Zandonai, Pizzini.

... Un rullo di tamburri. È la scolta che passa. Poco dopo s’inizia il duetto tra Romeo e Giulietta. Esso si divide in due parti. La seconda si svolge su nell’alto balcone, dopo che la fanciulla cedendo alle appassionate istanze scioglie e getta all’amato la scala di seta. Le melodie si svolgono nel pretto stile caratteristico dello Zandonai, qui più libero e chiaro. La scena d’amore culmina con un lungo bacio dei due innamorati. La chiusa dell’atto è piena di suggestione con le campane del mattutino. L’alba comincia a colorare il cielo, i due si sciolgono dal dolce lunghissimo bacio, e Romeo discende e si allontana mentre in lontananza passa come una folata di vento una canzone:

...e mi voria cambiarme al cor in vento per vegnir pian pianelo stamatina la to’ boca a basar!...

I professori d’orchestra applaudono con la caratteristica battuta dell’archetto sui leggii.

Non è il caso di anticipare giudizi e fare previsioni, ma certo questo finale è di una perfetta teatralità, anche musicale.

È il riposo. Tutti si sparpagliano qua e là. Zandonai, piccolo, irrequieto, dagli occhi vivacissimi, non si concede però tregua. Domanda se i tali effetti risultano bene; dà suggerimenti, fa dei segni a delle parti, e non bada a sé stesso che, sudato, potrebbe infreddarsi. Ma la sua gentile signora è sempre lì pronta a coprirgli le spalle con la pelliccia.

Mi avvicino al Maestro. -È giunto ora? -No, ho inteso tutto il duetto. -Le piace? Risulta bene? crede che incontrerà il favore del pubblico? -Glie l’auguro di cuore... -Ho scritto come sempre con grande sincerità. In questa opera più ancora che in Francesca

ho voluto scrivere della musica chiara, molto chiara. Non ho voluto perdermi in ricerche di colore e di dettagli che allentassero la mia foga. I personaggi cantano sempre. Le parti di

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Romeo e di Giulietta sono tutte un cantare. E anche nei recitativi ho desiderato seguire la scuola italiana, riportandomi modernizzandole alle gloriose tradizioni del nostro melodramma. L’orchestra è semplice e chiara, e non deve mai sopraffare le voci, ma aiutarle a meglio farsi intendere.

Il libretto

-E del libretto è contento? -Molto. Il Rossato ha fatto un vero e grande libretto da teatro. Da moltissimo tempo

carezzavo l’idea di musicare questo soggetto, ma volevo qualche cosa di nuovo che si allontanasse dalla tragedia shakespeariana, e nulla mi accontentava. Arturo Rossato ha compreso il mio pensiero e, messo da parte Shakespeare, si è rivolto alla novellistica nostra e specie alla novella cinquecentesca di Luigi Da Porto, che pur non avendo un gran valore letterario è così poeticamente suggestiva e così ricca di elementi drammatici. Dalle umili pagine del piccolo racconto del novelliere vicentino, e da quelle più vive e più calde di vita e di poesia che Matteo Bandello scrisse intorno alla pietosa storia degli infelici amanti veronesi, il mio librettista ha tratto la trama per l’opera.

-Quanti personaggi? -Pochissimi: “Giulietta Capuleto” che sarà un soprano: la Dalla Rizza; “Romeo di

Montecchio”, un tenore: il Fleta, e il cugino di Giulietta: Tebaldo, un baritono: il Maugeri. Due parti secondarie: “Isabella” ancella di Giulietta, e il “Cantastorie” e poi il coro: capuleti, montecchi, fanti, maschere.

-L’opera è in tre atti. -Di cui l’ultimo è diviso in due quadri collegati tra loro da un brano sinfonico. -Un intermezzo? -Sullo spartito così l’editore ha voluto chiamarlo, e... chiamiamolo pure così; ma esso non

è un brano staccato: esso s’innesta nell’ultima scena che lo precede e non ha carattere descrittivo. Questo tengo a mettere in chiaro. Niente “cavalcata”, niente “temporale”: la tempesta è tutta interiore; è la tempesta che s’agita nel cuore di Romeo, mentre disperato corre verso Verona a rivedere la donna adorata di cui gli è stata annunciata la morte.

Ora poi lo sentirà.

La sveglia delle rondine [sic] -L’opera le è costata molto lavoro? -L’ho scritta tutta di getto, preso dalla bellezza del libretto e dall’alta e commovente

poesia. Ebbi il copione a fine giugno 1920 e scrissi subito in pochi giorni il primo atto. Poi sospesi dovendo dirigere Francesca in molte città, tra le quali Napoli e Palermo. Scrissi il secondo atto nell’aprile 1921 in venticinque giorni. Poi, come sa, caddi malato e tanto gravemente che credevo proprio che il sogno vagheggiato da tanto tempo non si potesse realizzare. Nell’agosto mi recai, ancora sofferente, a Sacco di Rovereto e lassù nel mio romitaggio, di fronte alle Alpi, strumentai i due atti, quasi con frenesia.

Sull’alba, alle tre e mezzo, una rondine – e non è mancata mai – veniva a poggiarsi su di uno sporto della mia finestra e mi svegliava col suo cinguettio. Allora mi sollevavo sui cuscini e cominciavo a scrivere pagine su pagine di partitura senza alcun sentimento. Appena finita la convalescenza ho scritto e istrumentato il terzo atto.

-La sorte le è stata benigna... -Voglio bene a quest’opera cresciuta per il mio conforto, tra i dolori del male che mi

affliggeva. E le voglio bene perché mi ha portato fortuna e mi ha ridato completa la salute... -Come le darà nuova gloria artistica...

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-Grazie. Creda che nel comporre questa Giulietta ho trovato una grande gioia. Ho trovato in questo amore così bello e sublime un respiro ampio, una freschezza deliziosa e mi sono lasciato trasportare...

-Il lavoro è dedicato?... –A Nicola D’Atri: all’Uomo che quando ero sconosciuto mi ha con grande cuore sorretto e

simpaticamente incoraggiato; ed ha lottato per me e mi ha voluto e mi vuole veramente bene. Era dunque un doveroso atto di gratitudine e di ammirazione.

L’intermezzo

È finito il riposo e i professori vanno riprendendo i loro posti. -La saluto. Che vuole, con tutti i contratti di lavoro, e la Federazione, la prova è misurata

col... tassametro. Deve finire alle ore 14.40, non un minuto di più, altrimenti, se passa quell’istante, guai! Cinque minuti di più di conversazione con lei costerebbero... biglietti da mille!

-Mi raccomando! – interrompe la signora Carelli, che sopraggiunge preoccupata con l’orologio alla mano.

Zandonai corre verso l’orchestra. Un colpo secco sul leggio e il disarmonico stridìo degli istrumenti che s’accordano cessa d’incanto.

-Dalla fine del terzo atto: il n. 26, dice ad alta voce, richiamando il segno della partitura... Romeo a Mantova, dove era in esilio dopo aver ucciso in un duello Tebaldo, viene a sapere

da un Cantastorie che la sua Giulietta è morta. Sconvolto, fa insellare un cavallo e, urlando e piangendo, si precipita verso Verona, mentre infuria la tempesta.

È il brano di cui parlava poco prima il maestro. L’orchestra accompagna Romeo che va nella disperazione, col volto percosso dalle criniere e dal vento e gli occhi ciechi per lo scroscio e per il pianto. Galoppa per vie e per borghi, per viottole e pei campi, riempiendo della sua anima e del suo grido la bufera: «Giulietta» urla il suo cuore. «Giulietta» ulula il vento. «Giulietta! Giulietta!» romba il tuono. «Giulietta mia, morta» gridano disperatamente il cielo e la terra. E l’orchestra prosegue mentre, da lontano, il coro, con una vera trovata, grida la disperazione di Romeo «Giulietta mia, morta!». Poi a poco a poco la furia si placa e il cielo tace.

Lo Zandonai, che è un formidabile concertatore, dirige il grande brano in modo magnifico.

L’epilogo L’epilogo è breve. Romeo invoca inutilmente la sua diletta che sta immobile con le braccia

in croce, e ignorando che Giulietta ha preso un narcotico e giace in letargo, trae il veleno e lo beve. Poco dopo Giulietta si desta, scorge il suo amore, apre il cancello della Cappella e si getta su Romeo. Ma troppo tardi. Il giovane non vuol credere che la donna amata sia viva, e il delirio lo prende. Giulietta gli dice le più dolci parole, ma egli quasi più le intende. Allora disperata si trafigge a morte con lo stesso pugnale di Romeo. Due soli nomi risuonano e si ripetono: «Romeo», «Giulietta», mentre dal vicino Chiostro si alza una preghiera

Per ogni creatura affaticata per frate vento che spegne le stelle alba di Dio, luce di Dio... laudata

Sorge il giorno. I due innamorati giacciono ora nel sole: le campane e le voci si spandono

festose e la vita sorride sulla morte; con la sua giovinezza sempre uguale ed eterna... ..................................................................................................

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La prova con l’orchestra è terminata; ma il lavoro di preparazione non ha tregua. Dei servi di palcoscenico spingono un pianoforte verso la ribalta e i maestri Ricci e

Santini, veramente infaticabili, son pronti per le prove di scena, a cui, con grande amore e competenza, si dedica il comm. Cauletti [sic], régisseur magnifico e insuperabile.

E mentre mi allontano, le prove proseguono con grande fervore nella penombra armoniosa del palcoscenico del Teatro Costanzi, per preparare a Giulietta e Romeo la sua ora di splendore...

183 F[rancesco] P[aolo] Mulè, Nell’imminenza della “Giulietta e Romeo” di Riccardo Zandonai, «Il Mondo», 12.2.1922 - p. 3, col. 2-3-4-5-6-7 (con la riproduzione di sette bozzetti di Pietro Stroppa raffiguranti i quattro quadri scenici e i personaggi di Romeo, Giulietta e Tebaldo)

Di Riccardo Zandonai nulla oggi diremo: il pubblico sa attraverso quale severa

preparazione egli è pervenuto agli ardui cimenti del teatro, dove la Conchita specialmente, e con la Francesca da Rimini, che è indubbiamente un organismo di suoni di mirabile unità, egli ha conseguito due significative vittorie conquistando un posto d’onore ma insieme di responsabilità fra i compositori della così detta giovine scuola italiana. Nessuna reminiscenza né del Mascagni, né del Puccini: Riccardo Zandonai anela ad essere non altri che se stesso. Se stesso, ma nella tradizione di casa nostra, e bisogna dargliene lode. Senza essere un ingenuo e tanto meno un improvvisatore privo d’una coscienza estetica, non si è tormentato né si tormenta intorno al problema del dramma musicale. Reca nell’anima un suo nativo mondo di suoni e ne costruisce, spontaneo, drammi musicali che non si dilungano dai suoi modelli prediletti; modelli, del resto, prediletti anche dal pubblico e che resteranno con immutabile decoro nella storia del melodramma.

Alla vigilia della nuova battaglia auguriamo a Riccardo Zandonai quella piena vittoria che è anche nei voti del pubblico, che in lui vede, oggi e per domani, una forza genuina e promettitrice del nostro brancolante teatro lirico.

Il libretto di Arturo Rossato

Del libretto di Arturo Rossato non faremo un vero e proprio cenno critico. Qualche impressione soltanto. Un libretto come tanti altri, che oggi del resto vanno per la maggiore, che offre al musicista “situazioni interessanti” e nel quale si notano qua e là tutt’altro che trascurabili intenzioni letterarie. L’argomento, in verità, è tale... Non sappiamo, anzi, capire la ragione per la quale il Rossato sia uscito dal folto della lirica di amore e di dolore che Guglielmo Shakespeare gettò a piene mani nelle scene più belle e possenti della tragedia immortale. Attenendosi alle fonti italiane, svestendo cioè la tragedia fino a renderla, pur con le immagini di cui l’ha infiorata, un nudo fatto di cronaca, ha creduto di rendere un servigio al musicista? Se ciò il librettista ha pensato, ci dispiace dovere da lui dissentire. Ha costretto invece il maestro a spiccare il suo volo giù, dal piano, mentre questi poteva immediatamente essere trasportato sui vertici eccelsi del lirismo e intonarsi – come il Zandonai ha mostrato di saper fare – a quella, già poeticamente realizzata, atmosfera d’imagini profonde e sovrane. Ciò non toglie però che Riccardo Zandonai, il quale è anche un appassionato... alpinista, non abbia potuto compiere per conto suo la salita dell’erta faticosa collocando il dramma dei due sventurati giovani all’altezza dove lo aveva lanciato per l’eternità l’ala formidabile di Guglielmo Shakespeare e dove è necessario rivederlo perché ci si renda riconoscibile. Il

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melodramma, il dramma musicale, tutto sommato, è, per la natura stessa della musica, successione di stati d’animo travagliosamente lirici.

Diremo ancora che i personaggi principali – Romeo, Giulietta, Tebaldo – son troppo generici, non recano cioè i segni della loro specifica umanità – ciò che rende più ardua la fatica del maestro – e che Tebaldo, del quale forse il Rossato volle rendere il carattere, è – tra i Capuleti e i Montecchi – una figura psicologicamente arbitraria, un cugino da... bassifondi sociali addirittura. Arturo Rossato può confortarsi pensando che i tanti libretti tratti dalla tragedia shakespeariana non sono affatto migliori del suo, e in ciò potrebbe magari avere ragione; a noi premeva dire che, anche dopo questo amorevole tentativo, un libretto d’opera sulla Giulietta e Romeo è ancora da farsi. A meno – e lo auguriamo di cuore – che la musica di Riccardo Zandonai non sia tale da farne passare la voglia a poeti e a musicisti.

[segue una minuziosa analisi del libretto, atto per atto]

184 [senza titolo], «Il Giornale d’Italia», 14.2.1922 - p. 3, col. 1-2-3-4-5 (il giornale riproduce su 5 colonne le due pagine dello spartito di Giulietta e Romeo corrispondenti al “Lamento del Cantatore”)

[...] Domani sera, dunque, al Costanzi avrà luogo la prima rappresentazione della nuova attesa

opera di Riccardo Zandonai, Giulietta e Romeo. Giulietta e Romeo avrà a interpreti principali, sotto la direzione dell’illustre autore, Gilda

Dalla Rizza, il tenore Fleta, il baritono Maugeri. Le altre parti sono affidate alla Ricci, alla Donati, alla Bertolasi, alla Rettori [sic], al Nardi, al Pellegrino, al Fiore e al Palai.

Ma prima che l’opera discopra i ... veli, il Giornale d’Italia è lieto di offrire ai suoi lettori una primizia.

** Il “lamento del Cantatore” è una limpida gemma del nuovo spartito di Riccardo Zandonai.

Per cortesia dei commendatori Clausetti e Valcarenghi, gerenti della Casa editrice Ricordi, noi possiamo riprodurlo in questa pagina e offrirlo come una primizia di Giulietta e Romeo ai nostri lettori, tra cui gli appassionati di musica e gli ammiratori di Zandonai sono una folla. Essi ci saranno grati di poter pregustare al pianoforte un brano dell’opera. E il brano, uno fra i tanti dello spartito, darà loro un’idea delle semplici e commosse melodie che il casto amore di Giulietta ha inspirate al potente e geniale musicista che seppe esprimere la torbida passione della Francesca d’annunziana.

Nel libretto – in cui il poeta Arturo Rossato ha, si può dirlo, felicemente inquadrata la leggenda dei due giovanissimi amanti veronesi – il “Cantatore” appare, in principio del terzo atto, durante una sagra festosa in Mantova, dove si trova Romeo Montecchio, bandito per aver ucciso in duello Tebaldo il Capuleto. Secondo l’uso del tempo, i cantatori erranti recavano di luogo in luogo le notizie che raccoglievano lungo la strada. E in quel giorno di sagra a Mantova, un cantatore, incitato a cantare, dice, sotto forma di strofa intonata sul liuto, l’ultima novella da lui appresa sulla strada di Verona, ma prima avverte che la novella è triste e il suo canto sembrerà quasi “un lontano pianto”.

Così Romeo, che è confuso tra la folla in piazza, apprende inaspettatamente che Giulietta è morta.

Riportiamo qui la strofa del “Cantatore” che è in versi veneti:

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Done, piansì, ché Amor pianse in segreto. Quela ch’era cantà da ogni canzone e de Verona era il più bel fioreto, questa matina i l’à trovada in leto, con le do mane in crose sora el pèto, vestia de bianco come le Madone. Oi me! Piansì! Piansì, putele e done, che xe morta Giulieta Capuleto...

185 “Giulietta e Romeo” di Zandonai al Costanzi, «Il Tempo», 14.2.1922 - p. 3, col. 5-6

Questa sera, dunque, va in iscena al Costanzi la nuova opera di Riccardo Zandonai

Giulietta e Romeo su libretto di Arturo Rossato. L’attesa del mondo musicale – non italiano soltanto – è grande, febbrile. Al Costanzi si susseguono alacremente le prove di questo lavoro che, per la sua

complessità scenica e musicale, richiede cure minuziosissime. Con Giulietta e Romeo Riccardo Zandonai, pur proseguendo la linea ideale di Francesca

da Rimini, è voluto tornare, con bella audacia e con intendimenti moderni, alla forma del nostro melodramma tradizionale di carattere prettamente romantico. Auguriamo che a questo tentativo senza dubbio interessante possa arridere il più schietto successo.

L’autore del libretto è Arturo Rossato, il giovane scrittore che nello studio e nel silenzio procede diritto verso la sua fortuna. Dalle vivaci colonne del Popolo d’Italia che lo fecero noto sotto il nome di Arros, il giovane vicentino è passato all’operoso silenzio dell’arte per incontrare altre battaglie e per tentare altre vie faticose con la stessa fede e con lo stesso entusiasmo che lo avevano portato al giornalismo e alla guerra. Il suo primo libro fu precisamente un libro di guerra che ribocca di poesia pur essendo “atroce e forte” secondo la definizione di Ettore Ianni.

Seguirono dopo un anno il Cuore della strada e L’amore che ride, un volume di novelle fresche e liete che segnano un più vasto respiro e suscitarono il consenso e l’elogio del pubblico e della critica. E tutto ciò mentre la compagnia di Dario Niccodemi ha in prova Pinocchio innamorato, favola grottesca in tre atti scritta in collaborazione con Cavacchioli.

Giulietta e Romeo è il primo libretto di Arturo Rossato. Riproduciamo qui di seguito, per comodità del lettori, un largo sunto del libretto di

Giulietta e Romeo, che già pubblicammo alcune settimane orsono. [...]

186 “Giulietta e Romeo” di Riccardo Zandonai - Un grande avvenimento al “Costanzi”, «Musica» XVI/3, 15.2.1922 - p. 1, col. 1-2-3-4 (con foto di Zandonai, Dalla Rizza, Fleta, Maugeri)

La sera del 14 febbraio è andata in scena al “Costanzi” l’attesissima nuova opera che

Riccardo Zandonai è venuto costruendo negli ultimi due anni con indefesso appassionato

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lavoro. L’avvenimento così importante da aver richiamato a Roma i critici più in vista d’Italia e dell’Estero, deve essere messo in giusta luce dal nostro giornale.

Il libretto della nuova opera è stato scritto da Arturo Rossato che ha superato abilmente e felicemente la grande difficoltà della riduzione della tragedia Shakespeariana a trama per la musica. Egli è riuscito a sgombrare l’azione di molti personaggi secondari che, mantenuti, avrebbero resa prolissa e troppo diffusa l’azione. Lo sfondo d’ambiente lo ha ottenuto coi numerosi cori. Vediamo come si svolge il lavoro.

[segue il racconto dettagliato del libretto]

Tale la trama che il M.o Zandonai ha rivestito della sua bella musica: musica

straordinariamente drammatica ed espressiva: della quale ci riserbiamo di trattare più a lungo prossimamente. Per ora basti dire per cronaca che il successo è stato grandioso; il Maestro è stato evocato alla ribalta in complesso una ventina di volte oltre le altre con gl’interpreti principali: Gilda Dalla Rizza (Giulietta), Michele Fleta (Romeo), il baritono Maugeri (Tebaldo) e il Nardi (il Cantatore), pei quali ogni aggettivo è superfluo. L’orchestra diretta dallo stesso Autore. Le scene dello Stroppa ci parvero non bene intonate.

187 Alberto Gasco, Giulietta e Romeo del m. Zandonai - La prima rappresentazione al “Costanzi”, «La Tribuna», 16.2.1922 - p. 3, col. 1-2-3

Ancora oggidì, in una chiesa di Verona, si mostra ai pellegrini d’arte e d’amore la tomba di

Giulietta Capuleto. È un rozzo sarcofago di marmo rosso, privo di ceneri ma pieno di fiori secchi e di biglietti ornati di frasi assai sentimentali. Il Padovan, anni or sono, ne lesse alcuni: «Come te mia Giulietta, infelicissima anch’io» - «Hai avuto dei fiori sulla tua tomba: eccoti i miei» - «Come te bionda, come te disperata...». Ora, dopo che Arturo Rossato e Riccardo Zandonai hanno riacceso la simpatia della folla intorno all’eroina di una leggendaria passione, nuove coorti di amanti dogliosi correranno ad infiorare la tomba della veronese. C’è poi da scommettere che qualche collega italiano, mescolandosi alle vittime di Cupido, andrà furtivamente a mettere nell’arca funebre la scritta: «A Giulietta, ispiratrice di operisti, tormentatrice di critici musicali...»

Eccoci intanto alla fatica giornalistica che, in questo caso, assume press’a poco la dignità di missione estetica. Stimiamo opportuno dare preliminarmente la cronaca della serata e al tempo stesso qualche ragguaglio sui brani salienti dell’opera.

Folla enorme, splendore di eleganze, attesa vigile. All’apparire del maestro Zandonai sul podio, un applauso clamoroso, che attesta della fiducia del pubblico. Le prime scene interessano giustamente. Si nota la franchezza di mano del maestro nel tradurre in orchestra ogni dettaglio dell’azione teatrale, si nota la coloritura appropriata. La canzone Diavolo che ho d’intorno... apparisce, nella sua rudezza popolaresca, genialmente caratteristica.

L’episodio della zuffa tra i Capuleti e i Montecchi, resa con vigore genuino e quello del passaggio della scolta – su di un motivo di marcia funebre – piacciono chiaramente. Segue il magno duetto amoroso, il “duetto del verone”, quello che per le anime semplici costituisce l’unica ragion d’essere della nuova Giulietta e Romeo. La fantasia del musicista, eccitata beneficamente, dà vita a cantabili di fluidità piacevolissima. La melodia Ah, siete bello e mio! è tra le più felici di tutta la produzione dello Zandonai: il motivo che si determina alle parole L’alba che infiora di sue rose il dì... ha anch’esso una linea incisiva e ribocca di aristocratica

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affettuosità. Purtroppo, col procedere del colloquio, il tono lirico non s’eleva ma si sgonfia e diventa enfatico. Gli innamorati dimenticano di trovarsi in un luogo esposto a ogni agguato e, lungi dal bisbigliare – come fanno Pelléas e Mélisande in una situazione presso che identica – alzano la voce spensieratamente, giungendo a culmini spasmodici nell’“acme” Del nostro amor bearei...[?] È un miracolo che la città non si desti a tanto vociare e che la scolta non intervenga, dichiarando Romeo e Giulietta colpevoli di schiamazzi notturni e passibili di contravvenzione pecuniaria...

Comunque, a parte codesto difetto – non lieve –, la scena d’amore risulta attraente sia dal lato artistico che da quello teatrale. C’è dell’ispirazione vivida e dell’emozione. La chiusa dell’atto, con un effetto blando di campane e di canti interni, è quanto di meglio si possa desiderare. L’orchestra sente i brividi dell’alba e freme delicatamente. Bella visione di quiete mattutina dopo una notte di risse e di delirii sentimentali. Questo primo atto, che iersera si è chiuso con otto gioconde chiamate, supera nettamente gli altri: in esso Riccardo Zandonai ha dimostrato non solo bravura grande di drammaturgo ma cuore fervido di melodista.

Ben diverso deve essere il giudizio sul secondo atto dell’opera. La primavera dà fiori ai mandorli ma non motivi peregrini all’orchestra. Si procede con sufficiente nobiltà e non mancano, qua e là, le affermazioni di un maschio talento d’operista: però si attende invano quella parola che meriti di essere ricordata. L’esordio, con l’invocazione alla “felice stagione” e il duettino tra Giulietta e Romeo sono tuttavia da apprezzarsi. L’uditorio, pur senza dichiararsi entusiasta, applaude replicatamente gli interpreti e il maestro al calar della tela. Si contano sei chiamate. Il successo è confortante.

L’estro del compositore si riaccende alle scene iniziali dell’atto terzo. L’episodio del cantastorie ha un rilievo singolare. Specialmente la ripresa della tenerissima canzone: Done, piansì, che Amor pianse in segreto... mentre Romeo, appresa la novella della morte di Giulietta, singhiozza disperato e il cielo livido nel lontano orizzonte è squarciato da folgori, risulta suggestiva a tutta oltranza. Per contro, l’intermezzo sinfonico – la così detta “cavalcata di Romeo” – basato su di un motivo plastico, ritmato robustamente, affatica l’ascoltatore per l’insistenza diabolica del fortissimo: converrà che Riccardo Zandonai modifichi sostanzialmente la strumentazione di questo pezzo. Sembra che il compositore abbia voluto descrivere non la cavalcata di una sola persona ma la galoppata strepitosa di tremila ulani!

La scena finale del dramma ci riporta in un’atmosfera di pace triste e solenne. La melodia vocale riprende i suoi diritti. Prima di morire, Giulietta e Romeo ci dicono cose amabili: però la loro verbosità supera ogni limite ragionevole. L’agonia di Romeo si protrae dolorosamente, a causa della pessima qualità del veleno ch’egli ha bevuto. Il coro claustrale: Alba di Dio, luce di Dio, di per sé interessante, compie l’ingrato ufficio di ritardare ancora il compimento della tragedia. Un buon taglio metterà a posto ogni cosa.

Sebbene alquanto stanco, il pubblico iersera non ha lesinato i battimani all’illustre e simpatico Zandonai, finita l’opera. Abbiamo visto comparire alla ribalta il maestro sette o otto volte. I suoi nemici sono stati ridotti al silenzio dai molti, moltissimi che andavano a gara nel complimentarlo.

*** Nei corridoi, durante gli intervalli dello spettacolo, gli uomini in frak sputavano sentenze,

rammaricandosi di non avere la coda di Minosse per potersela ravvolgere intorno al corpo e render la sentenza definitiva.

-È un’altra Francesca da Rimini. Un eadem in idem inutile. -Finché non avremo dodici Francesche non saremo contenti... -C’è della stoffa che il tempo non consumerà. Broccato erto un dito... -Un po’ pesante, non vi pare?

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-Macché! Quanto basta appena per ripararsi dal freddo che ci viene d’oltralpe... -Si ritorna al melodramma! -Meglio un melodramma generoso che cento drammi musicali aridi come la sabbia del

Sahara! -Però... -Vada là. È musica italiana, scritta da un maestro che conosce il proprio mestiere

stupendamente. Discutiamola, ma rispettiamola! ***

Parole saggie, queste ultime. Ci proponiamo ora appunto di discutere Giulietta e Romeo, con tutta la deferenza che si deve a Riccardo Zandonai che in un breve giro d’anni ci ha dato sei opere, quale più quale meno riuscita, ma sempre composte secondo intendimenti d’arte buona e tutte ricche di eleganze armoniche e orchestrali. Giulietta – non lo si può nascondere – corteggia il melodramma assai più spesso che Conchita e Francesca. Probabilmente l’ombra del glorioso uomo di Busseto si aggirava nei pressi della casa dello Zandonai mentre egli andava febbrilmente improvvisando la musica della nuova opera. Accenti verdiani – alla maniera specialmente dell’Otello – echeggiano qua e là, tra l’una e l’altra zuffa dei Capuleti e dei Montecchi. La cosa non ci dispiace affatto. Riprendere la tradizione romantica per poi andare innanzi a modo proprio, giungendo per gradi sino all’originalità perfetta, può essere un saggio divisamento. L’epigonismo è odioso; ma chi, dopo aver ascoltato Giulietta e Romeo, volesse classificare lo Zandonai come un musicista prono dinanzi all’ [ ] dell’opera italiana, dimostrerebbe leggerezza ed anche stoltezza. E ricordiamo l’ammonimento di Nietsche [sic]: talvolta un artista fa un passo indietro per prepararsi a spiccare un gran salto in avanti. Del resto, i ritorni sono fatali nell’arte, su per giù come nella economia e nella politica. Anche il Piccolo Marat di Mascagni mostra un ripullulare di formule melodrammatiche perente. La pagina più alata dell’ultima produzione mascagnana è precisamente redatta con i criteri operistici d’un periodo che taluno credeva concluso e tramontato per sempre.

Dopo il Piccolo Marat, l’avvento di Giulietta e Romeo ha una significazione anche più precisa: si determina nell’arte lirica nostra un orientamento imprevisto: per non essere divelti dal patrio suolo, i compositori teatrali vanno abbrancandosi al tronco valido del melodramma ottocentesco. Non c’è da far querele né meraviglie. Del resto, se ciò può servire ad arrestare la progressiva snazionalizzazione della nostra musica, dobbiamo anzi dichiararci soddisfatti. Restiamo in attesa della prossima messe italica, che ci auguriamo sia tale da far sbiancare d’invidia i bagarini dei mercati musicali stranieri.

Non vorremmo tuttavia che le nostre parole traessero in inganno il lettore, rappresentandogli Giulietta e Romeo come una produzione vecchiotta, senza luci di ardimento. Diciamo subito, per dissipare ogni equivoco, che la nuova partitura di Riccardo Zandonai ha bellezze formali di modernità incontestabile. Strumentazione elaborata, armonizzazione saporosa, contrasti vividi, aspri talora. Il maestro signoreggia la compagine orchestrale e se ne serve a meraviglia. A un suo cenno si fa l’ombra più misteriosa; quando egli vuole i cento strumenti, trattati con perizia estrema, si fondono in un urlo che scuote sino all’imo chi ascolta; se poi si tratta di pingere un’alba lo Zandonai dispensa colori argentini freschissimi e sfumature rosee assolutamente paradisiache. Padronanza piena di tutti i mezzi tecnici; signorilità somma nell’usarne e, magari, nell’abusarne.

L’abuso si rileva nella sovrabbondanza degli episodi vocali e orchestrali violenti. La partitura troppo spesso è parossistica. Non solo l’iracondia di Tebaldo ma anche il lirismo amoroso di Giulietta e di Romeo dà luogo a gridi esorbitanti. Si poteva raggiungere un risultato drammatico uguale, se non maggiore, con mezzi più semplici: il Boris Godunow

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insegni. Come Pietro Mascagni in Isabeau e Parisina, lo Zandonai in Giulietta e Romeo canta l’odio e l’amore con voce intensa, persino stentorea. L’epoca trecentesca, ben lo sappiamo, non era leggiadra: si badava, allora, più al ferro che ai merletti. Ma una maggiore gentilezza, diciamo piuttosto discrezione, avrebbe giovato in qualche scena del lavoro. Le anime dei veronesi ci si appalesano tutte dilaniate da furiosi sentimenti. Il fuoco greco arde, inconsumabile, i cuori degli eroi di questa tragedia. In qualche momento si avverte un senso di soffocazione e vien la voglia di strillare: aria! aria! Troppo scarsi sono i silenzi riposanti. Pure, la virtù delle pause, nella musica drammatica, è grande: assai sovente anzi indescrivibile!

Noi pensiamo che lo Zandonai possa pur sempre riparare all’accennato inconveniente. Giulietta merita cure ulteriori. Alleggerita, arieggiata, essa acquisterà un reale potere di seduzione, sino a trionfare delle riserve di ogni critico. Qualche amputazione avverrà prontamente. Più difficile sarà poter incidere le vene ai congestionati personaggi dell’opera, compiendo un generoso salasso. Ma nessuna impresa, da chirurgo o da flebotoino, deve sembrare repellente ad un padre che voglia assicurare la vitalità alle proprie creature...

*** La consanguineità di Giulietta e di Francesca è chiara. Cresciute in ambienti somiglianti,

capaci di passioni ugualmente forti, nate ambedue per morire nel bacio di un uomo prode e fedele, la Capuleto e la sua maggiore sorella si esprimono presso a poco all’istesso modo, pur usando vocaboli in gran parte diversi. Senza dubbio, i rosai dei Malatesta, trapiantati sulle rive dell’Adige “che macina carne” hanno dato fiori di un colore porporino più cupo: ma il profumo è sempre quello. Altri penserà a rimproverare lo Zandonai per aver scelto un libretto che può dirsi un pendant di quello della Francesca: noi non consentiamo nel rimprovero. L’artista deve essere anzitutto onesto. Orbene lo Zandonai, preso da irruente amore per Giulietta, avrebbe commesso una colpa grave andando a genuflettersi ai piedi di un’altra dama. Il pericolo di cadere in ripetizioni non ha spaventato il maestro: la gioia di esser sincero lo ha reso alacre. In effetto, la sincerità traluce da ogni parte della nuova opera. E se talora il musicista si abbandona alla voluttà di cantare a perdifiato, ciò deriva precisamente dal suo proposito di montrer son cœur à nu e di esprimersi senza ritegno, senza ambagi, seguendo l’impulso del momento. Ove la schiettezza rifulge, il giudice non deve atteggiarsi a severità inflessibile. Quanto al libretto di Arturo Rossato, d’una italianità cristallina, d’una grazia verbale insolita, nessuno potrebbe disconoscerne i pregi. Ci sono manchevolezze ed anche ingenuità: ad esempio, l’atteggiamento dei famigliari dei Capuleti che, dopo l’uccisione di Tebaldo, guardano il morto senza preoccuparsi di acciuffare l’omicida che sta lì, a quattro passi di distanza. Tuttavia, nell’insieme, la tragedia, innestata direttamente sulla novella del Da Porto, svela una dignità propria, notevolissima. E poi l’argomento, per quanto sfruttato, riesce sempre squisitamente dilettoso.

For never was a story of more woe than this of Juliet and her Romeo.

«Non ci fu mai una storia di maggior dolore di questa di Giulietta e Romeo». Storia – o

leggenda – che vivrà sinché la poesia non avrà esulato per sempre dal cuore degli uomini. Abbiamo detto del successo che ha arriso al lavoro, al successo che crediamo destinato a

crescere qualora la partitura venga resa più snella. Ci resta soltanto, ora, da parlare brevemente dell’esecuzione, che in complesso è stata degna di alto encomio.

Non si sarebbe potuto pretendere di più da Gilda Dalla Rizza, sulla quale gravava il peso di una parte spossante. Come già nelle vesti di “Francesca”, in quella di “Giulietta” l’artista si è

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mossa con una distinzione ammirevole insegnando alle sue colleghe in arte il modo di contemperare la correttezza con la passionalità più profonda. Ella sembrava, iersera, una principessa bella e trepidante. Nel duetto d’amore del primo atto e nella scena conclusiva dell’opera, le malie del suo canto hanno conquiso ogni ascoltatore. La vittoria della infaticabile cantatrice è stata decisiva.

Traendo sussidio dalla sua voce ampia, resistente e a volte estremamente carezzevole, il tenore Michele Fleta ha saputo essere un “Romeo” degno di tanta “Giulietta”. Il valore dell’interprete è stato riconosciuto esplicitamente dall’assemblea elettissima nel brano di dolorosa esaltazione al terzo atto: gli acuti squillanti del Fleta hanno dominato l’urlo della bufera.

Buon terzo il baritono Maugeri, l’insuperabile “Gianciotto” della recente Francesca da Rimini. Lo Zandonai professa una illimitata stima per questo cantante, non a torto: si tratta di un artista intelligente, che sa caratterizzare a dovere una parte un po’ torva e che eccelle là ove si richiede una rudezza d’accento.

Del tenore Nardi, che già altre volte si era vigorosamente imposto nell’estimazione nostra, dobbiamo ora dire un gran bene per la sua originale raffigurazione del Cantastorie di questa Giulietta. Egli ha cantato ed agito da signore del canto e della scena.

Mediocri le parti minori; superba la massa corale. Gli scenari, non troppo opulenti, sono parsi tuttavia dignitosi. Ricchi invece i costumi. Quelli indossati da Gilda Dalla Rizza hanno destato l’ammirazione della folla.

L’orchestra è stata precisa e piena di gagliardia. Lo Zandonai l’ha diretta con una sorprendente fermezza. Nessun generale di esercito si è mostrato mai così sereno come l’autore di Giulietta e Romeo nell’ingaggiare una delle più grosse battaglie della sua vita d’artista. Riconosciamo però che i suoi gregari hanno combattuto per lui in guisa da agevolargli la conquista del serto di vittoria.

188 M[atteo] Incagliati, “Giulietta e Romeo” di Zandonai al primo cimento, «Il Giornale d’Italia», 16.2.1922 - p. 3 col. 4-5-6

Se sia stato bene inspirato Riccardo Zandonai a scegliere a tema della sua sesta opera

teatrale la dolente tragedia di Giulietta e Romeo, dirà il tempo. E il tempo segnalerà ancora se il fato sinistro che pesò sulle due creature immortalate da Shakespeare, quando queste trasmigrarono nel mondo della musica, sia stato abbattuto, debellato dal compositore trentino. Certo fu supremo orgoglio quello di Zandonai, quando, accingendosi a musicare la Giulietta e Romeo, egli parve non preoccuparsi di ciò che fu il tentativo di un genio – e il pensiero corre ai Capuleti e i Montecchi di Vincenzo Bellini – e di ciò che rappresentò lo sforzo di energie intellettuali non inferiori quali lo Zingarelli, il Vaccaj, il Marchetti. Ma è destino di questo giovane musicista provarsi con i giganti – e tant’è, si è provato con Bellini.

Quanti non s’erano misurati prima di lui con un tema qual è quello di Paolo e Francesca – e le terzine dantesche formavano più di un sacro epitaffio percosso dalla fantasia di un poeta immortale –; eppure Zandonai tenta e crea l’opera d’arte che di queste sere ha trionfato sulle scene del Costanzi, quasi buon viatico alla sorella nascente: la Giulietta.

L’opera d’arte

Nessuno ormai ignora che di tutte le Francesche che precedettero quella ideata da Zandonai non una è rimasta in piedi sulla ribalta. L’ultima in ordine di tempo canta e ripete la

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eterna sua tragedia, rivivendo, sana e rigeneratrice linfa, la musica di un artista che pari all’ardimento sembra abbia in sé la consapevolezza della propria energia.

In forza della quale e fidando su di essa non v’ha dubbio che Zandonai sia stato preso dalla vaghezza di musicare Giulietta e Romeo. Anzi, diremo di più: che a dissuaderlo non valsero talune affinità sceniche, taluni aspetti ambientali, talune caratteristiche di natura psicologica che ricorrono pure nella tragedia da lui precedente[mente] musicata. La fantasia si leva talvolta di sopra ad ogni pur legittima considerazione di natura estetica e di incompatibilità intellettualistica.

Che Giulietta e Romeo contenga in sé gli elementi di vivacità drammatica, rispetto alla funzione della scena lirica, di compiutezza logica, non pare, se è vero che la tragedia di Shakespeare ha mostrato di esaurire nella sua forma e nella sua espressione la turbata ascensione di due anime fanciulle verso la morte, attraverso l’amore. Perché, o noi c’inganniamo, la scena ultima, quella del sepolcro, per così dire, di Giulietta, la creatura che risorge alla vita di fronte al suo innamorato in abbandono delle sue facoltà smarrite o sconvolte, non è altro che una finzione che la musica non pare riesca a tradurre in azione scenica. Ma l’artista non conosce limiti, quando di questi sappia stimare e il grado e la latitudine.

E sia. Zandonai ha fornito vita musicale, nonostante tutte le pregiudiziali della critica e dell’estetica, alla Giulietta. Nata iersera al mondo e all’arte, essa ormai è se non altro un titolo della probità artistica dell’autore che se ne innamorò e volle che respirasse la musica di un secolo in cui le più opposte favelle si balbettano per infondere un po’ di spirito e un po’ d’anima ai ben disposti e compiacenti pentagrammi. Ma se oltre la probità egli abbia sentito il palpito dell’ala del genio, è ciò che, con pacato animo, vedremo in questa rapida rassegna.

*** La Giulietta e Romeo, su libretto di Arturo Rossato, è divisa in quattro quadri. Quadro 1.: a Verona: l’atto del duetto d’amore. Un bell’accordo di natura sonora e di spiccata natura plastica cresce, si sviluppa, si snoda,

si risolve. Nell’interno della scena un’orchestrina suona della musica da balletto. Piccoli episodi orchestrali. Passano delle mascherine, e la musica ha il fruscio della seta. L’atmosfera si delinea netta con tocchi deliziosi: voci notturne, cantilene, stornelli. I Capuleti e i Montecchi si azzuffano, e l’orchestra leva su tutte le sue voci non con effetti di vuota sonorità ma con una musicalità incisiva e caratteristica. Passa la scolta. Prima di lontano i tamburi con il passo cadenzato, poi la scolta appare in iscena, mentre si spande lento, pauroso il grido del banditore. La scena s’inargenta di luce. Appare al balcone Giulietta. Romeo la raggiunge attraverso la scala di seta ch’ella gli discioglie; le due voci palpitano, sorridono, si baciano e il canto dell’amore si disperde alle prime luci dell’alba.

Quadro 2.: il cortile del palazzo dei Capuleti. Cinguettìo di donzelle. Con un ramo fiorito di mandorlo appare Giulietta. Si gioca al torchio. Episodietti orchestrali: l’organetto, le rondini, il tepore della primavera, il cinguettìo di dolci voci. Ma ecco Tebaldo: ha accenti di tenerezza musicali prima, cupi e terrificanti dopo, per dissuadere Giulietta dall’amore di Romeo. Ma la scena tragica passa e Giulietta e Romeo, ricongiunti, cantano con una tenerezza melica in dolce abbandono, un lirismo a linee pure e quasi ingenue, senza alcuna preziosità strumentale. Ma ecco ancora Tebaldo. S’incrociano le spade di Romeo e Tebaldo. Questi barcolla e stramazza a terra. La scena si popola. Un grido si leva dall’orchestra e dalla voce di Romeo: «Addio, Giulietta!»

Quadro 3.: a Mantova. Canto di “sagra”, echi lontani, festosità musicale. Poi un cantastorie che, in una dolente melopea, racconta la morte di Giulietta. Romeo ascolta. La bufera è

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nell’anima di lui e solca sinistramente il cielo: l’orchestra urla la tempesta... A cavallo, Romeo volge verso la sua fanciulla morta. Il velario si chiude.

Un interludio: l’orchestra descrive la corsa a cavallo di Romeo verso Verona, l’ansia dell’infelice amante, l’angoscia, il terrore, la bufera.

Quadro ultimo: il sepolcro di Giulietta nel chiostro del convento. Romeo è dinanzi alla sua fanciulla. Canta e rimembra. Poi Giulietta si ridesta e geme a Romeo: «Anima mia», il grido della ormai spenta passione. Romeo, per aver bevuto il veleno, vaneggia e muore. Voci dal chiostro, il canto liturgico. Voci dalla strada, l’eco dei bei dì della gaiezza e dell’amore. L’orchestra raccoglie e spande un’ultima eco dell’ormai morto amore. I due amanti, stretti per mano, giacciono immobili a terra illuminati dal sole.

Tale, in rapida sintesi, lo sguardo ad un tempo al libretto e alla partitura. ***

Che valore abbia questa musica considerata in sé stessa e rispetto alla produzione delle altre opere di Riccardo Zandonai, è esame da compiersi con libertà di giudizi, se pure qualche osservazione possa apparire un po’ aspra. Ma un artista come l’autore di Conchita e di Francesca non può sottrarsi a quella saggia e onesta critica, se non a danno della sua personalità che ha ormai assunto forma e tono di individualità tanto spiccata nel mondo della musica.

Un fatto indiscutibile è questo: che nella Giulietta il musicista ha, rispetto alla precedente produzione, acquistato un più vivace e libero movimento nell’ideare e costruire la forma strumentale. Egli non appare più impigliato nelle tristaneggianti movenze wagneriane; ha posto alquanto da parte quel divisionismo della trama orchestrale e del contenuto ideologico. Lo strumentale, pure essendo ricco, magniloquente, ornato, prezioso, con tutte le sue varietà e la sua poliritmia, non è più denso sino a divenire rettorico, enfatico. Alla superanalisi del contenuto sinfonico è succeduta adesso una più saggia e logica concezione: quella di far parlare l’orchestra più che strumentalmente vocalmente. Non più rigido in certe determinate predilezioni ideologiche, egli si abbandona in Giulietta al canto, con una vocalità tutta italiana, se pur con eccessi di sonorità e con arbitrarie tessiture.

Ma detto ciò non credo che Zandonai, rispetto alla Francesca che è l’espressione più caratteristica della sua genialità, abbia compiuto un passo innanzi in fatto d’inventiva. L’artista, sovratutto per l’affinità che il libretto di Giulietta aveva con quello del d’Annunzio, del quale risente la amplificazione delle imagini e la preziosità della fraseologia, è parso come imprigionato, quasi stanco di uno sforzo già mirabilmente compiuto, se la inspirazione non gli fu prodiga di più ampi respiri e di musicalità nuova. Certo, la parte ornamentale dell’opera come le voci notturne, le cantilene, le stornellate, il canto del banditore, taluni tocchi strumentali, è quella che più merita di essere pregiata. Anzi, pare che in ciò Riccardo Zandonai abbia fatto suo l’aforisma di Hanslick secondo il quale la musica non può esprimere sentimenti se non nella loro forma più indeterminata e più astratta, perché essa è un puro giuoco di forme sonore; il suo bello è un bello essenzialmente musicale: un arabesco sonoro.

Ma un’opera di teatro non vive unicamente di arabesco sonoro. Occorre che a questo si accoppi un pathos che giochi sulla gamma delle sensazioni, che riproduca il senso della vita, che susciti quel tale brivido per cui l’amore e la morte di Giulietta esaltino, turbino, commuovano, destino cioè tutto un mondo di poesia e diano tocchi e figurazione a tutte le passioni di cui è capace il cuore, quando palpiti e comunque palpiti...

