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  • Carolly Erickson

    La vita segreta di Giuseppina Bonaparte

    ISBN 9788852017872

    Titolo dell’opera originale

    The Secret Life of Josephine – Napoleon’s Bird of Paradise

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  • Il libro

    Giuseppina è ancora giovanissima quando lascia la sua famiglia e la coloniafrancese della Martinica, dove è nata e cresciuta, per sposare l’arrogantearistocratico Alexandre de Beauharnais. Nonostante la nascita di due figli, laloro unione non è felice e, durante i turbolenti anni della Rivoluzionefrancese e del Terrore, Giuseppina conosce la povertà e l’orrore dellaprigionia, rischiando addirittura la ghigliottina.

    Il suo fascino esotico e la sua inarrestabile ambizione la sorreggono peròanche nei momenti più difficili, sino all’incontro con Napoleone Bonaparte,che cambierà per sempre il suo destino. Mentre lui domina sulla scenapolitica e sui campi di battaglia, creando un impero sterminato eincoronando se stesso e la moglie imperatori di Francia, lei divienel’incontrastata regina dell’alta società grazie al suo irresistibile magnetismofatto di eleganza, charme, forza e vulnerabilità.

    Ma dietro le apparenze si nasconde una realtà ben diversa: il cuore diGiuseppina appartiene a un altro uomo, il misterioso straniero che l’avevaconquistata molti anni prima in Martinica e che lei non può dimenticare.

    Carolly Erickson, famosa autrice di saggi e biografie storiche, ritorna conl’appassionante racconto della vita della prima moglie di Napoleone. Scrittoin prima persona, il romanzo segue la protagonista lungo l’intero arco dellasua esistenza, tracciando il ritratto a tutto tondo di una figura estremamentesfaccettata e della sua epoca.

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  • L’autore

    Carolly Erickson, dopo aver insegnato storia medievale alla ColumbiaUniversity, si è dedicata al lavoro storiografico, scrivendo numerosi saggi euna fortunata serie di biografie. Con Mondadori ha pubblicato: MariaAntonietta (1991), La grande Caterina (1995), Elisabetta I (1999), La piccolaregina (2000), Maria la Sanguinaria (2001), Il grande Enrico (2002),L’imperatrice creola (2003), La zarina Alessandra (2005), Il diario segreto diMaria Antonietta (2006) e L’ultima moglie di Enrico VIII (2009).

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  • dedica

    In ricordo della mia cara madreLouise Kiger Bliss (1912-2006)

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  • Prefazio

    Malmaison, marzo 1814

    I miei occhi si sono indeboliti, è come se vivessi in un perenne tramonto.Non riesco più a ricamare, i punti sono troppo piccoli perché possa vederli;così, nei lunghi pomeriggi, siedo accanto alla finestra guardando il confusointreccio di colori delle mie rose, mentre Christian – quel caro uomo – milegge le vecchie lettere d’amore che custodisco con cura.

    Ho grandi progetti, ma si sono temporaneamente interrotti, il che èsconfortante per me, seduta qui, gli occhi sempre più deboli, il viso rugosobagnato a volte da lacrime involontarie, le guance, un tempo morbide erosate, ora avvizzite e ravvivate dal belletto.

    È vero, non posso più vedermi con chiarezza allo specchio, ma sono semprepiù attenta alla cura dell’aspetto. Ho un’esperta parrucchiera che viene ognigiorno a pettinarmi, e quando mi intreccia nastri argentei fra i capelli neritinti l’effetto è affascinante e giovanile, o così mi dicono i miei adulatoriparigini.

    Da Parigi i visitatori vengono a centinaia, anche se la primavera è gelida e igiardini non sono ancora pienamente fioriti.

    «È sempre bella?» sento che si chiedono mentre passano sotto le miefinestre. «O è appassita ora che non porta più la corona? Ora che l’eximperatore non la ama più? Deve avere una cinquantina d’anni ormai. Avràperduto la bellezza.»

    Mi fanno sorridere, quei parigini invidiosi. Non sono mai stata davvero unadi loro: sempre un’estranea; anche al tempo del mio trionfo, quandol’imperatore Napoleone Bonaparte mi mise lui stesso sul capo la corona. Sifacevano segretamente beffe di me, sebbene mi abbiano sempre temuta per il

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  • potere che esercitavo su di lui. Bonaparte li governava, e io governavoBonaparte.

    Posso ancora essere bella, o così mi dicono. E ora sono più celebre di untempo, perché sono stata la moglie dell’imperatore, sono ricca e ho unpassato scandaloso.

    Si facciano pure beffe di me, i parigini. Io sono quello che molti di loro nonsaranno mai. Sono me stessa. Nessuno ha autorità su di me. Vivo comevoglio, anche se gli occhi sono sempre più opachi, mi duole la gola e sonotornate le mie emicranie, nonostante le sanguisughe che i dottori miapplicano sul collo, sulle braccia e sui piedi per liberarmi dai veleni.

    Non permetto a nessuno di assistere a questi momenti, a eccezione diEuphemia, poiché per lei non ho segreti. I medici mi strofinano la fronte, miapplicano impacchi sugli occhi dolenti, mi lavano e mi inondano di acqua datoletta per coprire i cattivi odori dell’età. Soltanto quando sono usciti e iosono fresca e profumata consento a Christian di entrare, perché mi leggaqualcosa dal mio cofanetto di lettere di tanto tempo addietro.

    Mi appoggio ai cuscini di raso rosa, chiudo gli occhi e ascolto quelle careparole d’amore, sempre nuove anche dopo tanti anni.

    «“Rosa di tutte le rose, mia bella signorina Tascher”» legge Christian «“ilvostro ricordo mi incanta. Attendo con grande impazienza il momento in cuipotrò stringervi nuovamente fra le braccia. Fino al nostro nuovo incontro, vibacio le mani, gli occhi, le labbra, vi bacio tutta.”»

    Il primo biglietto amoroso che abbia mai ricevuto, da Scipion du Roure,l’ufficiale di cui mi innamorai alla Martinica, una notte di maggio in cui laluna era piena. Io avevo quindici anni e lui diciannove. Era promesso a unadonna in Francia, come scoprii in seguito. Ma non aveva importanza. Nullaaveva importanza quella notte, se non l’argentea, morbida luce lunare, ilsuono delle onde che si frangevano sulla sabbia bianca ai piedi della verandain cui noi danzavamo e il profumo inebriante del gelsomino.

    Mentre ascolto Christian, mi sento trasportare nuovamente a quella sera, allamusica dei violini, dei flauti e delle chitarre che suonano una ronde

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  • sentimentale, al canto dei grilli fra i tamarindi e gli ibischi. Scipion, biondo,bello, mi prende la mano guantata e se la porta alle labbra...

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  • 1Quella sera, la sera in cui incontrai Scipion du Roure, riuscivo a pensaresoltanto al ballo, al mio abito di seta giallo pallido e alla ghirlanda diprofumati gelsomini in fiore che Euphemia mi aveva intrecciato fra i capelli.Cantavo tra me mentre mi vestivo, esercitandomi a camminare nella gonnalarga sorretta dalla gabbia di metallo sottile e guardandomi riflessa nelgrande specchio al centro della mia camera.

    Alla luce delle candele avevo gli occhi lucenti, la carnagione calda eluminosa. Ricordo di aver pensato che ero bella e che ogni uomo al balloavrebbe voluto danzare con me.

    Vivevo con i miei genitori alla Martinica, in una piantagione chiamata LesTrois-Îlets, “I tre isolotti”. L’anno era il 1778. Mio padre, Joseph Tascher,pover’uomo angosciato e tormentato, beveva troppo e si indebitava sempredi più, e mia madre e mia nonna lo ossessionavano continuamente. Iocercavo di non fare caso alle loro discussioni – che avvenivano di frequente– e di pensare soltanto al ballo. Ma le voci adirate non si potevano ignorare.

    «Dovete chiedere un altro prestito a vostro fratello» insisteva mia madre.«Non indugiate. Andate stasera stessa a Fort-Royal.»

    «Con piacere, mia cara» ribatté mio padre. «Ma so che cosa mi risponderà.Niente più prestiti. Niente fino a quando non accetto di farlo diventarecomproprietario dei Trois-Îlets e di nominare suo figlio mio unico erede.»

    «Il vostro solo erede, questa poi» sbuffò mia nonna. «Se foste un verouomo, avreste figli maschi e non figlie femmine.»

    Mia nonna, Catherine des Sannois, nata Catherine Brown in una fattoria aDundreary, aveva l’agguerrito temperamento dei suoi antenati irlandesi e nonperdeva mai l’occasione di criticare mio padre, di origine aristocratica.

    «E se mia moglie facesse il suo dovere, mi darebbe figli maschi. La colpa èsua.»

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  • «Come osate parlare in questo modo, sapendo che ho rischiato di morire neldare alla luce la nostra ultima figlia?» Mia madre si alzò dalla sedia e siavvicinò a lui con aria accusatrice. «E come osate mostrare così pocorispetto per la povera Catherine, che giace nella tomba da appena due mesi?»Mia sorella Catherine, sempre debole e malaticcia, era infine morta per unafebbre ed era sepolta nella chiesetta della nostra piantagione.

    «Quanto vorrei che anche voi finiste in una tomba» sentii mio padreborbottare mentre si voltava dall’altra parte. «Così potremmo viveretranquilli.»

    «Tranquilli? Tranquilli? Parlate di tranquillità quando tutto quello che fate èper noi causa di inquietudine.» Mia nonna continuava nella sua invettiva.«Trascurate le vostre figlie. Nessuna delle due è fidanzata. Trascurate vostramoglie. Quante amanti avete a Fort-Royal? Tre? Sei? E quanti sono i mulattibastardi che vi somigliano? E, peggio ancora, trascurate la piantagione, chemio marito e io vi abbiamo dato, pigro buono a nulla che non siete altro,perché la vostra famiglia non morisse di fame. E ora guardate! Dove sono icampi di canna da zucchero? Tutti inselvatichiti. Dove sono gli schiavi?Quasi tutti fuggiti. Che cosa avete fatto in diciassette anni che ne sieteproprietario? Una bella piantagione finita in rovina! Ecco cosa ne avete fatto!E una famiglia che rischia di morire di fame.»

    Mio padre prese la fiaschetta d’argento e bevve, il viso stanco segnato dallerughe, i sottili capelli grigi che sfuggivano disordinatamente dalla parrucca aborsa annodata male. In quel momento, durante una pausa della lite, io mifeci avanti per mostrare il mio vestito.

    Camminai lentamente davanti a mio padre, a mia madre e alla nonnaSannois. Vidi che gli occhi di mio padre si erano illuminati nel guardarmi ecapii che il suo era uno sguardo di ammirazione.

    Mia nonna annuì. «È tempo che si sposi» disse seccamente. «Più chetempo.»

    Mia madre mi esaminò attentamente, dalla ghirlanda tra i capelli fino ai nastrilucenti delle scarpette di raso giallo. «Attenzione agli uomini» si limitò a dire.

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  • Le strade strette e tortuose di Fort-Royal illuminate dalle torce splendevanodi una luce gialla sotto la luna, mentre la nostra carrozza – in verità uncarretto con un telo per ripararci dalla pioggia – si inerpicava lungo il fiancodella collina verso la casa imponente di mio zio, alta sopra la baia di Fort-Royal. Mio zio Robert Tascher era il comandante del porto e lui e la suafamiglia vivevano negli agi. Circa cinquecento invitati, della migliore società– i Grands Blancs, come venivamo chiamati, i Grandi Bianchi o europei –,avrebbero preso parte al ballo quella sera, e io avevo avuto la fortuna diessere stata invitata.

