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1 Ulteriore casistica giurisprudenziale in tema di responsabilità RISARCIMENTO DEL DANNO DA SCORRETTO ESERCIZIO DELLA DIREZIONE E COORDINAMENTO E LA TEORIA DEI VANTAGGI COMPENSATIVI (Appunti) 1. Generalità - 2. Le societa' o gli enti che... -3.... Esercitando attività di direzione e coordinamento di società...- 4. Agiscono nell'interesse imprenditoriale proprio o altrui... - 5. Natura della responsabilità e significato della violazione dei principi di corretta gestione societaria ed imprenditoriale - 6. Come funziona la responsabilità di cui all'art. 2497 c.c.? Che significa "solo se"? 7. Competenza in caso di fallimento 8. Interesse e legittimazione ad agire.- 9. Onere della prova -10. La teoria dei vantaggi compensativi- 11. La teoria dei vantaggi compensativi nella giurisprudenza civile - 12. La teoria dei vantaggi compensativi nella giurisprudenza penale 1. Generalità Art. 2497 c.c. 1. Le societa' o gli enti che, esercitando attivita' di direzione e coordinamento di societa', agiscono nell'interesse imprenditoriale proprio o altrui in violazione dei principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale delle societa' medesime, sono direttamente responsabili nei confronti dei soci di queste per il pregiudizio arrecato alla redditivita' ed al valore della partecipazione sociale, nonche' nei confronti dei creditori sociali per la lesione cagionata all'integrita' del patrimonio della societa'. Non vi e' responsabilita' quando il danno risulta mancante alla luce del risultato complessivo dell'attivita' di direzione e coordinamento ovvero integralmente eliminato anche a seguito di operazioni a cio' dirette. 2. Risponde in solido chi abbia comunque preso parte al fatto lesivo e, nei limiti del vantaggio conseguito, chi ne abbia consapevolmente tratto beneficio. 3. Il socio ed il creditore sociale possono agire contro la societa' o l'ente che esercita l'attivita' di direzione e coordinamento, solo se non sono stati soddisfatti dalla societa' soggetta all'attivita' di direzione e coordinamento 4. Nel caso di fallimento, liquidazione coatta amministrativa e amministrazione straordinaria di societa' soggetta ad altrui direzione e coordinamento, l'azione spettante ai creditori di questa e' esercitata dal curatore o dal commissario liquidatore o dal commissario straordinario - Dall'attività di direzione e coordinamento possono derivare responsabilità nei confronti dei soci e responsabilità nei confronti dei creditori sociali - In entrambi i casi si tratta, in prima battuta (art. 2497, comma 1, c.c.), di una responsabilità della società e non degli amministratori persone fisiche, a differenza di quanto previsto dall'art. 90 D.Lgs. 270/99 - La responsabilità prescinde dal fatto che la situazione di direzione e coordinamento sia stata resa pubblica ai sensi dell'art. 2497 bis c.c., è necessario solo che vi sia la direzione e coordinamento, anche in fatto, e che queste siano state condotte con violazione dei principi di corretta gestione societaria ed imprenditoriale. - E' difficile verificare in concreto la violazione di questi principi di corretta gestione imprenditoriale, anche perché le scelte imprenditoriali non sono mai sindacabili nel merito. Ogni volta bisogna sforzarsi di distinguere quelle che sono le conseguenze derivanti dalla normale alea di ogni attività d'impresa e quelle che sono le conseguenze dannose derivanti dalla mancanza colpevole di diligenza e dal mancato rispetto di regole di buona amministrazione - Il danno per il socio riguarda il valore della sua partecipazione sociale, il danno per il creditore sociale la lesione dell'integrità patrimoniale. Il danno per il creditore sociale sostanzialmente coincide con quello dell'art. 2394, con la particolarità che, in virtù dell'art. 2497, comma 3, c.c.,

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Ulteriore casistica giurisprudenziale in tema di responsabilità

RISARCIMENTO DEL DANNO DA SCORRETTO ESERCIZIO DELLA DIREZIONE E COORDINAMENTO E LA TEORIA DEI VANTAGGI COMPENSATIVI

(Appunti)

1. Generalità - 2. Le societa' o gli enti che... -3.... Esercitando attività di direzione e coordinamento di società...- 4. Agiscono nell'interesse imprenditoriale proprio o altrui... - 5. Natura della responsabilità e significato della violazione dei principi di corretta gestione societaria ed imprenditoriale - 6. Come funziona la responsabilità di cui all'art. 2497 c.c.? Che significa "solo se"? 7. Competenza in caso di fallimento 8. Interesse e legittimazione ad agire.- 9. Onere della prova -10. La teoria dei vantaggi compensativi- 11. La teoria dei vantaggi compensativi nella giurisprudenza civile - 12. La teoria dei vantaggi compensativi nella giurisprudenza penale

1. Generalità Art. 2497 c.c. 1. Le societa' o gli enti che, esercitando attivita' di direzione e coordinamento di societa', agiscono nell'interesse imprenditoriale proprio o altrui in violazione dei principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale delle societa' medesime, sono direttamente responsabili nei confronti dei soci di queste per il pregiudizio arrecato alla redditivita' ed al valore della partecipazione sociale, nonche' nei confronti dei creditori sociali per la lesione cagionata all'integrita' del patrimonio della societa'. Non vi e' responsabilita' quando il danno risulta mancante alla luce del risultato complessivo dell'attivita' di direzione e coordinamento ovvero integralmente eliminato anche a seguito di operazioni a cio' dirette. 2. Risponde in solido chi abbia comunque preso parte al fatto lesivo e, nei limiti del vantaggio conseguito, chi ne abbia consapevolmente tratto beneficio. 3. Il socio ed il creditore sociale possono agire contro la societa' o l'ente che esercita l'attivita' di direzione e coordinamento, solo se non sono stati soddisfatti dalla societa' soggetta all'attivita' di direzione e coordinamento 4. Nel caso di fallimento, liquidazione coatta amministrativa e amministrazione straordinaria di societa' soggetta ad altrui direzione e coordinamento, l'azione spettante ai creditori di questa e' esercitata dal curatore o dal commissario liquidatore o dal commissario straordinario - Dall'attività di direzione e coordinamento possono derivare responsabilità nei confronti dei soci e responsabilità nei confronti dei creditori sociali - In entrambi i casi si tratta, in prima battuta (art. 2497, comma 1, c.c.), di una responsabilità della società e non degli amministratori persone fisiche, a differenza di quanto previsto dall'art. 90 D.Lgs. 270/99 - La responsabilità prescinde dal fatto che la situazione di direzione e coordinamento sia stata resa pubblica ai sensi dell'art. 2497 bis c.c., è necessario solo che vi sia la direzione e coordinamento, anche in fatto, e che queste siano state condotte con violazione dei principi di corretta gestione societaria ed imprenditoriale. - E' difficile verificare in concreto la violazione di questi principi di corretta gestione imprenditoriale, anche perché le scelte imprenditoriali non sono mai sindacabili nel merito. Ogni volta bisogna sforzarsi di distinguere quelle che sono le conseguenze derivanti dalla normale alea di ogni attività d'impresa e quelle che sono le conseguenze dannose derivanti dalla mancanza colpevole di diligenza e dal mancato rispetto di regole di buona amministrazione - Il danno per il socio riguarda il valore della sua partecipazione sociale, il danno per il creditore sociale la lesione dell'integrità patrimoniale. Il danno per il creditore sociale sostanzialmente coincide con quello dell'art. 2394, con la particolarità che, in virtù dell'art. 2497, comma 3, c.c.,

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l'attore, cioè il creditore sociale, non deve provare l'insufficienza patrimoniale, bastando che dimostri di aver preventivamente richiesto il pagamento del proprio credito alla debitrice e di non averlo conseguito o potuto conseguire. - L'ultimo comma dell'art. 2497 c.c. attribuisce il potere di azione al curatore fallimentare in caso di fallimento della controllata - Il problema vero riguarda la tutela del socio per la diminuzione o azzeramento della sua partecipazione sociale, vale a dire la tutela dello shareholder value. Sotto questo profilo, l'art. 2497 c.c. costituisce un'innovazione del sistema perché non prevede il risarcimento del danno a favore della società né prevede il risarcimento del danno a favore del socio per un danno diretto al suo patrimonio come fal'art. 2476, comma 6, c.c. nelle società a responsabilità limitata. Qui, non si risarcisce la società, ma il socio per il danno riflesso. - Novità (apparente) dell'introduzione della teoria dei vantaggi compensativi. Va precisato che l'onere di allegazione e prova dei benefici indiretti connessi ai cd. vantaggi compensativi e la loro idoneità a bilanciare efficacemente gli effetti immediatamente negativi dell'operazione compiuta, grava su chi sia stato convenuto nell'azione di responsabilità - Vaghezza della nozione di vantaggi compensativi, sotto il profilo temporale. Differenza rispetto all'art. 2634, comma 3, c.c., dove la responsabilità penale è esclusa se i vantaggi compensativi sono prevedibili all'inizio dell'operazione, mentre ai fini dell'esenzione civilistica è necessario che gli stessi siano concretamente realizzati. - Ravvedimento operoso, esercitabile finché la causa non sia stata decisa - L'azione del socio non si può dirigere contro la propria società perché vige il principio della postergazione del suo credito restitutorio alla soddisfazione dei creditori sociali. Il patrimonio della società cui appartiene è destinato a soddisfare le ragioni dei creditori e solo successivamente alla restituzione dei conferimenti. Pertanto, il socio ha sì l'onere di chiedere alla sua società, ai sesi dell'art. 2497, comma 3, c.c., ma per poi agire contro la capogruppo che è l'unica eputata a stanziare i fondi per la soddisfazione delle ragioni del soci. - Né nel caso dell'azione del socio né nel caso dell'azione del creditore sociale è necessario convenie in giudizio la società il cui socio o il cui creditore sociale agisce in giudizio. - Ai sensi dell'art. 2497, comma 2, c.c. sono responsabili in proprio gli amministratori (ed eventualmente gli organi di controllo) della capogruppo; gli amministratori (ed eventualmente gli organi di controllo) della singola società del gruppo cui sia imputabile di aver concorso nell'attività esecutiva delle illecite direttive impartite dalla capogruppo o di non essersi opposte ad esse; la stessa società soggetta all'altrui direzione e coordinamento, nella misura in cui l'immediata paternità di quegli atti sia giuridicamente ad essa riferibile - L'azione ex art. 2497 c.c. potrebbe nella pratica intrecciarsi con quella degli artt. 2392 e ss. c.c. per le società per azioni e dell'art. 2476 c.c. per la società a responsabilità limitata. Il quadro che viene a delinearsi appare complesso e, a tratti, contraddittorio: a) il socio ha nel caso dei gruppi più potere che rispetto alla singola società dove incontra i limiti dell'art. 2395 e dell'art. 2476, comma 6, c.c.; b) i creditori sociali hanno, nel caso dei gruppi, più potere che rispetto alla società a responsabilità limitata, dove l'art. 2476 c.c. sembrerebbe escludere l'azione dei creditori sociali; c) gli amministratori, per i medesimi fatti, potrebbero trovarsi esposti a pretese risarcitorie concorrenti - Sulla base della relazione di accompagnamento, la responsabilità di cui all'art. 2497 c.c. ha natura aquiliana sia rispetto ai soci che rispetto ai creditori sociali. Se ciò non presenta difficoltà concettuali per i creditori sociali perché manca ogni relazione diretta tra creditori e capogruppo, problemi si pongono rispetto ai soci. Infatti, nel rapporto tra controllante e controllata vi sono degli obblighi di correttezza che vanno al di là del neminem laedere - Problema dell'ammissibilità dell'azione di responsabilità della stessa società danneggiata nei confronti della controllante - Natura (apparentemente) aquiliana della responsabilità nei confronti dei soci; natura (in realtà) contrattuale della responsabilità nei confronti dei soci

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- Sebbene non vi sia una previsione specifica, l'azione dell'art. 2497 c.c. si prescrive in cinque anni a partire dal momento in cui si verifica l'evento lesivo che genera il diritto al risarcimento. Ciò sicuramente per i soci, perché si rientra nell'art. 2949, comma 1, c.c., mentre meno sicuramente per i creditori sociali , giacché l'art. 2949 c.c. riguarda l'azione nei confronti degli amministratori, mentre invece, l'azione dei creditori sociali non è nei confronti degli amministratori bensì della società. Tuttavia, facendo leva sulla natura aquiliana della responsabilità nei confronti dei creditori sociali, il termine di prescrizione è pur sempre quinquennale. 1. Le societa' o gli enti che... A) Rientrano in quest'espressione le persone fisiche? E' noto che la giurisprudenza, prima della riforma del 2003 che ha introdotto l'art. 2497 c.c. per disciplinare la responsabilità nei gruppi, ha, in più di un'occasione, risposto positivamente al quesito. Sull'argomento, non si può prescindere dalla famosa sentenza Caltagirone, Cass. 26 febbraio 1990, n. 1439, co-est. A. Rocchi e G. Bibolini, così massimata per la parte di interesse: In ipotesi di "holding" di tipo personale, cioè di persona fisica, che sia a capo di più società di capitali in veste di titolare di quote o partecipazioni azionarie, e che svolga professionalmente, con stabile organizzazione, l'indirizzo, il controllo ed il coordinamento delle società medesime (non limitandosi così al mero Esercizio dei poteri inerenti alla qualità di socio), la configurabilità di un'autonoma impresa, come tale assoggettabile a fallimento, postula che la suddetta attività, sia essa di sola gestione del gruppo (cosiddetta holding pura), ovvero pure di natura ausiliaria o finanziaria (cosiddetta holding operativa), si esplichi in atti, anche negoziali, posti in essere in nome proprio, quindi fonte di responsabilità diretta del loro autore, e presenti altresì obiettiva attitudine a perseguire utili risultati economici, per il gruppo o le sue componenti, causalmente ricollegabili all'attività medesima). La sentenza è importante perché, pur non affrontando il problema della responsabilità, fissa il concetto di gruppo e delinea la differenza tra la direzione unitaria e il controllo. [...] Deve, così, ritenersi incontroverso che ciascuno dei due fratelli Caltagirone, la cui posizione è ora soggetta ad esame, era il "sostanziale beneficiario" delle attività di uno dei due gruppi sociali, rispettivamente costituiti da 65 (per Gaetano Caltagirone) e 37 (per Francesco Caltagirone) società, partecipate "direttamente o indirettamente" (vedi le già ricordate affermazioni dei ricorsi). Deve darsi per ammesso che ciascuno dei due fratelli disponesse di un'organizzazione stabile, di mezzi e di persone (la contestazione in ordine alla sussistenza di detta organizzazione, svolta dai ricorrenti nei precedenti gradi, non viene più ribadita in questa fase, ancorché in via interpretativa si contesti la funzione dell'organizzazione nell'ambito della tipica qualificazione di impresa), organizzazione di cui ciascuno del sig.ri Caltagirone si avvaleva per lo svolgimento di una serie di attività elencate nella sentenza della Corte di merito (v. pag. 41, 43, 44, 45 e 47 della sentenza). Dette attività vengono dichiarate dai ricorrenti come pacificamente ammesse o, comunque, non sono contestate nella loro obiettività, ancorché oggetto di rilievo siano le modalità di espletamento (in nome proprio ovvero in nome delle società). Dette organizzazioni e dette attività costituivano (secondo le indicazioni della sentenza di primo grado, richiamate dalla Corte di merito), due centrali operative aventi la funzione di indirizzo, di controllo e di coordinamento, ed inoltre (secondo autonoma indicazione della Corte di Roma) costituivano attuazione di un disegno di controllo e di governo delle società. L'accento della motivazione della sentenza della Corte di Roma è stato posto, in particolare, su una serie di attività ritenute "servizi" o "attività ausiliare", non esclusa l'attività finanziaria variamente espletata vuoi con il conferimento di garanzie per favorire erogazioni finanziarie alle società, vuoi con il percepimento diretto da parte delle persone fisiche dei Sig.ri Caltagirone dei finanziamenti erogati alle singole società e da essi poi destinati

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alle provviste finanziarie sia delle società che ne erano beneficiarie secondo i contratti con le banche, sia di altre società di ciascun gruppo, secondo valutazioni di esigenze operate dagli stessi Caltagirone, sia di società di nuova costituzione. Inoltre, dal richiamo da parte della Corte di merito dell'impostazione di base della sentenza resa dal tribunale di Roma in sede di opposizione alla dichiarazione di fallimento, e nella quale la posizione di ciascuno degli attuali ricorrenti viene qualificata come "holding" o capogruppo, emerge che i fratelli Caltagirone, da una parte non si limitarono a svolgere attività meramente ausiliarie all'esercizio delle imprese sociali ne', d'altra parte, si limitarono, con la disposizione delle quote e-o dell'azioni delle società di ciascun gruppo, ad esercitare i poteri corporativi ed i diritti patrimoniali che le quote o le azioni loro conferivano. Essi esercitarono una vera e propria attività di direzione strategica o di governo, del gruppo che a ciascuno dei due fratelli faceva capo, secondo piani operativi globali, cui seguivano i piani e le disposizioni finanziarie e tecniche. L'indagine, quindi, deve essere volta a valutare il fenomeno delle aggregazioni imprenditoriali, e si svolge, da una parte, nella scelta, tra i molteplici fenomeni che il sistema dell'aggregazione delle imprese ha assunto nella pratica economica, delle situazioni più aderenti al caso di specie; dall'altra di fronte alla mancanza di una generalizzata regolamentazione normativa del fenomeno del gruppo di imprese e dell'impresa capogruppo, nella necessità di individuare quelle norme che consentano, o no, di qualificare il capo di un gruppo di imprese sociali sotto il profilo dello statuto dell'impresa. Esulando, per difformità strutturale dalle situazioni in esame, sia le aggregazioni societarie su base contrattuale (i c.d. gruppi contrattuali), sia per la holding mista o per la holding di tipo industriale, la situazione di principio più adeguata al caso di specie deve essere costruita sulla base della "holding pura" o della "holding operativa" quanto meno per il carattere sintomatico che a figure di tale genere attiene, nell'ambito della individuazione o no, di un'autonoma figura imprenditoriale, proprio sotto i profili dell'autonomia operativa e funzionale, posta come elemento essenziale del dibattito di questa fase processuale. Si intende a tale fine per "holding pura" quel tipo di aggregazione societaria che assolve una funzione puramente strumentale e che mediante il possesso di uno o più pacchetti azionari, e l'esercizio dei poteri inerenti esplichi l'attività di direzione e di controllo del gruppo. Nell'ipotesi, inoltre, in cui le aziende detenute in portafoglio siano più di una, tale tipo di capo gruppo assume di norma i tratti tipici della holding operativa la quale esplica l'attività direttiva anche mediante l'esercizio di funzioni economiche e finanziarie nei confronti delle società possedute, ponendo così uno stretto legame tra il grado di diversificazione degli investimenti della holding ed il ruolo che questa può assumere nel coordinamento finanziario del gruppo. La scienza economica, delle cui risultanze ci si può avvalere per descrivere il fenomeno, comunemente configura il gruppo come un'aggregazione di unità produttive, giuridicamente autonome, ma collegate sul piano organizzativo al fine di una migliore attuazione degli obiettivi perseguiti dal complesso. La direzione economica unitaria e l'autonomia formale delle imprese partecipanti al gruppo costituiscono momenti qualificanti del fenomeno. Con la direzione unitaria si consegue il risultato di imprimere unità di indirizzo e di azione alle diverse imprese aggregate; con l'autonomia formale si persegue il vantaggio di conferire all'organismo economico, unitariamente considerato, flessibilità strutturale e delimitazione dei rischi. La direzione unitaria si differenzia dal semplice controllo, in quanto quest'ultimo costituisce una situazione potenziale di esercizio di influenza dominante, mentre per l'esistenza del gruppo è necessario l'esercizio effettivo di detta potenzialità. Inoltre la direzione unitaria del gruppo, ancorché alla sua base vi sia il fenomeno del controllo, si evolve rispetto ad esso con una diversificazione qualitativa, se non altro perché il controllo è un fenomeno che può riguardare un'unica controllante ed unica controllata, mentre la direzione unitaria del gruppo ha come caratteristica essenziale la pluralità delle controllate, coordinate dall'unica controllante in un'organizzazione imprenditoriale complessa (dal punto di vista economico). Al riguardo non deve ritenersi che la direzione unitaria, tipica delle aggregazioni di gruppo secondo il tipo per ultimo indicato, pur non essendo oggetto di specifica previsione normativa (in

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quanto il nostro ordinamento sembra informato ad una visione atomistica della funzione societaria e dell'autonomia delle società quali centri autonomi di decisione), non adempie ad un funzionamento meritevole di tutela sul piano dell'economia negoziale (art. 1322 c.c.) ovvero sia contraria a regole inderogabili vigenti in diritto societario. Sotto il primo profilo si rileva anche il modello organizzativo delineato, pur se costituisce una novità, nel suo assetto organizzativo, rispetto alla concezione atomistica dell'impresa societaria da cui muove il nostro codice civile, non solo costituisce quello generalmente attuato dai più importanti gruppi privati italiani, ma ad esso si ispira anche la struttura dei nostri gruppi pubblici, corrispondendo alle più moderne esigenze organizzative e funzionali delle imprese di grandi dimensioni in un'economia di mercato in fase avanzata. L'utilità che da esso deriva sul piano della pianificazione e dello sviluppo della produttività dell'imprese, può in linea generale fare ritenere meritevole di tutela giuridica la sussistenza di quelle aggregazioni imprenditoriali che allo schema indicatosi uniformino; ne' le possibilità elusive, da valutare e sanzionare caso per caso, possono annullare l'utile funzione, nell'evoluzione di una economia avanzata, del modello strutturale ed operativo indicato. Sotto il secondo profilo, inoltre, non deve necessariamente ritenersi che la struttura organizzativa di gruppo, secondo il tipo indicato, sia contrario a principi inderogabili del nostro ordinamento, in considerazione del fatto che il centro decisionale delle strategie, e soprattutto delle strategie finanziarie del gruppo, venga posto al di fuori delle singole società operative. La necessità degli organi delle società operative di uniformarsi alle più generali scelte globali e gestionali di gruppo, formulate dagli organi gestori della controllante, non comporta necessariamente la subordinazione degli interessi delle controllate ad interessi a loro estranei, potendo essere gli obiettivi di gruppo perfettamente compatibili con gli interessi delle singole controllate. Queste, dalla appartenenza al gruppo vedono potenziare le loro possibilità operative, potendo essere non pochi i vantaggi che alle controllate derivano non solo sotto il profilo dell'immagine e di conseguente credito di cui le società operative possono godere sul mercato, ma anche, in forma più immediata, in termini di utilizzazione dei servizi di comune interesse e di realizzazione di economie di scala. È normale, infatti, nelle aggregazioni di gruppo che attività e prestazione di generale interesse, quali attività di studio e pianificazione, ricerche tecnologiche di mercato, pubblicità e relazioni esterne, vengono accentrate presso la controllante, senza che per questo venga meno la funzione direttiva caratterizzante la figura del gruppo. I programmi finanziari e produttivi di gruppo vengono elaborati dalla capogruppo nella veste di titolare delle partecipazioni di controllo; le decisione adottate a livello dell'organo gestorio della controllante vengono trasmessi, attraversi le deliberazioni assembleari, o altri mezzi meno formali, alle singole controllate, le quali sono tenute ad uniformare agli obiettivi di gruppo le loro realtà operative. Questo modello organizzativo e strutturale non contrasta necessariamente con l'interesse delle società del gruppo, essendo necessario, perché scatti la tutela degli interessi che alla singola società fanno capo, non solo la potenzialità di un conflitto di interessi, ma l'effettività del conflitto di interessi idoneo a causare danno alla società del gruppo. Il vincolo dell'organo amministrativo della società di gruppo, quindi, trova il limite della conformità dell'interesse sociale della società di gruppo, dovendosi i suoi amministratori astenersi dall'eseguire delibere ed indirizzi che possano danneggiare la società stessa.Come è stato autorevolmente sostenuto, in un'organizzazione del tipo indicato, non vi è nulla di irrimediabilmente in contrasto con il vigente sistema normativo, purché si rispetti il limite che le deliberazioni esecutive non devono causare pregiudizio alle singole controllate. Il limite del vincolo, rispetto alle direttive della holding, per gli amministratori delle società controllate, quindi, sta proprio nella tutela dell'interesse della singola società, apprezzato dai suoi stessi amministratori. Si tratta, ora, di valutare come la realtà economica della holding pura e del gruppo operativo possa inquadrarsi sotto il profilo dello statuto dell'impresa. Indubbiamente il gruppo in quanto tale, ancorché organizzato secondo il modello descritto, non diventa un unico soggetto di diritto.

