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36 3. I SEGRETI COSTRUTTIVI Il metodo di costruzione delle barche a scafo tondo, piccole e grandi, trae le sue origini dall’antichità e si basa su una struttura formata da una chiglia, dritti di prua e di poppa e successivamente da ordinate rivestite di fasciame. Tale metodo costruttivo conferisce alle imbarcazioni notevole robustezza. Interni cantiere DA.RO.MAR.CI. SNC di Cintura Salvatore Andrea e C

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3. I SEGRETI COSTRUTTIVI

Il metodo di costruzione delle barche a scafo tondo, piccole e grandi, trae le sue origini dall’antichità e si

basa su una struttura formata da una chiglia, dritti di prua e di poppa e successivamente da ordinate rivestite

di fasciame.

Tale metodo costruttivo conferisce alle imbarcazioni notevole robustezza.

Interni cantiere DA.RO.MAR.CI. SNC di Cintura Salvatore Andrea e C

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FASI ESSENZIALI DELLA COSTRUZIONE DI UNA BARCA TRADIZIONALE DA PESCA A

VELA LATINA

Il processo di costruzione di una imbarcazione, qualunque sia la sua lunghezza, si basa sulla sequenza delle

seguenti operazioni: messa a punto del progetto, preparazione del materiale, impostazione della barca, posa

delle ordinate, cintatura e finitura della coperta, fasciatura, calafataggio, verniciatura, posa dell’attrezzatura

velica, battesimo e varo.

a) MESSA A PUNTO DEL PROGETTO

Il tipo e le dimensioni della barca erano dettate da molteplici fattori quali il denaro disponibile, i mestieri

che si intendevano privilegiare e non ultimo il luogo dove la barca era destinata a fare base (fari scalu).

Determinante, per la scelta delle dimensioni, era la necessità o meno di continui alaggi che finivano con

lo scoraggiare la realizzazione di barche di una certa stazza.

Anticamente per la tracciatura delle ordinate non si ricorreva ai piani di costruzione totalmente

sconosciuti fino ad inizio XX secolo ma si utilizzava il “mezzo garbo”.

IL MEZZO GARBO

Mastro Nardo Barraco con in mano il mezzo garbo

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Il termine garbare nel gergo cantieristico significa essenzialmente definire la forma dello scafo, e quindi

anche quella delle strutture che lo compongono. Per fare ciò i costruttori hanno utilizzato una tecnica che

prevedeva l’impiego del mezzo garbo.

Le origini dell’attrezzo sono quantomeno secolari ed il suo corretto uso fa parte di uno dei tanti segreti

del mestiere, che vengono tuttora custoditi gelosamente e tramandati da padre in figlio. Il mezzo garbo è

uno strumento di legno, spesso poco più di un centimetro, che riproduce esattamente il profilo

dell’ordinata maestra dello scafo in costruzione.

E’ il frutto di anni di esperienza, di attente verifiche e di successivi adattamenti. La tecnica detta del

mezzo garbo è applicabile a scafi la cui carena, alla sezione maestra, sia di forma piena e poco o non

stellata.

Su di esso sono tracciati alcuni segni numerati che opportunamente utilizzati permettono, unitamente ad

altri elementi di riferimento, la corretta sagomatura delle ordinate (madieri e staminali) del corpo

centrale dello scafo. Un gruppo di questi segni tracciati sulla sua parte bassa, dall’asse di simmetria

(corrispondente al centro dell’ordinata maestra) verso il ginocchio (punto di raccordo tra il madiere e lo

staminale), serve a determinare l’accorciamento progressivo delle ordinate al madiere, dalla sezione

maestra verso le estremità opposte di poppa e prora; gli altri elementi di riferimento tracciati sul mezzo

garbo sono utilizzati per ottenere la progressiva stellatura dei madieri e il graduale slancio laterale degli

staminali man mano che i madieri stessi si accorciano e diventano più stellati (cioè il loro profilo si

avvicina gradatamente alla V). Altro segno tracciato sul mezzo garbo è la scusa una linea tracciata

all’altezza del ginocchio che serve a stabilire l’esatto punto di contatto tra madieri e staminali.

Le ordinate del corpo centrale ottenute con il mezzo garbo sono coppie simmetriche in senso speculare,

dal centro verso poppavia e da questo verso proravia, per circa un terzo dello scafo e variano da un

minimo di cinque coppie per un gozzetto di quattro metri, ad un massimo di dieci-dodici per una barca di

otto-dieci metri di lunghezza.

L’utilizzo del mezzo garbo non è condizionato dalla stazza della barca, potendosi con esso tracciare il

profilo delle ordinate quale che fosse la misura richiesta.

