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25 aprile 1945, fine della Seconda Guerra Mondiale

Memorie di un settantacinquenne e vicissitudini di un valligiano in guerra Non avevo ancora cinque anni ma ricordo perfettamente il giorno del 25 aprile 1945. Con mia madre, Elio ed il cane Lolli eravamo alla Cappella Vecchia a raccogliere erba “paravonia” dalla vigna. Non so se era mattino o pomeriggio ma ad un certo punto udimmo dei colpi di arma da fuoco a Valgrana. Quasi subito Loui d’ Sarù arrivò di gran corsa dalla borgata con gli zoccoli slacciati. Lolli gli si mise alle calcagna abbaiando e lui, in preda al panico, lanciò una pietra urlandogli contro : “Anche tu?!”. Mia madre si caricò sulle spalle il fagotto e, tenendoci per mano, si affrettò verso casa. Papà era già sparito. Noi dalla finestra della cucina guardavamo giù verso la frazione e la chiesetta, aspettandoci da un momento all’altro l’arrivo dei tedeschi. Improvvisamente udimmo degli spari e vedemmo uno che agitava in alto un fucile. “Ma è Felice del Liri”, disse mia madre ed uscimmo scendendo timorosi verso la piazzetta dove già si adunavano gli abitanti del piccolo borgo. Arrivò anche mio padre e tutti quelli che erano fuggiti sulla montagna , nei boschi. Giunsero fino a San Giorgio un paio di camion americani. Andai a curiosare e un militare mi prese in braccio, mi issò in cabina e mi diede una tavoletta di cioccolato amaro; non l’avevo mai assaggiato. Alcuni giorni dopo si misero i tavoli in piazza e si fece una gran mangiata in compagnia. Fisarmonica, canti e vino a volontà. Era fine marzo del 1942 e ho abbastanza chiaro in mente che corsi incontro ad un militare giù per la discesa che porta alla Cappella. Era la prima volta che vedevo mio padre. Mi prese tra le braccia stringendomi forte e mi riportò a casa. Dallo zaino tirò fuori un aeroplanino di latta che correva sul marciapiede e faceva scintille dalle ali.

Ho altre reminiscenze del tempo di guerra. Dormivo con mio fratello in una stanzetta che dava sulla strada per Montemale e dalla finestra osservavo le colonne di tedeschi che salivano verso il castello. Passi cadenzati, elmetti verdi e fucili a tracolla. Alcuni fucili avevano le canne bucherellate. E’ una cosa che mi è rimasta impressa. Una sera d’inverno mi trovavo nella stalla seduto in grembo ad un militare. Questi chiese un bicchier d’acqua a mia madre. Un altro soldato, erano in quattro o cinque, disse: ”Ma dategli del veleno a questo bastardo!” Alcuni dei proiettili sparati da Dronero verso il castello sorvolavano il crinale ed esplodevano poco lontano da casa, nel prato. Ho ancora negli occhi le alte fiamme della borgata Ferreri e gli aerei bassi che sorvolavano la collina, mentre con Marì Benessia eravamo a raccogliere fragole su verso Baricò. Andavano a bombardare il ponte nuovo di Cuneo.

In quel periodo mio padre era a casa e stava sempre in allerta fuggendo con altri sul monte nei boschi ad ogni avvisaglia di pericolo. Aveva un vecchio fucile 91 lungo ma lo teneva nascosto nel fienile e credo non abbia mai sparato un colpo. So che durante una di quelle fughe si ritrovò con Titi nascosto precariamente sotto una piccola roccia. I tedeschi , in fila indiana, salivano il sentiero verso Bersani. Si fermarono per riposarsi proprio sopra di loro. Uno addirittura si sedette sulla pietra con le gambe penzoloni e fumò una sigaretta. Vi lascio immaginare l’angoscia e la trepidazione di chi stava sotto.

Come ho già detto, avevamo una vigna a Cappella Vecchia. Tutti, fino agli anni sessanta, avevano una vigna agli Outin, a Baricò o a Cappella Vecchia. Si coltivavano Biole e Cardin. Producevano un vinello acido che difficilmente si conservava fino alla vendemmia dell’anno successivo. In zona avevano costruito delle piccole casette con le grondaie dei tetti che raccoglievano l’acqua piovana in una cisterna per far sciogliere il verderame. Servivano anche come riparo durante i temporali. Qui, nei momenti di riposo , si

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ritrovavano i vignaioli ed ognuno raccontava le sue storie. Ne ho conosciuti tanti, tutte persone come si deve, tutti orgogliosi delle loro povere terre, tutti grandi lavoratori. Alcuni, simpatiche macchiette. Io in silenzio ascoltavo, timoroso di intromettermi nei loro “discorsi da grandi”.