    Mi accompagnava mia zia Rosette, la sorella zitella, tremebonda e discreta, dimio padre e dello zio Robert. Era uno chaperon davvero ideale,silenziosissima e di aspetto sgradevole nel vecchio abito verde con lesbiadite rosette cremisi che indossava sempre ai balli e ai ricevimenti. Nonmi impediva mai di divertirmi. Sapevo che mi ammirava e mi invidiava,perché non era mai stata bella e, appena entrava in una sala, sembrava quasiconfondersi con la carta da parati.

    L’aria era umida e il mio abito di seta giallo bagnato di sudore quandoarrivammo all’imponente cancello della dimora dello zio Robert. I riccioliche la mia cameriera Euphemia aveva disposto con tanta cura sulla mia bellafronte mi si incollavano alla pelle.

    Appena entrata, bevvi avidamente dal bicchiere di punch al rum che miporse un alto servitore africano e ne chiesi un altro. Sedetti accanto a unafinestra aperta e mi lasciai sommergere dalla musica dell’orchestra, dalmormorio delle voci, dal fruscio degli abiti e dal gradito soffio di vento dallabaia.

    Non rimasi seduta a lungo. Venne un giovane a chiedermi di danzare, e poiun altro e un altro ancora. Ricordo che non persi un ballo e, con iltrascorrere del tempo, cominciai a sentire la testa che mi girava mentrevolteggiavo nei passi della quadriglia e del minuetto. Mi rallegrai appena lamusica si interruppe e alcuni ospiti cominciarono a congedarsi.

    Poi, all’improvviso, un giovane in una bella uniforme s’inchinò e mi porsela mano. Alzai lo sguardo e vidi i suoi begli occhi grigi che mi fissavano e lelabbra carnose piegate in un sorriso malizioso.

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  • «Tenente Scipion du Roure, signorina. Volete farmi l’onore di concedermiquesto ballo?»

    Fluttuando, volando, mi sciolsi tra le sue braccia, e la danza finì troppopresto.

    «Venite a passeggiare con me» mi sussurrò mentre mi baciava la manoguantata nel prendere congedo. «Presso l’albero di mango, tra mezz’ora.»C’era un enorme mango accanto alla veranda della dimora dello zio Robert.Non dubitai che si riferisse a quello. Mi sentii fremere nell’attesa, poichénemmeno per un attimo pensai di rifiutare.

    “Attenzione agli uomini” mi aveva ammonito mia madre, ma in quell’istantedimenticai le sue parole di avvertimento. Mi chiedevo soltanto come mi sareipotuta allontanare inosservata. La zia Rosette, il mio discreto chaperon, miaveva guardato danzare tutta la sera mentre mangiava pasticcini alla vaniglia.Quando mi avvicinai a lei, mi accorsi che aveva esagerato e aveva l’aria dinon stare bene. Vedendomi, si affrettò a deporre il piatto e si pulì la boccacon il dorso di una mano non guantata.

    «Avete l’aria stanca, zia Rosette. Senza dubbio zio Robert vi troverà un postodove potrete sdraiarvi.»

    Lei mi lanciò uno sguardo penetrante. «Sai bene che non posso andarmenefinché sei qui. Non puoi essere lasciata sola senza una parente che tisorvegli.»

    «Ma non sarò sola. C’è la zia Louise.» Come padrona di casa, la zia eranaturalmente presente nella sala, anche se tra me e lei si muovevanocentinaia di invitati.

    Sul viso della zia Rosette si dipinse un’espressione sofferente, e lei si portòuna mano allo stomaco.

    «Dovete bere dell’olio di gaultheria, zia Rosette, subito, senza un momentodi indugio.» Le presi la mano libera e lei si lasciò condurre lungo uncorridoio dove si trovava un gruppo di servitori, invisibili ai ballerini in sala,che osservavano la festa attraverso una porta socchiusa. Tra loro riconobbi

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  • Denise, la governante.

    Vincendo le proteste sempre più deboli della zia, Denise e io laconvincemmo a riposare in una stanza buia e a bere un infuso di olio digaultheria. Abbandonandola alle cure di Denise, tornai in fretta alla sala daballo e uscii dalla veranda in giardino. La pesante sagoma dell’albero dimango, carico di frutti, i larghi rami lucenti all’argentea luce lunare, siinnalzava dalle palme e i tamarindi che lo circondavano. Ai piedi dell’alberoattendeva Scipion du Roure nell’elegante uniforme blu da ufficiale dimarina, appoggiato con aria disinvolta al tronco, le braccia conserte. Sorrisenel vedermi e mi porse la mano quando mi avvicinai.

    «Eccovi, mio bell’Uccello del Paradiso.»

    Mi tolsi i guanti e presi la mano che mi tendeva. Aveva un sorriso languido,seducente, sebbene a quindici anni non conoscessi quelle parole. Sapevosoltanto che mi emozionava vederlo e che il nostro incontro era tanto piùeccitante perché proibito. Noi due nel giardino buio, con la sola compagniadegli uccelli addormentati e delle rane gracchianti: era una situazionecontraria alle regole di condotta dei Grands Blancs. A me piaceva violare leregole. E mi piaceva il nome che mi aveva dato: Uccello del Paradiso.

    Camminammo mano nella mano lungo un sentiero di pietra che conducevaalla spiaggia della baia. Da bambina lo avevo percorso più volte, con le miecugine, diretta alla spiaggia per nuotare. Ma sempre durante il giorno, mai dinotte. Non avevo mai visto prima il sentiero d’argento tracciato dal raggiodella luna sull’acqua, né mai avevo avvertito la carezza della fresca arianotturna sul viso ardente. E non avevo mai sentito così forte il profumo deigelsomini che fioriscono di notte, ai due lati del sentiero, un profumo chespegneva quello della mia ghirlanda.

    Rispondendo alle mie appassionate domande, Scipion mi disse che avevadiciannove anni e che era imbarcato come tenente a bordo della fregataIntrépide. Arruolato da tre anni, era stato ferito due volte. Io sgranavo gliocchi mentre lui descriveva una scaramuccia tra la sua nave e il vascelloinglese Orkney a poche miglia dal punto in cui ci trovavamo, e come il suovascello si fosse affiancato all’Orkney e lui e i suoi uomini lo avesseroabbordato con la spada in pugno. Sollevò i capelli per mostrarmi l’orecchio

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  • destro, segnato da una lunga cicatrice rossa.

    «Il fuoco dei moschetti inglesi» disse. «È stata una fortuna che mi abbiasoltanto graffiato l’orecchio. Avrebbe potuto decapitarmi.»

    «Ma non siamo in guerra con gli inglesi. L’ho sentito dire da mio padreall’intendente.»

    Scipion aveva uno sguardo cupo. «Ma lo saremo, tra non molto. Per questoci spiano dai loro fortini a Santa Lucia. Sanno che è soltanto una questionedi tempo prima che scoppi la guerra.»

    Sembrava che avessimo sempre combattuto contro gli inglesi, desiderosi diconquistare le nostre isole, le Isole del Vento. Più di ogni altra, volevano laMartinica.

    «Mio padre teme che ci invadano e si impadroniscano della nostrapiantagione.»

    «Allora dobbiamo sperare che, se davvero verranno, io e i miei compagniufficiali sapremo difendervi.» Sorrise. «In ogni caso, non credo cheverranno questa notte.»

    Mi tolsi le scarpe e le calze e camminammo lungo la riva, nella morbidasabbia bianca, evitando i granchi e tenendoci lontani dalle onde che siscagliavano contro la spiaggia, bianche e spumeggianti. Scipion mi tenevacon leggerezza la mano e io strinsi a mia volta la sua. Chinò il capo e misfiorò la guancia con le labbra.

    «Quanti anni avete, Rose?»

    «Quindici.»

    Si ritrasse, stupito. «Ne dimostrate almeno diciotto. Però, se ne avestediciotto, probabilmente sareste sposata. Qui le ragazze, a quanto ho capito, sisposano presto.»

    «Io non ho dote.»

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  • «Ah. Buona famiglia e niente danaro. Una situazione non insolita. Ma avetela bellezza.»

    Mi sentii riscaldare dalle sue parole e improvvisamente desiderai che miopadre non fosse povero. Scipion, mi chiesi, avrebbe voluto sposarmi seavessi avuto una dote di ventimila lire come mia cugina Julie, la figlia dellozio Robert?

    Per qualche tempo camminammo in silenzio. Infine giungemmo a unoscoglio roccioso che segnava la fine della spiaggia.

    «Dietro queste rocce c’è una caverna» dissi a Scipion. «Dove i vecchi capicaraibici tenevano le loro cerimonie. Offrivano sacrifici di animali ai lorodèi, pregavano per ottenere la pioggia e guarivano dalle malattie.»

    «I sacerdoti dicono che queste sono tutte sciocchezze pagane. Soltanto il Diodei cristiani ha questi poteri.»

    «Uno dei capi ha guarito il nostro sacerdote ai Trois-Îlets, quando stavamorendo di febbre.»

    «Sono state le vostre preghiere, Uccello del Paradiso, a guarirlo.»

    Non volli discutere. Sapevo che molti stranieri non credevano ai poteri deglidèi caraibici o di quelli africani venerati dagli schiavi. D’altro canto, tanti,soprattutto in Francia, non credevano più nel Dio dei cristiani. Così avevosentito dire dagli amici di mio padre.

    L’ultima parte della passeggiata fu la migliore. Non dimenticherò mai quelloche provai mentre Scipion mi riconduceva lungo la spiaggia e attraverso ilgiardino nella dimora dello zio Robert. Rimanemmo in silenzio, ma i nostrisentimenti parlavano per noi. Come mi batteva il cuore quando mi baciòsotto il mango! E con quanta tristezza ci lasciammo e lui promise di venirmia trovare appena gli fosse stato possibile.

    Piansi, gioii, danzai, mi disperai. Cambiavo umore da un momento all’altro.Come avrebbe potuto essere altrimenti, quando ero stordita per l’ora tarda,la stanchezza, l’effetto del punch al rum e, soprattutto, il tocco della sua

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  • mano e delle sue labbra nel giardino buio, sotto il grande albero di mango?

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  • 2Il pomeriggio successivo mi avviai, da sola, su per l’alta montagna vulcanicachiamata Morne Ganthéaume in cerca di Orgulon, il più temuto tra iquimboiseurs, gli stregoni dell’isola. Era un pomeriggio caldo, ma, appenaentrai nella buia, verde foresta pluviale che ammantava il fianco dellacollina, provai un senso di fresco sotto il suo ombroso baldacchino. Lefoglie bagnate e scivolose sotto i piedi rendevano difficile il cammino e,quanto più mi addentravo nelle verdi oscurità della foresta, tanto più dovevofarmi strada tra liane e rampicanti che mi si impigliavano tra i capelli e miafferravano i vestiti.

    Nessuno, con l’eccezione della mia cameriera Euphemia, sapeva dove fossi.Se i miei genitori lo avessero scoperto, mi avrebbero fatto raggiungere daqualcuno degli schiavi e mi avrebbero punito chiudendomi a chiave nellamia camera o proibendomi per un mese intero di cavalcare la mia giumenta.Euphemia aveva cercato di dissuadermi dall’idea di cercare Orgulon,chiamandomi “scioccherella” e “pazza d’amore”.

    “Vorrei proprio sapere” mi aveva chiesto mentre mi preparavo per andare“fino a che punto può essere stupida una ragazza. Non lo sapete che Orgulonsaprebbe uccidervi con uno sguardo? Non vi ho parlato di quei malvagiquimboiseurs fin da quando eravate una bambina spaventata dal buio che miteneva stretta mentre io vi cantavo la ninnananna?”

    Euphemia era stata sempre al mio fianco, si era presa cura di me, mi avevamesso in guardia contro le presenze che vengono di notte per fare del male.Sembrava molto vecchia e saggia e io l’avevo sempre ascoltata. Non eracome gli altri schiavi della nostra piantagione, perché aveva una pelle moltochiara, color caffellatte, e parlava il francese creolo dei Grands Blancs senzaaccento africano. Si sapeva che era la mia sorellastra, figlia di una delleamanti africane di mio padre. Ora era palesemente in ansia per me e, quandosi sentiva così, mi rimproverava.