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I risultati della scienza economica che individuano le caratteristiche essenziali della figura nella direzione unitaria, da una parte, e nella pluralità soggettiva dall'altra, e che in questa unità direzionale nella pluralità soggettiva individuano, non solo le caratteristiche del tipo, ma i vantaggi che al gruppo in quanto tale ed alle singole società controllate possono derivarne, si coordinano, sotto questo profilo, con le qualificazione traibili dalla nostra legislazione societaria e di impresa. Ciascuna società controllata continua ad essere ed a esistere come società autonoma rispetto alle altre componenti del gruppo, e rispetto alla capo gruppo ciascuna è un distinto soggetto di diritto. Il punto fondamentale della disamina si sposta, di conseguenza, sulla capo gruppo, dovendosi domandare se il soggetto holding, sia per ciò stesso (sia cioè in virtù del potere direttivo esercitato sulla base di una posizione di controllo acquisita a livello di partecipazione nelle varie società del gruppo, secondo il modello e le implicazione indicate), a sua volta un'impresa; ovvero possa o no, essere impresa solo in virtù delle attività accessorie ed ausiliarie, che al modello normalmente attengono, ma non necessariamente ad esso ineriscono. Si tratta, in sostanza, di rilevare se, sotto il profilo dell'impresa, la holding sia una realtà meramente economica (o, come da taluno ritenuto, una società senza impresa), risolventesi sotto il profilo giuridico nella pluralità dei soggetti che la compongono, da considerarsi nella loro autonomia, ovvero se la stessa holding, proprio in virtù dell'attività di coordinamento e di direzione delle varie imprese controllate, si qualifichi anch'essa come impresa.Nella letteratura giuridica, da tempo si discute sulla possibilità di riconoscere alla holding la qualità imprenditoriale, la quale richiede l'esercizio di un'attività di produzione o di uno scambio di beni o di servizi, secondo la qualificazione dell'art. 2082, in relazione alla tipologia dell'art. 2195 c.c.. È, noto, in questa direttiva, l'indirizzo secondo cui la holding, pur non esercitando direttamente alcuna attività di produzione o scambio di bene e di servizi (a parte la holding mista che qui non interessa), essa pur tuttavia realizza un'attività di partecipazione ad attività di produzione e di scambio, con la conclusione che lo scopo di partecipare ad attività imprenditrice può essere sufficiente, non solo ai fini dell'art. 2247, ma anche a quelli dell'art. 2082 e 2195 c.c., facendo qualificare come commerciale lo scopo della società.Correlando questo indirizzo al concetto "fase dell'attività di impresa", attingendolo dall'art. 2602 c.c., nel testo modificato dalla L. n. 377 del 1976 (laddove il consorzio tra imprenditori viene definito come l'organizzazione costituita per lo svolgimento di determinate "fasi" delle rispettive imprese), potrebbe considerarsi l'attività di direzione e di coordinamento della holding alla stregua di una fase dell'attività imprenditoriale, e potrebbe affermarsi che la holding è imprenditore in quanto professionalmente, e con adeguata organizzazione svolga (accentrandola presso di sè), una fase delle imprese esercitate dalla società operative, ed è imprenditore commerciale qualora l'attività nel suo ciclo si inserisce abbia natura commerciale. Peraltro, di fronte a questa costruzione, alcuni rilievi appaiono insuperabili e, cioè:a) se una società esercita una fase dell'attività svolta da altra società, l'oggetto della prima finisce per coincidere almeno parzialmente con quello della seconda; se poi la fase esercitata dalla holding si concretizza nel governo e nella direzione dell'attività della società operativa, finisce per esservi coincidenza tra l'oggetto dei due tipi di società.b) per l'individuazione dell'impresa commerciale non è sufficiente l'esercizio di una fase di attività qualificante, ex art. 2082 e 2195 c.c., ma l'attività in quanto tale; c) anche nei consorzi, ciascune delle imprese consorziate conserva la qualità di imprenditore pur esercitando direttamente alcune fasi soltanto della propria impresa, ma ciò in quanto le altre fasi dell'impresa, destinate a completare detta attività economica, sono da esse esercitate tramite il consorzio Peraltro, se da un lato è insufficiente ricostruire la figura imprenditoriale della holding sulla base del solo concetto di "fase" di attività, d'altro lato appare incongruo riportare l'imprenditorialità della entità dominante del gruppo, non al fattore caratterizzante il fenomeno, ma alla semplice prestazione di servizio o all'attività ausiliaria. D'altronde l'attività di coordinamento e di direzione del gruppo ben difficilmente può essere qualificata come "servizio", prodotto e scambiato, secondo

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la previsione dell'art. 2082 c.c., anche sotto il profilo delle attività ausiliarie che, pur frequentemente presenti nello operare della holding, non ineriscono necessariamente al fenomeno, non sono espressione essenziale del modello organizzativo e funzionale in cui l'operatività del gruppo coordinato si esplica.Maggior concretezza assume il diverso indirizzo che coglie l'imprenditorialità della capogruppo nel concetto di attività mediata.Si è già detto dalla normativa sui consorzi (art. 2602 c.c., nel testo modificato dalla Legge n. 377-76) si tragga il concetto di esercizio di "fase" dell'attività di impresa e come la spiegazione della imprenditorialità delle componenti del consorzio, operante in una struttura di coordinamento della produzione e degli scambi, possa darsi proprio con il concetto di attività esercitata in via mediata, cioè esercitata in prima persona dal consorzio, ma riflettentesi nei suoi effetti direttamente sulle consorziate. Concetti analoghi, in tema di attività mediata, possono assumersi nel fenomeno del controllo societario, a mezzo di situazioni traibili degli artt. 2361 e 2429 bis c.c..Per l'art. 2361 c.c., gioca la previsione del divieto di assunzione di partecipazione in altre imprese "se per la misura e per l'oggetto della partecipazione ne risulta sostanzialmente modificato l'oggetto sociale determinato dall'atto costitutivo". Dal testo normativo può dedursi una modificazione dell'oggetto della società partecipante, in quanto l'attività della società cui si riferisce la partecipazione diventi essa stessa oggetto della società partecipante. Il fenomeno della partecipazione, in sostanza, può fare si che l'oggetto della partecipata influisca su quello della partecipante, divenendo oggetto della stessa. Ciò significa che una data attività di produzione e scambio può integrare l'oggetto sociale, sia come oggetto immediato (società operativa), sia come oggetto mediato (holding). Il che significa, ulteriormente, che l'imprenditorialità della holding non deriva dal fatto che essa svolga l'attività di partecipazione e di coordinamento tecnico finanziario, in sè e per sè considerata, ma deriva dalla specifica attività di produzione e di scambio che formano oggetto delle società operanti ed il cui esercizio, in forma indiretta tramite la direzione ed il coordinamento ed a mazzo della partecipazione di controllo, è attuabile dalla capogruppo.Inoltre, l'art. 2429 bis c.c., nel testo derivato dalla c.d. miniriforma del 1974, ha sviluppato il concetto, prevedendo che la relazione degli amministratori al bilancio, deve illustrare l'andamento della gestione nei vari settori in cui la società ha operato "anche attraverso altre società da essa controllate", ribadendosi la rilevanza, nel controllo societario, della operatività mediata. Nel settore del controllo societario, quindi, che non esaurisce il fenomeno del gruppo, ma che è alla base del modello strutturale del gruppo di società, l'esercizio dell'attività di impresa in via mediata trova adeguati agganci normativi, spiegando come l'interesse e l'oggetto sociale si coordinano tra di loro: attraverso la controllata la controllante soddisfa il proprio interesse, in quanto è attraverso la controllata che essa svolge, sempre in modo mediato ed indiretto, una propria attività economica. La capogruppo, quindi, è imprenditore, per il fatto di esercitare attività imprenditoriale nella sua completezza, in una fase in via diretta, in altra fase in modo mediato ed indiretto.La nozione economica, inoltre, che individua nel gruppo sostanzialmente un'unica impresa articolata su più soggetti, può trovare una corrispondente qualificazione giuridica sulla base indicata, individuando nel gruppo in quanto tale un'unica impresa articolata, alla quale peraltro non corrisponde un unico imprenditore ma, mediante l'incidenza dell'attività indiretta, una pluralità di imprenditori, quanti sono i soggetti del gruppo, e tra essi la capo gruppo. Il riflesso dell'oggetto sociale della controllata sull'oggetto della controllante, governante l'attività del gruppo, finisce per operare sia sullo scopo tecnico da questa perseguito, sia sull'interesse sociale. Ed invero, se l'impresa è un'attività (un complesso di atti diretti ad un fine) e se l'oggetto sociale è il programma tecnico dato dai soci alla società, ne risulta che lo scopo tecnico qualifica l'attività nell'ambito del programma e quindi, se compreso nelle categorie dell'art. 2195 c.c., come attività di impresa commerciale; l'interesse sociale qualifica la stessa attività come attività economica e, pertanto, ancora, come attività di impresa sotto il profilo del diverso requisito dell'economicità. In secondo luogo, stante la stretta connessione concettuale tra oggetto sociale, scopo tecnico,

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interesse sociale, l'impronta dell'imprenditorialità della controllata sull'oggetto della controllante si riflette necessariamente, non solo sulla qualificazione in termini di imprenditorialità dell'attività della controllante, ma sulla qualificazione in termini di economicità della stessa attività, e sull'interesse sociale della controllante, interesse che della economicità della attività costituisce lo scopo.Il fatto che fra l'interesse delle società operative del gruppo e l'interesse della capogruppo vi sia una situazione di coincidenza di realizzazione, è il portato tipico ed originale della partecipazione dominante esercitata con funzione direttiva e di coordinamento. L'economicità dell'impresa, intesa come attitudine a produrre un risultato economico per chi agisce, e quindi come carattere oggettivo dell'attività inerente al metodo economico di cui la stessa è espressione, si esplica nel gruppo di società con una modalità originale che è diretta conseguenza dell'attività direttiva e di coordinamento.Si è già indicato come, dal punto di vista della scienza dell'economia, lo scopo dell'attività direttiva e di coordinamento del gruppo deve individuarsi nella più efficiente operatività economica del gruppo nel suo insieme e, pertanto, nell'attitudine alla realizzazione di vantaggi economici del gruppo nel suo insieme e nelle sue componenti; vi è quindi nel modello operativo e strutturale del gruppo un'attitudine a produrre risultati economici che sono la diretta conseguenza proprio del fattore caratterizzante il gruppo e, cioè, nella direzione e del coordinamento unitario espletato dalla holding. Questa attitudine, costituente la ragione stessa giustificatrice della costituzione del gruppo, si riflette anche, dal punto di vista giuridico, sulla qualificazione dell'imprenditorialità della holding, consentendo di ravvisare nell'attività diretta della stessa la fonte di risultati economici che, senza detta attività direttiva, non si realizzerebbero, risultati che, in quanto tali, vanno ascritti in via diretta proprio all'operare della capogruppo. Il fatto che, poi, i risultati di detta caratteristica attitudine dell'attività diretta della capogruppo incidono sul patrimonio delle controllate, non escludono l'attribuibilità degli stessi alla capogruppo, sia in virtù della indicata derivazione diretta del fenomeno, sia in virtù della unicità dell'impresa espressa nella pluralità soggettiva degli imprenditori, che riflette automaticamente, e con immediatezza, i risultati realizzata dalla partecipante sul patrimonio della controllante.Anche sotto questo profilo, in definitiva, sarebbe erroneo ritenere l'attitudine alla realizzazione dei risultati economici da parte della holding come inidonea alla integrazione della fattispecie imprenditoriale, in virtù del ritenuto carattere mediato della acquisizione del risultato. Volendo ora chiarire quali caratteristiche debba avere l'azione imprenditoriale mediata, al fine evitare con qualificazioni terminologiche similari si confondano fenomeni diversi, che pure in termini di imprenditorialità indiretta sono stati espressi, si rileva: A) Innanzi tutto, l'attività indirettamente esercitata dalla copogruppo, è un'attività direttamente, ed in nome proprio, esplicata dalle singole controllate; parallelamente, se l'attività della capogruppo integra quella delle controllate, essa è espressione diretta e personale della stessa holding. Conseguentemente, ciascuna delle entità separate esplica in nome proprio l'attività direttamente attribuitale.Una prima caratteristica, quindi, emerge, e cioè: l'attività della holding, sia essa attività di direzione e di coordinamento in sè e per sè considerata (holding pura) sia essa l'ulteriore attività in campo finanziario ed ausiliario con cui il coordinamento si esplichi con espressioni negoziali (holding operativa), debbono essere esplicate in via diretta e, di conseguenza, in nome proprio della capogruppo, così come l'attività di produzione e di scambio delle società operative deve essere esplicata in nome proprio delle stesse.B) Una seconda caratteristica consiste nel fatto che l'autonomia soggettiva e patrimoniale delle singole componenti del gruppo, non solo non viene superata, ma costituisce altro momento caratterizzante del modello operativo del gruppo societario. Il fatto che nel gruppo, con deduzione delle disposizioni normative indicate, si sia giunti all'affermazione dell'unità dell'impresa esercitata anche con attività mediata, pure in presenza della pluralità di imprenditori, non giustifica il venire meno delle autonomie soggettive e patrimoniali delle singole componenti in cui il modello si articola. Conseguentemente, ciascuna società, sia essa controllata, sia essa la controllante, assume la responsabilità patrimoniale

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connessa alle obbligazioni effettivamente e direttamente assunte, alle attività negoziali direttamente ed in proprio come escplicate. C) Eventuali responsabilità della holding per le obbligazioni delle società operative può tutt'al più individuarsi in base all'art. 2362 c.c., sempre la capogruppo assume la veste, effettiva ed apparente, di socia unica delle società controllate. D) La holding, in base ai fattori indicati, si distingue dal socio tiranno, sia perché questa figura, quanto meno nella formulazione della dottrina più accreditata, è caratterizzata non da un'agire economicamente improprio ed in prima persona, o anche in prima persona, del socio dominante, ma dell'adozione in via esclusiva attraverso gli organi delle società dominate, ed inoltre dalla creazione di confusione tra i patrimoni del socio dominante e della società dominata, con la carenza, rispetto alla figura della holding, delle caratteristiche essenziali sopra indicate sub A) e C). D'altra parte quand'anche una holding, decampando dai limiti indicati dalla figura tipizzata (tipizzata, ovviamente, dalla prassi) del gruppo, ma pur in presenza del fattore caratterizzante dell'attività di coordinamento e di direzione operata tramite il dominio delle azioni, eludesse i limiti propri dell'autonomia patrimoniale e personale delle società componenti, operando con abuso di maggioranza, con usurpazione di poteri gestori o di controllo, con inosservanza delle regole di vincolo sulla disponibilità del patrimonio sociale (tutte situazione che riscontrano nell'operare del socio tiranno), non per questo verrebbe meno l'autonomia delle componenti, dovendo dette situazioni trovare disciplina e sanzione in forme tipiche della singola attività e diverse dalla responsabilità patrimoniale per obbligazioni sociali. E) La holding, infine, si distingue dalla pura e semplice gestione patrimoniale del portafoglio azionario, in quanto essa non si limita all'esercizio dei poteri e dei diritti che dalle azioni conseguono, ma a mezzo di detti poteri esercita l'attività caratterizzante di direzione e di governo, eventualmente anche finanziario, già descritta. Individuati così, i fattori caratterizzanti distintivi del gruppo come impresa e della società holding come imprenditrice, non si ritiene sussistano fattori impeditivi all'estensione delle caratteristiche e delle stesse qualificazione imprenditoriali, al capo gruppo-persona fisica. È pur vero che, dando accoglimento all'indirizzo per ultimo richiamato, si è tratto argomento all'individuazione della società holding come imprese da norme concernenti l'oggetto sociale, e nell'impresa individuale non è richiesta l'enunciazione preventiva e la pubblicazione di un programma tecnico ed economico di azione quale componente costitutiva. È altresì vero, però, che sia nell'imprenditorialità sociale, sia nell'imprenditorialità individuale, ciò che caratterizza l'imprenditore è il genere di attività svolta e le modalità operative inerenti. Sul piano dell'attività, la direzione ed coordinamento tecnico finanziario del socio dominante il gruppo (quale fase di attività di impresa direttamente esercitata parte del socio dominante il gruppo); il riflesso dell'attività di impresa delle società operative sull'attività del capogruppo, cui danno oggetto e contenuto; l'attitudine del coordinamento del capogruppo ad operare con modalità economiche, si presentano con identiche modalità e con identiche funzioni nelle due figure della società e della persona fisica holding. La differenza attiene essenzialmente alla prova delle varie componenti dell'impresa, non all'assenza della figura dell'impresa complessa e dell'imprenditore singolo. [..] In presenza dei requisiti indicati, della partecipazione dominante, dell'organizzazione stabile e della professionalità, la figura della holding - imprenditore individuale ben sarebbe ipotizzabile ed il riflesso delle attività delle società operative sull'oggetto dell'attività diretta delle holding consentirebbe il superamento della fondamentale eccezione svolta dai ricorrenti, concernente la asserita mancanza di un utile autonomo delle holding, così come consentirebbe di superare la asserita violazione della autonoma personalità e dell'autonomia patrimoniale delle società dominate. [...] Sotto il secondo profilo, qualora l'attività direttiva non entri nello schema organizzativo dell'imprenditore capogruppo per non avere le caratteristiche essenziali indicate, ma l'imprenditorialità dello stesso si individui solo in collaterali attività di servizi ed accessorie, queste distinte attività debbono a loro volta essere espressione diretta e personale del soggetto cui la qualifica imprenditoriale si intenda attribuire, ed inoltre l'attitudine dell'economicità di detta

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attività deve essere individuata in via autonoma, indipendentemente dall'economicità dell'attività delle società che solo lo schema organizzativo della holding sopra illustrato, (con l'incidenza dell'attività direttiva, cui l'attività delle società conferisce caratteristica di economicità e di attitudine imprenditoriale sotto il profilo della produzione e dello scambio di beni), consente di connettere all'interesse sociale delle società del gruppo.[...] Il giudice di rinvio, nella valutazione delle situazioni oggetto di dibattito sul punto ora in esame, si atterrà in particolare ai seguenti principi: A) l'attività di reazione strategica o di governo di ciascun gruppo di società affermata come sussistenza nella sentenza della Corte di Roma oggetto dei ricorsi, in tanto ha l'attitudine a qualificare ciascuna persona fisica capogruppo come imprenditore individuale, in quanto in essa si individuino le seguenti condizioni:1) gli atti, soprattutto negoziali, nei quali la direzione del gruppo si esplica, devono essere posti in essere dal capogruppo in nome proprio; 2) detta attività, astrattamente e aprioristicamente considerata, deve avere l'attitudine a produrre un incremento di risultati economici del gruppo nel suo insieme e nelle sue componenti, risultati che appaiano diretta derivazione dell'attività di governo e che non altrimenti siano ipotizzabili in assenza dell'attività qualificante indicata; questa situazione essenziale dovrà essere valutata alla luce di tutti gli elementi probatori offerti. B) Nell'ipotesi in cui, invece, l'attività direttiva, per mancanza dei citati requisiti essenziali, non entri in gioco quale fattore unificante l'impresa, nella pluralità dei soggetti imprenditori e come tale non determini di per sè lo schema organizzativo dell'imprenditore capogruppo, l'analisi dell'imprenditorialità dello stesso, sulla base delle sole attività collaterali di servizio ed accessorie dovrà individuare le seguenti caratteristiche essenziali:1) gli atti debbono essere ancora espressione diretta e personale del soggetto della cui imprenditorialità si tratti; 2) l'attitudine dell'economicità di detta attività deve essere individuata in via autonoma, indipendentemente dall'economicità dell'attività delle società che solo lo schema organizzativo della holding di cui al punto A) consente di connettere all'interesse del capogruppo e deve essere valutata nella completezza dei mezzi probatori offerti.[...] A questa sentenza hanno fatto seguito sullo stesso tema, in termini, Cass. 9 agosto 2002, n. 12113, est. S. Di Amato; Cass. 13 marzo 2003, n. 3724, est. M.R. Cultrera; Cass. SU 29 novembre 2006, n. 25275, est. G. Vidiri, secondo cui "È configurabile una holding di tipo personale allorquando una persona fisica, che sia a capo di più società di capitali in veste di titolare di quote o partecipazioni azionarie, svolga professionalmente, con stabile organizzazione, l'indirizzo, il controllo ed il coordinamento delle società medesime, non limitandosi, così, al mero esercizio dei poteri inerenti alla qualità di socio. A tal fine è necessario che la suddetta attività, di sola gestione del gruppo (cosiddetta holding pura), ovvero anche di natura ausiliaria o finanziaria (cosiddetta holding operativa), si esplichi in atti, anche negoziali, posti in essere in nome proprio, fonte, quindi, di responsabilità diretta del loro autore, e presenti altresì obiettiva attitudine a perseguire utili risultati economici, per il gruppo e le sue componenti, causalmente ricollegabili all'attività medesima. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto che la corte territoriale avesse correttamente applicato il principio di cui in massima riconoscendo, in controversia per differenze retributive per lo svolgimento di mansioni dirigenziali, la legittimazione passiva del datore di lavoro, convenuto in un giudizio in proprio e quale rappresentante delle società che ad esso facevano capo e che egli sostanzialmente controllava influenzandone le decisioni e le scelte gestionali)" [mass.uff.]. Dopo l'introduzione dell'art. 2497 c.c. non constano prese di posizioni della Cassazione sul punto, invece nella giurisprudenza di merito, si veda: Trib. Roma, 21 novembre 2011, www.ilcaso.it, secondo cui non vi sono ragioni per escludere che la responsabilità di cui all'art. 2497 c.c., in tema di responsabilità dell'ente controllante verso i creditori delle società soggette all'attività di direzione e coordinamento, possa essere ravvisata in capo ad una persona fisica, posto che il concetto di direzione unitaria consente di identificare

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fenomeni di gruppo ulteriori rispetto a quelli identificabili in base ai criteri di controllo azionario e contrattuale; nonché, sotto il profilo dell'insolvenza: App. Bologna Sez. I, 23 maggio 2007, Società, 2008, 316, secondo cui la persona fisica può essere qualificata come holding e, come tale, dichiarata fallita, purché abbia agito in proprio nome, perseguito un autonomo scopo economico e versi in stato d'insolvenza. L'inammissibile coinvolgimento della società interponente nella situazione di insolvenza della società interposta, in virtù dell'autonomia della holding, soggetto giuridico distinto dalla società fiancheggiata, preclude ai creditori di quest'ultima di insinuarsi efficacemente al passivo del fallimento della società di fatto (ossia dell'impresa a latere), potendo essere ammessi al passivo di questa soltanto i creditori nei cui confronti la stessa società di fatto o i singoli soci in proprio hanno assunto obbligazioni. App. Milano, 17 luglio 2008, Fall., 2009, 2, 169, secondo cui una persona a capo di più società di capitali può dar vita alla figura della "holding" personale a condizione che svolga professionalmente, con stabile organizzazione, l'indirizzo, il controllo ed il coordinamento delle società medesime, non limitandosi, così, al mero esercizio dei poteri inerenti alla qualità di socio. A tal fine è necessario che la suddetta attività (di sola gestione del gruppo - c.d. "holding" pura - ovvero anche di natura ausiliaria o finanziaria - c.d. "holding" operativa) si esplichi in atti, anche negoziali, posti in essere in nome proprio e fonti, quindi, di responsabilità diretta del loro autore, nonché idonei a perseguire utili risultati economici per il gruppo e le sue componenti. Trib. Napoli 8 gennaio 2007, Fall., 2007, 4, 407, secondo cui, nell'ipotesi di "holding" di tipo personale, cioè di persona fisica che sia a capo di più società di capitali in veste di titolare di quote o partecipazioni azionarie e svolga professionalmente, attraverso una stabile organizzazione, l'indirizzo, il controllo e il coordinamento delle società medesime (non limitandosi al mero esercizio dei poteri inerenti alla qualità di socio), è configurabile un'autonoma impresa, come tale assoggettabile a fallimento, qualora la suddetta attività, sia essa di sola gestione del gruppo (holding pura), ovvero anche di natura ausiliaria o finanziaria ("holding" operativa), si esplichi in atti, anche negoziali, posti in essere in nome proprio e, dunque, fonte di responsabilità diretta del loro autore, presentando un'obiettiva attitudine a perseguire utili risultati economici, per il gruppo o le sue componenti, causalmente ricollegabili all'attività medesima. In dottrina si è sostenuto, ai fini dell'azione di responsabilità, che l'art. 2497 c.c. non riguarda le persone fisiche, giacché la norma ha subito nelle battute finali un'importante modifica: mentre nello schema presentato dal Governo il 29.9.2002 [pubblicato in Soc. 2002, 12] chiunque poteva essere chiamato a risarcire soci e creditori della società controllata, nel testo definitivo questa previsione è stata circoscritta e limitata alle società e agli enti, in cui rientrano le associazioni, le fondazioni, gli enti pubblici, ma non rientrerebbero le persone fisiche (in questo senso Patti, Badini-Confalonieri-Ventura, Bassi, Angelici, Galgano, Patti, Sbisà; contra Guerrera, Esposito, Fimmanò, Sacchi; Guglielmucci ritiene che la persona fisica è comunque sempre perseguibile attraverso l'art. 2043 c.c., Montalenti e Rordorf ritengono che la persona fisica possa essere perseguita ai sensi dell'art. 2497, comma 2, c.c., ma non ai sensi dell'art. 2497, comma 1, c.c.). B) Rientrano in quest'espressione le Pubbliche Amministrazioni? Secondo un orientamento dottrinale (Cariello e Guaccero) siccome si parla di interesse imprenditoriale, allora è esclusa l'applicazione del'art. 2497 c.c. nei casi in cui l'ente agisca per finalità sociali o pubbliche. Secondo un altro orientamento (Fimmanò, Ibba, Rordorf), invece, non solo l'aggettivo imprenditoriale si può riferire ai servizi pubblici a prescindere dall'economicità o meno del modello di gestione, ma non necessariamente l'interesse imprenditoriale dev'essere proprio dell'ente, potendo essere proprio della società eterodiretta. E' certo comunque che l'imprenditorialità non dev'essere una caratteristica propria dell'attività di direzione e coordinamento. In altri termini, non c'è bisogno di scomodare la sentenza Caltagirone

