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3. LA RESPONSABILITA’ SOCIALE D’IMPRESA 3.1 Introduzione alla CSR 3.1.1 Cenni introduttivi Innanzi tutto bisogna riflettere sul legame esistente tra etica aziendale e responsabilità sociale infatti, anche se parte della dottrina tende ad utilizzare i termini “business ethics” e “corporate social responsability” in modo intercambiabile, in realtà si tratta di due concetti differenti anche se strettamente correlati. Possiamo vedere la responsabilità sociale dell’impresa come un aspetto dell’etica aziendale poiché, anche se esistono delle spinte esterne in senso sociale, nascenti dai vincoli posti dall’ambiente in cui l’impresa opera, come per esempio la legislazione o le norme di autodisciplina di categoria in materia ambientale, la maggior parte delle problematiche socialmente rilevanti devono essere gestite unicamente in base a considerazioni di business ethics. La responsabilità sociale, tuttavia, rispetto alla business ethics, che si riferisce all’etica che deve regolare il comportamento dei singoli individui dell’organizzazione, è legata all’impresa vista nel suo complesso ed al suo rapporto, tramite le sue azioni, con il contesto 82

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3. LA RESPONSABILITA’ SOCIALE

D’IMPRESA

3.1 Introduzione alla CSR

3.1.1 Cenni introduttivi

Innanzi tutto bisogna riflettere sul legame esistente tra etica

aziendale e responsabilità sociale infatti, anche se parte della

dottrina tende ad utilizzare i termini “business ethics” e “corporate

social responsability” in modo intercambiabile, in realtà si tratta di

due concetti differenti anche se strettamente correlati. Possiamo

vedere la responsabilità sociale dell’impresa come un aspetto

dell’etica aziendale poiché, anche se esistono delle spinte esterne in

senso sociale, nascenti dai vincoli posti dall’ambiente in cui

l’impresa opera, come per esempio la legislazione o le norme di

autodisciplina di categoria in materia ambientale, la maggior parte

delle problematiche socialmente rilevanti devono essere gestite

unicamente in base a considerazioni di business ethics.

La responsabilità sociale, tuttavia, rispetto alla business ethics, che

si riferisce all’etica che deve regolare il comportamento dei singoli

individui dell’organizzazione, è legata all’impresa vista nel suo

complesso ed al suo rapporto, tramite le sue azioni, con il contesto

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in cui è inserita1. Responsabilità sociale e business ethics hanno

anche un diverso riferimento di tipo normativo: mentre la business

ethics richiede che un individuo, un’organizzazione o un sistema

economico si comportino coerentemente con regole elaborate dalla

filosofia morale, la responsabilità sociale ha come riferimento

imprescindibile la semplice consonanza tra comportamenti

aziendali ed aspettative espresse dal contesto ambientale in cui

l’impresa opera sulla base di una sorta di “contratto sociale” tra la

stessa ed il contesto di riferimento. Perciò, anche se in pratica

perseguire la business ethics porta spesso agli stessi risultati della

responsabilità sociale d’impresa, non è detto che ciò avvenga

sempre: vi sono azioni che la società definisce di responsabilità

sociale che possono essere moralmente neutre o addirittura scorrette

ed azioni moralmente ineccepibili, ma socialmente inaccettabili.

3.1.2 L’evoluzione della responsabilità sociale d’impresa

in breve

A partire dagli anni ‘70 e ‘80 gli studiosi, non ancora i managers,

iniziarono a discutere sulla soggettività morale delle organizzazioni

dividendosi in più correnti2:

1 In questo senso Sciarelli in “Responsabilità sociale ed etica d’impresa: una relazione finalizzata allo sviluppo aziendale”, Finanza Marketing e Produzione, n°1/1999, pag 208; Rusconi in “Etica e Impresa. Un’analisi economico – aziendale”, Clueb, Bologna,1997, pag. 162-163; così come Husted ed Allen: “Tecnically ethics tends to focus on personal choice; social responsability is about meeting generally agreed public expectations of firm behaviour” in “Is it ethical to use ethics and strategy?”, Journal of Business Ethics, n°27/2000, pag.23. 2 Corso di Organizzazione Aziendale Progredito, a.a. 2004/2005, Facoltà di Economia, Genova.

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liberal-razionale: neutralità morale dell’economia (basata su

una errata lettura di Adam Smith);

antropomorfizzante: l’organizzazione, al pari dell’individuo,

è soggetto morale, titolare quindi anche di responsabilità

sociali;

moderata: l’organizzazione non è reificata ma certi concetti e

funzioni normalmente attribuiti alle persone possono anche

essere attribuiti alle organizzazioni, fatte di persone.

Alla fine, con il senno di poi, sembra ovvio che la strada giusta da

seguire fosse quella della corrente moderata poiché, dalle altre due

correnti, l’impresa era vista come un ente operante in modo del

tutto discrezionale (come se non avesse nulla a che fare con

l’ambiente sociale di riferimento), oppure come un’organizzazione

che è anche soggetto morale, ed in quanto tale titolare di un livello

di responsabilità sociale e di eticità nelle scelte che esula dai

compiti cui l’impresa deve socialmente assolvere per sua natura, e

che è proprio solo dell’individuo. In realtà l’impresa è un’insieme

d’individui e beni organizzati per svolgere un’attività economica

che non può prescindere da quelle che sono le considerazioni morali

dei suoi componenti e dell’ambiente in cui opera.

Il fenomeno di cui sopra va sotto il nome business ethics, Corporate

social responsibility (CSR), Responsabilità sociale d’impresa (RSI),

ecc. anche se non utilizzeremo, nel seguito, il termine business

ethics per non confondere il lettore.

Ancora agli inizi degli anni ‘70 Milton Friedman, cofondatore

assieme a George Stigler della celebre Scuola di Chicago, ed

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entrambi premi nobel per l’economia, scriveva: “Il vero dovere

sociale dell’impresa è quello di ottenere i più elevati profitti

producendo così ricchezza e lavoro per tutti nel modo più efficiente

possibile”. Mettendoci nei panni di Friedman l’affermazione non

aveva nulla di sconvolgente se si considera che, nella mentalità

neoliberista di quel periodo storico, nessuno si sarebbe mai sognato

che l’impresa dovesse fare alcunché per il sociale poiché si dava per

scontato che questo fosse un problema dello Stato e degli enti

benefici a ciò deputati.

Tale affermazione era giustificata, inoltre, dal fatto che, essendo il

profitto un indicatore sintetico di efficienza allocativa,

massimizzarlo significava fare il miglior uso possibile delle risorse

scarse ed operare, quindi, per il bene comune.

In quegli anni Friedman, perciò, sosteneva una visione focalizzata

sugli shareholders che individuava come unica responsabilità

dell’impresa e fonte, quindi, della sua legittimazione ad operare, il

perseguimento, nel rispetto della legge, del massimo profitto

possibile. L’assunzione di una responsabilità sociale che

oltrepassasse i confini del mero rispetto della legislazione vigente

nel Paese in cui l’impresa operava avrebbe comportato, in

quest’ottica, non solo un’interferenza nel processo decisionale ed

una minaccia per la razionalità delle scelte economiche

dell’impresa3, ma anche un’indebita distribuzione di ricchezza4 che

3 Così anche T. Levitt: “The Dangers of Social Responsability”, Harvard Business Review, september – october, 1958. 4 Secondo taluni autori vi sarebbe un ulteriore problema, cioè quello della possibile destinazione dei fondi, prelevati con fini di responsabilità sociale, a finalità di promozione di attività cui poi partecipino sostanzialmente solo soggetti ad alto reddito: ciò provocherebbe addirittura una redistribuzione iniqua e regressiva.

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avrebbe vanificato il risultato di efficienza allocativa drenando,

senza una ragione economicamente valida, le risorse disponibili per

la distribuzione dei dividendi, per i salari, per l’autofinanziamento

dell’impresa, per la concessione di fringe benefit ai dipendenti,ecc.

o provocando un aumento nei prezzi del bene o servizio offerto con

conseguenze negative per i clienti dell’impresa.

Certamente nei primi anni ’70 la competizione non era accesa e su

scala planetaria come oggi, le imprese potevano permettersi di fare

scelte di diversificazione produttiva mirate esclusivamente ad

elevare il tasso di redditività del capitale investito e di non

considerare, oltre alle problematiche sociali ed ambientali, una

strategia volta a valorizzare le sinergie tra i vari business detenuti in

portafoglio. Era il tempo della matrice strategica del Boston

Consulting Group che aiutava i manager a scegliere come investire

al meglio i proventi delle grandi corporation trasformandole in

imprese diversificate.

Con gli anni ’80 e ’90 la sempre maggior forza degli intangibile

assets sulla redditività d’impresa e l’allargamento dell’arena

competitiva a livello globale hanno imposto un cambiamento di

rotta che ha provocato un mutamento nelle scelte strategiche e

nell’approccio ai temi, sempre più scottanti per un’opinione

pubblica sempre più forte, della tutela dell’ambiente ed, in generale,

della responsabilità sociale d’impresa.

Emblematico, a questo proposito, è il caso della multinazionale

Nike: a seguito della denuncia fatta da alcune associazioni di

consumatori, che avevano portato agli onori della cronaca lo

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scandalo del lavoro minorile mal pagato in India e Pakistan, il titolo

Nike accusò una flessione in borsa di ben 27 dollari, e cioè dai circa

66 dollari dell’agosto 1997 ai 39 dollari del gennaio 1998, a causa

di un boicottaggio a livello globale dei suoi prodotti.

Questo dimostra che le politiche di responsabilità sociale d’impresa

non nascono dal mero spirito di benevolenza come potrebbe essere

per un essere umano (corrente antropomorfizzante) poiché

l’impresa è un soggetto economico che deve rispondere delle sue

azioni agli shareholders in termini di performance, né possono

essere messe da parte, con la scusa della neutralità morale

dell’economia (corrente liberal-razionale), se non si vuole incorrere

nelle sanzioni del mercato perpetrate da consumatori attivi e critici

sui beni oggetto del loro acquisto. L’impresa deve, quindi, seguire

la strada, che si sta delineando, di uno sviluppo socialmente

responsabile e sostenibile, agendo sulla base di quelle che sono le

legittime aspettative degli stakeholders senza mai dimenticare la sua

ragione di vita, e cioè creare valore per i propri azionisti.

Sempre con riguardo alla responsabilità sociale d’impresa è utile

ricordare come il dibattito teorico, di cui si parlerà più

approfonditamente nel paragrafo successivo, ebbe origine ben

prima che ci si ritrovasse in un’economia globalizzata ed instabile

come quella odierna anche se i suoi sviluppi successivi non sono

ancora giunti ad una definizione definitiva di CSR, ne, tantomeno, è

stato stabilito esattamente il rapporto tra CSR ed attività d’impresa,

o meglio tra impegno socio-ambientale e realizzazione di una quota

di profitto ad esso correlata.

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3.2 Le origini: il dibattito teorico ed i limiti della CSR

3.2.1 Il concetto di Responsabilità Sociale d’Impresa

Gli studi sulla responsabilità sociale delle imprese nascono con

l’inizio del ‘900 anche se poi la tematica è affrontata e sviluppata

soprattutto nella seconda metà del secolo.

Il concetto di responsabilità sociale d’impresa nasce negli anni ’20

negli USA quando, a seguito della crescita delle corporations, inizia

ad essere evidente come sia necessaria, da parte dei managers, una

responsabilità non solo nei confronti degli azionisti, ma anche di

altri interlocutori sociali. Tale concetto rimase però relegato in un

angolo, appoggiato solo da una parte minoritaria della dottrina, a

causa della crisi degli anni ’30 e della seconda guerra mondiale.

Finito il conflitto il problema della responsabilità sociale d’impresa

tornò attuale e perciò, fin dagli anni ’50, si accese il dibattito sul

tema sia in ambito dottrinale che manageriale. E’di quegli anni il

pensiero di Bowen5 che, partendo dalla considerazione che le

grandi corporations sono i centri vitali del potere, evidenzia come le

loro scelte ed azioni si riflettano nella vita sociale in modo assai

rilevante. Bowen, partendo dal quesito: “Quale responsabilità verso

la società dovrebbero avere ragionevolmente i manager?”6, giunge

5 Bowen: “Social responsibilities of the businessman”, Harper & Row, New York, 1953. 6 Traduzione di: “What responsibilities to society may businessmen reasonably be expected to assume?”.

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a dare una prima definizione di responsabilità sociale7: “Si riferisce

all’obbligo, per i manager, di prendere quelle decisioni o di seguire

quelle linee d’azione che sono auspicabili in termini di obiettivi e

valori della nostra società”8.

Il dibattito, in tale prima fase, si concentra, come visto ad opera di

Bowen, sulla responsabilità sociale dei businessman e non tanto su

quella delle corporations, se non per via indiretta.

L’attribuzione di responsabilità sociale diretta per la loro attività si

ebbe soltanto quando aumentò la consapevolezza dell’essere, le

corporation stesse, soggetti tanto rilevanti, e difficilmente

controllabili in modo stabile e duraturo da parte di un soggetto

determinato, da divenire esse stesse un soggetto dotato di

responsabilità sociale.