    “Ho sentito parlare di Orgulon nella piazza del mercato. Ha inaridito il cuoredi un uomo soltanto perché non gli piaceva come quello fischiava.”

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  • “È un’altra delle fandonie che raccontano al mercato. Quello che si senteraccontare là non è quasi mai vero, Euphemia, e tu lo sai.”

    “Oh, a questo ci credo. È accaduto davvero.”

    “Anch’io ho sentito raccontare storie terribili. Ma ora ho bisogno dell’aiutodi Orgulon. Gli chiederò un amuleto per farmi amare da Scipion du Roure.Voglio conoscere il mio futuro. Lo sposerò?”

    “Quell’uomo che avete incontrato l’altra sera, al ballo. Quello Scipion. È perlui che volete rischiare la vita?”

    “Sì.”

    “Anche se probabilmente non lo vedrete più.”

    “Il cuore mi dice che lo rivedrò e che mi amerà. Ma voglio esserne certa.Devo avere un amuleto. E Orgulon ha i migliori. I più potenti. Lo diconotutti.”

    Euphemia aveva alzato le mani al cielo, mormorato qualche parola nellalingua materna, l’ibo, e si era allontanata. Non aveva detto più nulla fino aquando non mi aveva visto uscire.

    “Non biasimate me se vi uccideranno lassù, sul Morne Ganthéaume. Io hocercato di fermarvi.”

    “Se mi uccidono, non posso certo biasimare qualcuno, non credi?”

    Ora, mentre camminavo sotto il baldacchino verde scivolando sulle fogliemarce, cominciai a sentirmi a disagio. Avevo sentito dire che Orgulon vivevain una caverna sulla montagna, in un luogo chiamato il “Crocicchio Sacro”,dove si svolgevano le cerimonie religiose, ma non c’ero mai stata econoscevo il nome soltanto per averlo sentito dagli schiavi mentrelavoravano. Speravo che tutti i sentieri che salivano la montagna portasseroal Crocicchio Sacro. Tuttavia, più il sentiero si inerpicava e il cammino sifaceva difficile, più mi chiedevo se la mia ipotesi fosse esatta.

    Il sentiero aveva curve continue, saliva uscendo dalla giungla e girando

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  • attorno a massi aguzzi, oltrepassando grotte poco profonde in cui l’acquaformava delle pozze. Gli uccelli cantavano nel fitto sottobosco e sui pendiipiù alti vedevo capre di montagna dalle lunghe corna. A tratti, una franaoscurava il sentiero e rendeva così difficile la salita che io stavo quasi pertornare. Ma in quel momento notai qualcosa di strano: una formazionerocciosa con i corpi di molti uccellini sventrati e disposti in circolo.

    Doveva essere un segnale, pensai. Il segnale che mi trovavo sul sentiero peril Crocicchio Sacro.

    Le mie scarpine erano diventate dei blocchi di fango e a ogni passo le ditadei piedi affondavano nella melma. Anche l’abito era infangato, e i capelli,pieni di rametti, si erano sciolti e mi cadevano sulle spalle e sul viso.Desideravo una bevanda fresca e un bagno, ma non volevo cedere e salivosempre più in alto, incoraggiata dalla scoperta di altre formazioni rocciosecon i corpi di tucani e pappagalli ara uccisi.

    Le nuvole nascondevano la vetta del Morne Ganthéaume, e ben prestocominciò a piovere, una pioggia dura che batteva forte sulle foglie marcite,quando sentii per la prima volta il rullio dei tamburi. Era un suono basso,lontano, dapprima poco più che un sussurro, ma, quanto più salivo, tantopiù si faceva forte e chiaro. Avevo spesso sentito di notte, ai Trois-Îlets, glischiavi che battevano sui tamburi e conoscevo bene quel suono. Proseguii,seguendolo, confidando di non essere distante da Orgulon.

    Il suono dei tamburi si fece più forte e udii un battere di mani e un canto.L’aria era carica di elettricità, avvertivo la presenza di altre persone, pur nonpotendole vedere.

    A un tratto, ai due lati del sentiero scomparve ogni traccia di vegetazione emi trovai ai margini di una grande radura. Ci saranno stati almeno uncentinaio di schiavi, gli uomini in perizoma, le donne in camiciole leggere,alcune con un bambino in braccio, e tutti danzavano al ritmo dei tamburi. Alcentro della radura c’era un grosso tronco d’albero tagliato, sul quale, inpiedi, stava un vecchio alto, esile, con un mantello rosso e piume rosse negliscarmigliati capelli grigi. A dispetto della sua vecchiaia, era un’immagine dipotenza, con la collana di denti di pescecane e pezzi di quella che sembravacarne seccata, la pelle di un nero lucente e le lunghe braccia magre distese, la

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  • testa china all’indietro in un gesto di estatica attesa.

    Rimasi così colpita dalla vista della radura, della gente che danzava esoprattutto dell’uomo con il mantello rosso che non pensai a come dovessiapparire io stessa. Una ragazza spettinata, in un abito di lino infangato e conle scarpe sporche, una dei Grands Blancs che si intrometteva nelle cerimonieal Crocicchio Sacro – poiché ero certa di trovarmi là – non poteva nonsuscitare una reazione.

    Ma, con mio grande stupore, i danzatori parvero non vedermi. Erano cosìassorti nel canto e nel ballo, talmente affascinati dal ritmo dei tamburi che ionon costituivo nemmeno una distrazione momentanea. Corsi verso il rifugiodel sentiero e mi nascosi nel folto sottobosco umido.

    Non ricordo quanto a lungo vi rimasi. Probabilmente anch’io ero affascinatadai suoni e dai ritmi che mi circondavano e persi il senso del tempo. Il soleera già sceso dietro la vetta del Morne Ganthéaume e il cielo cominciava adaccendersi delle ardenti strisce rosse e rosa del tramonto quando il suono deitamburi cessò e Orgulon (non dubitavo che si trattasse di Orgulon inpersona) cominciò a parlare. A voce alta, salmodiava in un linguaggioafricano, mentre veniva acceso un fuoco in cui si gettavano erbe aromaticheche riempivano l’aria di profumi pungenti.

    Venne portata una grossa scrofa, che grugniva e si dimenava, Orgulon preseun coltello e le tagliò la gola. Immediatamente i celebranti corsero avanti perraccogliere il sangue della bestia morente in gusci vuoti di noce di cocco, lobevvero e si bagnarono con quello rimasto che tinse di rosso tutta la radura,o così sembrò a me dal punto in cui mi trovavo.

    Da quando ero uscita di casa, ore prima, non avevo mangiato né bevutonulla e cominciavo a sentirmi male. L’odore metallico del sangue della scrofami diede una forte nausea. Ero ansiosa di correre giù per la montagna etornare a casa, ma ero troppo stanca. Mi sdraiai sul terreno impregnato disangue e chiusi gli occhi sperando che il malore passasse.

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  • 3Dovevo essermi addormentata perché, quando compresi dove mi trovavo,era buio, avevo freddo e il cielo era pieno di stelle, le stelle scintillanti dellaMartinica, che non sembrano bianchi diamanti nel cielo, ma appaiono dimolti colori, lampeggiando rosse, giallo vivo, blu lucente. Mi sollevai su ungomito e vidi che la radura era vuota, il fuoco diventato brace. Provavo ilbisogno di avvicinarmi per trarne tutto il calore che potevo. Cominciai adalzarmi, sentendomi rigida e indolenzita, quando una voce mi fermò.

    «Non muoverti!»

    La riconobbi. Era quella di Orgulon. Parlava in francese, ma non riuscivo avederlo.

    «Rimani dove sei, ragazza!»

    Rabbrividendo per il freddo e la paura, obbedii per quanto mi era possibile.

    Sentii un colpo sordo, poi un altro e un altro ancora. Serrai gli occhi e strinsii denti.

    «Ecco. Adesso non c’è pericolo. È morto.»

    Aprii gli occhi. Orgulon, nel mantello rosso, mi stava di fronte e teneva perla coda una cosa lunga e penzolante.

    «Il fer-de-lance. Voleva prenderti. L’ho sentito venire. Sapevo che nondovevi morire. Così l’ho ucciso.» Si voltò, rientrò nella radura e, passandodavanti al fuoco morente, vi gettò dentro la carcassa del rettile.

    Il cuore mi batteva forte e mi sentivo mancare il fiato. Orgulon aveva uccisoil serpente che stava per uccidere me, perché il morso del temuto fer-de-lance è sempre mortale. Orgulon mi aveva salvato la vita. Il grandequimboiseur che avrebbe potuto uccidermi con uno sguardo si era servitodel suo potere per salvarmi.

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  • Mi alzai in piedi e lo seguii sul lato opposto della radura, dove era statafissata una tenda aperta sul davanti ed era stato disteso un lenzuolo sulterreno bagnato. Una zucca piena d’acqua, un piatto di banane fritte e unfiaschetto di rum erano preparati sul lenzuolo. Orgulon si stirò e cominciò amangiare e a bere.

    Mi accostai piano alla tenda. Con un gesto ruvido, impaziente, mi fece cennodi avvicinarmi di più. Notai che aveva le mani ad artiglio, con unghielunghe, giallastre e spezzate. Mi chiesi quanti anni potesse avere. Si dicevache i quimboiseurs vivessero per secoli e non temessero la morte.

    «Venerabile signor Orgulon» mi sentii dire con voce tremante «vi ringraziodi avermi salvato la vita.» Compresi che mi stavo ancora riprendendo dalterrore appena provato.

    Lui alzò lo sguardo dal piatto e io vidi che era di una bruttezza grottesca,cieco da un occhio e con pochi denti. Emanava un odore rancido, così forteche avrei voluto allontanarmi.

    «Credi di essere venuta qui per vedermi. No. Ti dirò io quello che devisapere. La tua vita è oltre le grandi acque. Ti ho salvato perché tu possavivere questa vita. Un demonio aveva mandato il serpente. Attenta a queldemonio! Io ho ucciso il serpente, ma non chi lo ha inviato.»

    D’impulso gli chiesi: «Sposerò Scipion du Roure?».

    Il vecchio ebbe un gesto di indifferenza. «Lui non conta. Sei tu quella checonta. Sei stata salvata per uno scopo.» Tornò a mangiare e a bere e, benchégli rivolgessi molte altre domande, mi ignorò. Io aspettavo, stringendominelle braccia per scaldarmi, senza sapere che cosa fare. Infine mangiòl’ultima banana e bevve dal fiaschetto, asciugandosi la bocca con il dorsodella mano ad artiglio.

    Come se avessero ricevuto un segnale, due uomini con le torce accese siavvicinarono alla tenda, tolsero il piatto e portarono a Orgulon una lungapipa che lui cominciò a fumare. Disse poche parole agli uomini in una linguache non comprendevo. I due si inoltrarono nella foresta e ne uscirono conuna sorta di amaca appesa a due pali. Mi fecero cenno di sdraiarmi

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  • nell’amaca, e io, esausta, accettai con gioia. Non provavo paura, ma soltantostanchezza, mentre i due uomini, appoggiandosi i pali sulle spalle, in modoche io mi trovassi appesa tra loro, si avviarono lungo il sentiero che portavaai piedi della montagna, sotto le stelle lucenti.

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  • 4Mi aspettavo di trovare grande agitazione ai Trois-Îlets al mio ritorno dalMorne Ganthéaume. Pensavo che mio padre sarebbe uscito a cercarmi consquadre di schiavi e uomini della milizia locale, di cui aveva il comando. Miamadre e mia nonna le immaginavo folli di angoscia. Euphemia avrebbepianto istericamente e anche mia sorella Manette, appena undicenne, sarebbestata sveglia, chiedendosi dove fossi andata e perché vi fossi rimasta tanto alungo.