Considerate Giulietta nel complesso della sua concezione musicale: le caratteristiche forme poliritmiche, cioè, l’eloquio puro di quelle canore e le originali movenze di quelle armoniche, i cui vari timbri, attraverso i differenti strumenti, sono sempre genialmente amalgamati – trovano costantemente la loro scaturigine nel più alto senso estetico. La loro

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dinamica è infallibilmente improntata alla più austera aristocraticità. Così in Giulietta egli rispecchia la sua natura di imaginoso inesauribile cesellatore di forme sonore.

Ora, resta a vedere quale grado di espressività lirica e drammatica l’insigne compositore sia riuscito a raggiungere attraverso questi elementi e conseguentemente che grado di intensità emotiva essa possa dettare.

*** La espressività di Riccardo Zandonai in Giulietta scaturisce da un pathos, per così dire,

sereno e indeterminato, senza che la forte passione lo prenda o lo turbi, senza quella facoltà, cioè, che produce la vampata capace di esaltare la fantasia. Il suo è un lirismo sempre terso, casto, castigato: in una parola, di natura classica, tale cioè che si presta più alla contemplazione della pura bellezza in sé che alla voluttà dei sensi e all’ebrezza del cuore.

Così in Giulietta il duetto d’amore al primo atto è un succedersi d’imagini, pur con qualche richiamo alla melodia di Francesca, le quali risplendono di un chiarore che riflette un turbamento dell’animo ma non lo riscalda. Così il successivo duetto tra Giulietta e Romeo al secondo atto è tutto intessuto di una melodia quasi ingenua, dilettosa ma non plasticamente concepita, che sappia insinuarsi in fondo al cuore. Sono voci di bellezza pura, ma lontana dai colpi della passione umana.

Ma non bisogna dimenticare che a dare carattere al primo quadro del terzo atto vi è una pagina, quella del “Lamento del Cantatore”, che è un mesto nostalgico canto in cui la fantasia di Zandonai non è rimasta insensibile a quel melismo per cui rimangono grandi nella storia del melodramma e Bellini e Donizetti. Forse nuoce alla bellezza della scena la parte musicale che precede. Comunque, chi di tutta la musica di cui risuona questo nuovo spartito non riporterà nell’anima commossa il desolato canto del “Cantatore”?

Ma Riccardo Zandonai, da quel forte sinfonista qual egli è, non poteva non innamorarsi di un pezzo descrittivo – e balzò dalla sua fantasia l’“Interludio”. Ma, pure riconoscendo l’abilità dello strumentatore, esso non ci pare che esprima, se non nella forma fonica, l’angoscia di Romeo in corsa verso il sepolcro di Giulietta. Plastico è il tema spiccatamente vigoroso ed espressivo; ma la prolissità non concorre ad accrescere vigore all’“Interludio”.

Ed eccoci alla scena della tomba di Giulietta. È qui che Riccardo Zandonai ci è parso vittima di un errore di estetica. Ora è lì appunto che la tragedia esce dalla vita ed entra nel campo dell’arbitrario, in una di quelle atmosfere dove non si sa se più valga la parola o il silenzio. La situazione è tale da rendere perplesso pure il genio – e Bellini era un genio. Ora, che cosa è avvenuto? Dinanzi a Giulietta che sorge dal sepolcro, Romeo canta, canta, canta. La finzione scenica precipita in una finzione più concreta e più inattesa qual è quella di un uomo, demente qual è, che non sa a chi parla e dinanzi a cui non v’è che un’impressione da realizzare, e doveva essere il compianto, la morte nell’anima e nelle cose.

Riassunti così i pregi ed i difetti di quest’opera, noi vorremmo concludere con un voto: che Riccardo Zandonai si allontani definitivamente da un’epoca a cui il suo spirito e la sua speculazione intellettuale si sono largamente abbeverate.

La prova di iersera al Costanzi è stata comunque vittoriosa. Ne segnano la misura gli applausi, le acclamazioni imponenti che hanno salutato Zandonai, [alla] fine di ogni atto, alla ribalta.

Lo spettacolo - gl’interpreti

Posto alla cronaca. Quante volte fu evocato alla ribalta il Maestro? Sette dopo il primo atto, cinque dopo il secondo e nove alla fine dell’opera.

Un successo, dunque, nonostante le legittime riserve della critica, pieno caloroso e incontrastato, cui contribuì la esecuzione che fu di quelle destinate a rimaner memorabili.

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Gilda Dalla Rizza, la giovane cantatrice che si è ormai provata con così salda preparazione e con così geniale intuizione a dare i primi tocchi, a delineare gli aspetti, a rendere la individualità psicologica di tante creature meliche balzate dalla fantasia dei musicisti contemporanei in questi ultimi anni, conta nella sua sorridente istoria un’altra bella vittoria.

Bella nei suoi atteggiamenti di commossa femminilità, soave nei suoi accenti di accorata dolente poesia, drammatica nei suoi impeti canori – parve che di Giulietta ella rivivesse e comunicasse la sottile e pietosa tragedia. Nel duetto d’amore, là sul balcone, la sua voce si spande con la dolcezza di un’arpa eolia e nel secondo atto il suo canto in quel brano del Sarò piccoletta assume un tono di così fresca ingenuità e una tenerezza così ingenua da rendere mirabilmente la poesia nostalgica che la musica esprime. E nei gridi di terrore e di sbigottimento la voce trova la concitata vibrazione. E in tutte le fasi dell’ardua parte si insinua quella nota di cui ella conosce il segreto, e che è nota di poesia e d’amore, una nota indefinibile tanto essa ha forza di suggestione e di fascino. Una nota che ritorna e appare sempre inattesa tanto è bella e pervasa da una forza interiore, da un’anima sensibile e pronta alla voce della commozione.

Il tenore Fleta ha, da parte sua, diviso con Gilda Dalla Rizza gli ambiti onori del trionfo. Ed il suo fu un trionfo autentico, il maggiore e più significativo conseguito dal giovane e già celebre tenore sulle scene del Costanzi.

Il suo canto assunse ieri sera una personalità così netta che non sarà possibile obliare la nobile fatica compiuta e realizzata con un saggio intelligente senso di arte. Voce maschia, timbrata, larga di respiro, bene accentata, piena di animazione. Ad ogni nota egli impresse un accento, alla figura di Romeo calcò una ben determinata individualità. E si levarono lucidi e squillanti gli acuti che una commossa sensibilità animava. Interprete e cantante si fusero in una linea sobria e aristocratica.

Il baritono Maugeri, per quanto avesse a lottare con una tessitura da porre a duro rischio qualsiasi voce, cantò con foga e con vibrato accento.

La Ricci fu una Isabella piena di espressione melica; la Bertolasi signoreggiò nella scena del torchio con la sua bella vellutata voce: e cantarono con grazia la Rettore colla sua voce fresca e intonata, e la Donati con le morbide note da mezzo soprano.

Il tenore Nardi cantò il “lamento” del Cantatore con dolente espressività, e il tenore Palai non risparmiò la sua sicura e bella voce. Bene nelle rispettive parti il Fiore e il Pellegrino.

Diresse lo spettacolo con animoso slancio l’autore. Non va dimenticato l’Ansaldo che realizzò la scena della tempesta con un gioco di luci

indovinatissimo e presiedé con il consueto prestigio alla messa in scena. All’inizio del secondo atto il pubblico, per rendere onore al Principe ereditario e alla

Principessa Mafalda ch’erano nel palchetto di Corte, a proscenio, fu suonata la Marcia Reale tra un subisso di applausi.

189 Raffaello de Rensis, “Giulietta e Romeo” di Zandonai, «Il Messaggero», 15.2.1922 - p. 3, col. 1-2-3-4 (con una foto di scena: Atto terzo, scena della morte)

Il Costanzi, ieri sera, ha segnato nei suoi annali non ingloriosi un’altra data importante. La

prima rappresentazione della nuovissima opera di Riccardo Zandonai, dell’autore cioè su cui si concentrano tutte le speranze del mondo musicale italiano, resterà nella memoria di tutti coloro che ieri sera gremivano la luminosa e sfolgorante sala del nostro massimo teatro.

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La nostra epoca musicale non è certamente delle più liete, ma tende a risolversi nella maniera più giusta, più logica e più auspicata da quanti dell’arte sentono lo stesso culto e lo stesso amore che per le manifestazioni nobili e pure della propria razza.

Ci troviamo, nella storia del melodramma, in uno svolto decisivo, al quale lucidamente assistiamo; per superarlo lottiamo fervorosamente, fiduciosi di riaprire al nostro passo la via maestra del trionfo e della gloria.

Sono ancora baldi e forti due illustri campioni, Mascagni e Puccini, che ci siano conservati in eterno!, i quali a traverso tentennamenti e dubbi non son riusciti a soffocare il loro istinto drammatico e hanno conservato, talora anche contro la loro volontà, tutte le peculiarità della loro arte di razza, ed ecco che già sull’orizzonte, a dispetto delle cassandre di dentro e di fuori, sale e da vario tempo sale diradando le nubi e ricercando la luce, l’astro di Zandonai.

Nato costui in un periodo in cui la rinascita della musica strumentale – fenomeno importantissimo e nobilissimo – con tendenze inevitabilmente moderniste doveva fortemente influire sull’indirizzo dell’opera teatrale, era anche inevitabile nonché utile che egli, giovine dall’anima aperta ad ogni conquista, risentisse di queste nuove ondate provenienti d’oltr'alpe e ne approfittasse largamente. Senonché, mentre i suoi colleghi e coetanei, abbacinati dall’orpello delle musiche esotiche, hanno spento in queste ogni calore spirituale, ogni palpito di cuore e continuano così a saltellare sopra lo stesso mattone come pupazzi mossi da fili invisibili e fremono prometei minuscoli attaccati alla rupe del servilismo, Riccardo Zandonai ritrova ogni giorno se stesso, riallaccia ogni giorno la sua anima all’anima collettiva ed italiana, ed aspira a comporre l’eterno conflitto tra musica e parola, tra sinfonismo e melodia con un senso sempre più acuto e sano di equilibrio.

L’opera d’arte

Con la Francesca, come abbiamo già altra volta notato, il maestro trentino s’è accostato alla folla più che con le altre opere precedenti che costituiscono tante tappe magnifiche e sicure verso un divenire costante e fortunato; la Francesca delimita il passaggio dalla fase preparatoria tecnica e dottrinaria d’importazione alla fase estetica, più strettamente personale, sempre più definitiva. La Francesca, inoltre, per il suo carattere classicheggiante, per le passioni tortuose, torbide, incestuose, richiedeva un’analisi psicologica che spontaneamente conduceva ad un’elaborazione sonora minuziosa, paziente, penetrante, indagatrice.

Invece l’amore di Giulietta e Romeo, fulmineo, trascinante, pieno di ingenui abbandoni, quasi schivo di sensualità, profondamente romantico, altamente lirico, ha chiesto alla musa di Zandonai ritmi rapidi e vari, lunghe e calde frasi, soavità di poesia, semplicità di mezzi, freschezza e facilità di movimenti, ecc.: tutto ciò in buona parte ottenuto.

In buona parte e non in gran parte e tanto meno in ogni parte dell’opera, perché la musicalità del compositore, la sua forma mentale, le sue attitudini artistiche, i suoi mezzi tecnici non potevano venir aboliti da un presupposto o da un preconcetto.

Giulietta e Romeo cantano più e meglio che Francesca e Paolo, ma il loro canto è pur sempre quello di Zandonai, che si differenzia profondamente dal canto dei nostri melodisti di tradizione: un canto involuto di cromatismi sviluppantesi in tonalità varie e contrastanti, più vicino al nuovo declamato che alla vecchia melodia; un canto che non prescinde dalle risorse armoniche e strumentali ormai acquisite, che non si lancia mai con quella pienezza di note e di ritmi saldi e robusti. Ma è pur canto, è pur melodia ed occorre seguirli e comprenderli, apprenderli e sentirli per riconoscervi la bellezza e ricercarvi l’emozione. Zandonai piega tutto se stesso per accostarsi all’anima popolare, ma occorre anche che questa, da parte sua, si avanzi per avvicinarsi all’anima di lui. Egli certamente non riproduce l’eco popolaresca del

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pathos collettivo; egli è artista distinto ed aristocratico che si rivolge ad un pubblico elevato nel gusto musicale.

Ma tralasciamo queste considerazioni, che ci porterebbero assai lontani, e volgiamo la nostra attenzione al libretto di Arturo Rossato.

Il libretto

Qualcuno ha rimproverato già, e qualche altro rimprovererà certamente, al Rossato di non essersi ispirato alle immortali pagine shakespeariane. Noi invece vogliamo liberamente e vivamente complimentarci con lui che nella ricostruzione della tragica leggenda abbia creduto attingere alle dirette fonti italiane. È una sensibilità natìa che va riconosciuta e lodata, specie se si converte in un atto di audacia. La tragedia di Guglielmo Shakespeare, com’è risaputo, è disorganica e frammentaria, infarcita di episodi e personaggi superflui, ricca di bellezze liriche e drammatiche, manco a dirlo, ma infiorata assai spesso di un linguaggio così banale e di dubbio gusto che, con tutto il rispetto al genio albionico, ripugnano stranamente in una vicenda di amore così gentile e appassionata. D’altra parte, dei libretti d’opera tratti direttamente da Shakespeare nessuno è riuscito un capolavoro. Rileggete anche, se ne avete il coraggio, i più recenti, quelli del Foppa [!] per Bellini e dei signori Carré e Barbier per Gounod e riceverete un’impressione disastrosa: sembra che gli autori siano rimasti grottescamente disorientati e sperduti nel laberinto delle miriadi di scene e scenette infilate da Shakespeare o dai suoi postumi collaboratori.

Noi ci guarderemo dal dir male di Shakespeare; ma nessuno potrà proibirci di ritenere che, come egli si è ispirato alla novella del Bandello (fatto assodato), così un poeta italiano, modesto che sia, abbia lo stesso diritto di ispirarsi alla novella del Da Porto, della quale quella del Bandello è un rifacimento (qualificato da alcuni un vero e proprio plagio). Leggetela, rileggetela la novella del Da Porto e vedrete quale semplicità di stile, quale vaghezza di immagini, quali tesori di sentimenti si trovino in essa e ne rendano la lettura interessante e commovente.

Piuttosto è da domandarsi perché il Rossato non si sia mantenuto, a parte le inderogabili necessità sceniche, più fedele al racconto italiano. Una volta che egli ha voluto, ed ha fatto bene, ricondurre l’istoria dei nobili amanti con la loro pietosa morte alla sua scaturigine prima, bisognava che questa fosse rispettata nel miglior modo possibile. Invece egli, alcune volte, ha troppo condensato (per es. in Tebaldo son crogiolati tutti i Capuleti e i loro odi: perciò Tebaldo è venuto fuori un mostro così feroce), alcune altre ha aggiunto personaggi ed episodi non necessari (per es. il Cantastorie che nel terzo atto apprende a Romeo la triste fine di Giulietta). Né persuade la figura d’Isabella, che si sostituisce alla nutrice e a frate Lorenzo, affidando a lei il compito di offrire il narcotico a Giulietta.

Aver soppresso il frate perché, immaginiamo, personaggio troppo melodrammatico è poca cosa quando si è interpolata una tempesta ed una cavalcata altrettanto melodrammatiche. Ed altre osservazioni sarebbero da farsi, e ciascun osservatore ne farà per conto suo; però bisogna subito riconoscere che il taglio del libretto è ben misurato e che il linguaggio usato, lievemente arcaico, è sempre nobile e appropriato. I due celebri amanti si esprimono sempre con parole e immagini elette e gentili. Né è poco merito riscontrare in un libretto forbitezza di lingua, che non è consueta neppure nei nuovi e più accreditati poeti del nostro teatro lirico. Il Rossato non ha riformata la struttura del canevaccio per musica; ma, indubbiamente d’accordo col maestro, ha adoperato una forma che sta fra il vecchio e il nuovo stile, che permette di aiutare e di sfruttare musicalmente le situazioni.

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Ieri sera, nelle conversazioni del pubblico, non erano risparmiate le solite rampogne al librettista, a cominciare dalla scelta dell’argomento a finire alla incruenta morte dei protagonisti. Ma il Rossato, che è alle prime armi in questa materia, saprà rifarsi presto.

La tragedia d’amore

Atto primo Passiamo intanto, ch’è già tardi, ad un rapidissimo esame della nuova partitura. Le prime

battute dell’orchestra e l’orchestrina in casa Capuleti in festa, per le loro particolarità armonica e cromatica, ci immergono subito nell’atmosfera musicale propria di Zandonai. Egli possiede il segreto delle sicure e affascinanti ambientazioni, di cui in questa opera si trovano saggi ragguardevolissimi.

Il gruppo e il vocio dei Capuleti da un lato, la canzone lubrica dei Montecchi dall’altra, il viavai delle maschere, l’episodio della putta, gli alterchi, le provocazioni, le risataccie, la furiosa rissa, l’intervento di Tebaldo e di Romeo, i capi delle due fazioni, compongono un quadro vigoroso e formano lo sfondo storico della tragedia.

Il lontano rullo dei tamburi e il passo cadenzato della scolta sbanda la folla irrequieta e ristabilisce il silenzio. Il ritmo grave e lento della scolta, il canto stentoreo e imperioso del banditore, diffondono nella notte, per la originalità ed espressività dell’invenzione, un senso di paura e di mistero.

Quando tutto tace, si leva dall’orchestra, come un susurro, un tema, il tema che accompagnerà sempre la persona di Giulietta nelle vicende della sua passione mortale. Ecco un quadro soavissimo, armoniosissimo, di autentica marca Zandonai. Giulietta appare sul balcone (ormai classico) e Romeo s’intravede nel buio della piazzetta. S’intreccia tra i due innamorati, protetti da un tenue chiarore lunare, un colloquio gentile, fresco, infantile. È il duetto, il vero e proprio duetto che bizzarre teorie di cervelli algebrici e di animi torpidi vorrebbero escluso dal dramma musicale. Oh! perché? Quali leggi divine impongono a questa convenzionalissima tra le convenzionali forme d’arte, qual è il melodramma, l’ostracismo del duetto? Diamogli pure una forma più aderente ai nostri gusti, che, dicono, si sono evoluti; spogliamolo della rettorica, che quando la facevano e la fanno i nostri grandi non è un difetto ma un eccesso di sentimento, gonfio e pletorico; rivestiamolo di armonie squisite, leggiadre, analizziamolo e commentiamolo con brevi intellettualismi e invenzioni diverse, sviluppiamolo in onde strettissime e sottilissime di cromatismi (tutto ciò ha fatto Zandonai), ma conserviamolo in vita, Santi Numi, ché quando è sentito e si fa sentire rimane sempre uno dei più bei trovati dell’arte musicale.

Questo duetto di Giulietta e Romeo, ravvolto in onda sonora soavissima, è una delle pagine più commosse sgorgate dal cuore di Zandonai. L’espressione melodica combacia con quella sentimentale e la segue in ogni più tenue voluta, passando attraverso ritmi coloriti, pensieri i più contrastanti. Un alito profumato di poesia, poesia un po’ decadente se volete, investe e persone e cose; non sempre discende nella sala, non sempre penetra l’anima collettiva, ma l’impressione, anche vaga, che se ne ricava, del lungo colloquio, alla prima audizione, è di cosa schietta e vissuta.

L’atto si chiude con una nuova pennellata poetica ed ambientale: un coretto di donne, a flutti, ed un arpeggiato delizioso di celeste.

Atto secondo

Dopo un lungo intervallo, nel quale le discussioni più o meno vivaci, pro e contro, le sottigliezze critiche degli habitués hanno avuto agio di sfogarsi abbondantemente, il velario si alza sul giardino e sul cortile dei Capuleti. Un altro quadro suggestivo di ambiente: è la

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primavera in fiore: di lontano giunge il suono flebile di un organetto; uno sciame di fanciulle invita Giulietta a scendere giù, la circonda, le danza intorno per toglierla dalla triste malinconia. Si fa il gioco del Torchio (menzionato anche dal novelliere da Porto), che consiste nel trasmettersi una fiaccola a passo di danza, per il quale Zandonai ha inventato un disegno felicissimo che sottolinea e guida le piccole fughe giocose delle fanciulle. È un’altra gemma della partitura. Al termine del grazioso gioco prorompe nel cortile, preceduto dal suo tema incisivo e scrosciante come una scudisciata, Tebaldo, il violento cugino di Giulietta. Il suo parlare aspro ed alto, sempre sostenuto con insistenza esasperante ed efficace dal suo tema, delineano forte, senza contorsioni, la feroce figura.

La scena tra Giulietta e Tebaldo è drammatica, è una scena importantissima ma non si ripercuote adeguatamente nell’animo degli spettatori. Più impressionante l’incontro di Tebaldo e Romeo, il loro diverbio rapido e serrato, l’uccisione di Tebaldo. Il duetto che precede rallenta un po’ le fila dell’azione, appare troppo lungo, per quanto in alcuni momenti si levi alla più poetica passionalità.

Questo atto, che ci ha portati nel centro della tragedia, ha incontrato, come il primo, favore generale.

Atto terzo

Nella vicina Mantova, in un rustico piazzale, si muove una folla di gente. Un nuovo quadro d’ambiente superfluo ma breve (se si fosse cominciato dalla scena del Cantatore si sarebbe andati più dritto allo scopo), scena che comincia ad interessare nel momento in cui, lento e pensoso, sopra un commento orchestrale già noto, e che caratterizza la sua figura musicale, giunge Romeo. Il lamento del Cantatore che narra e piange la morte pietosa di Giulietta Capuleto, brano ispiratissimo di immediata percezione, commuove irresistibilmente. Il grido terribile che scoppia dal cuore di Romeo, i lampi che fendono il cielo, qualche brontolio di vento che annunzia la tempesta imminente, costituiscono un saggio non soltanto di magistero tecnico ma di genialità operistica veramente cospicua. Romeo non vuol credere e vuol risentire il lamento. Ripetizione non necessaria ma psicologicamente spiegabilissima: -Dunque è vero? Giulietta è morta? Alla tempesta del suo cuore fa eco la tempesta del cielo, all’urlo del temporale si unisce l’urlo del suo cuore, che è spasimo, tortura senza nome. L’imprecazione fatta di note che sono schianti esplode veemente e leva la voce più alta e più culminante del dramma.

L’impetuoso intermezzo, sopra un ritmo persistente di cavalcata sotto l’infuriare dell’uragano, esalta, esaspera il dolore dell’amante in clamori inauditi.

Questa cavalcata, questa tempesta insieme, che vengono ad aggiungersi alle altre innumerevoli che registra e glorifica la letteratura musicale, producono un grande effetto ma peccano di prolissità e di frastuono eccessivo; il nome di Giulietta che emerge dalla ridda degli elementi, intenzionalmente bello, non risulta anche per la troppa vicinanza del coro.

Placata l’ira del cielo e sfinite le forse dell’uomo, ecco Romeo dinanzi al sepolcro. Egli parla a Giulietta le stesse dolci frasi del loro amore divino: la invoca, la vuol richiamare in vita.

Squarcio commovente ma non tale da conquistare l’anima collettiva. Neppure il ridestarsi della fanciulla, la tremenda rivelazione del fosco destino, il duetto, chiamiamolo così, della duplice morte, raggiungono le vie del cuore. Sarà la inverosimiglianza leggendaria del fatto, la imperfetta situazione scenica, la vecchia trovata del delirio, la mancanza di pathos nelle melodie; certo è che questo epilogo, che dovrebbe strappare, per virtù poetiche e musicali, le lagrime dagli occhi lascia quasi indifferente il pubblico. La cornice poetica fatta dal canto

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sereno e lieto dei frati, che vien troppo da vicino e turba, e dalla canzone del Bocoleto de rosa, non realizzano il sogno del musicista e del poeta.

L’esecuzione e il successo

In ogni modo, nonostante questa manchevolezza che, colpendo le ultime scene, influisce non poco, presso la massa s’intende, sul giudizio dell’opera, siamo lieti di registrare nel complesso un bellissimo e schietto successo che ha degnamente coronato la nobile fatica del maestro Zandonai. Sempre avanti, sempre diritto, sempre in alto: ecco ciò che sta scritto sulla bandiera artistica di Riccardo Zandonai, ed ecco ciò che ha voluto dire e significare l’applauso del foltissimo pubblico del Costanzi.

L’esecuzione dell’opera è risultata eccellente sotto tutti i riguardi. La preparazione orchestrale – ch’è stata non breve né facile –, quella dei protagonisti, irta di difficoltà di tessitura, quella corale e scenica, sotto la vigile, amorevole, acutissima cura dell’autore, ha pienamente corrisposto ed ha condotto innanzi al pubblico uno spettacolo di primissimo ordine. Tale come si desiderava per un battesimo d’arte della importanza di quello attuale.

I protagonisti, quelli stessi della Francesca e perciò adatti a comprendere e ad assimilare meglio di altri gli elementi particolari dell’arte di Zandonai, hanno superato, con fervore ed abbandono, ogni ostacolo. Gilda Dalla Rizza ha dato anima e moto alla fanciulla veronese di cui, per gentilezza di caso, ella è concittadina.

Nei vari duetti con Romeo ed in quello con Tebaldo ella ha ornata la sua voce di tutte le dolcezze, di tutte le passioni, di tutti i dolori, suscitando ammirazione e commozioni infinite.

Il tenore Fleta, tempra ardente di interprete, cantante ricco di ogni risorsa, ha realmente vissuta la triste storia di Romeo. Soavissimo nei duetti con Giulietta, impetuoso nell’imprecazione alla tempesta, ha vinto, per virtù di commozione, anche la imbarazzante situazione della... lunga morte. Violento, brutale, il baritono Maugeri, altro valente interprete a cui arride un grande avvenire, e provvisto di un’ugola resistente come occorre all’aspro Tebaldo.

I personaggi secondari hanno lodevolmente concorso alla esatta riproduzione della tragedia. Primo va ricordato il tenore Nardi, che nella parte del Cantatore ha detto il lamento con espressione commossa e comunicativa: la chiarezza della sua dizione è di quelle che raramente posseggono i cantanti, anche di cartello. Bene la Porter e le altre donne, amiche di Giulietta. Disinvolta nella sua scabrosa parte della donna nel primo atto, Lucia Torelli.

Le masse dei Montecchi, Capuleti, maschere, hanno molto conferito allo sfondo storico e locale con i loro movimenti agili e armoniosi.

Gli scenari e i costumi sono stati giudicati chiassosi e di dubbio gusto. Riccardo Zandonai, ritto e saldo sulle gambe corte e tozze, ha diretto l’orchestra con quel

vigore e con quell’entusiasmo che ha messo nel creare la sua musica. Alla fine del primo atto il pubblico imponentissimo gli ha diretta un’acclamazione formidabile; lo ha evocato alla ribalta con gli artisti e da solo innumerevoli volte. Non abbiamo contato il numero preciso, ma un numero di volte eccezionale, che segna ed assicura il successo di un’opera. Ma fortuna e giustizia hanno voluto che anche il secondo atto seguisse le sorti liete del primo e l’intermezzo, sebbene lungo (per il cambiamento di scene), ha continuato a tener viva l’attenzione del pubblico, la quale s’è un po’ affievolita durante l’episodio della morte. Si tratta di praticare qualche taglio e apportare qualche modificazione, dopo di che Giulietta e Romeo gireranno i teatri del mondo, a maggiore ed imperitura opera [!] del melodramma italiano.

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F[rancesco] P[aolo] Mulè, La prima della “Giulietta e Romeo” di Riccardo Zandonai, «Il Mondo», 16.2.1922 - p. 3, col. 1-2-3-4-5-6-7 (con una grande caricatura di Zandonai, le foto di G. Dalla Rizza, C. Maugeri e M. Fleta e tre foto di scena)

Le impressioni della serata

La sala La sala del teatro Costanzi gramita in ogni ordine di posti di tutto il fiore della cittadinanza

romana, la visibile speranza in tutti d’un trionfo completo dell’opera che per la prima volta affrontava il giudizio del pubblico; i Sovrani rappresentati dai Principi Augusti: prova più manifesta Riccardo Zandonai non poteva aspettarsi dell’alta estimazione e della simpatia di cui è circondata la sua nobile figura di musicista.

Al suo apparire in orchestra scoppia e si propaga rapido per la sala un vivo applauso di saluto e d’augurio e comincia, in un raccoglimento religioso degli spettatori, l’esecuzione della «Giulietta e Romeo».

Seguiamola, cercando di raccogliere fedelmente le impressioni del pubblico.

Il primo atto L’opera non ha preludio; comincia bruscamente, con una forte e breve sonorità orchestrale.

È in iscena Tebaldo, insonne accenditor di zuffe fra i Capuleti e i Montecchi. Aspro il suo fraseggiare, aspra l’orchestra, ora grave ora tetra. Riccardo Zandonai tenta di dare fin dalle prime battute un carattere di violenza a questa che, come abbiamo accennato dicendo del libretto, è dal lato psicologico la figura più arbitraria della tragedia.

È festa nella casa dei Capuleti, ma voci ed orchestra in nessun momento s’illuminano d’un lampo solo di gioia. Armonie e impasti orchestrali sono come in preda a un triste presentimento. Nell’anima dello scrittore è ognor presente – e sarà così fino all’ultima scena dell’opera – la catastrofe pietosa. Neanco l’arrivo delle maschere riesce a mettere nel lugubre che impera una nota di schietta gaiezza. Ma si nota già una grande scorrevolezza nel discorso drammatico, che fluisce rapido, caldo e qua e là scultoreo: la mano del maestro s’è fatta più nervosa e più agile. Nella taverna si canta, e tosto appare il coloritore fresco e sapiente della «Conchita» e della «Francesca da Rimini». In queste pennellate tendenti a ritrarre un ambiente e a comporre un’atmosfera, Riccardo Zandonai riesce sempre mirabilmente: sono frasi di schietto sapore popolare, piene di vigore e di carattere. Seguono clamori vocali e strumentali: una zuffa fra gli uomini delle due parti, che presto però è sedata da Romeo, al quale l’autore ha dato un’anima musicale riboccante di malinconia e che acquista quasi forza di carattere allorché non si altera se non per accorarsi maggiormente alle frasi di collera e alle rampogne dileggiatrici di Tebaldo. Se il libretto fosse stato foggiato in guisa da apprestare costanti al musicista i segni distintivi, logici, umani, ond’è impresso questo breve dialogo, Riccardo Zandonai, cui non fanno difetto le virtù necessarie, avrebbe indubbiamente creato un bel dramma musicale di caratteri.

Invano Romeo, con frasi musicali purissime, invoca ed implora pace; la sua umiltà e la sua dolcezza – che restan tali nel linguaggio canoro – non riescono a piegare il nemico, che urlando frasi d’odio sta per riaccendere più atroce la zuffa, allorché tutti fuggono, ché si appresta la scolta. È questo uno degli episodi musicali più caratteristici dell’opera. Tristezza nella voce del banditore che invita gli uomini alle case e minaccia di morte i spargitori di sangue; presagi paurosi nelle corde, che gemono desolate. Né vale la squisita introduzione orchestrale al dialogo d’amore fra Giulietta e Romeo ad attenuare questa impressione di

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sventura che avanza. Tanto l’introduzione orchestrale che l’inizio del dialogo hanno tono d’elegia. Ma con l’incanzare dei sentimenti il duetto, nelle voci e nell’orchestra, si vien colorando e accendendo, finché si entra nel sensuale. Né quello ingenuo ed oserei dire candido dei diciotto anni, ma in un sensuale raffinato, languido, quasi stanco. La giovinetta appena disbocciata di Guglielmo Shakespeare se n’è bella e andata: questa qui è una [ ] poesia, tale la sua veste di suoni. Fatta quest’osservazione necessaria a distinguere cosa da cosa e cioè questo libretto dalla miracolosa tragedia del Shakespeare, volentieri riconosceremo la virtù d’eloquenza e di suggestione delle espansioni amorose che lo Zandonai ha messo in bocca ai due amanti. Le frasi melodiche si atteggiano sempre elegantemente, né mancano di calore, ed ora son palpitanti di tenerezza, ora s’intorbidano di desiderio. Il tumulto delle due anime si propaga nell’orchestra e prorompe in onda di passione allorché Romeo sale anelante alla finestra, sparendo tra le braccia anelanti della donna amata. Le due voci divampano in un ardente unisono, ed ecco nuove pennellate di colore: canti lontani e ancora di carattere popolare: il contrasto giova alla fine del dialogo e dell’atto, che è coronato da lunghe ovazioni.

Il secondo atto

Un rivolo melodico di deliziosa eleganza che vien dalla scena, alcune sospirose frasi di Giulietta, ed ecco, più triste che allegro, il gioco del torchio. Gioco, ma nessuna di quelle fanti giovani e leggiadre sa ridere. Sembra si muovano e cantino sotto il peso d’un incubo; l’orchestra s’incupisce anch’essa di ombre nere. Invano il ritmo, accentuandosi, spinge le giocatrici a scatti di gioia: Riccardo Zandonai vede, anche scrivendo queste pagine, Giulietta e Romeo travolti dal fato nemico, e non è lieto né può dar letizia alle sue creature. Movenze di gioco, ma contenuto musicale d’elegia. Nel cortile piomba Tebaldo: una furia. La sua natura violenta, in questa scena che nulla – è giusto notarlo – ha a che fare con la tragedia shakespeariana, qui traligna in villania tanto più repugnante quanto più arbitraria. Il musicista non poteva che dare rilievo alle frasi sconce e ingiustificate con le quali il ribaldo si accanisce contro Giulietta esterrefatta; ma più parole e musica s’inturgidano di minacce, più il pubblico – nonostante le grida e le sonorità – si allontana spiritualmente da un episodio dal quale non può essere preso, perché istintivamente avverte che quella roba lì è falsa tutta quanta, senza umanità e però senza vita. Un’altra zuffa, fuori. Tebaldo accorre, ed è fortuna, ché l’atmosfera musicale si rischiara di tocchi delicati annunzianti la presenza di Romeo. Un altro breve dialogo fra i due amanti, che sbocca in una notevole espansione lirica di Giulietta, ed ecco la belva ritorna e grida ancora ed insulta, col furore d’un forsennato, a Giulietta, a Romeo. È uno strepito di voci e di strumenti, finché Romeo, con un colpo bene assestato, si toglie di tra i piedi l’idrofobo e lo toglie anche di tra i piedi del pubblico, che in quel vociare a freddo lo ha tollerato pel giusto rispetto che si deve a Riccardo Zandonai e pel miracolo – è proprio la parola – di colorazione, d’accentuazione, d’arte drammatica compiuto con la voce magnifica e col gesto irreprensibile del baritono Carmelo Maugeri, rivelatosi nel corso dell’attuale stagione uno dei più gagliardi interpreti della scena lirica.

Ma Riccardo Zandonai è destro uomo di teatro e seppe riguadagnasi il pubblico. Ecco la scolta del primo atto, con lo stesso canto, con lo stesso comento di suoni, passare lontana. L’effetto è immediato e il contatto tra sala e palcoscenico tosto si ristabilisce. E più ancora, all’addio disperato che si scambiano i due amanti.

Il terzo atto

Si apre con un simpatico coro di folla, e siamo alla scena che vorrei quasi dire più musicale dell’opera. Non importa se essa sia affidata a un cantatore popolare che, col

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carattere della sua melodia nata dall’intimo, fa contrasto con tanta parte dell’opera, dove spesso una ricerca troppo “voluta” di eleganze esteriori intiepidisce o spegne affatto l’estro animatore. L’ottava onde il librettista fa annunziare dal cantatore la morte di Giulietta è fresca e bella e Riccardo Zandonai l’ha vestita d’una melodia che dà una profonda commozione. È un canto sgorgato vivo dall’anima e materiato di lacrime. Qui c’è, sia pure riflessa, la tragedia di Giulietta.

Lo schianto di Romeo al tremendo annuncio è meno efficace, perché freddamente letterario. La furia degli elementi si sovrappone senza aumentare l’intensità al dolore del giovane.

Una pagina di molto effetto è la cavalcata di Romeo verso Verona. Il ritmo balzante, concitato, affannoso, la disperazione degli ottoni, il fremito angoscioso di tutta l’orchestra, le voci agghiaccianti che si confondono coi suoni fanno di questa pagina una della più caratteristiche intuizioni dello Zandonai. Il pubblico ne è preso, ma la sua commozione si attenua nel secondo quadro dell’atto, che pure si ingemma di frasi melodiche che sono certamente fra le più squisite dell’opera. Giulietta e Romeo parlano in verità troppo, non solo, ma la costruzione di tutto il “finale” con quei “voluti”, ingombranti ed eterni contrasti, è oltre ogni credere artificiosa. Siamo, con una forma poetica decorosa, ai libretti dei nostri bisavoli. Ma il pubblico, vinto dal buono che trova nella lunga fatica del maestro, corona di lunghi applausi la fine dell’opera, che guadagna felicemente la riva.

Sul valore estetico dell’opera

Ed ora qualche nota critica o –più esattamente – qualche impressione sull’opera, ché ad una valutazione definitiva di essa sarebbe necessario un più pacato esame.

Riccardo Zandonai ci si ripresenta quale già lo conosciamo, resta cioè nell’orbita d’intenzioni e di attuazioni nella quale da anni si è posto. Da Riccardo Wagner altro non ha appreso e non ha voluto apprendere se non l’intenzione d’un recitativo sempre aderente al libretto e, con alquante limitazioni, il valore drammatico dell’orchestra: cose, l’una e l’altra, che già troviamo, con semplicità e chiarezza italica, nelle maggiori scene dell’«Otello» e in tutto quanto, quasi, il «Falstaff». Dall’«Otello» e dal «Falstaff» anzi, più ancora che direttamente da Wagner, son venuti a Riccardo Zandonai l’insegnamento non solo, ma il modello. E se l’illustre musicista così sente, se questa è l’espressione più immediata e idonea del suo particolare mondo fantastico, la fedeltà devota che egli dimostra alle due ultime opere di Giuseppe Verdi gli fa sicuramente onore. Ma c’è di più: chiaro è apparso iersera che il Zandonai della «Giulietta e Romeo» risale in certi episodi più lontano nella produzione di Verdi: fino alla ricostruzione di certe forme che il maestro immortale attuò nel giro di tempo in cui gli uscivan di mano opere sullo stampo de «La forza del destino» e che poi abbandonò a poco a poco per non tornarvi mai più. La morte di Romeo e di Giulietta non soltanto s’infiora di qualche vena melodica di pretto e squisito carattere verdiano: -Salir con teco a Dio...- ma nel suo taglio e nello svolgimento s’illumina della stessa vita scenica che il Verdi predilesse nel tempo appunto che ho ricordato. Bene o male? Non giudico, osservo un fatto; né sarò io a muover censura a Riccardo Zandonai per questo suo amore a una geniale tradizione di casa nostra. Non debbo però tacere che il Zandonai, nella scena della morte di Romeo e Giulietta, ha forse ecceduto in effetti di contrasto più forse che allo stesso Verdi non sia capitato. Troppi canti dalla via e dalla chiesa – quand’anco possano riuscir graditi al grosso del pubblico – distraggono l’ispirazione dello scrittore e l’interesse degli spettatori dallo strazio delle due creature morenti. Il dramma, che in un simile momento dovrebbe sgorgare dalla più profonda intimità dell’essere, si fa meccanico ed esteriore. Colpa in gran parte del libretto, che così è concepito. Or io dico: se questo Riccardo Zandonai, che è anche

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dotato d’una salda coscienza estetica, vuol fare; se questa è la via che egli si è prefisso di percorrere, abbia maggior coraggio e ricorra magari – perché no? – alla melodia chiusa. A questo patto, del resto, i nostri sommi dell’ottocento – Bellini, Rossini, Donizetti, Verdi – trionfavano degli artifizi delle loro costruzioni melodrammatiche. Astraevano spesso dal libretto, ma volavano, cantando, e il pubblico rapito, estasiato, dietro a quei voli canori. Chi, pure prendendo da loro quel tanto che possa servirgli a raffinare il proprio strumento d’espressione armonica e strumentale, non sente – come Riccardo Zandonai – il dramma alla maniera di Wagner, dello Strauss, del Debussy, né ha temperamento e voglia da cimentarsi con una forma di dramma – sia erronea o giusta – personalissima come, fra i nostri, Ildebrando Pizzetti, può ben dire: “voglio far questo”; lo può, ma purché affronti tutte le conseguenze del suo atto di volontà e di fede.

Nella «Giulietta e Romeo» è invece non so che vacillamento, non so che perplessità, che fa ondeggiare lo scrittore fra due tendenze che – pure essendosi verificate nello stesso musicista, il Verdi – sono fra loro quasi antitetiche: «La forza del destino», l’«Otello» e il «Falstaff» recano, sì, il segno indelebile dello stesso creatore, ma la prima opera, in quanto organismo drammatico, fu dalle altre due definitivamente oltrepassata. Di contro all’ultimo quadro della «Giulietta e Romeo» sta il primo atto – di getto, organico, equilibrato, scorrevolissimo – nel quale lo scrittore non risale così lontano a interrogare la produzione del Verdi e getta con mano franca le basi psicologiche ed estetiche del dramma. Siamo – fin dove glielo ha consentito il libretto – ai criterii informatori della «Conchita» e, più ancora, della «Francesca da Rimini», per la quale, modelli sensibili ma guardati con mirabile indipendenza di fantasia, Riccardo Zandonai ebbe l’«Otello» e il «Falstaff»: armonie e tavolozza orchestrale quali abbiamo già accennato, e discorsi melodici rampollanti immediati dal tessuto mutevole dei sentimenti e delle situazioni: discorsi dalle articolazioni varie, in perenne divenire, e rotti sempre, e sempre mobili d’inflessioni e d’accenti, come vuole, se non proprio il dramma, il succedersi del verso con le sue immagini, e talvolta della stessa parola, che in verità dovrebbe sempre essere assorbita dal sentimento che la produce. Rare – qui come già nella «Conchita» e nella «Francesca da Rimini» – le ampie effusioni liriche, contro le quali – affrontiamo pure l’argomento – troppo e con troppo distratta disinvoltura da esteti monchi o da sterili musicisti s’è detto e bestemmiato; e però rari i momenti nei quali i discorsi melodici si snodano e fluiscono – la distinzione è del Pizzetti – in onde libere e beate di canto, allorché, nel travaglio della creazione, tutte le facoltà intellettive sembra tacciano e si annullino nell’istinto che, divinamente inconsapevole, riassume in una strofe lirica intensa, luminosa ed alata il mistero lieto o triste d’un’anima, il roseo o il pauroso d’una vicenda drammatica. Perché – si badi – è un abisso incolmabile tra questi irresistibili colpi di sole e le attillate, incipriate, dinoccolate romanzette poste lì, tra l’una e l’altra pigrizia, tra l’uno e l’altro torpore di recitativi incolori, a vellicare la facile epidermide delle folle opache.

Sta in due, insomma: o Riccardo Zandonai concepisce il dramma musicale come nella «Francesca da Rimini» e nel primo atto della «Giulietta e Romeo» e adotti pure il suo fraseggiare drammatico e i suoi consueti discorsi melodici, essendo essi bastevoli a un’efficace trasfigurazione sonora del dramma; o vuole con la gagliarda freschezza della sua fantasia rianimare schemi ormai logori del vecchio melodramma, come nell’ultimo quadro della «Giulietta e Romeo», e allora, audacia: sgombri la sua mente d’ogni preconcetto e si abbandoni totalmente al canto, anche – lo ripeto – nella forma, da cui sembra rifugga, della strofe chiusa, non bastando il suo consueto eloquio musicale a nascondere il falso dell’artifizio scenico. Un dilemma – per intenderci – che si può soltanto porre a un musicista vero e nel cui ingegno si abbia fede assoluta, come quella che io non da oggi ho nell’ingegno di Riccardo Zandonai.

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L’esecuzione e il successo

L’esecuzione dell’opera, perfetta. L’orchestra, diretta dallo stesso autore, rese con nitida evidenza fin le minime sfumature dello strumentale. Gilda Dalla Rizza è una Giulietta di fascino irresistibile. Voce, arte di canto, vibrazione drammatica, tutto contribuisce a fare di lei una protagonista ideale dell’opera.

Le è degno compagno il tenore Michele Fleta: bella voce, figura prestante, passione: un Romeo magnifico.

E magnifico anch’egli il baritono Carmelo Maugeri, al quale ho accennato dove parlo del secondo atto dell’opera. Questo cantante dai mezzi poderosi e intelligentissimo è un vero signore della scena.

Ottimo il Nardi, che modulò con profondo sentimento la bella ottava del terzo atto. Bene anche la Porter e la Torelli. Intonatissimi, come sempre, i cori educati da un artista di tutto valore, il maestro Consoli. Una parola d’alto encomio merita il comm. Carlo Clausetti, rappresentante della Casa

Ricordi, che lungo le prove faticose prodigò le sue cure sapienti perché i quadri scenici riuscissero impeccabilmente armoniosi. E tali riuscirono.

L’opera ebbe il più lieto successo, consacrato da una ventina di chiamate agli interpreti e all’autore, che volle accanto a sé, a condividere gli applausi, il poeta Rossato.

[...]

191 FALBO, Giulietta e Romeo di Zandonai, «L’Epoca», 16.2.1922 - p. 3, col. 1-2-3 (con piccole foto di Zandonai, Maugeri, Dalla Rizza, Fleta)

La nuova opera di Riccardo Zandonai era attesa con le migliori speranze. Chi ha dato al teatro lirico italiano la «Francesca da Rimini» che segna una data ben lieta

nella storia della nostra produzione melodrammatica, che rappresenta l’affermazione vittoriosa di un talento musicale che ha trovato la sua via, che ha saputo fondere armoniosamente i diritti della tradizione e quelli dell’evoluzione, i diritti della parola e quelli della musica, che ci ha dati una forma di discorso melodico pieno di musicali malìe e di drammatica efficacia meritava la più che benevola attesa di cui la nuova opera ha beneficiato largamente iersera.

Ancora un passo avanti, pensavamo, un po’ più di fantasia creatrice e un po’ più di calore nel discorso musicale e noi potremo salutare in Riccardo Zandonai l’erede delle migliori virtù dei nostri maggiori melodrammisti, il più geniale campione della giovane scuola italiana che ha brancolato per molti anni e che continua a brancolare fra le più tortuose vie, povera di idee, povera di ardimenti e povera di fortuna.