La responsabilità sociale diventa, allora, molto più simile a ciò che

intendiamo oggi quando ne parliamo, e cioè il riconoscimento della

capacità, per l’impresa, d’incidere considerevolmente sul contesto

socio - ambientale in cui opera. La sua responsabilità sociale,

proprio con riferimento al contesto in cui si situa l’attività

imprenditoriale, si colloca al di là di quelli che sono i limiti imposti

dalle norme di legge vigenti, và verso comportamenti volontari,

socialmente responsabili ed ulteriori rispetto a quanto previsto,

appunto, dalla legislazione.

Vista la volontarietà delle scelte di responsabilità sociale e la

necessità che le azioni in tal senso intraprese dall’impresa avessero

7 Bowen: “Social responsibilities of the businessman”, Harper & Row, New York, 1953, pag.6. 8 Traduzione di: “It refers to the obligations of businessman to pursue those policies, to make those decisions, or to follow those lines of action which are desirable in terms of the objectives and values of our society”.

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un ritorno positivo, anche per superare l’opposizione dottrinale di

chi, come Friedman9, riteneva la responsabilità sociale delle

imprese sovversiva del sistema capitalistico o, per lo meno, riteneva

che tale arbitrarietà fosse fatalmente limitata da considerazioni di

ordine economico – finanziario e di profitto, furono condotti studi

finalizzati soprattutto ad analizzare le esternalità positive e negative

della gestione aziendale.

3.2.2 Gli anni ’60

In questi anni si afferma la locuzione, ancora oggi usata, di

“corporate social responsibility” (d’ora in poi CSR) e si hanno

nuovi contributi sul tema ad opera soprattutto di Davis, noto per la

sua “Iron Law of Responsibility”, che stabilisce un legame forte tra

potere e responsabilità sociale delle imprese affermando che alcune

decisioni socialmente responsabili possono essere giustificate da un

lungo processo di accettazione sociale che, nel lungo periodo

appunto, può generare vantaggi economici per le imprese10, mentre

evitare di assumere la responsabilità derivante dal proprio potere

porta ad una progressiva corrosione dello stesso. Sempre all’interno

del dibattito è da evidenziare l’ulteriore contributo di Frederick che

evidenzia l’importanza delle aspettative della comunità in cui

l’impresa è inserita ed il conseguente ruolo sociale della stessa

9 Friedman: “Few trends could so thoroughly undermine the very foundations of our free society as the acceptance by corporate officials of a social responsibility other than to make as much money for their stockholders as possible”, in “Capitalism and freedom”, University of Chicago Press, Chicago, 1962, pag.133. 10 Davis: “Can business afford to ignore social responsibilities?”, California Management Review, n°2, 1960, pag.70.

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nell’aumentarne il benessere. Si delinea, quindi, sempre più una

responsabilità d’impresa che va al di là delle obbligazioni

economiche e legali anche se i suoi contenuti concreti non sono

ancora ben definiti. Soltanto verso la fine del decennio Walton

arriva a precisare che la responsabilità sociale implica un certo

grado di volontarietà dell’azione, come tale opposta alla

coercizione, nonché l’accettazione di costi per i quali potrebbe non

essere possibile misurare in nessun modo un diretto ritorno

economico.

Nella letteratura in materia cominciano, però, ad affiorare anche

dubbi circa la reale portata ed i limiti della CSR soprattutto con

riguardo alla vaghezza delle definizioni, all’esistenza di un trade –

off tra i vari tipi di costi e ricavi, sociali ed economici, ed al fatto

che si tratti di mere operazioni d’immagine non sostenute da un

serio dibattito sui principi di fondo dell’agire sociale d’azienda.

3.2.3 Gli anni ‘70

Mentre le definizioni di CSR proliferano e diventano sempre più

specifiche, l’analisi dottrinale si snoda lungo quattro filoni

principali:

Il primo filone cerca d’individuare quali caratteristiche

debbano possedere i comportamenti dell’impresa per

poter essere qualificati come socialmente responsabili.

Secondo Manne e Wallich, per esempio, sono

necessari almeno tre presupposti:

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1. I ricavi marginali devono essere minori di quelli

ottenibili da altre spese alternative;

2. L’azione deve essere puramente volontaria;

3. Si deve trattare d’investimenti volti ad aumentare il

benessere della società e non di semplice filantropia

(anche se poi gli stessi autori ammettono che, in

pratica, effettuare una reale distinzione è pressoché

impossibile).

Con riferimento alla volontarietà dell’azione interviene

anche Davis11 che riafferma che un’impresa non può

essere ritenuta socialmente responsabile se si attiene

semplicemente a quando stabilito dalla normativa in

vigore.

Della stessa corrente anche l’importante contributo di

Carrol che, nel 1979, riconosce che l’impresa ha in primo

luogo responsabilità economiche di creazione di valore,

ma la società si aspetta da essa anche il rispetto della

legge, ovvero una responsabilità giuridica, ed una

responsabilità etica e discrezionale che si differenziano

per essere: la prima un mero adattamento ai valori ed

obblighi sociali; la seconda un azione avente intento

anticipatorio delle richieste della società in materia di

responsabilità sociale.

Il secondo filone approfondisce il peso del contesto

socio – culturale di riferimento anche in risposta ai

11 Davis: “The case for and against business assumption of social responsibilities”, Academy of Management Journal, n°16, 1973, pag.313.

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movimenti sociali che, tra la fine degli anni ’60 e

l’inizio degli anni ’70, si battevano per il rispetto

dell’ambiente, dei diritti umani, dei diritti dei

lavoratori, ecc.

In questo ambito troviamo un Johnson12 che, nel

definire la responsabilità sociale, individua quattro

possibili punti di vista, il principale dei quali vede la

CSR come risposta a norme sociali che definiscono il

ruolo dell’impresa: è un presagio di quella che diverrà

la stakeholder theory, con il riconoscimento di una

molteplicità d’interessi che convergono nell’impresa da

parte di diversi soggetti fra cui, tra gli altri, gli

azionisti.

Nello stesso senso il Committee for Economic

Developement che nel 1971 identifica, dopo aver

affermato che le imprese esistono per servire la società

e che, quindi, il futuro di dette istituzioni dipende dalla

capacità del management di saper rispondere

adeguatamente alle mutevoli aspettative dell’opinione

pubblica13, tre cerchi concentrici della responsabilità

delle imprese:

1. Il primo cerchio, il più interno, è quello che

include le responsabilità basilari per

un’esecuzione efficiente dell’attività d’impresa:

12 Johnson: “Business in contemporary society: framework and issues” Belmont, Wadsworth, 1971. 13 Committee for Economic Development: “Social responsibilities of business corporations”, New York, 1971, pag.16.

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produzione di beni, creazione di posti di lavoro,

contributo alla crescita economica, ecc.

2. Il secondo cerchio, quello intermedio, è quello

che si riferisce alla responsabilità, nello svolgere

la propria funzione economica, verso il rispetto

dei valori e delle priorità sociali come, per

esempio il rispetto dell’ambiente e dei

lavoratori.

3. Il terzo cerchio, il più esterno, comprende la

disponibilità dell’impresa ad assumersi

responsabilità ulteriori, a lei non proprie, al fine

dello sviluppo della società.

Il terzo filone analizza le motivazioni che portano

l’impresa ad agire in maniera socialmente

responsabile. La letteratura del periodo individua tre

possibili principi che motivano l’impresa alla

responsabilità sociale:

1. L’institutional principle, fondato sul fatto che le

imprese sono oggetto di aspettative in quanto

istituzioni economiche che operano in un

determinato contesto da cui devono avere

legittimazione ad operare. In tale contesto si

svilupperà, negli anni ’80, la teoria di Freeman

secondo cui l’impegno nei confronti degli

stakeholders non nasce da motivazioni etiche,

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ma dal timore di ripercussioni negative in caso

se ne ignorino le istanze.

2. L’organizatonal principle, fondato sul fatto che

la specifica impresa ha una responsabilità

pubblica che le deriva dalle sue esternalità:

l’impresa deve, cioè, agire nei confronti di quei

problemi sociali che le sono propri o meglio che

sono relativi, e/o conseguenza, della sua attività

per via diretta o indiretta. Il problema di operare

secondo tale principio consiste nel fatto che non

spiega ne come individuare i problemi sociali da

affrontare, ne come affrontarli.

3. L’individual principle, fondato sulla

consapevolezza che l’impresa è guidata da

managers aventi una propria morale e che questi,

avendo una certa discrezionalità decisionale,

possono esercitarla per andare in contro o meno

alle aspettative dei vari interlocutori

dell’impresa. Da questo principio partirà tutto il

filone della business ethics che si rifà, per

l’appunto, al fatto che l’impresa è formata da

soggetti aventi una certa etica che utilizzano, o

dovrebbero utilizzare, anche nel determinare le

direttrici da seguire nella loro attività decisionale

all’interno dell’impresa stessa.

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Il quarto filone, infine, interiorizza, nell’impresa,

l’attenzione per il sociale, spostando l’indagine allo

sviluppo di procedure interne capaci di far proprie le

istanze sociali ed incorporarle nel governo e nelle

politiche dell’impresa. Questo filone è il più innovativo

poiché vede, per la prima volta, un ruolo non

meramente adattivo da parte dell’impresa, bensì

proattivo.

Possiamo vedere, quindi, come Ackermann e Bauer

guardino alla responsabilità sociale con un approccio

strategico, con scelte volte ad anticipare e rispondere

tempestivamente alle istanze sociali dell’ambiente

esterno. Molti autori arrivano a parlare di corporate

responsiveness intendendo sensibilità ed attenzione

sociale dell’impresa.

Il più rilevante esponente di tale filone è stato

Frederick che, in un saggio del 1978, definisce come

superato il concetto statico di corporate social

responsibility preponderante fino agli anni ’60 (che lui

chiama CSR1) da un nuovo concetto, la corporate

social responsiveness (che lui chiama CSR2) che

presuppone l’accettazione, da parte dell’impresa, degli

obblighi sociali che derivano dalla sua attività. Mentre,

quindi, la CSR1 era l’insieme delle obbligazioni che

l’impresa teoricamente aveva di operare

volontariamente, all’interno del suo campo d’azione,

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per migliorare le condizioni della società; la CSR2,

riferendosi alla capacità di rispondere alle pressioni

sociali, diviene più pratica e meno legata al moralismo

della CSR1.

In realtà ciò avviene perché, nella CSR2, si da già per

scontato che le imprese abbiano una responsabilità

sociale (perché il problema è già stato affrontato e

superato dalla CSR1) e si pone il problema di come

rispondere in pratica a problemi, quali lo sviluppo del

social auditing, che sono alla base di una reale

reattività in campo di responsabilità sociale.

3.2.4 Gli anni ‘80

Gli anni ’80 sono caratterizzati da tre filoni dottrinali predominanti:

Il primo è la nascita della Stakeholder theory:

La stakeholder theory si basa sul concetto di

stakeholder: coniato nei primi anni ’30 dalla General

Electric che identificò i quattro maggiori tipi di

stakeholders e cioè azionisti, dipendenti, clienti e

comunità; fu utilizzato nuovamente nel 1947 dal

presidente della Johnson & Johnson che identificò gli

“strictly business stakeholders” in clienti, dipendenti,

manager ed azionisti. Nel 1963 il concetto fu infine

teorizzato per la prima volta dallo Stanford Research

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Institute per indicare tutti i portatori di un interesse

legittimo nell’attività aziendale.

La prima teoria organica sugli stakeholders è quella del

1984 di Freeman14 che definisce gli stakeholders come

“quei gruppi che possono influenzare o essere

influenzati dal perseguimento di obiettivi

organizzativi”15.

Freeman distingue, poi, tra stakeholder primari e

secondari a seconda che il loro consenso ed apporto sia

o meno vitale per l’impresa, ed evidenzia come gli

stakeholder primari, se tolgono il loro appoggio

all’impresa, possono addirittura decretarne la fine.

Il secondo è l’affermarsi degli studi di business ethics

che, investendo su tutte le aree del management, dalle

relazioni industriali all’informazione esterna, dalle

funzioni produttive alle strategie competitive,

considerandole nei loro risvolti morali, si basa su due

presupposti: da un lato un’analisi dei valori su cui

dovrebbero fondarsi le scelte aziendali; dall’altro la

definizione di norme di condotta che informino i vari

livelli delle politiche di gestione e del relativo sistema

dei controlli. Frederick, in proposito, afferma la nascita

di una CSR3, cioè della “corporate social rectitude”,

14 Freeman: “Strategic management. A stakeholder approach”, Pitman, Boston, 1984. 15 Traduzione di: “those groups who can affect or are affected by the achievement of an organization’s purpose”.

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che dovrebbe analizzare i valori etici posti alla base di

tutti i comportamenti sociali delle imprese16.

Il terzo è l’affermarsi del concetto di Corporate social

performance (CSP) che può essere analizzato tramite

due approcci:

1. Il primo approccio alla CSP focalizza l’attenzione

sul processo attraverso cui si cercano di coniugare

gli interessi degli stakeholder con quelli

dell’impresa. Si analizzano, quindi, il processo ed i

metodi con cui sono identificati gli obiettivi

dell’impresa e risolti i dilemmi etici nelle questioni

concrete.