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dove la Cassazione ha qualificato come imprenditoriale la stessa attività di direzione e coordinamento e l'ha assoggettata a fallimento, perché nella dizione dell'art. 2497 l'imprenditorialità attiene ad un interesse esterno alla fattispecie e non interno. Nonostante la delicatezza della materia, non v'è stato un intervento normativo preciso e dettagliato, ma solo una norma di interpretazione autentica che ha escluso dall'applicazione dell'art. 2497 c.c. lo Stato, inteso come Amministrazione centrale e non nelle sue articolazioni periferiche. L'art. 19, c. 6, d.l. 1.7.2009 n. 78, convertito in l. 3.8.2009 n. 102 ha stabilito che: «L'art. 2497, c. 1, c.c. si interpreta nel senso che per enti si intendono i soggetti giuridici collettivi, diversi dallo Stato, che detengono la partecipazione sociale nell'ambito della propria attività imprenditoriale ovvero per finalità di natura economica o finanziaria». Ci sono molti problemi connessi alla responsabilità ex art. 2497 c.c. nel caso in cui l'attività di direzione e coordinamento sia esercitata da una Pubblica Amministrazione. Il primo di questi problemi è, per così dire, ideologico: se la PA ha il diritto-dovere di dettare gli indirizzi politico-amministrativi cui si deve uniformare la società partecipata, può entrare nel merito della gestione societaria? E poi, quando l'art. 2497 c.c. parla della violazione dei principi di corretta gestione societaria ed imprenditoriale si riferisce agli indirizzi politico amministrativi o alle decisioni gestionali volte a perseguire gli interessi del gruppo? In che limiti può, quindi, configurarsi la violazione di cui all'art. 2497 c.c. in capo alla PA? Su questi problemi, si propone una breve rassegna della giurisprudenza contabile e di legittimità. Gli amministratori della società pubblica eterodiretta rispondono civilisticamente e contabilmente - CIVILISTICAMENTE, ai sensi dell'art. 2497, comma 2, c.c. Va precisato che civilisticamente rispondono tutti gli amministratori delle società pubbliche eterodirette senza distinzioni (con la sola eccezione dello Stato), nonché in via esclusiva i soggetti che sulla base dell'art. 16 bis del d.l. 31 dicembre 2007, n. 248 (decreto milleproroghe) relativo alla Responsabilità degli amministratori di società quotate partecipate da amministrazioni pubbliche non possono rispondere contabilmente. L'art. 16-bis ha infatti escluso l'azione di responsabilità amministrativa per le società con azioni quotate in mercati regolamentati, con partecipazione anche indiretta dello Stato o di altre amministrazioni o di enti pubblici, inferiori al 50%, nonché per le loro controllate, con la precisazione avvenuta in sede di conversione con la legge 31/08 che per questi soggetti esentati dal controllo contabile, la responsabilità degli amministratori e dei dipendenti è regolata dalle norme del diritto civile e le relative controversie sono devolute esclusivamente alla giurisdizione del giudice ordinario. - CONTABILMENTE, ancorché si tratti di un ente pubblico economico e purché lo stesso si inserisca nell'iter procedimentale dell'ente pubblico diventando compartecipe dell'attività a fini pubblici per Cass. SU 22 dicembre 2003, n. 19667, ord., secondo cui nella specie, il giudizio di responsabilità per danno erariale era stato promosso dal procuratore regionale della Corte dei conti nei confronti del presidente e degli altri componenti del consiglio di amministrazione nonché di dipendenti del Consorzio comprensoriale del Chietino per la gestione di opere acquedottistiche - istituito tra vari Comuni ai sensi dell'art. 25 della legge 8 giugno 1990, n. 142 - per fatti attinenti allo svolgimento di un'operazione finanziaria dell'Ente, e dunque all'attività imprenditoriale dello stesso e per Cass. SU 26 febbraio 2004, n. 3899, secondo cui l'affidamento, da parte di un Comune (nella specie: quello di Milano) ad un ente privato esterno (nella specie una società per azioni, avente un capitale detenuto in misura assolutamente maggioritaria dallo stesso Comune), della gestione del servizio relativo agli impianti e all'esercizio dei mercati annonari all'ingrosso di Milano, integra una relazione funzionale incentrata sull'inserimento del soggetto privato controllato nell'organizzazione funzionale dell'ente pubblico e ne implica, conseguentemente, l'assoggettamento alla giurisdizione della Corte dei Conti in materia di responsabilità patrimoniale per danno erariale, non rilevando, in contrario, ne' la natura privatistica dell'ente stesso, ne' la natura

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privatistica dello strumento contrattuale con il quale si sia costituito ed attuato il rapporto in questione. (Nel fare applicazione di tale principio, riferito a un procedimento relativo alla responsabilità per <tangenti> percepite da alcuni amministratori del Comune di Milano e della società controllata dall'ente pubblico, la Corte ha escluso la rilevanza di quelli affermati nella sentenza della Suprema Corte n. 19667 del 2003). Si era appena consolidato questo orientamento che la Corte dei Conti, sez. giurisd. Lombardia, 22 febbraio 2006, n. 114, è intervenuta, precisando, con riferimento alla vicenda Enelpower, che sussiste la giurisdizione della Corte dei Conti nelle controversie volte all'accertamento degli illeciti erariali commessi dai dipendenti delle società per azioni partecipate dagli enti pubblici (Enel) ovvero di società per azioni controllate dalle medesime (Enelpower ed Enelproduzione), facendo derivare il relativo potere, tra l'altro (gli argomenti in sentenza sono molteplici e se ne riportano solo alcuni) dall'art. 7 della legge 97/2001 che impone al giudice ordinario di comunicare al Procuratore regionale della Corte dei Conti la sentenza pronunciata contro il pubblico dipendente affinché il Procuratore eserciti l'azione di conto, dalla portata immediatamente precettiva dell'art. 103 Cost., dal costante orientamento di legittimità secondo cui la trasformazione delle amministrazioni pubbliche in enti pubblici economici e in società per azioni non ne fa venir meno la natura pubblicistica, dall'orientamento della Corte cost. 28 dicembre 1993, n. 466, secondo cui spetta alla Corte dei Conti il controllo sulle società per azioni derivanti dalla trasformazione dell'IRI, ENI, INA ed ENEL fin quando permanga una partecipazione esclusiva o maggioritaria dello Stato al capitale azionario di tali società. In definitiva, discostandosi dal tradizionale orientamento che vede nel rapporto di servizio il presupposto per la giurisdizione contabile, la Corte dei Conti, sez. Lombardia, ha affermato che, all'esito del processo di privatizzazione ed aziendalizzazione avviato dagli anni '90 (D. Lgs. 29/93, 80/98, 165/01) e tenuto sempre presente l'art. 103 Cost., assume rilievo non tanto l'elemento formale della qualificazione soggettiva del soggetto chiamato innanzi alla Corte dei Conti, e il rapporto di servizio fra il soggetto stesso e l'amministrazione danneggiata, quanto l'elemento sostanziale della qualificazione oggettivamente pubblica delle risorse finanziarie gestite dal soggetto convenuto in giudizio e in relazione alle quali si configura il danno patrimoniale di cui alla pretesa risarcitoria oggetto del giudizio. Con riferimento alla possibile interferenza tra responsabilità contabile e responsabilità societaria, la citata sentenza ha osservato che il giudizio contabile è connotato dall'officiosità e da elementi di natura sanzionatori, mentre quello societario è facoltativo, su impulso di parte e ha finalità recuperatorie; inoltre, la maggior tutela prevista per gli azionisti privati, che cumulano alle normali azioni previste dalla normativa civilistica quelle di stampo pubblicistico, connesse alla funzione giurisdizionale della Corte dei Conti, non si sostanzia in un'irragionevole disparità di trattamento, ma bilancia i minori poteri dei medesimi azionisti privati statutariamente posti in una posizione minoritaria all'interno della compagine sociale. E' evidente poi che se una delle due azioni ha esito pienamente satisfattivo, si pone il problema della prosecuzione dell'altra, a causa del pericolo di violazione del principio del ne bis in idem. L'importante principio enunciato dalla Corte dei Conti (e prima ancora dalla sez. Molise 234/02) è stato poi sviluppato da Cass. SU 1° marzo 2006, n. 4511, secondo cui il baricentro per discriminare la giurisdizione ordinaria da quella contabile si è, infatti, spostato dalla qualità del soggetto - che può ben essere un privato o un ente pubblico non economico - alla natura del danno e degli scopi perseguiti, cosicché ove il privato, cui siano erogati fondi pubblici, per sue scelte incida negativamente sul modo d'essere del programma imposto dalla P.A., alla cui realizzazione esso è chiamato a partecipare con l'atto di concessione del contributo, e la incidenza sia tale da poter determinare uno sviamento dalle finalità perseguite, esso realizza un danno per l'ente pubblico - anche sotto il mero profilo di sottrarre ad altre imprese il finanziamento che avrebbe potuto portare alla realizzazione del piano così come concretizzato ed approvato dall'ente pubblico con il concorso dello stesso imprenditore -, di cui deve rispondere davanti al giudice contabile (fattispecie relativa ad un giudizio per danno patrimoniale, cagionato alla Regione Abruzzo, promosso per l'indebita richiesta, e conseguente corresponsione di finanziamento - nell'ambito dell'attuazione del

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programma operativo multiregionale-Patti territoriali per l'occupazione, a valere sugli accordi con l'Unione europea nel contesto dell'obiettivo 1, sottoprogramma n.9 Sangro-Aventino di cui al decreto n. 967 del 29/1/99 del Ministero del tesoro, già approvato dalla Commissione della Comunità europea - ad una società a responsabilità limitata per la realizzazione di un impianto per l'innevamento programmato; dagli accertamenti eseguiti era infatti emerso che, nonostante il progetto ammesso al finanziamento prevedesse l'installazione di macchinari nuovi di fabbrica, un certo numero di macchine erano state, invece, dapprima acquistate dalla detta società e, successivamente, previo finalizzato ristorno, simulatamene riacquistate). Nello stesso senso anche Cass. SU 20 giugno 2006, n. 14101, secondo cui spettano alla giurisdizione della Corte dei conti i giudizi di responsabilità amministrativa promossi nei confronti di amministratori e dipendenti di enti pubblici economici per i fatti commessi dopo l'entrata in vigore dell'art.1, ultimo comma, della legge 14 gennaio 1994, n.20; nell'attuale assetto normativo, infatti, il dato essenziale che radica la giurisdizione contabile è rappresentato dall'evento dannoso verificatosi a carico di una P.A. e non più dal quadro di riferimento - pubblico o privato - nel quale si colloca la condotta produttiva del danno. Sennonché, la Cassazione SU 19 dicembre 2009, n. 26806, quando si è andata a pronunciare sulla legittimità della sentenza della sezione giurisdizionale centrale della Corte dei Conti che aveva rigettato gli appelli avverso la sentenza della Corte dei Conti in primo grado che aveva parzialmente accolto il ricorso del Procuratore della regione Lombardia in merito alle responsabilità derivanti dalla vicenda Enelpower, ha detto che spetta al giudice ordinario la giurisdizione in ordine all'azione di risarcimento dei danni subiti da una società a partecipazione pubblica per effetto di condotte illecite degli amministratori o dei dipendenti (nella specie, consistenti nell'avere accettato indebite dazioni di denaro al fine di favorire determinate imprese nell'aggiudicazione e nella successiva gestione di appalti), non essendo in tal caso configurabile, avuto riguardo all'autonoma personalità giuridica della società, né un rapporto di servizio tra l'agente e l'ente pubblico titolare della partecipazione, né un danno direttamente arrecato allo Stato o ad altro ente pubblico, idonei a radicare la giurisdizione della Corte dei conti. Ciò in considerazione del fatto che nell'attuale disciplina societaria, l'esercizio dell'azione sociale di responsabilità non è più monopolio dell'assemblea, potendo nella società per azioni una minoranza qualificata dei partecipanti alla compagine e nella società a responsabilità limitata addirittura ciascun singolo socio tutelarsi adeguatamente. Ne deriva che scatta la giurisdizione contabile quando il rappresentante dell'ente partecipante o comunque titolare del potere di decidere per esso socio pubblico abbia colpevolmente trascurato di esercitare i propri diritti di socio, in tal modo pregiudicando il valore della partecipazione. (Nell'affermare l'anzidetto principio, le S.U hanno altresì precisato che in quest'ultimo caso l'azione erariale concorre con l'azione civile prevista dagli artt. 2395 e 2476, sesto comma cod. civ). Conformi a questa pronuncia Cass. SU, 15 gennaio 2010, n. 519, ord, e 23 febbraio 2010, n. 4309, secondo cui il danno inferto dagli organi della società al patrimonio sociale che è idoneo a far scattare l'azione di responsabilità di tipo societario, non comporta automaticamente la responsabilità contabile perché il danno è alla società e cioè ad un soggetto privato e solo di riflesso al socio pubblico. Per questo motivo, la responsabilità contabile scatta solo laddove gli organi amministrativi del socio pubblico non abbiano intrapreso le opportune azioni a tutela delle proprie ragioni. Dopo quest'importante precisazione dei giudici di legittimità sulla distinzione tra il patrimonio della società che è sempre privato e la posizione del socio pubblico, la Corte dei Conti, chiamata a pronunciarsi sull'appello proposto da uno dei manager di Enipower S.p.A. ha dichiarato il proprio difetto di giurisdizione sul danno sofferto da un soggetto privato (la società appunto) riferibile al patrimonio appartenente soltanto a quel soggetto e non certo ai singoli soci, pubblici o privati, i quali sono unicamente titolari delle quote di partecipazione e i cui originari conferimenti risultano confusi ed assorbiti nell'unico patrimonio sociale (Corte dei Conti, sez. III, app., 9 aprile 2010, n. 261 L'orientamento della Cassazione nel 2009 ha avuto successive conferme in

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Cass. SU 5 luglio 2011, n. 14655, La controversia riguardante l'azione di responsabilità a carico degli amministratori (o dei terzi che hanno concorso con loro nel cagionare il danno) di una società per azioni a partecipazione pubblica anche se maggioritaria o, come nella specie, totalitaria (in capo a più enti), per il danno patrimoniale subito dalla compagine sociale a causa delle condotte illecite di tali soggetti è assoggettata alla giurisdizione del giudice ordinario e non del giudice contabile atteso che, da un lato, l'autonoma personalità giuridica della società porta ad escludere l'esistenza di un rapporto di servizio tra amministratori, sindaci e dipendenti e P.A. e, dall'altro, il danno cagionato dalla "mala gestio" incide in via diretta solo sul patrimonio della società, che resta privato e separato da quello dei soci; Cass. SU 12 ottobre 2011, n. 20941, In tema di rapporti tra giurisdizione ordinaria e contabile, nella società di diritto privato a partecipazione pubblica, il pregiudizio patrimoniale arrecato dalla "mala gestio" dei suoi organi sociali non integra il danno erariale in quanto si risolve in un "vulnus" gravante in via diretta esclusivamente sul patrimonio della società stessa, soggetta alle regole di diritto privato e dotata di autonoma e distinta personalità giuridica rispetto ai soci; l'azione di responsabilità per danno erariale, può, invece, configurarsi nei confronti di chi, essendone incaricato, non abbia esercitato i poteri ed i diritti sociali spettanti al socio pubblico al fine d'indirizzare correttamente l'azione degli organi sociali o di reagire opportunamente agli illeciti da questi ultimi commessi. (Nella specie, è stata dichiarata la giurisdizione del giudice ordinario in relazione alla responsabilità dell'amministratore delegato di una società partecipata interamente da una Regione per la stipula di un contratto di consulenza con il proprio predecessore); Cass. SU 12 ottobre 2011, n. 20940, Sussiste la giurisdizione della Corte dei conti in ordine all'azione risarcitoria proposta nei confronti del rappresentante di un ente pubblico non economico (nella specie Croce Rossa Italiana), titolare di una partecipazione totalitaria in una società di capitali, che abbia esercitato, in nome e per conto dell'ente, i diritti e le facoltà inerenti alla posizione di socio, in modo non conforme al dovere di diligente cura del valore di tale partecipazione, così causando un pregiudizio diretto al patrimonio dell'ente. (Nella specie, il procuratore contabile aveva proposto domanda di risarcimento del danno patrimoniale a carico dell'ente pubblico titolare della partecipazione sociale e, per traslato, della Amministrazione regionale, relativo agli emolumenti versati ad un revisore contabile che, ancorché privo dei requisiti di eleggibilità previsti dalla legge, era stato nominato con il voto determinante del rappresentante del socio pubblico Croce Rossa Italiana). In definitiva, bisogna distinguere caso per caso, verificando chi sia il soggetto danneggiato, Pubblica Amministrazione- socio (giurisdizione contabile e giurisdizione ordinaria), patrimonio della società (solo giurisdizione ordinaria). Nel caso delle cd. società in house providing dove l'Ente locale costituisce una società ai sensi dell'art. 113, comma 5, lett. c, Dlgs. 267/2000 (TUEL) per affidarle la gestione del servizio pubblico direttamente e senza gara, è necessario il cd "controllo analogo". Cioè in tanto l'Ente locale può affidare il servizio alla società in house in quanto, tra gli altri requisiti, eserciti un controllo analogo a quello che eserciterebbe se gestisse il servizio in proprio, sulle modalità con le quali viene effettuato il servizio. Le società in house devono essere legate all'Ente locale da una forma speciale di controllo, analogo a quello che l'Ente esercita sui propri servizi. L'art. 113 TUEL Gestione delle reti ed erogazione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, riprendendo i concetti già affermati dalla sentenza della CGCE, sez. V, 18 novembre 1999 C-107/98 Teckal, ha stabilito che l'erogazione del servizio pubblico locale può prescindere dall'evidenza pubblica, purché sussistano tre requisiti tutti necessariamente concorrenti: a) la società deve avere capitale interamente pubblico, b) l'ente locale deve esercitare su di essa un controllo analogo a quello svolto sui propri servizi e c) la società realizzi la parte più importante della propria attività con l'ente o gli enti che la controllano. Orbene, per il controllo analogo, dice la Teckal, non basta il semplice esercizio degli strumenti di cui dispone il socio di maggioranza secondo le regole proprie del diritto societario, ma è necessario che il controllo si concretizzi in un assoluto potere di direzione, coordinamento e

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supervisione dell'attività del soggetto partecipato e che riguarda l'insieme dei più importanti atti di gestione del medesimo. In questo modo, il soggetto partecipato è solo formalmente distinto dall'Amministrazione, perché in concreto ne fa direttamente parte. La CGCE ha inoltre successivamente chiarito che è necessaria non solo la partecipazione pubblica totalitaria ma anche la possibilità per l'ente di esercitare un'influenza determinante sia sugli obiettivi strategici che sulle decisioni importanti della società, ben al di là dei normali poteri spettanti al socio in assemblea. (CGCE 11.1.2005 C-26/03, Stadt Halle e Trea Leuna, FI 2005, IV, 134; 21.7.2005 C-231/03, Co.Na.Me e 13.10.2005 C-458/03, Parking Brixen GmbH, ibidem 2006, IV, 76; C.G.C.E. 6.4.2006 C-410/04, Anav e C.G.C.E. 11.5.2006 C-340/04, Carbotermo, ibidem 2006, IV, 511). L'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato in data 3 marzo 2008, riprendendo la giurisprudenza comunitaria, ha detto che per aversi controllo analogo è necessario: a) l'attribuzione all'ente pubblico di poteri maggiori rispetto a quelli che il diritto societario riconosce normalmente alla maggioranza sociale; b) il vaglio preventivo da parte dell'ente affidante delle decisioni più importanti; c) la mancata acquisizione da parte della società di una vocazione commerciale che renda precario il controllo pubblico E' di tutta evidenza che questo controllo analogo è del tutto sovrapponibile alla previsione dell'art. 2497 c.c. e ciò spiega la recente pronuncia della Corte dei Conti, sez. Piemonte, 19-01-2012, n. 3, Azienditalia, 2012, 3, 245, secondo cui In base al principio sancito per le società di capitali dagli articoli 2325 e 2462 cod.civ., deve ritenersi applicabile la responsabilità dell'ente pubblico nei confronti dei creditori sociali ai sensi dell'art. 2497 cod. civ., atteso che il controllo analogo determina l'esercizio dell'attività di direzione e coordinamento nell'interesse istituzionale dell'ente pubblico e non nell'interesse esclusivo della società controllata. L'obbligo di pagare i creditori sociali, riguardando soltanto i debiti non soddisfatti nel corso della liquidazione della società in house, non si pone in contrasto con il divieto di ripianamento delle perdite sancito dall'art. 6, c. 19, del D.L. n. 78/2010 convertito, con modificazioni, dalla legge n. 122/2010, che è stato previsto per perseguire " una maggiore efficienza delle società pubbliche". 2. ...Esercitando attività di direzione e coordinamento Non si sa esattamente cosa sia il gruppo e che cosa significhi con precisione "direzione e coordinamento". Montalenti, però, in un articolo sul Conflitto di interessi nei gruppi di società e teoria dei vantaggi compensativi, comparso su Giur. comm. nel 1995, 5, 710, richiamando e parafrasando un giurista di common law, Blumberg, ha affermato che It has been accepted that the existence of the parent corporation's control over the decision making of the subsidiary, even when combined with the presence of common officers and directors, is not decisive in and of itself. These cases go further and inquire into the extent that such control has been exercised. they are particularly concerned as to whether there has been an excessively intrusive intervention by the parents and its personnel into the decision-making of the subsidiary when compared to normal management patterns in the contemporary business world. In definitiva, va valorizzato il dato di fatto dell'ingerenza direttiva (la direzione presuppone l'esercizio di attività di indirizzo "verticali", quali ordini di servizio, istruzioni, regole di comportamento, meri fatti idonei comunque ad influenzare significativamente le scelte gestionali della società) e di coordinamento (consistente in un'attività orizzontale con atti formali a carattere negoziale quali deliberazioni o accordi contrattuali) e verificata l'estensione di quest'ingerenza. Un'interessante applicazione dell'art. 2497 septies c.c. in cui la direzione e coordinamento di società è avvenuta sulla base di un contratto con le società o di clausole dei loro statuti. Trib. Pescara 3 febbraio 2009, n. 128, in Giur. Merito, 2010, 11, 2740, con nota di P. SERRAO D'AQUINO.

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La vicenda Gli attori- con l'atto di citazione introduttivo del presente giudizio- hanno intrapreso (come detto) l'azione di responsabilità ex artt. 2947 /2497 septies c.c. nei confronti degli odierni convenuti, assumendo che: - Erano stati soci- dall'anno 2000 al marzo dell'anno 2005- della KOINÈ S.A.S. (già KOINÈ S.R.L.). - La KOINÈ S.A.S - a partire dal 1992- era stata parte (quale affiliata) di una serie di contratti di franchising stipulati con la NATUZZI S.P.A. (quale affiliante) ed aventi ad oggetto la vendita al pubblico di prodotti per l'arredamento (nella specie divani con il marchio Divani & Divani). - A partire dall'anno 2000, tuttavia, la affiliante NATUZZI S.P.A.- approfittando del penetrante potere di direzione attribuitole (a loro dire) dai predetti contratti di affiliazione commerciale nei confronti della affiliata KOINÈ - aveva iniziato a tenere nei confronti di quest'ultima (in attuazione di un premeditata strategia, ed attraverso l'imposizione di una serie di "accordi vessatori e irragionevoli") delle condotte "dolosamente" illecite e dannose per la affiliata in quanto volte, a un lato, a salvaguardare il proprio esclusivo interesse economico e, dall'altro e correlativamente, a ledere profondamente l'integrità patrimoniale della controparte la quale - per effetto di quelle abusive condotte- era stata costretta a "farsi carico di tutta una serie di costi ed oneri". - La finalità ultima (ed originaria) della NATUZZI S.P.A. - sottesa sin dall'origine alla decisione della stessa di imporre alla KOINÈ, nell'esercizio abusivo del potere di "direzione unitaria" che il contratto di franchising (a loro dire) conferiva alla prima nei confronti della seconda - era quella di "aggravare lo stato di dissesto dell'affiliato, senza consentirgli di svincolarsi: ciò che aveva portato la Natuzzi ad acquisire i negozi che erano di Koinè ed i soci di quest'ultima a cedere a prezzo vile le proprie quote." - Una tale continuativa condotta illecita, attuata in spregio del canone generale di buona fede, integrava violazione del precetto di cui all'art. 2497 c.c.. - L'abuso di direzione unitaria sanzionato dalla norma di cui sopra e di cui si era resa colpevole il franchisoor (sotto la direzione strategica del suo Vice Presidente D. S. G.) integrava una condotta illecita "comunque ascrivibile allo schema della responsabilità da fatto illecito di cui all'art. 2043 c.c.". - Il danno ingiusto (ex artt. 2043/ 2497 c.c.) nella specie riportato dagli attori (e di cui questi quivi chiedevano il ristoro) in conseguenza della condotta illecita della affiliante consisteva nella lesione del diritto alla redditività ed al valore della partecipazione sociale della affiliata ed ammontava- come documentato da apposita perizia tecnica contabile allegata agli atti- ad euro 5.417.134,00[...] Passando quindi all'esame del merito della causa [...] È quindi pacifico che gli attori, in coerenza con i richiamati presupposti della fattispecie di responsabilità di cui all'art. 2497 septies c.c. dagli stessi quivi invocata: - Non denunziano alcun profilo di invalidità, di inefficacia o di illegittimità dei contratti di affiliazione summenzionati (né di alcuna delle clausole ivi pattuite con la controparte) i quali- di conseguenza- devono ritenersi (in questa sede) perfettamente validi ed efficaci. - Non avrebbero potuto, peraltro, quivi proficuamente denunziarne alcun profilo di invalidità, di inefficacia o di illegittimità, non avendone la "legittimazione attiva" (in quanto meri [ex]soci della affiliata KOINÈ e quindi privi della veste di "controparte negoziale" della prima). - Non deducono l'inadempimento del contratto di franchising da parte della affiliata né esercitano alcuna ulteriore azione contrattuale, la quale (peraltro) sarebbe stata riservata- giusta la relativa clausola del negozio di affiliazione- alla competenza territoriale esclusiva del Tribunale di Bari (cfr. quanto già osservato al riguardo nella sentenza non definitiva del 19.9.07). - Deducono per contro l'illiceità del comportamento continuativo della NATUZZI S.P.A. che- " abusando, in occasione" dello svolgimento del rapporto di franchising in questione, del penetrante potere di direzione attribuitole (a loro dire) dai predetti contratti di affiliazione commerciale nei confronti della affiliata KOINÈ S.R.L. - avrebbe violato i più generali principi di corretta gestione imprenditoriale della affiliata e di buona fede.