Lo strumento deve essere delle stesse dimensioni del natante da costruire, perciò nel passato il mastro ne

possedeva un certo numero di diverse grandezze

Pur ubbidendo ad un unico principio circa il suo funzionamento, il metodo del mezzo garbo consente nel

suo utilizzo, alcuni adeguamenti che connotano le caratteristiche degli scafi di una data località; il mastro

costruttore, una volta impostate le dimensioni, pur seguendo lo stesso schema operativo, può giostrare

quei particolari che danno alla barca le caratteristiche per renderla differente dagli stessi tipi costruiti

dagli altri artigiani.

Era frequente sentire dire nell’ambito cantieristico che “ U MASTRU AVI UN BEDDU AIBBU ”

facendo riferimento alla tecnica e all’abilità acquisita dall’artigiano.

b) PREPARAZIONE DEL MATERIALE

Un tempo per l’impostazione delle piccole imbarcazioni da pesca vi era molta disponibilità di legname

locale che, al contrario di oggi, si lasciava stagionare rigorosamente. La barca è in legno, ma il legno non

è tutto uguale. A seconda della posizione e della funzione delle varie parti nella struttura della barca sono

richieste determinate proprietà, che a loro volta corrispondono a specifiche qualità del legno e dunque a

tipi ben precisi di legno. Per la chiglia la proprietà più importante è la resistenza e quindi per la sua

durezza la quercia è il legno ideale, per le ordinate il gelso, l’olmo e il carrubo, mentre per il fasciame

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che dovrà affrontare il continuo contatto con l’acqua, è richiesta fondamentalmente l’impermeabilità, il

legno più usato era il pino e il Pich.Pine.

Alcune parti della struttura richiedono una particolare curvatura (ruote e contro ruote di prua e di poppa,

ordinate) e quindi la scelta dei tronchi va effettuata in funzione dei singoli pezzi. La bontà della

costruzione dipende in gran parte proprio dalla scelta del legname adatto per ciascun pezzo, oltre che dal

taglio e dalla stagionatura.

Infatti ogni elemento della barca, per avere la necessaria robustezza, deve essere costruito in modo che le

fibre del legno seguano la forma del pezzo stesso.

Le parti più sottili, come ad esempio le tavole del fasciame, vengono perciò ricavate da legnami a fibra

diritta e quindi curvate, anche con l’ausilio del vapore, fino ad assumere la forma necessaria. Quelle più

spesse invece, come costole, madieri, ruote di prua e poppa, braccioli ecc., si ricavano da legnami di

piante che hanno già una curvatura naturale nelle loro ramificazioni.

Dopo aver ricavato tramite il mezzo garbo le sagome in legno delle ordinate, il mastro marina ricerca tra

i tronchi disponibili quelli che hanno la stessa curvatura delle ordinate. Trovato il tronco adatto viene

segnato da entrambi i alti e tagliato con le seghe elettriche, un tempo il taglio veniva effettuato, a mano

tramite una sega, da due giovani di bottega che si disponevano uno al di sopra del tronco e l’altro sotto,

facendo attenzione a seguire con la lama i segni tracciati precedentemente.

Cantiere Marciante: stagionatura del legname

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Cantiere Stabile: taglio manuale di un grosso tronco

c) IMPOSTAZIONE DELLA BARCA

La prima operazione era quella di preparare la chiglia, le ruote di prua e di poppa, le relative controruote

e i dritti di prua e di poppa. Questi elementi venivano collegati tramite incastri e il tutto veniva

posizionato (misu accavaddu) su di una robusta trave livellata e saldamente ancorata a terra.

In base alle dimensioni dell’imbarcazione e del legname disponibile, la chiglia poteva essere ricavata da

un’unica tavola o da due ed anche i dritti di prua e di poppa potevano inglobare le rispettive ruote.

La chiglia era articolata in tre pezzi, uno centrale e le due ruote di prua e di poppa. Questi elementi erano

realizzati in duro legno di quercia e non prima di aver sottoposto il legname a una buona stagionatura

comprendente anche un lungo periodo di immersione in acqua di mare. Le parti erano assemblate per

mezzo di incastri (palieddi) e chiodi zincati, mentre le contro ruote venivano a rinforzare dall’interno gli

incastri di prua e di poppa. La chiglia veniva posizionata su di una robusta trave livellata e saldamente

ancorata a terra (misa accavaddu). Una serie di tacchetti puntelli e tiranti la bloccavano in linea e con i

dritti perfettamente verticali (a piombo). Era questa un’operazione che richiedeva particolare attenzione

perché ogni malaugurata deviazione della ruota, dovuta ad imperizia o a un drastico cambiamento del

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grado di umidità nell’aria, avrebbe tarato la barca rendendola incapace di seguire una rotta senza

continue correzioni di timone. Una barca con questo difetto sarebbe stata motivo di rassegnata

disperazione in ogni vero pescatore.

Impostazione chiglia e dritti di prua e poppa in una barca lunga

d) POSA DELLE ORDINATE

Le ordinate, insieme alla chiglia e alle sue parti, costituivano la struttura portante della barca.