    Invece tutto era tranquillo quando venni deposta sulla veranda dai dueuomini che mi avevano portato giù per la montagna. Gli edifici dellapiantagione erano bui. Entrai nello zuccherificio trasformato in abitazione,dove vivevamo, e raggiunsi la mia camera da letto. Euphemia, avvolta in unalarghissima camicia da notte rosa, sedeva tranquillamente leggendo alla lucedella candela.

    «Così siete tornata» disse. «Finalmente. Adesso posso andare a dormire.»

    Invece di sentirmi sollevata e felice per essermela cavata indenne dopoquella pericolosa scappata, ero piuttosto indispettita. A quel che sembrava,nessuno si era accorto della mia assenza. Ero davvero così priva diimportanza?

    Euphemia rideva tra sé.

    «Ho detto che non potevate venire a cena perché avevate mangiato deigranchi andati a male e davate di stomaco dappertutto. Credetemi, sonorimasti alla larga!»

    «E mio padre, poi, non è venuto a vedere come stavo?»

    Euphemia tirò su col naso. «Vostro padre è a Fort-Royal. Con la sua amantemulatta. Vostra madre era sconvolta. Ha detto di avere il mal di capo e si ècoricata presto.»

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  • Io sbadigliai e mi distesi sul letto senza scoprirlo, improvvisamente esausta.

    «Immagino che non abbiate trovato Orgulon.»

    «Oh, sì, l’ho trovato» risposi con voce assonnata «e lui mi ha parlato.»

    Improvvisamente attenta, Euphemia si alzò e venne vicino al mio letto.

    «Sì? E che cosa vi ha detto? Vi ha spaventato?»

    «Un serpente mi ha spaventato. Un fer-de-lance.»

    Euphemia sussultò, si fece il segno della croce e mormorò una preghieranella lingua di sua madre.

    «Non avere paura. Orgulon lo ha ucciso. Mi ha salvato la vita.»

    Euphemia non mi lasciò dormire. Voleva sapere tutto del mio viaggio alMorne Ganthéaume, del mio incontro con il quimboiseur al CrocicchioSacro. Sgranò gli occhi quando le riferii quello che Orgulon aveva detto diScipion du Roure e di me, che ero una persona importante, salvata dallamorte per uno scopo preciso; e quando parlai del demonio e dell’esistenzache avrei condotto oltre le grandi acque.

    Mentre la raccontavo, la storia mi sembrava troppo assurda per esserecredibile, ma Euphemia mi prestò fede. Era soltanto la mia immaginazione, oda quel momento in poi si sentì davvero un po’ intimorita nei miei confronti,per quello che Orgulon aveva detto? Mi tolse le scarpe infangate e le calze eportò una coperta per tenermi calda, sedendo accanto al mio letto nella suasedia a dondolo e vegliando su di me, e io mi addormentai.

    Dormii fino a mezzogiorno passato e, quando mi svegliai, rimasi immersaore e ore, a quanto mi sembrò, nel grande catino per il bagno, mentreEuphemia continuava a versarmi addosso acqua bollente, per lavare via ilfango e il sudiciume dalle braccia e dalle gambe graffiate. Infine mi sentiipulita e indossai per la cena un abito fresco di lino color lilla.

    «Ah, Yeyette» mi salutò mio padre quando andai a tavola. «Stavamo proprioparlando di te. Stai meglio?»

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  • «Sì, padre.»

    «Bene.» Avvertii una certa tensione nella stanza e vidi che mia madre e mianonna tenevano gli occhi chini a terra, fissavano fuori dalla finestra o siscambiavano occhiate, ma non guardavano mai verso di me.

    Mio padre si schiarì la voce e bevve un sorso di rum. «Yeyette, abbiamoricevuto un’altra lettera da Parigi, da Edmée.»

    La zia Edmée, la bella sorella bionda di mio padre, ci scriveva spesso,insistendo sempre affinché le mie sorelle e io venissimo mandate in Franciaper vivere con lei, frequentare una buona scuola gestita da suore e acquistarel’accento parigino al posto della nostra parlata creola. Dovevamotrasformarci in autentiche francesi, diceva la zia in tutte le sue lettere, perpoter fare un buon matrimonio ed entrare in società. La zia Edmée parlavasempre di noi come delle “tre sorelle”, sebbene ormai fossimo soltanto due.Mio padre rispondeva a quasi tutte le sue lettere dicendo sempre la stessacosa: che non poteva permettersi di mandarci in Francia. Io mi rammaricavomolto della nostra mancanza di danaro. Niente mi avrebbe entusiasmato piùdel viaggio a Parigi.

    «Adesso ti leggerò la lettera» proseguì mio padre mettendosi gli occhiali espiegando i fogli.

    Caro Joseph,

    vi scrivo in fretta per darvi ottime notizie che sono certa sarannovantaggiose per tutta la nostra famiglia. Il nostro caro Alexandre, che haormai diciassette anni ed è sottotenente nel reggimento della Sarre,desidera prendere in moglie una delle vostre figlie. Una volta sposato,riceverà la propria eredità, una rendita annuale di quarantamila lire.Vogliate prendere la prossima nave con una delle vostre figlie. Leordinerò il corredo appena arriverà a Parigi. Non bisogna perderetempo.

    Con affetto,

    Edmée Renaudin

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  • «Posso andare, per piacere, padre? Alexandre non mi è mai piaciuto molto,ma sono certa che Parigi mi piacerà.» Incrociai le braccia e trattenni il fiatoosservando il viso di mio padre.

    «Non sono certa» osservò mia madre «che dovremmo mandare una di voiragazze a Parigi. Non mi fido di Edmée, è un’intrigante.»

    «L’intrigo» ribatté gelidamente mio padre «è chiarissimo, mia cara. Il ragazzovuole il suo danaro. E per averlo gli serve una moglie. Se noi glielaforniamo, passerà sopra alla mancanza di una dote e ci ricompenseràsalvandoci dalla bancarotta.»

    «E quale vantaggio trarrà Edmée dall’intrigo?»

    «Anche questo non è difficile immaginarlo» rispose mia nonna – ilineamenti grossolani e i capelli grigi – che aveva scarsissima stima dellabella Edmée. «Il suo vecchio amante Beauharnais sta morendo. Quanti anniha? Sessanta? Sessantacinque? Ha la gotta, è debole, a quanto sento dallemie conoscenze nella capitale. Edmée non riceverà un soldo da lui quandomorirà... dopo tutto, è soltanto la sua amante... e così vuole far sposare ilfiglio di lui, Alexandre, a sua nipote. In questo modo sa che avrà la suaparte.»

    «Con quanta chiarezza descrivete le cose, signora. E quanta discrezione. Madimenticate quel che è ovvio. Anche noi faremo parte dell’intrigo. E netrarremo maggior vantaggio di Edmée. Yeyette andrà a Parigi, sposerà unufficiale benestante, vivrà negli agi e ogni mese ci manderà una somma didanaro. Non è vero, Yeyette?» Io annuii vigorosamente, non osando parlare.«Potremo vendere i Trois-Îlets e trasferirci a Fort-Royal...»

    «Mai!» Mia madre lo interruppe con una tale veemenza che la sua voce mirimbombò nelle orecchie.

    Mio padre sospirò, mia nonna sbuffò.

    «Se mi lasciate andare a Parigi, vi manderò ogni centesimo che Alexandre mipermetterà di avere. Tanto da comprare una nuova piantagione, se vorrete.»

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  • «Grazie, Yeyette, ma non credo che tuo marito sarà così ricco.»

    Pensai ad Alexandre, biondo e di pelle chiara come Scipion, ma più elegantenei modi, schizzinoso e snob. Non lo vedevo da otto anni, da quando avevalasciato la Martinica a nove; io allora ne avevo sei. Lo ricordavo benissimo.Aveva vissuto quasi sempre con noi, tormentando me e mia sorellaCatherine e subendo a sua volta le angherie di ragazzi più forti e robusti chelo definivano una donnicciola. Mentre agli adulti Alexandre piaceva, perchécon loro era cortese e perché era molto intelligente, noi bambine lodetestavamo perché era dispettoso e arrogante.

    Ma che importanza aveva? Sarei andata a Parigi se soltanto mia madreavesse acconsentito. Ma lei naturalmente lo avrebbe fatto, non potevaesimersi. Orgulon non mi aveva detto che avrei attraversato le grandi acquee avrei vissuto sull’altra sponda la mia esistenza importante? Ora ne avevol’occasione.

    Dopo tre giorni di discussione, nel corso dei quali io ed Euphemiapreparammo silenziosamente i bagagli, perché eravamo entrambe certe chesarei andata in Francia, mia madre cedette e mio padre ottenne quello chevoleva. Si informò a Fort-Royal e trovò una nave diretta al porto di Brest. Iopiansi pensando a Scipion e mi preparai, emozionatissima, a imbarcarmi.

    Ma il giorno in cui dovevamo partire sentimmo improvvisamente il rombodei cannoni nella baia di Fort-Royal. Apprendemmo che la flotta ingleseaveva conquistato la vicina isola di Santa Lucia e intendeva invadere laMartinica. Mio padre, di solito molto indolente, montò in fretta a cavallo perradunare la milizia. La nostra famiglia si barricò in casa. La flotta franceseaffrontò quella inglese mentre io pregavo per Scipion.

    Non potevo andare in Francia e sposarmi. Ero intrappolata sulla nostra isolae nessuno, nemmeno Orgulon, poteva liberarmi.

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  • 5La guerra durò mesi, e proprio in quei mesi ebbi una serie di singolariesperienze delle quali non ho mai parlato con nessuno. Esperienze che mirivelarono a me stessa.

    Un ragazzo veniva alla piantagione al crepuscolo e mi aspettava. A volte lovedevo nascondersi nell’ombra o nei cespugli vicino allo zuccherificio. Unavolta mi parve di scorgerlo in una lunga serie di galeotti incatenati, chepercorrevano un sentiero di fianco a uno dei prati incolti. Spesso venivasulla spiaggia ai Trois-Îlets, la più bella delle spiagge di sabbia bianca doveEuphemia portava Manette e me a nuotare nell’acqua celeste e a guardare idelfini che si tuffavano e saltavano lontano da noi verso le isole della baia.

    Il ragazzo non si rivelava mai appieno; quasi sempre rimaneva in disparte,ma faceva in modo che io riuscissi a scorgerlo e a incuriosirmi e sembravacomprendere che ero lieta della sua presenza. Come lo sapesse, non potreidirlo.

    Non assomigliava a nessun altro. Voglio dire, non era un contadino né unodei Grands Blancs (sebbene indossasse i brandelli di un panciotto ricamatoda gentiluomo e di un paio di calzoni al ginocchio) e non aveva l’aspetto diun cittadino di Fort-Royal. Mi chiedevo se potesse essere l’erede ripudiato diuna nobile famiglia francese (ce n’erano alcuni sull’isola, esuli da tuttoquanto era loro familiare, stranieri tra noi e quasi sempre terribilmenteinfelici) o un soldato disertore o perfino un pirata o un contrabbandiere. Maun pirata sarebbe stato lontano in mare per lunghi periodi di tempo, midicevo, mentre il ragazzo, al crepuscolo, era quasi ogni giorno ai Trois-Îlets,e i contrabbandieri erano ricchi, troppo ricchi per vestire come lui, conquegli abiti smessi.

    Era un enigma, e per questo mi interessava tanto di più. E naturalmente mipiaceva il suo aspetto. I lunghi capelli neri lisci erano legati in una coda lentasul collo, con una ciocca bruna che gli ricadeva su un occhio. Il viso,abbronzato per il sole tropicale, era scarno, le labbra piene, gli occhi di uncastano scuro. La camicia stracciata, aperta sul collo, rivelava un petto

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  • muscoloso. Era agile come una pantera nei movimenti.

