2.1 Il Metodo Del Realismo Aristotelico Tomista

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2 IL METODO COGNITIVO 2.1 IL METODO DEL REALISMO ARISTOTELICO-TOMISTA Il termine «metodo», dal latino «methodus», dal greco «methòdos» (metà = dopo; hòdos = cammino, via), sta a significare il modo dell'investigazione, il modo ordinato e conforme di operare per ottenere uno scopo. Nella storia della filosofia il termine «metodo» viene utilizzato con ricorrenza a partire da Cartesio, e questo dato di fatto dovrebbe già farci riflettere sul ruolo cardine che l'agente cognitivo assume all'interno di siffatta investigazione ordinata e diligente. Raramente infatti si trova il termine «metodo» negli scritti risalenti alla filosofia medioevale, e ancor meno in quelli tipici della filosofia antica; e questo è dovuto a mio parere al fatto che fino a Cartesio, fino alla “svolta copernicana”, il problema del «metodo» non si presentava nelle menti dei filosofi poiché regnava quell'unitaria convinzione che la conoscenza era dettata dall'essere delle cose piuttosto che dal modo in cui queste erano esperite. Anche se abbiamo intitolato questo paragrafo “il metodo del realismo aristotelico-tomista” , in verità, questo, più che un metodo è una prognosi dell'atto cognitivo; è – per dirla in altre parole – una descrizione del processo mediante cui il soggetto conoscente apprende l'essenza dell'oggetto conosciuto. A differenza dei vari, molteplici e perché no innumerevoli metodi possibili che l'agente epistemico può creare al fine di una conoscenza certa e rigorosa, il metodo del realismo aristotelico-tomista è l'unica descrizione del processo cognitivo. Se infatti nel realismo si riconosce lo sviluppo dell'atto cognitivo, negli altri metodi cognitivi si crea piuttosto il percorso ritenuto più idoneo, più corretto, al fine di dare maggiore scientificità alla stessa azione cognitiva. Detto ciò, tengo ulteriormente a precisare che il metodo che abbiamo chiamato aristotelico-tomista è in realtà più aristotelico che tomista. Pertanto, l'induzione e la deduzione – le colonne portanti del metodo realista – sono il frutto di alcuni scritti aristotelici che Tommaso si è solo limitato ad adottare per la sua filosofia. L'Aquinate però, di controparte, ha dato una consistenza ultima alla filosofia aristotelica introducendo il concetto di una causa prima e trascendente; e giacché entrambi si avvalgono di una concezione realista del filosofare, abbiamo deciso di omaggiare – in linea con la tradizione – siffatto metodo a questi due grandi pensatori. Sull'importanza di Aristotele quale padre fondatore del realismo filosofico riprendo un esemplare scritto di Terence Irwin, che dice: «Nella misura in cui sostiene che i principi oggettivi devono essere noti per natura, 1