Sulla chiglia impostata venivano segnati i punti dove sarebbero stati posizionati i madieri e i zanconi

(zzancuna, prime ordinate della parte prodiera e di quella poppiera). La distanza interasse fra i madieri

era di circa 18 cm. per imbarcazioni sui 10 metri di lunghezza, piccole tolleranze erano ammesse solo per

garantirne una regolare distribuzione.

Il madiere poggiava sulla chiglia e assieme ai due staminali, uno per lato, costituivano l’ordinata (corba).

Queste parti venivano ricavate da assi segate da tronchi appositamente scelti per la naturale curvatura che

presentavano. Tale scelta era finalizzata a rendere più resistente la struttura dato che le fibre del legno

orientate e senza interruzioni risultavano meno soggette a spezzarsi.

I madieri e gli staminali della parte centrale dello scafo, ricavati tramite il mezzo garbo, dopo essere stati

assemblati con chiodi zincati, venivano fissati alla chiglia. Dopo accurate misurazioni le ordinate

venivano bloccate provvisoriamente nella loro posizione con una serie di flessibili listelli spessi poco più

di un centimetro e larghi circa cinque (forme), disposti longitudinalmente a più livelli; questi listelli

inchiodati provvisoriamente alle ordinate venivano tolti nel momento in cui si metteva in opera il

fasciame esterno. Queste forme, ai fini della costruzione erano insostituibili, perché svolgevano una

duplice funzione: di guida e di controllo. Di guida, perché servivano ai mastri per garbare le ordinate più

estreme dello scafo, quelle cioè che normalmente non vengono ricavate direttamente con il mezzo garbo;

e di controllo, perché nel contempo prefiguravano di fatto la definitiva forma di carena dello scafo in

costruzione. La zanconatura (inchimentu) completava l’ossatura. Ognuno di questi elementi veniva

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sagomato utilizzando un tondino di ferro, controllandone il perfetto adattarsi alle forme e intervenendo se

si fossero resi necessari piccoli aggiustamenti. La barca a questo punto cominciava a mostrare la sua

struttura. Si procedeva a tracciare la linea dei bordi stabilendo così sia l’insellatura che l’altezza del

bordo libero.

Impostazione delle ordinate centrali in una barca lunga

Impostazione di tutte le ordinate

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Sopra i madieri si posizionava una spessa tavola che rendeva solidali i madieri stessi con la chiglia tramite

dei perni passanti.

Paramezzale di una barca lunga

e) CINTATURA E FINITURA DELLA COPERTA

L’applicazione della cinta, “a cintiata” (a tavula da cinta) era un momento decisivo nel processo

costruttivo, inchiodata su tutte le ordinate e ai dritti, costituiva il primo filo di fasciame e una linea di

riferimento per molte delle operazioni successive.

A cintiata veniva completata dall’applicazione della controcinta che, inchiodata dall’interno, contribuiva

a serrare saldamente tutti gli staminali.

Impostazione della cinta, dei banchi e delle centine

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Ora si procedeva a segnare i punti dove piazzare banchi e centine. Questa operazione segnava la

distribuzione degli spazi interni che dovevano rispondere ad esigenze sia strutturali che funzionali. Gli

spazi coperti a poppa e a prua utilizzabili come ricoveri, la distanza tra i banchi per favorire la voga, tutti

gli elementi utili ad un migliore esercizio del mestiere, venivano presi in considerazione. Robusti banchi

in cipresso incastrati alla controcinta e bloccati con squadre (vrazzuola) in legno di gelso venivano ad

assumere anche la funzione di centine. Particolare attenzione era rivolta a quello destinato a reggere

l’albero. Era infatti in uno dei banchi di prua che si ricavava la mastra nella quale, una solida staffa di

ferro (cucciddatu) avrebbe tenuto bloccato l’albero quando veniva armato.

Fissate le centine che delimitavano gli spazi di poppa e di prua, si potevano realizzare le coperture di tali

spazi. La parziale pontatura della barca veniva completata dalle due corsie di deflusso laterali (curritura).

Le tavole che costituivano i bordi esterni di queste presentavano dei fori in corrispondenza degli

staminali e venivano messe in opera dall’alto facendo entrare nei fori le estremità superiori degli stessi.

Queste tavole poggiavano sulla cinta e sporgevano per circa tre centimetri dalla murata. Sui bordi interni

di queste due corsie le mastre impedivano all’acqua di finire all’interno e ne favoriva il deflusso dagli

obrinali.

Il bordo, in più pezzi impalellati, era realizzato in due strati. L’inferiore si incastrava alle teste degli

staminali seguendo la linea dell’insellatura; il superiore, su cui erano fissati gli alloggi per gli scalmi

(nuottuli), si piantava sul primo dopo che le parti in eccesso degli staminali erano state rasate. Due

listelli: l’uorru facci all’esterno e a nfurrietta all’interno, una volta inchiodati, oltre a rinforzare

guarnivano il bordo coprendone allo stesso tempo le linee di sconnessura.