Avevamo letto con piacere alcune confessioni del Maestro su l’opera nuova. «Questa mia ultima partita, egli aveva detto a un collega intervistatore4, è semplice, spontanea, rapida, come semplice, spontaneo e rapido [è] l’amore di Giulietta e Romeo. Niente acrobatismi strumentali, come ne ho fatto per lo passato e come ne han fatto e fanno tutti i giovani musicisti italiani timorosi di apparire ignoranti. La dottrina armonica e strumentale della quale ci siamo impossessati, siccome era nostro dovere per non diminuire al confronto degli stranieri, ci era necessaria come il pane, anche a costo di soffocare un po’ della nostra natìa

4 v. intervista a R. De Rensis, «Il Messaggero», 31.1.1922 - al n. 180.

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ispirazione e di essere tacciati di esotismo e di servilismo. Ma, ora che tutti i ferri del mestiere sono nelle nostre mani, occorre servirsene per un unico grande scopo, per un unico luminoso miraggio: quello di ricercare noi stessi, esprimere noi stessi, rievocare la nostra arte gloriosa, esaltare la nostra musica immortale, cantare con la nostra ugola privilegiata, gridare con nostro cuore pulsante e generoso.

«Il carattere della mia opera, se io non erro, è predominantemente vocale nel senso che l’eloquio dei personaggi e specie dei due infelicissimi amanti si sviluppa in un’onda melodica chiarissima e di facile percezione e, m’auguro, di facile comunicativa. Io non sono stato premuto o afflitto da alcuna preoccupazione di scienza o di sistemi, mi sono abbandonato totalmente, ciecamente al mio animo, mi sono immedesimato nella sublime passione dei giovanetti veronesi sino a gioire, a soffrire... e starei per dire, a morire con essi. Ho cercato di penetrare la natura del soggetto essenzialmente lirico, ingenuo, puro, che non ammette complicazioni intellettuali od esibizionismi tecnici, ho creato intorno ai leggendari amanti un’atmosfera appropriata, assai diversa dall’ambiente e dal colore locale e storico della “Francesca”, di cui l’amore sensuale torbido, fatale, contorto m’induceva alla ricerca psicologica paziente e minuziosa.

«In una parola, quel processo interiore di semplificazione a cui tendo, e credo dimostrato chiaramente nella successione delle mie opere, coincide e meglio si adatta e più saldamente si afferma nella “Giulietta”».

Riccardo Zandonai non poteva farci promesse più liete: niente acrobatismi musicali, ma esaltazione della nostra musica immortale, «ma gridare col nostro cuore pulsante e generoso».

Ciò che tutti desideriamo, ciò che tutti predichiamo da anni. Ma dal dire al fare... Riccardo Zandonai ha compreso ciò che l’opera di teatro – che si dirige alle grandi masse

– deve essere; ha compreso come tutte le risorse della strumentazione non bastino a dar vita a un melodramma in cui si canti poco o si canti male, cioè senza riuscire a interessare, a esaltare, a commuovere gli ascoltatori. E ha scelto un soggetto eminentemente lirico e romantico, la leggenda dei due giovinetti veronesi innamorati, che sulla scena lirica non ha avuto troppa fortuna, poi che i musicisti i quali si sono provati a cantare il purissimo e fatale amore nulla o troppo poco hanno aggiunto, con la loro arte, all’alto lirismo della poetica e dolente istoria.

Riccardo Zandonai, forte di tanti insuccessi o dei mediocri successi di quanti all’amor casto e folle di Giulietta e Romeo si erano rivolti, ha voluto ritentare la prova: la classica, mirabile istoria ben meritava una più moderna, una più viva, una più toccante interpretazione musicale. E ha messo da parte i fioretti del perfetto musicista, dell’esperto sinfonista, e si è abbandonato – come egli dice – al suo animo per scrivere semplicemente, sinceramente, davvero amorosamente ciò che il cuore dettava.

Ma non era l’ora della più felice ispirazione; e il Maestro, pur essendosi riavvicinato alla tradizione, pur avendo lasciato per via molte delle frangie inutili di cui si era servito “ad abundantiam” in precedenti partiture, non è riuscito a realizzare le ottime intenzioni con le quali si era accinto alla nuova fatica.

Il sinfonismo questa volta non sovrasta e non guasta; l’orchestra crea con efficacia e sobrietà l’atmosfera musicale entro la quale si muoveranno – e canteranno – Giulietta, Romeo, Tibaldo, i Capuleti e i Montecchi. E le voci imperano, e il canto melodioso è in onore; il discorso musicale è enunciato sempre o quasi con una conoscenza mirabile delle luci e delle ombre; l’onda corale ci avvolge e tenta di penetrare nei nostri cuori. Ma non riesce a commuoverci.

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Evidentemente l’invenzione melodica scarseggia e la melodia che ascoltiamo non si eleva e non ha forza di seduzione, di penetrazione, di esaltazione. Qua e là, nel duetto del bacio al primo atto, nel tentativo di seduzione di Tebaldo al secondo, nella prima parte del pianto di Romeo al terzo, l’autore par che trovi la via del cuore. E in noi si acuisce l’attenzione e il desiderio di un po’ di emozione schietta e travolgente. Ma si tratta di spazi fugaci, ché subito dopo il discorso melodico ridiventa arido e incolore, prolisso e vano.

Il nostro interesse si mantiene desto, invece, nei quadretti di ambiente – Riccardo Zandonai è un coloritore di rare virtù – e là dove l’orchestra discorre e commenta per proprio conto. Le prime scene dell’opera, che vogliono “ambientarci” nella Verona trecentesca divisa tra Capuleti e Montecchi, hanno tocchi magistrali di illustrazione musicale. Il giuoco del torchio al secondo atto è un grazioso intermezzo, degno delle pagine più gentili della «Francesca». L’arietta del “cantatore” al terzo atto, che ricorda un po’ il lamento dell’innocente di «Boris», è un piccolo gioiello.

Si può anche avvertire che la parte del “cugino” geloso, del fiero Tibaldo è tratteggiata con bella vigorìa, che fa pensare all’«Otello» verdiano. Né si può negare che l’intermezzo sinfonico della “cavalcata” di Romeo, che divide i due quadri del terzo atto, sia una robusta pagina musicale, solidamente piantata e abilmente svolta: interessante anche se un po’ prolissa e un po’ enfatica, ricca più di rumori – notte di tempesta – che di dolore, vigilia di morte.

Troviamo, insomma, nella nuova opera molte delle virtù che assicurano ammirazione e rispetto a un musicista. Pochi scrittori d’Italia posseggono come lo Zandonai il magistero di una strumentazione raffinata; pochi come lui sanno colorire musicalmente un ambiente, sanno dar vita a un quadretto di genere, sanno sfruttare col massimo rendimento la ricca famiglia dei vecchi e nuovi strumenti.

Ma da Zandonai attendevamo questa volta, all’infuori e al di sopra di ogni preziosità stilistica e decorativa, il canto dell’infinito amore – dell’amor puro, cieco, travolgente – e il canto dell’infinito dolore – che accomuna nella morte gli eroi della leggenda trecentesca. E questo canto abbiamo atteso invano, nel primo, nel secondo, nel terzo atto.

Ché anzi l’interesse è andato decrescendo. Il primo atto che ha un finale scenicamente, pittoricamente felicissimo – e v’è tuttavia chi non risparmia critiche al librettista per discolpare il compositore: eterna e crudel sorte dei poeti di melodrammi poco fortunati – si era chiuso con applausi caldi, sinceri, bene auguranti. Nel primo duetto d’amore è qualche spunto grazioso, che si sperde ahimè nel seguito del lungo declamato melodico al quale non dà vigorìa emotiva l’eccessiva enfasi orchestrale e vocale. Anzi!

Il Maestro deve avere ricordato, scrivendo il duetto del bacio al chiaro di luna – lei sul balcone tra i fiori, lui su la via pronto a raggiungerla –, la poetica scena del «Pelléas e Melisanda»: duetto susurrato a fior di labbra. Non volevamo dal Maestro italiano dell’impressionismo debussiano. Ma non ha pensato egli che il misterioso e pericoloso colloquio d’amore notturno fra Giulietta e Romeo, all’angolo di una pubblica via, doveva essere tradotto più e meglio di quello tra Pelléas e Melisanda in un sottile susurrìo di dolci frasi, anzi che in un canto spiegato, a gran voce, che è la negazione di ogni verosimile precauzione d’innamorati sorvegliatissimi e insidiati da ogni parte?

Il melodramma è finzione scenica sempre lontana dalla realtà? E pure tutti i musicisti di oggi non tendono che a un fine: avvicinare, fondere più che sia

possibile Arte e Vita, ridurre al minimo necessario l’imperio dell’irrealismo. Il quale in «Giulietta e Romeo» prende il sopravvento precisamente nell’ultima scena – la morte che rivive, che ricanta, che rimuore –: scena che rompe la malìa di ogni schietta commozione se il musicista non sa dotarla di quel “fascino irresistibile”, di quel “pathos” musicale che ogni

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irrealtà ed ogni eccentricità di cattivo gusto può fare obliare. Questa potenza emotiva manca al duetto dei morenti, prolisso e scialbo, e la tela cade lasciando nel nostro animo un’amarezza profonda e sincera, poiché profondo e sincero era in noi l’augurio del più lieto, del più grande successo.

*** L’opera, allestita con eccezionale diligenza – delle belle scene, disegnate dallo Stroppa, è

piaciuta specialmente la terza – ha avuto un’ottima esecuzione. Riccardo Zandonai, seguendo l’esempio del suo illustre maestro Pietro Mascagni, ama

dirigere le sue opere. E se appariva incerto ai primi passi, ora è divenuto un concertatore e direttore di rara valentìa. Già nella «Francesca» avevamo notato i suoi progressi.

Della partitura di Giulietta e Romeo egli ha messo in rilievo con sottile cura fatta di grande amore e di squisita sensibilità ogni più delicato particolare. E se un appunto gli si può muovere è questo, che spesso il musicista anzi il sinfonista ha preso la mano al direttore, il quale nulla ha fatto per attenuare i pieni orchestrali che nella loro magniloquenza esuberante hanno imposto agli artisti del palcoscenico sforzi eccessivi e talvolta inutili.

Naturalmente, là ove l’orchestra è padrona del campo, come nell’intermezzo della cavalcata, Riccardo Zandonai ottiene più brillanti effetti dalle cento voci mirabilmente fuse e intente ad esprimere l’intimo affanno e la fretta angosciosa del cavaliere galoppante verso la morta in cerca di morte.

Gilda Dalla Rizza si è prodigata nei canti d’amore e di dolore, mettendo a servigio dell’autore la sua bella intelligenza, la sua voce calda e suadente, la sua raffinata sensibilità artistica.

Poche cantatrici hanno la efficacia del suo giuoco scenico, che le permette di ravvivare deliziosamente la gustosa scena del giuoco del torchio e di prestare subito dopo alle scene tragiche seguenti un’espressione così viva e impressionante d’intima sofferenza, un canto così ricco di umano accoramento.

Magnifica voce quella del tenore Fleta, che abbiamo conosciuto quasi debuttante e che ci appare dopo pochi anni artista di grandi risorse, fra i migliori che conti oggi la scena lirica. La sua voce calda ha spesso dato alle note la passionalità dolorosa che non avevano. Nel duetto finale del primo atto, in quello più dolce del secondo atto velato di tristezza e nell’ultima scena egli ha raggiunto ogni possibile effetto emotivo e ha meritato, con Gilda Dalla Rizza, applausi calorosissimi.

Il baritono Maugeri ha modellato un po’ troppo la sua interpretazione su quella, che gli ha fatto onore, dello sciancato Gianciotto. La voce è possente e sarà artista di prim’ordine quando avrà raffinata la sua educazione musicale e scenica.

Ha avuto la sua parte di applausi nel duetto del second’atto. Delizioso come sempre il Nardi, che ha cantato assai bene l’arietta del terzo atto e ce ne ha

dato il “bis” per desiderio di Romeo, interprete questa volta del desiderio del pubblico. Meritano una parola di lode le altre parti secondarie, tutte bene a posto: la Porter, la Torelli e le altre “amiche” di Giulietta. Ottimi i cori.

Per la cronaca: sei chiamate dopo il primo atto, altrettante dopo il secondo, quattro dopo il terzo. Con il maestro e con gli interpreti è stato evocato al proscenio anche il librettista Rossato.

[...]

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Edoardo Pompei, “Giulietta e Romeo” del maestro Riccardo Zandonai, «Il Paese», 16.2.1922 - p. 3, col. 1-2-3-4-5 (con un grande ritratto a matita di Zandonai, una foto di scena [Atto II/La scena della fiaccola nel pozzo] e un bozzetto [Atto III/Verona: scena seconda])

Il libretto di Arturo Rossato ha taglio antico negli atti, nella successione delle scene, nella

disposizione dei cori, nel valore delle persone sceniche. Antico e forse antiquato con le osterie, le risse, le canzoni a ballo, i duetti, le voci lontane, tutti gli accorgimenti scenici e le scaltrezze che un librettista del buon tempo sapeva disporre nei vari piani per offrire al maestro compositore inspirazione e materia da musica, e allora musica significava melodia.

Nella tragedia in tre atti del Rossato vi sono tre osterie, due nell’atto primo ed una nel terzo; poiché nel secondo atto si vede un cortile del palazzo dei Capuleti in Verona e in quel cortile non c’era modo di collocare un’altra osteria... C’è invece una canzone a ballo con l’annuncio del ritorno delle rondini come nella «Francesca da Rimini». E reminiscenze della «Francesca» si scorgono qua e là, specialmente nel fraseggiare e in certi movimenti di scena che richiamano le colorazioni d’ambiente care a Gabriele D’Annunzio.

Ma mentre nella «Francesca» la parola ha sapore di favella trecentesca e gli sfondi hanno colore e disegno giottesco e le persone carattere netto, qui l’arcaismo della parola è superficiale, inutile, privo di ogni sincerità: sono modi voluti per ricordare al lettore e all’ascoltatore che l’azione si svolge in un qualche anno della fine del mille e trecento di Nostro Signore, nella nobile città di Verona.

E invece si dovrebbe svolgere in ogni tempo e in ogni luogo, a Verona come a Rimini, come a Ferrara, in terra d’Italia, nei paesi d’Europa, nelle città d’Oriente o d’oltre mare, dovunque un cuore umano palpiti d’amore nella divina giovinezza degli spiriti e dei sensi. Che importano le osterie e le torri veronesi, che importano le case munite di bertesche e di serragli di Rimini malatestiana, o il castello ferrarese adorno di freschi e di arazzi, gloria degli Estensi, se sola, se eterna la giovinezza canta su due bocche innamorate, e solo il bacio è la muta parola che suscita l’infinita melodia che supera gli anni, vince i secoli, trionfa nel tempo con la poesia e la musica.

Un verso di Dante, una melodia di Vincenzo Bellini, un preludio di Giuseppe Verdi e tutti i cuori tremano come alla rivelazione di un prodigio nuovo ed antico, e alle pupille brilla l’azzurro del firmamento, appariscono verzieri fioriti, e una primavera meravigliosa rinnova le anime. Amore intona il verso, amore esprime la musica e i cuori tornano giovani e per un istante che è miracolo dell’arte evocatrice il tempo è dominato, il passato diviene presente, i venti anni sono evocati nell’incantesimo.

Più che in Francesca e Paolo, più che in Ugo e Parisina, in Giulietta e Romeo trionfa l’amore che è giovinezza eterna. Non i terribili morti di Dante che tinsero il mondo di sanguigno e che squassa la bufera infernale che mai non resta, non l’incesto degli Estensi che par rinnovi la cieca arsura di Fedra, non il filtro magico di Tristano ed Isotta ma l’onda che muove i due amanti nelle nebbie nordiche della leggenda hanno somiglianza di parentela con la passione degli amanti di Verona; la loro fiamma è pura; arde e si consuma come un bel fuoco di erbe aromatiche sopra un colle italico nella notte di San Giovanni: la prima notte d’estate è la più bella perché la più breve.

Non il libro di Lancillotto e della Reina Ginevra, non il pellegrinaggio alla Santa Casa di Loreto, non il sorso avvelenato d’incanto conduce gli amanti di Verona ad una morte, sì bene lo schianto dell’una giovinezza spezza l’altra, e su Romeo morto piega e si abbatte Giulietta. Nessun farmaco potrà salvare quella che amore uccide, né alcun veleno, alcuna arma potrà spegnerla se non la legge di amore inesorabile.

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Al verso dell’Alighieri: «Amor che a nullo amato amore perdona» [sic] risponde attraverso i secoli il verso di Giacomo Leopardi:

Fratelli a un tempo stesso Amore e Morte Ingenerò la sorte!

E Amore e Morte hanno anche nome Giulietta e Romeo. La novella di Masuccio Salernitano dove Mariotto Mignanelli e Giannozza Saracini si amano è forse la più diretta origine della leggenda veronese che ha tanta umanità di sensi. La novella ha svolgimento a Siena. Mariotto uccide in rissa un avversario ed è costretto a fuggire e nella lontananza è dannato per omicidio alla scure. Giannozza è sforzata dal padre ad altre nozze. Sta per uccidersi, disperata, ma un buon frate di nome Lorenzo, nome di cui si sovverrà Guglielmo Shakespeare, le dona un narcotico tale da rendere il sonno simile alla morte. Quando si desterà tutti la crederanno spenta, ed essa potrà raggiungere Mariotto e questi parte come forsennato e torna in Siena per rivedere l’amata nel sonno ultimo. È riconosciuto, afferrato, dato alla giustizia: gli recidono il capo. Giannozza, che si è ridestata dal sonno e ode il tragico annunzio mentre è per fuggire verso le sue braccia, accorre dove il giustiziato giace e su quel corpo tronco muore per ambascia.

Novella aspra e rude ma d’ossatura gagliarda e tale, specialmente nella scena della morte, da suscitare un’ispirazione di singolare potenza tragica in una grande artista.

Luigi da Porto, vicentino, che scrisse di storia e di poesia, per il primo disse di Romeo e di Giulietta in una sua novella stampata circa il 1530 con la dicitura che precede la narrazione: «Historia novellamente ritrovata di due nobili amanti con la loro pietosa morte intervenuta già nella città di Verona nel tempo del signor Bartolomeo della Scala».

Da questa storia più che dalla narrazione larga, ricca, eloquente, adorna di fiori retorici e di eleganze grammaticali del vescovo Matteo Bandello proviene il libretto di Arturo Rossato. Gli atteggiamenti, i coloriti, alcune movenze sono tolti dalla novella di Luigi da Porto direttamente e recati sulla scena per offrire trama alla musica di Riccardo Zandonai. Lo sforzo per dimenticare Shakespeare ed attenersi alla novellistica nostra non è riuscito. Quando amore ispira, la tragedia di Guglielmo ritorna dominatrice. Nella scena del balcone e in quella della morte il tragico inglese impone le sue maniere e le sue parole, perché egli solo, con la possanza creatrice del genio, ha saputo esprimere la voce della giovinezza ardente e folle. Giovinezza di anime e di parole che ogni cuore ha sentito vagamente, oscuramente a venti anni e che nel verso del poeta ritrova la sua espressione diretta, la sua bellezza esterna.

La parola del poema eterno che canta nel verso di Guglielmo Shakespeare ha trovato un’eco di grazia latina nella musica di Riccardo Zandonai? Nell’opera del maestro nostro vi è forse un impeto lirico pari all’armonia divina ed umana che l’inglese concesse a due bocche italiane? Un nostro compositore ha saputo emulare nella musica, nel linguaggio più universale, il prodigio di passione creato dal poeta straniero?

Arte nobilissima è quella che sente ed esprime nei suoi modi musicali Riccardo Zandonai. Severa nella forma che esclude ogni facilità volgare, elegante nel commento dell’orchestra, ricca e varia nell’impasto dei colori, questa «Giulietta e Romeo» manifesta lo spirito alto del maestro, la sua squisita sensibilità, la sua dottrina profonda. Non è mai arido, non è mai fiacco e manierato, non compone mai inutili accademie. Il suo discorso musicale è sempre elevato, i suoi cori sono pieni, variati, mossi. Tratta con maestria sicura voci ed istrumenti, e le grazie del disegno melodico vocale trovano una corrispondenza immediata nei ricami preziosi dell’orchestra.

La melodia c’è ma si affloscia, si attenua, si perde in effimeri frastagliamenti dopo poche battute.

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Non ha il respiro che trasporta le anime, non il colpo d’ala che solleva e ghermisce e rapisce le moltitudini verso l’alto, il grido sicuro di passione umana che d’improvviso fa palpitare ogni cuore e vela di pianto ogni pupilla, e rende una di pensieri, di senso, di commozione la folla innumerevole.

Manca qualche cosa alla melodia del canto, alla polifonia dell’orchestra; manca quella tal cosa imponderabile, quel tal segno inesprimibile, quella energia suprema che nessuno potrà mai definire e che è come la rivelazione improvvisa di una verità che tutti sentono e nessuno può dire, di una bellezza che tutti scorgono e nessuno può esprimere, di una gioia unica, consolatrice di ogni cuore e che una stirpe può tramandare come l’eredità più cara.

Tanta eleganza fa desiderare talora maniere più sciatte ma più robuste, un impeto di melodia rude ma di volo ardito, uno di quei movimenti irresistibili che Giuseppe Verdi sapeva creare. Le persone sceniche possono essere disegnate o dal motivo dominante, invenzione della scuola tedesca e più di Riccardo Wagner; o da un colorito melodico come è tradizione della scuola nostra. Ma le persone per trapassare da maschere sceniche in creature umane devono avere contorni certi ed ossa e polpa, muscoli e sangue, materiati di vita verace. Devono essere caratteri e non ombre.

Tutte le grazie delle forme non valgono un canto pieno; tutti i pregi delle architetture armoniose il rapimento di un pensiero semplice ed alto che dall’orchestra sale trasportando le anime verso la luce.

In questa «Giulietta e Romeo» riappariscono le qualità di artefice esperto del Zandonai che già più compiutamente e più luminosamente si erano palesate nella «Francesca da Rimini» – che resta ancora l’opera migliore dell’insigne maestro trentino – ma vi riappariscono con più accentuata deficienza di quegli elementi fondamentali che soltanto assicurano vitalità ad un’opera. Anche qui abbiamo colori d’ambiente ma non melodia d’anime, atmosfera musicale non grido schietto di passione, eleganze formali non disegno serrato, arte decorativa non sagoma di creature vive.

I cori e specialmente la rissa del primo atto, e il giuoco delle fanti del secondo atto, e tutta la prima parte del terzo con la deliziosa canzone del cantatore sono pagine vive, delicate, ricche di colori, di sonorità caratteristiche. Ma non cori, non pittura d’ambiente, non virtuosità orchestrali noi cerchiamo in una tragedia che porta nome «Giulietta e Romeo», ma la voce ineffabile della passione umana e divina, il canto della giovinezza ardente e schietta che ama e perché ama muore.

La melodia sovrana dell’amore e della morte, della giornata breve e fervida che non avrà domani, di un piacere troppo forte per essere sostenuto da questi nostri sensi mortali noi chiediamo alla voce dei due amanti. Non complicazioni sapienti, non artifici tecnici, non arabeschi istrumentali, ma un grido solo e sincero, come semplice e sincera è la giovinezza innamorata e folle. E la melodia che ammalia, incanta, rapisce, trascina; la melodia che ogni cuore sente, che è verità, vita, passione, luce, non sorge certo dalle eleganze squisite dei due duetti: quello d’amore del primo atto che nella sapienza delle combinazioni armoniche perde il carattere della ingenua e folle giovinezza immortalata da Shakespeare, e quello di morte del terzo atto privo di ogni potenza dominatrice sulle anime, troppo lungo e troppo complicato e troppo riflesso per suscitare un senso di commozione.

E nemmeno il grande intermezzo del terzo atto che vuol essere l’eco della angoscia disperata di Romeo, se impressiona per la irruenza e la insistenza delle voci e degli strumenti sapientemente intrecciati in un unico motivo tematico, non determina attraverso le combinazioni contrappuntistiche nessuna energia emotiva capace di dare l’illusione e la sensazione dell’aspro dolore.

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Riassumento queste rapide note e le impressioni del pubblico intorno alla nuova opera del maestro Zandonai, si può con piena certezza affermare che questa Giulietta e Romeo rimane a notevole distanza dalla sua maggiore sorella, la Francesca da Rimini. Anche gli applausi che alla fine di ogni atto risuonarono nella sala magnifica del teatro Costanzi, affollata dal miglior pubblico di Roma, indicarono la misura decrescente del successo che, delineatosi fervido e pieno di promesse alla chiusa del primo atto, venne mano mano sensibilmente attenuandosi negli atti successivi.

Per la esattezza della cronaca dobbiamo registrare complessivamente otto chiamate agli artisti, al maestro Zandonai e al librettista Rossato al primo atto, sei al secondo e quattro frettolose al terzo.

L’esecuzione artistica è riuscita degna della importanza dell’avvenimento e delle tradizioni del nostro massimo teatro.

Il maestro Zandonai alla concertazione e alla direzione dell’opera recò ieri sera tutta la fede della sua anima e tutta la sapienza comunicativa della sua arte, ottenendo dall’orchestra, dagli artisti e dalle masse corali effetti magnifici di particolari e d’insieme.

193 Adriano Belli, “Giulietta e Romeo” di R. Zandonai, «Il Corriere d’Italia», 16.2.1922 - p. 3, col. 1-2-3 (con una grande fotografia di Zandonai)

Il successo

Giulietta e Romeo si è chiusa ieri sera tra acclamazioni prolungate e con un vivace pugilato tra i due partiti contrari su nel loggione. I Capuleti e Montecchi rinnovavano così, dopo tanti secoli, le loro gesta per un’opera d’arte. Tanto meglio così. Dove c’è discussione c’è interesse, e c’è intrinseco valore.

Sei chiamate al primo atto; cinque al secondo; sette od otto al terzo. Il solito computo banale delle chiamate questa volta ha importanza significativa. La musica dello Zandonai per la sua forma aristocratica e nobilissima non si concede ad una prima audizione, e si temeva, tra chi aveva assistito a molte prove ed era potuto penetrare in questa speciale atmosfera sonora, si temeva che il pubblico non riuscisse ad afferrare le bellezze del nuovissimo spartito.

Ma il pubblico ha seguito Giulietta con un costante interesse, senza mai denotare segni di stanchezza; ed ha applaudito con calore alla chiusa di ogni atto. E se l’opera avesse avuto pezzi chiusi l’applauso avrebbe più volte interrotto la esecuzione come alla ronda alla metà del primo atto, al duetto fra Giulietta e Romeo al secondo, alla canzone del giullare, alla scena di dolore di Romeo, all’intermezzo.

Giulietta e Romeo, con degli opportuni ritocchi e dei tagli di cui parlerò in seguito, è opera destinata a un grande avvenire, ed infatti la festosa accoglienza della prima esecuzione è indice sicuro che l’opera conquisterà sempre più il gusto della massa e farà molta strada, come l’ha fatta e sta facendo la sua sorella Francesca.

Il primo atto

Passiamo intanto alla cronaca della serata e ad un rapido esame del lavoro. Lo spettacolo si è iniziato alle 20.55 precise. Il maestro Zandonai viene salutato con un

grande e prolungato applauso. Fin dalle prime pagine con l’orchestrina interna di Casa Capuleti ove si svolge la festa da

ballo, con il dialogato di Tebaldo e con l’entrata delle maschere, lo Zandonai ci trasporta

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nella sua caratteristica atmosfera. Si denota subito la squisitezza della forma, la suprema abilità nel trattare l’orchestra. La “canzonaccia” che i Montecchi cantano nell’interno dell’osteria battendo il ritmo sui bicchieri è resa in modo magnifico ed accompagnata con sempre maggiore abilità. L’episodio che segue, della zuffa tra Capuleti e Montecchi, dà modo al maestro di scrivere una pagina robusta per concezione e per sviluppo, e si svolge con mirabile sicurezza. L’entrata di Romeo mascherato che implora pace sui rissanti non è che una breve sosta, perché l’episodio riprende tutta la sua vigorìa sino ad essere bruscamente spezzato all’arrivo della scolta.

Il passaggio del banditore è una pagina molto caratteristica e d’indovinato colore. Appena si è spenta la eco del ritmo cadenzato di tamburi, s’inalza nell’orchestra una frase tenue piana e calma, riboccante di dolcezza. È il duetto d’amore che s’inizia e che, interrotto appena dalla breve sosta dell’uscita delle maschere, terrà tutto l’atto.

Questo duetto d’amore, forse un po’ lungo, è una pagina di pregevolissima invenzione. La caratteristica melodia cromatica dello Zandonai dà a chi la sente la prima volta una difficoltà di comprensione; ma di mano in mano che si sente piace sempre di più.

La melodia dello Zandonai non è di largo respiro e di immediata emotività, non ha la robustezza e il calore che vi strappano l’entusiasmo e vi fanno passare i brividi di intensa commozione e salire il pianto agli occhi; questa melodia, anche quando sale a potenti sonorità, è sempre intima; esprime sempre un qualche cosa di interiore e di quasi nascosto nell’anima del personaggio. In questo duetto – e chi non fosse del mio avviso torni a sentire più volte queste pagine – sono cose pregevolissime anche come ispirazione: ad esempio la frase – che ricorda un poco Francesca – Deh, bel fioretto non datevi pena, e la risposta di: Siete bello e mio! e poi quella soavissima: L’alba che infiora di sue rose il dì, e l’altra anche bella: Ove tu sia, ove tu vada, prendimi teco.

Il pubblico segue col massimo interesse questo grande duetto e rimane preso dalla chiusa in cui lo Zandonai presenta uno di quei quadri di cui è maestro insuperabile. Sugli addii degli innamorati e sugli ultimi loro baci, l’orchestra sussurra leggerissima frammenti del duetto d’amore, e mentre da lontano giungono i rintocchi delle campane che suonano il mattutino, passa l’eco di una canzone affidata al coro delle donne.

Giulietta e Romeo che da lontano si mandano l’ultimo lunghissimo bacio sono avvolti in un velo di armonie semplici, pure, in cui sovrasta la melodia italianissima. E il velario si chiude su questo quadro di sogno.

Scrosciano gli applausi e lo Zandonai è chiamato sei volte al proscenio. L’atto ha la durata di 40 minuti.

Il secondo atto

Il secondo atto ha principio alle 10.5. Qui ci troviamo a contrasto con l’atto che precede. L’idillio cede il posto alla sinfonia. La drammaticità dell’azione prende naturalmente il sopravvento. A chi ascolta per la prima volta è un po’ oscuro, come il secondo atto di Francesca, ma contiene pagine superbe trattate con maschia gagliardìa.

Il giuoco del torchio passa sotto silenzio e poco soddisfa la massa. Nel duetto tra Tebaldo e Giulietta si nota una eccessiva sonorità. Un taglio non sarebbe inopportuno e quello fatto è troppo piccolo. A questo duetto che è come una grande chiazza di colore rosso fa ottimo risalto il duetto soavissimo tra Giulietta e Romeo, incastonato nella sinfonia orchestrale, che sommessa cede il posto alle voci dei due innamorati, i quali sciolgono dal cuore e dal labbro le melodie più tenere e appassionate. Poi l’orchestra riprende nella scena del duello e della chiusa il suo alto potere espressivo con tutte le risorse di una strumentazione e di un’armonizzazione estremamente ingegnose.

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L’atto che è brevissimo – dura soli 35 minuti – è salutato da molti applausi e lo Zandonai ha cinque chiamate.

Il terzo atto

Il terzo atto si apre con vivaci scene descrittive. Il coro si svolge simpaticamente e la perizia del maestro si appalesa sempre più grande. L’entrata del Cantastorie è un po’ lunga e da un piccolo taglio si avvantaggierà di molto; ma ecco la ballata, una pagina deliziosa che non si può ascoltare senza un brivido di commozione. Delle approvazioni vengono subito represse perché il pezzo non consente soste. Quando le strofe si replicano, uguale è l’effetto, sebbene scenicamente non si comprende come Romeo, disperato fino quasi alla pazzia, perda tempo a farsi ricantare la canzone del Cantastorie e non fugga subito, come poi fa, verso Verona!

La scena della disperazione di Romeo è veramente grande. La tempesta della terra e del cuore dell’innamorato è resa con forma potentissima e di una efficacia teatrale immancabile. Il pubblico è veramente trascinato ma non può esprimere il suo giudizio perché l’intermezzo s’innesta alla chiusa del quadro. Gli istrumenti a percussione marcano fortissimo lo scalpitìo del cavallo, Romeo che corre disperato verso la donna amata riempiendo cielo e terra del suo grido di dolore è reso magistralmente. Il pezzo, sebbene mantenuto ad una quasi costante sonorità, è veramente bello. L’orchestra ha pieni effetti realistici e l’autore si afferma sinfonista potente. Il brano nel costante ritmo del galoppo del cavallo si basa sul tema appena cantato da Romeo Sii tu il mio cuor dannato che qui appare più stretto e nel grido: Giulietta mia! affidato ora, con una vera trovata, al coro. Si abbandona a metà, pur mantenendo sempre il “presto”, ad una bella pagina lirica con richiami a temi del duetto d’amore, riprende poi la sua potenza drammatica per chiudersi pianissimo mentre sopra una lunga nota dei violoncelli che attaccano una frase riboccante di dolore si apre il velario per il secondo quadro.

La seconda parte del terzo atto contiene il canto bellissimo di Romeo: Ma le fredde mani or sui capelli tuoi voglio posare, ma nell’insieme appare un po’ lungo. La morte si trascina pesantemente. Il successo sarebbe stato – e sarà certamente – maggiore se questo quadro si ridurrà di molto nella proporzione di una brevissima scena.

Alla chiusa si hanno sette, otto chiamate. L’atto intero dura 50 minuti. Poco prima di mezzanotte lo spettacolo è terminato.

L’opera d’arte Giulietta e Romeo è opera di un raffinatissimo conoscitore della tecnica armonica e

istrumentale e di un artista a cui la difficile arte dei suoni non serba più alcun segreto. Il maestro Zandonai è soprattutto un sinfonista, oltre che essere un melodista. Adopera l’orchestra con una mirabile padronanza e con una pittoresca varietà di ritmi e d’impasti, nei quali invano si cercherebbe l’imitazione di chicchessia. Egli si è sempre affermato e specie in questa opera con una personalità spiccatissima. All’orchestra fa dire quel che lui vuole, e sempre con una mirabile signorilità di disegno e di colorito. Poter conoscer come lui conosce la tecnica, maneggiare gli strumenti con quella finezza impeccabile e con quel costante equilibrio di cui si dimostra maestro assoluto, respingere ogni lusinga di effetto volgare sono già doti che pongono un musicista tra i primissimi. Anche là dove la finzione del melodramma porterebbe inevitabilmente ai soliti effetti oleografici egli sa infondere all’insieme una tale signorilità di linee e tale aristocratica delicatezza di movimento che suggestiona.

Sentendo ieri sera Giulietta ripensavo ad uno studio di un valoroso e simpatico nostro collega, studio apparso parecchi anni orsono, e nel quale si affermava – cosa allora un po’

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azzardata ma oggi giustissima – che il futuro genio dell’opera italiana dovesse essere colui che potesse riunire in sé le qualità di melodista e di sinfonista.

L’opera italiana ha portato all’apogeo l’arte del canto con tutta la sua forza espressiva, ma ha difettato di quella sinfonia che è il riflesso della mistica vita interiore. Il genio dell’opera ventura dunque – secondo lo scrittore – avrebbe dovuto essere un cantore per istinto, ma un cantore appassionato; e insieme un sinfonista per destino, ma un sinfonista alato e incantatore con la malìa dei suoni. E fondendo queste due qualità avrebbe potuto così creare l’opera di bellezza, l’opera d’arte per se stessa armoniosa di musica e di poesia, esaltandosi nell’estasi, cantando, sinfonizzando la sua e la nostra anima.

A queste parole profetiche pensavo ieri sera ascoltando la smagliante sinfonia orchestrale di Giulietta e il suo canto intimo, profondo, non a grandi linee ma sempre aristocratico e convincente per chi penetri in questa speciale atmosfera canora.

Il futuro genio preconizzato dal collega molti anni fa è sorto con Riccardo Zandonai? È forse dunque questa Giulietta un capolavoro?

Non ancora: ma certo soltanto da siffatte tempre di artisti possono sorgere i capolavori. Non un capolavoro perché il capolavoro è così vicino alla perfezione che non deve avere

difetti. In Giulietta v’è un eccesso di sonorità. Il duetto d’amore al primo atto, specie la seconda

parte che avviene nel balcone quasi nell’interno della casa di Giulietta ad un passo dalla sala ove ha luogo il ballo, raggiunge una vera frenesia del forte. E si noti che esso si inizia con la raccomandazione della fanciulla: Parlate piano, a cui risponde Romeo: Piano, che tu sola, tu sola oda Giulietta, ma poi il musicista a poco a poco si lascia andare dalla foga melodica e non conosce più freni, fino a giungere ad una strapotente sonorità vocale ed orchestrale. È vero che il melodramma è tutto una finzione, ma vi sono pur cose che occorre guardare, che il pubblico nota.

Eccesso di sonorità ritroviamo nell’intermezzo. Dopo le prime battute fortissime dell’attacco, lo Zandonai avrebbe potuto portare al “piano” la sua orchestra e poi aumentare a poco a poco d’intensità con grande e sicuro effetto. Così al contrario si è trovato a dover sostenere un fortissimo con grave pericolo, e dal quale si è salvato solo per la sua enorme perizia sinfonistica.

All’ultimo atto la scena della morte è troppo lunga. Il lungo canto di Giulietta, dopo la catastrofe, rallenta l’azione – pur essendo bello ed ispirato – e distrae l’attenzione. Oramai tutto è compiuto e la fine deve precipitare. Il canto interno perde di efficacia se ripetuto, come è ora, due volte. Un buon taglio rimedierà ogni cosa. Altro taglio occorre al duetto troppo lungo ed enfatico tra Tebaldo e Giulietta al secondo. Ed un altro al terzo all’entrata del Cantastorie.

Riccardo Zandonai ha fatto un’opera pregevolissima, che pur attraverso i difetti che abbiamo esposti con la consueta sincerità si fa ascoltare con vero godimento estetico e che non stanca mai. Constatiamo con piacere e soddisfazione che oggi vicino a Francesca esiste per l’arte un altro melodramma nobilmente scritto ed ispirato, e per il pubblico un’altra opera italiana bella e convincente.

La esecuzione

Poche parole per la esecuzione che è stata come meglio l’autore non avrebbe potuto immaginare e sperare per l’opera sua.

Gilda dalla Rizza ha dato al personaggio di Giulietta il contributo della sua intelligenza e della sua voce bella e dolcissima e fu festeggiatissima col tenore Fleta, artista sicuro, preciso,

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dotato di voce bella, facile negli acuti e calda nelle note centrali. Nella sua parte faticosa e lunga ha mostrato una invidiabile resistenza.

Carmelo Maugeri ha dato alla rude parte di Tebaldo tutta la voluta linea d’arte. È cantante sicuro, di buona voce e di efficace dizione.

Intorno alle parti principali voglio ricordare quelle delle parti secondarie, e prima fra tutte quella del Cantastorie che Luigi Nardi ha reso da vero e grande artista. Il Nardi è eccellente sempre, e di lui diremo che lo Zandonai l’ha dichiarato insuperabile.

E poi voglio notare la Porter, che ha cantato e agito molto bene nella parte di Isabella, e la Torelli (una donna), il Calai [sic], il Piccheiro [sic], il Besanzoni, il Fiore.

L’orchestra ha suonato magnificamente sotto la direzione dello Zandonai, concertatore eccezionalissimo.

Bene i cori istruiti dal maestro Consoli. Le scene e gli effetti luce e i vestiari bellissimi. L’opera avrà certamente molte repliche a cominciare da domani giovedì.

194 Bruno Barilli, “Giulietta e Romeo” di Zandonai al Costanzi, «Il Tempo», 15.2.1922 - p. 3, col. 2-3

Anche questa volta, e per un’abitudine disperata, ci siamo ridotti a scrivere là sul posto

queste note di cronaca a zig-zag sulla première di ieri sera. Assumiamo frettolosamente e con molta paura, al cospetto dei carabinieri di servizio in alta tenuta, le funzioni di un esaminatore e di un giudice patentato. Ormai non c’è più tempo a riflettere, dobbiamo rinunciare ai consigli della notte, della coscienza e della prudenza; non ci si dica di ordinare queste nostre impressioni, di ripulire e di rassettare tutto il materiale confuso ed irto delle nostre reazioni, di pesare le parole e di risolvere i dubbi; senza por tempo in mezzo s’ha da portare al giornale qualche cosa su quest’opera nuova di Zandonai, e dobbiamo correre con tutto quel che di crudo e di aspro abbiamo potuto strappare alla recita per rovesciarlo, con tutto il risentimento, nel pentolone dove già bolle, si gonfia e stagna minacciosamente il piombo della tipografia.

Abbiamo la disgrazia di sedere, al Costanzi, in una poltrona che rientra nella giurisdizione territoriale degli ottoni, dei timpani e della gran cassa; ma finora la cosa poteva andare e non avevamo fatto gran caso di tale prossimità e di tale sudditanza: non si poteva dire che il loro fosse un regime di oppressione e di violenza. Questi istrumenti che, vigilati e ammoniti dai compositori contemporanei, s’erano fatti nell’ultimo secolo tetri e silenziosi, così che li si poteva considerare da vicino come degli originali misantropi e innocui, scatenarono improvvisamente ieri sera un tale baccano pieno di rancori da rendere quasi impossibile il nostro lavoro di segnalazione. I tromboni si azzuffarono, per una nota, come cani intorno a un osso, le trombe si inerpicarono leste sugli acuti strillando a perdifiato e i timpani si gettarono rotoloni fra i litiganti percuotendo alla cieca con una tempesta di botte tutto e tutti. Noi stringevamo con angoscia i bracciuoli della nostra poltrona senza sapere veramente più se dall’altra parte dell’orchestra si sparassero fucilate, pistolettate o se la legione degli archi fosse stata lanciata anch’essa all’attacco: una nebbia ardente sembrava invadere il teatro e fra gli spari confusamente ci pareva di scorgere dei violini e dei clarinetti proiettati contro le pareti e contro il soffitto come da un ciclone distruttore. A volte, nel frastuono, il quadro si allargava e ci pareva di vedere anche Riccardo Zandonai trascinato e sospinto dalla routine, rovinato dal mestiere, scrivere e scrivere correndo pagine su pagine, note su note a castelli, a città, che nella fuga forsennata crollando dallo spartito si spargessero grandinando intorno,

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come chicchi di grano turco, mentre l’orchestra intera e parecchi amatori con l’urgenza comica dei tacchini affamati lo inseguivano beccando a destra e a manca ingordamente tutto quel ben di Dio istrumentale.

Anche noi malcapitati, indotti dal nostro dovere di cronisti, ci siamo precipitati sulle sue tracce perdutamente. Sentivamo via via, attraverso un garbuglio elaborato approssimativamente al di fuori e dentro tutto pieno di vecchi arnesi dell’ortopedia musicale, di grossi trappoloni, di tagliuole arrugginite e di reti luride e marce entro le quali avrebbe dovuto incappare in massa la gente poco informata e senza indirizzo, sentivamo un lezzo intollerabile venir su dalle rimasticature infracidite che coprivano a mucchi tutto il fondo del lavoro. Gli artisti, costretti a muoversi sopra una intavolatura di armonie fraintese, malsicure, rabberciate e sbilenche, si spingevano verso il pubblico urlando disperatissimamente come se noi spettatori si stesse in ascolto dall’altra parte del canale della Manica; l’orchestra, simile a un battello caricato male, strapiombava tutta dalla parte degli istrumenti di banda e qualche volta affondava di peso scomparendo: allora in quella pausa disastrosa e gravida d’incertezza era possibile di veder apparire, tristi e incappucciati come misteriosi mendicanti sulle cantonate, gli espedienti scaduti e venerabili del basso melodramma, quelli che nel linguaggio abulico degli impresari si chiamano gli effetti teatrali.

A buon conto noi abbiamo fatto tutte le ricerche possibili, frugando con gli sguardi e con la punta del bastone in ogni angolo di quest’opera nella speranza di scoprire un documento di identificazione, un’impronta riconoscibile, ma purtroppo non ci è stato dato di trovare un solo indizio di autenticità, nemmeno quella zampa del leone affumicata che ogni discreto compositore tira fuori nei momenti oscuri e difficili.

Ragionevole, energico e bonario, senza fisime e senza fantasia, Zandonai ha il colpo d’occhio e la serietà positiva d’uno chaffeur meccanico; prodigioso di attività e largo d’amore verso coloro che gli somigliano, egli costituisce oggi la più spiccata impersonalità del mondo lirico; capo fila e guiderdone sicuro di tutti i mediocri, egli esce volentieri dalle sue schiere per contribuire con tutta la sua praticaccia al già avanzato decadimento dell’opera italiana. Naturalmente a questo suo tipico e fortunato programma non è mancato e non mancherà mai anche l’adesione ufficiale e l’appoggio autorevole del nostro Governo. I suoi più sfegatati sostenitori lo proclamano già immortale, mentre egli dimostra chiaramente anche in questa Giulietta e Romeo di non volerne sapere: ogni volta si promettono di lui cose straordinarie che egli tranquillamente non mantiene; gli cacciano la celebrità su per le scale di casa e gliela spingono fino dentro al suo studio: egli allora, invece di abbracciarla e di tenerla stratta, apre la finestra e la licenzia, come uno che non ha tempo da buttare.

Si dice un gran bene delle sue qualità di colorista, ma, a parer nostro, questi suoi pregi speciali sono del tutto esteriori e quindi ordinarii e banali, del resto fin qui niente di male; in quanto all’amore tra Romeo e Giulietta, l’amore Zandonai non lo può certo inventare. Il primo quadro dell’ultimo atto si apre molto bene e si svolge caldo e naturale fin che non lo guasta l’intervento di Romeo. Il brano istrumentale più rilevante e più organico è quello cosiddetto della cavalcata, brano molto rumoroso, poco originale, probabilmente bolso, ma purtuttavia plausibile e costruito su una intavolatura solida, ma in fatto di brani istrumentali suoi conosciamo di meglio, di molto meglio, come la Primavera in val di Sole, e anche sotto certi riguardi la suite «Patria lontana»; ci vien fatto allora di pensare che questo autore abbia più attitudini per il genere sinfonico che per quello teatrale e vocale in genere.

A noi sembra che il taglio discreto e minuscolo di qualche atto e la soppressione di alcuni elementi troppo decorativi e superflui come i due personaggi Romeo e Giulietta a vantaggio di una maggiore attività scenica e musicale aggiungerebbero snellezza e interesse a quest’opera tanto desiderata e punto ottenuta.