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- Pongono quindi ad espresso fondamento (causa petendi) della spiegata domanda di ristoro pecuniario (petitum) non già la specifica violazione di una obbligazione contrattuale bensì il principio del neminem laedere, in una prospettazione in fatto ed in diritto nella quale il rapporto negoziale di franchising tra le due compagini societarie (franchisoor e franchisee) assurge a mero presupposto estrinseco (a "base" per usare la terminologia di cui all'art. 2497 septies c.c.) del fatto illecito dedotto in giudizio (costituito dallo "scorretto" e "doloso" esercizio del potere contrattuale a danno della controparte). [...] Nella sentenza non definitiva del 19.9.07 si è già sottolineato (ancorché ai limitati fini della motivazione del rigetto- ivi pronunziato- della eccezione dei convenuti di incompetenza territoriale del Tribunale adito) che dette norme: - Sanzionano una condotta illecita ("esercizio di attività di direzione e coordinamento di società, agendo nell'interesse imprenditoriale proprio o altrui in violazione dei principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale delle società medesime") causativa a terzi di un danno ingiusto ("pregiudizio arrecato alla redditività ed al valore della partecipazione sociale, nonchè nei confronti dei creditori sociali per la lesione cagionata all'integrità del patrimonio della società"). - Definiscono espressamente tale condotta illecita come "fatto lesivo". - Legittimano all'azione risarcitoria (oltre ai soci della controllata, anche) soggetti (i creditori sociali della controllata) privi di qualsivoglia rapporto contrattuale con la "scorretta" controllante, conferendo quindi tutela extracontrattuale alle loro alle "aspettative di credito". - Nell'ipotesi in cui la legittimazione all'esercizio dell'attività di direzione e coordinamento di società derivi da "un contratto con le società medesime o da clausole dei loro statuti", sanzionano non già il contratto bensì l'"abuso del contratto", ossia il fatto illecito del "dannoso esercizio del potere contrattuale ai danni della controparte che quindi- in quel rapporto negoziale (altrimenti lecito)- può trovare il (mero) presupposto estrinseco. - Tipizzano quindi con evidenza una ipotesi di fatto illecito ex art. 2043 e segg. c.c., il quale si risolve- in tutte le forme codificate nel nostro ordinamento civile (cfr. Cass. S.U. n. 576/2008 in motivazione; Cass. Sez. 3, Ordinanza n. 22586 del 2004 in motivazione) - nella descrizione di un nesso, che leghi storicamente un evento dannoso (nella specie la lesione della redditività e del valore della partecipazione sociale della società "controllata) ad un soggetto (il controllante) chiamato a risponderne sulla base di una condotta antigiuridica (nella specie, l'avere perseguito un interesse proprio violando i principi di corretta gestione societaria ed imprenditoriale della controllata). La considerazione della ratio della norma (individuabile nella volontà legislativa da un lato di sanzionare la società responsabile dell'abusivo esercizio del potere di direzione e di coordinamento perpetrato ai danni dell'altra società e dall'altro e correlativamente di tutelare il patrimonio di quest'ultima che sia stato leso da quell'abusivo comportamento) non consente di riservare (attraverso una interpretazione meramente letterale della norma) la legittimazione all'esercizio della relativa azione di responsabilità soltanto a colui che sia (al momento dell'esercizio di tale azione) ancora "socio" (ovvero creditore) della compagine societaria "scorrettamente etero- gestita" e di escluderla in capo a chi- in quel momento- ne sia ormai un "ex socio": ciò che infatti fonda la legittimazione ad agire (anche) di quest'ultimo è unicamente la prospettazione (da parte dello stesso) della intervenuta consumazione (da parte della società "dominante" ed ai danni della società "subordinata") del fatto illecito sanzionato dalla norma quando egli era socio di quest'ultima", sì da averne subito (per l'effetto) le conseguenze patrimoniali dannose (ossia proprio quelle conseguenze che la nuova norma codicistica vuole risarcire al danneggiato). Quanto alla legittimazione passiva della azione di responsabilità in esame, si condivide la posizione di autorevole dottrina per la quale la norma di cui al terzo comma dell'art. 2497 c.c. (per cui "il socio ed il creditore sociale possono agire contro la società o l'ente che esercita l'attività di direzione e coordinamento, solo se non sono stati soddisfatti dalla società soggetta alla attività di direzione e coordinamento") pone soltanto un onere di preventiva escussione del

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patrimonio della società sottoposta all'altrui abusivo esercizio di direzione unitaria e non riguarda l'azione di cognizione. Venendo all'esame più specifico dell'abuso di posizione di direzione contrattuale quivi invocato dagli attori, giova osservare che il legislatore, con una disposizione espressa (originariamente ricompresa nell'art. 2497-sexies poi consegnata, con il D.lgs. 37/2004, all'autonomo articolo 2497-septies) ha- come visto- disciplinato la fattispecie della direzione e coordinamento tra società esercitata sulla base di un contratto o di clausole statutarie. Al riguardo, è utile ricordare che l'art. 2359 c.c. prevedeva già, accanto al controllo azionario, il controllo contrattuale, detto anche controllo esterno, che sussiste quando una società si trova sotto l'influenza dominante di un'altra per effetto di specifici vincoli contrattuali. Ma l'attività di direzione e coordinamento si distingue, ed è un quid pluris, rispetto al mero esercizio del controllo, in quanto espressione di un potere di ingerenza più intenso rispetto al mero controllo. Una consolidata elaborazione dottrinale ha da tempo segnalato l'elemento della direzione unitaria come tratto distintivo del gruppo rispetto al controllo. La direzione è, dunque, nozione più ampia del controllo, che della prima è il genere prossimo. Se è vero cioè che dalla presenza del controllo può inferirsi la sussistenza della direzione unitaria, è anche vero però che, trattandosi di presunzione juris tantum, può essere fornita la prova contraria, la quale non può che consistere, appunto, nella dimostrazione che, pur in presenza del controllo, non sussistono tuttavia ulteriori elementi, tali da poter affermare l'esistenza anche della direzione unitaria. Si tratta allora di individuare quale sia la "differenza specifica", quali siano cioè i tratti distintivi della fattispecie che, "addizionati" alla nozione di "controllo", concretano la nuova nozione normativa, fermo restando quanto si dirà in tema di direzione unitaria contrattuale. L'attività di direzione è comunemente intesa come l'esercizio di una pluralità sistematica e costante di atti di indirizzo idonei ad incidere sulle decisioni gestorie dell'impresa, cioè sulle scelte strategiche ed operative di carattere finanziario, industriale, commerciale che attengono alla conduzione degli affari sociali. L'attività di coordinamento è comunemente intesa come la realizzazione di un sistema di sinergie tra diverse società del gruppo nel quadro di una politica strategica complessiva, estesa all'"insieme" di società. La direzione opera- potrebbe quindi dirsi- in senso verticale; il coordinamento in senso orizzontale. Autorevole dottrina ritiene (correttamente ad avviso del Tribunale) che si tratti di un'endiadi di cui il tratto caratterizzante è la direzione unitaria, dovendo allora ammettersi la riconducibilità alla disciplina anche dell'attività esercitata su di un'unica società, non foss'altro perché, in tal caso, si configura comunque un'attività di coordinamento tra la società "dirigente" e la società "eterodiretta". Onde appare legittimo poter concludere nel senso che per attività di direzione e di coordinamento debba intendersi l'esercizio di una pluralità sistematica e costante di incisione sulle scelte gestorie della società subordinata, cioè sulle scelte strategiche ed operative di carattere finanziario, industriale, commerciale che attengono alla conduzione degli affari sociali. Posto allora che la lettera dell'art. 2497-septies c.c. richiede sic et simpliciter- come detto- la prova dell'esercizio di direzione e coordinamento su base contrattuale (o di una conforme previsione statutaria), il problema allora si sposta alla individuazione di quali siano gli "indici" da considerare rivelatori di un esercizio di direzione e coordinamento anche su base contrattuale o statutaria. Si è osservato in dottrina- in generale- che il potere di direzione ed il coordinamento delle varie imprese di matrice contrattuale sussista quando ad esempio una parte abbia ex contractu il potere di imporre alla controparte una determinata struttura finanziaria, ad esempio dettando dei requisiti minimi patrimoniali, ossia una data proporzione minima tra la dotazione di mezzi propri e quella di mezzi di terzi nell'impresa ma anche (sia pure per via indiretta) in altri rapporti contrattuali, dove ci si preoccupa non tanto della dotazione patrimoniale, quanto dell'equilibrio finanziario, cioè di una dotazione di risorse finanziarie coerente alle necessità e ai caratteri propri dell'attività

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d'impresa, e quindi di una stabilità sostenibile nel tempo. Anche la definizione ed imposizione delle strategie di mercato da perseguire per la società da parte del soggetto che risulta legato alla stessa solo da un rapporto contrattuale, ovvero sulla base di una clausola dello statuto sociale, sembra poter essere reputata un indice dell'esercizio di direzione e coordinamento da parte dello stesso soggetto.Ciò che è certo (perché espressamente affermato dalla norma) è che il potere di una parte di dirigere e di coordinare l'altra parte debba trovare la propria "base" (rectius fonte, ex art. 1372 c.c.) nel contratto che lega l'una all'altra (cfr. l'art. 2497 septies c.p.c. "Le disposizioni del presente capo si applicano altresì alla società o all'ente che, fuori dalle ipotesi di cui all'articolo 2497 sexies, esercita attività di direzione e coordinamento di società sulla base di un contratto con le società medesime [...])".La possibilità di configurare un esercizio del potere di direzione e coordinamento su base contrattuale implica- in altri termini e come rilevato da parte della dottrina- la necessità di individuare clausole contrattuali che attribuiscano ad uno dei contraenti il potere di incidere sulla politica di mercato dell'altro. Così, ad esempio, la programmazione finanziaria deve essere intesa non come la semplice predisposizione di un progetto, che sia quindi suscettibile d'essere rivisto e modificato dall'altro centro d'imputazione prima di recepirlo nella propria impresa, ma come atto cogente, poiché l'esecuzione della decisione assunta risulta doverosa, anche se solo dal punto di vista contrattuale. Un'evenienza del genere può realizzarsi frequentemente quando uno dei contraenti può determinare la politica dei prezzi dell'altro- come avviene di solito nei cc.dd. contratti di distribuzione posto che in una situazione del genere, la presenza e persino la posizione sul mercato della produzione dell'impresa è certamente soggetta contrattualmente all'attività dell'altra. Pertanto, in tanto può validamente porsi un problema di riconducibilità di una qualsivoglia azione della "parte dirigente/coordinante" (di cui all'art. 2497 septies c.p.c.) verso la "parte etero-diretta/coordinata" ad una ipotesi di "mala gestio eteronoma" della prima ai danni della seconda (nel senso di cui all'art. 2497 c.c.), in quanto quella azione costituisca- per chi la "subisce"- l'effetto di una imposizione, ossia di un atto cogente dal punto contrattuale e non già (mancando il potere contrattuale di imporla in capo al contraente asseritamente "apicale") di una libera scelta di autonomia privata dell'altro contraente. Se invece quelle "direttive" non fossero (sulla base del contratto) coercibili da parte dell'un contraente nei confronti dell'altro, quest'ultimo che (ciò nonostante) vi si conformasse (evidentemente per le più disparate ragioni sottese al campo della opportunità e della discrezionalità imprenditoriale), lo farebbe sotto la propria responsabilità (rectius, nell'esercizio della propria autonomia privata), assumendo come proprie, ad ogni effetto, le relative decisioni. Onde lo stesso non potrebbe pretendere (a posteriori) di imputare alla controparte (e non al proprio "rischio d'impresa") le conseguenze economiche e giuridiche di quelle scelte (non obbligate) di cui invece avrebbe dovuto e potuto valutare (previamente) la portata e gli effetti. Il rilievo sembra essere condiviso dagli attori, i quali (infatti) fondano la propria pretesa giudiziale di sussumere nell'alveo della responsabilità di cui all'art. 2497 c.c. le condotte "abusive" e gli accordi irragionevoli" imputati alla NATUZZI S.P.A. proprio sull'assunto che questi furono "imposti" dalla stessa alla KOINE S.R.L. (che li dovette "subire") in virtù (o meglio in "abuso") del potere negoziale di cui al contratto di affiliazione. Ma la esistenza di una posizione di direzione unitaria (di fonte negoziale) di una parte verso l'altra (nel senso prima richiamato) non è ovviamente sufficiente per addivenire ad un giudizio di responsabilità ex art. 2497 septies c.c. della prima verso la seconda, occorrendo invece la prova della sussistenza di comportamenti di "abuso" (nel significato "tipizzato" dall'art. 2697 c.c.) di quella posizione contrattuale, i soli suscettibili di convertire quella situazione - di per sè non illecita nel contesto della vigente disciplina codicistica (perché espressione della autonomia privata e della libertà di iniziativa economica privata) - nella condotta "non iure" causativa, in tesi, del danno di cui si pretenda il risarcimento (cfr. in questi termini Cass. Sez. 1, Sentenza n. 12094 del 2001 anche in motivazione, con riferimento alla fattispecie di cui all'art. 2359 c.c.).

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La fattispecie di responsabilità di cui agli artt. 2497/2497 septies c.c. presuppone in particolare - come detto- la prova (a carico dell'attore che quivi la invoca) della esistenza "cumulativa" non solo della titolarità in capo alla contraente "dirigente/coordinante" - in forza ("in base") di un dato contratto - di un potere di direzione e di coordinamento nei confronti della controparte negoziale etero/ diretta coordinata, ma anche degli ulteriori elementi prima richiamati: a) la violazione dei principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale; b) l'agire nell'interesse imprenditoriale proprio o altrui; c) il pregiudizio arrecato alla redditività e al valore della partecipazione e/o la lesione cagionata all'integrità del patrimonio della società; d) il nesso di causalità. Dall'esame comparato dei superiori elementi "strutturali" della fattispecie di cui all'art. 2497 c.c. (dalla cui ricorrenza concorsuale deriva l'illiceità della "direzione unitaria contrattuale" ivi tipizzata) e dei principi generali in materia di responsabilità civile, della autonomia privata e della buona fede cd. "oggettiva" (cui quella fattispecie deve essere ricondotta) discende quindi che: - Non è sufficiente (ai fini del riconoscimento della responsabilità civile di cui si discute) che una qualche condotta della parte "dirigente/coordinante" (posta in essere sulla base della relazione negoziale con la "eterodiretta/coordinata" ed in attuazione del potere negoziale di direzione in questione) sia stata destinata al perseguimento di un esclusivo interesse della prima (ovvero di terzi): una siffatta condotta, infatti, non sarebbe antigiuridica (perché- appunto- non lesiva di un interesse altrui). - è invece necessario (perché quella condotta si colori di antigiuridicità) che il perseguimento di quell'interesse da parte della "dirigente/coordinante" sia incompatibile con gli interessi della "eterodiretta/coordinata", sì da risultare (di conseguenza) da un lato contrario al dovere della prima di gestire con correttezza il proprio potere negoziale sulla seconda ("mala gestio" ex art. 2497 c.c.) e, dall'altro (e parimenti di conseguenza), causativo a quest'ultima (come effetto immediato e diretto ex artt. 1223/2056 c.c.) di un pregiudizio ("danno ingiusto" ex art. 2043 c.c.) alla redditività ed al valore della propria partecipazione sociale (per la pacifica affermazione, da parte della giurisprudenza di legittimità e con riferimento alla materia delle "invalidità negoziali", del principio per cui "al fine di ravvisare un conflitto di interessi tra rappresentante e rappresentato suscettibile di invalidare il contratto concluso dal primo ex art. 1394 cod. civ. - non è sufficiente che il rappresentante persegua interessi propri o di terzi, ma è necessario che il rappresentante persegua interessi propri o di terzi incompatibili con quello del rappresentato, da dimostrare non in modo astratto od ipotetico ma con riferimento al singolo atto o negozio che, per le sue intrinseche caratteristiche, consenta la creazione dell'utile di un soggetto mediante il sacrificio dell'altro di talché all'utilità conseguita o conseguibile dal rappresentante per sè medesimo o per il terzo, segua o possa seguire il danno del rappresentato", cfr. ex multis Cass. Sez. 1, Sentenza n. 25361 del 17/10/2008; Cass. Sez. 3, Sentenza n. 23300 del 08/11/2007; Cass. Sez. 3, Sentenza n. 3630 del 17/04/1996). - Infatti, soltanto il fatto di avere perseguito un interesse proprio che fosse (o apparisse) incompatibile con quello dell'altro legittimerebbe un rimprovero all'agente di avere agito in violazione del principio generale di buona fede nell'esecuzione del contratto, ossia (cfr. Cass. Sez. 1, Sentenza n. 15669 del 13/07/2007; Cass. 2503/1991) senza "preservare gli interessi dell'altra parte" e- quindi- senza rispettare quel canone generale e solidaristico (ex art. 2 Cost.) di condotta che l 'art. 2497 c.c. (nell'attribuire espresso rilievo alla violazione dei principi di corretta gestione societaria ed imprenditoriale) vuole precipuamente tutelare. - è altresì necessario (in diretta connessione con quanto appena rilevato) e secondo la nota teorica della colpa, che la dannosità di quella condotta della "controllante/coordinante" nei confronti dell'interesse della "controllata/coordinata" (ovvero la potenziale dannosità di quella condotta, da intendersi come valutazione qualitativa ex ante in termini di ragionevole prevedibilità del danno)" emergesse già al momento della sua realizzazione (ossia ex ante), non potendosi altrimenti muovere alla contraente "forte" alcun rimprovero di scorretta ed abusiva gestione imprenditoriale

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della contraente "debole" per una azione che (nel momento in cui veniva posta in essere dalla prima) apparisse (ad esempio) favorevole per la seconda. E' infatti noto che la prevedibilità ed evitabilità del danno costituiscono requisiti essenziali nel contesto dei criteri per l'imputazione a titolo di colpa e per giudicare la natura colposa della condotta: da qui la necessità che il fatto (con giudizio ex ante e con il parametro della conoscenza dell'uomo medio, ancorché che con riferimento alle condizioni concrete nelle quali la condotta è tenuta) sia prevedibile, perché ciò che è imprevedibile è anche, per definizione, non prevenibile (cfr. ex multis Cass. Sez. 3, Sentenza n. 11609 del 2005; Cass. 02/12/1996, n. 10723; Cass. 19/08/2003, n. 12124; Cass.31/05/2003, n.882.8). E, nel valutare se una siffatta dannosità (o potenziale dannosità) in concreto sussistesse, è doveroso tener conto che la conduzione di un'impresa di regola non si estrinseca nel compimento di singole operazioni, ciascuna distaccata dalla precedente, bensì nella realizzazione di strategie economiche destinate spesso a prender forma e ad assumere significato nel tempo attraverso una molteplicità di atti e di comportamenti (Cass., Sez. I 24. agosto 2004 n. 16707). Sicchè è perfettamente logico che anche la valutazione di quel che potenzialmente giova, o invece pregiudica, l'interesse della società non possa prescindere da una visione generale: visione in cui si abbia riguardo non soltanto all'effetto patrimoniale immediatamente negativo di un determinato atto di gestione, ma altresì agli eventuali riflessi positivi che ne siano eventualmente derivati (o ne possano eventualmente derivare) in conseguenza della partecipazione della singola società ai vantaggi che quell'atto abbia arrecato al gruppo di appartenenza (Cass, Sez. I 24. agosto 2004 n. 16707 la quale correttamente evidenzia come una siffatta eventualità sia oggi espressamente considerata in una disposizione del novellato art. 2497 c.c. -non però direttamente applicabile a fattispecie realizzatesi in epoca anteriore all'entrata in vigore del D.lgs. n. 6 del 2003- per la quale "non vi è responsabilità quando il danno risulta mancante alla luce del risultato complessivo dell'attività di direzione e coordinamento ovvero integralmente eliminato a seguito di operazioni a ciò dirette"). - Infine, posto che in tema di responsabilità civile aquiliana, il nesso causale è regolato dal principio di cui agli artt. 40 e 41 cod. pen., per il quale un evento è da considerare causato da un altro se il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo, nonché dal criterio della cosiddetta causalità adeguata, sulla base del quale, all'interno della serie causale, occorre dar rilievo solo a quegli eventi che non appaiano - ad una valutazione "ex ante" - del tutto inverosimili, non sarà sufficiente che tra l'antecedente (nella specie, la condotta abusiva della società contraente "dirigente") ed il dato conseguenziale (nella specie, il concreto depauperamento della società contraente eterodiretta) sussista (ex post) un mero rapporto di sequenza "naturalistica", occorrendo invece che tale rapporto integrasse ex ante, secondo un calcolo di regolarità statistica, gli estremi di una sequenza possibile, per cui l'evento appaia come una conseguenza non imprevedibile di quell'antecedente (cfr. per tutte Cass. cfr. Cass. Sez. U, Sentenza n. 576 del 11/01/2008; Cass. Sez. 3, Sentenza n. 11609 del 31/05/2005; Cass. 26/03/2004). In sintesi: il rapporto contrattuale di cui all'art. 2497 septies c.c può assumere esterno rilievo giuridico (di responsabilità civile per contrarietà a buona fede) soltanto quando dà luogo a direttive della parte contrattuale "forte" che- in quanto scorrettamente pregiudizievoli (nel senso sopra precisato) per la parte contrattuale "subordinata" - escono dagli altrimenti insindacabili confini dell'autonomia privata e della discrezionalità delle "scelte societarie". [... Dal punto di vista probatorio, n.d.r.] È quindi un dato pacifico (perché- come detto- dato documentale) che il contratto di affiliazione di cui è causa (che gli attori hanno espressamente prospettato come fonte, in capo alla NATUZZI S.P.A.- del potere [di direzione verso la KOINE S.R.L.] del quale hanno denunziato l'esercizio "abusivo" ex artt. 2497/2497 septies c.c.) non conferiva in realtà alla prima (NATUZZI S.P.A.) il potere (appunto negoziale) di "imporre" alla seconda (KOINE S.R.L.) quei comportamenti (l'aprire nuovi punti vendita in Marche; il vendere i beni ai propri clienti al prezzo "dannoso" determinato dalla affiliante; il sostenere i costi per l'acquisto dei cataloghi illustrativi ovvero i costi per la "formazione del personale" etc) che (a

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dire degli attori) avrebbero condotto il franchisee (il quale sarebbe stato costretto- ex contractu- a subirli "passivamente") al progressivo tracollo economico [...] 4. ...Agiscono nell'interesse proprio o altrui... Quest'espressione significa che l'attività di direzione e coordinamento è lecita solo se persegue gli interessi del gruppo? Sussiste un “requisito minimo” od una “precondizione” della liceità dell’attività di direzione e coordinamento, costituita dal “razionale perseguimento di un vantaggio (di gruppo e, dunque, di tutte le società in esso coinvolte)? o i requisiti stabiliti dall’art. 2497 comma 1 c.c. sono piuttosto requisiti e presupposti della responsabilità derivante da illegittimo esercizio di quell’attività? Trib. Milano 2.2.2012, Società, 2012, 7, 746, Il fatto: si tratta dell'azione di responsabilità ai sensi dell'art. 2497 c.c. da parte degli azionisti di minoranza degli Istituti Clinici Zucchi S.p.A. (ICZ), Gavazzi e Averla S.p.A., nei confronti del Policlinico San Donato in qualità di controllante della ICZ, nei confronti del Presidente del consiglio di amministrazione del Policlinico e di ICZ, nei confronti dell'Amministratore delegato di ICZ, dei Componenti del collegio sindacale di ICZ e Policinico San Donato. I soci di minoranza lamentano operazioni di svuotamento della liquidità della controllata a vantaggio della controllante che avrebbe di fatto acquisito un finanziamento pagando interessi ad un tasso inferiore rispetto a quello di un qualsiasi istituto bancario, nonché la messa in opera da parte della controllante di una costante ed irragionevole strategia di accantonamento degli utili di esercizio maturati da ICZ in via strumentale al transito di liquidità. Nel contesto della domanda principale, gli attori chiedevano di esercitare anche il diritto di recesso ai sensi dell'art. 2947 quater, comma 1, lett. b) c.c. Motivi della decisione:[...] III) Infondatezza delle domande attoree.- È preliminare alla valutazione della fondatezza delle allegazioni in fatto, quella dell’inquadramento giuridico che delle medesime è stato offerto da parti attrici. Queste, peraltro solo in memoria conclusionale, hanno ricostruito la norma espressa dall’art. 2497 comma 1 c.c. affermando che dal riferimento operato “nel tracciare i contorni dell’attività vietata alla società capogruppo, al suo agire ‘nell’interesse imprenditoriale proprio o altrui’, deve trarsi la conclusione secondo cui presupposto base (necessario ma non sufficiente) di liceità della direzione e coordinamento di altre imprese è il perseguimento, da parte, della società suddetta, negli atti posti in essere con le società figlie, di un interesse imprenditoriale di gruppo. Può dirsi con ciò chiarito, pertanto, che di fronte all’avvenuto compimento di un atto di direzione societaria ... questo non possa in nessun modo considerarsi lecito allorché non ne consti il coerente, preciso e specifico inserimento in un programma rivolto al perseguimento di un vantaggio economico all’impresa ‘di gruppo’concretamente esercitata”.La dottrina avrebbe perciò “negato la legittimità di atti insuscettibili di arrecare vantaggi ‘all’interesse di gruppo’ e rivolti invece al mero interesse della controllante”.Sussisterebbe, cioè, un “requisito minimo” od una “precondizione” della liceità dell’attività di direzione e coordinamento, costituita dal “razionale perseguimento di un vantaggio (di gruppo e, dunque, di tutte le società in esso coinvolte)”.Si tratterebbe di una precondizione della legittimità dell’attività di direzione e coordinamento necessaria - in quanto, in mancanza, tale attività diverrebbe già solo per questo illegittima e foriera di responsabilità - ma non sufficiente, poiché anche “la direttiva della società controllante, che pur persegua un interesse di gruppo, ma leda la ‘corretta gestione societaria e imprenditoriale’, della singola società ‘di gruppo’ è fonte diretta di responsabilità”.Addirittura “il requisito del rispetto della corretta gestione imprenditoriale della controllata impone infatti alla capogruppo una valutazione ex ante della possibilità di un vantaggio specifico della controllata in una data operazione oggetto di direzione, non bastando la dimostrazione del perseguimento dell’interesse, del gruppo nel suo complesso”. Il Tribunale non condivide siffatta interpretazione del dato normativo, tra l’altro all’evidenza animata da un intento di ribaltamento dell’onere probatorio che, in queste azioni, incombe in parte preponderante