Impostazione orlo, fascia ombrinali, cinta e prima tavola a ridosso della chiglia

Due robusti forcazzi, applicati di rinforzo a poppa e a prua, bloccavano fra di loro e contro i dritti i bordi

che lì convergevano. Nelle barche lunghe la prua era resa più asciutta alzandola con l’applicazione di due

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falche ancorate fra il dritto di prua e due solidi blocchi (nuttuluna) che fungevano anche da supporto per

gli scalmi quando si rendeva necessaria l’azione di un vogatore a prua.

Nello spazio tra il bordo e il piano delle corsie di deflusso veniva inserito il filo di fasciame (a tavula i

buinali) sul cui margine inferiore e in corrispondenza di ogni staminale erano ricavati gli ombrinali.

Impostazione forcazzi e falche

f) FASCIATURA

La struttura della barca a questo punto permetteva la rimozione dei puntelli e dei tacconi che la tenevano

impostata. Adagiata su di un fianco si poteva posizionare il primo filo di fasciame a ridosso della chiglia

(a tavula a pascima) e quello immediatamente successivo. Questa operazione ripetuta sull’altro lato

conferiva alla barca una resistenza strutturale tale da consentirne anche il trascinamento.

Per il fasciame privilegiate erano le assi di pulintinu e di “pitch pine” (piscepaine) che presentavano

pochi nodi e una venatura integra e compatta. Ogni corso di fasciame, in uno o due pezzi a seconda della

lunghezza della barca, dopo piallato, veniva fissato provvisoriamente agli staminali utilizzando dei

sergenti. Piegandolo attorno all’ossatura se ne correggeva lo sviluppo, ora rifilandolo con la sega ora

lavorando di pialletto ( si frischiavanu i tavuli).

Quando, per aderire agli zanconi e alle pascine (incavi ricavati sulla chiglia, le ruote di prue e poppa e sui

dritti di prua e poppa nei quali si inserisce il bordo della prima tavola del fasciame e le testate delle altre),

era costretto a subire delle torsioni, il fasciame veniva prima inumidito e poi fiammato ( si fuchiava)

oppure immerso in lunghi parallelepipedi metallici contenenti acqua bollente.

Le tavole rese così più morbide si potevano torcere senza provocare alcuna lesione. Dopo prove,

smontaggi e aggiustamenti successivi, ogni corso, perfettamente aderente e bloccato dai sergenti poteva

essere inchiodato.

Completata l’opera di fasciatura si poteva procedere a rifinire gli interni e ad approntare il pagliolo.

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Inserimento di una tavola all’interno del contenitore d’acqua calda

Fasciatura varca longa

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g) CALAFATAGGIO

Quando la barca era completata, veniva affidata all’opera specializzata del calafato, armato di mazzuolo

di legno e di tutta una serie di scalpelli (fierri i calafatari). Il maestro calafato era indispensabile dato che

tutte le barche erano costruite con tavole di legno affiancate. Questo artigiano provvedeva a guarnire le

fessure tra le varie tavole del fasciame (comenti) con stoppa catramata o con stoppa ricavata anche da

filacce di vecchio cordame. La fibra vegetale veniva appena arrotolata e inserita nella fessura tramite uno

scalpello e con decisi colpi di mazzuolo in legno. Uno scalpello, senza taglio e anzi fornito di una sottile

scanalatura, permetteva di forzare la stoppa senza danneggiare il fasciame. Dopo questa operazione il

fasciame veniva impregnato prima di minio, i comenti venivano stuccati e poi si passava alla fase della

pitturazione vera e propria dell’opera viva e di quella morta.

Una volta messa in acqua l’imbarcazione le tavole del fasciame assorbendo umidità e aumentando il loro

volume avrebbero compresso la stoppa assicurando la perfetta tenuta contro ogni infiltrazione.

L’opera del calafato era necessaria sia sulle imbarcazioni di nuova costruzione che su quelle affaticate da

anni di continuo uso e necessarie di interventi di ripristino sul fasciame.

I calafati trapanesi erano ben conosciuti in tutta la Sicilia per la loro bravura e per l’elevato numero, tanto

che furono chiamati diverse volte a Palermo per svolgere il loro mestiere in quegli arsenali quando si

armò una flotta per affrontare i pirati barbareschi.

Attrezzi calafato, martello e vancu

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Allargamento del comento

h) VERNICIATURA

L’usanza di dipingere lo scafo aveva una doppia funzione: preservarlo dagli agenti atmosferici al fine di

renderlo più durevole nel tempo e procurarsi la protezione divina, in quest’ultimo caso dipingendo delle

immagini sacre.

Particolare cura era rivolta alla pitturazione dello scafo per preservare sia il legno che la chiodatura. Ogni

chiodo, una volta piantato, veniva ribattuto con una spina (ribuscio) sino a farne penetrare la testa nel

legno per qualche millimetro. Una buona stuccatura avrebbe così meglio protetto le teste assicurandone

una tenuta per lungo tempo. Il primo trattamento, sin dalle prime fasi costruttive, era quello di

impregnazione di tutto il legno con una miscela di olio di lino e minio di piombo, la prima mano più

diluita e le altre più dense.