2. Il secondo approccio vede la CSP specificatamente

in termini di risultati e cerca, quindi, di misurare tali

risultati.

3.2.5 Gli anni ‘90

Negli anni ’90 e con l’inizio del nuovo millennio il concetto di CSR

continua ad arricchirsi con gli sviluppi in tema di stakeholder

theory, business ethics e soprattutto con i progressi nella

misurazione delle performance sociali.

16 Frederick: “Toward CSR3: why ethical analysis is indispensable and unavoidable in corporate affairs”, California Management Review, n°28, 1986, pag.134.

99

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Resta irrisolto il problema del legame fra CSR ed obiettivi

d’impresa laddove la ragione ultima d’esistenza della stessa altro

non è se non la creazione di valore per i propri azionisti.

3.3 Le tre teorie normative sulla responsabilità sociale

Sulla responsabilità sociale troviamo, in letteratura, tre teorie

normative: una che vede al centro della responsabilità sociale

d’impresa gli azionisti o shareholders, una che si fonda

sull’esistenza di una sorta di contratto sociale tra l’impresa ed il

contesto in cui vive ed opera, ed infine una che si fonda sul concetto

di stakeholder.

3.3.1 La teoria centrata sugli shareholders

La teoria che vede la responsabilità sociale come responsabilità nei

confronti degli shareholders può essere fatta risalire a Friedman17

secondo cui la responsabilità sociale dell’impresa è generare, nel

rispetto della legge, il massimo profitto nell’interesse degli azionisti

poiché, solo in tale modo, potrà essere raggiunto, a suo parere, il

benessere della comunità e dunque l’interesse generale. Ciò perché

la creazione di valore per gli shareholders è un indicatore sintetico

di creazione di valore, infatti, una volta soddisfatti i suddetti, è

17 Friedman: “Few trends could so thoroughly undermine the very foundations of our free society as the acceptance by corporate officials of a social responsibility other than to make as much money for their stockholders as possible”, in “Capitalism and freedom”, University of Chicago Press, Chicago, 1962, pag.133.

100

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implicito che siano stati soddisfatti anche tutti gli altri soggetti

interni ed esterni all’organizzazione. Addirittura un’interferenza

nella libera iniziativa economica dell’impresa da parte di una sua

presunta responsabilità sociale nei confronti di qualunque soggetto

terzo rispetto ai propri azionisti rappresenterebbe, come abbiamo

già affermato in precedenza, un danno per la collettività potendo

comportare una grave minaccia per la razionalità delle scelte

economiche dell’impresa, un’indebita distribuzione di ricchezza ed

un rischio reale per il sistema economico nel suo insieme. Una

responsabilità d’impresa, aggiuntiva rispetto a quella verso i suoi

azionisti potrebbe, infatti, portare l’impresa a confondere il suo

ruolo con quello dello Stato e degli enti benefici a ciò deputati con

possibili gravi ripercussioni sugli equilibri del sistema economico.

3.3.2 La teoria basata sul contratto sociale

Tale approccio teorico si fonda sul concetto di “corporate

citizenship”18 come impostato da Mc Guire nel 1963, e cioè

sull’idea che l’impresa abbia un diritto di cittadinanza che deve

ripagare tramite un non definito obbligo di concorrere alla

risoluzione dei problemi sociali19: perciò l’impresa non solo è

responsabile per gli effetti delle proprie azioni, ma tale

responsabilità è genericamente estesa al dovere di contribuire al

miglioramento dell’ambiente sociale in cui è inserita.

18 Mc Guire: “Business and society”, Mc Grow Hill, New York, 1963. 19 Sciarelli: “Il governo di un’impresa in una società complessa: la ricerca di un equilibrio tra economia e etica” Sinergie, n°45, 1998.

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Tale approccio si fonda sull’esistenza di una sorta di contratto

sociale implicito stipulato tra la società civile e le imprese: la CSR è

una parte essenziale di tale contratto sociale poiché individua cosa

l’impresa fa e cosa dovrebbe fare per il benessere della società e,

quindi, indirettamente, anche di se stessa, in quanto operare per un

maggior benessere sociale crea valore per tutti i componenti della

società, imprese incluse.

Il problema di tale teoria sta nell’individuare quali siano, in una

determinata società ed in una determinato lasso temporale, i diritti

ed i doveri dell’impresa: ciò perché, con il passare del tempo e con

l’evolversi di una società, mutano i diritti ed i doveri attribuiti ai

suoi componenti, e quindi anche alle imprese, in ragione dei

mutamenti che avvengono nella scala dei valori generalmente

accettati e condivisi dalla stessa società civile.

I mutamenti nella scala valoriale che hanno maggiormente

influenzato lo sviluppo del concetto stesso di responsabilità sociale

d’impresa sono attribuibili a tre circostanze concomitanti:

1. L’aumento dei bisogni derivante dall’aumento del

benessere nei Paesi cosiddetti “industrializzati” che ha

comportato la tensione ad una responsabilità sociale

dell’impresa in seguito all’inedito problema di una

miglior qualità della vita conseguente al superamento

dei bisogni materiali primari che ha permesso a bisogni

immateriali come sicurezza sul lavoro, tutela

ambientale, ecc. di affermarsi come obbiettivo cui

tendere.

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2. Il minor assistenzialismo dello Stato, che sta favorendo

lo sviluppo di associazioni no - profit che cercano di

sopperire a tale abbassamento della protezione sociale,

e la necessità di una maggior responsabilità sociale da

parte delle imprese per compensare il minor intervento

pubblico.

3. La globalizzazione, che ha comportato un maggior

potere per le imprese derivante dall’entità delle risorse

che controllano e dall’impatto che le azioni di ciascuna

delle grandi corporations internazionali può avere a

livello globale, sta anche spingendo a pressioni perché

tali imprese multinazionali abbiano una forte

regolamentazione interna che superi le disparità

legislative esistenti tra gli Stati in cui operano. Da un

grande potere derivano anche grandi responsabilità: ciò

vale anche, ed a maggior ragione, per le multinazionali

con riguardo al sociale.

3.3.3 La stakeholder view

Tale visione della responsabilità sociale può essere ricondotta

all’opera di Freeman20 ed è divenuta, con il passare del tempo, la

più rilevante in tema di CSR. Secondo tale teoria l’impresa sarebbe

tenuta ad assumere comportamenti socialmente compatibili in

quanto responsabile verso tutti i suoi stakeholders.

20 Freeman: “Strategic management. A stakeholder approach”, Pitman, Boston, 1984.

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Tale responsabilità nei confronti degli stakeholders nasce dal fatto

che l’impresa è comunque immersa in un contesto socio –

economico in cui la componente sociale e quella economica sono

inscindibili, ed in quanto tali bisogna tener conto di entrambe.

Difatti l’impresa è immersa in un’insieme di relazioni più o meno

forti che la legano a livello socio-economico a soggetti terzi aventi

aspettative sia in senso economico che sociale da cui l’impresa non

può prescindere se vuole continuare ad operare nel contesto in cui è

inserita.

La necessità di rispondere ad attese diverse da quelle degli azionisti

deriva dal potere di tali soggetti nei confronti dell’impresa e quindi

dalla loro influenza sui risultati economici della stessa.

Le istanze dei diversi stakeholders possono essere, e normalmente

sono, contrastanti e l’impresa deve riuscire a mediare tra tali istanze

tramite l’identificazione degli stakeholders, delle loro pretese e

della loro rilevanza, ma questo sarà oggetto del prossimo capitolo.

3.4 Gli stakeholder in breve: identificazione e rapporti

con l’organizzazione

Spesso si parla di stakeholders, di rapporti dell’impresa con tali

soggetti, di responsabilità nei loro confronti, ecc. anche se poi il

concetto stesso di stakeholder è stato soggetto ad un’evoluzione che

non si può ignorare. Il concetto di stakeholders si è, infatti,

modificato nel tempo:

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Nella sua prima definizione organica gli stakeholders sono

individuati come “tutti i soggetti strategicamente

importanti per la sopravvivenza ed il successo

dell’impresa” dallo Stanford Research Institute nel non

lontano 1963. In quel periodo se ne aveva una visione profit

driven, cioè la responsabilità verso tali soggetti era

esclusivamente parte di una strategia dell’impresa centrata

sulla sola esigenza di garantire il successo della stessa: le

pretese degli stakeholders non avevano valore intrinseco, ma

solo in relazione alla profittabilità dell’impresa. Gli

stakeholders erano visti esclusivamente come soggetti in

grado di “punire” l’impresa se non prestava attenzione alle

loro richieste: l’approccio era essenzialmente unidirezionale

e le istanze degli stakeholders non erano viste come

un’opportunità di differenziazione sociale, ma solo come un

ulteriore vincolo alla libertà di scelta dei manager.

La prima teoria organica sugli stakeholders è, però, opera di

quello che può essere considerato, a ragione, il “padre” della

stakeholders view, Freeman. Egli, nella sua opera del 198421,

definisce gli stakeholders, come abbiamo già visto in

precedenza, come: “tutti i gruppi o gli individui che

possono influenzare, o possono essere influenzati, dal

perseguimento di obiettivi organizzativi”. Tale definizione

è da considerarsi stakeholders driven ed è innovativa anche

perché vede il rapporto stakeholders – impresa come

bidirezionale. Infatti, nella teoria di Freeman, gli stakeholders 21 Freeman: “Strategic management. A stakeholder approach”, Pitman, Boston, 1984.

105

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e l’impresa devono interagire: a seguito di questa interazione

gli stakeholders, da un vincolo per le scelte aziendali,

diventano una fonte strategica di vantaggio competitivo da

sfruttare ed in cui investire tempo e risorse.

Tale impostazione, però, pone rilevanti problemi in merito alle

scelte migliori da adottare nel caso, tutt’altro che teorico, in cui le

richieste di stakeholders diversi siano in contrasto tra loro,

nell’individuazione degli stakeholders stessi, nella valutazione della

rilevanza delle loro istanze nel processo decisionale dell’impresa e

nella loro classificazione ed, infine, nella definizione del giusto

equilibrio tra le varie istanze che essi portano con se.

3.4.1 Classificazione degli stakeholders

Gli stakeholders possono essere classificati in base alla loro grado

di rilevanza strategica per la sopravvivenza e sviluppo dell’impresa

in:

stakeholders primari: azionisti, clienti, lavoratori,

fornitori, finanziatori e management.

stakeholders secondari: comunità locale, media,

governo, particolari gruppi di interesse, ecc.

E’possibile, inoltre, distinguere gli stakeholders sulla base della

relazione organizzazione – ambiente in:

stakeholders interni: azionisti, managers, lavoratori,

volontari, ecc.

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stakeholders esterni: clienti, fornitori, governo locale,

sindacati, comunità locale,ecc.

Nello schema che segue sono individuati alcuni stakeholders sulla

base dei due criteri sopra citati definendo stakeholders “forti” quelli

primari e “deboli” quelli secondari:

Organizzazione

Utenti

SociLavoratori

Volontari

Sindacati

Comunità locale,

religiosa,ecc.

Reti noprofit

Banche

Amministrazione locale

Famiglieutenti

Fornitori

Benefattori

Finanziatori

Stakeholder “forte” Stakeholder “debole”

Fonte: Corso di Organizzazione Aziendale Progredito a.a. 2004/05 Facoltà di Economia di

Genova.

Analizziamoli ora uno alla volta partendo dagli stakeholders esterni:

Clienti: i clienti sono uno dei soggetti che influenza

maggiormente il risultato di creazione di valore economico

107

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dell’impresa; le loro istanze devono essere tenute sempre ben

presenti poiché, se il prodotto o servizio offerto non crea

valore per tali soggetti e/o se il valore creato non si riflette in

una disponibilità maggiore a rivolgersi all’impresa o in una

disponibilità a pagare un maggior prezzo, l’impresa rischia di

veder peggiorare la propria situazione economico –

patrimoniale fino all’estremo limite di non poter più

sopravvivere.

I clienti sono perciò un soggetto di cui l’impresa non può

trascurare le istanze anche se, ovviamente, tali istanze vanno

considerate, ma non accettate ciecamente e ponderate con

quelle degli altri soggetti che passeremo via via ad

esaminare. Solitamente le istanze dei clienti sono la richiesta

prodotti che li soddisfino sempre di più al prezzo minore

possibile, ma ovviamente ciò si scontra con la necessità, da

parte dell’impresa, di sopravvivere e prosperare creando

valore non solo per tali soggetti, ma anche per gli altri

portatori d’interesse legittimo ed in particolare per gli

azionisti; certamente, però, creare valore per i clienti

significa poter creare valore economico e quindi far

sopravvivere e crescere l’impresa.

Pubblica amministrazione: la pubblica amministrazione ha

certamente un impatto rilevante sulle sorti di un impresa,

infatti un cambiamento legislativo in una materia che incida

sull’attività dell’impresa può portarle grandi benefici o severe

perdite. Il rapporto con la pubblica amministrazione è

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normalmente proattivo, l’impresa, cioè, avvalendosi della

propria forza contrattuale che le deriva dai benefici sociali in

termine di occupazione, contribuzione, ecc., tenta di

conciliare le azioni della pubblica amministrazione nei suoi

confronti con le proprie peculiarità, necessità e

caratteristiche.