    Se Euphemia lo avesse visto, lo avrebbe scacciato urlando, perché non erauno della nostra proprietà e, per quanto ne sapevo, poteva avere intenzionedi introdursi in casa e rubare il danaro (molto poco, a dire il vero) che miopadre custodiva in un cofanetto in camera sua. Ma il ragazzo era astuto: nonsi lasciava vedere da Euphemia. Avevo la sensazione che si rivelasse soltantoa me.

    Mi sorpresi ad aspettarlo, ogni giorno al crepuscolo, trovando pretesti variper sedere vicino a una finestra con il ricamo, o addirittura, quando misentivo particolarmente audace, sulla veranda, fingendo di ammirare iltramonto, mentre in realtà aspettavo quel ragazzo che mi incuriosiva.

    Naturalmente in quei mesi pensavo molto a Scipion, sebbene fosse quasisempre preso dai suoi doveri militari, sulla nave a proteggere il porto e avolte impegnato in una scaramuccia con la flotta inglese. Di quando inquando, però, scendeva a terra e mi veniva a trovare, e, tra una visita el’altra, mi mandava lettere d’amore e piccoli pegni avvolti in quadrati di setae legati con nastri di raso bianco. Le sue visite erano intense, appassionate.Cavalcavamo sul terreno della proprietà, o ci incontravamo a casa di mio zioe passeggiavamo nei giardini; una volta al mese, Scipion mi portava a unacena o a un ballo offerto da uno degli ufficiali di grado superiore a Fort-Royal. Spesso eravamo soli, e allora mi prendeva tra le braccia e mi baciava.

    Scipion era angosciato al pensiero che presto, appena si fosse ristabilita lapace, avrei lasciato la Martinica per la Francia.

    “Come potete pensare di sposare quel bellimbusto di Alexandre deBeauharnais quando potreste rimanere qui e sposare uno dei GrandsBlancs?” Scipion conosceva un poco Alexandre, perché il suo squadrone eradi stanza a Brest, come il reggimento di Alexandre.

    “È stato deciso dalle nostre famiglie” rispondevo. “Io non posso dire nulla inproposito. E inoltre voi non resterete sempre alla Martinica. E noi duepotremmo incontrarci a Parigi.” Mi avvicinavo a lui e gli sorridevo in unmodo che gli addolciva sempre il viso in un’espressione di desiderio. OrmaiScipion mi aveva detto di essere promesso alla figlia di un marchese, un

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  • impegno preso quando erano entrambi bambini. “E poi, a voi nonpiacerebbe qualsiasi uomo sposassi, qui alla Martinica o altrove.”

    “Sarò geloso, certamente. Forse sfiderò a duello il vostro Alexandre e loucciderò.”

    “Vi avverto che è un ottimo tiratore. Questo almeno è quanto dice la zia.”

    A quelle parole tutti e due ridevamo e ci baciavamo, e io provavo una fitta didolore sapendo che i nostri incontri non sarebbero potuti continuare persempre. Eppure una parte di me, anche quando ero con Scipion, pensava alragazzo che mi aspettava ogni giorno al crepuscolo e che senza dubbiosarebbe venuto pure quella notte.

    Una sera cercai invano il ragazzo bruno. Andai alla finestra della mia camerada letto e guardai fuori, ma lui non c’era. Uscii sulla veranda e scrutai tra ilfogliame buio, tra le palme e verso la spiaggia. Ma la sua figura familiare eraassente. Aspettai, un minuto dopo l’altro, fino a raggiungere mezz’ora e poiun’ora. Non lo vidi.

    Dov’era? Che ne era stato di lui? Aveva avuto un incidente? Gli avevanoteso una trappola e lo avevano aggredito? Sapevo che sull’isola c’eranobande di schiavi fuggiti, e ladri e borsaioli in quantità a Fort-Royal. Eracaduto vittima di qualche criminale?

    Ero preoccupata, così tornai a cercarlo dopo cena, sebbene fosse troppobuio per vedere qualsiasi cosa, tranne il prato che circondava la casa.Aspettai fino al sorgere della luna, ma vidi soltanto la luce argentea che sirifrangeva dalle larghe fronde dei banani e delle palme; una luce che, senzala sagoma del ragazzo, a me sembrava un vuoto argenteo.

    Il mattino successivo Euphemia e io andammo con il carretto a Fort-Royal acomprare della batista per la biancheria di mia madre e di Manette. Miamadre evitava la città per timore di incontrare una delle amanti di mio padree non si fidava delle cameriere che non conoscevano i suoi gusti. Diconseguenza mandava noi.

    Mi piaceva andare a Fort-Royal. La città era piena di movimento e io venivo

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  • attratta dai colori e dalla vita delle strade polverose, non pavimentate, pienedi buche e crepe che nessuno si preoccupava mai di sistemare. Le grida deivenditori ambulanti, il ragliare degli asini e il pigolare dei pulcini riempivanol’aria umida, immobile, e ogni tanto un gruppo di ubriachi che passavavacillando si metteva a cantare. Odori forti indugiavano tra i banchettipericolanti che esponevano polli e conigli vivi, anatre e barili di granchi,rum e fiori, cesti e vasellame da pochi soldi. Come ovunque nell’isola, eraforte l’odore dello zucchero, insieme a quelli dello sterco di maiale e delcuoio, di corpi non lavati, di rose, cannella e aglio.

    Lasciai Euphemia a scegliere il tessuto e a fare i suoi acquisti (aveva undebole per la liquirizia) mentre mi avviavo da sola nella strada dei venditoridi amuleti. Vedevo passare donne africane, in larghe camicie di cotonescollate e gonne strette, che esaminavano e assaggiavano i prodotti invendita. Avevo sempre ammirato l’aperta sensualità del loro passoondeggiante, il modo in cui tenevano gli acquisti in equilibrio sui fianchi e ilportamento fiero della testa, con i capelli neri trattenuti da larghe fasce. Lastrada dei venditori di amuleti era piena di donne così, che si fermavano adascoltare mentre i commercianti indicavano le loro boccette e i loro cesti edescrivevano minuziosamente la merce.

    “Questa pozione lo riporterà a te!” “Metti questo amuleto sotto il cuscino esognerai il tuo amore!” “Ecco del tè per curarti il cuore spezzato!” “Succod’amore per renderti madre!”

    Si vendevano medicinali per il raffreddore di testa e il mal di stomaco,feticci per riacquistare la virilità e rimedi per il mal francese, maledizione deisoldati e dei marinai che dormivano con donne di strada (a Fort-Royal cen’erano molte, spesso belle donne esotiche, di razza mista, orgogliose delloro lignaggio).

    Comprai un amuleto contro il mal di capo per mia madre, e per mio padreuno che assicurava la ricchezza, decisa a metterglielo sotto il letto al mioritorno a casa. Acquistai anche una pozione d’amore e la nascosi nellaborsetta. Stavo uscendo dal negozietto per tornare da Euphemia quando lovidi.

    Mi era vicino, appoggiato al fianco di un edificio basso, le braccia conserte e

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  • lo sguardo fisso su di me con tanta intensità che quasi barcollai vedendolo.Non dubitavo che fosse il ragazzo bruno visto tante volte ai Trois-Îlets. Icapelli spettinati gli ricadevano sulla fronte allo stesso modo, indossava glistessi calzoni e lo stesso panciotto e suscitava in me la medesima emozionemista a paura che avevo provato alla piantagione.

    Reagii in fretta, allontanandomi da lui e camminando il più rapidamentepossibile lungo la strada piena di buche nella direzione opposta. Continuai acamminare incespicando, con le scarpe che urtavano oggetti sconosciutilungo la strada. Mi seguiva? Ero certa di sì, sebbene non osassi voltarmi aguardare. Camminavo, correvo su e giù per vie strette e tutte curve e infinevoltai in una strada in cui si era rovesciato un carretto attorno al quale si eraradunata una folla. C’era una gran confusione, mentre alcuni cercavano diraddrizzare il carretto e altri accorrevano per raccogliere i frutti e i barili dicarne rotolati a terra.

    Intrappolata in quella baraonda, non potevo andare né avanti né indietro. Inquel momento sentii che un braccio mi circondava la vita. Era un tocco difuoco, come non ne avevo mai provati. Trattenni il fiato e un istante doposentii la sua bocca sul mio orecchio. Avvertivo il suo alito caldo, e unbrivido mi percorse la schiena. Poi, con la velocità con cui mi aveva toccato,mi lasciò. Vidi la sua schiena mentre si allontanava abilmente tra la folla espariva alla vista.

    Era il ragazzo, naturalmente. Mi faceva infuriare, mi tormentava. Pensai aquanto era accaduto la sera prima e immaginai che lui mi stesse spiando,tenendosi lontano dalla vista, godendo della mia ansia perché non lo vedevoe le ore passavano veloci. Che lo volessi o no, ero stata presa in un giocoseducente con quel ragazzo, un gioco che lui controllava, ma che a mepiaceva.

    Mentre tornavo ai Trois-Îlets, chiacchierando con Euphemia che dividevacon me la sua liquirizia, osservavo il lussureggiante fogliame ai lati dellastrada aspettandomi di vedere un lieve frusciare di foglie, il lampo di unacamicia, il movimento veloce di una mano. Una o due volte mi voltai aguardare la strada da cui eravamo venute, pensando che potesse seguirci acavallo. Ma era vuota, con l’eccezione di qualche carretto trainato da unasino come il nostro o di un cavaliere che montava un purosangue,

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  • galoppando verso il Morne Mirande o uno dei forti sulla parte settentrionaledell’isola. Non vi era traccia del ragazzo, soltanto il segno della sua manosulla mia fusciacca rosa pallido e il ricordo che non svaniva del suo fiatocaldo nel mio orecchio, un ricordo che continuava a suscitare il miodesiderio.

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  • 6Euphemia accompagnava me e Manette alla spiaggia quasi tutti i pomeriggi,quando non pioveva. Facevamo una lunga nuotata, poi ci stendevamoall’ombra delle palme e sonnecchiavamo. Amavo quei lunghi pomeriggipigri, nuotare nella calda acqua limpida, osservando i pesci gialli, blu e verdiche sfrecciavano e mi passavano attorno e sotto. Lo scintillio del sole, comeuno schizzo dorato sulla superficie azzurra, il calore della fine sabbia biancatra le dita dei piedi e la deliziosa stanchezza che mi coglieva facendomiabbassare le palpebre.

    La prima volta che vidi il ragazzo alla spiaggia rimasi sconvolta. Euphemia eManette dormivano sulle loro amache e io ero distesa su una coperta sottouna palma. Non c’era nessun altro. Euphemia russava piano e Manette non simuoveva. Mi svegliai di colpo e vidi il ragazzo che si incamminava a passodeciso verso le leggere onde. Ignorandomi, giunse quasi sulla riva, quindi sitolse in fretta i vestiti e balzò su uno scoglio. Rimase immobile, nella suasnella nudità, come si preparasse a tuffarsi.

    Avevo già visto schiavi nudi, mai un uomo bianco nudo, o un ragazzo dellamia età. Mi dissi che era bello, mentre se ne stava là, i muscoli tesi, le spalleben modellate, la pancia piatta e il membro virile simile a quelli che avevovisto nelle copie della statue greche che lo zio Robert aveva nel giardino aFort-Royal.

    Si lasciò ammirare per parecchi minuti prima di immergersi nella baianuotando verso una delle isole, dove scomparve, e non lo vidi più per tuttoil pomeriggio. Mi assopii nuovamente e sognai il suo corpo; quell’immaginemi tornò spesso in mente nei giorni successivi.

    In quel periodo molte cose richiedevano l’attenzione della mia famiglia ecreavano un’atmosfera inquieta in casa. I combattimenti fra la nostra flotta equella britannica, le notizie di Scipion (ferito in una scaramuccia al largo diSanta Lucia), i suoi ansiosi messaggi indirizzati a me e le sue visiteoccasionali, oltre all’assenza di mio padre che comandava la milizia: tuttocreava una situazione di incertezza. Dalla zia Edmée arrivavano sempre

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  • nuove lettere che insistevano sul vivo desiderio di Alexandre per lacelebrazione delle nostre nozze e sulla vitale importanza della partenza perParigi mia e di mio padre con la prima nave disponibile.