Sopra questo strato protettivo venivano applicate diverse mani di pittura il cui colore variava a seconda

delle varie parti (interni, coperta, opera morta e viva) dell’ imbarcazione.

Anticamente la carena e il fondo della barca venivano impeciati a caldo. Impermeabilizzata così l’opera

viva era messa nelle condizioni di resistere a lungo all’azione dell’acqua di mare.

i) ATTREZZATURA VELICA E REMIERA

Mano a mano che la costruzione procedeva, il mastro marina realizzava i remi in faggio, l’albero in pitch

pine, le antenne in abete e tutti gli elementi dell’attrezzatura a vela latina.

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Albero, antenna e manovre di una barca lunga

Elemento essenziale e centrale della barca era la velatura. Era questa che l’avrebbe trasformata in

un’agile creatura capace di volare sulle onde.

La velatura era costituita principalmente da una vela latina a cui spesso si associava un fiocco (pilaccuni)

murato su di un’asta.

Anche se la realizzazione delle vele era affidata normalmente a velai professionisti, la marineria

trapanese ha avuto pescatori particolarmente abili che si sono distinti in questa arte. Esercitandola come

mestiere, se non alternativo almeno integrativo, hanno finito col raggiungere livelli tali da essere preferiti

in qualche caso ai velai professionisti. Questi marinai erano capaci non solo di progettare su misura la

vela per ogni imbarcazione, ma anche di individuare e correggerne gli eventuali difetti.

Dediti a mistieri che li vedevano ora spingersi molto al largo (nte mari di fuora), ora affrontare lunghi

percorsi verso più propizie zone di pesca anche se sottocosta, alcuni equipaggi proprio perché più esposti

agli improvvisi cambiamenti del tempo avevano particolare cura della velatura. Se la vela grande (vila

ranni) era d’obbligo e anche se questa era fornita di terzaroli per poterne ridurre la superficie in caso di

vento teso, i pescatori preferivano avere in barca antenna e vele ridotte a cui fare ricorso in caso di

cattivo tempo.

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f) POSA IN OPERA DELL’ATTRERZZATURA VELICA

L’armamento dell’attrezzatura velica cominciava dall’impostazione dell’albero, se nelle barche più

piccole questo poteva essere tranquillamente maneggiato per il suo peso contenuto, in quelle più grandi

l’operazione richiedeva l’azione combinata di diversi membri dell’equipaggio. La prima cosa da fare era

passare la drizza in doppio nelle pulegge all’estremità dell’albero, questo nelle piccole barche, veniva

imbarcato da terra con l’ausilio di un rullo (miulieddu), all’occorrenza montato a poppa, non appena il

piede era prossimo al banco della mastra veniva bloccato; con la drizza e il suo paranco dato di volta al

dritto di prua, si alava per metterlo in verticale. Due marinai tenevano in equilibrio l’albero anche con

l’ausilio di due cime mentre un quarto, guidando il piede verso la scassa, si teneva pronto a bloccare

l’albero nella mastra con una staffa di ferro.

Una volta sistemato l’albero nella sua sede si procedeva alla inferitura (ammantata) della vela

sull’antenna. Per prima si assicurava la penna all’estremità dell’antenna e successivamente si inseriva

l’estremità del carro nell’occhio di mura, i due pezzi (carru e pinna) venivano fatti scorrere l’uno

sull’altro ricorrendo anche all’uso di un paranco, e sino a dare la giusta tensione all’inferitura. Quando

questa era ritenuta sufficiente, serrati con le trinche (capiddi) carro e penna, si legavano con un nodo

piano i matafioni completando così l’inferitura.

Un altro modo per inferire la vela consisteva nel serrare, con le trinche, carro e penna e successivamente

si fissava per prima la mura all’estremità anteriore dell’antenna (il carro), e si metteva in tensione l’intera

inferitura tramite un paranchetto collegato all’estremità opposta (la penna), infine si dava volta a tutti i

matafioni. Alcuni preferivano invece fissare prima la penna, e regolare la tensione dell’inferitura dal lato

del carro, in modo da poterlo fare anche in navigazione.

L’operazione successiva consisteva nel passare la drizza in doppio a scorsoio intorno all’antenna e

fermata con un coccinello ricavato spesso dalla resistente tibia di un ovino. La trozza (cuddura) passata

intorno a drizza e albero veniva serrata con l’ausilio del suo paranco solo dopo che l’antenna era stata

issata e messa a segno. L’orza veniva rinviata verso poppa dal bertoccio legato al dritto di prua, mentre la

poggiastrella che doveva restare sopravento veniva spostata ad ogni cambio di mura.

g) VARO E BATTESIMO

Quando la barca veniva ultimata e completata di vele e attrezzatura, tirata a lucido, veniva alata su dei

parati (pezzi di legno con una leggera incavatura al centro) lubrificati con sego sino allo scalo. Qui

attendeva l’ultimo atto che l’avrebbe resa pronta a prendere la via del mare. Nel passato il maestro

d’ascia che l’aveva costruita assumeva le funzioni di officiante. Poco prima del varo, scriveva il Pitrè, “il

costruttore dopo aver recitato delle preghiere domandava al padrone: siete contento del mio lavoro?, mi

benedite il denaro che mi avete dato?. Il padrone della barca rispondeva - Si –“.