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sull’attore (v. postea).In realtà già da una piana lettura della norma - oltre che da evidenti considerazioni sia di natura economico-aziendalistica (il gruppo si costituisce per ottimizzare risorse organizzative, abbattere costi, ampliare quote di mercato, sfruttare economie di scala, organizzare sinergie, ecc. situazioni tutte che, per essere realizzate, richiedono un’attività di direzione e coordinamento) sia di natura costituzionale (art. 41 comma 1 cost.: “L’attività economica privata è libera”) - si evince che il dato da cui partire per esaminare la norma è che l’attività di direzione e coordinamento è in se stessa legittima. Dal che si desume che non esistono precondizioni o requisiti di legittimità, che siano previsti dalla norma in questione, la quale designa invece solo i limiti di quella liceità, cioè casi e situazioni in cui essa, in presenza di determinate circostanze, diviene illegittima. Cioè i requisiti stabiliti dall’art. 2497 comma 1 c.c. sono requisiti e presupposti della responsabilità derivante da illegittimo esercizio di quell’attività, non certo - declinati al contrario - requisiti della sua legittimità. Dunque l’inciso “agiscono nell’interesse proprio o altrui” va letto in corrispondenza con il disposto dell’ultimo periodo dello stesso comma (“Non vi è responsabilità quando il danno risulta mancante alla luce del risultato complessivo dell’attività di direzione e coordinamento ovvero integralmente eliminato anche a seguito di operazioni a ciò dirette”) e determina la liceità di ogni operazione compiuta nell’esercizio di attività di direzione e coordinamento che sia economicamente neutra per la controllata, cioè o non dannosa o dannosa quando il danno sia compensato da vantaggi di gruppo o eliso da specifiche operazioni di segno opposto. [...]L’inciso, dunque, non può esser letto nel senso che la controllante “non deve agire nell’interesse proprio” o, addirittura “deve agire nell’interesse del gruppo o nell’interesse della società del gruppo etero-diretta”. La norma va invece letta nel suo complesso come concessiva della possibilità che la controllante agisca anche nell’esclusivo interesse proprio, purché non rechi danno alle controllate o i danni causati siano adeguatamente compensati, sicché l’attività di coordinamento dia, per le controllate, un risultato almeno neutro. Si tratta appunto dell’individuazione del “punto di equilibrio” tra interessi della controllante e delle controllate come sintetico requisito di liceità dell’attività in questione, cui, nell’interpretare la norma, si è riferita autorevole dottrina. Del resto l’interpretazione qui non condivisa, facendo assurgere l’interesse di gruppo o l’interesse delle controllate a requisito di liceità dell’attività di direzione e coordinamento, acuirebbe notevolmente le difficoltà ed incertezze applicative che la norma comunque presenta: si pensi all’estrema difficoltà di individuare l’interesse di gruppo; alla valenza da riconoscere ai conflitti tra gli interessi delle controllate tra loro; al difficile rapporto logico/giuridico tra il configurato requisito di liceità ed il requisito di illiceità cioè la violazione dei principi di corretta gestione. Conviene allora attestarsi sull’interpretazione che già questo Tribunale ha fornito della norma che ci occupa, che vede entrambi gli elementi - l’azione della controllante nell’interesse proprio o altrui e la violazione dei principi di corretta gestione - come componenti della complessa fattispecie che designa la responsabilità della controllante verso le controllate: “In questo quadro assumono rilevanza: - la condotta, cioè l’esercizio, da parte di una società, di attività di direzione e coordinamento nei confronti di altre; - l’antigiuridicità della condotta, cioè l’esercizio di quell’attività nell’interesse imprenditoriale proprio o altrui, dunque estraneo a quello della società soggetta alla sua direzione/coordinamento, e in violazione dei principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale delle società sottoposte ad essa; - l’evento dannoso, ovvero il pregiudizio arrecato al valore od alla redditività della partecipazione; - il nesso di causalità tra condotta ed evento. Tutti tali elementi, essendo costitutivi della responsabilità della società controllante, devono essere provati dal socio della controllata, in base ai principi generali, potendo la convenuta esimersi dalla responsabilità solo provando che l’inadempimento non le è imputabile” (Trib. Milano, sez. VIII civile, 17.6.2011, r.g. 83454/2009)[...] 5. Natura della responsabilità e significato della violazione dei principi di corretta gestione societaria ed imprenditoriale

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Trib. Milano Sez. VIII, 13 febbraio 2008, S.C.P. c. E.D.F. e altri, Massima redazionale, 2008 Con l'art. 2497 c.c, il legislatore ha inteso introdurre un regime speciale di responsabilità, della quale sono precisati alcuni requisiti essenziali, tra cui i soggetti direttamente responsabili, la condotta fonte di responsabilità, il danno, che per il socio è costituito dal pregiudizio alla redditività e al valore della partecipazione sociale, e per il creditore nella lesione cagionata all'integrità del patrimonio sociale. Trib. Milano Sez. VIII, 23 aprile 2008, Cuden Enterprises L.L.C. c. Bayer S.p.A. e altri Società, 2009, 1, 78 nota di FICO Il nuovo art. 2497 c.c., nella sua formulazione strettamente letterale, fa riferimento ad un esercizio attivo di funzioni di direzione e coordinamento, secondo condotta intenzionalmente orientata, all'interno di uno schema che prevede, dunque, una influenza attiva sulla vita della controllata consapevolmente esercitata dalla capogruppo ed una altrettanto consapevole cooperazione da parte degli amministratori della controllata medesima. Trib. Napoli Sez. VII Dec., 26 maggio 2008, Fallimento di Costruzioni Edili M.L. s.n.c. e altri c. Fallimenti S.d.f. tra M.S. M.S. e M.F., Fallimento, 2008, 12, 1435 nota di CAGNASSO La violazione del dovere di corretta gestione da parte della società che esercita il potere di direzione e coordinamento integra un'ipotesi di responsabilità extracontrattuale con riguardo ai creditori della società eterodiretta. La misura del danno derivante ai creditori della società eterodiretta dalla violazione del dovere di corretta gestione da parte della società controllante deve essere commisurata al danno conseguente alle violazioni contestate. Trib. Pescara, 2 febbraio 2009, Ampolo Rella c. Soc. Natuzzi, Società, 2010, 6, 683 nota di ZANELLI La responsabilità in capo alla società dominante ha natura aquiliana e deriva dal fatto illecito del dannoso esercizio del potere contrattuale ai danni della società coordinata e gestita. Costituiscono indici rivelatori della illiceità della condotta, ai sensi e per gli effetti dell'art. 2497 c.c., la violazione dei principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale, l'agire nell'interesse imprenditoriale proprio o altrui, il pregiudizio arrecato alla redditività e al valore della partecipazione e/o la lesione cagionata all'integrità del patrimonio della società ed il nesso di causalità. Trib. Palermo Sez. I, 15 giugno 2011, De Simone e altri c. Soc. Coimpredil e altri, Foro It., 2011, 11, 1, 3184 La responsabilità per violazione dei principi di corretta gestione societaria ed imprenditoriale nell'attività di direzione e coordinamento di società, di carattere diretto ed avente natura extracontrattuale, deriva dal mancato rispetto dei canoni generali di correttezza e buona fede imprenditoriali, tale da configurare un abuso nell'esercizio del potere di direttiva e di istruzione, preordinato volutamente a soddisfare interessi propri della capogruppo o di altri soggetti, interni o esterni al gruppo, in ipotesi sfavorevoli o pregiudizievoli per la società controllata. Trib. Milano, 17 giugno 2011, R.P. c. H41 s.r.l. e altri, Società, 2011, 9, 1099, con nota di A. STABILINI La responsabilità per violazione dei principi di corretta gestione societaria ed imprenditoriale nell'attività di direzione e coordinamento di società ha carattere diretto e natura contrattuale, presupponendo un preesistente dovere di protezione avente contenuto definito posto a carico della società dirigente verso la società diretta ed i suoi soci. Le scelte gestionali connotate da discrezionalità soggiacciono alla c.d. "business judgment rule", secondo la quale è preclusa al giudice la valutazione del merito di quelle scelte ove queste siano state effettuate con la dovuta diligenza nell'apprezzamento dei loro presupposti, delle regole di scienza ed esperienza applicate e dei loro possibili risultati, essendo consentito al giudice soltanto di sanzionare le scelte negligenti, o addirittura insensate, macroscopicamente ed evidentemente dannose "ex ante". Cass. 28 febbraio 2012, n. 3003, est. Giuseppina Luciana Barreca Si configura un fatto illecito da informazioni o da dichiarazioni false od inesatte a carico della società controllante di una delle due parti contraenti, nell'ipotesi in cui tale società, terza rispetto al

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contratto ed al di fuori di qualsiasi dichiarazione di per sé vincolante e coercibile, con la sua condotta scorretta, manifestata vuoi direttamente per il tramite dei suoi organi, vuoi mediante direttive alla controllata, e consistente nell'indurre o rafforzare l'affidamento del creditore della società controllata nella capacità di adempimento di quest'ultima, abbia cagionato un danno ingiusto per lesione dell'affidamento dell'altra parte contraente, la quale abbia, per tale motivo, continuato ad operare forniture alla controllata medesima, poi non adempiute. La responsabilità in questione ha natura aquiliana, riconducibile alla clausola generale dell'art. 2043 cod. civ., per essere l'autore dell'illecito estraneo al contratto stipulato a causa delle informazioni fornite e per non essere configurabile l'inadempimento di specifiche obbligazioni gravanti sul dichiarante; ne consegue che la parte danneggiata ha l'onere di provare tutti gli elementi, oggettivo e soggettivo, della fattispecie dannosa. [massima ufficiale]. Il fatto: la Pantrem è società che opera nel settore dell'abbigliamento e si rifornisce dalla Devil's Point Italia per i tessuti. La Devil's continua a rifornire la Pantrem, nonostante la gravissima situazione di dissesto in cui versa perché fa affidamento sulla Gepi che controlla la Pantrem al 70% e nel cui cda ha messo dei suoi professionisti di fiducia. Secondo la Devil's sia la Gepi che la Pantrem sono responsabili dei danni che le sono stati arrecati. La sentenza impugnata, in estrema sintesi, ritiene responsabile direttamente la Pantrem e la Gepi per concorso nell'illecito, a seguito del rapporto di controllo per le dichiarazioni e comportamenti dei propri rappresentanti. La Cassazione censura il lavoro nei gradi precedenti per non aver operato bene sulle qualificazioni giuridiche delle fattispecie, e ritiene che non si tratta di lesione del credito, non si tratta di induzione all'inadempimento, non si tratta di responsabilità ai sensi dell'art. 2497 c.c. Motivi della decisione[...]Per poter configurare un' ingiusta lesione del credito imputabile, nel caso di specie, alla Gepi, terzo rispetto al rapporto contrattuale intercorso tra Devil's Point Italia e Pantrem, si dovrebbe assumere che la condotta della prima, specificamente nel ruolo di società controllante di una delle società contraenti, sia stata tale da determinare l'impossibilità di adempiere da parte di quest'ultima; si dovrebbe cioè assumere che l'interferenza della controllante abbia in qualche modo compromesso la capacità di adempimento della controllata. Orbene, la responsabilità della controllante per fatti di tal genere non risulta essere stata dedotta in causa, dovendosi, in particolare, escludere che la società odierna resistente colleghi in via immediata i danni, dei quali ha chiesto il risarcimento, alla lesione dell'integrità patrimoniale della sua controparte contrattuale, per di più deducendone l'imputabilità alla controllante Gepi. Quindi, nè di lesione del diritto di credito, ne' di induzione all'inadempimento si tratta (nè viene in rilievo la fattispecie di responsabilità della capogruppo disciplinata dall'art. 2497 c.c., nel testo introdotto dal D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, in caso di relazione di controllo fra società che faccia presumere un'attività di direzione e coordinamento, peraltro non direttamente applicabile ratione temporis). Piuttosto, l'insolvenza della Pantrem rileva soltanto nel senso che, a detta della Devil's Point Italia, se ne avesse conosciuto per tempo il pericolo relativo e se la situazione patrimoniale della società non fosse stata in qualche modo celata ai suoi creditori, attuali e potenziali, essa Devil's Point Italia si sarebbe diversamente comportata nello svolgersi della vicenda contrattuale. 4.2. - Pur a voler riconoscere che, secondo l'assunto della danneggiata, questa sarebbe stata indotta a contrarre un'obbligazione con una debitrice che non sarebbe stata in grado di adempiere, ovvero non sarebbe stata in grado di adempiere esattamente, la situazione giuridica della quale si assume la lesione non è certo il diritto di credito, bensì l'affidamento che la contraente ripose nelle "assicurazioni" (così definite dal giudice a quo) della controparte contrattuale e della sua controllante. Si viene così a configurare un illecito c.d. da informazioni (e/o dichiarazioni) false o inesatte. Proprio un illecito siffatto sembra che la sentenza impugnata abbia voluto individuare nella fattispecie in trattazione. [...] 4.3.- Piuttosto, si verte nell'ambito di dichiarazioni, rivolte, dalla controllata, su (pretese) direttive della controllante, o direttamente da quest'ultima, ai creditori (e, sembrerebbe, in particolare ad uno dei creditori) della società controllata, idonee ad ingenerare l'affidamento sulla capacità di adempimento di quest'ultima (con riguardo a contratti da concludere e/o già conclusi).

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Non resta che fare riferimento alla generale tutela aquiliana apprestata dall'art. 2043 c.c.[...] 6. Come funziona la responsabilità di cui all'art. 2497 c.c.? Che significa "solo se"? Si e' molto discusso sul significato dei commi 1 e 3 dell'art. 2497 c.c.: da una parte c'e' un'azione diretta nei confronti della controllante (primo comma), responsabile del danno, dall'altra si subordina l'esercizio dell'azione alla preventiva insoddisfazione del credito rispetto alla societa' controllata (terzo comma). Si e' condivisibilmente osservato che la previsione del terzo comma non autorizza a ritenere che ci troviamo di fronte ad un beneficium excussionis o ad un beneficium ordinis. Semplicemente, laddove il socio o il creditore sociale della controllata dimostrino che il patrimonio della controllata e' incapiente, ad esempio perche' e' fallita e non ci sono possibilita' di recupero del credito (secondo me anche laddove queste possibilita' di recupero sono estremamente difficoltose, dubbie o lunghe) hanno diritto sulla base del primo comma ad agire direttamente ed immediatamente nei confronti della controllante. Il solo se del terzo comma, in realtà, e' la clausola per evitare il raddoppio di responsabilita', giacche' non si puo' agire per lo stesso danno nei confronti della danneggiante indiretta (controllante) e della danneggiante diretta (controllata). Si tratta quindi di una limitazione della responsabilita' perche' ci sono due soggetti responsabili, ma il danno e' uno. I titoli delle responsabilita' sono due: art. 2497 c.c. nei confronti della controllante, artt. 2393-2394/2476 c.c. nei confronti degli amministratori della controllata Va precisato che ai sensi dell'art. 2497, comma 2, c.c. oltre alla societa' o ente controllante risponde chi abbia comunque preso parte al fatto lesivo e, nei limiti del vantaggio conseguito, chi ne abbia consapevolmente tratto beneficio. Cio' significa che risponde o puo' rispondere in proprio anche l'amministratore e/o il socio della controllante nonche' un qualsiasi terzo che abbia consapevolmente tratto beneficio dall'operazione (e quindi anche un eventuale acquirente o cessionario del bene che e' fuoriuscito dalla societa') Qual e' il senso dell'art. 2497 c.c.? Ha una sua specifica utilita' o e' inutile perche' c'e' l'art. 2043 c.c.? Se si osserva con attenzione, cio' che giustifica l'azione di responsabilita' del socio o del creditore sociale nei confronti della controllante danneggiante e' la lesione del credito da parte di un terzo. Ma questa categoria - la lesione del credito - dal caso Meroni in poi e' ben conosciuta: si tratta infatti dell'art. 2043 c.c. nella sua massima espansione. Qui, a differenza del caso Meroni, non c'e' il diritto al risarcimento del danno conseguente all'impossibilita' materiale della prestazione (la morte del calciatore) ma piu' semplicemente l'impossibilita' giuridica della prestazione (la redditivita' o il valore della partecipazione sociale per il socio e' scemata mentre il creditore sociale vede ridotta o azzerata la garanzia patrimoniale costituita dal patrimonio della societa' danneggiata). Che cosa succede nella materia societaria? L'art. 2393 e' norma speciale per cui, ogni qualvolta non e' sufficiente, si applica il 2043 o e' norma eccezionale che mette fuori gioco il 2043? Analogamente, rispetto ai gruppi, se il sistema e' chiuso e' necessario il 2497, altrimenti si puo' fare tutto con il 2043, come del resto si è detto prima della riforma (Cass. 18 dicembre 1985, n. 6475, GI 1986, I, 1, 1650; Trib. Orvieto 4 novembre 1987, GI 1988, I, 2, 501; App. Milano 10.3.1995, Soc 1995, 1437) Ora bisogna riflettere su una circostanza, il giudice penale ha un'arma potentissima di condanna, anche con riferimento alle statuizioni civili, che e' l'art. 110 c.p. - il concorso infatti e' uno strumento micidiale. Il giudice penale non ci pensa due volte, non solo a condannare penalmente il consulente fiscale come concorrente nella bancarotta, ma anche a condannarlo civilisticamente laddove vi sia costituzione della curatela fallimentare. A fronte di questa potentissima arma del giudice penale, il giudice civile si avvale dell'art. 2043 c.c. Sotto questo profilo, il paracadute dell'art. 2043 c.c. funziona anche nel societario. Ciò nondimeno, il

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microsistema del societario è imprescindibile perche' bisogna contemperare la giusta liberta' degli amministratori con la giusta protezione per i soci Ore nella prospettiva storica, va rilevato che nella relazione di accompagnamento alla legge di riforma si è detto «che il problema centrale del fenomeno del gruppo fosse quello della responsabilità, in sostanza della controllante, nei confronti dei soci e dei creditori sociali della controllata» e si è anche chiarito che la disciplina così introdotta non si sostituisce, ma si aggiunge, a quella già esistente a tutela dei soci e dei creditori sociali prevista dagli artt. 2395 e 2394. I precedenti legislativi più rilevanti sono legati alla disciplina dell'amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi. Dapprima l'art. 3, ultimo comma, d.l. 26/1979 (convertito in legge 95/1979) ha introdotto, con riferimento all'ipotesi di direzione unitaria di un gruppo di società, la responsabilità degli amministratori della società capogruppo, in solido con la società in amministrazione straordinaria, nei confronti della società stessa. Successivamente, l'art.90 D.lgs. 270/1999 ha stabilito che «nei casi di direzione unitaria delle imprese del gruppo, gli amministratori delle società che hanno abusato di tale direzione rispondono in solido con gli amministratori della società dichiarata insolvente dei danni da questa cagionati alla società stessa in conseguenza delle direttive impartite». Secondo una parte della dottrina (Galgano), invece, il modello di riferimento della responsabilità ex art. 2497 c.c. non andrebbe ricondotto al precedente offerto dalla disciplina dei gruppi nella legge Prodi sull'amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi - ancora legata al tradizionale schema della responsabilità degli amministratori - ma, piuttosto, al D.lgs. 231/2001 che ha introdotto nel nostro sistema la responsabilità da reato delle persone giuridiche, «la cui peculiarità sta nel fatto che la persona giuridica risponde del reato commesso nel suo interesse o per il suo vantaggio, a prescindere dalla individuazione tanto degli autori materiali del reato quanto dei loro mandanti». Come nel D.lgs., così nella responsabilità qui in esame, se è vero infatti che l'ente collettivo è formalmente il soggetto escusso dall'azione di responsabilità, è vero anche che i suoi soci finiscono per essere i soggetti incisi, nella cui sfera patrimoniale si riflette la condanna al risarcimento del danno, in termini di riduzione del valore patrimoniale della partecipazione e di contrazione dell'utile distribuibile. Trib. Milano Sez. VIII, 14 giugno 2006 Chart Limited c. Banca Intesa S.p.A. Massima redazionale, 2006 La norma di cui all'art. 2497 c.c. ha lo scopo di escludere l'eventualità della duplicazione della soddisfazione del socio o creditore per quella parte del danno per cui sia stato soddisfatto. Pertanto, resta salva la possibilità di agire nei confronti della dominante per il residuo danno derivante dalla perdita che il socio subisce dal fatto di essere soddisfatto dalla società da lui stesso partecipata. A ciò consegue che, ove la domanda sia fondata, una parte del danno, che dia fondamento alla procedibilità in sede di cognizione, non possa mai essere esclusa. Trib. Pescara, 16 gennaio 2009, A.R.R. c. Natuzzi S.p.A. e altri, Società, 2010, 6, 683 con nota di ZANELLI, secondo cui Quanto alla legittimazione passiva della azione di responsabilità in esame, si condivide la posizione di autorevole dottrina per la quale la norma di cui al terzo comma dell'art. 2497 c.c. (per cui "il socio ed il creditore sociale possono agire contro la società o l'ente che esercita l'attività di direzione e coordinamento, solo se non sono stati soddisfatti dalla società soggetta alla attività di direzione e coordinamento") pone soltanto un onere di preventiva escussione del patrimonio della società sottoposta all'altrui abusivo esercizio di direzione unitaria e non riguarda l'azione di cognizione. Trib. Milano, 17 giugno 2011, R.P. c. H41 s.r.l. e altri, Società, 2011, 9, 1099 e Società, 2012, 3, 258 nota di SIMONETTI, secondo cui la norma prevista nell'art. 2497, comma 3, c.c. pone in capo al socio un onere di richiesta di soddisfazione, che ben può essere assolto anche citando in giudizio la società controllata in chiave di "denuntiatio litis". La mancata soddisfazione da parte di questa consente ai soci di agire verso la "holding" senza che debbano agire previamente verso la loro

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società o, addirittura, escuterla infruttuosamente; la previa intervenuta soddisfazione dei soci danneggiati da parte della loro società preclude loro la possibilità di agire verso la "holding". 7. Interesse e legittimazione ad agire Trib. Pescara 16 gennaio 2009, A.R.R. c. Natuzzi S.p.A. e altri, Società, 2010, 6, 683 nota di ZANELLI L'azione di responsabilità per la violazione dei principi di corretta gestione societaria ed imprenditoriale nei confronti della società che esercita il potere di direzione e di coordinamento di altre società di capitali è proponibile anche da parte dell'ex socio, atteso che, ai fini della legittimazione attiva, ha rilievo decisivo la qualità di socio al momento della realizzazione del comportamento sanzionato e delle conseguenze patrimoniali dannose. Trib. Milano, 17 febbraio 2011, G.G. e altri c. P.S., Società, 2012, 5, 577 I soci di minoranza della società controllata che agiscono per fare valere la responsabilità da attività di direzione e coordinamento ai sensi dell'art. 2497 c.c. non hanno interesse e non sono legittimati a sindacare l'utilizzo che la controllante abbia fatto delle risorse ottenute attraverso l'esercizio dell'attività di direzione e coordinamento. 8.Competenza in caso di fallimento Trib. Napoli Sez. VII, 28 gennaio 2009,R. e altri c. Fallimento FEM S.p.A. , Società, 2009, 11, 1413 nota di AMBROSINI L'azione di responsabilità promossa dal curatore a norma dell'art. 146 della legge fallimentare (e, analogamente quella intrapresa ai sensi dell'art. 2497 c.c.) non rientra nell'ambito applicativo dell'art. 24 della legge fallimentare -R.D. n. 267/1942 - ed è quindi sottratta alla competenza del tribunale fallimentare, dovendosi applicare gli ordinari criteri di competenza per valore e per territorio. 9. Onere della prova Cass. 24 agosto 2004, n. 16707, est. Renato Rordorf Non può, viceversa, sostenersi - come sembra fare la corte d'appello - che la mera appartenenza della società ad un gruppo renda plausibile l'esistenza dei suddetti "benefici compensativi" e che, pertanto, competa alla società la quale abbia agito contro il proprio amministratore l'onere di dimostrarne l'inesistenza. Viceversa, la società attrice esaurisce il proprio onere probatorio dimostrando l'esistenza di comportamenti dell'amministratore che ledono il patrimonio dell'ente e perciò appaiono contrari al suo obbligo di perseguire lo specifico interesse sociale. È il medesimo amministratore, se del caso, che deve farsi carico di allagare e provare gli ipotizzati benefici indiretti, connessi al vantaggio complessivo del gruppo, e la loro idoneità a compensare efficacemente gli effetti immediatamente negativi dell'operazione compiuta. Cass. 11.12.2006, n. 26325, est. Luciano Panzani, conforme Cass. 24 agosto 2004, n. 16707 App. Napoli, sez. VII, 10 gennaio 2007, Fallimento Bionectar S.r.l. contro F.V. Ambrosio e altri, inedita, conforme Cass. 24 agosto 2004, n. 16707 Trib. Roma, 17 luglio 2007, Massima redazionale, 2010 Per la responsabilità di cui all'art. 2497 c.c. è necessario che siano provate: l'attività di direzione e coordinamento esercitata in violazione dei principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale, l'esistenza di direttive impartite dalla società che esercita la direzione, che l'esecuzione delle direttive abbia cagionato un danno, il nesso causale tra il danno e l'attività di direzione e coordinamento.