    Rispondevo come meglio potevo alle lettere di mia zia, spiegando che nonpotevamo imbarcarci mentre continuavano i combattimenti e che la nostraisola sarebbe forse stata catturata dagli inglesi. Comprendevo, mentrescrivevo così, che Alexandre avrebbe potuto decidere di rinunciare a me e discegliersi un’altra sposa. La possibilità per me di andare a Parigi potevasfumare, così come l’occasione per mio padre di rimettere in sesto le suefinanze e non vendere i Trois-Îlets.

    Inquieta per tutti questi pensieri, progettai di tornare al Crocicchio Sacro aconsultare Orgulon. Ma i giorni passavano e io non salivo al MorneGanthéaume. Andavo invece sulla spiaggia con Manette ed Euphemia, edimenticavo le mie ansie mentre nuotavo, mi riposavo e mi assopivo...attendendo il ragazzo.

    Un caldo pomeriggio in cui stavo dormendo, venni destata dal dolce contattodelle sue labbra sulle mie. Non provai paura, il mio corpo si abbandonò alsuo e il bacio divenne un abbraccio. Indossavo soltanto una camicia leggerae potevo sentire il suo fisico forte e muscoloso contro il mio. Mi persi nellesue braccia, dimenticando gli altri, dimenticando tutto quanto non fosse lasensazione di lui accanto a me, sopra di me, avvinto a me. La sua boccasapeva di birra di canna e di spezie e lui odorava di acqua salata e sudore.

    Quando mi prese, lo fece con dolcezza, senza brutalità o violenza. I nostricorpi si fusero spontaneamente come se fossero fatti per quel momento.Tutto quanto avevo sentito dire dell’unione tra un uomo e una donna svanìnell’oblio, sostituito dal piacere del suo tocco, dalla facilità con cui citrasformammo da estranei in amanti.

    Giacemmo così sotto il sole caldo, in un silenzio interrotto soltanto dalnostro respiro e dallo sciacquio delle onde sulla sabbia, fino a quandoEuphemia si girò nell’amaca e il ragazzo alzò la testa per ascoltare. Allora,bruscamente e senza una parola, si alzò e si allontanò. Non si voltò aguardare. Ero sola. Rabbrividii. Poi mi addormentai.

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  • Più tardi, sentii Euphemia e Manette che si muovevano e parlavano tra loro.Mi misi a sedere, stordita, e mi avvolsi una coperta leggera attorno allespalle, come facevo sempre quando tornavo a casa dalla spiaggia. Euphemia,che stava ripiegando la sua amaca, mi guardò.

    «Dei topi vi hanno fatto il nido nei capelli mentre dormivate, Yeyette.»

    Io feci del mio meglio per allontanarmi i lunghi capelli neri dal viso esciogliere i nodi peggiori con le dita. Mi chiesi se avessi un’aria diversa. Erocambiata? Avevo la bocca gonfia per i baci e i muscoli stanchi per lo sforzodell’amplesso. Dentro di me, non sarei mai più stata la stessa,indipendentemente dal mio aspetto.

    Perché quel lungo pomeriggio scoprii di essere fatta per l’amore. Desideravoardentemente essere accarezzata, baciata, toccata. Essere amata fisicamente enon solo con i sentimenti e le emozioni. Amavo Scipion con tutto il cuore,ma avevo amato quel ragazzo, quell’estraneo, con il mio corpo. E, dei duegeneri di amore, l’amore del corpo era il più forte e il più ricco edesiderabile. Compresi allora che a quell’amore avrei sempre ceduto, perquanto cercassi di resistere.

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  • 7Naturalmente ero in ansia al pensiero di poter essere incinta. Ma il flussomensile arrivò regolarmente, e io ne provai un enorme sollievo. Nello stessoperiodo tutta la Martinica provò un grande sollievo, perché la flotta inglese sispostò verso Santa Lucia e, per la prima volta da mesi, le navi francesipoterono entrare nel porto di Fort-Royal e uscirne. Mio padre colse taleopportunità per assicurarsi il passaggio sulla piccola nave Île-de-France,parte di un convoglio diretto a Brest.

    Tutto avvenne rapidamente e ci imbarcammo presto, sebbene mio padrefosse stato ammalato nel corso della primavera e mia madre ci pregasseall’ultimo momento di cambiare i nostri programmi e rimanere a casa. I baulierano pronti da molto tempo; dovevamo soltanto indossare i mantelli daviaggio, riempire di cibo i cestini e andare dalla piantagione al porto. Scipionci venne incontro sulla banchina, nella sua uniforme di capitano di fregata.Mi rallegrai con lui per la promozione.

    «Capitano du Roure al vostro servizio» disse con un profondo inchino.«Sono stato assegnato all’Île-de-France.»

    Appena aveva appreso che saremmo partiti per la Francia, aveva fatto inmodo di venire assegnato all’Île-de-France. Mi disse che voleva essermivicino, in quel lungo viaggio, per proteggermi.

    «Potreste venire attaccati, sapete. Il viaggio per mare sarà pericoloso. Ilconvoglio trasporta un ricco carico di oro e gioielli, tutti gli oggetti di valoreche i coloni vogliono mandare ai loro parenti in Francia perché licustodiscano. Ma non dovete temere. Farò in modo che non vi accada nulladi male.»

    Ci condusse alla nostra cabina, molto piccola, con il soffitto così basso chepotevo a malapena stare in piedi, e mio padre doveva chinare il capo. Nonriuscivo a immaginare come avremmo potuto vivere tutti in quello spazioristretto; perché eravamo in quattro, mio padre e io, Euphemia e la ziaRosette, oltre ai bauli e agli scatoloni. Non ero mai stata a bordo di una nave

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  • – a dire il vero, non avevo mai lasciato l’isola – e non sapevo che cosaaspettarmi. Avremmo dovuto imparare a adattarci, ma come?

    Eravamo in mare da appena due giorni quando ci colpì la prima tempesta. Ilrollare e il beccheggiare della nave ci facevano rivoltare lo stomaco.Sconvolti dalla nausea e sofferenti, ci stringemmo nella cabina, avviliti,continuando a vomitare, senza poter dormire o mangiare. Non mi ero maisentita tanto male. Il medico di bordo venne a visitarci, ma disse che nonpoteva fare nulla: era mal di mare, di cui soffrivano quasi tutti. Ci saremmosentiti meglio una volta passata la tempesta.

    Ma la tempesta durò tre giorni, seguita da altre tempeste, senza una tregua fral’una e l’altra. Stringevo la borsetta di erbe e ossa di pollo che portavo alcollo – un amuleto contro la morte per annegamento – e cercavo diinghiottire il brodo caldo che Euphemia mi portava più volte al giorno.Mentre bevevo, però, la nave beccheggiava furiosamente, e il brodoschizzava sul pavimento mescolandosi all’acqua di mare sempre presente.Era inutile. Potevo mangiare poco e quello che riuscivo a mandare giù nonmi rimaneva dentro. Dimagrii. Non osavo guardarmi allo specchio temendoquello che avrei visto.

    La quarta settimana di viaggio una fregata inglese attaccò la fregata checostituiva la guardia del nostro convoglio, la Pomona. Eravamo allaretroguardia della lunga linea di vascelli francesi, molte miglia dietro la naveammiraglia, ma sentimmo ugualmente il rombo dei cannoni e vedemmoall’orizzonte il fumo giallognolo. La fregata inglese si allontanò; tuttavia,come mi spiegò Scipion, il nostro convoglio dovette cambiare rotta perevitare di scontrarsi con altri vascelli britannici. Il cambiamento ci portò alatitudini dove le tempeste erano ancora più frequenti. La pioggia e il ventosferzavano la nave, e mio padre, che aveva avuto bisogno di cure costantisin dall’inizio del viaggio, assunse un aspetto mortalmente malato.

    Gli misi il mio amuleto intorno al collo, mentre Euphemia mormorava unapreghiera nella lingua africana di sua madre.

    «Toglietemi di dosso questa cosa orribile» protestò debolmente mio padreafferrando l’amuleto appeso alla cordicella. «E smettetela con questepreghiere vudù. Se è la mia ora, lasciatemi morire in pace senza riti pagani.»

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  • Sul petto splendeva la medaglia di san Cristoforo che portava sempre e gliocchi erano ardenti di febbre.

    Avrei voluto aiutarlo, ma riuscivo a malapena ad afferrarmi al mio lettostretto e duro, rabbrividendo sotto la coperta bagnata e cercando disopportare la mia nausea e il mio malessere.

    Finalmente arrivò una giornata di mare calmo e cielo limpido; la naveacquistò stabilità e alcuni tra i passeggeri più coraggiosi salirono sul ponteper respirare aria fresca. Mentre uscivo barcollando dalla stiva, afferrandomialla ringhiera, mi sembrava di essere stata morta, chiusa in una bara oscura,e di tornare soltanto ora alla vita e alla luce.

    Scipion era al suo posto sul ponte, con l’uniforme stirata di fresco, bello esano come non mai. Scrutava l’orizzonte con un cannocchiale.

    «Con un po’ di fortuna dovremmo arrivare a Brest fra sei settimane» midisse. «Sempre che non ci si imbatta in altre tempeste che ci spingano fuorirotta. Ditemi, che cosa farete, una volta sbarcata?»

    «Immagino che ci saranno ad aspettarci Alexandre e la zia Edmée. Mio padreha scritto avvertendo che stavamo per imbarcarci.»

    «E allora vi sposerete.»

    «Sì.»

    Scipion sospirò. «Dovrà rinunciare a molte cose quando sarà sposato, ilvostro Alexandre. Si sa che ha numerose amanti.»

    «Non siete tutti così, voi giovani ufficiali?»

    «Alexandre de Beauharnais ci supera tutti.»

    «Allora perché ha dovuto cercare una moglie alla Martinica?»

    «Perché, mia cara Yeyette, come moglie voleva una fanciulla innocente.Molte delle sue conquiste sono donne sposate. Inoltre, è bene che ungiovane aristocratico si sposi all’interno della famiglia, con una lontana

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  • cugina o nipote. È tradizione.»

    La nostra conversazione venne interrotta dalle grida entusiaste dei passeggeriche avevano avvistato alcuni delfini mentre saltavano e giocavano lungo lanave. Rimanemmo a guardarli, felici della fresca aria marina e del soleabbagliante, camminando avanti e indietro sul ponte per rimettere in moto legambe rimaste a lungo immobili. Per settimane avevo indossato abitibagnati. Soltanto sentirsi asciutti era un gran conforto.

    Ci furono altre giornate di sole, ma la pioggia e il vento non si feceroattendere costringendoci a rinchiuderci nuovamente nella cabina. Ritornòanche il mal di mare, sebbene meno forte di prima. Ci sopportavamo amalapena. La nostra buona educazione si affievoliva, litigavamo, ciurtavamo e ci comportavamo come bambini dispettosi. Avevamo semprefame, perché ci nutrivamo di carne avariata e biscotti pieni di vermi. Tutto ilcibo fresco presente sulla nave era stato già mangiato o era andato a male.Per la continua umidità, le pareti della cabina si ricoprirono di una muffaverde, che ci cadeva addosso ogni volta che la nave rollava, peggiorando ilfetore da cui eravamo circondati.

    Finalmente, dopo quattro mesi in mare, avvistammo la costa francese. Ilporto era avvolto nella nebbia. Un faro mandava un raggio luminososull’acqua, ma inviava soltanto bagliori intermittenti, e le onde erano alte,troppo perché potessimo sbarcare sulle piccole scialuppe e andare a terra. Sidecise di aspettare la mattina successiva per lasciare la nave.