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2 IL METODO COGNITIVO

2.1 IL METODO DEL REALISMO ARISTOTELICO-TOMISTA

Il termine «metodo», dal latino «methodus», dal greco «methòdos» (metà = dopo; hòdos = cammino, via), sta a significare il modo dell'investigazione, il modo ordinato e conforme di operare per ottenere uno scopo. Nella storia della filosofia il termine «metodo» viene utilizzato con ricorrenza a partire da Cartesio, e questo dato di fatto dovrebbe già farci riflettere sul ruolo cardine che l'agente cognitivo assume all'interno di siffatta investigazione ordinata e diligente. Raramente infatti si trova il termine «metodo» negli scritti risalenti alla filosofia medioevale, e ancor meno in quelli tipici della filosofia antica; e questo è dovuto a mio parere al fatto che fino a Cartesio, fino alla “svolta copernicana”, il problema del «metodo» non si presentava nelle menti dei filosofi poiché regnava quell'unitaria convinzione che la conoscenza era dettata dall'essere delle cose piuttosto che dal modo in cui queste erano esperite.Anche se abbiamo intitolato questo paragrafo “il metodo del realismo aristotelico-tomista”, in verità, questo, più che un metodo è una prognosi dell'atto cognitivo; è – per dirla in altre parole – una descrizione del processo mediante cui il soggetto conoscente apprende l'essenza dell'oggetto conosciuto. A differenza dei vari, molteplici e perché no innumerevoli metodi possibili che l'agente epistemico può creare al fine di una conoscenza certa e rigorosa, il metodo del realismo aristotelico-tomista è l'unica descrizione del processo cognitivo. Se infatti nel realismo si riconosce lo sviluppo dell'atto cognitivo, negli altri metodi cognitivi si crea piuttosto il percorso ritenuto più idoneo, più corretto, al fine di dare maggiore scientificità alla stessa azione cognitiva.Detto ciò, tengo ulteriormente a precisare che il metodo che abbiamo chiamato aristotelico-tomista è in realtà più aristotelico che tomista. Pertanto, l'induzione e la deduzione – le colonne portanti del metodo realista – sono il frutto di alcuni scritti aristotelici che Tommaso si è solo limitato ad adottare per la sua filosofia. L'Aquinate però, di controparte, ha dato una consistenza ultima alla filosofia aristotelica introducendo il concetto di una causa prima e trascendente; e giacché entrambi si avvalgono di una concezione realista del filosofare, abbiamo deciso di omaggiare – in linea con la tradizione – siffatto metodo a questi due grandi pensatori. Sull'importanza di Aristotele quale padre fondatore del realismo filosofico riprendo un esemplare scritto di Terence Irwin, che dice:«Nella misura in cui sostiene che i principi oggettivi devono essere noti per natura,

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Aristotele si conforma ad una concezione metafisico-realista della conoscenza e della realtà. Infatti sostiene che la verità e originarietà di un principio primo proposizionale è determinata dalla sua corrispondenza a principi primi non proposizionali. Ciò che è: «noto per natura» non è ciò cui accade di essere adatto alle nostre capacità cognitive, o che gioca un ruolo speciale nelle nostre teorie o opinioni. È noto per natura perché è una caratteristica primaria del mondo, ed è da noi conosciuto solo se siamo nella condizione cognitiva giusta per scoprire ciò che realmente c'è. L'opinione che abbiamo quando siamo nel tipo giusto di condizione cognitiva non costituisce essa stessa il nostro conseguire un principio primo oggettivo; per questo è per noi possibile avere teorie coerenti, semplici, potenti e bene attestate, secondo tutti i canoni della ricerca propriamente detta, senza avere trovato principi oggettivi. È l'originarietà del principio oggettivo a rendere la nostra opinione conseguimento di un principio, non viceversa»1.Tornando ora sullo specifico contributo offerto da Aristotele alla gnoseologia, è interessante vedere come il filosofo greco abbia distinto due fasi fondamentali dell'azione cognitiva. Invero, Aristotele, riconoscendo che la conoscenza più propriamente scientifica è quella che parte dall'universale e giunge a conclusioni attraverso inferenze sillogistiche di tipo deduttivo, mette in luce che non potrebbe darsi nessun tipo di conoscenza simile se prima non si ammettesse un'altra conoscenza che partendo dal particolare giunge all'universale. Di queste due metodologie tanto necessarie per il processo cognitivo tout court, solo la deduzione ha potuto godere di un consenso a trecentosessanta gradi negli ambienti filosofici. L'induzione aristotelica, al contrario – che stando alla definizione che ne dà lo stesso Aristotele è esattamente «il procedimento che dal particolare porta all'universale»2 –, a volte non è stata presa in considerazione quale metodologia gnoseologica, altre, è sì stata presa in considerazione, ma nell'accezione semantica che le aveva attribuito Bacone3. Ma è davvero possibile fare a meno della conoscenza tipica del sillogismo induttivo come ha creduto la stragrande maggioranza dei filosofi post-cartesiani? La domanda primaria che ogni epistemologo si deve necessariamente porre al fine delle sue speculazioni è quella circa lo sviluppo del processo cognitivo o, più 1 Terence IRWIN, Aristotle's first principles, Oxford University Press, Oxford, 1988; trad. it.: I