Il costruttore rispondeva: “ed io vi benedico la barca e rivolgendosi a questa, io ti benedico tutte le volte

che sono passato dalla poppa alla prua. Il mio pensiero è stato sempre quello di farti ben dritta; io ti

benedico tutti i colpi d’ascia che ti ho dato; io ti benedico tutti i chiodi che ti ho piantato; ti benedico, o

barca, nel nome dell’Arca Santa e della S.S.Trinità. E così dicendo dava due colpi d’ascia in croce sulla

poppa, e la barca veniva varata”.

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Oggi è il prete, chiamato ad impartire battesimo e benedizione, che le impone il nome e prega perché i

santi la preservino da ogni disavventura, spargendo acqua benedetta in quantità mai ritenuta sufficiente

dal padrone.

Conclusosi il cerimoniale si dava il via al passamano di generose brocche di vino accompagnate da un

canestro di dolcini secchi.

Battesimo poco prima del varo

Tutta la comunità era invitata a festeggiare la nuova condizione acquisita dal proprietario della barca.

Più questa meta era stata agognata tanto più vino scorreva nel tentativo di esorcizzare e annegare

l’invidia palese o nascosta che il nuovo ruolo avrebbe potuto alimentare.

La cerimonia del battesimo riguardava più direttamente il pescatore, ma coinvolgeva anche il maestro

d’ascia.

Per i pescatori il battesimo, oltre che a criteri spiccatamente devozionali rispondeva ad una serie di

aspettative propiziatorie quali la protezione dai pericoli del mare e soprattutto la fortuna nella pesca.

Attraverso il battesimo le barche assumevano un nome proprio. I nomi più frequenti erano nomi di donna

(mogli, madri, figlie e fidanzate), seguivano nomi di santi e dei proprietari. Osserviamo che se,

l’attribuzione dei nomi di Santi alle imbarcazioni era un segno della religiosità dei pescatori, l’odierna

prevalenza dei nomi femminili induce ad interpretare un processo di trasformazione in cui nella cultura

dei pescatori tendono a prevalere gli atteggiamenti affettivi e familiari, con una rarefazione di quelli

religiosi. Si potrebbe forse ritenere che le maggiori garanzie di sicurezza, fornite dalla presenza a bordo

del motore e da altre attrezzature tecniche, sollecitano un atteggiamento di maggior sicurezza nei

confronti dei pericoli del mare e dunque un ridimensionamento della dipendenza rispetto ad interventi di

tipo religioso.

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SALVATORE CARUSO: VELAIO TRAPANESE

La foto ritrae Salvatore Caruso, padre di Paolo, uno dei primi, se non il primo, velaio di Trapani.

Così racconta Paolo Caruso, che nell’ambiente della marineria trapanese veniva chiamato Don Paolino, nelle

sue memorie.

“Mio nonno Paolo Caruso era un vecchio schifazzaro e per risparmiare confezionava da se le proprie vele e,

divenuto molto bravo, molti suoi colleghi lo pregarono di confezionare loro le vele per i loro schifazzi. Fu

così che, poco alla volta, si ritirò dall’abituale lavoro e cominciò la nuova attività di velaio a tempo pieno.

Poi siccome le richieste non mancavano, dato che tutte le imbarcazioni erano armate a vela, convinse le tre

figliole ad aiutarlo per il lavoro di cucitura e coinvolse anche il figlio Salvatore.

Dopo poco tempo Salvatore era diventato veramente bravo nel suo lavoro e con il passare degli anni aveva

messo su un opificio artigianale di una certa importanza, aveva assunto una quindicina di donne che

cucivano ed un vecchio nostromo che guarniva le vele. Oltre alle vele per le barche da pesca e per i

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bastimenti cuciva anche le vele utilizzate nei mulini a vento, a quel tempo numerosi, utilizzati nelle saline

trapanesi; inoltre confezionava le vele per gli schifazzi e per i mulini delle saline di Aden impiantate dai

Burgarella.

Ricorda Don Paolino che, quando era ancora piccolo, veniva in veleria l’incaricato della famiglia Bulgarella

con tanto di calesse e cavallo e chiamava: Turiddu, mio padre Salvatore correva subito e scriveva sul suo

taccuino l’ordinazione. L’incaricato diceva devi approntarmi numero sei maestre per barche grandi e sei per

barche medie, dodici pilacconi e tante vele per mulino del seguente tipo, grandi…, medie…. e piccole….