A quanto detto possiamo aggiungere che normalmente la

pubblica amministrazione, ed in particolar modo i suoi

provvedimenti, e cioè l’impianto legislativo, danno un quadro

di riferimento limitando, di fatto, le possibilità di scelta delle

imprese, ma solitamente non pregiudicandone l’esistenza e la

sopravvivenza. Ovviamente la rilevanza della pubblica

amministrazione dipende anche dal sistema economico di

riferimento: nel sistema americano, per esempio, la pubblica

amministrazione interferisce il meno possibile con il mercato

limitandosi a porre regole di base e generali e lasciando che

la cosiddetta mano invisibile del mercato faccia il resto;

all’opposto nei sistemi capitalistici dell’Europa continentale

ed in quello giapponese l’intervento dello Stato, ed in

generale della pubblica amministrazione e delle istituzioni in

economia è la norma e non l’eccezione.

Fornitori: i fornitori sono soggetti a dir poco rilevanti per la

sopravvivenza e soprattutto per la prosperità dell’impresa;

tali soggetti, come tutti quelli che abbiamo preso e

prenderemo in esame, hanno delle istanze nei confronti

dell’attività e della gestione dell’impresa. Ovviamente le loro

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istanze sono legate al ruolo che ricoprono ed al loro rapporto

con l’impresa che può spaziare da un rapporto occasionale ad

un’integrazione logistico – organizzativa estrema, con

rapporti intensi e prolungati nel tempo. E’semplice, a questo

punto, affermare che, a seconda dell’intensità ed entità di tali

rapporti, saranno differenti le istanze del fornitore stesso. La

rilevanza dei fornitori nel perseguimento del fine ultimo

dell’impresa si può notare in molti differenti ambiti, infatti

tali soggetti sono responsabili del reperimento di materie

prime, semilavorati, ecc. ; della qualità delle risorse su cui

l’impresa potrà contare nello svolgimento della propria

attività; dei tempi e dei modi di consegna delle suddette

risorse; ecc. Tutto ciò, com’è evidente, può influenzare

considerevolmente il successo e la sopravvivenza nel tempo

di un’impresa. A titolo di esempio si può immaginare un

vantaggio dell’impresa in caso di costi più bassi, tempi di

consegna rapidi, coprogettazione dei semilavorati, qualità

elevata delle risorse, ecc. ed il relativo svantaggio qualora i

rapporti con i fornitori fossero caratterizzati da prezzi elevati,

tempi di consegna lunghi, bassa qualità delle risorse fornite,

ecc.

Normalmente le istanze dei fornitori nei confronti

dell’impresa si concentrano sul loro desiderio di ottenere

condizioni più favorevoli, ma tali istanze sono frenate dalla

necessità che l’impresa acquirente sopravviva e prosperi

cosicché lo stesso fornitore possa sopravvivere e prosperare

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con essa: ciò soprattutto nel caso in cui il mercato fosse

ristretto ad un limitato numero di acquirenti.

Associazioni: le associazioni hanno istanze di cui le imprese

devono tener conto soprattutto laddove siano molto

rappresentative e/o possano incontrare il favore di una larga

parte dell’opinione pubblica22 o delle istituzioni. Le istanze

delle associazioni sono quelle dei gruppi di soggetti che le

compongono e spesso si trovano a stridere con gli interessi

economici delle imprese.

Il peso di ogni associazione varia a seconda del contesto e del

modo in cui, direttamente o indirettamente, possono

influenzare il processo di creazione di valore economico e

quindi i risultati, lo sviluppo ed al limite la sopravvivenza

stessa dell’impresa.

Enti locali: per quanto riguarda l’influenza delle istanze degli

enti locali sulla sopravvivenza e prosperità dell’impresa vale

quanto detto con riferimento alla pubblica amministrazione.

Gli enti locali sono soggetti con cui l’impresa deve

confrontarsi ogni giorno e che non può esimersi dal

considerare nel decidere tra le diverse opzioni strategiche; le

loro istanze sono perlopiù legate all’occupazione ed alla

salvaguardia ambientale e della salute. Non avere un buon

rapporto con gli enti locali o non considerarne le istanze può

costare caro in termini di sopravvivenza dell’impresa per il

ruolo potenzialmente molto rilevante che in alcuni casi

ricopre il rapporto con l’area in cui l’impresa è collocata. 22 E quindi anche dei clienti.

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Passiamo quindi ad analizzare gli stakeholders interni:

Lavoratori: le istanze dei lavoratori devono essere prese in

considerazione dall’impresa in particolar modo quando il

processo produttivo richieda personale altamente qualificato

e perciò difficilmente sostituibile e laddove i lavoratori siano

uniti in sindacati particolarmente combattivi. Comunque le

loro istanze devono essere prese in considerazione

dall’impresa nel suo processo decisionale poiché si tratta di

soggetti che forniscono un apporto essenziale alla

sopravvivenza dell’impresa. Normalmente i lavoratori

richiedono salari più alti, minori carichi di lavoro, maggiore

sicurezza del e sul posto di lavoro, ecc.

In realtà tali istanze presentano dei costi non indifferenti per

l’impresa, ma nel caso in cui questa le ignori completamente

può ritrovarsi a fronteggiare costi ancor più rilevanti come

scioperi o, peggio ancora, la perdita di professionalità

necessarie e difficilmente reperibili o formabili con

conseguenze drammatiche dal punto di vista operativo.

Inoltre rispondere alle istanze dei lavoratori permette

all’impresa di migliorare la propria immagine e di attirare i

migliori soggetti presenti sul mercato del lavoro.

Azionisti: delle istanze degli azionisti abbiamo già accennato

nel precedente paragrafo laddove si è affrontato il tema del

rapporto fra creazione di valore per gli azionisti e

sopravvivenza dell’impresa. Quanto detto può essere

riassunto nella considerazione che creare valore per gli

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azionisti sia essenziale per la sopravvivenza dell’impresa

poiché lo stesso concetto d’impresa ha al suo centro la figura

dell’azionista che si trova ad essere un soggetto avente un

influenza enorme sulla sopravvivenza e la prosperità della

stessa.

A questo punto non resta che andare ad individuare, avendo

già analizzato compiutamente gli effetti della soddisfazione o

insoddisfazione dell’istanza di creazione del valore, le altre

possibili istanze degli azionisti. Tra tali istanze quelle più

comuni sono legate alla ricerca di trasparenza nella gestione,

ad un’eguale dignità per azionisti di maggioranza e

minoranza, alla distribuzione di dividendi maggiori, alla

crescita del valore azionario in caso di azioni quotate, ad una

governance che faccia, più in generale, gli interessi degli

azionisti senza richieder loro elevati costi di controllo

dell’operato dei manager, ecc.

E’ evidente che tali istanze saranno tanto più tenute in

considerazione dal management quanto più sarà elevata la

sensibilità degli azionisti verso ciascuna tematica e, di

conseguenza, le pressioni che tali soggetti eserciteranno per

avere soddisfazione.

3.4.2 La relazione tra gli stakeholders e l’impresa

Una volta classificati ed analizzati puntualmente gli stakeholders, e

le loro principali istanze e rivendicazioni, si rende necessario

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valutare la relazione intercorrente tra gli stessi e l’impresa con

particolare riferimento a come l’impresa si ponga nei loro confronti.

La relazione intercorrente tra gli stakeholders e l’impresa è

differente a seconda che la stessa li veda come un’opportunità

strategica piuttosto che un vincolo alla propria attività: esiste perciò

una versione “soft” del rapporto, in cui i managers hanno la

responsabilità di tener conto delle esigenze degli stakeholders per

evitare che questi penalizzino l’impresa, ed una versione “hard” in

cui gli stakeholders, in ragione delle loro “legittime pretese” nei

confronti dell’organizzazione, hanno diritto a partecipare alle

decisioni dell’impresa, e sono visti dalla stessa come una fonte

strategica per il successo competitivo. In questo secondo approccio

esiste, però, una complicazione che non può essere ignorata:

abbiamo detto che gli stakeholders possono influenzare

direttamente le scelte imprenditoriali prendendo parte al processo

decisionale, ma alla fine il rischio d’impresa grava pur sempre sugli

azionisti, perciò bisogna ben definire quali siano i limiti

all’influenza degli stakeholders nel processo decisionale, limiti

sorpassati i quali si sfocia in un irragionevole controllo delle scelte

imprenditoriali da parte di soggetti terzi assolutamente inidonei, per

definizione, ad effettuarle.

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3.5 Il Libro Verde UE sulla CSR

3.5.1 Gli USA ed il ritardo europeo

Il dibattito sulla Responsabilità Sociale d’Impresa nasce, come

abbiamo visto, negli anni ‘70 negli USA trovando in quel contesto

terreno più fertile che altrove a causa di:

rigore delle regole, derivante dalla cultura di matrice

protestante;

incentivi del governo americano (U.S. Sentencing

Commission’s Guidelines e “Foreign Corrupt Practice Act”

del 1977);

capitalismo maturo nel quale era già emersa l’insufficienza

dell’interpretazione neo-classica a favore di una

interpretazione di matrice sistemica.

Il ritardo europeo in materia si accumula a causa di un sistema

capitalistico non ancora sufficientemente maturo in cui i

consumatori, e più in generale gli stakeholders diversi dagli

azionisti di maggioranza, non avevano coscienza di poter

intervenire o un peso sufficientemente rilevante sui risultati

economico – finanziari delle imprese per poterle influenzare come

avveniva negli USA. Per reagire al ritardo europeo la Commissione

Europea sceglie, nel 2001, di utilizzare un Libro Verde per

“Promuovere un quadro Europeo per la responsabilità sociale delle

imprese” e di attivare l’“EU multistakeholders forum”.

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3.5.2 Il libro verde UE: uno sguardo d’insieme

Il libro verde UE, presentato dalla Commissione Europea nel 2001,

è volto a promuovere un quadro europeo per la responsabilità

sociale delle imprese per colmare il divario dagli USA e per

contrastare, tramite azioni di responsabilità sociale dei privati, la

diminuzione della protezione sociale dovuta alla privatizzazione dei

servizi pubblici in corso nell’Unione.

Il libro verde incomincia con un sommario in cui si evidenzia come

sempre più imprese, a livello europeo, stiano promuovendo azioni

di responsabilità sociale in risposta ad una serie di pressioni sociali,

ambientali ed economiche, e come lo scopo dello stesso libro verde

sia d’inviare un segnale alle varie parti interessate, con le quali tutte

le imprese hanno rapporti, e cioè lavoratori dipendenti, azionisti,

investitori, consumatori, poteri pubblici e ONG, affinché le imprese

stesse investano nel loro avvenire in modo volontario per aumentare

la propria redditività tramite un’applicazione intensiva della

responsabilità sociale nelle proprie scelte gestionali.

Il libro verde è solo uno dei passi compiuti per adeguare la

situazione europea a quella americana: infatti le azioni in tal senso

iniziarono nel 1993, con l’appello del Presidente Delors alle

imprese europee, in cui si chiedeva loro di prendere parte alla lotta

contro l’esclusione sociale, e che si è tradotto in una forte

mobilitazione e nello sviluppo di reti europee di imprese. Più di

recente, nel marzo del 2000, il Consiglio europeo di Lisbona ha

fatto appello più in particolare al senso di responsabilità delle

116

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imprese nel settore sociale per quanto riguarda le buone prassi

collegate all’istruzione ed alla formazione lungo tutto l’arco della

vita, all’organizzazione del lavoro, all’uguaglianza delle

opportunità, all’inserimento sociale ed allo sviluppo durevole. Nel

libro verde la commissione prevede che, affermando la loro

responsabilità sociale ed assumendo di propria iniziativa impegni

che vanno al di là delle esigenze regolamentari e convenzionali cui

devono comunque conformarsi, le imprese si sforzino di elevare la

tutela assicurata dalle norme collegate allo sviluppo sociale, alla

salvaguardia dell’ambiente ed al rispetto dei diritti fondamentali

dell’uomo e del cittadino, tramite l’adozione di un sistema di

governo aperto ed in grado di conciliare gli interessi delle varie

parti interessate nell’ambito di un approccio globale alla qualità ed

allo sviluppo sostenibile.

Un’azione delle imprese in questo senso porterà allo sviluppo di

nuove partnership e di nuovi ambiti per le relazioni tra le stesse, in

particolare per quanto riguarda il dialogo sociale, l’acquisizione

delle qualifiche, l’uguaglianza delle opportunità e la previsione e la

gestione del cambiamento. A livello locale o nazionale ciò avverrà

tramite il consolidamento della coesione economica e sociale ed per

effetto di una maggior protezione della salute mentre, in modo più

generale, su scala planetaria, avverrà per la protezione

dell’ambiente ed il rispetto dei diritti fondamentali.

Tale concetto di responsabilità sociale è promosso essenzialmente

dalle grandi

117

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imprese, anche se prassi socialmente responsabili, spesso non

formalizzate, si ritrovano in tutti i tipi di società, pubbliche e

private, comprese le PMI e le cooperative.