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Trib. Roma Sez. III, 5 febbraio 2008, Cirio Finanziaria s.p.a. in ammin. straord. Società, 2009, 4, 491 nota di SCOGNAMIGLIO e Giur. It., 2009, 1, 109 nota di WEIGMANN, conforme Cass. 24 agosto 2004, n. 16707 Trib. Napoli, 9 aprile 2008, Fall.ti Costruzioni edili M.L. s.n.c. di Marino Raffaele c. Fall.ti Soc. di fatto tra M. S., M. S. e M. F. e M. S., Dir. Fall., 2009, 2, 2, 235 nota di PENTA La lesione dell'aspettativa di prestazione è annoverata nella più generale figura della lesione del credito, che ricorre non soltanto quando il fatto doloso o colposo altrui abbia determinato l'estinzione del credito, ma anche quando l'aspettativa del creditore sia vulnerata, pur non venendo definitivamente meno la possibilità di esigere nel futuro le proprie prestazioni. La clausola generale dell'art. 2043 c.c. ben si presta a fornire tutela aquiliana nell'ipotesi di concorso del terzo nell'altrui inadempimento. Il diritto al risarcimento del danno sorge per effetto del danno che la condotta attiva o omissiva dell'agente abbia causato; di talché il termine quinquennale comincia a decorrere dal momento in cui la produzione del danno si manifesti all'esterno, divenendo oggettivamente percepibile. Il curatore, nell'ipotesi di attività di direzione e di coordinamento, ha l'onere di provare le specifiche condotte dannose, il nesso di causalità tra di esse ed il danno che assume prodotto ed il preciso ammontare di quest'ultimo, non potendo limitarsi a richiamare l'importo del passivo fallimentare. Trib. Milano, 17 febbraio 2011, G.G. e altri c. P.S., Società, 2012, 5, 577 Sul socio della società controllata che agisce per fare valere la responsabilità da direzione e coordinamento grava l'onere di provare: l'esercizio dell'attività di direzione e coordinamento; l'antigiuridicità della condotta, vale a dire l'esercizio della predetta attività nell'interesse proprio o altrui, dunque estraneo a quello della società soggetta alla direzione e coordinamento e in violazione dei principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale delle società sottoposte ad essa; l'evento dannoso; il nesso di causalità. 10. La teoria dei vantaggi compensativi Cosa c'è dietro la teoria della responsabilità dei gruppi: la necessità di porre un limite alle tecniche abusive e alle pratiche di svuotamento delle controllate e ai trasferimenti fraudolenti di ricchezza. Secondo Montalenti, il discrimen decisivo è lo stato d'insolvenza. E' in questa ipotesi che emergono le frodi consumate ai danni dei creditori e il terreno delle garanzie infragruppo ne è stato il luogo elettivo di coltura. In questa materia il punto critico consiste nell'individuazione di criteri ed indici per stabilire i confini tra fisiologia e patologia, tra prestazione di garanzie in cui si realizza il meccanismo compensativo e prestazione di garanzia con cui si opera un trasferimento fraudolento di risorse. 1) La prestazione di garanzie anche gratuite da parte della controllante a favore delle controllate può soddisfare un interesse economico, sia pure indiretto e mediato della società garante Secondo Cass. 14 settembre 1976, n. 3150, gli interventi gratuiti (nella specie: avallo di cambiali) compiuti da una società a favore di un'altra società giuridicamente autonoma dalla prima - qualora ricorrano particolari circostanze che rivelino irrefutabilmente unitarietà di finalità e di amministrazione, e identità di interessi - debbono presumersi non già come espressione di spirito di condiscendenza o di liberalità, bensì come atti preordinati al soddisfacimento di un proprio interesse economico, sia pure mediato e indiretto, ma giuridicamente rilevante, e non possono pertanto, per la semplice mancanza di controprestazioni contrattualmente esigibili, essere considerati contrari o estranei al conseguimento dell'oggetto sociale della società che li ha compiuti. Secondo Cass. SU 2 marzo 1964, n. 472, se il gruppo di società, aventi ciascuna autonoma personalità ma costituite a tutela di comuni interessi economici (holding), può essere considerato unitario sotto il profilo economico, ciò, invece, non può assolutamente ritenersi sotto il profilo giuridico-tributario (è stata, nel caso, ritenuta applicabile l' ige in relazione alle somme versate alla società amministratrice, dall'amministrata, in corrispettivo del servizio reso)

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2) La prestazione di garanzie dalla controllata a favore della controllante, a causa del rapporto di dominio, ingenera il sospetto di depauperamento. Ma anche in questo caso, dice Montalenti, come nella crosstream guarantees, può verificarsi un vantaggio corrispettivo. Es. la controllante insolvente impone alla controllata il rilascio di un'ipoteca a garanzia di un finanziamento per estinguere il debito nei confronti della banca. Es. nel caso della upstream o della crosstream guarantee rilasciata a garanzia di un finanziamento diretto a promuovere un piano di ricerca tecnologica di cui fruiranno tutte le società del gruppo e quindi anche la garante (Intercorporate guarantees fall into three types: Up-stream guarantees (the subsidiary guaranties the parent's debt); down-stream guarantees (the parent guaranties the subsidiary's debt); and cross-stream (the brother corporation guaranties the sister's debt) La teoria dei vantaggi compensativi nasce nei sistemi di common law negli anni '60 per rendere lecite le operazioni depauperative di gruppo e, secondo Montalenti, è stata applicata per la prima volta dalla Corte di New York nel caso Case v New York Central Railroad Company del 1964 (cd. advantage/disadvantage test). Negli anni '90, la Cassazione ha in sostanza escluso la scriminante dei vantaggi compensativi con un'interpretazione negativa dell'esistenza del gruppo. Sempre secondo Montalenti bisogna avere una visione elastica delle politiche del gruppo, ritenendo scriminata la condotta che reca danno alla società nell'ambito di una politica di gruppo di medio e lungo termine da cui ragionevolmente può derivare un vantaggio alla singola società anche su piani economici differenti, anche in tempi diversi rispetto al momento dell'operazione ed anche secondo un parametro non rigidamente proporzionale, né necessariamente quantitativo. 11. La teoria dei vantaggi compensativi nella giurisprudenza civile

I precedenti: Trib. Venezia 14 dicembre 1990 (decr.), Nuova giur. civ. comm. , 1992, I, 898, (caso DEKALB) in cui i giudici hanno analizzato operazioni di compravendita tra controllante e controllata e viceversa, a prezzi di trasferimento superiori o inferiori a quelli di mercato, valutando analiticamente la sussistenza (nel caso di specie negata) di ragioni economiche che giustificassero lo scostamento da prezzi correnti Appello Milano 11 luglio 1991, in Società, 1991, 1664, (caso TETRAFIN) che ha statuito il principio secondo cui il conflitto di interesse nei gruppi non si configura per il semplice fatto che la società controllata abbia subito un pregiudizio, perché questo profilo non può essere valutato in modo isolato, dovendosi invece tener conto dei vantaggi derivanti dal gruppo Trib. Verona 31 gennaio 1991, in Società, 1991, 1086 (caso DIMA), in cui si riconosce la legittimità della scelta dell'organo amministrativo di orientare l'attività nei confronti della controllante o capogruppo, fissando nel contempo un limite nella circostanza che le relazioni privilegiate non determinino uno svuotamento economico della controllata Trib. Milano, 19 marzo 1993, in Società, n. 9/1993, p. 1249, confermato da App. Milano, 5 febbraio 1994, in Soc., 1994, p. 1062, (caso Scotti) in cui si valuta in termini di congruità delle scelte di politica aziendale la rinuncia ai crediti nei confronti della controllata per favorire l'aumento di capitale da parte del socio di riferimento della controllante e in cui si afferma che l'operazione dev'essere analizzata per stabilire le condizioni in cui essa è avvenuta ... e se realizzi e in quale modo un congruo bilanciamento tra sacrifici e vantaggi. La decisione d'Appello applica la business judgement rule. Cass. 8 maggio 1991, n. 5123, est. F. Favara, in Società, 1991, 1349 stabilisce che Il gruppo di imprese non costituisce un soggetto giuridico o comunque un centro di interessi autonomo rispetto alle società collegate e, pertanto, anche ai fini della responsabilità degli amministratori - quando manchi la prova di un accordo fra le varie società, diretto a creare un'impresa unica, con direzione unitaria e patrimoni tutti destinati al conseguimento di una finalità comune e ulteriore - va valutato il comportamento che la legge e l'atto costitutivo impongono rispetto alla società di appartenenza,

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talché essi rispondono verso la medesima società della inosservanza dei loro doveri, senza che sia possibile, compensare, in una valutazione globale del loro comportamento, il pregiudizio cagionato a quest'ultima, per effetto di "mala gestio", col corrispondente vantaggio di altra società del gruppo. Dalla lettura dei passi più significativi della motivazione, si ricava che: a) la Cassazione si occupa di un fenomeno di controllo piuttosto che di gruppo dominato da una direzione unitaria; b) in questa prospettiva, la Cassazione osserva il rapporto delle società atomisticamente e respinge con decisione la teoria dei vantaggi compensativi che, non lo dice espressamente, ma lo si intuisce allorché respinge le argomentazioni dei ricorrenti, non si applica al caso di specie proprio perché non c'è il gruppo vero e proprio. 2 - Attraverso l'esame complessivo delle articolate censure proposte dai ricorrenti e sopra riassunte, risulta evidente il tentativo di spostare sul piano dogmatico una situazione concreta che, secondo gli accertamenti dei giudici del merito, evidenzia - sia pure nell'ambito di rapporti intersocietari e di collegamento tra imprese appartenenti ad un medesimo gruppo - un'operazione economica ingiustamente pregiudizievole per la SIAC. Come è noto, la disciplina legislativa che attualmente regola l'attività sociale svolta da gruppi di società variamente collegate tra loro è contenuta negli art. 2359, 2359 bis, 2360 e 2361 cod. civ., nel testo risultante dopo le modifiche apportate con la L. 7 giugno 1974 n. 216 (c.d. leggi Prodi) e con il DPR 10 febbraio 1986 n. 30, oltre che in talune altre disposizioni dello stesso codice (art. 2372 4 c., 2424 n. 10 e 2630 n. 2 e 4, quest'ultima che stabilisce sanzioni penali a carico degli amministratori per violazione di obblighi e divieti previsti dalle norme su citate). Si tratta peraltro di disciplina non organica, in quanto il fenomeno sempre più diffuso del raggruppamento di imprese (con possibili partecipazioni incrociate) è regolato in un ambito meno ampio, poiché si parla unicamente di società "controllate" (di cui si indicano tre ipotesi) e di società "collegate", senza dare una nozione dell'impresa di gruppo, che è quella che realizza unitariamente un interesse sociale attraverso l'attività economica svolta (anche) dalle imprese raggruppate o controllate. Secondo la giurisprudenza di questa Suprema Corte, richiamata nella sentenza impugnata, il gruppo di imprese non costituisce un soggetto giuridico o comunque un centro di interessi autonomo rispetto alle società collegate, le quali mantengono la loro piena autonomia sul piano giuridico (sentenze n. 3945-86, 1567-83 e, per quanto concerne il rapporto di lavoro, n. 4283-86, 650-81 e 2756-86, che dà rilevanza al collegamento quando si possa ritenere costituito un complesso unitario nell'ambito del quale sia configurabile una continuità del rapporto di lavoro). In linea teorica non si nega la possibilità che più società organizzino la propria attività economica proiettandola verso il conseguimento di un interesse comune e ulteriore rispetto a quelli realizzabili dalla singola impresa. L'accordo, o la situazione di raggruppamento (in forma di partecipazioni incrociate, di controlli o di altri tipi di coordinamento o anche di dominio) è vicenda societaria diffusa, poiché, consente di utilizzare il potenziale economico di varie imprese senza ricorrere allo strumento della fusione. Ma è evidente che si tratta di fenomeno di fatto e che l'assetto degli interessi sociali delle singole imprese, regolato convenzionalmente, in via preventiva o determinatoria successivamente, deve evitare che da posizioni di preminenza o di egemonia dell'una società sulle altre possano derivare ingiusti arricchimenti a favore della società controllante, o depauperamenti altrettanto ingiusti a danno delle società controllate, per effetto di operazioni di finanziamenti senza ritorno o senza garanzia di distacchi di personale a favore della società diversa da quella a cui carico restano gli oneri economici, o di altri negozi che potrebbero trovare giustificazione solo nell'ambito di una totale soppressione dell'autonomia soggettiva delle singole società del gruppo e di una effettiva concentrazione dei patrimoni sociali, situazioni non previste ne' volute dal legislatore. Esiste cioè, anche tra imprese che fanno parte di un medesimo raggruppamento come imprese collegate o controllate, e fuori dell'ipotesi (che però è tuttora sfornita di disciplina positiva) dell'impresa di gruppo in senso stretto, (che realizza una politica di gruppo, con direzione unitaria) una situazione di conflitto di interessi che, se non regolata convenzionalmente, certamente non può trovare giustificazione in un preteso - e non convenuto - interesse superiore della società

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capogruppo (spesso invocato "a posteriori" per giustificare operazioni disinvolte).La nozione di interesse sociale, come del resto quella di pregiudizio, deve essere, pertanto valutata tenendo conto dell'autonomia soggettiva delle singole società del gruppo e dell'eventuale regolamento di interessi intersocietari attuato in base ad essa. Perciò, contrariamente a quanto assumono i ricorrenti, in relazione ai vantaggi che ciascuna di essa si propone di conseguire e alle limitazioni che ha accettato, se compatibili col proprio fine di lucro. Ed anche ai fini della responsabilità degli amministratori, va valutato il comportamento che la legge e l'atto costitutivo impongono, cosicché essi rispondono verso la società di cui sono mandatari dei danni derivanti dalla inosservanza dei loro doveri, senza che sia possibile stemperare in una valutazione globale il pregiudizio derivato dalla "mala gestio" quando al danno della società amministrata corrisponda il vantaggio di altra società del gruppo, non preventivamente accettato.Non può poi essere condivisa l'argomentazione che i ricorrenti propongono col primo motivo d'impugnazione là dove, allargando il discorso alle conseguenze occasionalmente favorevoli per una società derivante dalla "mala gestio" degli amministratori di altra società del gruppo (qui prescindendo dall'esaminare la posizione di dominante o di controllata che in concreto spetta all'una o all'altra delle società collegate), accusano di astrattismo la nozione istituzionale dell'interesse sociale. Se si esclude l'esistenza di un'impresa di gruppo con direzione unitaria e interesse sociale proprio e ulteriore, in base al concreto assetto negoziale convenuto nei rapporti intersocietari, i vantaggi indiretti o mediati che dall'attività di una società - ispirata al proprio esclusivo interesse - possono prodursi per altra società collegata sono solo vantaggi occasionali e non conseguimento dell'interesse sociale. Anche le norme invocate (l'art. 2358 C.C. che estende l'accesso allo azionariato dei dipendenti anche a quelli delle società controllate; e l'art. 2429 bis C.C. che impone agli amministratori di riferire anche sulla gestione svolta attraverso le società controllate) sono prive di valore ai fini della tesi propugnata dai ricorrenti: se infatti si vuole trovare conferma della rilevanza che ha ora nel sistema positivo il collegamento tra società, indubbiamente dette disposizioni rappresentano un dato significativo; esse tuttavia non possono assolutamente indurre a ritenere che esista una disciplina legale dell'impresa di gruppo che valga a superare lo schermo della personalità giuridica delle singole società collegate, ne' tanto meno che, nello specifico tema della responsabilità degli amministratori (che qui interessa) esistano deroghe al rigoroso regime giuridico fissato dal codice civile, che anzi sanziona penalmente qualsiasi violazione delle norme che tendono a circoscrivere l'ambito degli acquisti di azioni da parte delle società controllanti e delle sottoscrizioni reciproche e perciò proprio quelle commistioni di capitali azionari che ingegnerebbero confusione di gestioni e pregiudizio agli interessi particolari. Anche il richiamo (fatto col secondo motivo del ricorso) al disposto dell'art. 2362 C.C. è inappropriato: la parificazione tra società con unico azionista (per il venir meno della pluralità dei soci) e singola società del gruppo che fa capo ad una società egemone e da questa interamente posseduta (situazione che gli stessi ricorrenti riconoscono essere "inversa") è infatti del tutto inaccettabile ed è perciò inidonea a consentire la proposta applicazione analogica dominata (al pari dell'unico azionista) per una pretesa assenza di conflitto di interessi. Va al riguardo anzitutto considerato che, come ha osservato una autorevole dottrina, la posizione dell'unico azionista non è tanto quella di socio illimitatamente responsabile (in deroga al limite derivante dalla personalità giuridica della società), quanto quella di fidejussore "ex lege" della società dopo il venir meno della pluralità dei soci. Si tratta poi di responsabilità verso i terzi e non verso la società e perciò di situazione paradigmaticamente incompatibile con quella della società egemone che usi della società dominata per il perseguimento di fini suoi propri e anzi rivelatrice di quel conflitto di interessi tra le varie società del gruppo che si assume, in tesi, inesistente. La posizione del socio unico nella fattispecie regolata nell'art. 2362 C.C. (ed è anche controverso se il principio valga quando l'unico azionista sia una s.p.a.) non è pertanto comparabile a quella del socio (o società) dominato quando l'interesse di questo sia diverso, o in conflitto, rispetto a quello del socio (o società) egemone. Con il che il problema ritorna al suo punto di partenza e cioè che occorre sempre rispettare la soggettività giuridica distinta delle singole società del gruppo e tener conto dei rispettivi interessi

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sociali. Non senza rilevare che la nozione dell'interesse di gruppo quale auspicata dai suoi fautori non può essere avvilita in quella settoriale del rapporto particolare tra società controllante e una singola società del gruppo (solo perché dominata), proponendo come interesse del gruppo quello del socio tiranno. 3 - Si perviene così a quello che è il punto centrale della questione e che il giudice del merito ha bene individuato. Al di là degli astrattismi e degli argomenti "de jure condendo", al di là di quello che potrebbe essere lo schema per regolare i rapporti tra le varie società collegate e organizzate in un'unica impresa di gruppo, si evidenzia un'esigenza primaria, che è - nell'attuale sistema positivo - quella di tenere conto della soggettività giuridica distinta di tutte le società del gruppo e di rispettare l'interesse sociale di queste, che può essere coordinato, ma non conculcato, in vista di un interesse superiore del gruppo, il quale deve essere ulteriore, ma non per questo confliggente, rispetto a quelle delle imprese collegate. Il problema, esaminato in relazione al caso che interessa nel presente giudizio della responsabilità degli amministratori, si risolve in termini piuttosto semplici, dovendosi accertare in concreto se il comportamento o l'atto di gestione contestato abbia prodotto o meno un danno per la società che li designò, considerando la situazione di vantaggio o svantaggio quando non espressamente prevista e accettata dalla società controllata, in relazione all'interesse sociale che gli amministratori erano stati chiamati a perseguire. Quando perciò, come si è accertato nella specie, manchi la prova di un accordo di gruppo diretto a creare un'impresa unica, con direzione unica e patrimoni tutti destinati al conseguimento di una finalità comune e ulteriore (quello dell'impresa di gruppo), è vano ricercare nella disciplina di legge (che anzi mira piuttosto a circoscrivere prudenzialmente l'ambito delle possibili commistioni di interesse, che potrebbero danneggiare la società più debole) una regolamentazione non solo unitaria del fenomeno, ma anche tale da portare deroga alle specifiche norme che vincolano l'attività degli amministratori. A tali conclusioni sembrano aderire i ricorrenti in memoria, là dove riconoscono che si configura un conflitto quando al vantaggio particolare della società controllante corrisponda un danno al patrimonio della società controllata (che poi - erroneamente - escludono essersi verificato in concreto); anche se poi si pretende che le operazioni (come quelle di finanziamento) che, si svolgono all'interno del gruppo tra società collegate realizzano sempre, pur se pregiudizievoli, quanto meno in modo indiretto e mediato l'interesse della società dominata. E nel caso di specie, come risulta accertato dal giudice di merito e accettato dai ricorrenti, le operazioni contestate risultano effettuate a danno della SIAC, società interamente posseduta prima dalla MIAB e poi dalla CIS, questa ultima a sua volta controllata dalla SIARCA, mediante un flusso finanziario in favore della CIS e della SIARCA (poi sottoposte a liquidazione coatta amministrativa), a totale detrimento del patrimonio sociale della società posseduta, che - secondo gli accertamenti della Corte di Milano - nessun vantaggio, neppure indiretto, risulta avere mai conseguito. 4 - Al fine di sottrarsi a simili accertamenti di fatto operati dai giudici del merito - i quali hanno ravvisato il pregiudizio nelle operazioni di finanziamento (senza recupero ne' garanzia) della SIAC e SIARCA, imprese in stato di decozione, nonché nei pagamenti degli oneri retributivi e assicurativi in favore del personale operante per dette imprese ma incluso nei libri paga della SIAC, i ricorrenti sostengono (col terzo motivo) che l'apprezzamento della vantaggiosità della gestione è assolutamente discrezionale e perciò sottratto al riesame "ex post" del giudice. È vero invece precisamente il contrario, poiché ai fini dell'azione di responsabilità sociale promossa nei confronti degli amministratori, i doveri degli stessi vanno considerati in rapporto all'interesse della società per la quale essi operano, una volta esclusa l'esistenza di un interesse di gruppo. Ed il sindacato dell'autorità giudiziaria, che certamente non si estende al merito, concerne la valutazione del comportamento degli amministratori in base ai principi generali che regolano l'adempimento in materia contrattuale e, in specie, in base ai principi fissati per il mandato, tra i quali ha rilievo primario il dovere di ispirare la gestione sociale agli interessi della società preponente; laddove nel caso in esame i comportamenti suindicati miravano a favorire altra società, con pregiudizio della società amministrata. E la motivazione fornita dalla Corte di Milano

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sulla "mala gestio" risulta esauriente e logica ed ispirata a corretti principi di diritto. Può aggiungersi a quanto osservato di sopra che, il tema di responsabilità degli amministratori di società collegate, solo in caso di gestione unitaria del gruppo, potrebbe aversi una visione parimenti unitaria dell'interesse sociale e della conformità ad esso dei comportamenti degli amministratori. E tale situazione nel caso di specie non ricorre. Cass., 11 marzo 1996, n. 2001, est. Giuseppe Marziale, in Foro it., I, 1228 ss., secondo cui l'assenza di corrispettivo, se è sufficiente a caratterizzare i negozi a titolo gratuito (così distinguendoli da quelli a titolo oneroso), non basta invece ad individuare i caratteri della donazione, per la cui sussistenza sono necessari, oltre all'incremento del patrimonio altrui, la concorrenza di un elemento soggettivo (lo spirito di liberalità) consistente nella consapevolezza di attribuire ad altri un vantaggio patrimoniale senza esservi in alcun modo costretti, e di un elemento di carattere obbiettivo, dato dal depauperamento di chi ha disposto del diritto o ha assunto l'obbligazione. Ne consegue che, quando un atto viene posto in essere da una società "controllata", va esclusa la ricorrenza di una donazione e non è necessaria l'osservanza delle forme richieste dall'art. 782 cod. civ. se l'operazione è stata posta in essere in adempimento di direttive impartite dalla capogruppo o comunque di obblighi assunti nell'ambito di una più vasta aggregazione imprenditoriale, mancando la libera scelta del donante. Inoltre, al fine di verificare se l'operazione abbia comportato o meno per la società che l'ha posta in essere un depauperamento effettivo occorre tener conto della complessiva situazione che, nell'ambito del gruppo, a quella società fa capo, potendo l'eventuale pregiudizio economico che da essa sia direttamente derivato aver trovato la sua contropartita in un altro rapporto e l'atto presentarsi come preordinato al soddisfacimento di un ben preciso interesse economico, sia pure mediato e indiretto. [massima ufficiale] Cass. 5 dicembre 1998, n. 12325, est. Giovanni Verucci, massima conforme a Cass. 11 marzo 1996, n. 2001 Dopo la riforma Cass. 24.8.2004, n. 16707, est. Renato Rordorf, secondo cui in tema di responsabilità degli amministratori di società di capitali verso la società stessa, appartenente ad un gruppo societario, ha rilievo (anche a prescindere dal testo dell'art. 2497 cod. civ. come novellato dall'art. 5 D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 6) la considerazione dei cosidetti vantaggi compensativi derivanti dall'operato dell'amministratore, riflettentisi sulla società in conseguenza della sua appartenenza al gruppo e idonei a neutralizzare, in tutto o in parte, il pregiudizio cagionato direttamente alla società amministrata; tuttavia non è sufficiente, al fine di escludere corrispondentemente la responsabilità, la mera ipotesi della sussistenza dei detti vantaggi, ma l'amministratore ha l'onere di allegare e provare gli ipotizzati benefici indiretti, connessi al vantaggio complessivo del gruppo, e la loro idoneità a compensare efficacemente gli effetti immediatamente negativi dell'operazione compiuta. Il fatto Tra l'aprile ed il luglio del 1993 la Scotti Finanziaria s.p.a. citò in giudizio dinanzi al Tribunale di Milano i propri ex amministratori, sigg. Florio Fiorini, Tiziano Mantovani, Fabio Serena e Ratiber Philippe Bogislaw Peter Von Wussow. Li accusò di avere mal gestito la società, nel periodo compreso tra la fine del 1988 ed il 1991, e di aver sacrificato l'interesse della Scotti Finanziaria a beneficio sia della controllante Sasea Holding s.a., di cui il medesimo sig. Fiorini era stato amministratore, sia di ulteriori società del medesimo gruppo in cui anche gli altri convenuti avevano rivestito cariche. Chiese perciò la condanna di detti convenuti al risarcimento dei danni, che inizialmente quantificò in L. 756.540.000.000, per poi, subito prima della decisione collegiale, ridurre al minor importo di L. 1.000.000.000. La domanda fu rigettata in primo e secondo grado.[...] Motivi della decisione [...]. 3.4.1. La questione in esame, come accennato, si ricollega alla cessione, per il prezzo di L. 200.000.000, da parte della Scotti Finanziaria alla Genaf s.r.l., dell'intera partecipazione di cui la prima era titolare nella Arvedi s.r.l. Ma alla Arvedi - in seguito fallita - la medesima Scotti Finanziaria aveva pochi mesi prima trasferito immobili per L. 65.000.000.000, non ricevendo il corrispettivo (o ricevendone solo una esigua parte) e cosi