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Il teatro era affollato in ogni ordine di posti dal pubblico imponente delle grandi occasioni. L’opera, concertata e diretta con grande sicurezza dall’autore stesso e inscenata

egregiamente dal comm. Clausetti della Casa Ricordi, ottenne un’esecuzione eccellente e un successo assai lusinghiero. Il maestro Zandonai venne evocato entusiasticamente e fu costretto a presentarsi insieme a tutti gli artisti e poi solo sei volte dopo il primo atto, tre dopo il secondo e otto alla fine del terzo ed ultimo atto.

Anche per il librettista, Arturo Rossato, le accoglienze furono calorosissime. Non possiamo, per la ristrettezza del tempo, parlare dei meriti eminenti di ogni artista: tutti

sostennero la loro parte con grandissimo valore. Gilda Dalla Rizza, Giulietta, Michele Fleta, Romeo, il baritono Maugeri, Tebaldo, il grande e impagabile Nardi, il tenore Palai e tutti gli altri che ora non ricordiamo vorranno perdonarci se per brevità omettiamo quasi la cronaca dell’esecuzione. Anche i cori e l’orchestra assolsero benissimo, presto e con grande slancio il loro arduo compito. Le scene brutte ma appariscenti e l’insieme sfarzoso dello spettacolo vennero molto ammirati.

195 a.d.d., “Giulietta e Romeo” di R. Zandonai, «La Voce repubblicana», 16.2.1922 - p. 3, col. 1-2

La tragedia

Arturo Rossato deve avere avuto la preoccupazione, nell’accingersi a sceneggiare un libretto sulla leggenda tragica degli amori di Giulietta Capuleti e Romeo Montecchi, di fare del teatro. Quindi movimentare scene, preparare con alcuni episodi di ambiente i duetti dei protagonisti, ed essere alquanto vario. Con questi intenti, quali a noi appaiono, il poeta è riuscito a fare il suo libretto, non brutto e non bello, non volgare e non nobile, sufficiente a servire da guida al musicista che cercava cimentarsi con un altro famoso soggetto, dopo la Francesca.

Ma proprio per questo il poeta ha stemperato e quindi diminuito il pathos di una leggenda d’amore, consacrata dalla fresca fantasia dei novellieri italiani e dalla poesia oceanica di Guglielmo Shakespeare. Rifare per il teatro lirico Giulietta e Romeo doveva significare per un poeta che abbia squisita sensibilità moderna fare opera di sintesi e di interpretazione insieme. E quindi fare un’opera un po’ soggettiva, anzi il più soggettiva possibile, circoscritta dalla cornice del tempo quanto basti per la rievocazione ambientale.

Una tragedia del genere perciò non può essere che un’opera di stile, assolutamente, perché è puerile la ricostruzione meccanica della cronaca del tempo narrata dai novellieri, ed è paradossale la pretesa di accostarsi o di superare Shakespeare, il volgare e il sublime di Shakespeare.

Arturo Rossato è rimasto dunque nei limiti della esteriorità e non si è curato di scavare nel vasto palpitare del desiderio, della fedeltà tenace, del dolore, della disperazione degli innamorati. E di conseguenza non sono balzate dalla cornice dei quadri le persone della tragedia, la loro decisa individualità, la loro carnale e spirituale vita inconfondibile con le figure secondarie.

Una specie di piatto livellamento costringe tutti ad obbedire alla rotazione meccanica delle scene, e non basta, per il necessario rilievo, [in modo] che una scena duri più dell’altra, che un duetto d’amore sia più prolisso di una mischia fra Capuleti e Montecchi: del grande fatto che superi e sovrasti alle piccole cose banali della rissosa esistenza delle fazioni medioevali. Grandezza in profondità, insomma, non in estensione.

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La vastità della tragedia shakespeariana è tutta qui. Episodica, frammentaria, disparata nelle proporzioni ma vertiginosa nel volo lirico, quando Giulietta e Romeo, quasi transumanati, sono rapiti dall’estasi del loro amore. Viceversa il libretto di Arturo Rossato, pur rispettando un certo ritmo architettonico, ci ha riprodotto la storia di due innamorati qualunque, che invece di appartenere alle due famiglie rivali di Verona potrebbero essere i modesti e capricciosi figlioli di due famiglie dei nostri giorni di un contado di Sicilia o di Sardegna tra le quali non corre buon sangue per un prosaico contrasto di interessi. E di fatti, dov’è l’odio fra Capuleti e Montecchi? è tutto in Tebaldo, legnoso, piatto, opaco personaggio, che non giustifica il motivo della sua accigliata e rigorosa tutela su Giulietta, nemmeno con la umana gelosia. Ma il musicista, scegliendo il suo poeta, ha messo in pace le sue aspirazioni e si è accinto di buona lena al lavoro.

La musica

Riccardo Zandonai al folto pubblico del Costanzi, che lo ha accompagnato finora con molta simpatia nei suoi passi circospetti e volonterosi lungo il difficile cammino dell’arte, è apparso ieri sera uguale a sé stesso. E non esitiamo, quindi, a definirlo inferiore: perché questa volta il musicista della Francesca d’annunziana doveva veramente dirci una parola nuova, doveva rivelarci il tesoro della sua lirica, che finora sembrava gelosamente custodito e soffocato nel cofano prezioso della ingegnosa tessitura sinfonica; doveva scoprirci la sua anima canora, attutita dalle sonorità, spesso assordanti.

Si era detto infatti che Riccardo Zandonai, studioso e assimilatore intelligente della tecnica moderna, paziente raccoglitore d’impressioni ritmiche, agile strumentatore e robusto costruttore di impasti orchestrali, con Giulietta e Romeo si sarebbe un po’ abbandonato all’estro, all’ispirazione. La scelta stessa del soggetto doveva significare il bisogno di sprigionare il canto che da tempo gorgogliava nella compressione della tecnica. Ma purtroppo anche questa volta il canto libero, avvincente, è rimasto rinchiuso ostinatamente nel petto di Riccardo Zandonai.

Il primo atto possiamo dividerlo in due parti: quella corale, con la mischia fra Capuleti e Montecchi, e quella duettistica, fra Giulietta e Romeo. La musica descrive con una certa freschezza di tocco ed una bella efficacia di colorito il passaggio delle comitive mascherate e si empie di festose sonorità nella rissa fra le fazioni. Il movimento delle masse è però senza impeto di collera popolana e senza una virile asprezza. Quando compare la ronda, vediamo le fazioni confuse insieme dileguarsi sotto lo stimolo della paura che sembra placarle. A nostro giudizio, l’aver voluto affidare all’orchestra il compito di esprimere l’urto delle fazioni piuttosto che alle stesse voci della folla costituisce un errore di prospettiva che doveva essere evitato dopo il monumentale esempio offerto da Riccardo Wagner con la baruffa del secondo atto dei Maestri Cantori. Il grande sinfonista ha saputo far cantare i varii gruppi del coro, con una spiccata individualità di ciascuno, affidando all’orchestra un sobrio comento complementare. Il primo duetto di Giulietta e Romeo, che culmina nella scena del bacio, ha un certo sapore di sana poesia che lascia sperare un ulteriore sviluppo melodico. Siamo ancora agli spunti, al caldo fraseggio che ha timidezze e incertezze di volo. La linea del duetto è limpida, sicura; le modulazioni riescono gradevoli, e per quanto il pubblico si aspetti il sospiroso cinguettio di due anime ingenue e rapite, la voce di Giulietta prorompe invece con accenti virili. L’atto nel complesso è accolto con un certo favore, e l’aspettazione vivissima del pubblico non è delusa. Autore e interpreti vengono chiamati quattro o cinque volte al proscenio. Nell’intervallo i commenti sono disparati, ma i favorevoli superano i contrari. Il musicista già noto ed apprezzato è apparso più disinvolto, più sicuro negli abbozzi descrittivi e più amico del bel canto che sembra sicuramente annunziato.

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Il secondo atto si inizia con una gioiosa scena, ma le allegre comari di Verona che circondano la malinconia di Giulietta non si divertono sul serio e non divertono il pubblico. L’entrata di Tebaldo non suscita alcuna impressione, il seguente duetto con Giulietta è piuttosto grigio. Il duetto fra Giulietta e Romeo fa declinare le speranze riposte ascoltando quello del primo atto. Siamo dinanzi ad un dialogo musicale; il canto ancora non si snoda, la melodia non fiorisce, la passione non diventa musica che prorompe, e il pubblico resta freddo dinanzi all’artificioso calore degli innamorati. Il duello fra Tebaldo e Romeo che ripete una situazione del primo atto, con lo sfondo esterno di un’altra zuffa fra Capuleti e Montecchi, non suscita alcuna emozione.

Il finale si appesantisce nel ritmo funebre del coretto che accompagna la salma di Tebaldo, e l’atto si chiude senza suscitare sincere e nutrite approvazioni. Altre quattro o cinque chiamate all’autore e agli interpreti, lievemente contestate.

Il terzo atto si divide in due parti. La prima, chiassosa e movimentata, è piuttosto ingombrante ed estranea all’economia della tragedia. La notizia della morte di Giulietta, che Romeo apprende da un cantastorie girovago, non persuade nessuno, per quanto la nenia cantata con bella espressione dal tenore Nardi sia accolta favorevolmente.

La cavalcata è fragorosa e ridondante nella tessitura sinfonica; produce un certo effetto ma non costituisce una bella pagina, presa a sé.

Le ultime speranze sono ormai affidate alla scena finale. Romeo dinanzi alla cappella funebre che racchiude il corpo di Giulietta addormentata si abbandona ad un declamato senza alcun particolare rilievo. Il risveglio di Giulietta, il duetto, la lunga morte di Romeo, l’alba che bacia i corpi degli innamorati adagiati nella pace senza fine formano una successione di ritmi, di spunti melodici, di frasi non sviluppate. L’attesa melodia non è più venuta, la promessa del canto più volte annunziata durante gli episodi della tragedia non è stata mantenuta.

La nuova opera di Riccardo Zandonai è dunque povera di idee, ossia di melodia. L’amore di Giulietta e Romeo si esprime col più irresistibile lirismo, non con i quadretti di genere. Il musicista ha indugiato intorno ai particolari, ha impiegato molto del suo tempo prezioso nelle rifiniture marginali, ma ha dimenticato l’essenziale: il volto e l’anima dei protagonisti.

L’esecuzione è stata pregevole. L’orchestra, diretta con paterno amore da Riccardo Zandonai, ha suonato splendidamente. Gilda Dalla Rizza ha confermato la sua fama di poderosa cantante e di interprete efficace. Il tenore Fleta ha impiegato la ricchezza della sua voce e le sue risorse sceniche ad animare la figura di Romeo. Il baritono Maugeri, un po’ impacciato e legnoso nei panni di Tebaldo, ha reso con brutale efficacia la sua parte vocale. Bene i cori. Di dubbio gusto gli scenari, specialmente nel secondo atto.

Quando lo spettacolo è finito il pubblico si è maggiormente diviso negli apprezzamenti e gli ottimisti sono stati sopraffatti. Forse è necessario tornare ancora sulle nostre osservazioni.

196 L. T., “Giulietta e Romeo” di Zandonai al Costanzi, «Il Popolo romano», 16.2.1922 - p. 4, col. 2-3

Emma Carelli era raggiante. Perché? Per il rumoroso, strabiliante, sesquipedale successo di Zandonai? No. Per il suo. Che retata

d’oro ieri sera! Come ha fruttato la paziente reiterata insistente battuta di gran cassa di questi giorni nella compiacentissima stampa cittadina e come ha portato il suo frutto.

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«Lo Tesoro comenza dal dì che la réclame fiorio e fece frutto», direbbe anche Brunetto Latini.

Noi non ci siamo prestati al giuoco e a qualcuno che ce lo ha rimproverato abbiamo risposto che la critica si deve farla dopo lo spettacolo e non prima.

Il pubblico ha dunque, dicevamo, decretato a «Giulietta e Romeo» tale un subisso di applausi tra ammaestrati e sinceri che il Costanzi ne ha tremato dalle basi ai fastigi.

Da molto tempo non eravamo abituati a tali manifestazioni assordanti di giubilo e di ammirazione. Tal che sembrarono tepidi perfino gli applausi che salutarono l’apparire del Principe Ereditario (come abbiamo sentito, o Bellezza5, la nostalgia di te che solo sai con così invitta fede dirigere la Marcia Reale!). Non per nulla abbiamo insistito su questa fragorosità di consenso della folla alla nuova opera di Zandonai perché mai il dissidio tra il così detto “successo di pubblico” e il valore intrinseco del lavoro rappresentato ci è parso così aspro e stridente: perché se il pubblico (claque a parte) ha voluto significare al maestro Zandonai che egli ha compiuto opera vitale e nuova d’arte, noi dobbiamo recisamente affermare che opera d’arte non è ma di mestiere, e che nuova non è ma decrepita, e vitale non è ma così bene e definitivamente morta, invece, che non rimane che cantarle il “de profundis” doloroso, “de profundis” più forte per noi che per Zandonai stesso poiché egli è, beato lui, uno di quegli uomini che credono nella propria infallibilità artistica malgrado tutto e malgrado tutti.

Non per lui dunque ma per questa nostra povera arte melodrammatica travagliata scriviamo queste frettolose note di critica, come il tempo e lo spazio ci consentono: schematicamente.

Le ragioni che hanno fatto di questa «Giulietta e Romeo» una infelice creatura inadatta alla vita sono essenzialmente due: la prima è che Zandonai non vede il melodramma. Egli, uomo d’analisi, non sa concepire che episodii musicali; cieco per la virtù sintetica (virtù superiore, comune a pochi ingegni, riservata per lo più ai genii) egli non sa concepire altrimenti un’opera che come una sequela di episodii uniti in ordine cronologico e separati l’un dall’altro da piccoli asterischi armonici puramente decorativi.

Il “pahtos” [sic] sentimentale o tragico del tutto non lo riscalda e non lo travolge. Capace di miniare con meticolosa cura un volto nei suoi più piccoli particolari di

armoniosa estetica, egli non sa invece determinare i rapporti di ombra e di luce e cioè di verità e di vita che questo volto deve assumere nello sfondo del quadro per appartenergli, per essere parte del tutto, per non apparire una decalcomania piatta ed insipida appiccicata da un fanciullo che ignori anche ogni legge di prospettiva su una veritiera immagine di paesaggio ritrovata sul cassetto del babbo. Per Zandonai il babbo è ancora e sempre Mascagni.

Ed ecco venuto così senz’altro il momento di parlare della seconda ragione per cui l’ultima (ultima?) opera di Zandonai è nata senza ragioni di vivere in sé e per sé.

Imitazione contorta, imitazione incompleta e faticosa dell’estetica Mascagnana ormai sorpassata, essa ha tutti i difetti di questa mentre ne ha contraffatte le virtù innegabili di sincerità e di buona fede per servire a scopi perfettamente antitetici alle intenzioni del Maestro. Così quello che era in lui esuberanza romantica ma musica non artificiosa diviene qui blaterazione vacua e pretenziosa, pleonastica e vana di sviolinate cui la prudenza di sapienti cesure non riesce a togliere il carattere pedestremente retorico che a loro ha dato vita.

Vita effimera, buona soltanto a far vibrare di consentimento quella inferiore coscienza emotiva del pubblico grosso che il Phluger [sic] chiama giustamente coscienza spinale.

Ricapitolando dunque:

5 Il direttore Vincenzo Bellezza.

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Episodi lirici ricamati senza gusto e senza scopo su un vecchio canovaccio tecnico ed inspirativo.

Con tutto ciò non si deve né si può negare allo Zandonai la qualità di ottimo strumentatore, inteso nel senso accademico della parola e di esperto armonizzatore del periodo melodico.

Anche questo inteso nel senso professionale della parola. A riprova di questo indichiamo quella famosa cavalcata che permette – a sipario calato – il lavoro dei macchinisti per il mutamento della scena e che è nei riguardi sopraddetti una eccellente pagina musicale in cui l’onomatopeia del galoppo riesce quasi ad eguagliare tecnicamente quella del meraviglioso verso latino:

«Quadrupedante putrem quatit sonitu ungula campum...» Ma a quale capolavoro di tragicità è mancata la forza in Zandonai dinnanzi a questo spunto

– l’unico buono del libretto – che il poeta Rossato aveva porto al musicista. Ebbene in questo Zandonai non ha saputo che sorprendere il ritmo di uno zoccolo ferrato

che batte la terra. Non ha sentito il galoppo della tragedia incalzante. Non ha sentito che Shakespeare era

presente: ha visto semplicemente lo starter del Campo dell’Ippodromo dei Parioli. E gli ha dedicato senz’altro la sua onomatopeia musicale.

«Non sic – Zandonai – sic itur ad astra».

197 m[atteo] i[ncagliati], “Giulietta e Romeo” di Zandonai al Teatro Costanzi, «Il Piccolo», 15.2.1922 - p. 4, col. 2-3

Un teatro magnifico per la prima della Giulietta e Romeo di Riccardo Zandonai.

Tornammo iersera al tempo in cui un’opera nuova destava così intensa curiosità e così vivo interesse da rendere possibile giustificare in teatro “partiti” pro o contro l’autore. Ma le vicende di Giulietta e Romeo per la sua stessa natura fatta di ingenuità e di poesia si svolsero in una pace serena, salvo alla fine un tentativo di pugilato in loggione.

Quali siano i pregi e quali i difetti e come l’ultima scena, quella del sepolcro di Giulietta, non sia stata colta e realizzata dalla fantasia del musicista e che fu dal librettista Arturo Rossato svolta in un vano e prolisso avvicendarsi di parole e di imagini – diremo stasera6.

Poche note di cronaca varranno a segnalare l’ambita vittoria conseguita dal musicista illustre. Dei tre atti il primo fu coronato da una entusiastica acclamazione che si rinnovò ripetutamente ad ogni evocazione alla ribalta dell’autore. Il primo atto è quello nel quale signoreggia il duetto d’amore che ha potenza di suggestione, così come nella prima parte è da segnalare la zuffa tra i Capuleti e i Montecchi caratteristicamente disegnata vocalmente e strumentalmente con una sonorità che non è vuota né enfatica ma piena di musicalità – e son da tenere in pregio tocchi di colori bene appropriati all’ambiente; la Mascherata, musichetta da ballo, voci notturne, cantilene, stornellate.

Zandonai appare cinque volte al proscenio prima con gl’interpreti, poi da solo. Il secondo atto si distingue per un duetto tra Giulietta e Romeo in cui la vena limpida del

musicista scorre con grazia quasi fanciullesca e per il grido angoscioso di Romeo, dopo l’uccisione di Tebaldo. Il velario si chiude e la sala prorompe in un caloroso applauso. Il Maestro ha tre chiamate.

6 Forse Incagliati allude qui al suo articolo, ben più esteso nell'analisi, che comparirà il 16.2.1922 sul «Giornale d’Italia» (cfr. n. 188).

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Il primo quadro del terzo atto risuona tutto della melopea del Cantatore – la pagina ispirata che pubblicammo l’altra sera sul Giornale d’Italia. E poiché l’interludio non consente pausa la tragedia va oltre. E siamo al quadro ultimo, del quale parleremo a lungo stasera. Alla fine Zandonai è evocato alla ribalta otto volte.

[NOTA: l’articolo da qui in avanti è uguale – con solo qualche piccola modifica e soppressione – a quello, dello stesso Incagliati, sul «Giornale d’Italia» del 16.2.1922 - paragrafo “Lo spettacolo - gl’interpreti” (cfr. dietro, n. 188]

198 R[oberto] Forges Davanzati, “Giulietta e Romeo” al Costanzi, «L’Idea nazionale», 16.2.1922 - p. 3, col. 1-2-3-4

Riccardo Zandonai ha portato egli stesso a battesimo la sua nuova opera, ma la paterna

passione d’autore non ha fatto dubitare o tremare la bacchetta del direttore, che è stata sicura e incitatrice sino alla fine dello spettacolo. Questo voluto diretto cimento non era in verità audacia verso un pubblico dimentico o arcigno di volontà sentenziatrice. Ché anzi il primo applauso all’apparire del maestro è stato di buon augurio, è stato il meritato saluto amichevole all’autore e direttore di Francesca da Rimini che aveva italianamente e festosamente schiusi i battenti della stagione.

Né Zandonai sollecitava ieri sera altro paragone che con se stesso; proprio con Francesca, cui Giulietta doveva congiungersi, venendo da un’affine leggenda di amore e morte. I melodrammi che hanno già avuto per soggetto l’istoria degli amanti di Verona non sono vivi nella conoscenza del pubblico; appartengono agli archivi musicali. L’infortunata parentesi comica de La via della finestra che Zandonai ha aperta nel melodramma tragico, cui si è volto con nobile ardore, era già fuggita dalla memoria di quanti l’avevano ascoltata due anni fa sulle scene del Costanzi. Viva e presente nel pubblico, come antecedente di Giulietta, era Francesca.

Gli applausi fervidi che hanno salutato la fine del primo atto; quelli particolari che hanno ripetutamente chiamato l’autore alla ribalta; il consenso plaudente mantenuto dopo il secondo e il terzo atto, persuadono a ritenere che il pubblico, piuttosto che fermarsi ad un insistente e severo paragone, si sia volto in favore di questa Giulietta quasi sospinto e accompagnato dal grato imminente ricordo di Francesca. E quando un autore s’aiuta per se stesso per affinità di sue creature d’arte, per affetto e rispetto di pubblico conquistati con un proprio modo di sentire e di esprimersi, e raccoglie intorno alla sua nuova opera un plauso cordiale anche se non entusiastico com’è stato ieri sera, vuol dire che, fra tanta incertezza e fugacità clamorose di musica contemporanea e cosmopolita, c’è un segno d’intesa, un comune desiderio fra pubblico e autore di volgersi senza diffidenze ma con un patto d’amistà ad un’emozione d’arte particolare, significativa come quella cercata dal maestro Zandonai e per la quale egli ha già ottenuto una schietta simpatia del pubblico.

Questa simpatia non è stata, ieri sera, nella sala colma del Costanzi, raffreddata dalle immancabili preoccupazioni di un primo giudizio, che oramai, per gli sforzi tenaci dell’impresa assicurante al massimo teatro della capitale le primizie più importanti, ha assunto una minacciosa solennità nazionale e, pel teatro lirico, mondiale. S’è mantenuta viva anzi, anche quando l’azione mancava o illanguidiva come nel secondo atto o nell’ultimo quadro. Il pubblico non ha abbandonato mai l’autore, anche quando l’autore sembrava abbandonasse lui, e non era, ché Zandonai cerca tenacemente, con ostinatezza montanara, il

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senso teatrale; ma l’ispirazione abbandonava l’autore, lasciandolo alle prese con una passione semplice e vasta come quella di Giulietta e Romeo, e che può essere riempita e agitata soltanto da colme ondate di melodia. Il pubblico è stato fedele, grato quando alcuni episodi come l’irrompere dei famigli e delle fanti dopo l’uccisione di Tebaldo giungono opportuni a liberarlo dalla stanchezza; o come il quadro animato del piazzale di Mantova e l’arrivo del Cantastorie gli dànno riposo e conforto e, nel grido di Romeo, gli dànno quella commozione sia pure fugace che invano ha atteso dalla passione dei due amanti.

Questa simpatia, questa fedeltà degli ascoltatori, che potevano essere stravolti da qualche insistenza inopportuna degli applauditori di professione, sono senza dubbio il segno più caratteristico del successo di ieri sera, conquistato anche da un’esecuzione veramente eccellente, che ha dato la misura dell’opera.

Da quando Romeo appare, mascherato, a far tacere la rissa dei Capuleti e Montecchi e risponde con un’accoratezza wagneriana alle aspre provocazioni di Tebaldo, fino alla morte attraverso gli accenti di dolcezza e di disperazione, il canto del tenore Fleta è stato fluido, appassionato, melodico anche là dove l’espressione cedeva all’enfasi d’un’alta tessitura. E tutta la poesia dell’improvviso, fremebondo affacciarsi di Giulietta al verone, subito dopo che la scolta ha fugato i rissanti e messa una nota di pace nella quiete antelucana, è stata espressa dalla voce rotonda di Gilda dalla Rizza, che riesce a serbarle note d’innocenza e di grazia pure nel travaglio cui è costretta dalla esasperazione canora, cara purtroppo ai musicisti contemporanei.

E se i due cantanti nulla hanno potuto aggiungere di virtù, nei loro incontri del secondo atto e dell’ultimo quadro, ai felici accenti del primo colloquio, il colloquio del verone, non è stata certo colpa loro. Poiché, per complicità del librettista e del musicista, questo primo colloquio, il migliore dell’opera, segna già il climax della passione dei due amanti. È già una vetta, da cui si discende irrimediabilmente.

Sebbene, per la naturalezza della scena, per semplice accorgimento teatrale, fosse stato consigliabile in questo primo colloquio, infantile e ingenuo di contro a tanta violenza di odii, una dolcezza furtiva, una tenerezza intima e paurosa, il musicista non ha saputo frenarsi. Dopo i primi accenti di una soavità raccolta, i due amanti perdono ogni cautela. Smemorati del luogo e dell’ora, si abbandonano alla declamazione del loro amore, e le loro voci sono obbligate a superare possenti quanto anacronistiche sonorità orchestrali. Tutto quello che di eroico è nella volontà dei due giovanissimi di amarsi contro l’odio delle famiglie, e si sovrappone all’inconsapevole, all’amabile, al piacevole di questo effetto che s’inerpica su per la scala e si fa beffa di tanta avversità, è subito esibito in questo primo colloquio, che contiene già quel tanto di tragico di cui è capace la non ricca vena del musicista. In questo duetto, che è in sé il migliore, che dice tutto ma è il primo, che dice meglio ma è il primo, è l’errore estetico dell’opera. L’amore di Giulietta e Romeo comincia e si esaurisce in questo primo colloquio. Il dramma è concluso, per non dire annullato, in questa prima espansione lirica, che raggiunge la solita estensione spasmodica dell’espressione musicale contemporanea. Nella passione dei due amanti non c’è più ascensione, c’è scadimento. E la subita ascensione del primo colloquio è tutta a danno dell’emozione che dovrebbe suscitare la tragedia dei due giovanissimi. E la bellezza musicale del primo duetto è decorativa, esteriore, con appena qualche ritorno di intimità nel canto di Giulietta: «Che mai sarà, che mai sarà di noi - dolce Romeo - se l’odio e il sangue della nostra gente - così ci struggon nel furore antico...» Non appena è placata nella cadenza melanconica della scolta la rissa degli odiatori, si accende subito con uguali bagliori di sonorità croscianti questa fiamma di amore, in una espressione che, volendo sollevarsi d’impeto ad altezze liriche, annulla il carattere dei personaggi, due giovanetti che s’amano di nascosto, e si perde in una retorica canora.

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Ma questa retorica è propria di Zandonai? O piuttosto essa non tiene il campo della nostra scena lirica contemporanea, da quando la musa dell’ispirazione è imprigionata come per un triste incantesimo e aspetta ancora il principe che la liberi e le tolga il cilicio della castità e la fecondi con trasporto?

È stato, questo che abbiamo detto, soltanto un errore estetico o non lo ha provocato la siccità fantastica della nostra arte e questa sua tragica necessità di mascherare l’aridità melodica e la piattezza inventiva con l’apparenza decoratiaca [?], in un fraseggiare ondeggiante e indefinito che fatalmente domanda soccorso all’enfasi e allo strepito? Non abbiamo sentito come, pur con le sue non distrutte ricchezze inventive, Pietro Mascagni non ha saputo, non ha potuto quasi serbare il carattere infantile e tenero e ingenuo dei protagonisti del Piccolo Marat contro la cupa cattiveria dell’Orco e si è abbandonato anch’egli all’enfasi, illuminata qua e là dalle luci d’una non morta ispirazione?

Non risolviamo i dubbi degli interrogativi. Li poniamo. Li poniamo in quanto sono, secondo la nostra impressione, nel giudizio dato dal pubblico iersera. Non pretendiamo di sentenziare per la posterità. Vogliamo tenerci a una fedeltà di cronisti. E appunto la fedeltà di cronisti ci dice che l’amore di Giulietta e Romeo è tutto nel primo colloquio e che l’emozione della tragedia non è però al secondo atto, dove la vicenda ripete in un identico contrasto il primo; non è nemmeno nella morte, raggiunta affannosamente, dopo una elegiaca successione di canti, senza un solo accento profondamente drammatico, ma è sentita nell’episodio migliore dell’opera, il lamento del Cantastorie che, nel piazzale di Mantova, su un cielo fosco di bufera, apprende improvvisamente all’esiliato Romeo per la morte di Giulietta.

L’emozione è cioè raggiunta con elementi lirici e drammatici che sono fuori del contrasto fondamentale dell’opera: l’amore dei due e l’odio delle famiglie. Occorre l’episodio per darla. Occorre l’aiuto di un corale facile e colorito, della canzone del Cantastorie, perfettamente cantata dal bravissimo Nardi, e obbligata a una definizione melodica popolaresca e però intima e caratterizzata, perché finalmente sui lampi della imminente bufera il grido disperato di Romeo, pallido e tristamente presago, abbia finalmente una virtù tragica. E appena l’episodio cessa, questa virtù scompare, poiché l’intermezzo che racconta il galoppo furioso di Romeo è un brano di indiscutibile bravura ma atrocemente esteriore nella sua estenuante sonorità, senza alcun pathos di ispirazione.

Da quanto abbiamo detto in questa fugace quanto fedele rassegna delle sensazioni di iersera, è ben chiaro che noi non abbiamo da muovere alcun rimprovero al maestro Zandonai e al suo poeta Rossato, perché essi hanno osato rivolgersi alla istoria, resa celebre dalla tragedia di Shakespeare. Nessuno ha rimproverato, e bene a ragione, il maestro trentino di aver domandato ispirazioni musicali a Francesca, alla Francesca di Dante e di Gabriele d’Annunzio.

Giulietta e Romeo, storia o leggenda o storia e leggenda, appartiene alla rapsodia popolare, e può e deve inspirare, anche dopo la tragedia di Shakespeare. La quale è tutt’altro che perfetta. Crediamo anzi che Rossato e Zandonai abbiano lasciato una strada pericolosa abbandonando decisamente la rappresentazione del poeta inglese, irriducibile per una scena moderna, irriducibile musicalmente con la sua varietà episodica, con la sua ingenuità fantastica mescolata alla più artifiziosa preziosità lirica.

Ma l’aver lasciato la strada pericolosa, l’esser tornati alle fonti della prima novella che racconti l’istoria dei due amanti non era tutto. Ci voleva altro. E questo altro, che doveva essere una felice ripresentazione della favola, è a parer nostro mancato perché manca la favola. Il dramma è tutto nel primo contrasto del primo atto, e Tebaldo, a malgrado della viva recitazione del baritono Maugeri, è personaggio troppo uniforme per poter interessare quando

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dovrebbe, e cioè al secondo atto. Il suo colloquio con Giulietta è nullo. Egli è soltanto una spada, una spada furiosa, impedita di battersi al primo atto dal sopravvenire della scolta e che finalmente si batte al secondo. Tebaldo è troppo poco per essere l’odio, ed è tutto l’odio di quest’opera. In contrasto d’un amore che si ferma dove comincia, al colloquio del verone, perché in realtà non comincia ma scroscia già pieno e smisurato al suo apparire.

Venuto meno il contrasto drammatico, l’opera è monca nel suo centro e si regge per episodii. I quali hanno bisogno di movimento esterno o di suggerimenti melodici popolareschi, come nel terzo atto, quando difettano di inventiva come quello del torchio al secondo.

Il successo di ieri sera potrà essere aiutato da qualche opportuno taglio, e l’opera potrà correre sul nostro teatro lirico, per il quale le speranze e le aspirazioni continuano ad essere assai più delle gioie e delle conquiste. Certo la tragedia di Giulietta e Romeo ha un altro cantore che si aggiunge ai passati, ma non ha ancora il suo cantore. Forse non può averlo che nel popolo, in qualche rapsodo di strada...

199

La sala L’ammirazione della Sala del Costanzi, nelle serate delle grandissime occasioni, è una

gioia riservata a quei pochi che sentono di star lì in quella poltrona come una quantità trascurabile, priva di qualsiasi funzione critica o decorativa, che non deve far niente altro che ammirare.

I critici, si sa, poveretti, vivono quelle tre o quattro ore sotto l’assillo spaventoso d’una spada di Damocle pendente sul loro capo: l’articolo da scrivere, tanto più difficile a scrivere quando non c’è nulla di bene e nulla di male da dire. Gli uomini, per una sera tanto, si sentono tutti un po’ membri di un tribunale che deve giudicare così su due piedi, ed hanno una gran fretta, ad ogni calar di telone, di scappare nel “foyer” per scambiarsi le loro impressioni. Le signore sono preoccupate più del solito di concedere un sapiente abbandono alla loro pelliccia, che lasci vedere e non vedere il candore delle spalle e del seno. Non troppo, per carità! Non per un malinteso senso di pudore: ma è diventato così indiscreto e maleducato, quel loggione!

Noi invece eravamo ieri sera nella fortunata condizione di chi non ha niente da fare. Neppure la curiosità di conoscere la nuova opera di Zandonai. L’avevamo ascoltata alla prova generale e, per conto nostro, ci avevamo già messo una pietra sopra. Quante pietre in questi ultimi anni! Ne abbiamo sullo stomaco una massiccia collezione, che si sopporta solo perché di quando in quando si riapre qualche avello che si poteva pensare definitivamente chiuso e ne vien fuori un alito così fresco e inebriante delle musiche del passato che quelle di oggi ci si affondano come un masso terroso in un lago sereno e cristallino. Neppure l’ansietà di far vedere un bel “frack”, essendo il nostro troppo consumato dalle cerimonie pontificali di questi giorni per metterlo in mostra in un così autorevole consesso di abiti da sera usciti allora allora dalle mani perfette del più perfetto tagliatore. E neppure, infine, l’obbligo di dover riconoscere i nomi tra tante eminenti personalità dell’arte e della politica e dell’aristocrazia, tra tante fulgenti signore. Per questo ci sono i giornali del mattino.

Quelli che c’erano

Non c’era dunque che guardare così, cogli occhi appena velati dalla mano leggera di una dolcissima sonnolenza, e da ammirare come in sogno. Questa mattina, riaprendo gli occhi dopo il sonno più pesante e ristoratore, abbiamo letto che ieri sera al Costanzi c’erano tra gli altri: il conte Cito Filomarino, ammiraglio Bonaldi, donna Maria Ruspoli, principessa

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Giovanelli, marchesa di Bagno, contessa Ciriani, contessa Giannotti, contessa Bruschi Falgari e figlia, duchessa di Castoria, donna Giacinta Del Drago, contessa Antonelli, marchesa Spinola, contessa Lovatelli, duchessa di Terranova, contessa Serristori, Carmen Mella, donna Franca Florio, madama Lyda Borelli Cini, contessa Dorsey, signora e signorina Incagliati, duchessa Lante, baronessa Scialoia, madama Finocchiaro Aprile, contessa di San Martino, baronessa Grazioli, principessa Boncompagni,, contessa Teodoli, donna Osnella [sic] Fieschi Roveschieri, marchesa Capranica del Grillo, signora Gayda, signora Minunni e signorina Ester Lombardo, contessa Vannicelli, madama Chiovet e figlia, S.E. Bonomi, S.E. Rosadi, S.E. Corbino, on. Ciraolo, on. duca di Terranova, on. Finocchiaro Aprile, on. Sardi, on. barone Compagna, on. conte Fieschi Ravaschieri, principe Odescalchi, conte Macchi di Cellere, marchese Capranica del Grillo, duca Sforza Cesarini, principe Lancellotti, conte Ruggiero Suardi, ecc.

I Principini

Ma anche S.A. il Principe ereditario e la Principessina Mafalda avevano voluto onorare della loro presenza la importantissima serata. Il Principe Umberto era nel palchetto di proscenio, nella uniforme grigioverde di granatiere. La Principessina Mafalda, in un semplicissimo ed elegante abito fragola, aveva preso posto nel palco attiguo, tra alcune dame di Corte.

Il pubblico si accorse della loro augusta presenza quando lo spettacolo era già cominciato, e nell’intervallo tra il primo ed il secondo atto tutti i binocoli si fissarono sulla figura aitante del Principe Umberto e su quella gentilissima della bionda Principessina. Ma, prima che si iniziasse il secondo atto, volle testimoniar loro tutta la sua devota simpatia, e chiese a gran voce l’inno reale. Il maestro Zandonai, non appena salito sul podio direttoriale, attaccò con slancio la Marcia reale, che fu ascoltata tra applausi scroscianti dal pubblico tutto in piedi.

La messa in scena

Che cosa dobbiamo dire degli scenari violenti e realistici d’una Verona e di una Mantova che volevano darsi ad ogni costo l’aria di essere fatte di pietre vere, di veri mattoni? Dei costumi stonati e chiassosi che parevano fatti apposta per tenere spasmodicamente aperti gli occhi più assonnati, per perpetuare nell’urto dei rossi, dei verdi, dei gialli le risse dei Montecchi e dei Capuleti, già così esacerbate nel tumulto dell’orchestra fragorosa?

Diremo solo che abbiamo dedicato una commossa lagrima ed un rimpianto agli scenari fantasiosi e melodrammatici delle vecchie opere verdiane, che non si vergognavano di apparir tela dipinta e cartone, perché c’era la musica a dar loro una vita particolare. Adesso, si sa, le messe in scena sono così curate e precise che non c’è più un soldo di spazio per l’immaginazione. Ma allora si diventa terribilmente esigenti. E non si capisce più come Romeo possa ascendere una ripida parete su di una scala che non è riuscita a districare il suo groviglio di finta seta per calare giù dal balcone; e perché delle fanciulle che giuocano debbano sfuggire correndo la fiamma d’una torcia che non si è accesa.

Ma son piccole mende, queste, che non contano e che son state portate ora dal vento impetuoso del successo sgorgato, come quasi sempre accade, dalle due regioni più elevate e laterali della sala, per guadagnare poi a sbalzi e a scrolloni tutto quanto il teatro. Eccettuato, beninteso, lo scettico e maligno “foyer” dove gli uomini si affollano per confondere il fumo delle loro sigarette e quello delle loro impressioni. Le quali, ieri sera, erano in genere alquanto discordanti cogli applausi risuonati nella sala a ogni fine d’atto.

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Ma anche queste son cose che non contano, perché le chiacchiere del “foyer” sono fatte di fumo. Quello che conta è l’arrosto degli applausi, che non poteva essere meglio cucinato e più copioso.

a. f.

200 “Giulietta e Romeo” in recita diurna al Costanzi, «Il Piccolo», 18.2.1922 - p. 4, col. 3

È stato saggio consiglio quello della Direzione del “Costanzi” di porre la Giulietta e

Romeo di Riccardo Zandonai a contatto col gran pubblico domenicale, che ha in sommo grado sviluppata la facoltà dell’intuizione artistica e la sensibilità musicale, col fissare per domani, domenica, una recita diurna della nuova opera.

Perché il pubblico affollatissimo della seconda rappresentazione in abbonamento ha tributato a Giulietta e Romeo tali cordiali accoglienze e tale fervore di consensi da rendere giustamente pago l’illustre autore, il musicista geniale che con la Francesca da Rimini ha ormai conquistato un posto d’onore nella storia contemporanea del melodramma italiano. Successo, dunque, di pubblico che occorre segnalare onestamente e che pone ormai la nuova opera di fronte a questa constatazione: che, tenuto presente il libretto e nonostante le osservazioni estetiche e di natura teatrale che giustamente la critica non ha taciute, la Giulietta e Romeo ha compiutamente conquistato l’elegante folla adunata nella vasta sala del “Costanzi” durante le prime due rappresentazioni. E ciò che è nuda cronaca non è possibile non riconoscere e non segnalare.

Domani, nella recita diurna, la Giulietta e Romeo affronterà un nuovo pubblico, quel pubblico che giudica intuitivamente, scevro da ogni preoccupazione. E sarà un avvenimento che potrà dare prova della vitalità dell’opera, nonostante qualche difetto di struttura che fu rilevato in alcuni punti del libretto.

Perché è bene affermare che in tutta l’opera si succedono le pagine ispirate come il gran duetto d’amore al verone nel primo atto, il canto pieno di tenerezza di Giulietta al secondo, la melopea del cantatore e l’«Urla, tempesta» al terzo, e il canto di Romeo dinanzi all’arca di Giulietta.

All’ancor giovane maestro trentino, del quale nessuno disconosce la genialità e la probità dei propositi, pur nelle nobili discussioni cui ha dato luogo la sua nuova e interessante opere d’arte, noi speriamo arrida domani anche il favore del gran pubblico popolare.

[...]

201 g.m.f., “Giulietta e Romeo” al Costanzi, «Il Popolo», 18.1.1924 - p. 3, col. 5

Riccardo Zandonai occupa il primo posto tra gli scrittori d’opera italiani del nostro tempo.

Si discute da qualcuno se la sua «Francesca da Rimini» sia più bella di «Giulietta e Romeo», ma il raffronto anzitutto non ci sembra ragionevole. La prima è opera a contenuto drammatico e tutta pervasa di sensualità, «Giulietta e Romeo» è invece un’opera lirica, di concezione affatto diversa. Per nobiltà di fattura, originalità ed organicità, ci sembra ch’essa rappresenti in ogni modo un concepimento di arte più elevata e perfetta. E non solo la giudichiamo la migliore creazione del nostro teatro al giorno d’oggi, ma aggiungiamo che tale primato non è relativo poiché costituisce, almeno pel momento in cui viviamo, la forma del dramma lirico la più completa e la [più] corrispondente al nostro gusto estetico.

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Le pagine splendide racchiuse in «Giulietta e Romeo» sono tante che non si sa veramente quali preferire: il duetto d’amore al primo atto ch’è tutto un incanto di chiarori, dal lunare a quello dell’alba, contiene non solo un tema affascinante ma è ricco di altre frasi non meno incantevoli.

Nel secondo atto, il tragico giuoco della Torcia fra le donzelle, in cui echeggia il presentimento di morte, è di una “personalità” impressionante. Ricco di forti contrasti e potente il duetto fra Giulietta e Tebaldo, e se il seguente breve duettino fra soprano e tenore ricorda sagome melodiche già conosciute, esso è reso nuovo dall’efficace comento orchestrale.

Finalmente, al terzo atto, la scena fra il Cantastorie che racconta la morte di Giulietta allo sbigottito Romeo, l’intermezzo orchestrale della cavalcata furibonda e disperata di Romeo nella tempesta mentre la sua angoscia è resa all’interno da scoppi di voci dolorose è di una tale forza che sembra schiacciare la commovente e soave ultima scena della morte.

Novissimo in Zandonai il modo di concepire gli sfondi corali, a macchie di colore; abilissima la sua maniera di trattare l’orchestra ove nulla è tralasciato per raggiungere la pienezza dell’espressione, con impiego felicissimo di ogni specie di strumenti anche secondari, senza che questa cura sorprendente dei particolari nuoccia alle grandi linee d’insieme.

Ma quel che più ammiriamo in «Giulietta e Romeo» è, come accennammo, la sua nobiltà: quest’opera non contiene una battuta che possa chiamarsi volgare.

Il pubblico del “Costanzi” ha avuto ieri sera la fortuna d’ascoltarne una esecuzione magnifica. La Dandolo (Giulietta), il tenore Cingolani (Romeo) ed il baritono Gherardini (Tebaldo) costituivano non solo una triade di primissimo ordine, ma il carattere dei mezzi lirici di questi artisti era in corrispondenza meravigliosa col carattere dell’opera. Essi mostrarono inoltre una bravura non comune come interpreti drammatici. A completare il fascino di questa eccezionale rappresentazione s’aggiunse poi tutto il resto: i personaggi secondari, la Porter, il Nardi, che disse alla perfezione la parte del Cantastorie, l’Uxa, il De Petris e gli altri tutti furono impeccabili, come del resto i cori, la cui parte è irta di molte e continue difficoltà. L’orchestra, diretta dal maestro Vitale che aveva concertato tutta l’opera con amore, infine gli scenari, particolarmente quelli del verone al primo atto e della Tomba di Giulietta, che Augusto Carelli seppe fare assurgere alla dignità dello spettacolo.

Dopo quanto abbiamo riferito ci sembra superfluo fare la cronaca degli applausi: il successo di «Giulietta e Romeo» fu completo. Quest’opera è destinata a costituire una della maggiori attrazioni dell’odierna stagione lirica.

202 Domenico Alaleona, “Giulietta e Romeo” al Teatro Costanzi, «Il Mondo», 18.1.1924 - p. 3

È tuttora vivo il ricordo delle affettuose dimostrazioni che furono rivolte due anni or sono

a Riccardo Zandonai nella serie di rappresentazioni da lui dirette al Costanzi; e del caloroso successo riportato dalla Giulietta e Romeo nella sua prima presentazione, che l’autore volle dedicare al pubblico romano sotto la sua personale guida. Da allora ad oggi la tragedia lirica, felicemente semplificata e inquadrata per la musica da Arturo Rossato e animata dall’arte dell’autore di Francesca da Rimini, ha compiuto con successo il giro dei principali teatri. Cosicché ritorna fra noi rafforzata dal prolungato contatto col pubblico e da ripetuti e molteplici consensi.

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Sarebbe perciò affatto inopportuno riprendere i giudizi e le discussioni che il lavoro suscitò al suo primo apparire, e che ne lumeggiano pienamente i pregi e le manchevolezze.

Limitandomi a qualche mia impressione, dirò che quest’opera mi interessa e mi avvince più per gli elementi di ambiente che di figura: essa mi fa pensare ad un antico quadro di cui rimanessero in perfetta conservazione alcune parti e alcuni particolari bellissimi dello sfondo, ma di cui il tempo edace avesse oscurato, se non cancellato, le figure o meglio i volti e gli sguardi delle figure. O – se volete – pensate ad un quadro in cui l’artista (come accadde a Leonardo per il volto di Cristo nel Cenacolo) si fosse arrestato di fronte ai volti e agli sguardi delle sue creature viventi.