La Commissione Europea si preoccupa della responsabilità sociale

delle imprese poiché essa potrebbe recare un contributo positivo

all’obiettivo strategico definito a Lisbona per l’Unione stessa:

“divenire l’economia della conoscenza più competitiva e più

dinamica del mondo, capace di una crescita economica sostenibile

in quanto accompagnata da un miglioramento quantitativo e

qualitativo dell’occupazione e da una maggiore coesione sociale”.

Il Libro verde si propone, quindi, di lanciare un ampio dibattito sui

modi nei quali l’UE potrebbe promuovere la responsabilità sociale

delle imprese a livello sia europeo che internazionale, ed in

particolare su come sfruttare al meglio le esperienze esistenti,

incoraggiando lo sviluppo di prassi innovative, migliorando la

trasparenza e rafforzando l’affidabilità della valutazione delle varie

iniziative realizzate in Europa.

3.5.3 Il libro verde UE: i principi

Il libro verde UE individua alcuni principi:

Crescita economica, coesione sociale e tutela dell’ambiente

sono dimensioni complementari e non scindibili (Consiglio

europeo di Goteborg, 2001)

Un nuovo ruolo delle imprese è richiesto da:

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1. crescente sensibilità dei cittadini nelle scelte di

consumo;

2. trasparenza della comunicazione e dell’informazione;

3. “inquietudini” in merito al deterioramento

dell’ambiente.

La responsabilità principale delle imprese è fare profitto, ma

anche contribuire alla creazione di valore sociale come

investimento strategico per il futuro poiché l’impresa, nel suo

operare, “consuma” relazioni sociali e se vuole sopravvivere

deve continuamente rigenerarle.

3.5.4 Il libro verde della UE: la definizione di CSR

Il libro verde UE, affrontando il tema della definizione di cosa

s’intenda per responsabilità sociale, afferma che la maggior parte

delle definizioni della responsabilità sociale delle imprese

descrivono questo concetto come “l’integrazione volontaria delle

preoccupazioni sociali ed ecologiche delle imprese nelle loro

operazioni commerciali e nei loro rapporti con le parti interessate”.

Essere socialmente responsabili significa, quindi, non solo

soddisfare pienamente gli obblighi giuridici applicabili, ma anche

andare al di là investendo di più nel capitale umano, nell’ambiente e

nei rapporti con gli altri stakeholders. L’esperienza acquisita con gli

investimenti in tecnologie e prassi commerciali ecologicamente

responsabili suggerisce che, andando oltre gli obblighi previsti dalla

legislazione, le imprese possono aumentare la propria competitività.

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L’applicazione di norme sociali che superino gli obblighi giuridici

fondamentali, ad esempio, nel settore della formazione, delle

condizioni di lavoro, o dei rapporti tra la direzione ed il personale,

può avere, dal canto suo, un impatto diretto sulla produttività. Si

apre in tal modo una strada che consente di gestire il cambiamento e

di conciliare lo sviluppo sociale con una maggiore competitività.

La responsabilità sociale delle imprese non dovrebbe tuttavia essere

considerata come un sostituto alla regolamentazione o alla

legislazione riguardante i diritti sociali o le norme ambientali,

compresa l’elaborazione di una nuova normativa più adeguata

laddove carente. Nei Paesi in cui tali regolamentazioni non

esistono, gli sforzi dovrebbero concentrarsi sulla creazione di un

contesto regolamentare o legislativo adeguato al fine di definire una

base equa, a partire dalla quale potrebbero essere sviluppate le

prassi socialmente responsabili.

3.6 Gli strumenti della RSI23

3.6.1 Il Codice Etico

In prima approssimazione, il codice etico24 si definisce come la

“carta d’identità costituzionale” dell’impresa: un documento che

fissa i diritti ed i doveri morali di ogni partecipante

23 O CSR. 24 Rispetto alla mission, i principi guida contenuti nel codice etico si riferiscono maggiormente a situazioni concrete e permettono una definizione più dettagliata delle politiche e delle norme di comportamento.

120

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all’organizzazione imprenditoriale tramite principi e norme di

comportamento.25

Si tratta di un valido strumento gestionale che, attraverso

un’esplicita definizione delle responsabilità etico – sociali degli

stakeholder, e nei confronti di questi, permette di evitare eventuali

conflitti tra l’impresa ed i suoi interlocutori interni ed esterni,

generando un clima di fiducia e di collaborazione reciproca e

favorendo l’implementazione etica nella loro azione.

Il codice etico definisce in maniera esplicita gli impegni assunti

dall’impresa in risposta alle attese degli stakeholder in tema di

interessi fondamentali come: qualità del servizio/prodotto, tutela

della salute, salvaguardia dell’ambiente, rispetto della persona, ecc.

Si tratta di una sorta di patto sociale tra l’organizzazione stessa ed i

suoi interlocutori.

I motivi che conducono all’adozione di un codice etico possono

essere visti come riconducibili a tre ordini di situazioni:

corruzione diffusa o crisi generale di immagine: il codice

etico serve per sostenere la reputazione dell’organizzazione;

bisogno di identità e/o di nuova progettualità nelle fasi di

fondazione e di trasformazione dell’organizzazione: il codice

etico è impiegato come strumento di riconoscimento interno

ed esterno della propria identità;

necessità di regolamentazione della concorrenza: il codice

etico si configura come mezzo per innalzare il livello di

qualità etica all’interno di un settore fissando degli standard

di comportamento. 25 www.bilanciosociale.it/codiceetico.html

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Tale documento si caratterizza per un’estrema varietà di forme,

estensioni e contenuti. E’perciò possibile individuare tre livelli

principali di complessità e completezza dei codici etici:

1. Il livello “di base”, che è anche il primo in ordine

cronologico, corrisponde all’enunciazione della

“mission” o filosofia aziendale. Questa esprime i

principi morali nei quali l’azienda crede, ovvero i suoi

obblighi nei confronti delle varie categorie di

stakeholder, interni ed esterni, ed il suo modo di porsi

nel mondo degli affari.

2. Il livello intermedio, relativo al “credo” aziendale: si

tratta di una serie di enunciazioni di carattere piuttosto

ampio riguardo agli obiettivi aziendali nei confronti

degli stakeholder, i principi morali cui l’azienda si

ispira ed i suoi obiettivi economici.

3. Il livello più alto di complessità è quello dei codici

etici “in senso stretto”, cioè caratterizzati dal fatto di

includere norme di condotta piuttosto specifiche che

raccomandano o vietano determinati comportamenti al

management, fungendo da guida nelle situazioni

concrete più delicate.

I codici etici trovano applicazione in realtà organizzative molto

diverse tra loro, tant’è che si possono classificare in funzione del

tipo di organizzazione che li ha formulati; esistono infatti:

codici etici di ordini professionali o codici

deontologici;

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codici etici quadro, di associazione o di

categoria valevoli per un intero settore;

codici etici di singole aziende.

In definitiva non si riscontra un modello standard di codice etico

poiché il contenuto e la forma dello stesso dipendono dai seguenti

tre fattori:

1. natura ed identità dell’organizzazione;

2. settore di attività e ruolo assunto al suo interno;

3. motivi sottesi all’adozione del codice etico.

Una spinta notevole all’adozione di codici aziendali fu determinata

dagli scandali degli anni ’70 negli USA, che rivelarono una diffusa

corruzione nel mondo imprenditoriale26. Adesso, negli Stati Uniti,

secondo una serie di norme emanate a partire dal 1991 in materia di

azioni criminali da parte delle imprese, la redazione di un codice

etico permette di provare la buona fede dell’azienda, in caso di

azioni legali contro la stessa da parte di terzi, facendole ottenere

sconti sulle eventuali sanzioni. Questo è stato il principale motivo

per cui l’85% delle principali imprese USA si è dotata di un codice

etico.27

26 La Security and Exchange Commission, il Dipartimento di Giustizia e l’Internal Revenue Service, infatti, scoprirono che un terzo delle 900 grandi aziende che erano state analizzate mantenevano “fondi neri” per il pagamento di pubblici ufficiali negli U.S.A. e all’estero. 27 Il Prof. Mendes, direttore dell’Human Rights Research and Education Centre dell’Università di Ottawa, ha effettuato una ricerca sui codici etici adottati da aziende canadesi ed americane a partire dagli anni ‘70, dalla quale emergono cinque “generazioni” di problemi connessi all’etica e alla responsabilità sociale:

prima generazione: comportamenti irrazionali od illeciti del personale dipendente; seconda generazione: fenomeni di corruzione diffusa; terza generazione: diritti degli interlocutori interni ed esterni in relazione diretta con

l’azienda; quarta generazione: protezione dell’ambiente e tutela degli interessi della comunità di

riferimento; quinta generazione: obbligo di rendere conto e giustizia sociale.

123

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Mentre, dunque, si assiste ad un forte proliferare di codici etici

negli USA, altrettanto non può dirsi per l’Europa, e soprattutto per

l’Italia, anche se è possibile constatare una crescente

sensibilizzazione, da parte delle nostre imprese, al tema.28 In

particolar modo la prima grande impresa a dotarsi di un codice etico

è stata la FIAT, nel “lontano” 1993.

Per quanto attiene al contenuto dei codici etici è importante

sottolineare come la tematica dei diritti e dei doveri dei dipendenti

sia presente in quasi tutti i codici delle imprese europee, mentre

nella realtà statunitense lo sviluppo di questo argomento risulti

decisamente minore; d’altra parte, però, le relazioni con gli enti

pubblici vengono trattate molto più diffusamente dai codici

statunitensi, ovviamente a seguito della legislazione in materia.

La struttura di tale strumento generalmente si sviluppa su cinque

livelli:29

1. la missione aziendale ed i principi guida che

consentono di realizzarla;

2. le politiche organizzative e le norme di comportamento

che regolano il “patto sociale” tra l’impresa ed i suoi

stakeholder (patto di collaborazione e convivenza che

ordina i rapporti biunivoci dell’impresa con l’ambiente

interno ed esterno);

3. gli standard etici di comportamento:

1) principio di legittimità morale;

2) equità ed eguaglianza; 28 In Italia si registrano alcune esperienze come Comit, Coop Adriatica, ENI, FIAT, Glaxo Wellcome, ecc. 29 www.bilanciosociale.it/codiceetico.html

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3) diligenza;

4) trasparenza;

5) onestà;

6) riservatezza;

7) imparzialità;

8) tutela della persona;

9) tutela dell’ambiente;

10) tutela della salute;

4. le sanzioni interne in caso di violazione delle norme

del codice etico;

5. gli strumenti di attuazione dei principi contenuti nel

documento: l’impresa è dotata di un apparato, di solito

il Comitato Etico, che ha il compito di divulgare il

codice etico nell’impresa, di controllarne il rispetto e

di comminare le sanzioni.

La costruzione del codice etico parte, quindi, dalla dichiarazione di

identità e dei principi guida, per giungere alla definizione di precise

politiche di comportamento. Questo passaggio richiede

l’individuazione:

dell’obiettivo del codice etico (requisito di eticità);

dei motivi del ricorso a tale strumento;

delle aree di rischio (situazioni, comportamenti e stakeholder

da presidiare e regolamentare);

del grado di dettaglio (generale o specifico).

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Secondo S.C.S. Consulting,30 una società di consulenza italiana, i

passi per attuare il codice di responsabilità dell’azienda sono:

Verifica dell'esistenza o costruzione ad hoc di atti formali o

dichiarazioni che definiscono la missione o il campo

valoriale tipico dell'impresa;

Determinazione dei criteri di comportamento considerati

emblematici e costruzione di una bozza di riferimento;

Diffusione del codice in bozza all'interno dell'organizzazione

come momento di discussione su principi, obiettivi e stili

dell'organizzazione, successiva correzione, precisazione e

varo formale;

Identificazione delle procedure attuative e delle istituzioni

interne o esterne aventi il compito di garantire la diffusione

ed il rispetto del codice;

Impostazione del piano di comunicazione e del sistema

informativo per valutare gli effetti dell’introduzione ed

applicazione del codice.

Passando ad esaminare le esperienze in campo internazionale,

spicca innanzitutto la lunga esperienza dell’organizzazione no profit

statunitense Ethics Resource Center31: nata nel 1977 con lo scopo di

promuovere comportamenti etici negli individui e nelle istituzioni,

il suo lavoro si sviluppa con la diffusione del codice etico per le

imprese, con pubblicazioni di documenti educativi tesi alla

promozione di un comportamento etico e con il conferimento di

attestati annuali d’eccellenza in tema di etica. Ogni anno l’ERC

30 www.smaer.it31 www.ethics.org

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diffonde una mappatura aggiornata delle imprese USA che adottano

norme etiche al loro interno.

Sempre nel continente americano è di notevole interesse il lavoro

compiuto dalla canadese EthicScan32: l’organizzazione si concentra

sulla ricerca e la valutazione delle performance etiche, ambientali e

sociali delle maggiori 1.500 imprese operanti in Canada

pubblicando periodicamente un documento informativo sulle

performance di queste aziende. Come nel caso di Council of

Economic Priorities (CEP) negli Stati Uniti, EthicScan pubblica una

guida al consumo etico sui prodotti venduti nei supermercati

canadesi.