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rimanendo creditrice della Arvedi per un rilevante importo senza alcuna specifica garanzia. Inoltre, la ricorrente assume che, successivamente, l'amministratore sig. Fiorini aveva rilasciato una falsa attestazione di avvenuto pagamento del suddetto corrispettivo, di cui invece era stata versata solo una rata di entità relativamente esigua, mentre il residuo credito era stato poi costituito in pegno a favore di un terzo creditore verso la Sasea Holding ed altre società del gruppo. La corte d'appello non ha ravvisato in questi fatti gli estremi di una qualche responsabilità dell'amministratore della Scotti Finanziaria. Ha infatti osservato: che la falsa attestazione di quietanza non avrebbe potuto avere di per sè effetti negativi, giacché il credito verso la Arvedi era stato dilazionato; che neppure la dilazione poteva di per sè rappresentare un danno, non essendo dimostrato che al momento di tale dilazione la debitrice Arvedi sarebbe stata invece in grado di saldare l'intero suo debito;che la costituzione in pegno del credito di cui si tratta era avvenuta in favore di un istituto bancario verso il quale le società del gruppo avevano esposizioni debitorie; che non era stato spiegato sulla base di quali elementi l'amministratore della Scotti Finanziaria avrebbe dovuto prefigurarsi il danno conseguente all'operazione da lui compiuta, di cui non era dimostrata la negativa incidenza sul patrimonio della medesima società, non essendo stato chiarito se il sacrificio immediato fosse o meno accompagnato dall'aspettativa di un beneficio futuro. Ma tale motivazione, a parere della società ricorrente, sarebbe insufficiente ed illogica, giacché si soffermerebbe su aspetti di dettaglio, mancando di cogliere invece il punto decisivo: consistente nell'esser stata in tal modo la Scotti Finanziaria privata di un ingente patrimonio immobiliare a fronte di un importo irrisorio, in assenza di garanzie e senza contropartite; una circostanza, questa, che di per sè sola basterebbe a denotare il grave difetto di diligenza ed oculatezza dell'amministratore sig. Fiorini, non certo bilanciato dall'astratta ipotesi di una non meglio individuata aspettativa di benefici futuri. 3.5. La censura ora riferita, nei limiti che saranno appresso indicati, coglie nel segno. 3.5.1. Nel giudicare sul punto in esame la corte d'appello è partita da premesse giuridicamente corrette, che in linea di principio vanno quindi senz'altro ribadite, con le precisazioni che seguono. Non v'è dubbio che la responsabilità di amministratori di società presuppone immancabilmente la violazione di doveri giuridici - di azione o di omissione - posti a loro carico dalla legge o dall'atto costitutivo della società (art. 2392, comma 1, c.c.). Si suole talvolta affermare che gli amministratori hanno anzitutto un dovere di diligenza (duty of care) cui è strettamente connesso il dovere di operare nell'interesse esclusivo della società da essi amministrata (duty of loyalty). Che la diligenza costituisca propriamente l'oggetto dell'obbligazione gravante sugli amministratori, piuttosto che il metro per valutare il corretto adempimento del loro obbligo gastorio, è stato in verità messo in dubbio, giacché anche il già citato primo comma dell'art. 2392 si riferisce (nella formulazione anteriore alle modifiche introdotte dal d.lgs. n. 6 del 2003) alla diligenza del mandatario come alla modalità con cui gli amministratori devono o adempiere i loro doveri. Ciò non toglie che il tema della diligenza resti centrale, proprio perché è evidente che l'obbligo di amministrare in via continuativa una società di capitali, ossia un'impresa creata a fini di lucro, difficilmente si presta ad esser totalmente inadempiuto, ma piuttosto è suscettibile di dar luogo a difformi valu-tazioni quanto al modo del suo adempimento: cioè, appunto, al grado di diligenza con cui l'amministratore vi ha atteso. Si comprende perciò come la diligenza, in presenza di obblighi aventi ad oggetto una prestazione solo genericamente definibile, finisca per assumere una funzione di specificazione dei comportamenti dovuti è quindi, in questo senso, per identificarsi con l'oggetto stesso dell'obbligazione. Quanto appena osservato - è bene sottolinearlo - non implica in alcun modo che gli amministratori possano esser chiamati in responsabilità sol perché la gestione dell'impresa sociale ha avuto un cattivo esito. La valutazione sull'eventuale responsabilità giuridica dell'amministratore, come opportunamente la corte d'appello ha puntualizzato, non attiene al merito delle scelte imprenditoriali da lui compiute. La sua responsabilità giuridica ben può discendere, però, dal rilievo che le modalità stesse del suo agire denotano la mancata adozione di quelle cautele o la non osservanza di quei canoni di comportamento che il dovere di diligente gestione ragionevolmente impone, secondo il metro della normale professionalità, a chi è preposto

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ad un tal genere di impresa, ed il cui difetto diviene perciò apprezzabile in termini di inesatto adempimento delle obbligazioni su di lui gravanti. Non può infatti prescindersi dall'ovvia considerazione che la diligenza è qui, come del resto quasi sempre, espressione del fondamentale dovere di correttezza e buona fede richiamato in termini generali dagli artt. 1175 e 1375 c.c.. Nel caso degli amministratori di società, come in tutti i casi di gestione di interessi altrui, tale dovere assume ancor più che altrove i caratteri del dovere di protezione dell'altrui sfera giuridica: il dovere di prendersi cura dell'interesse di colui (individuo o onte) che ha incaricato il gestore dell'amministrazione delle proprie attività e, per ciò stesso, lo ha investito di un compito con indubbie connotazioni fiduciarie. Ma gli amministratori di società, pur essendo tenuti alla diligenza del mandatario (secondo l'espressione adoperata nel testo originario del citato art. 2392), non sono in senso proprio dei mandatari della società: sono, invece, titolari di un organo essenziale per l'esistenza stessa dell'ente ed, in quanto tali, impersonano nell'impresa collettiva la figura dell'imprenditore. La loro attività, traducendosi nella gestione di un' impresa commerciale cui è connaturato il carattere professionale dell'esercizio di un'attività economica organizzata (art. 2082 c.c.), assume dunque i colori della professionalità che naturalmente si riverberano anche sul parametro della diligenza (come del resto ora conferma anche il nuovo testo del medesimo art. 2392, riformato dal d. lgs. n. 6 del 2003). Quanto appena osservato implica anche, con ogni evidenza, la centralità che nell'operato dell'amministratore assume il profilo della fedeltà all'interesse della società da lui amministrata. È suo dovere primario di perseguire tale interesse, sicché ogni sua azione o omissione che sia invece diretta a realizzare un interesse diverso, ed in contrasto con quello, si configura immancabilmente come violazione del dovere di fedeltà immanente alla carica:potenzialmente generatore di responsabilità civile, anche indipendentemente dal vizio che ne possa derivare per la deliberazione consiliare e dal regime della relativa impugnabilità ex art. 2391 c.c.. Della peculiare curvatura che talvolta può assumere questo dovere di fedeltà dell'amministratore all'interesse sociale, in caso di società facente parte di un gruppo, si avrà modo di far cenno in seguito. [...]La corte d'appello, nell'esaminare la vicenda di cui specificamente si sta ora trattando, non sembra aver voluto discostarsi dalla ricostruzione dei fatti prospettata dalla difesa della Scotti Finanziaria. Nulla almeno si legge, nell'impugnata sentenza, che valga a porre in dubbio le circostanze dell'avvenuta vendita di un complesso immobiliare di detta società in favore della controllata Arvedi a.r.l., del sorgere di un conseguente ingente debito di quest'ultima per il pagamento integrale del corrispettivo, non assistito da garanzia veruna, e della quasi immediatamente successiva cessione a terzi della partecipazione totalitaria della Scotti Finanziaria nella Arvedi per un prezzo di gran lunga inferiore a quello della precedente vendita immobiliare. Del pari incontestato è che la medesima Arvedi fu in seguito dichiarata fallita, onde è quanto meno ragionevole la presunzione logica che il credito per il pagamento del prezzo di vendita del complesso immobiliare dianzi menzionato, non assistito da alcuna causa di privilegio, sia rimasto (in tutto o in parte) insoddisfatto.Questi essendo i fatti addotti dalla società a sostegno della pretesa risarcitoria esercitata nei confronti dell'ex amministratore sig. Fiorini, che si assume essere stato l'autore di tali operazioni, le principali questioni da dirimere erano (e sono): se tali operazioni - non ciascuna separatamente considerata, ma nella loro apparente concatenazione - siano espressione di un comportamento gestorio privo delle elementari cautele, indispensabili per la salvaguardia dell'interesse della società amministrata, o addirittura tali da denotare l'intento di piegare quell'interesse a beneficio di terzi; se l'eventuale violazione dei doveri di diligenza e fedeltà imputabile all'amministratore abbia o meno arrecato un danno patrimoniale alla Scotti Finanziaria; e se siano stati forniti da quest'ultima elementi sufficienti per la quantificazione e liquidazione di tale danno. 3.5.3. La sentenza impugnata, viceversa, non si sofferma in modo esplicito a valutare la correttezza del comportamento dell'amministratore; e non ha torto la società ricorrente nel rilevare criticamente che la corte d'appello sembra aver appuntato la propria attenzione piuttosto su risvolti secondari della vicenda - quale la dilazione di pagamento concessa all'acquirente della partecipazione in Arvedi - che non sull'essenza delle descritte operazioni e sul fatto che, attraverso

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di esse, si direbbe esser stato sottratto alla Scotti Finanziaria il proprio patrimonio immobiliare senza alcuna effettiva contropartita. In quest'ottica anche la circostanza che il sig. Fiorini (a quanto si assume) abbia poi attestato falsamente l'avvenuto pagamento del prezzo di vendita degli immobili ceduti dalla Scotti Finanziaria alla Arvedi non può essere logicamente accantonata in base al solo rilievo che essa "non avrebbe potuto avere di per sè effetti negativi". Occorrerebbe pur sempre valutare se quella circostanza - ove risponda al vero - non sia comunque indicativa di un comportamento volto ad occultare precedenti responsabilità dell'amministratore; e se dunque essa non assuma rilievo ai fini della prova della consapevole violazione, ad opera del medesimo amministratore, nel compimento delle consecutive operazioni di vendita immobiliare e di cessione di partecipazioni sociali sopra descritte, del suo dovere di serbarsi fedele all'interesse della società da lui amministrata.Mal si comprende, poi, su quale base fattuale e logica riposi l'affermazione per cui non sarebbe stata dimostrata "l'incidenza del comportamento addebitato all'amministratore sul patrimonio della Scotti Finanziaria". Se le circostanze sopra riferite rispondono al vero - e si è visto che la corte d'appello non sembra metterlo sostanzialmente in dubbio - l'incidenza negativa delle descritte operazioni sul patrimonio della società evidentemente consisteva nella perdita di un ingente patrimonio immobiliare a fronte dell'acquisizione di un credito di difficile esazione vantato verso una società ormai fuori controllo; ed il rilievo è tale da rendere logicamente poco pertinente e fianco scarsamente plausibile il dubbio, affacciato nell'impugnata sentenza, se l'amministratore potesse o meno rappresentarsi ex ante il danno conseguente alla scelta intrapresa. Non adeguatamente spiegata è altresì la ragione per cui la corte d'appello, ai fini di escludere la responsabilità del sig. Fiorini nel contesto della vicenda sopra riferita, ha reputato rilevante la successiva concessione in pegno al Credit Lyonnais del più volte menzionato credito vantato dalla Scotti Finanziaria nei confronti della (ormai ex controllata) Arvedi per il residuo prezzo degli immobili a quest'ultima venduti. Se la corte territoriale ha inteso ipotizzare che un tale utilizzo del credito dimostrerebbe come la Scotti Finanziaria abbia comunque tratto vantaggio dall'operazione, e come dunque essa non sia stata spogliata senza contropartita del suo patrimonio immobiliare, sarebbe stato almeno necessario chiarire i termini sottostanti la menzionata dazione di pegno. Non è chiaro, invece, in qual modo questa abbia potuto arrecare beneficio al patrimonio della Scotti Finanziaria (ad onta del fatto che il credito dato in pegno, a causa del sopravenuto fallimento della relativa debitrice, è rimasto probabilmente insoluto), dal momento che la medesima sentenza, riferendosi al credito garantito dalla dazione di pegno, si limita a ricollegare la concessione di tale garanzia all'esposizione debitoria che verso il Credit Lyonnais avevano la Sasea ed altre società del gruppo, senza in alcun modo precisare se anche la Scotti Finanziaria fosse tra queste o comunque sotto quale profilo la concessione di quel pegno potesse riflettersi a suo vantaggio. 3.5.4. Si ricollega a quanto appena osservato anche un'ultima considerazione della corte d'appello: quella secondo cui non sarebbe stato "chiarito se il sacrificio immediato fosse del tutto ingiustificato in quanto non accompagnato dall'aspettativa di un beneficio futuro". Il rilievo riconduce al tema, cui già s'è fatto cenno, del cosiddetti "vantaggi compensativi" dei quali una singola società sarebbe in grado di fruire in conseguenza della sua appartenenza ad un più ampio gruppo di imprese e che, in quanto tali, potrebbero quindi neutralizzare l'apparente pregiudizio ad essa arrecato da un' operazione vantaggiosa per il gruppo. Una siffatta eventualità (oggi espressamente considerata in una disposizione del novellato art. 2497 c.c., non però direttamente applicabile a fattispecie realizzatesi in epoca anteriore all'entrata in vigore del d.lgs. n. 6 del 2003) è da ritenersi sicuramente ammissibile. L'autonomia soggettiva e patrimoniale che pur sempre contraddistingue ogni singola società appartenente ad un gruppo impone all'amministratore di perseguire prioritariamente l'interesse della specifica società cui egli è preposto; e dunque non gli consente di sacrificarne l'interesse in nome di un diverso interesse che, se pure riconducibile a quello di chi è collocato al vertice del gruppo, non assumerebbe alcun rilievo per i soci di minoranza e per i terzi creditori della società controllata. Ciò però non esclude affatto la possibilità di tener conto di valutazioni afferenti alla conduzione del gruppo nel suo insieme, purché non vengano in tal modo pregiudicati

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ingiustificatamente gli interessi delle singole società. E, nel valutare se un siffatto pregiudizio in concreto sussista, è doveroso tener conto che la conduzione di un' impresa di regola non si estrinseca nel compimento di singole operazioni, ciascuna distaccata dalla precedente, bensì nella realizzazione di strategie economiche destinate spesso a prender forma e ad assumere significato nel tempo attraverso una molteplicità di atti e di comportamenti. Sicché è perfettamente logico che anche la valutazione di quel che potenzialmente giova, o invece pregiudica, l'interesse della società non possa prescindere da una visione generale: visione in cui si abbia riguardo non soltanto all'effetto patrimoniale immediatamente negativo di un determinato atto di gestione, ma altresì agli eventuali riflessi positivi che ne siano eventualmente derivati in conseguenza della partecipazione della singola società ai vantaggi che quell'atto abbia arrecato al gruppo di appartenenza.In un simile contesto, tuttavia, l'eventualità che un atto lesivo del patrimonio della società trovi compensazione nei vantaggi derivanti dall'appartenenza al gruppo non può essere posta in termini meramente ipotetici. Se si accerta che l'atto non risponde all'interesse diretto della società il cui amministratore lo ha compiuto e che ne è scaturito nell'immediato un danno al patrimonio sociale, potrà ben ammettersi che il medesimo amministratore deduca e dimostri l'esistenza di una realtà di gruppo alla luce della quale anche quell'atto è destinato ad assumere una coloritura diversa e quel pregiudizio a stemperarsi; ma occorre che una tal prova egli la dia. Non può, viceversa, sostenersi - come sembra fare la corte d'appello - che la mera appartenenza della società ad un gruppo renda plausibile l'esistenza dei suddetti "benefici compensativi" e che, pertanto, competa alla società la quale abbia agito contro il proprio amministratore l'onere di dimostrarne l'inesistenza. Viceversa, la società attrice esaurisce il proprio onere probatorio dimostrando l'esistenza di comportamenti dell'amministratore che ledono il patrimonio dell'ente e perciò appaiono contrari al suo obbligo di perseguire lo specifico interesse sociale. È il medesimo amministratore, se del caso, che deve farsi carico di allagare e provare gli ipotizzati benefici indiretti, connessi al vantaggio complessivo del gruppo, e la loro idoneità a compensare efficacemente gli effetti immediatamente negativi dell'operazione compiuta. [...] Cass. 11.12.2006, n. 26325, est. Luciano Panzani L'atto compiuto dagli amministratori in nome della società è estraneo all'oggetto sociale se non è idoneo in concreto a soddisfare un interesse economico, sia pure mediato ed indiretto, ma giuridicamente rilevante della società. Sebbene l'appartenenza al medesimo gruppo societario consenta, in linea di principio, di riconoscere connessioni economiche rilevanti tra gli interessi, formalmente distinti, dei vari soggetti giuridici che compongono il gruppo (sì da giustificare attività dirette al perseguimento di un interesse che esula da quello proprio e specifico delle singole società, inteso in senso stretto, ma vi è ricompreso in senso mediato), tuttavia la mera ipotesi della sussistenza di vantaggi compensativi non è sufficiente al fine di affermare la legittimità dell'atto sul piano dei limiti imposti dall'oggetto sociale, ma l'amministratore ha l'onere di allegare e provare gli ipotizzati benefici indiretti, connessi al vantaggio complessivo del gruppo, e la loro idoneità a compensare efficacemente gli effetti immediatamente negativi dell'operazione compiuta. (Enunciando il principio di cui in massima, in fattispecie di costituzione di ipoteca volontaria vincolante l'intero patrimonio immobiliare, formalmente estranea all'oggetto sociale, in favore di società appartenente al medesimo gruppo, la Corte ha confermato la sentenza impugnata, la quale era pervenuta a riconoscere il carattere "ultra vires" dell'atto, sottolineando che l'accertamento della legittimità dell'atto, formalmente estraneo allo scopo sociale, in nome dell'interesse di gruppo e del vantaggio che dal perseguimento di tale interesse può derivare alla società partecipata, deve essere particolarmente rigoroso quando non vi sia rapporto di controllo, ma semplice rapporto di collegamento, l'atto sia formalmente privo di corrispettivo per la società che eroghi la garanzia, e il presunto interesse di gruppo non sia stato neppure enunciato al momento della costituzione della garanzia e non emerga "aliunde") [massima ufficiale] Cass. 14 ottobre 2010, n. 21250, est. Salvatore De Palma

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Nell'ipotesi di gruppo di società collegate tra loro in senso economico e dirigenziale, ma non anche sotto il profilo giuridico, come in quello cosiddetto "orizzontale", la validità di atti compiuti dall'organo amministrativo di una di esse in favore di altra è condizionata all'esistenza di un interesse economicamente e giuridicamente apprezzabile in capo alla società agente, potendo l'eventuale pregiudizio economico, che dall'atto sia direttamente derivato, trovare la sua contropartita in un altro rapporto e l'atto presentarsi come preordinato al soddisfacimento di un ben preciso interesse economico, sia pure mediato e indiretto, della società. Pertanto, in caso di prestazione di garanzie a titolo gratuito, tale gratuità non è, di per sé sola, circostanza determinante per escludere la realizzazione di tale preciso interesse economico, che spetta, invece, al giudice del merito positivamente accertare. App. Napoli, sez. VII, 10 gennaio 2007, Fallimento Bionectar S.r.l. contro F.V. Ambrosio e altri, inedita [...] E' plausibile ritenere che l'omissione di qualsiasi iniziativa nei confronti della Italgrano Industrie S.r.l. da parte dei convenuti costituisse un atto di obbedienza agli interessi dle gruppo societario di cui la Bionectar faceva parte. Ciò non basta, tuttavia, per ritenere i convenuti esenti da responsabilità, in mancanza di elementi idonei a fornire la prova - il cui onere incombeva sui convenuti - dei benefici compensativi che il comportamento omissivo in questione portò alla Bionectar indirettamente, attraverso il vantaggio dato da tale comportamento al gruppo cui questa società apparteneva [...]. App. Napoli Sez. I, 17 marzo 2008, Fallimento della Al. S.p.A. c. Me. s.r.l. e altri, Massima redazionale, 2008 In tema di società di capitali, l’atto compiuto dagli amministratori in nome della società è estraneo all’oggetto sociale se non è idoneo in concreto a soddisfare un interesse economico, sia pure mediato e indiretto, ma giuridicamente rilevante della società; sebbene l'appartenenza al medesimo gruppo societario consenta, in linea di principio, di riconoscere connessioni economiche rilevanti tra gli interessi, formalmente distinti, dei vari soggetti giuridici che compongono il gruppo, tuttavia la mera ipotesi della sussistenza di vantaggi compensativi non è sufficiente al fine di affermare la legittimità dell’atto sul piano dei limiti imposti dall’oggetto sociale, ma l'amministratore ha l'onere di allegare e provare gli ipotizzati benefici indiretti, connessi al vantaggio complessivo del gruppo, e la loro idoneità a compensare efficacemente gli effetti immediatamente negativi dell'operazione compiuta. Trib. Roma Sez. III, 5 febbraio 2008, Cirio Finanziaria s.p.a. in ammin. straord. Società, 2009, 4, 491 nota di SCOGNAMIGLIO e Giur. It., 2009, 1, 109 nota di WEIGMANN La società per azioni deve essere amministrata nell'interesse di tutti i suoi soci tutelando i diritti dei creditori ed il suo inserimento in un gruppo può solo consentire che le operazioni per lei pregiudizievoli, compiute nell'interesse di altre società controllanti o controllate da queste ultime, non siano valutate isolatamente, bensì tenendo conto dei vantaggi compensativi derivanti, anche indirettamente, dall'appartenenza al gruppo, vantaggi i quali devono essere concreti e specifici e non meramente ipotetici e vanno provati dagli amministratori convenuti in responsabilità o dai soggetti che con essi abbiano concorso nell'illecito. La vicenda. Si tratta dell'azione di responsabilità intentata dall'Amministrazione straordinaria della Cirio Finanziaria S.p.A. contro Cragnotti, Capitalia e altri. Il punto specifico che interessa è questo: Banca di Roma, nell'ambito dell'operazione Eurolat, fa un finanziamento di £ 170mld a favore della Cirio S.p.A. Poi avviene la cessione di questa partecipazione Eurolat alla Dalmata S.r.l. al fine di pagare i debiti non già della Cirio S.p.A. bensì di Cirio Holding S.p.A., della controllata di questa, Compagnia Mobiliare Italia S.p.A., della controllante della controllante, Bombril Cirio International S.A. Alla fine le risorse trasferite ai danni della Cirio S.p.A. superano i 400 mld di lire. I convenuti oppongono che nessun pregiudizio è derivato alla Cirio da tali operazioni perché:a)si sarebbe trattato di operazioni favorevoli anche alla Cirio S.p.A., in quanto finalizzate al perseguimento del superiore interesse di gruppo, ossia alla ristrutturazione del debito del gruppo Cragnotti e quindi anche se si è trattato di pagamento di debiti altrui, comunque lo scopo ultimo era quello di ridurre