Il che non toglie che la Giulietta e Romeo, nel suo insieme, possegga elementi delicatissimi di fascino. Ricordo – accennando fugacemente ai punti secondo me più sensibili del lavoro – nel primo atto alcuni momenti energici e corruschi del coro; l’episodio felicissimo che precede l’entrata di Romeo con la ronda notturna, e con quella melodia affettuosa in orchestra al clarinetto che introduce così delicatamente del “cielo sentimentale” della scena che segue; l’uscita delle maschere poco più innanzi; nel second’atto tutta la “scena del torchio”, di indovinatissima, elegante vivacità, venata di tristezza, esempio di fusione perfetta dei gesti musicali e scenici; un momento di alta bellezza – il più bello dell’opera – quando Giulietta, dopo il concitato, violento dialogo con Tebaldo, rimane sola in scena e si appressa ed appoggia stanca al pozzo mentre su un sommesso mormorare dell’orchestra s’ode il suono dolcissimo di un organino lontano; alcune parti del duetto fra Giulietta e Romeo (questo del secondo atto è, a mio parere, il più bello dei tre); specialmente qualche accento melodico, un po’ arcadico ma perfettamente intonato al personaggio e alla situazione, del canto di Giulietta; il momento della morte di Tebaldo, con quei brividi di armonici acuti su armonie gravi e religiose; nell’ultim’atto alcuni tratti delle apostrofi dolorose di Romeo e del duetto finale che chiude l’opera in una atmosfera di soave poesia.

Questi ed altri elementi che potrei esemplificare, unitamente a molte risorse sceniche di cui più avanti faremo cenno, rendono la Giulietta e Romeo di Riccardo Zandonai un’opera degna di tutto il rispetto, che si ascolta con interesse e godimento; e spiegano le calorose accoglienze da cui essa è stata ed è accolta nella sua fortunata peregrinazione.

Ammirabile sotto ogni aspetto è la realizzazione musicale e scenica con cui il lavoro si

presenta in questa riproduzione al Costanzi. Il che attesta della infinita, lodevolissima cura che la Casa editrice Ricordi pone alle opere che le stanno – giustamente – a cuore. Cura che è stata assecondata con ogni mezzo dalla impresa del teatro e dal direttore maestro Vitale, con la sua valida esperienza di animatore e di interprete.

Vorremmo parlare insieme della realizzazione musicale e scenica, tanto i due elementi – curati e armonizzati in ogni parte, così nelle linee e nei colori generali dei quadri come nei particolari – si fondono in una unica visione integrale di bellezza. Chi vuole ricreare lo spirito nella rievocazione di una vita d’altri tempi in un quadro d’arte armonioso si rechi al Costanzi e troverà l’appagamento del suo desiderio in alcune scene ed episodi della Giulietta e Romeo.

Necessità pratiche ci costringono a spezzare, nella cronaca, i magici elementi inscindibili del quadro. E, cominciando dalla parte musicale, diremo che gli artisti chiamati ad interpretare le parti principali sono stati scelti molto felicemente.

Stefania Dandolo possiede voce chiara, timbrata, ben modulata: specialmente negli episodi di dolcezza come nel duetto dell’atto secondo ella raggiunge notevoli effetti di commozione. La sua elegante figura, la grazia e sobrietà della azione scenica contribuiscono a renderla una interprete assai pregevole del personaggio di Giulietta.

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Il giovane tenore Augusto Cingolani (Romeo) ha superato vittoriosamente una difficile prova in questo che era il suo “debutto” al Costanzi. Voce bella e vibrante, passionalità di accento, figura adatta per la scena sono le qualità di questo giovane artista marchigiano, destinato certamente ad un brillante avvenire. Di tali sue qualità egli ha offerto larga prova nella sua parte, ricca sia di accenti patetici che di apostrofi angosciose e violente.

Un baritono perfettamente tagliato per la parte di Tebaldo è Emilio Gherardini: voce facile, timbrata, che giuoca baldamente in modo speciale con gli acuti ai quali volentieri Zandonai spinge queste sue parti (notiamo la grande analogia del Tebaldo col Gianciotto della Francesca da Rimini, e ripensiamo al duetto con Malatestino che si chiude con quel magnifico «Voglio» sul sol acuto); sicuro, dignitoso incedere scenico improntato ad una certa nervosità e direi quasi “dispitto” dantesco che infonde un carattere tipico al personaggio per se stesso di scarso rilievo; e soprattutto chiarezza e incisività di dizione e di accento, perfettamente rispondenti al declamato zandonaiano, sempre secco e poco musicale, ma non privo talvolta di angolosa ed austera energia).

Il Nardi, come sempre, insuperabile nella breve parte del Cantastorie. La Porter, la Zotti, l’Uxa, il De Petris, il Mellini hanno contribuito lodevolmente, nelle loro parti, all’armonia e al successo dell’insieme.

Uno speciale elogio al coro, accuratamente addestrato dal maestro Consoli: eseguiti con ogni precisione i molti non facili episodi interni e ben regolati in particolare i gridi tumultuosi in lontananza che si aggiungono allo “sfondo” nell’ultima parte del concitato dialogo fra Tebaldo e Giulietta all’atto secondo.

Già abbiamo fatto cenno del merito grandissimo che, nella felice integrazione di tutti questi elementi, spetta ad Edoardo Vitale: dalla partitura non facile, spesso frastagliata e ricca di ritmi tormentati e disegni e intrecci delicatissimi egli ha tratto il massimo delle risorse. È stato un fraterno collaboratore dell’autore, che gli deve essere riconoscente.

Della realizzazione scenica abbiamo già parlato con elogio. Le scene di Augusto Carelli sono fra le più belle e riuscite di questo artista: specialmente quella del primo atto e del secondo quadro dell’ultimo sono state molto ammirate, anche per l’indovinato e ben regolato giuoco di luci. Nella prima metà del primo atto il chiarore notturno, ottenuto con sapienti distribuzioni, nei vari piani, di luci bleu, bleu-rosse e bleu-bianche, era realizzato in modo da conferire al quadro un fascino delizioso, perfetto: e tali luci erano intonate anche armoniosamente coi colori dei costumi, specialmente con quello di Romeo (rosso con manto bleu). Molto indovinato anche il tono verde-bleu dell’ultima scena (La tomba di Giulietta) realizzata dal Carelli in maniera felicissima, e assai diversa di quella che fu adottata alla prima esecuzione dell’opera.

Di tutto ciò – e della felice composizione e movimentazione dei quadri scenici viventi: bellissimi specialmente quelli cui partecipano gli aggruppamenti di ancelle, coi loro “gaietti” costumi: indimenticabile, a tal riguardo, la scena del “torchio” – spetta molta parte di merito al comm. Carlo Clausetti, l’intelligente direttore artistico della Casa Ricordi, che alla realizzazione di queste visioni sceniche ha partecipato con grande amore, con la sua competenza e il suo buon gusto.

Il successo è stato vivissimo: un primo applauso è scoppiato al duetto del primo atto. Alla fine di ogni atto le imponenti ovazioni hanno costretto il maestro Vitale e gli artisti a comparire infinite volte alla ribalta. Dell’intermezzo è stato chiesto insistentemente il bis, non concesso.

Allo spettacolo ha assistito il Principe di Piemonte, salutato dalla Marcia Reale e da ferventi applausi.

[...]

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203 G. De V., “Giulietta e Romeo” di Zandonai al Teatro Costanzi, «Il Nuovo Paese», 17.1.1924 - p. 3, col. 2-3-4 (con un medaglione che ritrae Edoardo Vitale)

Mentre ieri sera si svolgeva nell’ampia cornice scenica del Costanzi la tragica vicenda

degli amanti di Verona, noi pensavamo a quel teatro del «Globe», a quella sordida baracca di legno sorgente sulle nebbiose rive del Tamigi ove, nell’assenza assoluta di ogni apparato scenico, alla luce di lampade fumose, Guglielmo Shakespeare dava vita alle sue immortali creature. Quella sordida baracca – nota Edouard Schure – non era da meno del luminoso anfiteatro scavato nel fianco dell’Acropoli se Guglielmo Shakespeare – fissando nel cuore umano il fulcro della vita universale – dava alla Poesia un elemento che la Grecia non poteva darle, quello dell’individualità vivente e cosciente che porta in se stessa il suo destino. In quella baracca il Titano riversava nel cuore intirizzito della Poesia, emigrata oltre le porte misteriose dell’al di là, la linfa feconda della vita, ridonava al suo scheletro una carne rorida di sangue ed in essa infondeva i germi delle passioni più divoranti. Con lieve alzata di spalle, si scaricava del dogma; poneva faccia a faccia il bene ed il male, per sbranarsi, per divorarsi a vicenda; plasmava con pollice ferreo il delitto, la frode, l’irresistibile istinto; agitava l’anima umana con le scosse più violente e dopo averla così annientata la risuscitava d’un tratto con l’aroma inebriante dei fiori più candidi: Cordelia, Ofelia, Miranda, Giulietta.

Giulietta! Da quattro secoli l’umanità piangeva sul suo fato, vedendola sorgere dal sepolcro per ritrovarsi accanto, freddo ed inanimato, l’amato amante: da quattro secoli, con la voce dei suoi poeti, con la voce di Vittore Hugo, di Arrigo Heine, di Alfredo De Musset proclamava la invulnerabile bellezza della tragica scena, divenuta patrimonio poetico universale. Tutto ciò è durato fino al 1921, anno in cui Arturo Rossato, dovendo comporre in libretto per Riccardo Zandonai la storia degli amanti infelici, si è accorto che all’uopo era innanzi tutto indispensabile riformare Shakespeare.

Quando Arrigo Boito compose per Giuseppe Verdi il libretto dell’«Otello» qualcuno osservò che egli, per il suo eclettismo un po’ facilone, era l’uomo meno adatto a rimaneggiare l’opera shakespeariana, selva selvaggia a districare la quale si richiede volta a volta polso di ferro e mano lieve: polso di ferro per scerpere il rovaio, mano lieve per cogliere il fiore nascosto. Ma qualunque sia il giudizio che si possa formulare sull’opera poetica del Boito, si deve riconoscere che egli dette esempio di alta dignità artistica, accostandosi con trepida venerazione allo Shakespeare e ponendo ogni cura nel non alterare l’opera nello spirito e nella forma.

Il Rossato non ha avuto queste preoccupazioni. Pare anzi che egli abbia posto ogni studio nell’allontanarsi dalla grande orma shakespeariana. E noi non gli contesteremmo questo diritto se la sua personale concezione poetica avesse agevolata l’espressione musicale del poema. Glielo contestiamo perché abbiamo l’impressione che l’opera dello Zandonai abbia subito in ogni sua parte l’influenza mortificante della falsa impostazione del dramma.

Il dramma di Romeo e Giulietta è tutto nel contrasto fra la sovrumana passione degli amanti e la torva atmosfera di violenza e di odio da cui essa fiorisce. È un sottile fiore di poesia che tremola su di un abisso spaventoso. E il profumo di quel fiore non può essere colto se non da chi abbia prima scandagliato quell’abisso. Il Rossato ha completamente trascurata quest’antitesi fondamentale ed imprescindibile. L’odio dei Montecchi e dei Capuleti, «che si divorano di rabbia nel flutto purpureo che geme dalle loro vene», quest’odio – che satura di sé tutto il dramma shakespeariano – è quasi completamente fuori della visione scenica. E

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pazienza se il Rossato si fosse limitato a fissare nella sua trama soltanto i punti che – a suo modo di vedere – si prestavano ad una pura espressione lirica. Riccardo Wagner, nel poema di «Tristano e Isotta», sceverò pensatamente la leggenda da ogni elemento che avesse potuto turbare la purità lineare del suo contenuto lirico. Il guaio è che il Rossato, volendo riempire i vuoti risultanti dalle spietate amputazioni operate sulla tragedia shakespeariana, è ricorso a ripieghi di ogni genere, come in quella scena della fiaccola, la cui derivazione d’annunziana contrasta nel modo più evidente con l’intonazione generale dell’opera.

Altro errore è l’aver posto al primo atto quella “scena del balcone” che è il punto culminante del dramma, sublime vetta di poesia alla quale non si può giungere di colpo. Shakespeare pensò che il bacio degli amanti, quel bacio che scocca fra cielo e terra, non potesse avere a testimoni che l’allodola e l’usignolo. A Rossato ciò non basta: ed eccolo a intermezzare il duetto con canzoni di gente avvinazzata. Neppure la scena della morte – dicevamo – è stata risparmiata. Quando Giulietta si desta, Romeo è ancora vivo. E anche qui – pare impossibile – il Rossato ha ritenuto necessario far giungere dalla strada stornelli dialettali, a menomare la tragica solennità del momento.

Tutto ciò doveva necessariamente mortificare l’ispirazione del musicista. Il quale deve avere le spalle ben resistenti se non ha ceduto al peso di questo cumulo di errori.

*** Nella esigua schiera dei nostri compositori, Riccardo Zandonai occupa uno dei posti più in

vista. Nella sua produzione si possono distinguere nettamente tre momenti: quello del dramma intimo («Grillo del focolare», «Conchita»), quello operistico-coreografico («Melenis»), quello veramente e propriamente melodrammatico («Francesca da Rimini», «Giulietta e Romeo»). Egli ha oramai conseguito la padronanza dei suoi mezzi, la libertà, l’affrancamento della sua ispirazione da ogni presupposto teorico, da ogni strettoia scolastica. Ha compiuto, o è in via di compiere, lo sforzo più arduo che ogni artista deve superare: quello di ritrovare se stesso. Pare che in Italia questo sforzo sia più difficile che altrove. Pare che i nostri artisti – i musicisti, specialmente – compiano una fatica enorme per restar fedeli alla loro natura, per persuadersi che il loro tecnicismo fine a se stesso, che le loro fiacche imitazioni, che il loro intellettualismo non si risolvono che in una faticosa e vana distillazione di profumi artificiali, per ritornare al desiderio di un’arte ferma e chiara nei contorni, totalmente realizzata, decisamente ed italianamente emotiva. In Zandonai questa crisi si è risolta o è in via di risolversi felicemente. Questa impressione suscitata in noi due anni or sono dopo la prima esecuzione di «Giulietta e Romeo» è stata pienamente confermata ieri sera, dopo un più riposato esame dei pregi e dei difetti di quest’opera, che ci ha fatto presentire prossima la manifestazione compiuta dalla genialità del maestro trentino, manifestazione che in «Giulietta e Romeo» non è ancora effettuata. È evidente in quest’opera lo sforzo del compositore per far scaturire dal suo temperamento drammatico la vena lirica necessaria a dare degna espressione musicale a quella che Benjamin Laroche, illustre traduttore di Shakespeare, definisce la più commovente storia d’amore che sia mai stata scritta. Questo sforzo non poteva produrre che quella esasperazione di cui sono traccie evidenti nelle pagine culminanti di quest’opera. Le grandi ascese liriche non possono essere che spontanee. Ove il temperamento dello Zandonai ha potuto esplodere liberamente come nella fragorosissima baruffa del primo atto, nelle concitate scene del secondo, nella travolgente “cavalcata” del terzo, il successo, che da due anni accompagna quest’opera, si è rinnovato calorosissimo, preannuncio sicuro di quell’immancabile, decisivo trionfo cui questo nostro musicista ha incontestabilmente diritto per la nobiltà degli intendimenti coi quali tenta da tempo la conquista del nostro teatro lirico.

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L’esecuzione fu lodevolissima per merito specialmente di Edoardo Vitale, sapiente armonizzatore e geniale animatore dello spettacolo. Dopo la famosa “cavalcata”, condotta con felice slancio, il pubblico tributò all’illustre Maestro una grande ovazione.

Stefania Dandolo (Giulietta) si rivelò cantante fornita di magnifici mezzi vocali e di non comune talento interpretativo. Il tenore Cingolani dette alla parte di “Romeo”, che è il suo cavallo di battaglia, quel rilievo vocale e scenico che gli ha fruttato magnifici successi in tutti i teatri nei quali egli ha interpretata quest’opera. Il baritono Gherardini (Tebaldo) fu ammirato per il caldo timbro della sua voce. Nelle parti secondarie, la Porter, la Zotti, il Nardi, l’Uxa, il De Petris, il Mellini assolsero egregiamente il loro compito.

Intonati e suggestivi i quadri scenici ideati da Augusto Carelli. Bellissimo quello del terzo atto.

Moltissime furono le chiamate. Ci parve però che il calore degli applausi, altissimo dopo il primo atto, diminuisse gradatamente negli atti successivi.

La sala era sfolgorante. S.A. il Principe di Piemonte assisté all’intero spettacolo.

204 r[affaello] d[e] r[ensis], “Giulietta e Romeo” di Zandonai al “Costanzi”, «Il Messaggero», 17.1.1924 - p. 4, col. 2-3

Riudita l’opera di Zandonai a distanza di due anni dal suo battesimo nel nostro massimo

teatro, all’infuori da quell’ambiente inevitabilmente febbrile ed agitato, con addosso un carico di allori colti in moltissime città dell’Italia e dell’estero, non poteva non apparire quella che realmente è: un’opera, cioè, di sentimento, di passione, d’impeto e di teatro. Piuttosto che negare ancora, come si fa più per inerzia che per convinzione, queste evidenti qualità, io direi che Zandonai ha invece troppo concesso al romantico episodio d’amore e morte e troppo al pubblico stesso. È dovere del pubblico intelligente di avvicinarsi allo spirito, all’animo e allo stile di Zandonai, comprenderlo e rendergli quella giustizia meritatissima che non si deve oltre fare attendere.

Per l’amore di Giulietta e Romeo, trascinante, romantico, altamente lirico, pieno d’ingenui abbandoni, quasi schivo di sensualità, il maestro trentino ha chiesto alla sua musa ritmi rapidi e mutevoli, frasi calde e larghe, soavità di poesia, gridi altissimi di dolore, di più facile ripercussione sull’animo popolare, ma egli non poteva forzare la sua forma mentale, non abolire le sue attitudini e i suoi mezzi di espressione.

Il canto di Zandonai si differenzia e deve differenziarsi dal canto dei nostri melodisti di tradizione sino a Mascagni e a Puccini; e se esso procede involuto di cromatismi, in tonalità varie e contrastanti, più vicino al nuovo declamato, non è perciò meno bello, sentito e schietto.

Ieri sera il pubblico, pur nella sua consueta rigidità, stavo per dire frigidità, ha mostrato di gustare le pagine melodiche, gli episodi d’insieme e il complesso della geniale partitura.

Il quadro iniziale e vigoroso del primo atto, il ritmo grave e lento della scolta, il duetto d’amore ravvolto in un’atmosfera sonora d’infinita squisitezza, hanno profondamente solcato l’animo degli ascoltatori.

L’altro quadro, d’intimità e di suggestione, del secondo atto con l’originale gioco del Torchio, la drammatica scena tra il violento Tebaldo e la dolce Giulietta, il duello rapido e serrato, lanciano la tragedia alle altezze dell’interesse e della emozione.

Che dire del lamento del cantastorie e dell’impetuoso intermezzo, che ha strappato l’irrefrenabile applauso del pubblico che ne voleva la replica?

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Siamo di fronte ad un’opera ricca di gemme musicali, alla quale giustamente arride il continuo e crescente successo dinanzi agli spettatori dei grandi e piccoli centri; né dubitiamo che questa nuova ed opportuna edizione romana sia destinata a raccogliere un suffragio sempre maggiore ed entusiastico.

Anche perché quest’edizione, accuratamente preparata, ha concorso al successo di ieri sera e concorrerà meglio al successo delle repliche. I protagonisti, giovani e volonterosi, sono forniti tutti di ottime qualità vocali e sceniche e, superata la spiegabile preoccupazione della prima rappresentazione, si dimostreranno degni delle parti difficoltose e delle responsabilità numerose.

Stefania Dandolo, con la dolcezza della voce e con la delicatezza quasi ingenua degli atteggiamenti, ha composto con proprietà la figura di Giulietta; il tenore Cingolani, nel duetto, nel duello, nello scoppio dolorante del terzo atto si è mostrato artista di ugola resistente ed attore disinvolto e schietto; il baritono Emilio Gherardini ha delineato con linee decise il torvo personaggio di Tebaldo. Impagabile, come sempre, nelle vesti nel cantastorie, il Nardi; bene le altre innumerevoli parti e i cori.

All’orchestra è affidato un compito arduo e preponderante poiché la partitura di Zandonai, anche quando si semplifica, rimane sempre così densa d’idee, di ritmi, di colori e sempre così logicamente serrata nei suoi elementi da richiedere una bacchetta che sappia indagarla, sviscerarla, chiarificarla ed esporla. Questa bacchetta era ieri nella mano di Edoardo Vitale che per la sapienza e l’esperienza ha reso il più segnalato servizio all’opera d’arte. Riccardo Zandonai non poteva desiderare un interprete più sagace ed amorevole.

Al maestro Vitale, ammiratissimo durante lo svolgimento dello spettacolo, applaudito ad ogni fine di atto ed evocato con gli artisti ripetutamente al proscenio, è stata indirizzata una particolare e prorompente ovazione dopo la focosa galoppata dell’intermezzo.

Serata magnifica, dunque, per elevatezza artistica e per concorso di elettissimo pubblico. Ha assistito allo spettacolo anche il Principe Umberto, al quale è stato reso l’omaggio dell’inno reale e di calorosi applausi.

[...]

205 M[atteo] Incagliati, “Giulietta e Romeo” di Zandonai al Costanzi, «Il Giornale d’Italia», 18.1.1924 - p. 3, col. 5-6

Il “Costanzi”, che la tenne a battesimo or sono due anni, ha iersera di nuovo ospitato sulle

sue scene la Giulietta e Romeo di Riccardo Zandonai. Per ogni opera nuova che ritorna nel giro di un tempo breve sulla stessa scena, è legittimo arguire che la fortuna non manca mai.

A suffragare la bontà di questa fortuna valse il successo che si delineò sin dalle prime scene e che, come le vicende della tragedia shakespeariana procedevano con la suggestione e il fascino della musica di Zandonai, si intensificò, divenne clamoroso dopo l’intermezzo; e significativo per l’unanime consenso – non una sola nota discordante – della folla che gremiva la vasta sala. Nella quale era tutta Roma intellettuale e artistica. Non era assente il Principe ereditario, del quale è nota la passione e la inclinazione per gli studî musicali, e a cui il pubblico rivolse applausi cordiali prima che s’iniziasse il secondo atto, mentre l’orchestra suonava la Marcia Reale.

Non era assente l’on. Acerbo, sempre primo ad ogni alta manifestazione d’arte, e quella di iersera è stata tale che non si può negare non accresca prestigio e onore al patrimonio musicale nazionale.

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Roma ormai, checché si pensi e si dica, ha conquistato il primato per la celebrazione del genio italico musicale, ed è dalla ribalta del “Costanzi” che tutte le nuove manifestazioni d’arte acquistano diritto alla vita o alla... morte. Dalla Cavalleria rusticana alla Giulietta quante opere nuove non mossero libere e agili, consacrate da un giudizio sereno e autorevole, da questa ribalta che non ebbe mai a spegnersi dinanzi a chi aveva diritto a dire qualcosa?

E non è dalla ribalta del “Costanzi” che Riccardo Zandonai vide illuminare il suo genio di così fulgido splendore per cui ormai le sue opere – e in particolar modo la Francesca e la Giulietta – sono divenute messaggere, ovunque si rappresentino, di dilettazione estetica e di commossa gioia?

Il musicista trentino è il solo che dopo la così detta giovane scuola, nata intorno al 1890, abbia mostrato di isolarsi, di andare per una via diversa e di imprimere alla sua produzione teatrale una fisionomia propria. La personalità di lui è ormai ben delineata e potremo dunque parlare di una musica tipo Zandonai.

Possono i suoi ideali, le sue predilezioni estetiche e artistiche suscitare discussioni, dissensi; ma dinanzi alla genialità del suo temperamento teatrale, dinanzi alla fedeltà ch’egli mostra, pur possedendo una tavolozza orchestrale ch’è e costituisce una novità nel melodramma inteso italianamente, di non discostarsi dalla tradizione verdiana – che conta procedere in una critica spigolista?

*** In questa Giulietta, venuta quinta dopo quelle di Zingarelli, di Bellini, di Vaccai e di

Gounod e riuscita la sola a sopravvivere nella storia teatrale, lo spirito verdiano si rivela nel taglio delle scene, nell’urto dei contrasti, nell’abbandono al canto melodico, senza preoccupazioni di criterî formalistici, senza la paura che il canto abbia compiuto il suo ciclo.

Zandonai ha una sua singolare espressione musicale e opina a buon conto che laddove è dramma, la vita, quivi è possibile di cantare come detta in fondo all’anima. In questa epoca scettica e stanca in cui l’opera parla per i nuovi e un po’ afoni compositori con spezzettature, a monosillabi, a respiro che tronca il periodo, la frase, e deturpa ogni imagine, Riccardo Zandonai è di parere che il lirismo non abbia fatto bancarotta. Ma il lirismo di questo illustre e ormai popolare musicista non vive in virtù di una pura bellezza formale; esso ha un soffio di vitalità che avvince e si insinua simpaticamente nell’anima di chi ascolta. È la forza, la fiamma della passionalità che arde infatti nella Giulietta.

Nella quale l’ardore drammatico si plasma sopra i rilievi psichici d’ogni personaggio. E il canto risuona e si spande... Ma Giulietta, Romeo, Tebaldo, Isabella, il Cantatore, la folla non sciolgono le loro voci senza un’anima orchestrale. Ed ecco una delle qualità distintive del genio di Zandonai. Nella orchestra si riflette la sensibilità di un artista originale, ed è la sua una sensibilità sottile, raffinata, aristocratica alla quale soccorre una fantasia agile non insensibile alle più iridescenti combinazioni sonore. Ed è per ciò che il discorso musicale ha una sua incisività tematica, un disegno strumentale e una vibrazione. In Giulietta il compositore è divenuto l’artista spoglio, denudato d’ogni servitù, d’ogni schiavitù di erudizione.

Sovratutto è caratteristico nella musica di Giulietta il senso nostalgico che tutta invade e pervade la tragedia shakespeariana. È una nota ch’è di Zandonai, non di altri, di lui che scruta e penetra l’anima dei due amanti infelici. È il musicista divenuto, che non dimentica di esser poeta. Ha la sua atmosfera ogni quadro, e in rispondenza delle vicende drammatiche, spiritualmente e musicalmente. E basti pensare a tutto il primo atto, al duetto d’amore al secondo atto, alla romanza del Cantatore, all’intermezzo e a tutto l’ultimo quadro per riconoscere in Riccardo Zandonai la felice disposizione a intendere e a dar forma all’opera teatrale, secondo lo spirito verdiano. E che importa se talvolta la musica ha una foga

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eccessiva? Beato colui che può largire da gran signore e con eccesso di prodigalità la passione sonora che tormenta ed esalta la fantasia... E quale anima non hanno certe pause psicologiche attraverso le quali si preannuncia o si determina un dramma psicologico – l’attesa, la promessa, la paura – e in cui il valore espressivo è frutto di genialità? E quale vulcanica potenza descrittiva non ha quell’intermezzo – la Cavalcata di Romeo – in cui l’orchestra risuona come un rombo intramezzato da schianti furiosi e dall’urlo di disperazione: – Giulietta! Giulietta mia! – con una melodia che è piena di varietà e di arditezza?

Ma, come Margherita nel Faust, la Giulietta è giudicata ormai dal pubblico di Roma e di quelli di tante altre città; e non vale dilungarsi oltre.

*** Conta piuttosto accennare allo spettacolo, che può star di paro a quello dei Rusteghi per

insuperabile interpretazione orchestrale, per valentìa di cantanti, per fasto di messa in scena. Era un coro iersera, tra un atto e l’altro, quello che rilevava così indiscussa constatazione.

Edoardo Vitale è alla sua quinta battaglia in questa stagione, e il suo trionfo si rinnova, si ripete. Com’egli abbia fatto vibrare la musica della Giulietta, come ne abbia reso lo spirito, come ne abbia intesa la poesia e come sia riuscito a tradurre in una linea sobria ma sempre fedelmente rappresentativa la tragedia, dissero meglio di ogni parola le manifestazioni degli ascoltatori che all’illustre maestro direttore rivolsero con un consenso unanime, con legittimo compiacimento.

Edoardo Vitale subordinò alla sua volontà, alla sua energia, alla sua bacchetta tutti gli interpreti. La magnifica orchestra lo secondò mirabilmente. Rimarrà memorabile negli annali del “Costanzi” l’impeto, il calore, l’anima con cui l’illustre direttore rese l’intermezzo, il cui inizio ebbe un attacco così inatteso e magniloquente che il pubblico parve come preso da terrore; e appena l’ultima nota si spense, dopo quella pagina sinfonica superba e tutta pervasa da un cupo terrore e da un tumulto di mille anime in pena come ad esprimere la sciagura di un’anima sola, gli applausi, le acclamazioni, divennero clamorose, imponenti. Per più minuti la sala echeggiò di battimani e con tale impeto e con tale consenso che Edoardo Vitale fu indotto ad associare a sé l’orchestra che, in piedi, partecipò alla ovazione di cui era fatto segno il suo illustre duce.

In quella dimostrazione fu la consacrazione della nobile fatica compiuta dal maestro Vitale. Alle richieste insistenti di bis, per la disposizione che li vieta, non fu possibile rispondere che dando inizio al poetico ultimo quadro, concluso con una definitiva dimostrazione di plausi.

Dei quali furono ben degni gl’interpreti sulla scena, scelti fra giovani artisti all’alba radiosa della loro fortuna teatrale e ai quali senza dubbio questa prova vittoriosa conseguita in Giulietta porterà fortuna.

Stefania Dandolo, che ha una voce di bel timbro, di sicura intonazione, rese le pene di Giulietta con una tal quale ingenuità che accrebbe fascino al suo canto, che si sciolse sempre con prodigalità. Nell’ultima scena la sua voce risuonò con ardore e poesia.

Il tenore Cingolani, dalla elegante figura, un Romeo agile e sottile, cantò con voce maschia, di bel timbro, e che sale al registro acuto con facilità e padronanza. Di ogni arditezza canora egli trionfò, e fu pieno di ardore nel duetto con Tebaldo e soffuse di leggiadra poesia la scena d’amore dei due primi atti, così come rese tutto lo schianto della sua anima nei quadri successivi.

Il baritono Gherardini compiva onorevolmente questo trittico canoro: voce ampia, robusta, vibrante. Egli si rivelò artista intelligente, interprete e cantante di rara sensibilità. Nella

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turbinosa scena con Giulietta prima e con Romeo poi, il suo accento – ed egli sillaba con arte – trovò vivacità e vigore d’espressione.

E degli altri che dire? Il tenore Nardi, questo grande artista nell’umiltà del suo ruolo, cantò con arte e con quella voce in cui pare vibri la passione umana, e con quella sillabazione che dovrebbe essere additata ad esempio a chi aspiri a chiamarsi artista. Ecco in lui un tipico esempio del recitar cantando. E ottimo l’altro tenore Uxa, che ha voce ben timbrata e di bel colore, un prezioso acquisto di questa stagione al “Costanzi”. La signorina Clelia Zotti, esordiente, rivelò una così simpatica e armoniosa voce di mezzo soprano, educata a buona scuola e non insensibile ai moti dell’anima, che di lei si può ben presagire per l’avvenire. Piena di vita, vivacemente espressiva la Porter. E anche efficacissimi il Melnikoff e il De Petris.

La cronaca lieta continua. Il coro cantò con vigoroso accento, con bella fusione, con spirito musicale, istruito dal maestro Consoli, ormai riconosciuto come il prezioso collaboratore del Vitale.

Costumi degni dell’avvenimento per fedeltà storica, per vivacità di colori e per buon gusto. Le scene che il pittore Augusto Carelli ha ideato furono molto ammirate. Il cielo con le nuvole vaganti al 1. atto è tra le più riuscite concezioni scenografiche; pieno d’intimità il cortile al 2. atto e suggestivo, tutto intonato a un senso di patetica poesia, il chiostro all’ultimo quadro.

Giulietta e Romeo ha avuto così tributo d’onore, di ammirazione e di fedeltà da quello stesso pubblico che nello stesso teatro disse all’opera di Riccardo Zandonai:

-Va, per la tua via!...

206 Vice B., “Giulietta e Romeo” al Costanzi, «Il Corriere italiano», 18.1.1924 - p. 3, col. 5

Per questa ripresa di Giulietta e Romeo – la fortunata opera del maestro Zandonai – ieri

sera il Costanzi presentava un colpo d’occhio stupendo. Tutto esaurito. La Corte e l’aristocrazia avevano risposto all’appello nella persona del Principe reale e delle più giovani e belle dame che mai abbiano ornato i palchi e la platea del nostro teatro d’opera. La colonia straniera era anch’essa largamente rappresentata da un pittoresco e gaio stuolo di signore inglesi e americane, non giovani queste, anzi, a lasciarsi ingannare dalle loro candide capigliature, del tempo che Berta filava, ma così fresche, dignitose e decorative nelle loro vistose toilettes che ci veniva fatto di pensare alla perenne gioventù delle fiabe. Dopo il primo atto si volle la marcia reale. Come per incanto i personaggi che circondavano il Principe ereditario s’allinearono e scomparvero in fondo al palco. Il Principe solo, in piedi sull’attenti, raccolse sorridendo e ringraziando gli applausi festanti del pubblico che gli giungevano dall’alto e dal basso e da ogni lato. Insomma, un’altra bella serata da registrare su queste cronache.

L’impresa ha messa in iscena quest’opera con una cura eccezionale. La parte di Giulietta era sostenuta dalla signora Dandolo Stefania. Soprano di buona razza, voce sicura, estesa, calda, espressiva, squillante. Certo non è a lei che il rustico Capuleti avrebbe potuto rivolgere nel risentimento dell’autorità paterna offesa quelle vivaci espressioni colle quali apostrofa, nel dramma originale, la sua disubbidiente figliola: «Faccia di quaresima! Carogna clorotica!». Non ci perdiamo ad immaginare ciò che lo Shakespeare avrebbe scritto in questo caso, se invece di avere nella fantasia un bocciòlo avesse avuta una bella rosa in fiore. Il fatto è che malgrado la sua rigogliosa e trionfante figura, la Dandolo ieri sera si sentì Giulietta

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nell’anima dal principio alla fine. E mai un istante dalla sua bocca scomparve quel riso innocente e triste che deve accompagnare nel canto, nell’amore e nella morte l’infelice eroina. Dobbiamo aggiungere che la sua arte di stare in iscena è pari alle sue virtù di cantante e che non ci sono pieni orchestrali che riescano a sopraffare la forza dei suoi acuti. Fu molto festeggiata.

Perfettamente a posto come voce e figura ci parve nei panni di Romeo il tenore Cingolani. Non è questa un’opera dove si possano isolare episodi e ottenere successi di bravura. La qualità del Cingolani, come quelle di quasi tutti gli altri interpreti ieri sera, ci si dimostrarono dunque nel saper sostenere la parte con quella costante unità di tono che si richiede. Questo è tutto ciò che possiamo dire per oggi a sua lode.

La stessa cosa dovremmo dire per il baritono Gherardini, senonché la sua voce robusta e colorita merita un cenno particolare. Egli cantò distesamente, con energia nella scena del duello e morì da prode. La contralto, signora Porter Agnese, se non sbagliamo, faceva la parte della nutrice, ah di quale squisita e affettuosa comicità l’immortale William circonda questa figura! Ieri sera ella non poté fare altro per la sua Giulietta che cantarle qualche canzone. Ma lo fece in modo cordiale e popolaresco, con dolcezza e pastosità. In modo che riconoscemmo subito nella Porter il personaggio che figurava7.

Al simpaticissimo Nardi era riserbato il ruolo del cantatore. La sua voce, che è sempre quella del principe e dello scemo del Boris e non può mutare, sembra fatta apposta per esprimere il dolore e il pianto delle cose irremissibilmente accadute. Nel suo cantare tenero e voluttuoso c’è qualche cosa di spietato, come un rimorso che, passando per gli orecchi, si compiace di tormentare l’anima. È vaga e inquietante la sua voce come la voce che corre, funesta come una notizia a cui non si vorrebbe credere. E la sua dolcezza lascia pienamente sconsolati. Ieri sera egli cantò una canzone in dialetto veronese, riuscendo, colla sua consueta intelligenza e perfidia, a trasmettere nel suo canto la molle cadenza veneta.

A tutti gli altri interpreti impartiamo, poiché il tempo stringe e ci fa obbligo di concludere, una lode generale. I cori, che hanno molto da fare in quest’opera, si comportarono con rara bravura. Tutti i quadri riuscirono composti con vivacità senza sacrificio dell’armonia e della musica. La galoppata orchestrale del terzo atto alla fine del primo quadro, eseguita e diretta magistralmente, suscitò tale entusiasmo nel pubblico che se ne richiese insistentemente il bis. Bene intonate le scene. Il maestro Vitale diresse vittoriosamente lo spettacolo.

207 a[driano] b[elli], “Giulietta e Romeo” al Costanzi, «Il Corriere d’Italia», 18.1.1924 - p. 5, col. 1

L’opera di Riccardo Zandonai varata con schietto successo la sera del 14 febbraio 1922 è

tornata ieri sera tra noi dopo un giro trionfale nei principali teatri d’Italia e dell’Estero. Alla distanza di due anni il nostro giudizio non può essere mutato, come non è mutato quello del pubblico. Sinceri estimatori dell’alto ingegno dello Zandonai, di cui abbiamo seguito dal «Grillo del focolare» l’ascesa verso una forma d’arte sempre più nobile e più aristocratica, non possiamo non essere sinceramente lieti che quel primo nostro giudizio, di fronte a parecchi altri autorevoli contrari, sia stato confermato dai successi in altri pubblici ed abbia trovato conforto dal decorso del tempo, vero e autorevole giudice in fatto di opere teatrali.

7 L'articolista cade in un equivoco: il personaggio di Isabella, inventato da Rossato, figura come «fante di Giulietta», non come balia.

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Dopo la prima rappresentazione dicevamo che Giulietta e Romeo è un’opera di un raffinatissimo conoscitore della tecnica armonica e istrumentale, di un artista a cui la difficile arte dei suoni non serba più alcun segreto, e sopratutto di un meraviglioso sinfonista, oltre che di un melodista. E non avevamo errato. La melodia dello Zandonai ha nel suo cromatismo tutta una speciale caratteristica, che diviene parte integrante della sinfonia. E questa sinfonia, tutta malìa di suoni, magnifico riflesso della vita interiore dei personaggi, costituisce l’opera d’arte armoniosa di poesia e di musica, e indubbiamente s’impone all’attenzione anche del profano.

Invano si cercherebbe il largo respiro e quel tale colpo d’ala che rapisce le folle, o il grido umano che fa palpitare il cuore e fa velare gli occhi di pianto; invano si cercherebbe tutto questo perché questo Zandonai non vuole né mai ha voluto. Chi demolisce per queste ragioni l’opera sua credo che finisca per fare un elogio al maestro: il quale ha voluto sempre tenere i suoi lavori in una superiore forma di aristocrazia, senza mai concedere nulla all’effetto immediato. Anche là ove la funzione del melodramma porterebbe inevitabilmente ai soliti effetti oleografici, egli sa infondere all’insieme una tale signorilità di linee e tale aristocratica delicatezza di movimento che suggestiona.

Egli sa adoperare l’orchestra con una mirabile padronanza e con una pittoresca varietà di ritmi e di impasti; nei quali invano si cercherebbe l’imitazione di chicchessia. Egli dunque è originalissimo, sia nella melodia, sia nell’armonizzazione, sia nella orchestrazione. Ma la sua originalità non si risolve in astruserie o in stranezze, essendo sincera espressione della sua squisita anima di artista.

Poter conoscere come lui la tecnica, saper maneggiare gli istrumenti con quella finezza impeccabile e con quel costante equilibrio di cui si dimostra maestro assoluto, respingere ogni lusinga di effetto volgare, sono già doti che pongono un musicista fra i primissimi.

Vi sono quadri, come quello con cui si inizia l’opera, la ronda e il finale del primo atto, nei quali non si saprebbe che cosa ammirare maggiormente, se il gusto squisito della forma o la spontaneità della ispirazione.

E quando poi si inizia e si svolge, si amplia e risolve il grande duetto in tutto il razionale sviluppo, allora lo Zandonai sa essere melodista convincente e pieno di commozione e parla un linguaggio così soffuso di soave e intima poesia che ogni parola e ogni pensiero vengono coloriti in un’onda sonora squisitissima. È certo un linguaggio oltremodo personale che immediatamente non si concede alla folla, un linguaggio così intimo che non scende subito nella sala ma direi quasi bisogna andarlo a sentire più da presso per poter vivere più da vicino la vita interiore dei diversi personaggi che quel linguaggio disegna e colorisce.

Non così si dica quando lo Zandonai deve rendere una situazione drammatica, perché allora la sua forza è veramente grande e capace di trascinare al più schietto entusiasmo ogni pubblico, come ad esempio nell’angoscia disperata di Romeo e nel famoso intermezzo, che sono indubbiamente pagine di immediata emotività senza pari.

*** L’esecuzione, curata dal m.° Vitale, è stata eccellente. Il valoroso direttore ha saputo

mettere a profitto tutta la sapienza comunicativa della sua arte, ottenendo dall’orchestra, dagli artisti, dalle masse effetti magnifici di insieme e di particolari. L’opera, sotto la sua guida vigile e intelligente, è venuta fuori in una splendida chiarezza. Nell’intermezzo è stato assolutamente magnifico e venne salutato da una ovazione calorosissima che si è prolungata parecchi minuti. Si voleva ad ogni costo la replica, che non venne concessa. Il Vitale ieri sera è stato un vero trionfatore.

Stefania Dandolo si presentava per la prima volta a Roma e, diciamolo subito, fu una gradita rivelazione. Possiede una voce di bellissimo timbro, estesa, intonata, che si spiega con

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dolcezza ad ogni esigenza della parte, e mostra di avere un temperamento artistico di primo ordine. Essa ha saputo vivere il personaggio di Giulietta con sorprendente verità così negli accenti di dolorosa poesia come nella pietosa drammaticità dell’ultimo atto. E fu applauditissima.

Il tenore Augusto Cingolani anch’esso era nuovo per Roma, e anch’esso si rivelò fin dalle prime scene per artista colto e dotato di voce bella, bene educata e che sa spingersi al registro acuto con sicurezza ed efficacia. Nella disperata scena del terzo atto fu molto ammirato.

Il baritono Giulio [sic] Gherardini diede alla rude parte di Tebaldo tutta la sua giusta linea d’arte. È cantante sicuro, di bella ed estesa voce e di una dizione efficacissima.

Luigi Nardi confermò nella parte del cantastorie il felice successo riportato due anni or sono. Artista intelligentissimo, rende il personaggio con impressionante verità, e sa cantare le famose strofe del terzo atto con accorata insuperabile espressione.

La Ricci fu una Isabella piena di espressione e di efficacia, cantò e rese la sua parte da eccellente artista. Ottimi gli altri: l’Uxa, il De Petris, la Zotti, il Mellini.

Perfetti i cori istruiti dal bravo maestro Consoli. Le scene magnifiche per disegno, prospettiva e colore. La via di Verona, il cortile della

casa di Giulietta, la piazza di Mantova e il portichetto con la tomba sono stati riprodotti da visioni delle città ove si svolse la pietosa e terribile vicenda. Ma questa perfezione non deve meravigliare. Sul manifesto è scritto il nome dell’artista che quelle scene disegnò ed eseguì: Augusto Carelli.

208 A[lberto] G[asco], “Giulietta e Romeo” di Zandonai al Teatro Costanzi, «La Tribuna», 18.1.1924 - p. 3, col. 3-4 (con una foto del soprano S. Dandolo)

Dopo di avere empito di gridi d’amore varie dozzine di teatri italiani e sud-americani,

Giulietta e Romeo hanno fatto ritorno a Roma, alla città ospitale e munifica dalla quale appunto erano partiti due anni or sono per la conquista del mondo. Molta gente aspettava ansiosamente la riapparizione degli amanti focosi e canori. Giulietta, nella sua prima esibizione, aveva saputo sedurre il pubblico maschile del “Costanzi” e varie gentildonne d’antica stirpe si erano compiaciute di gittar l’occhio su Romeo. Si desiderava che la bionda Capuleto e il Montecchio pugnace si ripresentassero, per giudicare in modo definitivo dei loro pregi, come campioni di pura razza italiana e aspiranti-eroi della scena lirica.

Per tanto, iersera, il ricevimento in onore della coppia illustre ha dato luogo a uno spettacolo pittoresco e maestoso. Il “Costanzi”, non ostante l’asprezza dei prezzi, era affollatissimo. Anche S. A. il Principe Ereditario aveva provato il desiderio di venire a fare la conoscenza della bella veronese: s’indovina che l’intervento dell’Augusto personaggio ha conferito alla festa un decisivo carattere di solennità. In onore del Principe è stata suonata la Marcia Reale, tra applausi giocondi.

La rappresentazione dell’opera di Riccardo Zandonai si è svolta impeccabilmente, sotto la direzione del maestro Edoardo Vitale. Il pubblico eletto ha potuto ammirare ad una ad una le bellezze sparse per i tre atti del melodramma amoroso e guerresco: i difetti – che pur non mancano – sono sembrati meno sensibili e perciò, grazie al valore spiegato dall’eminente direttore d’orchestra e alla robusta interpretazione degli artisti principali, l’opera è passata tra lieti consensi. Anzi, c’è stato un momento di entusiastico fervore: dopo l’intermezzo dell’ultimo atto, pagina di un color rosso-fuoco, impetuosa di ritmo, esuberante di sonorità, l’uditorio si è abbandonato ad acclamazioni prolungate e a richieste di bis. Il fatto ci è parso

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assai significativo perché il pubblico delle premières al “Costanzi” è di una proverbiale freddezza: gli abbonati ritengono di degradarsi applaudendo con calore: per convincerli a uscire dal loro riserbo bisogna compiere miracoli, o poco meno.

Quanto ai giudizi complessivi sull’opera, tutti convenivano nel riconoscere il prestigio teatrale di questa Giulietta e Romeo, sempre interessante per la vicenda scenica e per il tono di acre passionalità della musica. Tutti, altresì, erano d’accordo nel preferire il primo atto e le scene iniziali del terzo al resto del lavoro. In realtà, il vivace episodio coloristico della zuffa tra i Capuleti e i Montecchi – con la indovinata canzone della taverna –, la prima parte, così melodiosa e discreta, del colloquio di Giulietta e Romeo al balcone e la scena – indiscutibilmente geniale – del cantastorie allor che la procella urge e il Montecchio piange disperato, sono i momenti culminanti del nuovo melodramma. Qui l’arte dello Zandonai si afferma poderosa e personale. Nel secondo atto si avverte invece una certa grevezza: sembra che l’aria non circoli nel cortile di casa Capuleto. Comunque, l’effetto teatrale è sempre raggiunto e ben si comprende come questa Giulietta e Romeo, non ostante le riserve di alcuni critici, si sia imposta all’approvazione del pubblico, sempre ed ovunque.