Ethics in Action33 è invece un’organizzazione canadese creata a

Vancouver che analizza la responsabilità sociale delle imprese nella

convinzione che la sostenibilità ambientale e sociale misurata a

lungo termine sia l’elemento di forza della qualità della vita

presente e futura. La sostenibilità socio-ambientale, secondo Ethics

in Action, si può raffigurare come un puzzle nel quale sono inseriti

diversi costituenti:

protezione ambientale;

business ethics e codice etico;

sviluppo delle comunità attraverso la mutualità;

relazioni internazionali nel diffondere standard sociali, etici e

ambientali;

regolamentazione dei rapporti di lavoro ed integrità morale;

32 http://www.ethicscan.ca/33 www.ethicsinaction.com

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responsabilità fiscale e valutazione delle performance etiche

delle imprese.

Ethics in Action conferisce annualmente degli Awards alle imprese

e ad individui che si sono distinti nell’implementazione della

responsabilità sociale.

Con molte analogie rispetto al codice etico, secondo Bureau Veritas

Quality International,34 nasce, nel 1991, negli Stati Uniti, il primo

Codice di condotta (Code of conduct). Questo codice è stato

introdotto dalla compagnia Levi’s in seguito a pressioni esterne da

parte dell’opinione pubblica per migliorare e rendere trasparenti le

filiere di produzione, soprattutto quelle provenienti dal cosiddetto

Terzo mondo. Il codice di condotta può essere di provenienza

esterna o costituito all’interno dell’impresa e generalmente riguarda

il rispetto dei diritti umani. Ad oggi esistono centinaia di tipologie

di codici di condotta che si adattano alle molteplici specificità

produttive, culturali e merceologiche delle imprese sparse per il

mondo. Il codice di condotta è uno dei metodi più utilizzati dalle

compagnie transnazionali per rassicurare sul rispetto dei diritti

umani e dei lavoratori da parte delle proprie filiali dislocate nei

paesi in via di sviluppo.

L’esigenza di un cambiamento caratterizzato dalla considerazione

dei valori etici e morali è stata percepita anche dal mondo

finanziario: alcuni istituti di credito e società finanziarie si stanno,

infatti, dotando di strumenti appropriati per far fronte alla domanda

di solidarietà proveniente dalla società civile. L’esempio italiano di

34 www.bvqina.com

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credito totalmente dedicato alla crescente domanda di finanza

solidale è quello della Banca popolare etica. La Banca etica nasce

nel 1998 Padova: alla sua costituzione contava già ben 13.000 soci

ed oltre 13 miliardi di lire di capitale sociale. Gli ambiti prioritari

d’intervento delle banche etiche, e nello specifico della Banca

popolare etica, sono la cooperazione sociale, la cooperazione

internazionale, il settore dei beni culturali e dell’animazione

culturale ed, in particolare, il settore della tutela ambientale.

Tuttavia, nonostante il crescente sviluppo del privato sociale e delle

richieste di un sistema finanziario più etico, nel complesso non si

può ancora parlare di una vera e propria rete di credito etico.

Appare opportuno, infine, concludere il nostro discorso sul codice

etico mettendone in risalto gli aspetti più problematici:

Nella formulazione è necessario definire bene a chi assegnare

le procedure di valutazione dell’attuazione del codice e di

giudizio sulle sue infrazioni: l’alternativa è tra la struttura

gerarchica che abitualmente gestisce l’impresa ed una

struttura indipendente. Nella prima ipotesi vi è il vantaggio

che la linea gerarchica dovrebbe trovarsi nelle condizioni

ottimali dal punto di vista dell’informazione, ma ovviamente

non può essere garantita l’imparzialità di giudizio35;

Condividendo l’opinione di Epstein e Weller appare

opportuno sviluppare l’adesione volontaria dei dipendenti e

del management al codice. Quest’ultimo dovrebbe essere

promulgato solo dopo un’ampia consultazione democratica 35 Una ipotesi di soluzione, formulata da Sacconi, consiste nell’istituire una struttura interna, dotata della necessaria autorità di giudizio in materia di attuazione del codice etico, ma diversa da quella che assume le decisioni ordinarie di gestione.

129

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tra tutti i dipendenti dell’impresa e dovrebbe essere elaborato

da una commissione nella quale siano presenti i

rappresentanti di tutte le categorie che dovrebbero sottostare

alle sue norme; inoltre, con le stesse modalità, dovrebbe

essere periodicamente aggiornato.

3.6.2 La rendicontazione etico - sociale

La rendicontazione sociale registra uno sviluppo non omogeneo nei

vari Paesi a causa della diversa influenza dei fattori ambientali che

l’hanno originata quali:

i processi di sviluppo economico-sociale;

il miglioramento delle condizioni lavorative;

la partecipazione diretta all’organizzazione economica grazie

all’innalzamento del livello d’istruzione;

la pressione esercitate da gruppi d’interesse di vario tipo

come associazioni di consumatori, organizzazioni sindacali,

ecologisti, partiti politici, ecc.

In via preliminare, per meglio qualificare il concetto di

rendicontazione sociale, si può paragonare il rapporto tra impresa e

società al contratto di agenzia: il principale impartisce precise

istruzioni all’agente, indicandogli quali azioni compiere,

conferendogli il necessario potere, assegnandogli le conseguenti

responsabilità e remunerandolo adeguatamente: l’agente dovrà poi

informarlo circa l’andamento ed i risultati delle azioni compiute.

Allo stesso modo l’impresa, dopo aver ottenuto dall’ambiente le

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risorse ed il potere necessario per esercitare la propria attività, sarà

tenuta ad informarlo sulle conseguenze e sugli esiti di tali attività.

Questo genere di informazioni è stato definito accountability o

rendicontazione. La rendicontazione sociale è, quindi, quella parte

di accountability che riguarda strettamente le responsabilità sociali

dell’azienda e che mira a misurare l’impatto del comportamento

dell’impresa sulla società. In considerazione di ciò gli obiettivi

fondamentali della rendicontazione sociale sono:

fornire ai soggetti esterni informazioni che permettano di

giudicare le performance sociali dell’impresa;

fornire al management informazioni che consentano la

definizione delle strategie sociali dell’azienda;

verificare le assunzioni di responsabilità sociale

dell’impresa ed il clima sociale in cui essa vive per effetto

dell’accettazione/rifiuto del proprio ruolo sociale;

identificare e quantificare il contributo sociale netto

dell’impresa: contributo dato non solo da costi e ricavi

interni, ma anche da quelli provenienti dalle esternalità

positive e negative.36

Come vedremo sarà quest’ultimo punto a sollevare le maggiori

problematiche per quel che attiene il processo di quantificazione.

A livello internazionale non esiste un’unica definizione di

rendicontazione sociale a causa delle non uniformi prospettive con

cui è considerato il rapporto tra impresa e società. Preston, infatti,

36 Bartolomeo: “La contabilità ambientale d’impresa”, il Mulino, Bologna, 1997, p. 353.

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identifica le diverse concezioni del rapporto tra impresa e società

in:37

1. Istituzionale: l’impresa è concepita come elemento di

un più vasto e complesso sistema istituzionale, avente

una propria storia ed evoluzione. In base a questa

impostazione il bilancio sociale ha il compito di

analizzare l’intera gamma di rapporti che si instaurano

tra l’impresa ed il suo ambiente.

2. Organizzativa: si focalizza sull’interno della vita

aziendale ed in particolar modo sulla sua

organizzazione, anche in relazione alle sue interazioni

con l’ambiente. Tale approccio è stato seguito dalla

scuola di Harvard per elaborare un modello di bilancio

sociale definito “process audit”: un documento ad uso

imprenditoriale interno e quindi non finalizzato ad

obiettivi informativi, ma ad incrementare le

competenze manageriali in campo sociale.

3. Filosofica: si tratta di un approccio nettamente

prescrittivo – normativo che individua la finalità

sociale dell’impresa: quest’ultima, secondo i

fondamentalisti, consiste interamente nel soddisfare le

richieste di mercato; di conseguenza non si sviluppano

specifiche forme di bilancio sociale se non per

esigenze di trasparenza e di qualità informativa.

Secondo gli etici dell’impresa, invece, la finalità

37 Rusconi: “Il bilancio sociale d’impresa”, Giuffrè, Milano, 1988, p. 22.

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sociale dell’impresa consiste nel perseguire precisi

obiettivi morali nell’ambito della società civile: in

questo caso il bilancio sociale diventa un modello di

valutazione complessiva delle attività aziendali

elaborato a partire dai codici etici.

Le prime esperienze concrete di rendicontazione sociale risalgono

agli inizi degli anni ‘70 e da allora si sono alternati diversi approcci

teorici come quelli che propongono una visione sistemica

dell’impresa e della società, secondo cui l’impresa interagisce non

soltanto con il proprio mercato di riferimento, ma anche con la

società, oppure quelli che sostengono l’esigenza di due distinti

ambienti sociali: uno interno, cioè quello del mercato di

riferimento, ed uno esterno, cioè la società.

Negli Stati Uniti la massiccia presenza di movimenti ambientalisti e

di difesa dei diritti dei consumatori ha sollecitato i grandi gruppi

imprenditoriali a divulgare informazioni sui riflessi sociali delle

loro attività. In tale contesto il bilancio sociale è ispirato da una

responsabilità esterna ed assume diverse configurazioni a seconda

degli scopi sottesi alla sua redazione cui seguono altrettanti sviluppi

operativi 38:

1. Contabilità e valutazione dell’impatto dei programmi

di responsabilità delle imprese: si tratta della tenuta dei

conti sulle spese per specifici programmi sociali

aziendali e della valutazione dei loro effetti;

38 Nel 1976 una Commissione dell’American Accounting Association elencò sei definizioni di Bilancio Sociale rappresentative dei diversi orientamenti diffusi negli Stati Uniti.

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2. Contabilità delle risorse umane: corrisponde al calcolo

del valore del capitale umano impiegato, sulla base di

opportune capitalizzazioni;

3. Misurazione dei costi sociali selezionati: consiste nella

scelta e nella verifica di alcuni costi sociali

significativi per l’impresa e la società civile;

4. Misurazione dell’impatto dell’attività d’impresa sulla

società: si tratta della valutazione contabile

dell’impatto che l’impresa esercita sulla società civile

durante lo svolgimento della sua attività;

5. Rendiconto sociale: rendiconto dei risultati secondo le

accezioni 1-4;

6. Contabilità per programmi pubblici.

Nel Regno Unito, fin dai primi anni ‘70, il mondo imprenditoriale si

è dimostrato sensibile alla redazione di un bilancio sociale per

esprimere il livello di soddisfacimento dei valori socio – ambientali,

anche perché era diffusa la convinzione che la responsabilità sociale

d’impresa non inficiasse il conseguimento del profitto. Si trattava,

comunque, di una responsabilità sociale avvertita con riferimento

all’ambiente esterno e non nei confronti dei propri dipendenti. A

partire dalla seconda metà degli anni ‘70 si è manifestato, inoltre,

un grande interesse per lo studio della produzione e distribuzione

del valore aggiunto, tematica che si è sviluppata al punto da

divenire la principale area di attività di contabilità sociale nel Paese.

Nel Regno Unito manca una disciplina legislativa unitaria del

bilancio sociale, tuttavia si registrano specifiche normative che

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interessano singoli aspetti del sociale e sono molto diffusi i codici

di comportamento aziendale.

In Germania il bilancio sociale si compone di tre sezioni 39:

1. Rapporto sociale: consistente nell’esposizione

discorsiva, corredata da materiale statistico, degli

effetti delle attività d’impresa socialmente rilevanti;

2. Calcolo del valore aggiunto prodotto e distribuito;

3. Contabilità sociale: vale a dire l’esposizione in cifre

delle attività e degli utili sociali quantificabili di

un’impresa nel corso di un periodo contabile.

Le scuole anglosassone e tedesca, dunque, concepiscono il bilancio

sociale come un documento la cui componente essenziale è il

calcolo del valore aggiunto prodotto e distribuito che si ottiene da

un processo di riclassificazione del conto economico sottraendo dal

valore dei ricavi netti i costi sostenuti per l’acquisto di beni e servizi

all’esterno dell’impresa e valutando la loro ricaduta esterna. In

questo modello il valore aggiunto si ricava dal bilancio d’esercizio:

si realizza così un sistema di contabilità sociale derivato dalla

contabilità economico – patrimoniale.

In Francia40 già dai primi anni ‘60 il bilancio sociale costituiva

oggetto di studio nei centri di ricerca, che ne individuavano la tipica

composizione, e nelle realtà aziendali, che lo impiegavano come

strumento informativo rivolto inizialmente a scopi di pubbliche

relazioni (uso esterno) ed in seguito anche al personale (uso

39 Secondo l’impostazione del gruppo tedesco Sozialbilanz Praxis. 40 Pulejo: “Esperienze in tema di bilancio sociale. Il modello Francese”, Giappichelli, Torino,

1996, pp. 55-59.

135

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interno). Le istituzioni pubbliche, con l’emanazione della legge n.

77-769 del 1977, si rivolsero al bilancio sociale per risolvere i

problemi legati ai conflitti nelle relazioni interne all’impresa.