In primavera aiutavo mio padre a togliere i germogli superflui delle viti. Seduti , uno per parte, su piccoli sgabelli con una gamba sola, proseguivamo lungo i filari. E lui raccontava.

Lorenzo Cerutti era nato a San Giorgio di Montemale il 26 novembre del 1916 da nonna Mainot (Armando Maria di Biout) e nonno Luigi (Vigiou d’ Pèe). Il pugno di case veniva anche chiamato Lo d’ Tuba , perché c’era il forno dove molti andavano a cuocere il pane. Per ogni infornata lasciavano una micca. Non andava all’asilo, ma aveva la scuola in casa. Addirittura talvolta mio nonno sostituiva gli insegnanti, che arrivavano da Caraglio. Le maestre avrebbero voluto che proseguisse gli studi, ma gli fu solo possibile seguire la sesta elementare nel capoluogo della valle Grana. Gli piaceva leggere romanzi, come del resto sua sorella Caterina (un fratello era morto molto giovane di polmonite (pountura)). Nel cardensin (armadietto) ho trovato Delitto e Castigo, Teresa Raquin, I Miserabili, Il Fabbro del Convento, Il Conte di Montecristo, Marco Visconti ed altri.

Con gli amici,allora numerosi, fece anche lui le sue bravate. Come quella volta che,mentre uno lo distraeva, gli altri rubarono dalla pentola il bollito a Gerlefou, sostituendolo con un ceppo di gelso. Naturalmente, dopo averlo fatto arrabbiare per bene, glielo restituirono. O come quando ,di notte, con enorme fatica, issarono un carretto sul grande noce che c’era all’incrocio per la Gaida ed il Tert.

La spensierata giovinezza passò in fretta e ricevette la cartolina di precetto. Gli toccò il X Regg. Artiglieria campale di Caserta. Dopo il Car, fece l’attendente a diversi colonnelli e si occupò con passione di cavalli accudendoli e imparando a cavalcarli. Purtroppo in quel periodo mio nonno Luigi morì e lui, tornato da militare, si ritrovo’ sulle spalle la madre già anziana e incurvata dall’artrosi, la sorella , le bestie e la terra. Conobbe mia madre, Anna, e la sposò giovanissima, diciassette anni e mezzo, nel 1939. Non passò neppure un anno. Venne richiamato alle armi e quasi subito spedito in Libia. Il giorno in cui nacqui lui era su una nave diretto a Tripoli.

Parlava della guerra nel deserto malvolentieri, come un periodo di sete, di sabbia e di paura in rifugi precari a Derna, a Tobruk, a Giarabub sotto le cannonate degli inglesi . Per necessità imparò a fare l’infermiere e forse questo gli salvò la vita. Infatti , prima della grande battaglia di El Alamein, fu inviato in Italia su una nave-ospedale come addetto all’assistenza dei feriti. Non so come ,si ritrovò a Lucca, dove mia madre, mai uscita di casa, andò a trovarlo con Giouanina della Gaida. Non vi rimase molto perché fu nuovamente spedito al fronte. Questa volta in Grecia, nell’isola di Zante (Zacinto).

L’otto settembre 1943 lo colse là. Fortunatamente, a differenza di Cefalonia, i comandanti dell’isola optarono per la resa ai tedeschi, evitando una eroica ma inutile carneficina. Fatto prigioniero, fu caricato con i commilitoni sui carri bestiame di un treno e, attraverso tutta la Jugoslavia, portato in un campo di concentramento in Germania. Mi pare parlasse di Buchenwald. Fu un periodo tremendo di lavoro pesante nei campi, di fame, di freddo, di bucce di patate, di scarti di rape e di torsoli di cavoli. Per fortuna non durò troppo, non durò fino a fargli perdere la vita. Un giorno fu proposto agli uomini ancora validi di offrirsi volontari per venire in Italia a combattere per il Duce e per la neo repubblica di Salò. Quasi tutti accettarono. Qualsiasi cosa pur di sottrarsi ad una morte certa. Nuovamente caricati su un treno, vennero diretti verso l’Italia. Giunto al Brennero, mio padre , con numerosi altri, saltò dal vagone e se la diede a gambe. Non ho mai saputo esattamente come fece ad eludere i posti di blocco, la

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sorveglianza, le forze dell’ordine, i tedeschi, le Camicie Nere, ma, un po’ a piedi , un po’ sui treni, un po’ con l’autostop, ce la fece a ritornare a casa. Da disertore, ma a casa.

Per due anni fu una vita col cuore in gola. Levatacce al minimo sentore di pericolo, fughe nei boschi sopra casa, sempre in allerta; attento ad ogni rumore sospetto, ad ogni rombare di motore. Non fu mai scoperto. Il 25 aprile del 1945 la guerra finì e lui poté finalmente dormire sonni tranquilli nel suo letto.

Gino Cerutti