Riccardo Zandonai, trattenuto a Genova da impegni professionali, non aveva potuto accogliere l’invito di presenziare l’esecuzione di iersera. Peccato davvero, perché egli avrebbe intensamente goduto assistendo allo spettacolo ricco e armonioso e vedendo interpretato con esemplare fedeltà ogni suo intendimento di drammaturgo musicale.

Abbiamo già detto della straordinaria efficacia della direzione di Edoardo Vitale. Aggiungeremo che l’orchestra ha seguito con sollecitudine infinita il maestro esperto: essa è stata di volta in volta pieghevole, vibrante, carezzevole, imperiosa come appunto doveva essere. Nell’intermezzo la sonorità sprigionata dalla falange istrumentale ha letteralmente sbalordito l’uditorio. Altrove, e in ispecial modo nella seducente descrizione dell’alba alla chiusa del primo atto, l’orchestra ha bisbigliato cose tenerissime.

“Giulietta” era Stefania Dandolo, artista assai giovane, venuta in rapida fama. Voce abbondante, sicura e piena di malìa; giuoco scenico appropriato; figura leggiadra e mimica passionale oltremodo espressiva. Nella costellazione lirica c’è una nuova stella. Ringraziamo gli Dei del dono cospicuo... La balda cantatrice ha trovato nel tenore Augusto Cingolani il compagno che le conveniva. Anche il Cingolani è quasi un debuttante, ma canta e recita come un artista provetto. Dotato di mezzi vocali di prim’ordine, di un ardore lirico genuino, di una bella figura fisica, questo “Romeo” ha fatto invidiare da molte dame il destino di “Giulietta”. A quanto si afferma, è stato proprio il maestro Zandonai a scoprire il Cingolani, allievo del Liceo musicale di Pesaro. Si tratta senza dubbio di una scoperta preziosa. Ottimo terzo il baritono Gherardini, che ha cantato la parte di “Tebaldo” con deciso vigore, dandole il massimo rilievo. Superiore ad ogni elogio il simpatico Nardi, nel ruolo del cantastorie; lodevole la Porter; molto notata la signorina Clelia Zotti che, per quanto sacrificata in una parte di scarso rilievo, è riuscita ad emergere, profondendo note di splendido timbro e di larga risonanza. Coro egregio, educato con nobile disciplina dal maestro Consoli. Giuoco delle masse regolato a perfezione. Di pieno effetto lo scenario dell’ultimo quadro, dovuto alla fantasia fertile del pittore Augusto Carelli.

Concludendo, uno spettacolo allestito con estrema cura e singolare perspicacia dall’impresa del nostro massimo teatro. A Giulietta la fortuna si serberà amica per molte sere. [...]

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gbar [= Giorgio Barini], “Giulietta e Romeo” di Riccardo Zandonai al Teatro Costanzi, «L’Epoca», 18.1.1924 - p. 3, col. 5

Il più recente spartito di Riccardo Zandonai procede con fortuna la sua carriera e divide

con Francesca da Rimini liete sorti e favori di pubblico, a preferenza delle altre opere del valoroso musicista, le quali, in verità, meriterebbero vita più attiva. Giulietta e Romeo, infatti, ha una fisionomia che richiama direttamente alla nostra fantasia le linee fondamentali della Francesca: ha efficacia drammatica innegabile ma è una seconda edizione, non perfezionata, della maggior sorella: evidentemente l’onda di poesia che pervade il dramma del d’Annunzio ha scosso la fantasia del musicista più vivamente e profondamente che non il libretto di Arturo Rossato, libretto volutamente diverso dal dramma shakespeariano, di cui non ha né l’intenso profumo poetico né la stupenda freschezza giovanile.

Ma la magnifica abilità dello Zandonai, la facilità scorrevole di scrittura, la chiarezza delle idee melodiche e la organicità formale interessano e conquidono l’uditorio, anche se la fantasia inventiva non è molto ricca né troppo caratteristica, anche se lo sviluppo scenico e la modellatura dei personaggi presentino elementi non sempre gustosi. Le ire che di frequente si sferrano, le lotte, i combattimenti tra Montecchi e Capuleti conferiscono allo spartito una certa animazione sonora, una manifestazione di forza (forse più esternamente fragorosa che internamente robusta) per cui i quadri che si seguono appaiono coloriti e mossi: ma la materia veramente musicale, l’invenzione melodica non abbonda né si rivela efficacemente originale.

Il primo atto ha varietà di episodi, tra cui notevole per carattere e spontanea vivezza la canzone che i Montecchi intonano nella taverna; ricche di felici contrasti le pagine in cui si svolge il dialogo amoroso di Giulietta e Romeo; di buon effetto le voci lontane, stornellanti, alla chiusa. Nel secondo atto, il dialogo bene spezzato dalle fanciulle, la scena turbolenta tra il brutale Tebaldo e la dolente Giulietta; la baruffa, la sfida, il duello danno animazione alla vicenda scenica, e l’orchestra ne ammanta la visione con vivaci colori. Nel terzo infine, la scena animata iniziale, l’indovinato lamento del cantastorie preludono simpaticamente all’intermezzo sinfonico della cavalcata: pagina poderosa e irruente, di grande effetto, sebbene di una fragorosità sproporzionata e che pare voglia esprimere il pesante procedere di un reggimento di cavalleria anziché la rapida corsa di due soli cavalieri nella notte piovosa. Contrasto ben riuscito con la malinconia appassionata e lamentosa cui si informa la funerea scena finale.

*** La esecuzione di Giulietta e Romeo al Costanzi è ammirabile, ed è tale da presentare al

pubblico lo spartito nella più attraente e animatrice estrinsecazione: Stefania Dandolo, “Giulietta”; Augusto Cingolani, “Romeo”; Emilio Gherardini, “Tebaldo” sono interpreti e cantanti intelligenti e appassionati, di singolare valore: belle voci, bell’arte di canto, efficacia d’accento, disinvoltura scenica sono le qualità che in notevole grado si uniscono in ciascuno di essi, così da destare la più sincera ammirazione e approvazione dell’uditorio: per le altre parti, elementi preziosi come l’ottimo Luigi Nardi, eccellente: Montecchio, ammirabile “Cantatore”: [!?] e bene a posto, affiatati e sicuri, come Agnese Porter e Clelia Zotti, Guido Uxa, Alfredo De Petris, Nestore Mellini.

Edoardo Vitale ha concertato e diretto lo spartito con magistrale efficacia, con alto senso d’arte, con intelligente acutezza di interprete, ben secondato dai solisti, dall’orchestra attenta, agile, vibrante; dalla massa corale ottimamente istruita dal maestro Achille Consoli. Assai lodati gli scenari, opera di Augusto Carelli; ben riusciti i costumi; ordinato e vivace il movimento scenico, di cui si è occupato con sommo interessamento il comm. Carlo Clausetti, appositamente venuto a Roma da Milano.

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Ad ogni atto, applausi calorosi e insistenti hanno ripetutamente evocato al proscenio il maestro Vitale e i cantanti; dopo la cavalcata le acclamazioni hanno assunto carattere trionfale: si è chiesta con insistenza la replica di quell’intermezzo sinfonico.

All’indovinato spettacolo, che avrà certamente molte repliche, assisteva, festeggiatissimo dal folto pubblico, il Principe di Piemonte.

210 r.m., “Giulietta e Romeo” al Costanzi, «L’Impero», 18.1.1924 - p. 3, col. 3

L’ultima opera di Riccardo Zandonai, Giulietta e Romeo, torna al teatro Costanzi alla

distanza di solo un paio d’anni, carica di onori e di allori. Al suo apparire ha suscitato una larga eco di lodi, di critiche e discussioni; ma, da Roma,

via subito a Verona dove il maestro aveva fatto vivere per la massima parte dell’opera i suoi eroi e dove egli stesso era rimasto qualche tempo lavorando a Giulietta e Romeo, ospite di un maestro veronese; poi via ancora in un lungo giro attraverso l’Italia ed all’Estero, raccogliendo ovunque vittorie su vittorie. L’ultima è quella di Genova dove Riccardo Zandonai, che vi dirige, rimarrà per altre sei repliche oltre quelle fissate dal contratto.

In tutto, più di venti teatri hanno ospitato Giulietta e Romeo, perciò è facile credere che la prima di ieri sera era attesissima: pubblico numeroso più del consueto ed una cronaca che si può riassumere in tre chiamate calorose alla fine di ogni atto ed un applauso più insistente con richieste di bis dopo l’intermezzo del terz’atto, che il maestro Vitale ha diretto con particolare ardore. A lui, del resto, va dato il maggior merito per la buona esecuzione con cui il Teatro Costanzi ci ha ripresentata Giulietta e Romeo.

Giulietta, Stefania Dandolo e Romeo, Augusto Cingolani, hanno gareggiato in bravura: la loro arte ci è piaciuta senza restrizioni, ci è parsa salda, basata su di una squisita sensibilità e dotata di mezzi vocali tali da poter affrontare tranquillamente le molte note arrampicate con cui Zandonai ha fiorito le parti; anche il gioco scenico di questi due artisti, particolarmente della Stefania Dandolo, è vario ed efficace.

Il baritono Emilio Gherardini, nella parte di Teobaldo [sic], ha avuto campo di mettere in evidenza le sue molte buone doti vocali ma non è parso altrettanto disinvolto e sicuro scenicamente.

Gli altri, tutti ottimamente, dall’inarrivabile Nardi alla Porter, Uxa, De Petris, Zotti e Mellini.

Le nuove scene di Augusto Carelli inquadrano molto bene la musica di Zandonai; dall’Albergo del Cavallo Nero si gode una veduta così esatta di Mantova che se non mancasse il Tiro al Piccione e la casetta delle Guardie del Dazio parrebbe proprio di starci ora.

L’orchestra, sotto la guida precisa del maestro Vitale, impeccabile; molto bene anche i cori, istruiti dal maestro Consoli.

All’intero spettacolo ha assistito il Principe Umberto a cui, prima del secondo atto, s’è fatta una festosa dimostrazione.

211 r[oberto] f[orges] d[avanzati], “Giulietta e Romeo” al Costanzi, «L’Idea nazionale», 18.1.1924 - p. 3, col. 2-3

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Sala elegantissima; puntualità regale nel Principe Umberto, che dovrebbe esser d’esempio agli ostinati ritardatari o frettolosi disturbatori del primo e dell’ultimo atto; applausi spontanei ad una esecuzione consolante, guidata con impareggiabile robustezza di comando dal maestro Vitale.

Appena apparsa sul verone nella scena felicemente architettata dal pittore Carelli, se non tutta felicemente tradotta sul palcoscenico dove ci si sottomette a tante tirannie, Giulietta ha gettato le sue note dolci e squillanti, e il pubblico ha avuto la lieta promessa di un canto rotondo, sincero, generoso, giovanile. E la promessa è stata mantenuta, ché la Dandolo ha saputo vincere la stessa formosità della sua persona ed esprimere una Giulietta canora, sorridente, amorosa, niente affatto preoccupata dei culmini vocali che il lirismo retorico di Zandonai tocca fin dal principio per non abbandonare mai più. Accanto a lei il tenore Gingolani [sic] è stato un Romeo gentilmente angosciato di dover sottoporre la sua semplice passione alla torbida sanguinaria vicenda di Verona. La voce di questo giovine cantante, quando non sia obbligata ad esasperazioni di sonoro declamato come ricorrono nell’opera del maestro trentino, ha robustezze generose e dolcezze morbide ed espressive. La violenza inesorabile di Tebaldo, che s’apre in una fugace parentesi di affettuosità solo nel dialogo con Giulietta al secondo atto, ha avuto bella rotondità e calore timbrato di accento per virtù del baritono Gherardini. Nel primo quadro del terzo atto, dove la drammaticità è sensibile se pure ottenuta con mezzi esteriori, il canto fine e risonante di commozione del tenore Nardi, un artista minore che potrebbe sempre esser di esempio a tanti maggiori, è piaciuto assai. E sulla scena bene inquadrata del pittore Carelli, se i trapassi di luce fossero stati più accuratamente misurati e meglio fossero stati ordinati i movimenti delle masse, l’effetto sul pubblico sarebbe stato ancora più vivo. Ma l’applauso risonò scrosciante subito dopo la catapultica cavalcata di Romeo attaccata con foga vigorosissima dal maestro Vitale. E alla fine dell’opera, sulla morte frigidamente melodrammatica dei due amanti, insieme con la luce e i canti dell’alba caddero gli applausi del pubblico.

Così è stato battezzato il quinto spettacolo di questa stagione, che ha offerto finora una scelta felicemente eclettica ed esecuzioni nobili e felici ad un pubblico che si pigia sempre nelle sale cinematografiche con una frequentazione che ha il costo dell’assurdità e non sa riempire i vuoti d’una sala come il Costanzi. Ma queste son melanconie di cui non è il momento di discorrere qui, tanto più che vien la voglia di proporre il rimedio paradossale di una inimmaginabile punizione: quella di serrare i battenti del teatro, lirico e drammatico che sia, e soddisfare il gusto di tutti col solo cinematografo.

Intanto qual valore ha avuto questo ritorno di Giulietta e Romeo a distanza di due anni sul palcoscenico dove fu rappresentata la prima volta? L’opera, che ha girato in Italia e pel mondo, si è avvicinata agli ascoltatori, non più preoccupati di pronunciare un giudizio, e per giunta il primo giudizio, con una nuova e libera e immediata virtù di commozione? Gli applausi di ieri sera sono stati, senza dubbio alcuno, di cordiale accoglienza, di piacevole comunione, di consenso pronto. Zandonai è un operista, e forse questa Giulietta e Romeo è tutta quanta abilità di operista, nella successione episodica, nella coloritura melodica, nella teatralità sonora. È tutta fatta per il pubblico, anche se non sempre le intenzioni, del librettista specialmente, abbiano raggiunto l’efficacia cui miravano. E il pubblico non può che applaudirla; nella ricerca affannosa di voci nuove ed ancora inespresse, nell’attesa paziente dei nuovi operisti della generazione postpucciniana, riascoltarla.

Quanto a farle un posto nel cuore; quanto a domandarle l’istante di comunione intima o di anche spettacolosa esaltazione lirica, questo non pare che sia, nemmeno in un ritorno felice di una felice esecuzione. Ma una digressione critica ed estetica oggi non occorre. Basta concludere che Giulietta e Romeo è uno spettacolo di pieno godimento, degno di quella che

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oggi può essere la scena lirica, e che questo ritorno sulle scene del Costanzi è, a voler esser sereni anche per un giudizio severo di schietta espressione artistica, assai più giustificato che non l’inesplicabile esilio che alla Scala è stato inflitto ad un operista come Zandonai.

212 Le repliche di “Giulietta e Romeo” al Costanzi, «Il Giornale d’Italia», 22.1.1924 - p. 3, col. 6

La seconda della Giulietta e Romeo datasi sabato sera dinanzi ad una sala affollatissima ed

elegante, ha rinnovato il grande successo della première. Tutta l’opera fu seguita con vivo interesse e, a scena aperta e a fine d’ogni atto, gli applausi, le acclamazioni furono schiette e insistenti. Calda di passione e vibrante di drammaticità fu giudicata la interpretazione, di cui spetta il merito all’illustre maestro Edoardo Vitale e col quale concorsero al successo la Dandolo, il Cingolani, il Gherardini e il Nardi, oltre il coro. La Dandolo cantò con una voce così appassionata e dolente e con un fascino di così commossa femminilità che il suo canto si scioglieva con dolcezza poetica.

Nell’ultimo atto la sua voce fu tutta pervasa di una musicalità accorata, onde il pubblico volle festeggiare la giovane e valorosa artista con acclamazioni fervide.

Dopo l’intermezzo la dimostrazione assunse tale imponenza che del geniale squarcio sinfonico-corale si voleva la replica, che non venne concessa. Della Giulietta si avrà la terza replica in 10^ di abbonamento, domani sera alle ore 21.

Telegramma di Riccardo Zandonai al maestro Edoardo Vitale

Da Genova – dove Riccardo Zandonai dirige al Carlo Felice la Giulietta e Romeo, che in quel teatro era domenica alla decima replica – avendo avuto notizia del grande successo di Roma, ha inviato all’illustre maestro Edoardo Vitale il seguente telegramma:

«Maestro Vitale - Teatro Costanzi - Roma. «Apprendo il magnifico esito di Giulietta e Romeo al “Costanzi”. Felicissimo invioti

l’espressione della mia più viva profonda gratitudine per la tua sapiente e fraterna collaborazione e un affettuoso abbraccio

RICCARDO ZANDONAI».

213 G[iuseppe] G[abriele] G[ianolio], Giulietta e Romeo di R. Zandonai al Costanzi, «Musica» XVIII/4, 24.1.1924 - p. 2, col. 3-4 / p. 3, col. 1 (con una foto di E. Vitale)

L’italianità di Riccardo Zandonai non potrebbe rifulgere più pura ed assoluta di quanto

balzi vivida e possente dalle appassionate pagine dei suoi ultimi drammi musicali. Come nella Francesca da Rimini, così in questa sua Giulietta egli quasi più che operista

appare veramente l’evocatore impetuoso e cosciente dell’anima antica italiana travagliata dalle lotte gagliarde e dalle passioni sanguigne, martoriata dai supplizi che ogni sorta d’ingiustizie civili e spirituali le precipitavano addosso, tentando, ma invano, di soffocarne l’anelito potente ed eterno.

Noi, figli lontani nei secoli di quei padri gagliardi, ne risentiamo nelle vene ancora l’ansito impetuoso, come l’inestinguibile forza vitale che d’ogni passione, d’ogni dolore foggiava un motivo di bellezza maschia e di gioia trionfante.

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È per questo che lo sforzo artistico di un musicista così completo e sincero com’è lo Zandonai ci riempie l’animo, direi quasi, di orgogliosa soddisfazione. Quando un autore dà segni così chiari di profonda conoscenza dell’anima di sua gente da evocarne ed illustrarne i fasti passati, da farne materia nobile della sua arte, dà insomma prove così assolute della sua preparazione spirituale da costituirsi cantore delle inobliabili gesta italiche, trascende in un certo senso i limiti precisi segnati dal pentagramma e mostra di quanta maggior potenza disponga il musicista moderno quando allarghi il più possibile i suoi orizzonti sulla vita che lo circonda.

Tanto si è scritto sulla «Giulietta e Romeo» al tempo del suo sorgere all’orizzonte musicale italiano, che ci sembra assolutamente fuori posto riaprire la discussione sui pregi e sui difetti di quest’opera. Essa deve anzitutto, e quasi esclusivamente, giudicarsi al lume delle brevi considerazioni che abbiamo premesse, e nel suo complesso. Abbracciamo con un solo sguardo tutta la vicenda musicale, che si svolge attraverso ai tre atti: ne coglieremo allora tutta l’innegabile forza evocativa ed emotiva, ne apprezzeremo la linea decisa e netta, lo sviluppo razionale e sollecito, la concitazione costante che sospinge incessantemente e senza esitazioni l’autore per la via segnatagli dai nostri grandi e ch’egli di buon grado generosamente percorre, senza lasciarsi allettare da un ibrido e inverecondo manierismo internazionale di gran moda.

Dato questo doveroso sguardo generale e riconosciuta la forte costituzione organica dell’opera, cui perciò è assicurata una felice vitalità, si potrebbe scendere all’esame dei particolari tecnici copiosi, sempre interessanti e vivaci, spesso originali.

Ma a noi piace infinitamente di più, quando ne valga la pena, anziché spulciare inverecondamente l’opera di un autore, cercare invece dalla sua opera di risalire alla sua anima, e penetrarvi, e comprenderla, e metterci all’unissono con quella.

Ebbene, ora ne vale grandemente la pena. Lasciamo la parte tecnica ad altri, che potranno così agevolmente far pompa della propria

competenza a chi li sente e a chi non li sente, e restiamo paghi di restringerci cordialmente ad intimo colloquio spirituale con Zandonai, con questo generoso figlio d’Italia, e di ringraziarlo per le forti e belle emozioni che la sua musica forte, suasiva, prepotente ci ha procurate.

L’esecuzione, curata come al solito nei suoi minimi particolari con ogni scrupolo dall’Impresa, non poteva essere che soddisfacente al più alto grado. Il M.° Vitale, ormai avvezzo a legger le proprie lodi su tutte le colonne di giornali e riviste, sembrò ancor più del solito geloso della sua fama, a buon diritto acquistata attraverso innumeri vittoriose battaglie. Egli fu eccezionalmente vigoroso e impetuoso. L’orchestra e il palcoscenico erano suoi schiavi: egli li trascinava attraverso il turbine della musica e dei suoni con folle energia: la famosa cavalcata ebbe ritmi, pulsazioni, disperazioni appassionanti. Il primo duetto d’amore, la contesa del primo atto, l’episodio della fiaccola, quello del cantastorie e tutti gli altri numerosi momenti culminanti dell’opera trovarono nella sua maestria perspicace un efficacissimo risalto.

Stefania Dandolo fu una desiderabile Giulietta per languidezza e passione come per bellezza di canto e di persona. Ella persuase il pubblico, e lo fece partecipe dei sentimenti da lei così veracemente espressi.

Il tenore Cingolani ottenne ottimi suffragi nella tragica parte di Romeo. La sua voce piena e squillante dava un bel risalto alla scena sempre intelligente, spesso ammirabile, come per esempio quand’egli ode la canzone del cantastorie da cui apprende la morte di Giulietta. Egli dimostra di aver perfettamente e con amore grande studiata la sua parte ed incarnato il suo personaggio.

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Il baritono Gherardini sostenne con valore e splendore di mezzi vocali e padronanza assoluta di scena la selvaggia parte di Tebaldo. Con disinvoltura si produsse la Porter nella parte della nutrice [sic]; una delle ancelle era Clelia Zotti, che, confinata in una particina di poca importanza, seppe tuttavia dimostrare che cosa potrà rendere la sua bella, calda, simpatica voce in una parte veramente degna di lei. La signora Mugnaini, sua maestra, ne può andar fiera.

Il tenore Nardi, cantastorie, si dimostrò altissimo, commovente artista, cantante superbo. I cori, egregiamente preparati dal M.° Consoli, cantarono con fusione, efficacia ed

intonazione perfetta. Le scene decorosamente allestite dal pittore Augusto Carelli. Il pubblico, tra cui emergeva S.A.R. il Principe Ereditario, gustò con visibile piacere

l’esecuzione dell’opera, così ben preparata e presentata secondo le gloriose tradizioni del Costanzi.

214 C. P., “Giulietta e Romeo” di Zandonai al Teatro dell’Opera, «Il Piccolo», 7.1.1936 - p. 2, col. 2-3-4 (con una foto di M. Carbone e una di A. Minghetti)

Il ritorno agli onori della ribalta, dopo un decennio d’assenza, della Giulietta e Romeo

offre una cospicua e concreta occasione per specchiarci un poco, noi uomini novecento, nel nostro languido e dorato decadentismo; di saggiare la resistenza di quel periodo di transizione che, uscendo dagli schemi del vecchio dramma e della vecchia letteratura, tentava, sotto brillanti auspici, vie nuove:

arma la prora e salpa verso il mondo.

Un mondo che rifiutava le regole per tendere all’estasi; e chiamava come testimoni (o martiri come li chiamavano i greci) del nuovo estatico sensualismo, Alessandria e Bisanzio, e la mistica medioevale e l’arte fiorita prima di Raffaello; dissolti in un mare di sensazioni nuove, intrise di simboli e di cultura.

L’esponente massimo di questo periodo è Gabriele d’Annunzio: il suo riflesso pittorico Aristide Sartorio. In questo clima e in questa atmosfera nacquero la Francesca da Rimini e la Giulietta e Romeo di Zandonai. Tuttavia quest’ultimo, musicista innanzi che letterato o pittore, se risentì e respirò come è naturale l’aria del tempo e fu attratto anch’egli dalla simpatia degli amori celebri, ebbe il merito di non lasciarsi per nulla opprimere dalle lusinghe bizantine; e di pensare e costruire musicalmente i libretti che gli venivano sottoposti.

Esempi di ciò ve ne sono a fascio nella Francesca; e ritornano in più d’un luogo della Giulietta, fino alla divisione ritmica delle scene, alla necessità di scandire l’azione come un solfeggio di battute. Osservate con qual coerenza nell’atto primo si va dalla zuffa alla ronda, e dalla ronda al duetto d’amore, e dal duetto alle maschere, per ritornare al duetto. Il cambio di scena è affidato alla bacchetta del direttore più che al gesto del buttafuori e nasce da una necessità musicale anziché determinarla.

Così il finale dell’atto secondo, legato e concluso come un giro di vite, è un mirabile esempio di combinazione musicale: quello di far nascere la cadenza del banditore dall’atmosfera torbida del delitto recente.

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Lo stesso procedimento ritroviamo nella prima scena dell’atto secondo8, dove questo senso della cadenza appare con vera genialità nel ritmo pari della cavalcata, superbo colpo di teatro all’apice della tempesta psicologica di Romeo.

Su questo schema ritmico veramente eccellente la musica corre come un fiume sinuoso, con una bella continuità di respiro.

Un suggestivo spettacolo pieno di richiami di un’atmosfera surreale, anche se nel letto di questo fiume non c’è esuberante ricchezza di sabbie aurifere. I nuclei inventivi, sfioccati con sapienza dall’uno all’altro passaggio, non sono infatti frequenti; se ne potrebbe estrarre uno schema caratteristico, dosato tuttavia e adoperato con intelligente, finissima abilità.

L’edizione che ha dato di Giulietta e Romeo il Teatro Reale dell’Opera ha suscitato i più vivi applausi del numerosissimo pubblico, e una scrosciante ovazione ha salutato la fine della mirabile cavalcata, chiamando più di una volta alla ribalta l’autore dell’opera.

Applauso ad ogni calar di sipario ed a scena aperta hanno avuto gli interpreti, da Maria Carbone che è stata una Giulietta dolce e aggraziata, ad Angelo Minghetti, che pur non disponendo di eccezionali mezzi vocali ha saputo rendere con viva drammaticità la parte di Romeo, a Carmelo Maugeri, applaudito dopo il duetto dell’atto secondo, a Maria Huder nella parte di Isabella, fante di Giulietta, ad Alessio De Paolis, che ha cantato con molta grazia ed intelligenza il racconto della morte di Giulietta, a tutti gli altri minori interpreti dell’opera.

Belle e suggestive le scene di Benois e lodevole la regìa di Govoni, anch’egli apparso al proscenio in una delle numerose chiamate.

Il maestro Serafin ha trasmesso all’orchestra e agli interpreti tutta la ricchezza della sua passione e del suo sentimento.

Il successo personale di Zandonai è stato pienissimo, completo. [...]

215 Alberto Gasco, “Giulietta e Romeo” di Riccardo Zandonai, «La Tribuna», 8.1.1936 - p. 3, col. 1-2-3-4-5-6-7 (con la riproduzione di un bozzetto: scena del primo atto)

Dodici anni sono stati necessari a Giulietta ed al suo fido Romeo per ritrovare la via del

massimo teatro romano, che pareva dovesse essere per loro un nido durevole. Dodici anni! E pensare che per due stagioni gli amanti veronesi, richiamati a nuova vita da Riccardo Zandonai, avevano eccitato l’acuto interesse e dilettato il pubblico della Capitale, sicché, partendo per la conquista delle piazze teatrali più accreditate, gli abitatori dell’Urbe millenaria li avevano salutati con il grido: «Tornate presto!».

Il grido era rimasto inascoltato. Ma gli anni fuggono ed ora, dopo di avere peregrinato per lidi più o meno infiorati, la coppia illustre ha fatto ritorno a noi. Accogliamo cordialmente gli esuli e notiamo anzitutto che essi godono di un’ottima salute. Durante la loro assenza il Costanzi si è tramutato nel Teatro Reale dell’Opera: il nido è diventato sontuoso e pieno di comodità; il pubblico si è raffinato e scaltrito. Giulietta e Romeo potranno passare molti bei giorni qui, dove i loro amici hanno già avuto per loro, nel passato, tante premure. E Giulietta, ascoltatissima, potrà dire al suo innamorato: Voi siete bello e tutto mio! [sic] e Romeo compirà cavalcate emozionanti e fragorose: per lui non vale il vecchio proverbio: «Uomo a cavallo sepoltura aperta!». A giudicare dagli applausi di iersera, si preparano per loro giorni di delizia. Convegni notturni con qualche bacio furtivo, tra una zuffa e l’altra dei Capuleti e

8 [sic]: ma terzo.

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dei Montecchi, contendenti inviperiti. Purtroppo i teneri amanti saranno poi sfrattati senza riguardi dal Teatro Reale per la così detta “rotazione degli spettacoli”. Anche la produzione che più soddisfa il pubblico non può avere qui che tre o quattro repliche. Si dice che questo sistema, che importa un ingiusto e grave danno per le produzioni nuove e per quelle raramente allestite, sia molto patrocinato da Arturo Toscanini. Dinnanzi a tanto nome conviene inchinarsi. Abbiamo torto noi, che la pensiamo diversamente. Non se ne parli più.

La Giulietta ha dunque avuto prelibate accoglienze al Teatro Reale e ne siamo arcicontenti. L’opera ha i suoi difetti ma è generosa e vitale. Troppo fuoco (sebbene d’inverno un eccesso di calore non dispiaccia...); qualche pesantezza nel secondo atto, dominato dall’odioso Tebaldo che non dà tregua finché Romeo non lo ammazza. In compenso una pluralità di seducenti effetti nel quadro iniziale e non poche geniali trovate nella prima parte del terzo che ci fa assistere alla fiera brulicante di uomini festosi, al lancinante episodio del cantastorie che narra della morte di Giulietta e alla disperatissima cavalcata di Romeo sotto l’uragano. Aggiungiamo che i tre cori: Diavolo che ho dintorno, Bocoleto de rosa e Alba di Dio – così diversi di carattere – sono tre gemme e mostrano come Riccardo Zandonai sappia passare con magistrale disinvoltura da una bieca taverna, ricettacolo di uomini rissosi e di donne di malaffare, ai colonnati di un tempio, là dove deve compiersi il destino di amore e di morte dei due veronesi celebrati da Guglielmo Shakespeare.

Il nostro giudizio sull’opera permane quindi immutato. È un giudizio di esplicita simpatia. Questa produzione, in parte guerresca e sanguigna, in parte trepidamente sentimentale, ha una sua fisionomia particolare. Prevale l’acredine, ma ci sono abbandoni melodici anche più frequenti che nella Francesca da Rimini, il dramma musicale con quale lo Zandonai ha compiuto la conquista del mondo. Il duetto d’amore che chiude il primo atto della Giulietta è di una bellezza tale da incatenare qualsiasi pubblico. E con catene di rose e gelsomini. Da lodarsi, a lode suprema dello Zandonai, che quando egli scriveva la Giulietta e Romeo – cioè nel 1922 – ardeva più che mai la lotta bestiale contro la melodia (senza la quale nessuna opera italiana potrà mai avere vita). E quindi lo scrivere allora un duetto come quello della Giulietta poteva dirsi un vero atto di ribellione e di sfida.

La fortuna sorregge i ribelli bene armati. Zandonai oggi può sorridere. E anche meglio sorriderà nell’avvenire se andando a caccia – egli è un cacciatore di prima forza – continuerà a scovare più che starne e lepri, melodie di pura marca italiana, atte a formare la gioia del pubblico dei teatri nonché quella dei critici che veramente amano l’opera nostra.

I vari punti di contatto tra la Giulietta e la Francesca, notati anni or sono con riprovazione, non hanno questa volta determinati allarmi. Anzi, si è notata con piacere qualche affinità tra le due gentildonne, ugualmente degne di omaggio. Esse parlano un linguaggio consimile, pieno di vocaboli gentili, hanno nelle vene molta nobiltà e soprattutto molta italianità. È giusto che nei nostri teatri esse siano amate in pari misura. Del resto, si tratta di affinità puramente stilistiche: Giulietta non imita il frasario amoroso di Francesca, essa dice cose sostanzialmente nuove. E questo è l’importante.

*** Riccardo Zandonai era venuto dalla sua villa pesarese per assistere alla riapparizione di

Giulietta e di Romeo sulla scena del più illustre teatro dell’Urbe. Egli è stato evocato alla ribalta con affabile insistenza e ha dovuto presentarsi molte volte. In complesso l’opera ha avuto oltre venti chiamate e non pochi applausi a scena aperta. Il successo ha culminato al terzo atto con l’episodio del cantastorie e la famosa Cavalcata. Il lamento melodiosissimo Done piansì... ha determinato un imponente scroscio di applausi e la partenza di Romeo tra le folgori ha eccitato l’entusiasmo degli spettatori. Si è chiesto fra grida e frenetici battimani il

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bis del pezzo, ma l’aspirazione dei plaudenti non è stata appagata... per non stancare il cavallo di Romeo. Lo scalpitante brano, ormai popolare ovunque, ha avuto accoglienze spettacolose, oltre ogni previsione.

Tra gl’interpreti ha primeggiato la signorina Maria Carbone, smilza ed agile, che per l’occasione era diventata bionda come una spiga di grano a San Giovanni. Il pubblico l’ha encomiata per la sua voce limpida, estesa, intonatissima non meno che per la sua passionalità veritiera. Questa Giulietta, vigorosamente espressiva, si è rivelata anche una attrice d’intelligenza alacre nella chiusa drammaticissima dell’atto secondo. Il tenore Angelo Minghetti – chiamato a sostituire improvvisamente Galliano Masini indisposto – si è impegnato a fondo negli ultimi due atti dell’opera e ha superato il fiero cimento. Nel primo quadro ci è parso che fosse un po’ preoccupato di salire al verone di Giulietta e più ancora di scenderne. Evidentemente egli affronta contro voglia talune acrobazie ed ama cantare con tranquillità. Fortissimo Tebaldo il baritono Carmelo Maugeri che già creò la parte quando l’opera di Zandonai fu battezzata al Costanzi e che poi l’ha sostenuta in molti teatri con immancabile fortuna. Anche iersera egli ha dato prove valide della sua resistenza di cantante e del suo spiccato talento scenico. Egli ha raffigurato un Tebaldo implacabile, ben degno di morire infilato dalla spada di Romeo.

Cantastorie stupendo Alessio De Paolis – noto come artista pensoso e commosso – ha ricevuto dall’uditorio un veemente applauso. Maria Huder ha reso con eleganza e bello stile la parte di Isabella; irreprensibili gl’interpreti minori tra i quali ricordiamo Matilde Arbuffo, Angela Rositani, Maria Grimaldi, lo Zagonara, il Dominici, il Bianchi, il Conti, ecc., elementi di non dubbio valore, giustamente cari al pubblico romano. Buona la regìa del Govoni. Notevoli gli scenari del primo e del terzo atto, ideati dal Benois.

L’orchestra, che nella Giulietta è straricca, ha sempre avuto la necessaria energia e, dove occorreva, una delicata fosforescenza. Essa ha seguìto con devozione i cenni di Tullio Serafin, condottiero senza incertezze e senza paura. Il Serafin ha diviso con lo Zandonai le più clamorose ovazioni dell’assemblea giudicante. Esatti e ardenti i cori, diretti dal Conca. Capuleti e Montecchi si sono fieramente azzuffati cantando a squarciagola. Le spade d’acciaio hanno orridamente lampeggiato sotto la luna, nelle vie di Verona. Ma tutti sono usciti illesi dal tumulto perché, senza dubbio, protetti da qualche santo potentissimo. Meglio così. Non è bene far spreco di sangue...

216 Vice, “Giulietta e Romeo” di Zandonai, «Il Tevere», 7.1.1936 - p. 3, col. 5

Giulietta e Romeo, scritta a distanza di otto anni da quella Francesca da Rimini che

costituì la rivelazione del talento melodrammatico di Riccardo Zandonai ed una delle più forti affermazioni nel campo del teatro lirico contemporaneo, non raggiunge certo, per forza espressiva del complesso, la sua maggiore e fino ad oggi insuperata sorella.

Giulietta e Romeo può invece considerarsi uno dei molti aspetti della Musa zandonaiana, diverso, almeno per quanto riguarda la fonte prima di ispirazione, da quello delle opere precedenti e da quello delle opere che seguiranno nel tempo. Dalla semplice intimità del Grillo del Focolare, al sensuale verismo di Conchita, al dramma storico di Melenis, alla tragedia di Francesca, al trasparente romanticismo della Via della Finestra, alla leggenda nordica dei Cavalieri di Ekebù, al misticismo di Giuliano, alla grassa risata della Farsa amorosa: quante diverse vie, quanti campi opposti tentati per l’affermazione della propria

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arte. Giulietta e Romeo ha anch’essa un suo aspetto particolare e inconfondibile. Dimostrazione evidente della varietà, che è poi vastità, dell’ingegno di Riccardo Zandonai.

Nell’opera del quale, se un minimo comun denominatore può riscontrarsi, esso è dato dalla costante preoccupazione di eleggere per i suoi personaggi un canto melodico lungo e spianato, per la sua orchestra degli impasti timbrici costantemente nuovi e rinnovantisi nel giro dell’azione, per i suoi procedimenti armonici una singolare eleganza. Elementi tutti che, usati con singolare sensibilità di artista e con una perfetta conoscenza del teatro, conducono spesso ad una rievocazione ambientale oltremodo plastica e felice e ad un cospicuo rilievo differenziale dei vari personaggi dell’azione.

Riccardo Zandonai sente e realizza l’opera in musica con lo stesso spirito dei veristi, dei quali però è lungi dal possedere la ricchezza melodica, pur distinguendosi da essi per un certo perfezionamento tecnico elaborativo strumentale di cui il verismo musicale riesce ad avvantaggiarsi proprio nel declinare della sua gloriosa parabola. In virtù di questo perfezionamento tecnico egli ha potuto costruire ed inserire nelle sue opere brani sinfonici che spiccano per la loro individuale struttura e che rivelano la sua inclinazione per l’arte sinfonica, nella quale però finora non è riuscito ad eccellere come nell’arte melodrammatica.

Infatti nell’opera Giulietta e Romeo la “scena del duello” al 1. atto, la “danza del torchio” al 2. atto, la “cavalcata” al 3. atto risultano di effetto immediato sull’animo del pubblico.

Non così il potente duetto d’amore (e sono queste le parti meno riuscite dell’opera) del primo atto – troppo contrastante con il carattere idilliaco del dolce furtivo colloquio notturno – e quello del secondo atto, impulsivo e snervante. Delicata ed ispirata invece la malinconica canzone del cantastorie, suggestivo il finale del 1. atto, commovente quello del 3. atto.

La rappresentazione si è svolta dinanzi ad un pubblico numeroso ed elegante, fra cui abbiamo notato la presenza di S.A.R. la Principessa Maria di Savoia, ed il successo è stato vivo e schietto alla fine di ogni atto per l’intensità degli applausi tributati a tutto il complesso artistico ed al maestro Zandonai, ripetutamente chiamato sul palcoscenico.

Il merito precipuo però spetta senza dubbio al maestro Tullio Serafin che ha interpretato lo spartito con molto sentimento e con fine sensibilità seguito prontamente dall’orchestra la cui compattezza e potenza sonora si è rivelata soprattutto nella esecuzione della “cavalcata”.

Non sempre all’altezza del compito sono risultati i protagonisti dell’opera: Maria Carbone, che possiede una voce di notevole potenza, non ha trasfuso nella parte di Giulietta quel senso di poesia e di delicatezza che rispondono allo spirito del personaggio, né Angelo Minghetti ha dato efficace risalto e potenza espressiva alla figura di Romeo. Carmelo Maugeri invece ha interpretato la parte di Tebaldo con vivace animazione e con maggiore sicurezza nel 2. atto, mentre Alessio De Paolis nel ruolo del Cantastorie si è fatto ammirare per la chiara dizione, la limpidezza e la calda espressione della voce.

Al successo hanno contribuito pure il coro ottimamente istruito dal maestro Conca, l’allestimento scenico dell’Ansaldo, la geniale regìa di Marcello Govoni, i pittoreschi costumi del Caramba e le scene (specie quella suggestiva del 3. atto) dipinte dal prof. Benois.

217 Vice, “Giulietta e Romeo” di Zandonai al Teatro dell’Opera, «Il Giornale d’Italia», 8.1.1936 - p. 3, col. 6-7

Cinque opere su otto rappresentazioni serali. Questo bruciar le tappe, a passo di carica, se

ci dà la misura della perfetta organizzazione tecnica del Teatro Reale, è anche la dimostrazione e la conseguenza ineluttabile del numero sempre crescente di opere incluse nei

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cartelloni, in omaggio ad un sistema di marca americana ormai propagatosi come un mal contagioso in quasi tutti i grandi enti lirici.

Ma noi siamo certi che verrà il giorno in cui il pubblico sarà disintossicato anche da questa caleidoscopica febbre così dannosa all’arte lirica, la quale ha ben altre e più profonde tradizioni. Pensate alla sorte di un’opera nuova che capiti fra le ruote dentate di siffatto vorticoso ingranaggio: cattiva o buona, capolavoro o no, fiasco o trionfo, essa deve cedere il posto ad un’altra produzione. Sotto a chi tocca. La ruota d’Issione seguita a girare vertiginosa e addio divini delirii, incendi delle anime nel tempo in cui le opere giungevano alla ventesima replica e, perché conosciute, venivano amate!

Come ci piacerebbe vederla amata questa Giulietta e Romeo riapparsa iersera a Roma dopo tanti anni di assenza e dopo significative vittorie altrove; ma amata d’un amore fatto di affettuosa consuetudine!

Iersera si sentiva dire: «Quella danza del torchio è una meraviglia! E che accecante splendore quella impetuosa cavalcata!» E sapete perché? Perché questi due frammenti sono stati eseguiti nelle sale da concerto e il pubblico aveva avuto modo di innamorarsene. Non tutti, mio Dio, possono prendere una cotta per le Melisende lontane, ovvero sia per sentito dire. Provatevi ad ascoltare Giulietta più d’una sera: e poi vedremo se, al di là degli elementi decorativi e ambientali dell’opera d’arte, oltre le stornellate e canzoni da festino e popolaresche, i coretti interni, i lontani rintocchi di campane e gli stamburamenti di scolte, c’è o no la vera sostanza drammatica: la polpa musicale che vi sazia o la bevanda generosa che vi inebria.

Per fortuna, le audizioni radiofoniche hanno contribuito ad accostare il pubblico a questa non indegna sorella di Francesca. Per i maniaci dei confronti, per i feticci [!] del capolavoro unico, per gli idolatri del solo idolo, non c’è che Francesca; per noi, più eclettici, c’è anche Giulietta. Differenze è naturale ed è bene che ci siano: Francesca, intanto, si avvantaggia della portentosa trama letteraria di Gabriele d’Annunzio; è più aristocratica; è più suggestiva per quella vertiginosa atmosfera di peccato in cui respirano gl’infelici due cognati; è più tragica, perché la divina tragedia è già nella Divina Commedia.

Gli amori di Giulietta e Romeo sono invece profondamente casti, anche se la fanciulla veronese getta scale di seta all’amato perché salga sul verone come rosaio a primavera, e vi si trattenga quasi tutta la notte.

Ma la differenza sostanziale sta nel fatto che con Giulietta e Romeo Riccardo Zandonai ha voluto fare un vero e proprio melodramma tipo ottocento con tutti i correttivi della tragedia moderna. Questo coraggioso proposito ci fu confessato un giorno dallo stesso illustre Autore, prima ancora che un altro grande maestro agitasse, con ardente fiamma, la fiaccola della redenzione del genuino melodramma.

Riccardo Zandonai, bisogna ricordarlo, scriveva Giulietta quando la xenofilia era di gran moda e rifare il melodramma era considerato come una vergogna e un’insania. Tant’è vero che Giulietta vide la luce in un clima di avversione da parte della critica, sebbene questa fosse in perfetto disaccordo col pubblico che aveva, in virtù del suo innocente buon senso, salvato l’opera d’arte.

Giulietta va dunque guardata dallo stesso punto di vista in cui s’è messo l’Autore e che, d’altronde, appar manifesto attraverso tutte le pagine della partitura.

Qui il discorso melodico, tagliato secondo i canoni del melodramma dell’ottocento, galleggia ancora sull’oceano del sinfonismo-colore così caro allo Zandonai, che, intorno al ‘20, iniziava il processo di chiarificazione, più largamente tentato nei Cavalieri di Ekebù e risolto più tardi nella Farsa Amorosa.

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Con Giulietta, tuttavia, siamo ben lontani dalle rossigne colorazioni di Conchita, considerate come un’arditezza di avanguardia nell’epoca in cui non era conosciuta né la scuola russa né quella francese moderna, e il musicista riteneva suo impegnativo “dovere” quello di poter mostrare che in Italia si sapeva stare all’altezza dell’evoluzione musicale di allora, tutta sprazzi di tinte e spruzzi di materia infocata.

L’estetica odierna è fortunatamente ben diversa; e Giulietta rappresenta, come s’è detto, un’anticipata tappa verso la necessità di sacrificare, o quasi, l’orchestra a vantaggio del palcoscenico: la qual cosa è di per se stessa un ritorno al teatro ottocentesco.

È già un gran titolo di gloria per il musicista trentino quello di aver dato all’arte lirica internazionale una Giulietta, che si rappresenta ormai in ogni teatro, mentre altre numerose sorelle o non vedono più la luce o debbono attendere qualche pio anniversario.

La chiaroveggente fatica di Riccardo Zandonai è stata anche questa volta coronata a Roma da un successo vibrante, cordiale, entusiastico, che, dopo la Cavalcata, ha raggiunto proporzioni trionfali.

A questo successo certo non è stato estraneo il magnifico ed accurato allestimento che ne ha fatto il Teatro Reale. Tullio Serafin ha tenuto in pugno lo spettacolo con infiammato spirito di poeta fondendo orchestra e voci in una sola forma di bellezza. E mentre, per virtù sua, i cantanti – singoli e cosi – hanno sempre trovato nella massa strumentale un sostegno efficace, l’orchestra stessa ha dato bronzei lampeggiamenti o perlacee iridescenze là dove la Decima Musa di Riccardo Zandonai – che ha nome Colore – ispira episodi di primissimo piano, come gli schiamazzi rissosi del primo atto, la stupenda ronda notturna, la descrizione del giuoco del Torchio e la più volte citata pagina nella quale è, con formidabile tensione sonora, descritta la cavalcata di Romeo e del famiglio nel clamore dell’uragano.