principi primi di Aristotele, Vita e Pensiero, Milano, 1996, 9-10.2 ARISTOTELE, Topici, I, 12, 105a, 11.3 L'induzione nel senso che ne da Aristotele procede per enumerazione; nel senso che ne da Francesco Bacone invece procede per eliminazione. Orbene, Da Bacone in poi l'induzione (nella sua accezione aristotelica) fu oggetto di critiche tanto da privarne ogni fondamento epistemologico e considerarla solo nella sua fattispecie di probabilità. Se per lo Stagirita il percorso induttivo era necessario per trarre la definizione universale che sarebbe stata in un secondo luogo la premessa per il sillogismo deduttivo, per Bacone essa altro non era che il ripetersi di più osservazioni e sperimentazioni da parte dell'agente epistemico all'affermazione solo probabile del presunto risultato possibile. Se per Aristotele l'induzione si sviluppava da un procedimento che aveva inizio dai dati particolari per giungere all'universale, per i vari Bacone, Stuart Mill, Hume, fino a Popper, l'induzione è ricollegabile alla seguente forma canonica di rappresentazione: «Ho visto un corvo ed era nero, ho visto un secondo corvo ed era nera, ho visto un terzo corvo ed era nero, concludo che il prossimo corvo che vedrò sarà probabilmente di colore nero, e che quindi tutti i corvi saranno probabilmente di colore nero».2

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genericamente, come de facto un soggetto umano conosce. Immediatamente siamo portati a pensare che la conoscenza sia il prodotto di un'inferenza logica di base deduttiva del tipo: se A = B e B = C allora A = C, ossia, che è la stessa cosa, postulare delle premesse dalle quali trarre, o per l'appunto dedurre, delle soluzioni. Di tale metodo conoscitivo, il metodo deduttivo-dimostrativo quale tipico della conoscenza scientifica, il discepolo di Platone parla negli Analitici Secondi4 mettendone subito in risalto i suoi limiti intrinseci:«La dimostrazione è un sillogismo a partire da cose necessarie. Bisogna dire, quindi, da quali e da che tipo di cose procedono le dimostrazioni»5.Se infatti siamo tutti d'accordo – o almeno dovremmo esserlo – che la conoscenza propriamente scientifica è quella ricavata per mezzo del sillogismo deduttivo-dimostrativo, allo stesso modo dovremmo essere tutti d'accordo nel sostenere che, per non incorrere in errate opinioni sulla scienza, il metodo scientifico per non risultare sterile deve necessariamente fondarsi su qualcosa di altro. Ritenere epistemico il carattere delle soluzioni ricavate per via dimostrativa significa ammettere indirettamente che anche il carattere delle premesse del suddetto metodo devono essere ritenute tali; logicamente è paradossale convenire nell'idea che da ciò che non è certo è possibile dedurre qualcosa di certo. Ma asserire che suddette premesse posseggono un carattere epistemico solo perché ricavate a loro volta da conclusioni inferenziali e dimostrazioni già date, è voler procrastinare l'agonia di chi vuole ricercare il vero fondamento epistemico della conoscenza scientifica. Infatti, ciò non toglie che così facendo o si cade in un circolo vizioso senza fine, oppure si finisce per abolire ogni legittimazione di “epistemicità” del metodo in esame. A riguardo, Aristotele si esprime:«Ebbene ad alcuni, per il fatto che si devono conoscere le cose prime, non sembra che vi sia scienza, ad altri che vi sia, però che di ogni cosa si dia dimostrazione. Ma nessuna di queste due opinioni è né vera né necessaria. Infatti, quanto a quelli che suppongono che non sia possibile conoscere, in senso totale, costoro ritengono che si retroceda all'infinito, come se dicessero, giustamente, che non si conoscono le cose posteriori mediante quelle anteriori, delle quali non ci sono cose prime: che è impossibile percorrere le cose infinite. E se ci si ferma e vi sono i principi, [dicono] che questi sono inconoscibili, se, per l'appunto, non se ne ha dimostrazione: nella qual cosa soltanto – sostengono – consiste il conoscere. Ora, se non è possibile conoscere le cose prime, non è possibile conoscere in senso assoluto né in senso proprio neppure quelle che vi derivano»6.Se infatti è sempre stata evidente per tutti la validità perenne e universale dei risultati del metodo dimostrativo7 – fatto che gli ha permesso di essere 4 «Chiamo «dimostrazione» un sillogismo scientifico; e chiamo «scientifico» quello secondo il quale, per il fatto di possederlo, abbiamo conoscenza». Cfr. ARISTOTELE, Analitici Secondi, I, 2.5 Ivi, I, 4, 23-26.6 Ivi, I, 1, 3, 5-15.7 Aristotele dedica un paragrafo degli Analiti Secondi (I, 1, 8. La validità perenne della dimostrazione) alla suddetta questione facendo emergere che: «nel caso in cui le proposizioni dalle quali procede il sillogismo siano universali, anche la conclusione della dimostrazione di