Il legislatore francese concepisce il bilancio sociale come uno

strumento, funzionale al reale miglioramento delle condizioni di

lavoro, che riassume in cifre i principali dati che consentono di

valutare l’azione sociale dell’impresa. L’intervento legislativo è in

realtà il risultato di un processo di riflessione sul significato e sul

contenuto del bilancio sociale 41, infatti ancora oggi questa

normativa fissa i principi guida per la compilazione di un bilancio

sociale in:

contenuto (articolato in sette capitoli: impiego;

remunerazioni ed oneri accessori; condizioni di igiene e

sicurezza; altre condizioni di lavoro; formazione; relazioni

professionali; altre condizioni di vita dipendenti

dall’impresa);

specifici indicatori per singoli settori produttivi;42

soggetti obbligati alla sua redazione (imprese con più di 750

dipendenti e, dal 1982, quelle con più di 300 dipendenti);

destinatari del documento (delegati sindacali, ispettori del

lavoro, azionisti e dipendenti).

41 Avviato ufficialmente nel 1975 con il rapporto di Pierre Sudreau sulla riforma delle imprese che individua alcuni indicatori relativi alle condizioni di lavoro del personale dipendente. 42 “La lista degli indicatori varia in base a tre criteri: il livello nel quale si colloca il bilancio; la dimensione dell’impresa o dello stabilimento ( numero di dipendenti); il settore di appartenenza” in Pulejo: “Esperienze in tema di bilancio sociale. Il modello Francese”, Giappichelli, Torino, 1996

136

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In conclusione, la scuola francese ha elaborato un bilancio sociale

come strumento tecnico ed operativo più per la verifica delle azioni

rivolte al personale e non tanto come strumento manageriale.

A livello comunitario la responsabilità sociale d’impresa, con

particolare riferimento alla tutela ambientale, si concretizza nelle

disposizioni introdotte dal Regolamento CEE n. 1836 del 1993

sull’adesione volontaria delle imprese del settore industriale ad un

sistema comunitario di ecogestione e di audit ambientale.

In Italia le esperienze di rendicontazione orientate alla socialità

sono ancora in numero ridotto, anche se crescente, soprattutto con

riferimento alle imprese non quotate ed in genere alle PMI:

comunque, spesso, è possibile desumere informazioni di natura

socio – ambientale dalle relazioni degli amministratori allegate al

bilancio ordinario d’esercizio.

Trascurando i fenomeni peculiari e le pressioni che hanno

interessato i vari Paesi trattati si può notare che la contabilità

sociale d’impresa è stata sollecitata da un generale senso

d’insoddisfazione nei confronti dei tradizionali sistemi di

comunicazione d’impresa e dalla voglia di meglio poter controllare

le azioni e le relative responsabilità socio – ambientali delle

imprese.

137

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3.7 Sistemi di gestione della qualità sociale e

certificazione

3.7.1 Standard di rendicontazione sociale della CSR: la

certificazione SA 8000

Quando parliamo di responsabilità sociale d’impresa, non dobbiamo

far riferimento ai soli comportamenti interni all’azienda, ma occorre

prendere in considerazione l'intera catena produttiva. Da ciò si

evince che anche l’attività di un fornitore o subfornitore andrà

attentamente monitorata per individuare eventuali comportamenti

socialmente irresponsabili come, per esempio, l’utilizzo di lavoro

minorile, carenze nelle condizioni d’igiene e sicurezza, ecc. Al

giorno d'oggi fornitore e committente operano, infatti, sempre più a

stretto contatto fra loro: si pensi, ad esempio, alla cosiddetta

“comakership”, ossia alla co-progettazione di parti del prodotto

finito. La conseguenza è che il fornitore si trova indotto a

conseguire livelli sempre più alti di efficienza: in questo contesto

l’impresa socialmente corretta dovrà evitare d’incoraggiare il

proprio fornitore a raggiungere tale obiettivo a scapito dei diritti dei

lavoratori o violando le norme di sicurezza degli impianti o

addirittura sfruttando la manodopera minorile. In definitiva

l’impresa potrà essere condannata dagli stakeholders anche per dei

comportamenti ad essa non direttamente imputabili, ma sui quali

138

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esiste una suo più o meno forte coinvolgimento.43 Emblematico, al

riguardo, è il caso della Benetton che in passato è stata accusata dai

mass-media di incentivare, seppur indirettamente, condizioni di

lavoro eticamente disprezzabili ricorrendo, attraverso i fornitori, al

lavoro dei bambini in Paesi a basso reddito pro capite. Ciò ha

condotto dapprima ad una vertenza con i sindacati e

successivamente alla firma di un protocollo d’intesa con le

rappresentanze sindacali italiane e turche attraverso il quale

l'azienda si assume la responsabilità dell'intero ciclo manifatturiero,

impegnandosi: a garantire che nessun bambino al di sotto dei 15

anni verrà impiegato in alcun lavoro; a rispettare le pari

opportunità; a porre in essere trattamenti contrattuali senza

distinzione di sesso, razza, religione e ideologia; ed infine ad

interpretare concretamente il diritto alla sicurezza ed alla salute

attraverso adeguate coperture assicurative ed attraverso specifiche

norme di sicurezza sociale.44

Per dare una risposta concreta al problema suddetto, il Council of

Economic Priorities (CEP) ha fondato, nel 1997 il Council of

Economical Priorities Accreditation Agency (CEPAA), ora

divenuto Social Accountability International (SAI), con lo scopo di

guidare lo sviluppo di standard internazionali di verifica e di

certificazione della qualità del lavoro da parte delle imprese. Questo

istituto no profit affiliato a CEP è nato per: “Sviluppare, stabilizzare

e verificare l’implementazione di standard volontari di

responsabilità sociale volti a consentire alle aziende di garantire ai 43 Chiesi, Martinelli, Pellegatta: “Il bilancio sociale: stakeholder e responsabilità sociale d’impresa”, il Sole 24 Ore, Milano, 2000, pagg.102 – 103. 44 Protocollo d’intesa Benetton, Filta-Cisl, Filtea-Cgil, Uilta-Uil del 15 ottobre 1998.

139

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propri clienti che i loro prodotti siano fabbricati in condizioni

lavorative umanamente accettabili”.45

Social Accountability International ha istituito il Social

Accountability 8000 (SA8000), uno standard certificabile che

assicura il rispetto di una serie di diritti umani fondamentali nello

svolgimento delle attività produttive.46 Lo sviluppo dello standard

SA8000 è avvenuta grazie all’opera di un gruppo di lavoro

composto da esperti di organizzazioni governative e non, da

associazioni che tutelano i diritti umani e dell'infanzia, da imprese

che investono in modo socialmente responsabile, da società di

certificazione e da imprese for profit.

Gli studi condotti da CEP e da SAI sui codici di condotta utilizzati

da parte delle imprese nei confronti dei dipendenti hanno portato a

riconoscere i limiti di queste regolamentazioni. Gli oltre trent’anni

di esperienza di CEP nei codici di comportamento possono attestare

la difficoltà di monitorarli e soprattutto di renderli efficaci. Proprio

con l’intento di fornire risposte più efficaci ed efficienti al problema

delle condizioni sul lavoro, SAI ha sviluppato Social Accountability

8000: “Questa norma non nasce nello stesso modo in cui si sono

sviluppate le certificazioni tecniche come per esempio le ISO 9000,

cioè da parametri stabiliti da comitati di esperti nazionali di un

settore specialistico, che formalizzano tali scelte in norme da far

condividere a livello nazionale ed internazionale percorrendo un

lungo ciclo che si allarga dall'Europa (EN) fino al mondo (ISO,

45 www.sa-intl.org/46Chiesi, Martinelli, Pellegatta: “Il bilancio sociale: stakeholder e responsabilità sociale d’impresa”, il Sole 24 Ore, Milano, 2000, pag. 30

140

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International Organization for Standardizations)”,47 bensì viene

designata per la certificazione da parte di un organismo

indipendente.

SA8000 unisce alle strategie di mercato del controllo della qualità,

contemplate negli standard internazionali, elementi, considerati

prioritari dagli esperti di diritti umani, riunendoli nella

rendicontazione sociale.

Gli aspetti caratteristici di SA8000 sono l’assistenza a consulenti ed

a manager d’azienda, il rispetto dei diritti umani e dei diritti dei

lavoratori, la tutela contro lo sfruttamento dei minori, le garanzie di

sicurezza e salubrità sul posto di lavoro ed infine la certificazione e

la verifica delle performance sociali: un’impalcatura di

responsabilità etico-sociali destinata a compagnie di ogni tipo e

dimensione in tutto il mondo.

SA8000 è basato sui principi e sulle norme internazionali delineate

nella Convenzione internazionale del lavoro, nella Convenzione sui

diritti dell’infanzia e nella Dichiarazione universale sui diritti

umani.

Social Accountability 8000 misura la performance delle imprese in

otto aree essenziali:48

1) lavoro minorile: l’impresa non può assumere dipendenti

con età inferiore ai 15 anni salvo esenzioni specifiche

concesse dalla convenzione OIL 138;

2) lavoro forzato: il lavoratore deve accettare liberamente e

senza costrizioni di sorta l’impiego nell’impresa; 47 http://www.bilanciosociale.it/sa.html48 Chiesi, Martinelli, Pellegatta, “Il bilancio sociale: stakeholder e responsabilità sociale d’impresa”, il Sole 24 Ore, Milano, 2000, pag. 30.

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3) salute e sicurezza: l’impresa è obbligata ad offrire

condizioni che non compromettano la salute o la sicurezza

dei lavoratori;

4) libertà di associazione e diritto di contrattazione collettiva:

iscrizione libera al sindacato da parte dei lavoratori, nonché

possibilità di organizzare le contrattazioni riguardanti la

qualità del lavoro;

5) discriminazioni: nessuna forma di discriminazione, sia essa

fondata su razza, sesso, religione, posizione sociale,

handicap, appartenenza ad un determinato partito politico,

può ostacolare la vita lavorativa nelle sua totalità;

6) procedure disciplinari: l’impresa non può utilizzare forme

di punizione corporale o verbale nei confronti dei

dipendenti;

7) orario di lavoro: massimo di 48 ore settimanali, con

possibilità di 12 ore di straordinario aggiuntivo. Ci deve

essere almeno un giorno libero ogni sette giorni;

8) livello salariale minimo: gli stipendi ed i salari devono

rispettare i contratti nazionali fissati per legge o quelli di

categoria. Per i Paesi in via di sviluppo le retribuzioni

devono poter salvaguardare il soddisfacimento dei bisogni

primari. Non si possono commutare trattenute salariali per

motivi disciplinari.

142

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Attraverso la certificazione SA8000 il Social Accountability

International ingloba tutti questi valori nel modello di gestione delle

responsabilità sociali.49

Un'azienda socialmente responsabile è un'azienda che s’impegna al

rispetto delle regole di etica lavorativa e ricusa apertamente

condizioni operative considerate disumane. SAI ha avviato il

programma SA8000 proprio per consentire alle aziende di garantire

ai propri clienti che i loro prodotti siano fabbricati in condizioni

lavorative umanamente accettabili. Il programma SA8000 riconosce

le diverse realtà dei vari settori merceologici e per questo propone

due direzioni alternative. Infatti, il processo d’accreditamento delle

imprese applicato da SAI attraverso lo standard SA8000, si biforca

a seconda che l’impresa sia produttrice o intermediaria di un

determinato bene/servizio. Se l’attività riguarda la vendita al

dettaglio è possibile diventare SOCIO SA8000 annunciando

pubblicamente l’impegno nella ricerca di fornitori eticamente

responsabili e fornendo loro assistenza affinché gli stessi soddisfino

gli standard internazionali. Quando si tratta di produttore o fornitore

c’è, invece, la possibilità di adottare un programma che s’adegui

alla CERTIFICAZIONE SA8000: inizialmente dietro debita

formazione, successivamente tramite la verifica di eleggibilità da

parte di un revisore di certificazione accreditato dalla SAI.

49 Così si esprime Geoffrey Chandler, presidente di Amnesty International: “SA8000 è un importante meccanismo per far sì che le pratiche del mondo degli affari si allineino sempre più ai valori della società… Attraverso l’auditing di elementi aggiuntivi rispetto ai criteri finanziari, SA8000 permetterà alle imprese di dare, per la prima volta, un significato concreto al concetto di stakeholder, e non una semplice adesione formale vuota di contenuti”.

143

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Per le grandi aziende produttrici che si occupano direttamente delle

proprie vendite è disponibile la soluzione combinata: adesione

come socio e certificazione degli stabilimenti interessati.

In concreto il processo di certificazione SA8000 prevede i seguenti

passi:50

preparazione alla certificazione: deve essere definito, da parte

dell’impresa, un manager responsabile della conduzione di

SA8000;

implementazione: prevede la formazione del personale e la

messa per iscritto delle procedure che l’azienda adotta per

l’adeguamento allo standard;

pre-audit: l’impresa svolge una specie di simulazione al suo

interno per verificare che tutti i requisiti richiesti da SAI siano

conformi ad SA8000;

audit: una società di revisione accreditata da Social

Accountability International verifica l’adeguamento allo

standard;

sorveglianza e monitoraggio: la certificazione ottenuta non è

valida per tutta la vita dell’impresa; essa deve essere

periodicamente monitorata dall’esterno e finalizzata al

miglioramento continuo.