Diciamo subito che il grande Direttore d’orchestra ha avuto due efficacissimi collaboratori: il maestro Conca per i cori (che hanno una parte importantissima ed hanno cantato alla perfezione) e Marcello Govoni per la regìa, che ci è sembrata ottima fra le molte belle alle quali il colto talento di questo artista ci ha da un pezzo abituati.

Maria Carbone ha una voce che, specie ai nostri giorni, sembra un miracolo di freschezza e d’intonazione. E tanto è il calore sensuale che arde nelle sue note che la castità di Giulietta potrebbe essere posta in discussione non soltanto dal tendenzioso cugino Tebaldo ma da noi ascoltatori. Maria Carbone ha fatto di Giulietta una creatura viva e vibrante, anche in virtù delle sue risorse sceniche che sono eccellenti. Quanto ad innocenza d’amor platonico anche Angelo Minghetti ha fatto di tutto per farcelo credere; ma della sua voce calda ha finito per servirsene con scaltrezza tutte le volte che ha potuto. Ed eccoci al tendenzioso cugino Tebaldo di cui abbiamo fatto cenno. Specie nel drammatico duetto con Giulietta, il torvo personaggio di Tebaldo, così potentemente scolpito da Zandonai, rivive intiero e ferrigno, brutale e beffardo, attraverso la veemente interpretazione di quel perspicace artista che è Carmelo Maugeri.

Importanza di primissimo piano acquista la figura del Cantore nella prima parte dell’ultimo atto, allorché costui modula sul suo liuto l’ultima canzone creata dai rapsodi di Verona: quella in morte di colei che era stata cantata da ogni canzone «e de Verona era il più bel fioreto». Allorché egli intona la seconda volta, nell’ombra, l’accorata trenodia, la commozione ci prende alla gola, tanta è la bellezza della musica, arcaicamente popolare, e tale è l’arte con cui Alessio De Paolis, il vero trionfatore della serata, ha saputo renderla.

Fermarci a parlare di tutti gli interpreti non è facile impresa: diremo soltanto che Maria Huder, con quella sua bella voce armoniosa e preziosa, è stata superiore a ogni elogio; e le sono state degnissime compagne per interpretazione scenica e vocale Angela Rositani,

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Matilde Arbuffo e Maria Grimaldi. Ottimi come sempre Dominici e Zagonara, assai bene assecondati dal Bergamini, dal Conti, dal Bianchi, dal Marucci, dal Simoni [sic].

Le scene erano di Benois ed è facile immaginare con quanta perizia sono state potenziate dall’arte magistrale di Pericle Ansaldo.

Allo spettacolo assisteva Maria di Savoia.

218 Alb[erto] Ghisl[anzoni], “Giulietta e Romeo” di Zandonai al Teatro Reale dell’Opera, «Ottobre», 8.1.1936 - p. 3, col. 3-4

In un’intervista che ebbe a Roma con un redattore de «L’Idea nazionale», il 12 febbraio

1922, Riccardo Zandonai disse tra l’altro: «Giulietta e Romeo vuol essere un ritorno al nostro melodramma, un ritorno alle fonti, nel

quale ho desiderato di portare la sensibilità che, essendo più moderna, è oggi più nostra. Il nuovo lavoro è più semplice e limpido delle mie precedenti opere, le quali sono più complicate e torturate. ma questo avvenne perché, dieci anni fa, noi italiani eravamo considerati quasi degli ignoranti in fatto di musica. Ed io ho voluto fare una specie di schieramento di forze, per dimostrare che musica difficile sapevamo farla anche noi. Ma oggi le cose sono cambiate e non occorre fare nessuna dimostrazione in questo senso».

Dal 1922 ad oggi molta acqua è passata sotto i ponti della musica, gli indirizzi estetici e tecnici sono parecchio mutati, quindi quest’opera appare oggi sotto la sua luce vera e si può catalogare con facilità. Essa rientra nel genere allora dominante in Italia del cosiddetto verismo, il genere caro ai Puccini, Mascagni, Giordano, Cilea, [ed] è soffusa di una spiccata, fluida melodiosità vocale che non sempre riesce peraltro a concretarsi in vera e propria alata melodia. L’orchestra non ha una vita polifonica indipendente, ma accentua e contribuisce a mantenere l’atmosfera generale, ora languida, ora truculenta.

Il libretto musicato da Zandonai è di Arturo Rossato e rivela una buona e fine colorita proprietà poetica e teatrale, per quanto si diluisca talora in episodi o in verbose chiacchierate che divagano e raffreddano la forza tragica nel momento in cui il massimo sintetismo, la rapidità, la stringatezza s’imporrebbero: tale è il caso del coro all’inizio dell’ultimo atto e del lungo declamato di Romeo dinanzi al presunto cadavere di Giulietta. Ma in compenso ci sono pagine efficaci e ispirate come quasi tutto il 2. atto, e gli episodi del cantastorie e della Cavalcata in mezzo alla tempesta nel 3.

L’esecuzione di ieri sera al Teatro Reale ha segnato un vero trionfo per l’autore, invitato espressamente a Roma, e per il maestro Tullio Serafin, concertatore e direttore.

Le chiamate più vibranti ed entusiastiche che si sono susseguite ad ogni fine di atto sono state dirette ad essi. Serafin ha avuto poi con l’orchestra una scrosciante ovazione dopo l’intermezzo orchestrale descrivente la cavalcata, eseguito con effettistica magistrale.

Maria Carbone è stata una brava Giulietta per voce e per scena, il tenore Minghetti ha avuto momenti di grande efficacia per quanto la sua voce non sia sempre riuscita a prevalere sul denso e stracarico tessuto orchestrale.

Il baritono Maugeri ha realizzato con vigore la violenta e faziosa figura di Tebaldo. Eccellentissimo cantatore è stato il tenore Alessio De Paolis, che con le sapienti inflessioni

della voce, con la scandita dizione e con l’azione scenica ha dato all’uditorio vibrazioni di vera commozione artistica.

Buone le altre parti: Maria Under [sic], il Bergamini, il Dominici, lo Zagonara, ecc. I cori ultrasonori nelle baruffe del 1. e del 2. atto.

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Efficace la regìa di Marcello Govoni. Le luci durante il 1. atto non hanno avuto la intelligente graduazione (tra oscurità iniziale, riflessi rossastri dall’osteria, chiarore lunare e infine sorgere del giorno) che avrebbe potuto far raggiungere effetti assai, assai suggestivi. Così pure ci è apparsa illogica, delle scene di Benois, quella del I atto. Ma, a parte questi personali rilievi, è stato quello di ieri sera uno spettacolo degno del Teatro Reale e dell’illustre Autore della passionalissima opera.

219 L[uigi] C[olacicchi], “Giulietta e Romeo” di Zandonai al Teatro Reale dell’Opera, «Il Popolo di Roma», 7.1.1936 - p. 3, col. 6-7

Anche Giulietta e Romeo, come Francesca da Rimini, è un’opera in cui confluiscono le

stanche correnti d’una musicalità ormai esaurita. Il verismo e il wagnerismo vi si sorreggono vicendevolmente come possono, senza mancare peraltro di creare qua e là qualche zona di raggiunta intensità drammatica. Nel primo e secondo atto s’incontrano di queste oasi nelle quali una simile ambigua musicalità fa corpo col dramma, riesce a rappresentare un personaggio, meglio una situazione, un momento. Sono alcuni di tali momenti scenici – e tanto per esemplificare potremmo citare il quadro della ronda notturna – le pagine più consistenti, più realizzate di Giulietta. Momenti, del resto, che ne richiamano altri analoghi di Francesca.

Generalmente si tratta di scene vuote, dove è già avvenuto qualcosa di pauroso o qualcosa sta per avvenire. Scene solitarie, ferme, rarefatte. Le case, le torri, i portici, le mura sembra che confidino la loro anima terrorizzata, che espandano la loro pena. Zandonai dimostra qui di possedere il senso del tempo, dell’ora. La sua orchestra è sensibile a queste scene, è descrittiva, espressiva. Talvolta una voce vaga, indifferente, un canto oscillante a mezz’aria, di solito d’intonazione popolaresca, di carattere stradaiolo aggiunge sapore e colore all’atmosfera ambientale. Vale a dire – e in linea generale – la musica dal palcoscenico s’è rifugiata in orchestra, nel golfo mistico.

Giacché sul palcoscenico i personaggi, sì, cantano; sono veri personaggi melodici, dopo tutto. Ma di quale melodia? Una melodia che non ha più le grossolanità veristiche, lo riconosciamo, ma nemmeno lo slancio, la forza, il tumulto verista, il coraggio di dire pane al pane e vino al vino. E anche quel poco di pane e di vino che offre nei momenti di maggior tensione drammatica sono di grano e di uva veristi seppure preparati alla Wagner. Accenti già sentiti, espressioni già acquisite dalla storia del melodramma. All’infuori di simili punti di densità melodica il canto fluisce indeterminato e generico dalle labbra dei personaggi, non ne racchiude effettivamente il sentimento, lo spirito. «È un canto – come fu detto da Guido Gatti – assai raramente incisivo o, almeno, di tale bellezza sonora da attrarre la nostra ammirazione per sé stessa, senza considerarlo come espressione di uno stato d’animo».

D’altra parte si deve pur riconoscere che in fondo dopo il verismo l’opera s’è distaccata dalla realtà delle persone sceniche. In tutta l’opera, e segnatamente nell’opera romantica, quando un dramma riesce a formarsi e a consolidarsi è dalle persone sceniche che sgorga e si sviluppa. Il dramma, cioè, nasce dal di dentro delle persone sceniche e investe l’intera opera. La realtà dei personaggi, la loro vita è sempre presente nella musica. L’ambiente, le situazioni, lo stesso colore si determinano col loro canto, con l’urto o con la fusione dei loro sentimenti. L’atmosfera è in funzione dei personaggi, non viceversa. Al contrario dopo Wagner e le troppo sbrigative interpretazioni della sua estetica che esercitarono un’influenza enorme anche se tardiva sui compositori italiani moderni l’opera si svincolò dalla verità dei

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personaggi. Essa si diede alla creazione a priori di climi drammatici vaghi – generati in orchestra – da cui foggiare – sul palcoscenico – i caratteri del dramma. Non l’abito per la persona, in definitiva, sibbene la persona adattata all’abito.

Riccardo Zandonai, con tutti i suoi meriti musicali che del resto gli sono generalmente riconosciuti e non chiedono dunque di essere ancora riesaminati, è il musicista più rappresentativo di questo periodo d’incertezza e di transizione, nel quale egli, come s’è detto, riassume in sé i residui d’una musicalità veristico-wagneriana: e Giulietta e Romeo e Francesca da Rimini ne costituiscono i documenti più importanti, Giulietta e Romeo che non è forse un’opera brutta, un’opera che, come suol dirsi, lasci male: ma non lascia nulla.

La recita di ieri sera al Teatro dell’Opera, dopo le numerose esecuzioni concertistiche dei pezzi più famosi del lavoro quali ad esempio la cavalcata di Romeo, ci ha confermato in queste idee, che lo stesso rispetto che abbiamo per il nome del musicista ci impone di non lasciare nella penna o soltanto di mascherare con forme eufemistiche.

Lo spettacolo nelle mani di Tullio Serafin, direttore, ebbe buoni momenti canori e orchestrali. Ma forse poteva essere più vivo, più aderente, sopratutto dal lato vocale. Serafin condusse vigorosamente le falangi strumentali così nutrite e talora pletoriche e raggiunse alcuni delicati effetti nel riprodurre le pagine descrittive di maggiore levatura. Maria Carbone interpretò egregiamente il personaggio di Giulietta, ricca com’è di bella, insinuante voce e dotata di rimarchevole intuito scenico. Il tenore Angelo Minghetti, Romeo, sebbene appena rimessosi da una grave indisposizione, seppe misurarsi coraggiosamente con la difficile parte affidatagli. Nel ruolo di Tebaldo Capuleto cantò Carmelo Maugeri e parve impetuoso, fin troppo arroventato. In Isabella, invece, Maria Huder fu squisita, dal canto denso e sicuro.

Le altre parti principali affidate ad Alessio De Paolis, cantastorie, che rese benissimo la canzone dell’ultimo atto, Ernesto Dominici, un Bernabò accurato e preciso, furono soddisfacenti, insieme ai ruoli minori in cui si fecero onore Matilde Arbuffo, Angela Rositani, Maria Grimaldi, Lamberto Bergamini, Gino Conti, Adelio Zagonara, Mario Bianchi e Adrasto Simonti. Il coro del maestro Conca, le scene di Nicola Benois e la regìa di Marcello Govoni, nonché l’allestimento scenico di Pericle Ansaldo portarono infine il loro valido contributo alla riuscita dello spettacolo.

Il quale, presenziato dalla principessa Maria di Savoia e da un folto pubblico, fu accolto con ripetute chiamate alla fine di ciascun atto. Alla fine dell’interludio orchestrale fra il primo e il secondo quadro dell’ultimo atto – la ben nota Cavalcata –, l’uditorio ha lungamente applaudito Serafin e Zandonai evocato alla ribalta.

220 m[atteo] i[ncagliati], “Giulietta e Romeo” di Zandonai, «Il Messaggero», 7.1.1936 - p. 3, col. 6-7

È avvenuto iersera, per la prima della Giulietta e Romeo di Riccardo Zandonai, un fatto

inconsueto nella cronistoria di quest’opera: questo, che l’entusiasmo prodotto dalla ormai popolarissima Cavalcata si è scatenato con la stessa tumultuante irruenza con cui procede dalla prima all’ultima nota il brano sinfonico-corale, e con tale e tanta unanimità, che il maestro Serafin ha dovuto attendere un bel po’ per l’attacco al quadro finale, prima per rispondere e ringraziare alle acclamazioni fragorose a lui rivolte, e poi per consentire all’illustre autore di apparire alla ribalta per ben tre volte, chiamato a gran voce. Fu questo un momento dello spettacolo di così schietto ed entusiastico fervore che Zandonai non dimenticherà, per quanto assuefatto ai successi.

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Certo il maestro Serafin trasfuse tutta la sua anima d’artista e di musicista perché la Giulietta, ritornando sulle nostre massime scene dove, nell’allora Costanzi, tredici anni addietro ebbe il suo battesimo e dove pure fece poi nuova apparizione a dimostrazione della sua vitalità e della sua vigoria intrinseca, rivelasse la fresca giovinezza, la giovane vita cioè non turbata da nessuna foschia che spesso s’insinua nell’opera d’arte teatrale a oscurarne l’intima essenza di cui la nutrì l’autore. Perché tutto ciò ch’è poesia soave, psicologia di anime, e tutto ch’è spirito d’ambiente colto e delineato attraverso l’odio che avvampa e precipita spesso nella morte i Capuleti e i Montecchi, il dramma nei suoi vari e così contrastanti aspetti è balzato vivo e potente ed espressivo, rischiarato da fasci di luce, dove sinistri e paurosi e dove venati da pallide, tenere tinte. In questo contrasto di luce è tutta la genialità della partitura, dalla quale il maestro Serafin colse e tradusse con fantastico ardore ogni espressione, tragica se la ferocia delle genti divampa, lirica se l’amore ripara tra gli spiragli della nuda, popolaresca leggenda.

V’è dunque nella Giulietta tutta in blocco, come in Francesca, la personalità dell’operista, il quale, venuto dopo la cosiddetta “giovane scuola”, alla tradizione verdiana intesa con spirito subiettivo e singolare volle legare il proprio destino, seguendo altre vie, mirando ad altre mète, senza ripetere né rimanere offuscato – il che significava diventare mancipio e prigioniero – degli ideali, pur così di notevole significazione rispetto alla storia del melodramma. E per ciò appunto non si sa se in Giulietta più colpisce l’atmosfera fosca e drammatica o la melodiosità della parte romantica.

La coralità dell’opera ha un suo segno inconfondibile; e così nel primo atto come durante la Cavalcata la massa, istruita dal maestro Conca, cantò con vivace espressione e impetuoso slancio, perfettamente aderendo alla salda struttura di pagine ideate da Zandonai attraversi la concitata fantasia. Questo occorreva notare, perché il coro di quest’opera non interviene, come spesso accade, per cantare solamente ma per partecipare direttamente alla vicenda, assumendo così un aspetto non accademico.

Di Giulietta, Maria Carbone rese l’intimo affanno con un canto di bel respiro e dalle note di calda risonanza. Nella parte di Romeo il tenore Angelo Minghetti, per quanto ancora sofferente di una recente malattia, cantò l’invocazione a Giulietta al finale del secondo atto con slancio e con vivezza espressiva, e tutto il duetto nell’ultimo quadro con soavità d’accenti, in modo da fondere la sua con l’armoniosa voce della Carboni [sic]. Un Tebaldo dalla irrompente passione fu il baritono Carmelo Maugeri che così in questa parte come in quella di Gianciotto nella Francesca è interprete di spiccata marca zandonaiana, ché la sua voce facile e agile, tutt’animazione musicale, e la sua spiccata sensibilità son le doti che rendono giustamente apprezzato il valoroso artista.

Quanto alle parti secondarie, Maria Huder cantò con freschezza e dolcezza di voce, ben timbrata; il tenore Alessio De Paolis diede alla romanza del Cantatore un così fluido e accorato languore espressivo da ricevere un lungo applauso; e poi Adelio Zagonara, un’altra vivace e ben accentata voce tenorile; il basso Dominici, Lamberto Bergamini, Gino Conti, Angela Rositani, Mario Bianchi, Matilde Arbuffo, Maria Grimaldi, tutti concorsero al successo dello spettacolo. Per la messinscena Marcello Govoni e per l’allestimento scenico Pericle Ansaldo assolsero il loro compito con la consueta perizia.

Il maestro Zandonai, dopo ogni atto – a parte la dimostrazione tributatagli dopo la Cavalcata, di cui si è fatto cenno – fu evocato alla ribalta tra prolungate, entusiastiche acclamazioni, e così intense che assunsero alla fine dell’opera tono di ovazione. È inutile aggiungere che alle chiamate parteciparono, festeggiatissimi, il maestro Serafin e gli interpreti principali.

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m[ario] l[abroca], “Giulietta e Romeo” di Riccardo Zandonai, «Il Lavoro fascista», 8.1.1936 - p. 3, col. 3-4

Dopo il trionfo della Francesca da Rimini Zandonai non se la sentì di abbandonare le torri

merlate, le lotte delle fazioni, i castelli ermetici; tutto quel contorno che ha incorniciati celeberrimi amori egli voleva vederlo ancora in piedi sulle tavole del palcoscenico, a fare da sfondo musicale ad un soprano e ad un tenore lanciati a cantare il loro amore infrenabile. Perciò dopo la parentesi serena e quasi idilliaca della Via della finestra ecco due altri celeberrimi amanti Giulietta e Romeo offrire il destro a Zandonai per la composizione di una nuova opera. Opera che è apparsa tredici anni or sono9 e che, dopo un battesimo felice, ha percorso il mondo lirico con frequenza e sempre con felice successo.

Nell’opera di Zandonai Giulietta e Romeo rappresenta una nuova concessione a quel cantare aperto ed a quella melodia continua che nel Giuliano predominerà in modo quasi assoluto: maniera questa che, provvidenzialmente, nella più recente opera di Zandonai ha ceduto il posto a quel più chiaro definirsi delle forme musicali che permette all’elemento drammatico di apparire più efficace ed espressivo.

Tra la Francesca e la Farsa amorosa che malgrado la grande differenza d’età sono unite idealmente più di quanto non si pensi, la Giulietta e Romeo sta come opera che segna l’inizio di una maniera di espressione che impronterà di sé anche i Cavalieri di Ekebù e il Giuliano. Abbiamo detto che è la maniera della melodia continua, dei duetti che invece di circoscriversi in una forma chiusa si aprono come pianure senza orizzonti, di un cantando che essendo scarso di recitazione finisce con l’apparire privo di rilievo. Ma bisogna dire che nella Giulietta sono anche chiaramente visibili alcune zone ben delimitate le quali anche se si riferiscono ad episodi di contorno dimostrano il permanere di certe forme di espressione che nell’opera più recente, come abbiamo detto, si affermano validamente.

Non è il caso di ripetere l’analisi dell’opera visto che essa ha conquistato un prezioso posto nel repertorio lirico italiano e straniero: diremo soltanto dell’esecuzione che ha valso a mettere in luce le caratteristiche dell’opera e specialmente quella esuberanza lirica della quale abbiamo detto. Il maestro Serafin ha mantenuto lo spettacolo in un’atmosfera vibrante dove però le sonorità sono state contenute nei giusti limiti sì da non spezzare l’equilibrio tra palcoscenico e orchestra. Maria Carbone è stata una Giulietta piena di slancio e di impeto drammatico: artista dotata di un prezioso temperamento, essa ha saputo dare al personaggio non solo una voce bella ed efficace ma anche un giuoco scenico quanto mai significativo. Angelo Minghetti è stato un Romeo appassionato e ricco di espressione confermando quelle doti di artista che tutti gli conoscono; Carmelo Maugeri ha dato alla figura di Tebaldo tutta la foga e l’impeto dei quali egli è capace dandoci in tal modo una nuova misura della sua grande versatilità. Bene la Huder e De Paolis e Bergamini, Conti, Dominici, Zagonara e la Arbuffo, la Grimaldi, la Rositani, Bianchi, Simonti. Ottimo il coro istruito da Conca ed ottima la regìa di Govoni. Come al solito l’allestimento scenico di Ansaldo è stato all’altezza della situazione.

Il successo è stato calorosissimo: una ventina di chiamate hanno salutato gli interpreti e l’autore. Una grande, interminabile acclamazione si è avuta dopo la Cavalcata.

9 In realtà quattordici.

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222 Reprise triomphale de “Giulietta e Romeo” au Royal, «L’Italie», 8.1.1936 - p. 3, col. 5

Le retour du chef-d’œuvre de Riccardo Zandonai sur les scènes de l’Opéra Royal, treize

ans10 après la première représentation, a été salué par un accueil triomphal. Parce que tout ce qui est poésie douce et tendre, psychologie d’âmes, représentation de milieu, le trame en somme dans ses épisodes variés, a jailli vif ed impétueux des pages de l’admirable partition, de laquelle le maestro Tullio Serafin a fait ressortir, avec une ardeur presque violente, toute expression tragique et lyrique.

Mme Maria Carbone a prêté au chagrin de “Giulietta” la tonalité de son beau chant et des accents de haute humanité.

Le ténor Angelo Minghetti, dans le rôle le “Romeo” a chanté avec un élan passionné. Le baryton Carmelo Maugeri a rendu admirablement la foudroyante passion de “Tebaldo”. Mme Maria Huber [sic] a chanté avec une belle fraîcheur et beaucoup de douceur. Le ténor Alessio De Paolis a donné à la célèbre romance de “Cantatore” une expression

coulante et douloureuse. Tous les autres, le basse Dominici, le ténor Zagonara, Mmes Rositani, Arbuffo et

Grimaldi, Mm. Bergamini, Conti et Bianchi ont été à la hauteur de leurs grands partenaires. Les chœurs sous l’habile conduite du maestro Conca ont rempli leur tâche à la perfection. La mise en scène de M. Marcello Govoni et les décors de M. Pericle Ansaldo ont

dignement complété ce très beau spectacle. Le maestro Riccardo Zandonai a été l’objet d’une véritable ovation à la fin de chacun des

trois actes et, notamment, après l’exécution de la Cavalcata. Naturellement, le maestro Serafin et les interprètes se sont partagé tous les honneurs. [...]

223 L[udovico] F[erdinando] Lunghi, “Giulietta e Romeo” di Riccardo Zandonai, «La voce d’Italia», 23.3.1941 - p. 7, col. 2-3

Gli anni sono passati, le polemiche e le passioni si sono acquetate, e Giulietta e Romeo,

resistendo agli uni e alle altre, appare oggi nella reale luce del suo definitivo valore. L’opera è viva e vitale. Non solo, ma appare strettamente legata alla grande nostra tradizione con riflessi verdiani nella concezione e nel taglio che le dànno potenza e la pongono fra le opere più significative e compiute di quest’ultimo periodo non sempre felicissimo del nostro teatro lirico.

A darle questa forza, questa saldezza e questa accesa espressività concorrono anche taluni elementi prettamente peculiari di Riccardo Zandonai. Una cruda ma evidentissima caratterizzazione dei personaggi, una ammirevole dovizia di contrasti, un appassionato pudore di accenti, e su tutto, inconfondibile, un’atmosfera che nasce dai personaggi, dai loro sentimenti, dal conflitto di essi, e che resta sospesa e palpabile, quasi a creare loro intorno l’aria vitale che respirano e di cui vivono.

Una atmosfera estatica, trepida di poesia, riflesso dell’anima, sottile spasimo dei sensi. Gli esempi in Zandonai si moltiplicano. In questa «Giulietta» basti citare per tutti il finale dell’atto primo in cui l’alito profumato del giorno nascente sembra venato dall’eco degli

10 Cfr. nota 110.

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innamorati accenti che rivivono nelle voci indistinte del risveglio mattutino e vi cadono come gocce di rugiada. E, per contrasto, il livido e tragico cielo tempestoso del primo quadro dell’atto terzo su cui geme con la sua mirabile struggente tenuità la trenodia del “Cantatore”. E qui, fino a tutta la “cavalcata”, il dramma dell’uomo ha veramente le sue profonde risonanze nel dramma della natura.

Un primo atto veramente bello, un secondo in cui soccorre un vivo ed innato senso del teatro, un terzo che ha nel primo quadro forse la cosa più bella, più sincera, più vera che sia stata mai scritta da Zandonai: uno strumentale vario, ricco, ispirato anche e magistralmente condotto, aderente espressione di una varietà armonica tipicamente personale, dànno a quest’opera un valore essenziale e il diritto ad avere fortuna almeno pari a quella di Francesca.

Non sempre ci si ricorda di quello che Zandonai rappresenti nel nostro teatro lirico. Ma tant’è: ci pensano le sue opere a ricordarcelo ogni tanto: e questa Giulietta certo più e meglio di ogni altra che non sia Francesca, cui del resto, a mio parere, non è seconda.

Il pubblico del Reale ha ieri sera ascoltato l’opera nella stessa edizione che sarà presentata a Berlino in occasione delle prossime recite del Teatro Reale nella capitale germanica.

E fin da ieri sera questa edizione è apparsa nei particolari e nell’insieme già portata a punto.

Qualche attenuazione di violenti contrasti, una più giusta velatura ai cori interni, qualche tocco al movimento delle masse, qualche ritocco ai trucchi e alle luci la farà perfetta. Piccoli particolari che appaiono già avviati alla loro giusta soluzione.

Ha concertato e diretto l’opera il maestro Vincenzo Bellezza cui va una particolare lode. La complessa e ricca partitura è apparsa nel suo pieno valore di precisione, di equilibrio, di accesa e poetica espressione. Il M.o Bellezza può segnare questa sua interpretazione fra le migliori delle non poche che in questi ultimi tempi ci ha offerto. Il successo dell’opera è anche ed in gran parte suo successo e l’applauso vibrante che lo ha salutato dopo la ormai celebre “Cavalcata” è stato il segno più tangibile di un successo che l’ha seguito durante tutto lo spettacolo.

“Giulietta” era Magda Olivero. Essa è qualche cosa di più di una cantante. Il personaggio in lei è vita: la finzione realtà: ogni moto dell’animo, musica. La sua interpretazione di ieri sera va al di là dell’impressione del momento e resta impressa e commovente nell’animo dell’ascoltatore.

Al suo fianco Alessandro Ziliani ha vissuto il personaggio di “Romeo” con bella evidenza e nell’ultimo atto con grande potenza espressiva sia vocale che scenica. Sì che mi pare che questa parte particolarmente gli si addica e con particolare evidenza e con acceso calore artistico la renda.

Luigi Borgonovo, baritono, nuovo per il Reale, si è affermato nella parte di “Tebaldo” non soltanto cantante di ricchi e felici mezzi vocali ma attore di composta e pur grande efficacia.

Maria Huder (Isabella) riconferma con questa prova le sue non comuni qualità di cantante e di interprete; e Francesco Albanese, con una delicata espressività, il pregio di una voce di dolce timbro e bella estensione. Tutte le altre parti, numerosissime, erano affidate a quegli ottimi elementi del Reale che altre numerose volte ho avuto occasione di segnalare e di lodare, e che anche ieri sera sono stati degni di viva lode.

I bei cori diretti dal maestro Conca, il palcoscenico guidato dal maestro Ricci, la magnifica orchestra si sono fusi in una pregevole e calda unità.

Guido Salvini ci ha offerto una regìa ammirevole per equilibrio, verità di espressione e tale da far altamente onore al nostro Teatro anche in Germania ove, come ho già detto, lo spettacolo sarà portato.

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Per l’occasione le scene ed i figurini sono stati espressamente fatti ex-novo. E sono di un gusto, di una bellezza veramente eccezionali. Efisio Oppo ha creato e bozzetti e figurini. Gli uni sono stati egregiamente realizzati dal Polidori; gli altri, di rara purezza, ci riportano, finalmente e grazie a Dio, alla autentica Verona dei Capuleti e dei Montecchi.

L’opera ha riportato un grande successo. Registro a malincuore, perché fatti il più delle volte senza il minimo senso di opportunità e

di intelligenza, gli applausi a scena aperta. E di gran cuore quelli a fine di ogni atto, unanimi, ammirati,, meritatissimi, rivolti al maestro Bellezza, alla Olivero, a Ziliani, a Borgonovo, a tutti gli altri bravi interpreti; e le molte chiamate al direttore che, come ho già detto, ha avuto un personale e vibrante successo dopo la “Cavalcata”; agli artisti, al regista Salvini particolarmente festeggiato.

Riccardo Zandonai, che aveva assistito alle prove fino a quella generale, non era in teatro. Era tornato al suo lavoro.

224 Vice, “Giulietta e Romeo” di Riccardo Zandonai ha ottenuto un vivo successo, «Il Messaggero», 23.3.1941 - p. 3, col. 5-6

Venti anni circa non sono trascorsi invano per Giulietta e Romeo: sono serviti se non altro

a smussare gli angoli acuti di certa critica che per molto tempo non volle perdonare a quest’opera d’averla clamorosamente smentita nelle previsioni. Pochi infatti ci videro chiaro nel lontano 1922 quando lo spartito zandonaiano apparve la prima volta sulle scene dell’allora Teatro Costanzi: non si volle riconoscere il significato drammatico di un’opera che nel periodo delle infatuazioni avveniristiche tendeva semplicemente a riaffermare la costruttiva necessità spirituale di conservare i valori tradizionali del teatro lirico italiano. Giulietta e Romeo è dunque anzitutto un’opera italianissima: lo è per virtù di canto, per taglio scenico, per l’appassionante esaltazione dell’ambiente paesano. A Riccardo Zandonai non si possono negare i tre fondamentali attributi del suo talento e che si riassumono nella sintetica e dinamica capacità di espressione, nella esplicita intuizione drammatica, nel sorprendente fiuto teatrale. Oggi che i molti esperimenti sollecitati da un troppo diffuso e irrazionale gusto per le mode esotiche e gl’infingimenti intellettualistici giacciono inerti ricoperti da un funereo drappo fallimentare, la sana giovinezza, l’eterno fascino del nostro teatro splende gagliardo nell’aria sgombra dai miasmi della petulante polemica salottiera.

Non era difficile cogliere ieri nella sala del Reale una atmosfera di compiacimento e di soddisfazione: il pubblico attento si è accostato alla musa zandonaiana con fiducioso amore. Un calore inconsueto di applausi ha sottolineato più volte i punti salienti dell’opera che si è avvalsa, diciamolo subito, di una esecuzione veramente squisita, precisa e fusa in ogni particolare. Le grandi linee di Giulietta e Romeo sono ancor oggi quelle che suggestionano l’animo dello spettatore, l’ampio afflato melodico dello spartito non stenta a trovare pronte reazioni e nella concitata progressione drammatica, senza arresti, pentimenti o equivoci può forse passare inosservato il segreto fascino di tante piccole preziose cose: e noi rimandiamo l’osservazione dell’ascoltatore a quel coretto femminile con il quale si conchiude il primo atto, alle squallide note di quell’organetto peripatetico che nel momento più crudo della tragedia sembra indicare l’indifferente procedere della vita in ogni tempo e luogo. Si osservi inoltre il pregio della pittura ambientale: il rude coro paesano nel tempestoso vespero di Mantova, spensierato e molesto, non poteva meglio condurre per contrasti l’animo dell’ascoltatore al dramma finale dei due amanti. Di queste illuminate pagine l’opera è ricca a

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dovizia: la irrefrenabile simpatia dei personaggi, il taglio esplicito ed intelligente del libretto completano le molte attrattive del geniale spartito.

Abbiamo accennato poc’anzi ai pregi dell’esecuzione, diremo ora che essa è apparsa una delle migliori uscite dalla fucina del Reale: il merito va anzitutto alla bacchetta di Vincenzo Bellezza, alla sua amorevole cura ed alla sua appassionata fatica. La condotta orchestrale della complessa partitura è stata di una chiarezza e di una incisività oltremodo felice: dosati ed equilibrati gli spessori sonori, il ritmo rilevato nel suo giusto stacco. Altrettanta cura è stata posta dal maestro Bellezza nel valorizzare il dinamicissimo andamento musicale del palcoscenico. Dopo la irruente Cavalcata, resa con viva, appropriata animazione, il pubblico ha premiato l’illustre direttore con un triplice, fragoroso applauso. Nelle vesti di “Giulietta” abbiamo avuto il destro di ammirare il suggestivo fascino canoro e scenico di Magda Olivero: è il suo uno dei più vividi talenti della nostra arte lirica. Forse mai come ieri sera il delicato personaggio zandonaiano è sembrato palpitare di autentica vita interiore. Magda Olivero mette il suo gran cuore traboccante d’affetto al servizio di un sottile acume istrionico: dizione e fraseggio, emissioni ed accenti, perfetti nel rigore musicale, scaturiscono dall’attiva partecipazione dell’interprete al dramma. Il soave canto «sono la vostra sposa» dell’atto secondo è stato detto da questa magnifica artista con il pianto alla gola ed una amorosa dedizione: ne siamo rimasti ammirati e commossi.

Anche Alessandro Ziliani ci è sembrato un Romeo efficace, raffigurato con nobiltà d’intenti. Il gradevole timbro della sua voce non ha stentato ad espandersi, nei punti richiesti, con generoso impeto. Completava degnamente il terzetto degli interpreti principali il baritono Luigi Borgonovo, che ha dato rilievo e dignità alla difficile parte di “Tebaldo”. Un “cantastorie” dalla voce fresca e ben modulata è apparso Francesco Albanese. I personaggi minori come pure il coro hanno recato un preciso contributo allo spettacolo. Belle le scene di C. E. Oppo intese con moderno spirito, di una pittura fantasiosa e drammatica; la regìa di Guido Salvini ha composto quadri di un’armonica eleganza, dando giusto rilievo ai molteplici e complessi avvenimenti scenici. Questa edizione di Giulietta e Romeo rappresenterà prossimamente all’Opera di Stato di Berlino la produzione teatrale contemporanea italiana: il successo di iersera è stato dunque un lietissimo auspicio.

225 Francesco Scardaoni, “Giulietta e Romeo” di Zandonai, «La Tribuna», 25.3.1941 - p. 3, col. 3-4-5 (con una foto della scena finale dell’opera, ideata da C. E. Oppo)

Fu detto che la Francesca da Rimini di Zandonai si reggeva essenzialmente pel famoso

tema della “viola pomposa” che tutta l’opera avvince e domina col suo profumo violento. Il giudizio era un po’ temerario, giacché la Francesca ha una consistenza sua drammatico-musicale e ricchezza di espressioni e di movimenti indipendentemente dal tema in questione. Quest’ultimo però, destando in modo particolarissimo l’interesse dell’ascoltatore, ha senza dubbio il risultato di rischiarare e di rendere più facilmente accessibile il contenuto dell’opera. In Giulietta e Romeo il dramma musicale raggiunge una espressione alquanto più profonda e una forma più perfetta che nella Francesca, ma manca il valore corrispondente a quello del tema della “viola pomposa”. L’opera s’appoggia dunque esclusivamente alle risorse della sua espressività musicale e a un certo colore dominante determinato a meraviglia dall’elemento sinfonico.

La straordinaria sensibilità drammatica dell’autore trova una realizzazione perfetta e sempre immediata nel contesto dei valori sonori. Si potrebbe anzi dire che tutto ciò determina

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in lui una specie di emozione costante che l’induce quasi a trascurare il materiale tematico, che fiorisce qua e là piuttosto copiosamente e che egli lascia disperdere con un gesto da gran signore. Il potenziamento dell’espressione lirica e poetica lo interessa in più larga misura. Su questo fenomeno egli insiste più particolarmente. A volte si eccita verso forme di delirante esaltazione. Ci sembra che perda allora un certo controllo strumentale. L’orchestra cioè non esprime più il sentimento dei personaggi, ma quello dell’autore. Raggiunge allora delle sonorità fragorose che concentrando il dramma nel “golfo mistico” lo sopprimono sulla scena. La strumentazione si svolge ampia e nutrita, piena di un respiro profondo e di una travolgente potenza; ma con i suoi guizzi metallici schiaccia alcune fra le più belle note del soprano e del tenore. Se tuttavia l’equilibrio si manifesta instabile nel risultato degli effetti sonori, esso è perfetto nell’espressione del dramma. Sotto questo ultimo punto di vista la musica di Giulietta e Romeo può sembrare un grande affresco dalle tinte torve e violente nel quale la tragica vicenda dei due giovinetti innamorati rivive potentemente in un tumulto di rievocazioni affascinanti, fra sogni e sospiri, odi implacabili, spade sguainate e urti violenti, su uno sfondo di torri merlate e di architetture severe.

Per questa ragione certo alla mirabile esecuzione che di Giulietta e Romeo è stata data al Teatro Reale hanno contribuito essenzialmente le nuove scene e i nuovi costumi di Cipriano Oppo. Il quale, nella realizzazione del dramma, procedendo su un cammino parallelo a quello del musicista ha sviluppato nelle sue linee e nei suoi colori l’elemento più intimo di questo remoto episodio della storia veronese. Non soltanto dunque egli ha creato con la sua fantasia luoghi, aspetti e forme di un affascinante effetto, ma ha dato una vera e propria espressione architettonica all’idea centrale del dramma musicale.

Di conseguenza Guido Salvini nel regolare la regìa dell’opera ha avuto un’eccellente base, su cui i movimenti delle masse e delle persone hanno potuto determinarsi col più compiuto risultato. E molto di più egli avrebbe ottenuto se la sensibilità degli attori cantanti fosse stata in questo senso più viva e meglio si fosse adeguata al suo stile che è un po’ quello di far vivere con dettaglio l’effetto dell’insieme. Comunque sulla scena il dramma si è realizzato in tutta la sua potenza e in tutta la sua tensione.

Vincenzo Bellezza – che, dopo una non breve assenza, il pubblico ha riveduto con la più grande gioia sul podio del “Reale” – ha fatto vivere l’opera di Zandonai nel suo più profondo spirito lirico-sinfonico. Con la sua bella battuta ampia e decisa egli ha squadrato fortemente tempi e ritmi e a tutte le multicolori sonorità ha dato nitidezza e rilievo. Nella cavalcata di Romeo, condotta con una potente espressione sentimentale attraverso le sue abbaglianti forme descrittive, egli ha raggiunto effetti di un particolare vigore e ha suscitato l’entusiasmo delirante degli ascoltatori.

La partitura di quest’opera, così appassionata e dallo stile così nobile, la quale opportunamente figurerà nel programma della prossima breve stagione italiana a Berlino, difficilmente potrebbe trovare un interprete più esatto e un esecutore più vivo.

La voce di Magda Olivero è di quelle che sgorgano dal profondo dell’anima. Il fenomeno fisico che la produce si identifica perciò esattamente con un fatto spirituale. La bellezza del suo suono, la mollezza dolce delle sue flessioni che rende così chiare e vive tutte le note di passaggio, si identificano con la passione e coi vari momenti d’una sensibilità accorata e commossa. Nella parte di Giulietta, considerata sotto il suo punto di vista drammatico e patetico nonché sotto quello vocale e musicale, questa eletta cantante è stata dunque di una grande classe. Attraverso la sua arte, la storia d’amore e di annientamento della dolorosa fanciulla sono risultati d’una logicità assoluta e il personaggio ha potuto concretarsi nella sua vera forma vivente.

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Nella parte di Romeo si è fatto molto ammirare Alessandro Ziliani per robustezza di voce, accento drammatico e una certa piacevole eleganza nel giuoco scenico. Luigi Borgonovo ha creato saldamente il personaggio di Tebaldo dandogli una giusta misura di durezza e una gagliarda espressione vocale. Francesco Albanese, nella parte del Cantatore, ha potuto esporre le note più belle del suo timbro eccellente. Ottimamente tutti gli altri artisti nei numerosi personaggi secondari.

Il successo è stato schietto ed entusiastico. Oltre molti applausi a scena aperta, fra cui – ahimè! – alcuni assai fuori di luogo, ci sono state calorosissime ovazioni ad ogni fine di atto al direttore agli interpreti e al regista.

226 a. righ., Al Reale dell’Opera “Giulietta e Romeo” di R. Zandonai, «Il Tevere», 24-25.3.1941 - p. 3, col. 4

Non è esatto affermare che le opere del tutto mancate non giovino al teatro. A qualcosa

servono; in senso negativo, ma servono. Non foss’altro, per ragioni di relatività e di contrasto, mettono in sempre maggior luce le buone opere, quelle dettate dal cuore e dall’intelligenza dei compositori che hanno qualcosa da esprimere e da rivelare a mezzo delle note. Vedete l’esempio di Giulietta e Romeo di Riccardo Zandonai: c’è sembrata ancor più fresca, viva e moderna, malgrado i suoi vent’anni di vita, proprio perché in quest’ultimo ventennio abbiamo assistito ai più svariati inutili tentativi del nuovo ad ogni costo, anche al costo – inavveduto e cretino – di mettersi al seguito delle più sballate correnti internazionali che sono state di infausta, effimera moda negli intellettualistici e ambigui cenacoli parigini. Sterili tentativi, morti in sul nascere, cui converrebbe non la ribalta di un teatro ma il ben tappato boccale pieno di alcoole addetto a preservare le mostruosità fetali.

Quanta vita, prepotente e giovane, e quanta modernità, invece, in questa italianissima Giulietta, che non ha sdegnato le forme classiche del melodramma, che si è ricollegata all’opera verdiana come a una delle più pure fonti del genio musicale italiano!

Nessuna meraviglia. Quando, come Riccardo Zandonai, si hanno molte cose da dire che bollono nel sangue, quando come il maestro trentino si possiede una tecnica orchestrale che non ha niente da invidiare a quella dei più celebri distillatori stranieri di cruciverba musicali; e sentimento e tecnica idealmente si associano al senso e alle esigenze del Teatro, ci si può formalmente ricollegare a qualsiasi modello: si farà sempre opere vibrante di vita. Di vita in Giulietta ce n’è perfino troppa in qualche punto: è un’opera gravata di ipertensione. È vero che siamo di fronte ad un atroce conflitto di fazioni di un’epoca in cui si dava mano alla spada con la stessa indifferenza con la quale oggi si trae dal taschino la penna stilografica; ma anche le espressioni amorose come quelle del grande duetto del verone risentono troppo dell’ambiente arroventato e i due celebri innamorati sono costretti a gareggiare di sonorità rutilanti invece di raccogliersi in più sommesse espansioni canore, come la prudenza e la soave dolcezza dell’ora notturna consiglierebbero.

In Giulietta i diritti del canto sono salvaguardati a pieno: ed è un canto sempre aderente ai personaggi. L’orchestra rugge e mormora – ma sono più i momenti in cui rugge – con voci sempre nuove e rinnovantesi per geniale virtù di impasti e di trovate armoniche, ed il suo linguaggio è sempre tale da dare una fisionomia propria e inconfondibile ai vari momenti dell’azione.

Quando poi l’ispirazione batte l’ala negli alti accenti vien fuori quel primo quadro del terzo atto, con l’accorata melodia del cantastorie, al quale quadro non si regala niente

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chiamandolo geniale. E vicino a questo episodio potremmo aggiungere vari altri colti lungo i tre atti per concludere con un giudizio di schietta ammirazione.

La realizzazione apprestata dal Teatro Reale merita grande favore nel suo complesso. Noi che abbiamo sempre avuto una spiccata predilezione per i cantanti e per le bellissime voci e proprio per questo pecchiamo di incontentabilità, abbiamo riscontrato una certa asprezza nelle voci dei tre artisti principali, asprezza che può essere a posto in “Tebaldo”, ma non in “Giulietta” e in “Romeo” dai quali in più d’un momento avremmo desiderato maggiore, sommessa dolcezza di accenti e di modulazioni. Ma, ripetiamo, è l’incontentabilità che ci detta queste riserve, oltre le quali abbiamo senz’altro ammirato il drammatico temperamento della signora Magda Olivero e l’accentuazione espressiva, nei momenti di maggior forza, del tenore Alessandro Ziliani. Quanto al baritono Luigi Borgonuovo [sic], il meglio delle sue possibilità canore sta nelle note acute, robuste e di bel metallo. Aggiungiamo che i tre artisti hanno trovato scenicamente una perfetta e continua efficacia. Molto è piaciuto il tenore Francesco Albanese. I quattordici artisti delle parti minori dovranno accontentarsi del “bravo” collettivo, ma pienamente e da tutti meritato.

Di importanza essenziale per l’eccellente risalto dell’opera la concertazione e la direzione del maestro Vincenzo Bellezza, al quale l’imponente ovazione scattata sull’accordo conclusivo della cavalcata ha detto meglio di come potremmo dirlo noi quanto il difficile e scaltrito pubblico del Reale apprezzi ed ammiri la sua bacchetta. È stato il momento del maggiore entusiasmo per il calore degli applausi e per la spontanea partecipazione di tutta la sala. Ciò dimostra la sensibilità di un uditorio che inoltre ha reagito di fronte alla intempestività di solitari battimani piovuti a sproposito dall’alto.