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considerato propriamente scientifico – non per tutti è stato altrettanto chiaro il carattere, questa volta indimostrabile ma non per questo inconoscibile, dei principi sui quali la dimostrazione si articola. Abbiamo già detto che talora i principi del sillogismo dimostrativo sono stati creduti universalmente veri poiché dedotti da altre inferenze dimostrative, ma abbiamo visto l'impossibilità di una tale teoria giacché in origine le premesse delle articolazione inferenziali non potevano essere state il frutto di deduzioni; talvolta non sono stati creduti affatto, e allora sorge spontaneo domandarsi dove è che risiede il fondamento epistemico e il luogo sorgivo della conoscenza scientifica. La risposta già adottata e promossa in precedenza vuole ribadire a gran voce la necessaria e fondamentale presenza di una modalità del conoscere che è ben lungi dalla conoscenza dimostrativa, dalla quale, tra l'altro, anch'essa deriva. A tal proposito anche Tommaso è decisamente ferreo su questa posizione in quanto afferma che tutta la certezza della scienza non può che non derivare dalla certezza riposta nei principi primi (Cfr. TOMMASO, De Veritate, XI, 1,). È bene tenere a mente quindi che il metodo induttivo, intimamente legato all'intuizione intellettiva, è la base epistemica di ogni conoscenza; anche di tutte quelle dottrine filosofiche e metodi scientifici che in un modo o nell'altro l'hanno negato.Oltre a quanto espresso fino ad ora circa il problema scaturito dalla soppressione dell'intuizione quale proprium dell'operazione cognitiva (questione che verrà ripresa nel capitolo III dell'opera), Aristotele mette in evidenza un'ulteriore inconsistenza epistemologica a proposito di quei metodi che (apparentemente) non suppongono la conoscenza per induzione. Se siamo tutti d'accordo che la conoscenza per dimostrazione parte da premesse universali, dobbiamo domandarci come è possibile trarre l'universale se, di fatto, è del particolare che viene fatta esperienza. Come è possibile, detto in termini aristotelici, giungere alla sostanza seconda se ciò che è primo noto, l'oggetto d'esperienza, è la sostanza prima? Come è possibile passare dal livello di ciò che è particolare (per esempio ogni singolo uomo, «Socrate», «Platone», «Aristotele») a quello universale? (per esempio il concetto di «uomo»). Aristotele riguardo la fondazione causale delle essenze ben dice quando sostiene che è con l'induzione, ovvero con l'astrazione delle caratteristiche essenziali del singolo individuo particolare, che si può estrapolare la definizione, e quindi l'universale. Invero, per eliminare ogni increspatura e salto della ragione che farebbe dell'unità dell'esperienza filosofica un percorso dogmatico e oscuro, comprendere l'articolarsi della ragione così come promossa dal filosofo greco – ossia concepire l'induzione quale atto originario della conoscenza e, allo stesso tempo, ancoraggio del metodo deduttivo – rende il processo cognitivo a tutti gli effetti fluido e inconfutabile. Non a caso il filosofo di Stagira parla della necessità di questo genere, ossia della dimostrazione presa in senso assoluto, è necessariamente perenne. Pertanto, di ciò che è corruttibile non si dà dimostrazione né scienza in senso assoluto, ma così come per accidente, poiché non riguardano la cosa nella sua totalità, ma talvolta e in un certo modo».