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l'indebitamento di tutto il gruppo ed evitarne l'insolvenza; b)le operazioni contestate sarebbero servite per realizzare un programma imprenditoriale, ivi compreso l'acquisto delle partecipazioni Bombril SA, volto a concentrare l'attività del gruppo nel settore conserviero (difesa di Cragnotti) c)a movimenti finanziari infragruppo avrebbero fatto riscontro trasferimenti infragruppo di partecipazioni (difesa di Capitalia) d)il finanziamento di £170 mld serviva per un'operazione di leverage, e)alla fine di tutte le operazioni la Cirio si sarebbe avvantaggiata perché avrebbe acquisito le partecipazioni della Bombril e non avrebbe pagato il residuo prezzo di £ 181 mld Secondo il Tribunale di Roma, le asserzioni difensive non hanno riscontro ed anzi hanno trovato una netta smentita nella documentazione. La singola società quand'anche inserita in un gruppo è soggetto distinto dagli altri partecipanti ed i suoi amministratori continuano ad essere vincolati dall'obbligo di perseguire gli interessi della stessa a beneficio di tutti i soci e dei creditori. richiamando la giurisprudenza di legittimità formatasi sulla teoria dei vantaggi compensativi, il Tribunale di Roma che precisa di regolare una fattispecie ante riforma afferma che l'esistenza dei benefici non dev'essere meramente ipotetica, e non può quindi essere dedotta dalla semplice appartenenza al gruppo, ma dev'essere concreta ed oggetto di specifica dimostrazione. Ne deriva che se la società che assume di essere danneggiata deve provare il fatto lesivo e le sue conseguenze, il soggetto che ha cagionato tale pregiudizio e il soggetto che vi abbia concorso (quindi amministratore ed eventuali concorrenti nell'illecito) devono farsi carico di allegare e dimostrare i prospettati vantaggi per la società ancorché indiretti, per la società, atti a compensare efficacemente gli effetti negativi dell'operazione compiuta. Ciò premesso, ha ritenuto il Tribunale di Roma che il finanziamento di £ 170 mld e il prezzo della cessione Eurolat sono andati a vantaggio di altre società del gruppo e la Cirio S.p.A. non ha ricevuto né nell'immediato né successivamente, né direttamente, né indirettamente, alcun effetto o idoneo vantaggio compensativo. Il dovere di fedeltà dell'amministratore nei confronti della società che amministra non viene meno neanche nel caso in cui la società faccia parte di un'aggregazione di gruppo, dal momento che i legami in cui essa si estrinseca non fanno venir meno il distinto rilievo delle singole società e dei loro rispettivi interessi. Pertanto ha ritenuto la responsabilità di Cragnotti e della Capitalia, mentre ha escluso la responsabilità delle altre banche per le quali non v'era prova della consapevolezza del depauperamento della Cirio a vantaggio delle altre società del gruppo. 12. La teoria dei vantaggi compensativi nella giurisprudenza penale Art. 2634 c.c. Infedeltà patrimoniale. - Gli amministratori, i direttori generali e i liquidatori, che, avendo un interesse in conflitto con quello della società, al fine di procurare a sè o ad altri un ingiusto profitto o altro vantaggio, compiono o concorrono a deliberare atti di disposizione dei beni sociali, cagionando intenzionalmente alla società un danno patrimoniale, sono puniti con la reclusione da sei mesi a tre anni. La stessa pena si applica se il fatto è commesso in relazione a beni posseduti o amministrati dalla società per conto di terzi, cagionando a questi ultimi un danno patrimoniale. In ogni caso non è ingiusto il profitto della società collegata o del gruppo, se compensato da vantaggi, conseguiti o fondatamente prevedibili, derivanti dal collegamento o dall'appartenenza al gruppo. Per i delitti previsti dal primo e dal secondo comma si procede a querela della persona offesa. Si tratta di un reato introdotto dal D. Lgs. 61/02, relativo alla riforma del diritto penale societario che ha anticipato il D.Lgs. 6/03 ed ha recepito la dottrina civilistica sulla teoria dei vantaggi compensativi, di cui v'è traccia in una sola sentenza della Cass. pen., sez. III, 25 febbraio 1959. E' esclusa l'ingiustizia del profitto tutte le volte che si determini una compensazione tra lo svantaggio patrimoniale ed i benefici conseguiti o fondatamente prevedibili, derivanti dal collegamento o dall'appartenenza al gruppo. Si deve però trattare di vantaggi concreti, sicché l'amministratore è tenuto a dare la prova del beneficio concretamente conseguito dalla società sacrificata o dalla

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ragionevolezza della sua previsione, secondo criteri di valutazione probabilistica secondo le regole aziendali, economiche o finanziarie applicabili allo specifico contesto. Il controllo del giudice è secondo il meccanismo della prognosi postuma, e cioè il controllo ex post sulla base delle conoscenze e degli elementi di valutazione disponibili al momento in cui fu deliberato l'atto danoso per il patrimonio societario. Cass. pen. Sez. V, 23.6.2003, n. 38110, che ha ritenuto giustificabile l'atto dispositivo solo di fronte alla quasi assoluta certezza del conseguimento del vantaggio compensato Cass. pen. Sez. V, 18.11.2004, n. 10688, Dir. Pen. e Processo, 2005, 6, 747 nota di LEMME, secondo cui, a partire dal 1° gennaio 2004, nel nostro ordinamento giuridico è ormai configurabile l'impresa di gruppo. La direzione unitaria del gruppo vulnera il principio, finora imperante, di autonomia patrimoniale delle singole società controllate, in quanto l'art. 2497 c.c. configura una vera e propria responsabilità dell'impresa-holding (individuale o societaria), nei confronti dei soci e dei creditori sociali delle società controllate, per fatti riferibili al loro patrimonio, ma riconducigli ad una mala gestio unitaria del gruppo. In questo contesto, la norma di cui all'art. 2634 comma 2 c.c. costituisce una sorta di anticipazione del concetto unitario di gruppo e trova oggi una piena coerenza sul piano civilistico e penalistico.[...] Con riferimento al merito della tesi sostenuta con il ricorso, fino al 1/1/2004, data dell'entrata in vigore delle disposizioni del decreto legislativo n. 6/2003, riguardante la riforma del diritto societario, non era possibile sostenere resistenza di una disciplina legale della c.d. "impresa di gruppo", idonea a superare la personalità giuridica delle singole società collegate, e, con riguardo alla responsabilità degli amministratori, derogare al rigoroso regime dettato dal codice civile.Infatti, la figura del gruppo di imprese acquistava rilievo giuridico solamente in materie e nelle ipotesi espressamente disciplinate.Nel nostro ordinamento mancava una disciplina generale del c.d. gruppo di società - al di fuori delle regole dettate in materia di società collegate e/o controllate (art. 2359 C.C.) - per la quale il gruppo (a parte l'aggregazione per la realizzazione di interessi economici comuni) costituisse un autonomo centro di imputazione di diritti, per cui ciascuna società che lo componeva manteneva la propria personalità giuridica e il suo amministratore autonoma qualità imprenditoriale, rilevante, in particolare, per l'accertamento dello stato d'insolvenza, ai fini della dichiarazione di fallimento. Pertanto, non esisteva un interesse superiore del gruppo rispetto agli interessi delle singole società. Invero, tra società facenti parte dello stesso raggruppamento, da un lato, potevano sussistere conflitti d'interesse, non assorbibili nè giustificabili in un interesse della capogruppo e, dall'altro, non era possibile riportare la responsabilità degli amministratori ad una valutazione globale, prescindendo dalla tutela del patrimonio delle singole società, valutando l'eventuale vantaggio conseguito da altra società del gruppo. Quindi, per gruppo, doveva intendersi una impresa unitaria sotto l'aspetto economico, al quale corrispondevano sul piano giuridico più società con autonomia patrimoniale, mentre la responsabilità degli amministratori andava valutata in relazione alle singole società, anche quando rivestivano tale qualità in diverse società del gruppo.In sostanza, va affermato che nell'interesse del gruppo non era possibile sacrificare il patrimonio delle singole società che lo componevano, ove non conseguisse - direttamente o indirettamente - uno specifico vantaggio da altra operazione del gruppo. Ne consegue che risultava del tutto irrilevante l'eventuale legame di controllo sussistente sulle società nonchè il rapporto di subordinazione che, in maniera più o meno accentuata, legava le società appartenenti al gruppo. Ritiene, tuttavia, la Corte che la posizione giurisprudenziale fin qui affermatasi (vedi per tutte Cass., Civ. sent. 21/9/1999, n. 521, Doronzo), con la novella sul diritto societario portata dal decreto legislativo n. 6/2003, sia rimasta radicalmente superata. Infatti, è stato dettato un complesso di norme (art. 2497-2497 sexies C.C.), dedicate alla "Direzione e coordinamento di società" che, pur non offrendo una nozione di "gruppo", ritenuta inadeguata rispetto all'incessante evoluzione della realtà sociale, economica e giuridica (vedi relazione al decreto), tuttavia ne regolamenta - partendo dal fatto obiettivo dell'esercizio di attività di direzione e coordinamento di una o più società da parte di un diverso

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soggetto - l'attività, con il limite "costituito dal rispetto dei valori essenziali del bene partecipazione sociale", bene che la legge individua nella partecipazione all'esercizio in comune di una attività economica al fine di divederne gli utili. Perciò, il momento caratterizzante diviene quello di direzione e di coordinamento da parte di una società controllante sulla/e controllata/e, inteso come centro autonomo di imputazione, quale sviluppo di un unico disegno imprenditoriale. La riforma ha attribuito specifico rilievo alla "attività di direzione e coordinamento di società", considerandola, in specie, come possibile fonte di responsabilità civile, con un ulteriore esplicito riferimento - ma in termini differenziati rispetto alla norma penale - alla teoria dei vantaggi compensativi, prevedendo che "non vi è responsabilità quando il danno risulta mancante alla luce del risultato complessivo dell'attività di direzione e di coordinamento". Invero, la possibilità di riconoscere l'esistenza di un'unica impresa di gruppo e, quindi, di un "interesse di gruppo", sovraordinato a quello delle singole società che lo compongono, non comporta automaticamente la piena liceità della direzione unitaria e dell'emanazione di direttive di gruppo, con conseguente venir meno dell'autonomia delle singole controllate. Il decreto ha chiaramente evidenziato come l'attività di direzione e di coordinamento spetti a "società o enti", come sussista sempre la responsabilità "del controllante nei confronti dei soci e dei creditori sociali della controllata". Perciò, punto centrale di tale attività, diventa la responsabilità (art. 2497 C.C.), per cui le società e gli enti coordinatori, dato che agiscono nell'interesse imprenditoriale proprio ed altrui, in caso di violazione dei principi di corretta gestione societaria, assumono la diretta responsabilità nei confronti dei soci per il pregiudizio arrecato e nei confronti dei creditori sociali per la eventuale lesione del patrimonio sociale della controllata.[...] Tuttavia, si può parlare propriamente di gruppo, solo quando una pluralità di società, ovvero amplius di imprese, risulta sottoposta alla guida unitaria che una di esse esercita sulle altre ed è, altresì, opinione diffusa nella dottrina e nella giurisprudenza (Cass. Civ. 9/8/2002, n. 12113; Cass. Civ 26/2/1990, n. 1439, Caltagirone) che la veste di "holding" - di soggetto, cioè, che in forza della propria partecipazione di controllo, di diritto o di fatto, ovvero in forza di particolari vincoli contrattuali, svolge detta funzione di guida unitaria - possa essere assunta, non soltanto da una società (come di norma accade), ma anche da una persona fisica. La possibilità che a capo del gruppo si trovi un'impresa individuale è del resto riconosciuta, a livello normativo, nell'ambito della disciplina dell'amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza, di cui al d.lgs n. 270/1999 (c.d. Prodi-bis: v. in part., art. 80, in riferimento agli articoli 2, 4 e 23).Il solo fatto che una persona fisica si trovi in posizione di controllo rispetto ad una pluralità di società, non implica, tuttavia, l'automatica configurabilità di un "gruppo". E ciò anche alla luce della riforma del 2003, invocata dal ricorrente. Pertanto, rimane valida la conclusione per cui, allorchè una persona fisica detenga partecipazioni di controllo in una pluralità di società, si rende necessario stabilire - al di fuori di ogni presunzione, peraltro, di dubbia praticabilità nel campo penale - se tale persona non sia altro che un azionista che gestisce il proprio portafoglio, limitandosi al mero esercizio dei poteri inerenti alla qualità di socio "di comando", ovvero un soggetto che, per il tramite del controllo azionario, svolge una vera e propria funzione imprenditoriale di indirizzo e coordinamento delle società controllate (c.d. holding pura), eventualmente accompagnata anche da attività di natura. Invero, è rimasto accertato che il GIAMMARINO era il sostanziale detentore del 75% del capitale sociale di entrambe le società e, quindi, di amministratore di fatto di entrambe le società fallite, che gestiva, malgrado la presenza dell'amministratore in carica, senza svolgere, per quel che risulta, una specifica funzione imprenditoriale di indirizzo e coordinamento. Era stato proprio il GIAMMARINO a porre in essere i plurimi atti di distrazione contestati e accertati e, in particolare, la fornitura di merci da parte della OLII ZENITH, in favore dei creditori della PI.GE.GA a compensazione dei debiti di quest'ultima, nonchè ad effettuare il prelevamento, tramite assegni tratti sulle società e girati a se stesso, di denaro dalle banche. In sostanza, nella fattispecie, si era limitato al mero esercizio dei poteri inerenti alla sua qualità di amministratore di fatto, mentre per la configurazione di una autonoma impresa è necessario che l'attività svolta, sia essa di sola gestione del gruppo (holding

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pura), ovvero di holding operativa, venga esplicitata in atti, anche negoziali, posti in essere in nome proprio e, perciò, come fonte di responsabilità diretta del loro autore, aventi correlativamente una obiettiva attitudine a perseguire utili risultati economici, per il gruppo o per le sue componenti, casualmente ricollegabili all'attività medesima, che nel caso difetta. E' da aggiungere che, come è già stato affermato da questa Corte, il "vantaggio compensativo" previsto dall'art. 2634.3 C.C., presuppone un conflitto di interessi, effettivo ed attuale, tra il soggetto agente che compie l'atto dispositivo e la società. Il conflitto non può ritenersi in ogni atto che vada a nocumento di una società ed a vantaggio di un'altra, collegata o facente parte del gruppo. Il vantaggio compensativo non può, in ogni caso, andare oltre la sfera "dell'infedeltà patrimoniale" per la quale è previsto. Deve quindi escludersi che, nella specie, potesse ritenersi sussistente un "gruppo e che fosse applicabile l'art. 2634.3 C.C., non senza considerare che potrebbe parlarsi di vantaggi compensativi, solo in presenza di vantaggi Infatti, "prevedibilmente fondati" e, cioè basati su elementi sicuri e non aleatori o costituenti una semplice aspettativa (Cass. Sez. 5^, sent 23/6/2003, n. 38110).[...] Cass. pen., sez. V, 24.5.2006, n. 36764, secondo cui, in tema di bancarotta fraudolenta per distrazione nell'ambito delle operazioni infragruppo, non basta per escludere il reato che si appartenga al gruppo, perché è necessario che l'amministratore dia specifica e puntuale prova dell'esistenza di benefici compensativi, sub specie di vantaggio che refluisca sulla società cui afferisce l'atto dispositivo. In altri termini, i benefici indiretti per la fallita non solo devono essere effettivamente connessi ad un vantaggio complessivo del gruppo, ma devono essere altresì idonei a compensare efficacemente gli effetti immediatamente negativi del'operazione compiuta di modo da non arrecare danno ai creditori. Cass. pen., sez. V, 15.7.2008, n. 39546, Società, 2009, 7, 919 nota di TOSCANO, secondo cui il trasferimento di risorse infragruppo, ovvero tra società appartenenti allo stesso gruppo imprenditoriale, specialmente quando venga effettuato a vantaggio di una società già in difficoltà economiche, non è consentito e deve essere qualificato come vera e propria distrazione ai sensi e per gli effetti previsti dall'art. 216, comma 1, n. 1, l. fall. - R.D. n. 267/1942, giacché le società, pur appartenendo allo stesso gruppo, sono persone giuridiche diverse e, pertanto, i creditori della società depauperata mai potrebbero rivalersi dei loro crediti inseguendo i beni ceduti da una società ad un'altra dotata di un'autonoma personalità giuridica, posto che la garanzia dei creditori è data proprio dal patrimonio sociale, che viene depauperato dal trasferimento di quei beni ad altra società, con conseguente diminuzione della garanzia. Il fatto: S.L. e B.G. sono stati imputati del delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale aggravata nella loro rispettiva qualità di titolare e di amministratore di fatto della ditta individuale S., dichiarata fallita dal Tribunale di Padova il 12.5.1997, per avere, nel 1993, distratto dalla ditta fallita la somma di L. 3 miliardi utilizzata per l'aumento di capitale della s.p.a. ITALMAB di cui la S. era socia ed il B. amministratore. In primo e secondo grado sono stati condannati. Ricorre il B. e sostiene che l'operazione secondo la quale nel 1993 la ditta individuale successivamente fallita aveva ceduto ad una società di leasing per un corrispettivo di oltre L. tre miliardi tutti i suoi beni, poi locati alla ITALMAB per la sua attività produttiva, e che aveva determinato la S., a finanziare un aumento di capitale della s.p.a. già in difficoltà con la somma di L. tre miliardi, non era stata attuata, nelle intenzioni del ricorrente, come attività di spoliazione e di sacrificio della ditta individuale a vantaggio della società, ma al contrario come autofinanziamento della stessa attraverso il versamento dei canoni di leasing per il riacquisto dei beni ceduti dalla ditta individuale, tenuto conto che il fallimento era intervenuto poi 4 anni dopo l'operazione. Alternativamente l'operazione potrebbe essere vista come grave imprudenza per ritardare il fallimento rilevante L. Fall., ex art. 217. Osserva poi il ricorrente che in tema di bancarotta infragruppo rileverebbe il nuovo disposto della L. Fall., art.223, in relazione all'art. 2634 c.c. così che chiave di volta del sistema diventerebbe l'interesse del gruppo di società per individuare quel corrispettivo delle operazioni infragruppo che toglierebbe dall'area della bancarotta fraudolenta la concreta operazione posta in essere. Così se l'operazione di cui si tratta fosse stata compensata da vantaggi conseguiti o

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fondatamente prevedibili, derivanti dal collegamento o dall'appartenenza al gruppo non si potrebbe ritenere integrato il delitto per cui s'è proceduto. Motivi della decisione [...] La giurisprudenza di questa Corte ha ritenuto, sia in epoca precedente alla riforma del diritto societario sia successivamente all'introduzione delle nuove norme, che il trasferimento di risorse infragruppo, ovvero tra società appartenenti allo stesso gruppo imprenditoriale, specialmente quando venga effettuato a vantaggio di una società già in difficoltà economiche, non è consentito e deve essere qualificato come vera e propria distrazione ai sensi e per gli effetti previsti dalla L. Fall., art. 216, sul rilievo che le società, pur appartenendo allo stesso gruppo, sono persone giuridiche diverse e, pertanto, i creditori della società depauperata mai potrebbero rivalersi dei loro crediti inseguendo i beni ceduti da una società ad una altra dotata, ovviamente, di una autonoma personalità giuridica, posto che la garanzia dei creditori è data proprio dal patrimonio sociale. che viene depauperato allorchè vengano effettuati trasferimenti di beni ad altra società, con conseguente diminuzione della garanzia. E' stato rilevato che l'introduzione nel nostro ordinamento della norma di cui all'art. 2634 c.c., comma 3, non permette di affermare che la presenza di un gruppo societario legittimi per ciò solo qualsiasi condotta di asservimento di una società all'interesse delle altre società del gruppo. Anche dopo la riforma, infatti, l'autonomia soggettiva e patrimoniale che contraddistingue ogni singola società impone all'amministratore di perseguire prioritariamente l'interesse della specifica società a cui egli è preposto, non essendogli consentito di sacrificare l'interesse in nome di un diverso interesse anche se riconducibile a quello di chi è collocato al vertice del gruppo e che non procurerebbe riflesso alcuno a favore dei terzi creditori dell'organismo impoverito (vedi Cass. Civ., Sez. 1^, 24 agosto 2004 n. 16707; Cass., Sez. 5^, penale 22 febbraio 2007 - 15 marzo 2007, n. 11019, Pollice). Sono del resto diversi gli interessi tutelati rispettivamente dalla L. Fall., art. 216, destinato a tutelare i creditori sociali, e dall'art. 2634 c.c., destinato a tutelare il patrimonio sociale; e questa diversità di oggetti giuridici spiega anche perchè la seconda fattispecie sia punibile a titolo di bancarotta solo quando abbia determinato il dissesto, che finisce per incidere sulle ragioni dei creditori. E' stato ritenuto dalla giurisprudenza della Corte (Sez. 5^, sent. n. 6140 del 16/01/2007 Ginestra; Sez. 5^, sent. n. 13110 del 2008 05/03/2008 Scotuzzi e altri) che la condotta di bancarotta patrimoniale per distrazione, prevista dalla L. Fall., art. 216, che esige una finalità di danno per i creditori, è in rapporto di specialità reciproca con quella di infedeltà patrimoniale, prevista dall'art. 2634 c.c. che presuppone un conflitto di interessi cui consegua un danno per la società ed esige una finalità di ingiusto profitto per l'agente o di vantaggio per i terzi (Cass., sez. 2, 26 ottobre 2005, Francis, m. 232525, con riferimento al rapporto tra infedeltà patrimoniale e appropriazione indebita). In realtà è possibile non solo un'attività distratti va che non integri l'infedeltà patrimoniale, per mancanza di conflitto di interessi, ma anche un'infedeltà patrimoniale che non integri distrazione, come ad esempio la stipulazione, in situazione di conflitto di interessi, di un appalto di servizi oneroso. La L. Fall., art. 223, d'altro canto, prevede innanzitutto, al comma 1, che gli amministratori di società dichiarate fallite rispondano dei fatti di bancarotta previsti dalla L. Fall., art. 216, inclusa la distrazione; e aggiunge poi, al comma 2, che rispondono a titolo di bancarotta anche gli amministratori che abbiano cagionato il dissesto della società commettendo alcuni fatti, tra i quali quello previsto dall'art. 2634 c.c.. Il ricorrente mette in risalto la situazione della ditta individuale e tende a proporla come una sorta di reparto società di capitali per evidenziare come l'interesse che veniva perseguito nell'operazione di cui si tratta fosse quello generale dell'impresa gestita dal B. ed osserva come al momento dell'operazione, precedente di alcuni anni il fallimento, vi fosse una fondata previsione di risultato favorevole della stessa per le sorti della ITALMAB e che quindi non si trattasse di operazione da ricollegare al successivo dissesto e da potersi ascrivere al prevenuto a titolo di bancarotta. Omette peraltro di rammentare il ricorrente che, quale che fosse l'assetto operativo della produzione aziendale, era stata fatta la scelta, per ragioni di convenienza che vengono ben sottolineate dai giudici del merito, di operare per mezzo di due soggetti giuridici distinti a cui facevano capo per quel che interessa differenti sistemi di rapporti di credito e debito che ciascuno dei due soggetti doveva garantire con il proprio

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patrimonio.Anche la considerazione della possibilità di formulare, al momento, nonostante la suddivisione dei soggetti economici, una prognosi fausta dell'operazione - nel senso che ne avrebbero potuto trarre benefici entrambe le imprese, con conseguente beneficio anche per i rispettivi creditori - e che in tale situazione non si sarebbero potuti ravvisare, alla luce del nuovo diritto societario, gli estremi per considerare quell'operazione come distrattiva, cede di fronte al rilievo che quando si tratta di trasferimento di beni da una società già in difficoltà economica ad altra società che versi in analoghe difficoltà l'operazione di trasferimento di risorse non può che essere considerata distrattiva, in quanto, come ritiene la giurisprudenza di questa Corte, non sarebbe fondatamente ipotizzabile alcuna prognosi positiva. [...] Cass. pen., sez. V, 18.1.2011-20.6.2011, n. 24583, secondo cui anche la società capogruppo può essere chiamata a rispondere del reato degli enti, ai sensi del d. lgs. 8 giugno 2001, n. 231, con riguardo ad un illecito commesso da soggetto inserito nell’organizzazione imprenditoriale di una sua controllata: purché il reato sia commesso, almeno a titolo di concorso, da una persona fisica che abbia un rapporto funzionale ed agisca per conto della holding, perseguendo anche l’interesse di quest’ultima. Interesse e vantaggio devono essere “verificati in concreto, nel senso che la società deve ricevere una potenziale o effettiva utilità, ancorché non necessariamente di carattere patrimoniale, derivante dalla commissione del reato presupposto”.Il criterio dell’interesse o del vantaggio per l’ente sono quindi il discrimine dell’imputazione di responsabilità. Cass. pen. Sez. V, 10.11.2011, n. 4458, Società, 2012, 7, 841, secondo cui ai collegamenti della società fallita nell'ambito del gruppo può essere attribuita incidenza anche nella valutazione della configurabilità dei reati di bancarotta, avuto riguardo ad un'indicazione normativa (art. 2634 c.c.) che comunque conferisce rilievo agli eventuali vantaggi compensativi in un'ottica riferibile al giudizio sulla correttezza della gestione societaria. L'influenza di questi elementi dovrà tuttavia essere esaminata nel rispetto dell'autonoma tutela delle ragioni creditorie specificamente riferibili alla società fallita. Occorrerà che l'operazione produca per la fallita benefici, sia pure indiretti, i quali si rivelino concretamente idonei a compensare efficacemente gli effetti immediatamente negativi dell'operazione stessa. Cass. pen. Sez. V, 6.10.2011, n. 48518, secondo cui, in tema di bancarotta fraudolenta patrimoniale, per escludere la natura distrattiva di un'operazione infragruppo non è sufficiente allegare tale natura intrinseca, dovendo invece l'interessato fornire l'ulteriore dimostrazione del vantaggio compensativo ritratto dalla società che subisce il depauperamento in favore degli interessi complessivi del gruppo societario cui essa appartiene

Ubalda Macrì (Giudice del Tribunale di Napoli)