Un numero sempre crescente d’imprese è attualmente seguito nel

proprio adeguamento agli standard proposti da SA8000 e molte

sono in lista per entrare in questo alternativo codice di

responsabilità sociale.

50Chiesi, Martinelli, Pellegatta, “Il bilancio sociale: stakeholder e responsabilità sociale d’impresa”, il Sole 24 Ore, Milano, 2000, pag. 30.

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3.7.2 Standard di riferimento per la rendicontazione

sociale: AA 1000

L’AccountAbility 1000 (AA1000) è uno standard sviluppato a

partire dal 1999 dall’Institute for Social and Ethical Accountability

(ISEA), un istituto di accreditamento e certificazione con sede in

Gran Bretagna. Si tratta di un’organizzazione fondata nel 1996 e

costituita da membri internazionali. I suoi scopi generali sono di

favorire la responsabilità sociale ed il comportamento etico della

comunità economico-finanziaria attraverso:

la promozione di migliori pratiche di accounting, auditing e

reporting sociale ed etico;

lo sviluppo di standard internazionali e di procedure di

accreditamento nel campo professionale.

L’attività di social and ethical accounting, auditing e reporting,

rappresenta il processo attraverso il quale si può valutare,

comunicare e migliorare la performance etica e sociale di

un’impresa, misurando l'impatto sociale delle sue attività, ed il

livello etico dei suoi comportamenti organizzativi, in relazione ai

suoi scopi ed a quelli dei suoi stakeholder. In altre parole si tratta

dell’attività di rendicontazione, certificazione e comunicazione

etica e sociale; più precisamente:51

51 Chiesi, Martinelli, Pellegatta: “Il bilancio sociale: stakeholder e responsabilità sociale d’impresa”, il Sole 24 Ore, Milano, 2000, pag. 54 - 55.

145

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l’accounting indica la creazione di una “contabilità” per

misurare la performance etico-sociale dell’impresa, mediante

indicatori quantitativi e valutazioni di carattere qualitativo;

l’auditing rappresenta la possibilità che terzi verifichino il

processo di raccolta delle informazioni, nonché la loro

veridicità e completezza.52

il reporting, infine, indica la pubblicazione di un documento

con cui l’impresa informa tutti gli stakeholder circa la propria

performance etico - sociale.

Il principio fondamentale sul quale si basa l’AA 1000, e dal quale

discendono poi gerarchicamente tutti gli altri, è quello

dell’accountability, ossia la capacità di “render conto”, di

“spiegare” o dare giustificazione delle azioni ed omissioni delle

quali l’impresa è responsabile verso quanti hanno un interesse

legittimo nei suoi confronti”.53 Per poter rendere efficacemente

conto del proprio operato, l’impresa deve altresì soddisfare i

seguenti principi di qualità, che sono diventati parte fondamentale

nell’implementazione dell’AA1000. Essi sono:54

Completezza: nessuna area di attività deve essere esclusa

dalla valutazione etica e sociale.

Confrontabilità tra performance sociali dell’impresa in

diversi periodi e rispetto a quelle di altre aziende.

52 I principi base da rispettare da parte del social auditor (verificatore) sono: integrità, obiettività ed indipendenza, competenza professionale, comportamento professionale (rigore, giudizio, chiarezza), riservatezza, adeguata attenzione agli stakeholder (http://www.bilanciosociale.it/accountability.html). 53 Chiesi, Martinelli, Pellegatta: “Il bilancio sociale: stakeholder e responsabilità sociale d’impresa”, il Sole 24 Ore, Milano, 2000, pag. 59. 54 Chiesi, Martinelli, Pellegatta, “Il bilancio sociale: stakeholder e responsabilità sociale d’impresa”, il Sole 24 Ore, Milano, 2000, pagg.59-60.

146

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Inclusività delle opinioni e delle valutazioni degli

stakeholders: la voce di tutti gli interlocutori sociali deve

emergere chiaramente ed in modo paritetico. L’obiettivo è

quello di costruire relazioni stabili con gli stakeholder.

Qualità dell’informazione: le informazioni devono risultare

affidabili, comprensibili e significative.

Regolarità e tempestività: l'attività deve essere regolare,

sistematica e tempestiva.

Comunicazione: l’impresa deve pubblicare il suo rapporto

finale e quello del social auditor esterno, rendendoli altresì

facilmente accessibili a chiunque ne faccia richiesta.

Verifica esterna: il social auditor, cui si è fatta menzione nel

punto precedente, è investito del compito di verificare la

qualità del processo di Seaar.

Integrazione nei sistemi di gestione: l’attività di Seaar non

deve essere vissuta come un’attività separata, ma bensì va

integrata nei normali sistemi operativi e gestionali.

Miglioramento continuo.

La struttura di AA1000 è frutto dell'evoluzione nei processi di

bilancio, auditing e reporting etico dovuti alla pratica, alla loro

applicazione concreta, all'elaborazione di studiosi ed a standard già

esistenti. Si tratta di un modello in evoluzione continua che propone

di migliorarsi nel tempo e di adattarsi alle nuove sfide che

incontrano le imprese. Questo standard, che a differenza di quelli

analizzati nei precedenti paragrafi è caratterizzato dalla centralità di

tutti gli stakeholder, vuole assistere le aziende nel definire obiettivi

147

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ed indirizzi nonché favorire processi di implementazione,

certificazione e rendicontazione delle loro performance etico-

sociali.

AA1000 non è uno standard certificabile, ma uno strumento per

incoraggiare l'innovazione sui principi chiave di qualità, fornendo

garanzie agli stakeholders; sotto questo aspetto si può parlare di una

serie di linee guida. Le indicazioni proposte da AA1000 vogliono

strutturare un utile impalcatura su cui le imprese creano e misurano

le proprie performance sociali, facilitando la comprensione ed il

giudizio da parte degli stakeholders. ISEA sviluppa questo standard

per rendere unificanti, veritieri e comprensibili per un pubblico più

esteso le valutazioni sociali elaborate dalle imprese.

Due sono le possibilità di utilizzo:55

come integrazione e rafforzamento della qualità di standard

di contabilità specializzata;

come sistema e processo autonomo per gestire e comunicare

la performance e la responsabilità sociale ed etica.

L’AA 1000 non è uno standard di performance, bensì di processo:

ovvero specifica i processi che un’organizzazione dovrebbe seguire

per rendere conto della sua performance, e non i livelli di

performance che dovrebbe raggiungere.

Esso si articola in cinque fasi che si sviluppano prevalentemente in

maniera lineare, anche con possibilità di ripetizione:

Planning. Vengono definiti gli obiettivi sociali ed etici

dell'organizzazione e vengono identificati gli stakeholders.

55 http://www.bilanciosociale.it/accountability.html

148

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Accounting. Viene stabilito lo scopo del processo, vengono

raccolte ed analizzate le informazioni, identificati gli

indicatori e gli obiettivi, sviluppato un piano di

miglioramento.

Auditing e reporting. Viene realizzata una comunicazione

scritta o verbale (report) da sottoporre agli stakeholders per

ottenere il necessario consenso.

Embedding. Vengono istituiti sistemi (raccolta e gestione

delle informazioni, implementazione dei valori, audit

interna), al fine di rafforzare il processo e integrarlo nel

migliore dei modi;

Stakeholder engagement. L'impresa in tutte le fasi del

processo rimane in stretto collegamento con i suoi pubblici.

L’ Institute for Social and Ethical Accountability elenca anche le

diverse utilità apportate da AA1000:

consente di misurare gli indicatori chiave di performance

sociale;

migliora la gestione della qualità nei rapporti con gli

stakeholders;

favorisce il rapporto con il personale dipendente;

accresce la fiducia degli stakeholders esterni;

migliora ed aiuta a mantenere buoni i rapporti di partnership;

aiuta a valutare e gestire meglio i rischi che si possono

presentare nelle relazioni esterne (reputazione, marchio);

soddisfa le sempre più complesse esigenze informative degli

investitori;

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sostiene la gestione dell'impresa;

facilita i rapporti tra Istituzioni pubbliche ed impresa;

favorisce la formazione e l'identificazione di fornitori di

servizi qualificati.

L’AA 1000 rappresenta un modello dinamico che mira ad un

miglioramento continuo, attraverso un approccio progressivo che

consente la sua costruzione nel tempo.

L’AA1000, abbiamo detto, è uno standard di processo: non indica

requisiti minimi da soddisfare, ma i processi che le organizzazioni

dovrebbero seguire per rendicontare le performances etico-sociali, il

suo problema è che non è certificabile.

3.7.3 Standard di riferimento per la rendicontazione

sociale: il GBS

Il GBS (gruppo di studio per la statuizione dei principi di redazione

del bilancio sociale) è sorto ufficialmente nel 1998, anche se l’idea

della sua creazione risale all’anno precedente in occasione del

seminario internazionale tenutosi nel giugno del 1997 a Taormina,

dove emerse l’esigenza di costituire, per l’appunto, un gruppo in

grado di fare chiarezza in una materia, quella del bilancio sociale,

che andava acquistando sempre più un’importanza crescente, ma

che al contempo presentava dei caratteri non del tutto delineati. A

questo comitato hanno aderito spontaneamente ed a più riprese

studiosi di differenti discipline nonché operatori qualificati che

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hanno maturato nel corso degli anni una grande esperienza.56Questa

crescente attenzione è dovuta all’affermarsi della dimensione

sociale dell’impresa, quale organismo responsabile che persegue un

tipo di sviluppo definito “sostenibile”, ossia compatibile con le

grandi istanze della civiltà moderna, che sono poi quelle della

centralità dei valori, dei diritti umani e dell’ambiente così come

fermamente ribadito dall’ONU, la più alta espressione istituzionale

mondiale. In questo contesto il GBS ha inteso apportare il proprio

contributo definendo le caratteristiche di uno strumento di

rendicontazione sociale che, affiancando gli strumenti informativi

tradizionali, possa fornire ai diversi pubblici informazioni sugli

effetti sociali che scaturiscono dalle scelte aziendali. In particolare

il GBS procede a definire le caratteristiche del bilancio sociale, ne

illustra i principi di redazione e ne descrive la struttura ed il

contenuto. E’sufficiente definirne le linee guida generali:

il bilancio sociale è un documento autonomo; l’autonomia va

però intesa in senso relativo: cioè deve riguardare il

56 Il gruppo di studio è composto da: Francesco Vermiglio (Università di Messina) – Presidente; Ondina Gabrovec Mei (Università di Trieste) – Vice Presidente; Claudio Badalotti (Ordine dei Dottori Commercialisti di Milano); Leandro Barozzi (Arthur Andersen); PierMario Barzaghi (KPMG, una delle maggiori organizzazioni professionali mondiali nel campo dell’organizzazione e revisione contabile); Ruggero Bodo (Sodalitas); Mario Boella (KPMG); Mauro Castelli (Resoconta Ernst & Young); Stefano Cavazza (Smaer, società di consulenza di direzione operante dal 1982 nel settore dell’economia sociale); Gianfranco Cavazioni (Università di Perugia); Antonio Chiesi (Università di Trento); Franco Dalla Sega (Università Cattolica di Milano); Tina Giglio (Smaer); Riccardo Giovannini (Arthur Andersen); Luciano Hinna (Università di Tor Vergata di Roma); Fabrizio Iannoni (KPMG); Carlo Luison (PricewaterhouseCoopers); Libero Mario Mari (Università di Perugia); Alberto Martinelli (Università di Milano); Roberto Marziantonio (Istituto europeo per il bilancio sociale); Antonio Matacena (Università di Bologna); Mario Molteni (Università Cattolica di Milano); Mario Porcellini (Università La Sapienza di Roma); Pietro Portaluppi (Consiglio Nazionale dei Ragionieri e Periti Commerciali); Luisa Pulejo (Università di Messina); Enrico Rimoldi (Strategia d’immagine, una delle più qualificate strutture specialistiche di comunicazione strategica d’impresa); Gianfranco Rusconi (Università di Bergamo); Lorenzo Sacconi (Università Cattaneo di Castellanza); Alberto Salsi (Reconta Ernst & Young); Claudio Travaglini (Università del Molise); Alessandra Vaccai (Smaer); Mario Viviani (Smaer).

151

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documento e non le informazioni in esso contenute, le quali,

anzi, devono presentare un forte aggancio con delle fonti

certe e verificabili. In questo modo si eviterà il rischio che le

suddette informazioni si trasformino in mere dichiarazioni

d’intento, prive di significato e non idonee a confronti

spaziali e/o temporali;

è un documento a consuntivo, redatto periodicamente con

cadenza annuale;

è un documento pubblico, rivolto quindi ai vari interlocutori

sociali;

deve essere approvato dall’organo di governo dell’azienda,

con susseguente sottoscrizione da parte di chi possiede la

relativa rappresentanza;

la sua stesura deve avvenire nel rispetto dei principi generali

di redazione.57

Per quanto concerne la struttura, il bilancio sociale si compone di

tre parti:

1. identità aziendale

2. calcolo del valore aggiunto e sua distribuzione

3. relazione sociale

Per ciascuna delle tre parti si indicherà il contenuto minimo che

dovrà esser presente al fine di poter qualificare il documento in

oggetto quale bilancio sociale.

57 I principi di redazione sono in tutto 17.

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