Riconosciamo l’utilità dei vostri interventi, o signori altolocati volontari dell’entusiasmo; ma disciplina ci vuole, e intelligenza.

Pronto e sicuro il coro istruito dall’ottimo maestro Conca; ma certi effetti interni li vorremmo più distanti.

Assai pregevole la regia di Guido Salvini: giustamente apprezzata la bella armoniosa fedeltà delle scene ideate da E. C. Oppo e realizzate da E. Polidori, nonché dei figurini anch’essi disegnati dall’Oppo con artistica aderenza.

Successo vivissimo per unanimità di giudizi espressi negli intervalli e per le numerose chiamate a fine d’atto.

227 Bac., Dagli amanti di Verona agli epitalami di Catullo, «Il Piccolo», 24.3.1941 - p. 5, col. 1-2

In due giorni consecutivi, sabato e domenica, due avvenimenti musicali registra la cronaca

romana: il ritorno di Giulietta e Romeo del maestro Zandonai all’Opera e l’Epitalamio catulliano di Ildebrando Pizzetti all’Adriano.

La tragedia degli amanti di Verona è, giova ricommentarlo, un saggio delle sette opere che nel prossimo aprile saranno date dal nostro Teatro Reale a Berlino in cambio delle memorabili rappresentazioni della Staatsoper berlinese a Roma. Delle sette opere fanno parte, per quel che si sa, il Ballo in maschera, la Norma e il Falstaff, dirette dal Serafin, la Fanciulla del West e l’Italiana in Algeri dirette dal De Fabritiis, l’Elisir d’amore e la Giulietta e Romeo dirette dal Bellezza.

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La rappresentazione di sabato, quantunque lo spartito di Riccardo Zandonai fosse fissato nel passato anno per il cartello della presente stagione, fu dunque una prova di collaudo che ottenne il plauso sia per la musica sia per gli esecutori e l’allestimento scenico.

La musica per non pochi era nuova, tanto di rado fu data l’opera che pure fu rappresentata per la prima volta nel 1922, quasi venti anni addietro. La danza del torchio e la cavalcata di Romeo che vengono inseriti di frequente nei programmi dei concerti sinfonici crescevano il desiderio di udire intera la tragedia musicale, ma per varie ragioni soltanto quest’anno il voto fu appagato con ogni cura. Qui il pubblico ritrova l’operista di spontanea vena italiana, limpida fresca copiosa così nelle espressioni dolci e insinuanti come nelle aspre e violente. Italiano non è forse questo soggetto oggi universale e monumento della grande arte innalzato alla nostra letteratura popolare che ha tentato otto maestri, due soli dei quali stranieri?

Il maestro Vincenzo Bellezza nel dirigere lo spartito, che meno si discosta dalle altezze scespiriane, pose più che scrupolo, passione. Per merito suo le non poche gemme della tragedia acquistarono nuovo splendore. Magda Olivero e Alessandro Ziliani, i due protagonisti, Luigi Borgonuovo [sic] (Tebaldo Capuleto), Francesco Albanese (un ottimo cantatore), Maria Huder (la fante Isabella), le altre parti secondarie e i cori del Conca mostrarono preparazione accurata e matura.

Entro le nuove scene di Cipriano Efisio Oppo operò l’ingegnosa regìa di Guido Salvini. La danza del torchio e la cappella dei Capuleti pure per l’occhio sono due quadri stupendi.

[...]

228 Vivo successo di “Giulietta e Romeo” al Reale dell’Opera, «L’Italia», 25.3.1941 - p. 3, col. 6

Giulietta e Romeo, che fu rappresentata per la prima volta al Costanzi nel 1922, è stata

accolta sabato sera con evidente compiacimento del pubblico del Reale che attendeva con impazienza l’importante ripresa.

L’esecuzione perfetta dell’opera in misura degna alla riuscita dello spettacolo, curato con diligente passione dal maestro Vincenzo Bellezza.

Applausi calorosissimi hanno salutato i punti salienti della bella ed ispirata partitura, tagliata secondo il modello classico del teatro lirico italiano, in piena infatuazione di modernità avveniristica.

Il maestro Bellezza ha dato risalto a tutte le bellezze patetiche, drammatiche e coloristiche dell’opera che ha trovato in Magda Olivero (Giulietta) in Alessandro Ziliani (Romeo) in Luigi Borgonovo (Tebaldo) e in Francesco Albanese (il Cantastorie) un complesso d’interpreti eccellente non solo per mezzi vocali ma anche per talento ed efficacia di azione scenica.

Anche i personaggi minori ed i cori sono da lodare per il valido contributo recato al successo. Belle le scene, modernissime e fantasiose, di C. E. Oppo.

[...]

229 l[udovico] f[erdinando] l[unghi], “Giulietta e Romeo” all’Opera, «Il Giornale d’Italia», 23.12.1947 - p. 2, col. 1

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Non si comprende certo partito preso contro quest’opera e in genere, ora che è morto, contro Zandonai e la facile accusa di retorica, quando tante altre opere che fanno affollare i teatri non sono certo digiune di questa benedetta retorica: con l’aggravante che il più delle volte non hanno certo al loro attivo una partitura d’orchestra come questa della «Giulietta». Si può non amare il melodramma: e questo è un altro discorso; ma se lo si ama, in questo dello Zandonai ci sono tali elementi quali l’atmosfera, la caratterizzazione dei personaggi, il senso musicale del teatro, il senso del poetico, e certa non celata derivazione dalla tradizione verdiana, che si resta perplessi di fronte a tanti giudizi sommari o negativi. Vorrei modestamente dire che «Giulietta e Romeo» è una bell’opera e viva: e a ricordarci che viva c’è il personaggio musicale, per non parlar d’altro, di “Tebaldo” che è proprio una della più evidenti creature e delle più persuasive ragioni di vita di quello che noi chiamiamo il melodramma. E vorrei anche modestamente consigliare il pubblico di ascoltarla, quest’opera, ché finirà per amarla. Il maestro Vincenzo Bellezza ce ne offre una edizione quanto mai pregevole ed appassionata, equilibrata e salda, commossa e viva; a lui, che dopo la “cavalcata” ha riscosso una meritata ovazione, si deve se l’ottima orchestra ha reso la complessa e ricca partitura con tanta pienezza di espressione e se il palcoscenico s’è tenuto su un tono elevato e musicalmente accurato.

Elisabetta Barbato ha voce di vibrante espressione, di commosso accento e temperamento di interprete sicura [e] comunicativa: vorremmo consigliarla, all’ultimo atto, di non attendere così apertamente l’entrata del direttore; è artista che crediamo non abbia bisogno di ciò. Il giovane tenore Alsinio [sic] Misciano ha voce che se non domina sempre le sonorità orchestrali ha in compenso timbro caldo e simpatico: una voce che esprime, che è bene impiegata, che “canta”, e questa è una grande cosa. Misciano ha anche compostezza e intelligenza scenica e vorremmo tanto che perseverasse e non si perdesse subito nel mestiere come oggi purtroppo accade. Il baritono Inghilleri conosce le sue possibilità vocali e direi che le impiega con grande accortezza e le mette al servizio di una rara perizia scenica. Ottimi la Huder (Isabella) e il Caruso (il Cantatore). Buoni i cori del m. Consoli e un poco confusa, per la eccessiva ricerca di particolari anche superflui, la regìa che il Barlacchi ha realizzato con palese impegno.

L’opera si è chiusa tra il più vivo successo e sotto una inutile ed infantile pioggia di coriandoli che volevan essere petali di rose. Molti applausi, molte chiamate al direttore e agli interpreti tutti.

230 Sergio Dalma, “Giulietta e Romeo” di Zandonai, «La Repubblica d’Italia», 23.12.1947 - p. 2, col. 2-3

Il basamento letterario della «Francesca» di Zandonai porta scolpito un nome:

D’Annunzio. Dietro «Giulietta e Romeo» c’è la fiacca imitazione dell’Abruzzese; c’è che, se per esempio s’ha da nominar la fiaccola o la torcia, bisogna dire il torchio. Altrimenti, addio poesia. Gonfio come un otre ripieno d’aria dannunziana, il libretto di Rossato buon’anima vuol parere grandioso ed estroso, come se bastasse gonfiar le gote per parere un Ercole. L’immenso William dai Campi Elisi sogghigna, specie quando vede – lui, maestro di connubî – fornicare il realismo col più gratuito estetismo stile liberty. E si ribella a far da prònubo.

Riccardo Zandonai, il maggior musicista uscito dalla scuola di Mascagni, l’ispirato creatore delle più indovinate atmosfere musicali che siano apparse in quest’ultimo cinquantennio (e di ciò fanno fede le pagine maliose di «Francesca» o di «Giuliano») è stato

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trascinato in questo brulicame d’ibridismo spurio: e dàlli, nella famosa (e applaudita) Cavalcata, a far cantare nella notte tempestosa «Giulietta mia!» da un fantastico coro (oh, sublime mormorio vocale nella tempesta del «Rigoletto»!!) dopo averci fatto assistere a più che veristiche scene; ed ecco accompagnar con l’orchestra – di cui il musicista aveva una magistrale padronanza – la pioggia di petali di rose caduta dal soffitto del palcoscenico sui corpi esanimi degli amanti.

Nelle poche righe assegnateci non è possibile procedere ad altre documentazioni probatorie. Quello che abbiam scelto, a caso, tra i molti esempi servirà a fare intendere il nostro pensiero. Il quale è molto, ma molto lontano dalla benché minima irriverenza verso l’adorato e veramente compianto Maestro trentino, che attende, come Mascagni, un’autentica commemorazione. Secondo noi, Zandonai, con buona pace dei vivi, va ricordato in due sere: con «Francesca» e con «Farsa amorosa». Sono questi i due volti essenziali del geniale compositore.

Della «Giulietta» Vincenzo Bellezza ha fatto il suo “livre de chevet”. Ne conosce tanto le turgide e ipertese arterie quanto il celeste aerato respiro, le nuvolaglie basse e le alte schiarite. Ne ha fatto quindi una ricreazione consapevole e devota. A suoi collaboratori ha avuto Consoli per i cori, che si son fatti onore, e Berlacchi [sic] per la regìa dalla quale non si possono pretendere miracoli, per quello che s’è detto circa il bolso libretto. Elisabetta Barbato ha prestato alla Capuleto la sua voce tragica, cupa, densa, fatale. Chi comporrà per questa cantatrice un’Erinni o una Medèa, oppure la più inesorabile Sibilla della Sistina? Alvinio Misciano farà molta strada se della sua voce gradevole si servirà come d’un elemento prezioso per un essenziale convincente gioco drammatico.

Inghilleri è stato all’altezza della sua reputazione. Il tenore Caruso continua a far sperare assai bene di sé. Un elogio “à forfait” per l’infinita schiera dei personaggi, se così si possono chiamare dei manichini decorativi.

231 Renzo Rossellini, “Giulietta e Romeo” al Teatro dell’Opera, «Il Messaggero», 21.12.1947 - p. 3, col. 2-3

Il teatro di Riccardo Zandonai è romantico e si riallaccia alla migliore tradizione del

melodramma italiano. Se ha qualche affinità, dal punto di vista vocale, con i modi della cosiddetta “giovane scuola” e ne ha risentito alcune delle migliori influenze, per individuarne i caratteri generali ed i sentimenti bisogna risalire direttamente a Verdi. Mai come oggi questa parentela è apparsa tanto stretta: ascoltando il secondo atto di Giulietta e Romeo, nel declamato che infervora i personaggi, nella condotta rigorosamente melodica della partitura, la discendenza verdiana è evidente. Gran titolo d’onore per un musicista e specialmente per un musicista di teatro.

Giulietta e Romeo è un’opera viva: alcune delle sue pagine sono indimenticabili per l’originalità della concezione e per il potere evocativo che emanano. E l’interesse non langue mai, tanto brillante è l’estro con cui l’autore ha saputo tagliare le scene e dare vigore e varietà ai molti avvenimenti che si susseguono nella vicenda. Forse ancor più dello stesso amore leggendario dei due protagonisti Zandonai ha sentito il colore, la luce e la poesia di un tipico paesaggio italiano. Le albe di Verona, le notti di Mantova sono state evocate e descritte da lui con mirabile fantasia.

Noi ci auguriamo che il pubblico, come fu nel felice passato del teatro musicale italiano, testimoni la sua simpatia per quest’opera accorrendo numeroso alle sue repliche. Sarà un

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omaggio reso, nel modo più degno, alla memoria di un nostro grande Maestro purtroppo immaturamente scomparso, e nello stesso tempo un intelligente modo di favorire l’auspicato rinnovamento del repertorio lirico.

Elisabetta Barbato ha dato un bellissimo risalto alla difficile parte di Giulietta: essa è stata, sia dal lato vocale che da quello scenico, sensibile ed appassionata ed ha ottenuto un successo personale molto lusinghiero. Il giovane tenore Alvinio Misciano si è fatto spesso apprezzare per il canto misurato e la buona dizione. Bene Giovanni Inghilleri, il quale ha caratterizzato con giusto impeto la figura di Tebaldo. Vincenzo Bellezza, un devoto di questa partitura ed un vecchio amico di Riccardo Zandonai, ha concertato e diretto lo spettacolo con entusiasmo evidente e vivo amore. È stato lungamente acclamato dopo la famosa “cavalcata”. Il coro, istruito da Achille Consoli, si è fatto onore, mentre la regìa di Barlacchi, invece, ci è sembrata incerta e confusionaria.

[...]

232 M. C. C., Giulietta e Romeo, «Espresso», 22.12.1947 - p. 3, col. 8-9

Fra tanti santi innalzati ove tutto è gloria e pace non uno ve n’è cui possa rivolgersi il

martire critico con la sua anima tormentata dal dualismo che dentro lo rode: i rigorosi presupposti estetici che gli fanno intravedere l’epicedio del teatro lirico e la passione e la fede che, malgrado tutto, lo attanagliano a questo teatro. A volte gli sembra che quell’omuncolo che disperatamente si dibatte sul podio debba improvvisamente arrestare ogni fragore orchestrale e, nella sorpresa del silenzio pieno di presentimento e di sgomento, debba volgersi al pubblico e gridare un jeratico: «Signori, si chiude!».

Più inquietante del consueto abbiamo avvertito l’altra sera all’Opera il nostro interno tormentoso dibattito mentre si svolgeva la rappresentazione della «Giulietta e Romeo» di Zandonai, per la quale avremmo desiderato non un successo da capolavoro, che tale nessuno mai ebbe la bonomia di conclamare, ma un bel successo da opera di “repertorio”, come le spetterebbe d’essere classificata, mentre ben l’ottanta per cento del pubblico presente vedeva quest’opera per la prima volta!

Ma arrivati alla fine dello spettacolo, col cadere di certi coriandoleschi petali bianchi sui corpi “finalmente” inanimati di Giulietta e Romeo, ci siamo sentiti maggiormente depressi, perché non avremmo voluto credere che il Teatro dell’Opera, oltre tutto, potesse prestarsi da palestra di esercitazione alla candida fantasia di un regista di teatrino da educandato.

Dunque la colpa non è proprio tutta del pubblico che noi riscontriamo distratto, apatico, conformista.

Già che il Teatro, e non sappiamo precisamente “chi” per esso, ha avuto la lodevole intenzione di allestire questa vitale opera di Zandonai (alla quale tuttavia occorrono ragionevoli tagli), sarebbe stato assai opportuno che avesse volto le sue cure a un’esecuzione il più possibile efficiente, con un largo numero di prove, che erano indispensabili. Il maestro Vincenzo Bellezza, che fortemente ama quest’opera, era sul podio convinto e appassionato. I cantanti, spesso traditi dall’impeto della natura melodica che Zandonai ha dato al suo lavoro, si sono lasciati trascinare a ricalcare eccessivamente le loro parti.

Ecco gli interpreti principali applauditi più volte alla ribalta: Elisabetta Barbato, Alvino [sic] Misciano, Giovanni Inghilleri, Mario [sic] Caruso e poi Maria Huder, Gabriella Muzzi, Fernando Delle Fornaci, Mazziotti, Conti, Platania, Russo, Stocco Titta, Marcangeli, Cadoni, Sticchi, Giusti e Morucci [sic].

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233 G[uido] Pannain, “Giulietta e Romeo” all’Opera, «Il Tempo», 21.12.1947 - p. 2, col. 1

La musica della Giulietta e Romeo di Zandonai è, in fondo, quella della Francesca da

Rimini disciolta in un lavacro di retorica. Sul fondo intorbidito ne galleggiano pallide tracce. È un brancolare alla ricerca di qualche cosa che non viene; lo stento e il sollecitato artificio; il vuoto che mette corpo dilatandosi in una tensione d’irraggiungibile canto. Destare dal sonno riparatore della dimenticanza un’opera come questa significa non rendere buon servizio alla memoria del povero Zandonai, naturalmente né meno alla causa dell’arte, tanto meno a quella della cassetta.

Il maestro Vincenzo Bellezza, i cui meriti di concertatore e animatore sono noti e apprezzati, ha messo in opera tutta la sua scaltrita esperienza per trarre in porto nave sì difficile a pilotare. Elisabetta Barbato (Giulietta) ha buoni slanci canori né manca di vibrante fervore, ma è soggetta a diseguaglianze e squilibri. Da avvolgenti sontuosità vocali s’abbassa d’improvviso a ottusità velate; ha difettosa la pronuncia (avessi capito una sola parola!) e le è inibito di cogliere l’interiorità del personaggio.

Il tenore Alvinio Misciano (Romeo), che ora comincia a tentare la prova della scena, ha promettenti attitudini vocali; gli occorre ancora molto studio, soprattutto per addestrare la sua voce all’eguaglianza dei trapassi. Giovanni Inghileri [sic], che fu tra i primi a sostenere la parte di Tebaldo, si mantiene tuttora saldo contro il rigore degli anni. Buon cantastorie il bravo Mariano Caruso, diligenti i cori.

Regìa affrettata e convenzionale. Attenti alle scene in cui, snudato il brando, schiere di armati vengono a tenzone! Il ridicolo è a un passo.

234 [Ettore] Montanaro, “Giulietta e Romeo” di Zandonai, «Il Popolo», 21.12.1947 - p. 2, col. 2-3

Continuando nel rinnovamento del suo cartellone, il Teatro dell’Opera ha rappresentato

«Giulietta e Romeo» di Zandonai, a cui il pubblico ha rivolto festose accoglienze. In tutta la partitura la mano del geniale compositore trentino opera sicura e felice,

realizzando situazioni di particolare bellezza, anche se il tormentato dramma d’amore dei due infelici amanti veronesi non salga con la musica fino alla consorella «Francesca da Rimini», che di Zandonai rimane la fatica più genuina e commossa. C’è nella «Giulietta e Romeo» un cupo e agitato conflitto che stagna il contenuto musicale e rende l’atmosfera sonora – in taluni punti – vuota di ogni palpito.

Ogni tanto però una mano lieve passa sulla musica come un dolce ravviamento, portandosi dietro folate di un vento fresco che rasserena l’orizzonte e rende gl’ispirati melismi limpidi e pieni di sincera tenerezza.

Vincenzo Bellezza ha manovrato orchestra e palcoscenico, rivelando sufficiente conoscenza della densa partitura.

Elisabetta Barbato e Alvinio Misciano incarnavano i due protagonisti. Giovani a cui non possono negarsi notevoli qualità. Ma se questi benedetti giovani, che noi seguiamo con fiducia e dai quali molto attende il teatro, pensassero più seriamente che prima di arrivare ad un grande teatro necessita mettere perfettamente a posto la voce e penetrare profondamente lo

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spirito del personaggio che raffigurano (e alludo in generale) in maniera da acquistare una individualità sempre riscaldata da un soffio di umanità, e non sembrare marionette manovrate, il teatro melodrammatico italiano nel suo complesso non accuserebbe segni di disorientamento.

Una particolare lode al tenore Mariano Caruso, “il cantatore”, alla Maria Huder e al baritono Giovanni Inghilleri.

Bene ma senza particolare rilievo il coro. A posto la numerosa schiera dei comprimari. Il Teatro dell’Opera ha fatto tutto quello che poteva per l’allestimento.

235 a. bon., “Giulietta e Romeo” all’Opera, «La Voce repubblicana», 21.12.1947 - p. 3, col. 5-6

«Giulietta e Romeo», nel libretto del Rossato, è una via di mezzo fra la novella del Da

Porto e la tragedia di Shakespeare; fra la semplicità di anime degli eroi narrati dai cantastorie e la complessità dei personaggi shakespeariani. La musica di Zandonai si fa sentire già tutta nel lungo duetto di Giulietta e Romeo al primo atto, il quale duetto sembra prendere impulso da una cellula di quattro note (che salgono e si posano e sempre ritornano fra coretti, tocchi di campane, dolci note della celesta) senza per altro raggiungere piena individualità. Zandonai tenta, per lo meno tre volte, di comporre in forma chiusa, ma non potendo essere originale ricade nel declamato-arioso. Di quest’opera sono molto noti due episodi sinfonici. Il primo, quello della Danza del torchio, di forma libera, è di efficacia teatrale, ma risente della maniera straussiana, anche per le affinità di colore con la danza di Salomè. L’altro episodio della Cavalcata rientra nella forma classica A-B, con un primo tema di estremo vigore ritmico e un secondo tema cantabile. I timpani fanno da base per tutto il pezzo, scandendo il ritmo della cavalcata. Siamo di fronte ad uno strumentale pieno, per non dire pletorico ed eccessivo, tanto più che non si descrive una battaglia di eserciti ma un amante sia pur disperato che cavalca nella notte sia pure in tempesta. Zandonai è un ultra-romantico: egli calca troppo sui sentimenti e li esaspera, ma li esaspera più esteriormente che interiormente. Comunque sia, l’effetto teatrale non manca. Diciamo pure che l’orchestra suona bene. L’impressione complessiva dell’opera è di un prevalere del periferico, con crescita e fiorita di germogli. Ma le foglie nuove e verdi non sono l’albero.

Quant’è all’esecuzione, si è visto subito che il maestro Bellezza era padrone della partitura e infatti il successo ha coronato la sua devozione all’autore. Giulietta era la Barbato, una Giulietta dalla voce piena che sentiva fervere in sé fortemente il sentimento dell’amore, mentre Romeo, il Misciano (giovane recluta dell’opera che fa sorgere speranze), nell’intreccio dell’azione, fra le tendenze drammatiche ed idilliache non si è smarrito, ma anzi ha dato al personaggio assai vita e calore. Bene gli altri: lo Inghilleri, la Huder, il Caruso e le parti minori. Da elogiare il coro. Purtroppo non possiamo dire altrettanto della messa in scena.

236 P., Giulietta e Romeo, «Momento sera», 23.12.1947 - p. 2, col. 1

Nonostante la dimostrata buona volontà degli interpreti, da Elisabetta Barbato (una

Giulietta sinceramente espressiva ma forse troppo rigida negli atteggiamenti) al giovane tenore Alvino [sic] Misciano (un Romeo vocalmente promettente ma impacciato nell’azione),

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da Giovanni Inghilleri (un Capuleto vibrante di odio nella voce e nel gesto) a Mariano Caruso (un Cantatore suadente) e a tutte le altre parti di contorno, l’opera zandonaiana non ha convinto. E le ragioni sono molte: non ultima quella di aver scelto per ricordare Riccardo Zandonai l’opera meno riuscita del compositore trentino. Se aggiungiamo a questa ragione di carattere estetico-musicale le molte altre, non meno importanti, di carattere rappresentativo, è facilmente spiegabile il mancato successo da parte del pubblico per quest’opera che la direzione dell’Opera ha voluto programmare.

Il sig. Bellezza ha reso un cattivo servizio alla memoria del suo compositore amico. Della regìa meglio non parlarne.

237 N[ino] P[iccinelli], Gli amanti di Verona hanno narrato ancora il loro tragico amore, «Momento sera», 2.2.1952 - p. 5, col. 1-2-3-4 (con grande caricatura di Zandonai, già apparsa in piccolo su altri giornali)

Riascoltando Giulietta e Romeo ieri sera ci siamo ancora una volta convinti che con la

morte di Riccardo Zandonai è scomparso il compositore melodrammatico più rappresentativo dei post-veristi che sia riuscito a interessare in qualche modo la massa del popolo.

L’entusiasmo con cui il pubblico ha accolto quest’opera la quale – per la omogeneità dello stile, la coerente caratteristica ambientale e l’altezza dell’ispirazione – non può certo competere con Francesca da Rimini va a dimostrare che nella musica del compositore trentino vi è qualche elemento estrinseco al fattore strettamente inventivo essenziale alla valutazione dell’opera d’arte, che nelle sue mani diventa fattore di successo.

Questo elemento è costituito dal senso della teatralità. In ciò egli dimostra di aver ereditato quella qualità che è il vanto della nostra tradizione operistica. Infatti quando la vena inventiva si diluisce in una dialettica generica e convenzionale, mentre la situazione scenica richiederebbe un più intenso slancio lirico (come per es. i duetti d’amore fra i due amanti protagonisti, specie l’ultimo, ove la deficienza inventiva è troppo palese) egli ricorre a dei veri e propri diversivi teatrali come la canzone del cantastorie, la sortita del banditore, l’intervento improvviso del coro in lontananza, o un’improvvisa tensione strumentale come l’interludio tra il 1. e il 2. quadro del 3. atto, a tutto vantaggio dell’effetto drammatico.

In altri termini la colorazione ambientale, nei momenti più determinanti dell’azione, costituisce per Zandonai una valvola di sicurezza, e bisogna riconoscere che sa adoperarla con senso di opportunità e di misura.

L’esecuzione di ieri sera è apparsa a noi quasi come una esecuzione... capitale. [Non] vogliamo con ciò dire che l’edizione non sia stata curata con quella profondità di pensiero che richiedeva la complessa partitura: ciononostante il maestro Ottavio Ziino ha condotto ugualmente lo spettacolo in porto giovandosi della sua esperienza professionale. Mercedes Fortunati nelle vesti di Giulietta ci è sembrata piuttosto fredda.

Il tenore Franco Corelli (Romeo) avrebbe potuto trarre dal suo bel timbro di voce robusto e pieghevole effetti di maggior rilievo espressivo. Questo giovane cantante, che per la prima volta si è presentato sulle scene di un teatro d’ordine dopo l’ottima prova data, nelle vesti di Don José, al teatro Sperimentale di Spoleto, è dotato di mezzi vocali indiscutibilmente notevoli; è necessario però ch’egli li sappia calibrare con l’aiuto dell’intelligenza musicale.

Infine Don José non potrà mai essere un buon Romeo, o viceversa. Da ambedue i protagonisti poi – a parte l’atteggiamento scultoreo e poetico della morte – ci si doveva attendere una mimica più convincente e appassionata.

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Sempre buon attore-cantante Afro Poli. Ottime Amalia [sic] Micheluzzi e Loretta Di Lelio. Enzo Guagni ha impersonato la parte del cantastorie con un languore poetico penetrante e commosso. Tutti bene gli altri agonisti: Mazziotti, Delle Fornaci, la Landi e la De Roberti. Un elogio speciale al coro del maestro Conca.

238 F[erdinando] L[udovico] Lunghi, “Giulietta e Romeo” all’Opera, «Il Giornale d’Italia», 2.2.1952 - p. 3, col. 6-7

Tra Francesca e Giulietta, tra Dante e Shakespeare un musicista non ha grande spazio per

respirare. Sembra che la poesia e la leggenda abbiano ormai fissati nei secoli i cari volti delle due eroine e che qualunque altro accostamento debba essere superfluo se non inutile. Ma un musicista come Riccardo Zandonai, piccolo uomo di alto intelletto e cuore commosso e delicato pittore di atmosfera, ha saputo dare alla musica una funzione che non fosse superflua e tanto meno inutile. Una musica che non vuole sopravanzare la poesia ma che la dilata invece in più ampie ed ineffabili risonanze; che si accosta al dramma e lo commenta e lo racconta quasi fosse lo “storico” di quelle immortali storie d’amore.

Soltanto in «Francesca» l’atmosfera si concreta subito in un incontro tra i due amanti che è anche un incontro tra musica e poesia; in «Giulietta» il vero, lo struggente incontro non avviene che al terzo atto, alla canzone del cantore.

Da ciò ed a parte il fatto che «Francesca» può essere effettivamente opera più felicemente compiuta di «Giulietta», nasce quella difficoltà a riconoscere subito a questa seconda opera i tanti valori che pure la tengono salda per ben due atti e prima di quel vitale momento così rivelatore: valori pittorici di ambiente e di situazioni così musicalmente definiti e valori di sottili disegni dei personaggi: segni ben precisi ed evidenti espressi in timbri, in ritmi e con una coloristica strumentale che rivelano una mano sapiente e sempre commossa; valori che hanno bene una loro forza ed una loro vitalità se ancor oggi tengono salda un’opera che ogni dieci battute avrebbe potuto, in mano d’altri, perdere la sua essenziale ragione d’essere.

Del resto, nel faticoso destino di Riccardo Zandonai anche un raffronto, una discussione, starei per dire una negazione, hanno pure il loro valore: testimoniano della consistenza di un musicista che nelle sue opere ha sempre posto a cuore aperto e con acuto intelletto di musicista una particolare e poetica ragion d’essere e di esistere. Ragione che in «Giulietta» è pure presente anche se tardi si rivela e che pone però fin dal principio un non facile problema di interpretazione, risolto nella edizione di ieri sera dal maestro Ottavio Ziino con un felice incontro tra severità e commossa ed operante fede nell’opera diretta.

Interpreti Mercedes Fortunati (Giulietta) la cui voce calda ed espressiva illuminava anche quei momenti in cui era pure sensibile una certa non piena conoscenza della parte e Franco Corelli (Romeo), un giovane tenore che si impone all’attenzione per la potenza della sua voce che potrà molto migliorare di accenti e di espressione fin da questo suo primo debutto. Molto bravi anche un’altra giovane, Mafalda Micheluzzi (Isabella) ed Enzo Guagni (il Cantore); ed a proposito dei giovani non possiamo non lodare la Sovrintendenza dell’Opera per il benefico coraggio con cui immette nuove e fresche energie nell’esausto teatro lirico.

Afro Poli, artista serio e di valore, non ci è sembrato tuttavia adeguato vocalmente nella parte di “Tebaldo”. Tutti gli altri numerosissimi interpreti erano stati scelti con cura; ottimi i cori diretti dal maestro Conca, animata la regìa di Bruno Nofri, tanto da conferire allo spettacolo un tono di accuratezza e dignità.

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Vivissimo è stato il successo ed insistenti applausi hanno salutato il maestro Ziino, fatto segno ad una lunga ovazione dopo la “Cavalcata”, e gli interpreti tutti.

239 R. F., Giulietta e Romeo di Riccardo Zandonai, «Il Popolo di Roma», 1.2.1952 - p. 3, col. 9

La musa di Riccardo Zandonai fu particolarmente attratta da due fra le più celebri coppie

d’amanti quali furono Paolo e Francesca e Giulietta e Romeo. La Francesca da Rimini è considerata una delle migliori tragedie musicali dell’ultimo cinquantennio e di Zandonai l’opera somma, mentre il dramma dei Montecchi e dei Capuleti non si può catalogare tra le opere di maggior fortuna. Dell’intera partitura, come spesso accade, è notoriamente assai celebre soltanto un brano sinfonico, l’intermezzo tra il primo e il secondo quadro del terzo atto: la cavalcata di Romeo da Mantova a Verona. La parte vocale poi, in maggior parte sui binari wagneriani, non vanta una benché minima rappresentanza nella “rubrica” delle romanze celebri. Riccardo Zandonai, pur essendosi formato alla scuola di Mascagni, non usa che raramente il lirismo dell’autore dell’Amico Fritz. Egli fu un moderno di raro talento che maggiormente brillò nell’attuazione di un compromesso tra vecchio e nuovo. E immatura fu la sua scomparsa nel giugno del ‘44.

Nel suo narrare la più romantica passione di tutti i tempi, l’amore contrastato, beffardo e tragico di Giulietta Capuleto e Romeo Montecchio, non troverete la soave romanza o l’appassionato duetto – mezzi assai confacenti a simili protagonisti – e con i quali mezzi avrebbero certamente illuminato un pentagramma con un’emozione immensa e per questo eternamente trasmissibile a tutte le sensibilità un Mascagni o un Puccini. Zandonai in compenso, padronissimo della tecnica e del rendimento di singoli strumenti, è un architetto dell’orchestra nella quale costruisce geometricamente e cerebralmente un’atmosfera di sogno, costante di fatalità e d’arcano. Amore e odio sono di scena ma non avvampano mai in un crescendo di rilievo, fino alla morte dei protagonisti che avviene musicalmente distaccata, pallida e malinconica come l’agonia di una rosa in un bicchiere. Come mai Verdi, che tanto venerava Shakespeare e da lui tanto attinse, non fu tratto dal potente dramma degli amanti di Verona? Senza voler diminuire né tanto meno disconoscere l’alto valore artistico dell’opera zandonaiana, vien fatto di pensare come l’autore più adatto a rendere musicalmente, in modo superiore – meno elaborato ma più vivo – la già vivida prosa del drammaturgo inglese non avrebbe potuto essere che un Verdi.

Una parte veramente attiva e mestamente accorata ci è parsa, al primo quadro del terzo atto, la canzone del cantastorie che narra la morte del più bel fiore di Verona, Giulietta. Nella realizzazione di questo stesso quadro il mago delle luci Salani, con la collaborazione tecnica del Cruciani, si è sbizzarrito a ricreare con impeccabile realismo tutte le fasi pretemporalesche, con svariate pattuglie di minacciose nubi, nastri incandescenti e sicuro gioco di riflessi sinistri dal grigio cupo al rossastro.

Ottavio Ziino ha lodevolmente guidato palcoscenico e orchestra e quest’ultima, spesso, in azzardate ascensioni sonore come nel duello tra la gente dei Capuleti e quella dei Montecchi. Particolarmente nella Cavalcata Ziino ha condotto con foga, stringato ritmo e palpitante anelito l’intera orchestra in un galoppo serrato e affannoso che ha fatto meritare a tutti gli strumentisti, eroicamente giunti al traguardo, scrosciantissimi applausi.

Giulietta era impersonata con bella linea vocale e scenica dalla signora Fortunati e Romeo di bell’aspetto e ben promettente vocalità dal giovane Franco Corelli. Il Capuleto Tebaldo era Afro Poli, bravo il Cantatore Enzo Guagni e bene tutti gli altri, innumerevoli tra famigli,

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maschere e fanti. Per il coro di Conca il consueto plauso. Regìa di Nofri; bozzetti e costumi di Efisio Oppo.

L’affollamento della sala è stato di una media del 60 per cento, e gli applausi non sono mancati ad ogni fine atto.

240 Enrico Fondi, “Giulietta e Romeo” di Zandonai, «Il Paese», 1.2.1952 - p. 3, col. 6-7-8

Una innegabile dote del geniale musicista trentino, spentosi a Pesaro fra gli orrori degli

eventi bellici nel giugno del 1944, è la tentata fusione delle due tendenze in lui vive, la sinfonistica e la teatrale. La prima lo portava a svolgere intenzioni descrittive di ambienti paesistici e atmosfere di umane situazioni, la seconda a dare opportuno rilievo sonoro, con tematica delineatrice, ai personaggi e alle scene corali: seppe, e questo fu il suo merito precipuo, conciliare spesso quelle due tendenze con un avveduto controllo, senza cedere all’uno o all’altro fattore in conflitto.

Più che nell’Alfano, sulla cui Sakùntala c’indugiammo tempo addietro, nello Zandonai riconosciamo l’ultimo pregevole rappresentante dell’opera storico-verista; a questo giudizio c’induce il lavoro secondo noi meglio realizzato dal suo talento, la Francesca da Rimini, che vanta in quantità maggiore gli stessi elementi da notarsi in Giulietta e Romeo: non molta ricchezza di fantasia né peculiare originalità d’idee quanto vigore coloristico e incisività psicologico-musicale delle creature evocate. A tal risultato servì mirabilmente l’equilibrio risultante nel suo spirito fra la purezza lirica delle parti vocali – marcate dal carattere schiettamente italiano del suo temperamento, l’aderenza espressiva alle parole e la costruzione di arie che, pur non fraseggiando in forme chiuse, manifestano sempre una emotività concreta – e la tecnica assai superiore a quella dei suoi colleghi e contemporanei, tecnica di strumentista e d’armonista seguente vie nuove.

Ripetiamo, egli possedeva in luminoso rilievo il segreto del teatro e sapeva difilato procedere alla composizione drammatica degli atti, dosandoli scaltramente di assoli, duetti, cori e interludi. C’è un interludio in Giulietta e Romeo a torto celebrato, che comincia con un temporale e poi si sviluppa in una cavalcata monotona e monoritmica (di Romeo, da Mantova a Verona, dove sa che si è spenta la sua Giulietta) più fragorosamente battuta dal timpano e dalla piena orchestra che risultante da trovate melodiche; ma ci son garbatissimi accenni preludianti e canzoni (bellamente ispirata quella del Cantastorie al terzo atto, sulla fine della tragica innamorata), coretti festosi e potenti tratti come il cantabile di Tebaldo, la sua provocazione e la fine per mano di Romeo.

Dopo trent’anni ieri, nello stesso teatro dove aveva suscitato un entusiastico successo, Giulietta e Romeo si ripresentò con gli scenari dell’Oppo molto indovinati e con gli opportuni giuochi di luce dovuti al Salani. Concertatore e direttore, con equilibrato slancio (smodato però nella ricordata “cavalcata”) e artistico senso, Ottavio Ziino, ben coadiuvato dal Conca, l’insostituibile istruttore del coro.

La Fortunati fu un’interprete vocalmente apprezzabile di Giulietta, come il Corelli – giovane tenore di bella estensione e robusta ugola, che dovrebbe sottoporre a una più raffinata e linda emissione – fu un applaudito Romeo: entrambi però rivelarono un certo impaccio nell’azione. Afro Poli non ci parve, specie per lo scarso volume della voce, un riuscito Tebaldo; ottimo il Guagni (Cantastorie) e brava la Micheluzzi (Isabella).

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241 R[enzo] R[ossellini], “Giulietta e Romeo”, «Il Messaggero», 1.2.1952 - p. 4, col. 6-711

Il teatro di Riccardo Zandonai è romantico e si riallaccia alla bella tradizione del

melodramma italiano. Se ha qualche affinità, dal punto di vista vocale, con i modi della cosiddetta “giovane scuola” e ne ha risentito alcune delle migliori influenze, per individuarne i caratteri generali ed i sentimenti bisogna risalire direttamente a Verdi. Mai come oggi questa parentela è apparsa tanto stretta: ascoltando il secondo atto della Giulietta e Romeo, nel declamato che infervora i personaggi, nella condotta rigorosamente melodica della partitura, la discendenza verdiana è evidente. Gran titolo d’onore per un musicista e specialmente per un musicista di teatro.

Giulietta e Romeo è un’opera viva: alcune delle sue pagine sono indimenticabili per l’originalità della concezione e per il potere evocativo che emanano. L’interesse non langue mai, tanto brillante è l’estro con cui l’autore ha saputo tagliare le scene e dare vigore e varietà ai molti avvenimenti che si susseguono nel libretto. Forse ancor più dello stesso leggendario amore dei due protagonisti Zandonai ha sentito il colore, la luce e la poesia di un tipico paesaggio italiano. Le albe di Verona, le notti di Mantova sono state evocate e descritte da lui con mirabile fantasia. C’è da augurarsi che il pubblico, come fu nel felice passato del teatro musicale italiano, testimoni la sua simpatia verso quest’opera non mancando di assistere alle repliche. Sarà un omaggio reso alla memoria del geniale musicista e nello stesso tempo un modo intelligente di favorire l’auspicato rinnovamento del repertorio lirico.

La esecuzione del bello spartito di Zandonai è stata molto diligente e gli interpreti, impegnati a volte in parti superiori ai loro mezzi, si sono battuti a fondo per la riuscita dello spettacolo. Il giovane tenore Franco Corelli, rivelatosi recentemente al Centro Sperimentale di Spoleto, si è fatto apprezzare per alcune emissioni di bello smalto e di felice accento. Il soprano Mercedes Fortunati è stata una tenera Giulietta; il baritono Afro Poli, buon attore, ha dato alla figura di Tebaldo un efficace rilievo scenico. Generosa di suoni ed a grandi linee la concertazione del maestro Ottavio Ziino, il quale è stato particolarmente applaudito dopo la “cavalcata”.

242 Vice, Giulietta e Romeo, «L’Unità», 1.2.1952 - p. 3, col. 7

In un quadro abbastanza corrente della musica contemporanea in Italia, Riccardo Zandonai

è posto tra quella schiera di musicisti (della quale fecero parte anche Mascagni, Leoncavallo, Puccini, Franchetti, Wolff-Ferrari [sic] ed altri) che all’inizio del ‘900 aderì all’opera tradizionale con una accettazione abbastanza generica del Verismo per quanto riguarda i fatti teatrali e con l’uso di alcune “modernità” non inquietanti nelle parti musicali. Ora questa «Giulietta e Romeo», scritta nel 1922, è una sufficiente dimostrazione dello stile di Zandonai, alla cui base non manca un influsso wagneriano rarefatto: vena melodica scorrevole ed incastrata in una persistente declamazione melodiosa, orchestra continuamente rafforzata che sostiene il canto con i fortissimi dei corni e dei tromboni, ed una serie di altri espedienti descrittivi e decorativi, i quali peraltro mettono in evidenza il “pezzo” brillante che ad un certo momento viene fuori – come la cavalcata di Romeo – e che non manca di avere il suo risultato sul pubblico.

11 Si tratta di un articolo riciclato da quello, pressoché identico, già apparso sul «Messaggero» il 21.12.1947 - cfr. n. 231.

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Nella edizione di ieri sera, oltre il solito amore per il “concretismo” della regìa del Teatro dell’Opera, dobbiamo notare le qualità vocali e di recitazione di Mercedes Fortunati che ha avuto compagno Franco Corelli, dalla voce in qualche momento incerta ma convincente. Con loro: Mafalda Micheluzzi, Afro Poli ed Enzo Guagni. Ottima la direzione di Ottavio Ziino.

243 G[uido] Pan[nain], “Giulietta e Romeo” al Teatro dell’Opera, «Il Tempo», 1.2.1952 - p. 3, col. 3

Tra nemici e amici non si può dire in verità che Zandonai abbia avuto molta fortuna. Da

una parte si trovò contro un’accolita di raffinatissimi imbecilli che guardavano con i paraocchi di un fatuo estetismo, dall’altra s’ebbe l’incenso di ammiratori inconsiderati che, nelle sue opere, non seppero distinguere il vero dal falso e fecero di ogni erba fascio. Così furono messe insieme, allo stesso livello, nell’esaltazione o nel dispregio, opere come la Francesca da Rimini e Giulietta e Romeo, cioè l’efficacia espressiva e la turgidezza ampollosa. Non c’è che una sola figura viva nella Giulietta e Romeo ed è il Cantastorie, e appare di scorcio, mentre i personaggi principali sono fantocci rimpinzati di retorica.

Abbiamo salutato con piacere il ritorno alla scena di Mercedes Fortunati che ammirammo anni orsono nella parte di Francesca. Ora ella riappare in un’opera nella quale c’è poco da mettere in rilievo, tanto la linea del canto è sforzata e stenta nella vana ricerca di espressione. Ma della Fortunati abbiamo potuto ravvisare i toni caldi e ricchi e il temperamento drammatico che altra volta ci colpirono. Il giovane tenore Franco Corelli, che viene dal Teatro Sperimentale di Spoleto, ha sostenuto la parte di Romeo con balda sicurezza. Anche egli alle prese con una parte ingrata, ha dato prova di qualità ragguardevoli per la forbita uguaglianza, il tono amabile, il vigore dello slancio.

Nella folta schiera di personaggi e comparse che si affollano sulla scena si sono fatti particolarmente notare il baritono Afro Poli (Tebaldo), di provata scaltrezza scenica, il tenore Enzo Guagni, azzeccatissimo cantastorie, Mafalda Micheluzzi che ha avuto simpatico spicco nella parte d’Isabella. Il tutto sotto la direzione del maestro Ottavio Ziino che si è buttato a corpo morto nella reboante partitura dello Zandonai, realizzando immancabili effetti di strepito particolarmente dall’infernale scalpitare dello squadrone di cavalleria che, a quel che si sente, pare debba accompagnare il fatale galoppo di Romeo.

244 E[ttore] Mont[anaro], “Giulietta e Romeo” di Zandonai, «Il Popolo», 1.2.1952 - p. 3, col. 9

Il pubblico attendeva ansioso la “Cavalcata”, ieri sera, per entusiasmarsi al travolgente

onomatopeismo di questa pagina, divenuta ormai famosa, della «Giulietta e Romeo». È senza dubbio uno squarcio di impeto caldo, ed anche – a mio avviso – di gusto non sempre alla pari col resto della musica. Una specie di pugno in un occhio, fra le delicate e distese languide cantabilità che infiorano la saporosa partitura di Riccardo Zandonai, dove gli echi della «Francesca» si riflettono in forma viva.

L’odierna edizione, che il Teatro dell’Opera ha curato con particolare interesse, ha adunato due giovani cantanti nelle parti degli infelici amanti: lei, Mercedes Fortunato [sic] (Giulietta), elegante e flessibile, dalla voce trepida; lui, Franco Corelli (Romeo), magro e consunto d’amore, canta e si muove ancora un pochino timoroso. Sono giovani ma mostrano di volersi

Page 105: 3.1.5 Giulietta e Romeo - Biblioteca / Comune di Rovereto · né avevo l’aria soddisfatta non essendovi alcuna ragione per tutto ciò, me ne salivo per la ... Deh! Bel fioretto.

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affermare, e non bisogna andare tanto per il sottile; vanno anzi incoraggiati. Il complesso solistico si completava con Afro Poli, Mafalda Micheluzzi, Enzo Cuagni [sic]. Il coro, preparato come al solito con vivezza da Giuseppe Conca, ha risposto in pieno. Ha diretto con evidente amore il maestro Ottavio Ziino, giovane preparato e ardente. Tanto ardente da spingere – in taluni momenti – le fiamme dell’entusiasmo oltre la cappa del camino sonoro. Meglio così che ammannire infusi di camomilla. Regìa adeguata e fluida. Scene di ottimo effetto. Allestimento curato. Esito cordiale e vivo.