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una conoscenza previa al metodo deduttivo, il quale non potrebbe esistere senza una conoscenza appresa in precedenza. Così Aristotele scriveva che:«Ogni insegnamento ed apprendimento dianoetico procede da una conoscenza esistente in precedenza»8.Aristotele ribadisce più volte negli Analitici Secondi che se la conoscenza più propriamente detta scientifica è solo quella ricavata attraverso il sillogismo deduttivo, alla base di essa c'è un'altra conoscenza, altrettanto importante quanto fondamentale per l'azione cognitiva, che è quella prodotta tramite il sillogismo induttivo. Quest'ultimo si pone oltremodo all'origine della dialettica deduttiva perché se è vero che questa dimostra, lo fa sempre muovendo le proprie inferenze sillogistiche da delle premesse ricavate in principio dalla dialettica induttiva che, astraendo le caratteristiche essenziali degli enti particolari, ne definisce l'universale. Questo specifico processo di astrazione che parte dal particolare per finire all'universale tipico della dialettica induttiva è bene sapere che è chiamato da Aristotele epagoché (ἐπαγωγή). Ergo, definizione e dimostrazione, ovvero induzione e deduzione, sono le due vie mediante le quali la conoscenza umana procede secondo la filosofia aristotelico-tomista, dove la dimostrazione per sussistere come tale non può prescindere dalla definizione9.In epilogo, prima di giungere al prossimo capitolo, riepiloghiamo per sommi capi come, de facto, si sviluppa l'atto cognitivo.In primo luogo c'è da evidenziare che l'agente cognitivo è il soggetto umano che conosce, e il referente cognitivo è l'ente individuale sostanziale che in quanto tale è – secondo Aristotele – sostanza prima. Detto ciò, il soggetto conoscente quanto si trova nelle condizioni ideali che gli permettono di entrare in relazione con il suo referente cognitivo, ciò che egli originariamente conosce è il singolo individuo (p. es. il singolo «Socrate», «Platone», ecc.). Dopo questa esperienza sensibile10, per mezzo dell'intuizione intellettiva prima e dell'induzione poi, il soggetto di conoscenza, astraendo i caratteri essenziali dell'oggetto di conoscenza, può stabilirne la definizione, ossia può riconoscerne l'intrinseca natura. Invero, secondo lo Stagirita la definizione è una frase che contiene in sé l'essenza dell'ente individuale sostanziale oggetto di studio, ed essa è appresa, appunto, mediante l'intuizione intellettiva presente nella dialettica induttiva. Poi, una volta stabilità l'essenza del proprio referente cognitivo, si può accedere a quella via di conoscenza 8 Ivi, I, 1, 71a, 1-3.9 Ivi, I, 2.10 Tengo a precisare che come giustamente sostiene Aristotele ogni tipo di conoscenza parte sempre dai sensi, dalla percezione sensitiva che si ha delle cose. Più correttamente sono le cose che imprimono la propria forma ai sensi del soggetto epistemico, il quale solo in un secondo momento, passando da uno stato di passività a quello di attività, ed elaborando i dati sensibili attraverso un atto intellegibile, giungerà alla conoscenza delle essenze. Nel De Anima il filosofo greco scrive che «la sensazione in atto ha per oggetto le cose particolari, mentre la scienza ha per oggetto gli universali e questi sono, in un certo senso, nell'anima stessa». ARISTOTELE, De Anima, II, 5, 417b.

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che è in un certo qual modo inversa, opposta, all'induzione che è la deduzione. Una volta apprese le definizione essenziali (o universali) è possibile avanzare dimostrazioni con l'utilizzo di un altro sillogismo, quello deduttivo, che partendo dall'universale può, a tutti gli effetti, giungere al particolare rivendicando un carattere di necessità, che in quanto tale, lo ha reso un sillogismo “scientifico”. Se infatti la dialettica induttiva è basata su un sistema aperto, la dialettica deduttiva, al contrario, avvia le sue inferenze sillogistiche sempre all'interno di determinati postulati. Condizione che fa della conclusione giunta tramite siffatto metodo investigativo vera, necessaria ed universale11. Orbene, tengo a fare una precisazione al fine di non incappare in errate opinioni sulla dialettica deduttiva e sul suo carattere di necessità. Cosicché, il risultato scaturito da questo metodo inferenziale può dirsi realmente consistente se e solo se le premesse supposte dall'inferenza sillogistica risultano essere vere e se il procedimento inferenziale è svolto senza errori e fallacie. Difatti, stando alla formalizzazione della teoria classica del sillogismo apodittico – quella formulata nei termini: «se A di B e B di C allora A di C» – , solo quando l'inferenza è svolta in modo corretto partendo da premesse vere, la conclusione potrà dirsi essere (sempre) vera. Da premesse vere non si possono dedurre conclusioni false; al contrario, conclusioni vere possono essere dedotte, in modo accidentale, anche da premesse (almeno una di due) false. Faccio un esempio:(1) = Tutti gli uomini sono mortali M e PSocrate è un uomo S e MSocrate è mortale S e P(2) = Tutti gli uomini sono immortali M e PSocrate è un uomo S e MSocrate è immortale S e P(3) = Tutti i filosofi sono greci M e PSocrate è un filosofo S e MSocrate è greco S e PDagli esempi dei sillogismi categorici sopra riportati si può notare come solamente (1) possa essere preso ad esempio di quello che è un sillogismo apodittico12. Infatti, nonostante (1), (2) e (3), possono essere considerati a tutti gli 11 Condizione che si presenta esclusivamente laddove le premesse dalle quali il sillogismo si articola sono vere, e laddove il procedimento sillogistico è sviluppato coerentemente.12 Ho qui riportato solamente una figura (forma che l'inferenza logica riveste a seconda della posizione occupata dal termine medio) delle quattro esistenti che possono rendere