Per rispettare la data stabilita per la consegna, data l’enorme massa di lavoro, veniva fatto lo straordinario

cioè, anziché smettere la sera, si lavorava fino a mezzanotte.

Mia madre preparava la cena ai lavoranti con delle spaghettate con l’aglio e molto spesso usava cucinare i

crastuna (lumache) a ghiotta con le patate e a volte anche il pesce; per i lavoranti, che, poverini non

mangiavano così bene tutti i giorni, era una vera festa. A mezzanotte mio padre assieme a mia madre

accompagnava a casa le lavoranti per lo più molto giovani. Si cominciava a lavorare al mattino presto,

quando era ancora buio, al suono delle campane di S.Pietro, cioè alle cinque, anche con il cattivo tempo ed

in inverno. La caporale delle lavoranti, mia zia Anna, che abitava a Xitta, bussava alla porta di casa mia per

avere la chiave dell’opificio che si trovava a Porta Galli (porta addri).”

Paolo Caruso, figlio di Salvatore, essendo il primogenito di una famiglia numerosa in quanto composta da

bel 13 persone, padre, madre, 8 figli, la nonna materna e le due sorelle della madre, una vedova e l’altra

nubile, per aiutare la famiglia all’età di 15 anni cominciò a lavorare con il padre.

Nel 1908 Salvatore Caruso pensò di affiancare alla veleria un negozio di forniture navali: non era un gran

negozio, ma per i suoi clienti quasi tutti schifazzari, era più che sufficiente. In seguito, avendo aquisito molti

clienti della marina mercantile trasferì il suo negozio in via Ammiraglio Staiti e riuscì ad essere il solo

fornitore di tutte le piccole barche pantesche.

Oltre al negozio e alla veleria Salvatore Caruso si era pure dedicato alla lavorazione dei libani; questi erano

dei grossi cavi confezionati con l’alfa, una fibra che si produceva in Tunisia. Cominciò ad importare la fibra

e per la sua lavorazione assunse degli operai detti “MUNNISIDRARARA“, che cercarono in tutti i modi di

imbrogliarlo e con i quali litigava spessissimo. Dopo un pò di tempo stanco dell’andazzo li licenziò tutti.

Successivamente formò una società con i fratelli Renda che lavoravano in un magazzino lungo circa 50

metri sito nella via Mazzini. Oltre ai libani, producevano dei filetti di sfalto, cordicelle di 5-6 mm. che

venivano utilizzate nelle tonnare in sostituzione dei filetti di cocco che non era più possibile importare

dall’India. Confezionavano anche delle cordette di disa che venivano spedite a vagonate a Trieste e che

venivano utilizzate per la pesca, infine producevano dei fasci di cordetti di disa, detti aregni, che si usavano

per legare i fasci di grano appena mietuto. Tutta la produzione era affidta a 6 operai che filavano e ad un

cardatore (operaio che tramite la carda, macchina formata da un insieme di cilindri rotanti coperti di punte

metalliche più o meno grosse, trasforma in velo continuo la fibra in fiocco di canapa o lino). Un giorno il

proprietario del magazzino fallì e quest’ultimo fu messo in vendita con le stalle e un giardino annesso.

Siccome il lavoro di cordaro non si poteva fare all’aperto per tutto l’anno, per non essere sfrattati, Salvatore

acquistò il magazzino e così tale mestiere durò ancora per diversi decenni.

Don Paolino apprese in poco tempo l’arte di guarnire le vele ma non riuscì ad imparare a tagliarle; pertanto

si dedicò sempre più all’attività commerciale.

Fin dai primi tempi trattò direttamente con i fornitori, sempre con la supervisione del padre. Dopo qualche

anno era riuscito a creare un negozio veramente assortito, incoraggiato dal fatto che la clientela era

aumentata considerevolmente.

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Per affermarsi sempre di più era riuscito a creare un magazzino doganale cioè importava la merce dall’estero

in esenzione dai dazi doganali e con il diretto controllo della Dogana e la forniva a bordo delle navi sempre

allo stato estero. Così facendo aveva la possibilità di battere la concorrenza. Suo padre, visti i risultati lo

lasciava fare e, di conseguenza, alla fine, la gestione del negozio fu esclusivamente sua.

Un giorno si presentò al negozio un armatore di un peschereccio di Marittimo per acquistare un rotolo di

sagoletta di Manilla e, visto che era incerto sulla sua grossezza, Don Paolino non se lo fece pagare ma gli

disse che se lo sarebbe potuto portare via con l’impegno di pagarlo successivamente se l’avesse trattenuto.

L’aver concesso fiducia ad una persona senza conoscerlo, gli procurò una vasta clientela fra i pescatori di

Marittimo e così tutti gli armatori dei pescherecci che lavoravano con il “ciancialo” divennero suoi clienti.