    Quella notte, sdraiata nella cabina maleodorante e buia, a disagio sul lettinostretto, giurai di non passare mai più una sola notte in mare.

    Il mattino dopo, tuttavia, non potevo trattenere l’emozione. Presto sarei stataa Parigi! Con l’aiuto di Euphemia indossai l’abito meno stropicciato emacchiato, e mi feci pettinare nel migliore dei modi, per quanto era possibilecon un pettine bagnato. Avevo perso tanto peso che l’abito era troppo largo.E quando mi guardai nel piccolo specchio che mi porgeva la zia Rosette, nonriuscii a trattenere lo sgomento. Il viso era color cenere, le guance, un temporosate e piene, apparivano scavate e scarne. Avevo gli occhi pesantementecerchiati e il petto non si arrotondava più in modo provocante.

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  • «Sembri sopravvissuta a un naufragio» disse la zia Rosette con un sorrisofurbo.

    «In fondo è proprio così. Lo siamo tutti.»

    La zia Edmée e Alexandre ci aspettavano sulla banchina. Lei, bella e riposata,i lucenti capelli biondi pettinati in un nodo alto ed elaborato, ornato di fruttie fiori, l’abito di seta lilla disteso su ampi paniers, ci sorrideva dandoci uncaloroso benvenuto. Alexandre invece, rigido e impeccabile nellaimmacolata uniforme bianca e nel cappello a tricorno nero, una lungasciabola al fianco, sembrava indispettito.

    «Joseph, Rose, o dovrei chiamarvi Yeyette? Finalmente siete arrivati. Comesiamo felici di vedervi!» La zia Edmée si fece avanti e ci abbracciò concalore, cercando garbatamente di vincere il naturale disgusto verso i terribiliodori che ci portavamo addosso e che il suo profumo non riusciva a coprire.«E anche voi, Rosette. Vedo che indossate ancora il solito abito. Bene, cara,dovremo trovarvene un altro. A Parigi ci aspettano le sarte per il corredo diYeyette. Potranno fare un abito anche per voi.»

    Edmée salutò Euphemia con un brevissimo cenno del capo, riluttante ariconoscere un qualunque legame con lei, sebbene Euphemia, figliaillegittima di mio padre, fosse in realtà sua nipote. Nella Martinica parenteledi quel tipo fra Grands Blancs e gente di sangue misto erano molto frequentie venivano riconosciute. Evidentemente in Francia non era così.

    Ricambiai l’abbraccio della zia Edmée e mi voltai verso Alexandre che miguardava fisso.

    «Dov’è il vostro cappello?»

    «Il mio cappello?»

    «Nessuna signora cammina sotto il sole senza cappello. Il sole rovina lacarnagione. La vostra è già stata rovinata abbastanza.»

    Guardai la zia Edmée, che non sapeva cosa dire. Tra i vari ornamenti dellasua complicata pettinatura si scorgeva in effetti un piccolo cappellino di

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  • paglia decorato con lillà finti.

    «Alexandre, ho appena trascorso quattro mesi nella cabina buia di una nave,soffrendo il mal di mare. Vi assicuro che un cappello era l’ultima cosa di cuiavevo bisogno.»

    «Forse avevate maggior bisogno di imparare le buone maniere,Mademoiselle. Non sono abituato a sentirmi rivolgere la parola con tantainsolente franchezza.»

    Io lo guardai infuriata. Era quale lo ricordavo, il ragazzo freddo, altezzoso,che criticava sempre gli altri bambini e che tutti detestavamo. Ma c’era unanotevole differenza. Questo Alexandre era alto e molto bello, e lo sdegnonon faceva che aumentare il suo fascino virile. Era difficile credere cheavesse soltanto diciannove anni.

    «Tuttavia» aggiunse prendendo la mia mano e portandosela alle labbra senzabaciarla «poiché siete la mia promessa, farò del mio meglio per ignorare lavostra mancanza e mi auguro che vi correggerete presto, così come spero inun miglioramento della vostra carnagione.»

    Alexandre chiamò una carrozza e ci condusse a una locanda, dove trascorsiun’ora meravigliosa in un catino di rame pieno di acqua saponata e mangiaipollo fresco e pagnotte di pane bianco senza un solo verme in vista. Gli agi,che meraviglia! Rinfrescata, nutrita e pulita, accolsi Alexandre nella stanzache dividevo con la zia Rosette. Appena entrato, cominciò a passeggiareavanti e indietro, le mani dietro la schiena, il tricorno sotto il braccio.

    «La cerimonia si svolgerà domani mattina alle dieci. Tutti i documenti sonopronti. Consumeremo il primo pasto come marito e moglie alla mairie, poipartiremo per Parigi dove ci attendono i banchieri.»

    «Non credo che mio padre sarà in grado di viaggiare. Sta molto male.»

    «Allora possiamo lasciarlo qui con la vostra cameriera perché si prenda curadi lui. Ci raggiungerà poi quando starà meglio.»

    «Non intendo lasciarlo solo.»

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  • «Farete quello che vi dico.»

    «Non sono ancora vostra moglie, Alexandre. Non cercate di darmi ordini.»

    La zia Rosette, seduta accanto a me sul divano, tossì e mi diede di gomito.

    «Sono certa che tra uno o due giorni mio fratello starà bene» disse cercandodi mettere pace tra Alexandre, sempre più alterato, e me.

    «Ah, sì? E se dovesse morire?» Guardò con rabbia la povera Rosette, che sifece piccola piccola sotto quello sguardo duro.

    «Come osate parlare in questo modo? È mio padre, che amo profondamentee che vi ha accolto alla Martinica quando eravate bambino. Avete un grandedebito nei suoi confronti. Ora è malato e ha bisogno del vostro aiuto. Nonavete pietà?»

    «Perdonatemi, Rose, se vi ricordo che proprio vostro padre era ansioso divederci sposati. Conosce quanto me l’importanza di sistemare il più prestopossibile le questioni legali. È seriamente indebitato e io ho accettato diprestargli diecimila franchi per tacitare i suoi creditori. Ma non posso farlofinché non saremo sposati e non avrò portato il certificato di matrimonio aibanchieri di Parigi.»

    Il lungo, imbarazzato silenzio che seguì a quella tirata venne interrotto dallazia Rosette.

    «Alexandre, assaggiate un sorso di questo ottimo cognac che il locandiere haportato per noi. Vi calmerà e vi darà forza.»

    Lui sollevò la mano in un gesto di rifiuto e si avviò in fretta alla porta. Primadi uscire si voltò verso di me.

    «Alle dieci. Saint-Luc-sur-Mer. Manderò la carrozza a prendervi.»

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  • 8Se mio padre non avesse insistito che io eseguissi gli ordini di Alexandre,forse non sarei mai andata nella chiesa di Saint-Luc-sur-Mer e non avrei maisposato Alexandre Beauharnais, risparmiandomi molta sofferenza.

    Mio padre tuttavia insistette e mi disse francamente che, senza il prestito diAlexandre, la nostra famiglia sarebbe andata in rovina. Aveva gli occhi pienidi tristezza, e io non riuscii a esimermi dal fare quello che mi chiedeva.Dopo tutto, eravamo venuti in Francia proprio perché potessi sposareAlexandre.

    Così indossai il semplice abito bianco che la zia Edmée aveva portato per meda Parigi e il velo di pizzo che mia nonna mi aveva dato prima chepartissimo dalla Martinica, lo stesso che lei aveva indossato molti anniprima, quando era soltanto Catherine Brown di Dundreary e sposaval’aristocratico francese che sarebbe diventato mio nonno. Alexandre mi fecemandare un mazzo di rose di serra alla locanda, perché avessi un bouquetdavanti all’altare.

    Ma una cosa la feci da sola, sorprendendo tutti. Mandai un biglietto permezzo del figlio del locandiere all’Île-de-France chiedendo a Scipion divenire al matrimonio. Quando arrivai in chiesa, mi confortò molto vederlo,unico ospite a parte la zia Edmée, la zia Rosette (mio padre stava troppomale per essere presente) e alcuni ufficiali compagni di Alexandre.

    Riuscii a resistere durante la cerimonia pensando a mio padre e a quanto loavrebbe addolorato veder fallire gli accordi finanziari stipulati conAlexandre. La voce mi si incrinò mentre pronunciavo i voti nuziali e nonriuscii a guardare Alexandre che pronunciava i suoi. La zia Edmée mi disseche ero bella e che il suono della mia voce nel ripetere la formula era cosìbasso, giovane e dolce che lei aveva pianto.

    «Ascoltandoti, non ho potuto non pensare alla tua povera sorella Catherine»mi disse. «Morta così giovane. Era stata lei la nostra prima scelta come sposadi Alexandre. Per età, era molto più adatta di te. Un uomo dovrebbe avere

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  • almeno cinque anni più della moglie, come dico sempre, e tu ne hai soltantotre meno di lui. Sì, avrebbe dovuto esserci Catherine, qui, oggi. Ma, poichénon ha potuto essere lei, cara Yeyette, sono contenta che sia tu invece. Unasposa così cara e innocente. Un viso così bello. Sono certa che tu eAlexandre avrete molti bei figli.»

    Io ero accanto ad Alexandre mentre i suoi amici ufficiali venivano acongratularsi. Uno ebbe la cortesia di chiamarmi “un soffio delle isole” e dibaciarmi la guancia, ma gli altri facevano osservazioni salaci e miguardavano da capo a piedi valutandomi apertamente.

    «Spero che ne valga la pena» sentii dire da uno di loro. «Ha un’aria piuttostostanca e nervosa.»

    «Per quarantamila l’anno, avrei sposato la figlia del cocchiere!» ribatté unaltro, senza darsi la pena di abbassare la voce.

    «È un tesoro inestimabile.» Questo era Scipion, che accorreva in mia difesa.«Posso assicurarvelo. Inoltre è una gentildonna che merita la più grandecortesia.» Mi si mise al fianco e guardò a uno a uno tutti gli ufficiali,fissando infine il viso serio di Alexandre.

    «Come potete sapere che mia moglie è un tale tesoro?» gli chiese Alexandrea voce alta, in tono di sfida. «Ne avete fatto l’esperienza personalmente?»

    Sentii il gridolino della zia Rosette a quell’osservazione offensiva. La ziaEdmée si avvicinò a noi.

    «Signore» disse Scipion «dimenticate chi e dove siete.»

    «La mia memoria è perfetta.»

    «Ma non la vostra condotta.»

    «Vi chiedo di nuovo: avete fatto esperienza personalmente di mia moglie?»

    La zia Edmée ci aveva raggiunti.

    «Alexandre, calmatevi. Sapete benissimo che vostra moglie è una fanciulla

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  • casta e innocente.»

    «Ho avuto l’onore di conoscere Mademoiselle Tascher alla Martinica» disseScipion. «E il privilegio di offrirle la mia protezione durante il lungoviaggio.»

    «Il capitano du Roure ci è stato di grande aiuto» intervenni. «Gli siamodebitori.»

    «È così» aggiunse Edmée. «Senza l’assistenza del capitano, il loro viaggiosarebbe stato molto più difficile.»

    Alexandre ci guardò tutti a turno scuotendo la testa in un gesto sdegnoso.

    «Gente delle colonie!» disse. «Provinciali. Che errore ho commesso!» Siallontanò con eleganza e uscì dalla chiesa, lasciandomi con Edmée, Rosette,Scipion e il mazzo di rose che appassiva tra le mie mani.

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  • 9Alexandre non tornò quel giorno, né il giorno successivo, né quello dopoancora.

    «Spesso è petulante» mi disse la zia Edmée. «Gli uomini molto sensibili eintelligenti lo sono. Verrà quando si sarà calmato.»

    Il quarto giorno Alexandre entrò con un passo deciso nella nostra cameraalla locanda, cogliendoci alla sprovvista.