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effetti validi nella loro fatti specie formale, dal punto di vista materiale, quello dei contenuti, si nota come sia (2) che (3) risultano essere errati. Nello specifico l'inferenza logica numero (2) mostra come da una premessa (M e P) essenzialmente falsa (il predicato mortale/immortale è un aspetto essenziale della natura umana) anche la conclusione da essa scaturita è necessariamente falsa. Nell'esempio (3) invece si nota come nonostante la premessa (M e P) fosse falsa, avendo questa a che fare con un predicato che rispecchia solo accidentalmente la natura umana (non è un aspetto essenziale dell'umano essere filosofo o non-filosofo), la conclusione dimostra il suo essere vero. Quest'ultimo esempio, a prescindere dell'esito verace della sua conclusione, non può essere però considerato un ragionamento apodittico perché viola una regola fondamentale dell'argomentazione razionale: quella, appunto, che unisce i predicati dell'inferenza mediante un vincolo essenziale (per sé) e giammai accidentale (per accidens). Questo significa che se «A è B e B è C, allora A è C» lo si può dire razionalmente se e solo se A implica avere tutte le perfezioni predicategli da B ed infine da C. Da questa presa di coscienza scaturiscono due principi: il «dictum de omni» che afferma che tutto ciò che si dice universalmente di un concetto, va predicato di tutto ciò che sotto quel concetto è contenuto; ed il «dictum de nullo» che asserisce che tutto ciò che si nega universalmente di un concetto, va negato di tutto ciò che sotto quel concetto è contenuto. Da questo breve sunto di quello che è il processo cognitivo secondo il metodo del realismo aristotelico-tomista, emerge che è l'essenza (ciò che è per sé e giammai per accidente) la pietra miliare di tutta la conoscenza. Sia per ciò che concerne la dialettica induttiva, sia per ciò che riguarda la dialettica deduttiva, è sempre l'essenza infatti ad essere il principio di ogni inferenza sillogistica. Aristotele scrive bene quando dice che «principio di tutto è l'essenza: dall'essenza, infatti, partono i sillogismi»13.

Alessandro Belli

un'argomentazione apodittica (previa esclusione di ogni errore di inferenza logica). Oltre a quella citata troviamo: «P è M, S è M, allora S è P», «M è P, M è S, allora S è P», «P è M, M è S, allora S è P». Come si può vedere il conseguente logico (la conclusione) resta invariato. È interessante sapere che solo in 19 casi dei 256 modi previsti per il sillogismo categorico (ovvero l'interscambiabilità dal punto di vista astrattamente combinatorio delle premesse e delle conclusione sulla base di aspetti puramente qualitativi e quantitativi) è possibili giungere a conclusioni valide (articolate senza errori dalle premesse postulate). Per maggiori informazioni su codesto argomento rimando al testo di Philip LARREY – Juan J. SANGUINETTI, Manuale di logica filosofica, Lateran University Press, Città del Vaticano, 2009, nel quale sono annoverati con diligenza gli aspetti che si presentano nei costrutti sillogistici, apodittici e non.13 ARISTOTELE, Metafisica, VII, 9, 1034a, 30-31.

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