Per far fronte alle loro richieste si rifornì di tutto ciò che era necessario per questo tipo di pesca e quando i

cavi di Manilla e di canapa furono sostituiti da quelli in acciaio cominciò ad importarli in grandi quantità

dalla Germania e così potè venderli ad un prezzo vantaggioso pur guadagnando discretamente e vincendo la

concorrenza degli altri fornitori. Nel 1929 a causa di una profonda crisi economica non si vendevano attrezzature ne si cucivano vele, tutta la marineria

trapanesi era in disarmo, e lo Stato per invogliare a tenere in armamento le navi sovvenzionava gli armatori con un

contributo per ogni 100 miglia percorse. Con l’avvento del motore a poco a poco i grandi e piccoli velieri si

motorizzarono e il lavoro in veleria cominciò a diminuire ma fortunatamente il negozio di forniture navali andava

benissimo. ll 6 aprile del 1944 durante un terrificante bombardamento il magazzino di vendita che si trovava proprio di

fronte alla ex casermetta sommergibili (dove oggi sorge la nuova caserma dei vigili del fuoco), fu colpito e

si ridusse ad un cumulo di macerie, mentre il magazzino che conteneva merce estera subì l’abbattimento

della porta mentre il materiale rimase tutto intatto.

Finita la guerra con l’avvento delle fibre sintetiche il mestiere di cordaro sparì e così pure quello del velaio

in quanto non si costruivano più navi a propulsione velica. Rimase il negozio di forniture navali che si

adeguò alla nascente nautica da diporto infatti era l’unico a Trapani in grado di fornire l’attrezzatura per

l’armamento di una barca a vela moderna.

Don Paolino, anche in età avanzata, non riuscì a staccarsi dal suo lavoro ed infatti lo ricordiamo seduto

dietro la sua scrivania posta sulla destra, dietro la vetrinetta, dell’ingresso del suo negozio.

IL CORDAIO

Se pensiamo al groviglio di cime che permetteva le manovre di una nave armata a vela e in special modo a

vele quadre, possiamo affermare che la domanda di tale prodotto dovesse essere notevole. Queste corde

trovarono largo impiego per la fabbricazione delle reti da pesca, come cime e sartie a bordo delle numerose

imbarcazioni a vela che venivano armate o frequentavano il porto di Trapani.

A Trapani i cordai utilizzarono come luogo di lavoro zone dotate di ampi spazi liberi, gli ultimi rimasti

usufruirono di un vasto piazzale dove si affacciavano i loro magazzini in corrispondenza della via dei Funai

e successivamente nell’attuale piazza Ciaccio Montalto. Per corde destinate a lavorare in acqua o comunque

in ambienti molto umidi ( in particolare quelle per la marineria e per le reti da pesca) si utilizzava la canapa

di Manila, conosciuta come Manila, che presentava una minore resistenza a secco rispetto alla canapa

normale, ma era caratterizzata da un aumento di resistenza in presenza di umidità.

Alla fine dell’’800 a Trapani esistevano quattro fabbriche di cordami di proprietà di: Leonardo Sammartano,

Leonardo Pilati e Michele Catalano.

Tale mestiere era ancora esercitato nella seconda metà del XX secolo.

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ANTONIO VULTAGGIO ultimo cordaio di Trapani

Antonio Vultaggio, figlio e nipote di mastri cordai trapanesi, aveva cominciato a intrecciare corde per i

pescatori da quando aveva 5 anni: sveglia alle cinque del mattino, alle 6 sul posto di lavoro, all’aperto. Da

ragazzo sfruttava le aree libere del centro storico, poi si era spostato in piazza Malta (oggi piazza Ciaccio

Montalto) e, dalla metà degli anni Ottanta, il suo “laboratorio” a cielo aperto si era trasferito alle saline,

davanti ad un mulino a vento. Lì, utilizzando una macchina artigianale a forma di fuso e camminando avanti

e indietro per attorcigliare i fili, continuò il suo singolare lavoro, fatto di passione, pazienza e tanti sacrifici.

Una vita ad intrecciare corde. Vultaggio già a partire dagli anni Settanta, dovette fare i conti con il calo,

drastico, delle commesse. Se una volta, infatti, assieme ai pescatori, le corde erano richieste dagli agricoltori

che usavano muli e carretti, in quel periodo solo i pescatori erano interessati ad acquistare il prodotto. Alla

fine del 1980 gli venne offerto un posto di lavoro a Mazara in una piccola industria del settore. Il viaggio in

treno ogni mattina, il dover operare all’interno di uno stabilimento, lontano da casa, non faceva per lui:

nonostante fosse stato accolto con entusiasmo dai datori di lavoro e dagli stessi operai della fabbrica,

Antonio Voltaggio preferì la vita dura di sempre.

L’artigianato: i fabbricatori di corde di Trapani (Sicilia). Per tutto il giorno, sulla strada, questi cordai

lavorano la canapa per gli armatori e gli imballatori. La manodopera che essi impiegano è poco esigente.