    «Ho provveduto per il nostro viaggio a Parigi» disse seccamente. «Lacarrozza arriverà a mezzogiorno.» Baciò la zia Edmée sulle guance ma evitòdi guardarmi. «Confido che quell’ufficiale – du Roure, credo? – sia tornatoalla sua nave e che non ci darà più alcun disturbo.»

    «Scipion ci ha accompagnate qui dopo che voi ci avete lasciate» risposi.«Gliene sono stata grata. Non mi aspettavo di venire abbandonata il giornodelle mie nozze.»

    «E io non mi aspettavo una moglie così deplorevole» fu la gelida risposta dimio marito, che sembrava parlare all’aria mentre si muoveva nella stanza,raccogliendo gli oggetti e gettandoli nel baule aperto della zia Edmée.

    «Lasciate stare, Alexandre, lo farà la cameriera» disse Edmée.

    «La cameriera tornerà alla Martinica. Non voglio bastardi tra la mia servitù.»

    «Come?» La mia domanda riecheggiò nella stanza. «Euphemia non è unabastarda, come dite voi, è mia sorella.»

    «Sorellastra» mi corresse Edmée a mezza voce. «E in Francia, nella buonasocietà, non parliamo di queste cose.»

    «So benissimo chi è, e deve tornare da dove viene.»

    «Allora» mi sentii dire «io vado con lei.»

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  • «Niente mi farebbe più piacere, credetemi, ma mi è necessario che voirimaniate qui, almeno fino a quando i notai di Parigi avrannodefinitivamente sistemato gli aspetti legali della mia eredità. In seguito poteteandare al diavolo.»

    «Non andrò a Parigi, non firmerò alcun documento e non avrò più niente ache fare con voi se mandate via Euphemia.»

    Alexandre mi guardò per la prima volta e, per un momento, sulle labbra glisi disegnò un sorriso leggero. Poi scrollò le spalle e lasciò la stanza.

    All’avvicinarsi del mezzogiorno, ci preparammo per partire. La zia Edmée miassicurò che Alexandre non mi avrebbe privato dalla compagnia diEuphemia.

    «Lo conosco» disse. «Ha parlato senza riflettere. Ma ci ripenserà. Non tiseparerà dalla tua cara Euphemia, in parte perché sa bene quanti guai potresticreargli se lo facesse, e in parte per comprensione. Inoltre, le sue radici,come le tue, sono nella Martinica. Per tanti anni della sua infanzia ha avutouna bambinaia mulatta a cui era molto affezionato. Ha un suo ritratto inminiatura nascosto nel cofanetto dei gioielli, insieme a quello della madre.»

    Non vennero rinnovate le minacce di rimandare Euphemia nella Martinica, eio cominciai a prepararmi per il lungo viaggio in carrozza fino a Parigi. Lacittà portuale di Brest era lontana dalla capitale e sapevo che ci sarebbevoluto molto tempo per arrivarci. Ogni giorno faceva più freddo: il mattinol’erba era ghiacciata e il pomeriggio un vento forte scendeva dalle montagne.Ero in ansia per mio padre. Avrebbe avuto la forza di sopportare i continuisbalzi della carrozza durante il tragitto, il cibo scadente e i letti duri dellelocande lungo la strada? Non si era più alzato dal giorno delle mie nozze egiaceva inquieto, senza reagire alle tisane che gli preparava Euphemia perabbassargli la febbre.

    Mi sedetti accanto al suo letto. Dormiva, il viso voltato dall’altra parte, e leguance scarne con la rada barba grigia gli davano l’aspetto emaciato di chi èstato ammalato a lungo. Avrei voluto poterlo riportare a casa alla Martinica,dove si sarebbero presi cura di lui fino alla sua guarigione, ma sapevo cheprobabilmente non sarebbe sopravvissuto al viaggio in mare. E inoltre il mio

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  • desiderio era egoista: volevo tornare alla Martinica per me stessa, perliberarmi di quell’uomo freddo e sprezzante che avevo sposato, per ritrovarela mia vita di un tempo.

    Quando arrivò l’ora della partenza, ci arrampicammo sulla grande carrozzapresa a nolo con gli otto cavalli agili e forti, i muscoli saettanti sotto ilmantello lucente, gli zoccoli che battevano sulle pietre fredde del selciato.Guardai mentre Alexandre faceva cenno a Euphemia di non entrare insiemea noi, ma di salire sull’imperiale con i bauli e il suo servitore turco acido erobusto, Balthazar. Lei guardò tempestosamente Alexandre, tuttavia salì contutto il suo peso sul tetto, facendo oscillare pericolosamente la carrozza.

    Edmée, Rosette e mio padre, che tremava tutto, si sedettero sui sediliimbottiti e partimmo. Prendemmo la strada di Morlaix, e viaggiavamo daun’ora o due quando mio padre svenne e cadde dal sedile, Alexandre gridòal cocchiere di fermarsi. Qualche sorso di cognac sembrò ridargli forza, masubito vomitò tutto quello che aveva bevuto, insieme con molto sangue.

    «Dobbiamo tornare!» esclamai. «Dobbiamo portarlo da un medico!»

    «A Milizac» disse Alexandre. «È molto vicino.»

    «No!» La forza della protesta della zia Edmée mi stupì.

    Interrogai con lo sguardo Alexandre. «È una proprietà qui vicina» risposelui. «So che c’è un medico. Ha curato... qualcuno che conosco.»

    «Non fatelo, Alexandre» disse Edmée, con una durezza che non le avevo maisentito.

    Alexandre guardò mio padre, il cui sangue macchiava il velluto giallo delsedile. Abbassò il finestrino e si sporse per chiamare il cocchiere.

    «Fai scendere la cameriera. Poi portaci a Milizac, più presto che puoi. Uno dinoi è malato. In fretta!»

    La carrozza si inclinò da un lato quando Euphemia scese e salì all’internocon noi, sedendo accanto a mio padre per dargli tutto l’aiuto possibile.Piangeva vedendolo così grave, e anch’io ricominciai a piangere.

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  • La carrozza balzò in avanti e lo slancio dei cavalli mi spinse contro il sedile.Cercai l’amuleto che portavo al collo e lo strinsi. «Ti prego, non lasciare cheil papà muoia» mormorai. Vidi che le labbra della zia Rosette si muovevano,che aveva la testa china e gli occhi chiusi, e compresi che anche lei stavapregando. Euphemia sosteneva il capo di mio padre e gli tamponava lelabbra insanguinate con il fazzoletto. La zia Edmée continuava a guardarecon furia Alexandre, e lui distolse il viso.

    Non capivo perché la zia fosse così contraria a recarsi in quel luogo, Milizac,dal momento che Alexandre era certo che ci sarebbe stato un medico. Nonera quello di cui soprattutto mio padre aveva bisogno?

    Lasciammo la strada principale per un sentiero di campagna e i cavallidovettero rallentare il passo. La carrozza oscillò e io mi afferrai al sedile perevitare di cadere. Eravamo tutti scossi. La strada si faceva più stretta e siaddentrava in un bosco. I rami graffiavano i fianchi del veicolo e citrovammo ad attraversare un ruscello. Mio padre tossì, poi rimase insilenzio. Aveva gli occhi chiusi e non vedevo alcun battito delle palpebre.Per un terribile momento pensai che potesse essere morto.

    «Il cuore batte» mormorò Euphemia in creolo. «Il suo cuore forte batteancora.»

    Dovevamo aver viaggiato un’altra mezz’ora, sebbene il tempo scorressemolto lentamente, nella crescente oscurità. Infine uscimmo dal bosco e ciavvicinammo a una grande dimora dalla facciata di pietra, con le finestreilluminate. Quando entrammo nella corte, Alexandre aprì la portiera dellacarrozza, e, balzando agilmente a terra, chiese aiuto. Vennero dei camerieriche portarono in casa mio padre. Sembrava seguissero gli ordini diAlexandre senza fare domande: era chiaro che lo conoscevano ed eranoabituati a obbedirgli.

    Ci condussero dentro, dove ci accolse con molta cortesia un servitore inlivrea che ci accompagnanò a una suite invitandoci a metterci a nostro agio.

    «Madame si è già coricata, data l’ora tarda e poiché è stata indisposta negliultimi giorni. Mi ha detto tuttavia di dirvi che siete i benvenuti qui questanotte mentre il medico si occupa di Monsieur Tascher. Gli chiederò di venire

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  • a parlarvi dopo che avrà visitato il paziente.»

    Non vedemmo più Alexandre né mio padre, e ci sistemammo accanto alfuoco nella stanza calda, bevendo e mangiando dai vassoi di cibo che cierano stati portati. La zia Rosette si addormentò sulla sedia. Io ero in ansia,preoccupata e a disagio in quella casa estranea. Ero curiosa e volevochiedere alla zia Edmée dove ci trovassimo e chi fosse Madame, ma il suoatteggiamento inquieto, turbato mi trattenne. Inoltre, desideravo sapere comestava mio padre e che cosa avrebbe detto il medico.

    Finalmente, dopo un po’, bussò alla porta e ci spiegò che mio padre soffrivadi consunzione ai polmoni e che gli sarebbe stato necessario un lungoperiodo di riposo.

    «Nessuna emozione, cibo nutriente e serenità di spirito: ecco di che cosa habisogno il vecchio signore» disse.

    «Mio padre non è un vecchio signore. Ha soltanto quarantasei anni» ribattei.

    «Davvero? Lo avrei detto un uomo di almeno cinquantacinque o forse dipiù.»

    Per alcuni minuti parlammo della vita di mio padre alla Martinica, delle suepreoccupazioni finanziarie e familiari, del rum che beveva in abbondanzaper consolarsi. Quando descrissi il lungo viaggio per mare, il medico annuì.

    «Ah, ora capisco. Gli si sono indeboliti i polmoni per l’umidità marina, e ilrum gli ha corroso lo stomaco. Forse con il tempo sarà possibile riparare almale fatto. Adesso voi signore sembrate molto stanche. Dovete riposare.» Loringraziammo e lui si congedò.

    Ma dov’era Alexandre? Era la prima notte che passavamo sotto lo stessotetto, come marito e moglie. Eppure mi aveva nuovamente abbandonato,come aveva fatto il giorno delle nostre nozze. Confusa ed esausta, nonsapevo che cosa pensare o che cosa aspettarmi. Nella suite che occupavamoc’erano un salotto e parecchie camere da letto. Ne scelsi una e mi preparaiper la notte. Ma quando mi sdraiai sotto la morbida coperta e chiusi gliocchi, il sonno non venne. Il crepitare del fuoco languente, il soffio del

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  • vento fuori e soprattutto i miei sentimenti inquieti mi turbavano. La ziaEdmée non voleva che Alexandre ci portasse qui, sebbene, per il suo carofratello, questo significasse avere l’aiuto necessario. Come mai? E dove eraandato Alexandre? Perché non era con me?

    Dov’era mio padre? Come stava? Se lo avessi trovato, avrei potuto sedere alsuo capezzale per essergli di aiuto, se ne avesse avuto bisogno.

    Alla fine, non riuscendo a dormire e incalzata dalle domande che miassillavano, mi alzai dal letto, e, prendendo la candela, uscii piano nelsalottino e poi nel corridoio.

    Era un luogo buio, freddo e silenzioso. Le candele nelle nicchie alle pareti sistavano consumando e davano poca luce. Non vidi un solo servitore mentrecamminavo tra le pareti dai pannelli in legno, sul pavimento irregolare. Tuttoin quella casa mi era estraneo e non assomigliava a quello che avevoconosciuto alla Martinica. Nessuna brezza esterna rinfrescava l’aria viziata.Nessun colore vivace ravvivava l’oscurità dei pannelli di legno. Non c’eranoveloci lucertole che correvano su per i muri né insetti sui tappeti. Soltantobuio e silenzio.

    Poi, debolmente, sentii il pianto di un bambino.

    Seguii quel suono, che si fece più forte quando mi avvicinai a una porta dacui usciva sul pavimento un raggio