2016 5 · Sotto il velo di Iside. Artisti romantici davanti alla Natura ..... 75 scritti per...

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SCRIPTA EDIZIONI

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Ricche MinereRivista semestrale di storia dell’arteAnno iii, numero 5Giugno 2016

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DirettoreGiuseppe pavanello

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I contributi (anche quelli su invito), che devono presentare originalità e qualità di risultati e di metodologie, vengono sottoposti al vaglio del Comitato Scientifico e dei Revisori anonimi (con doppia valutazione “cieca”). Indispensabile il requisito dell’esclusività per la stampa in Ricche Minere. I testi dovranno rispettare le norme redazionali della rivista ed essere consegnati in formato Word; le immagini a corredo in formato digitale, ad alta risoluzione e libere da diritti, con relative didascalie in specifico file. Saranno accettati anche testi in lingua francese e inglese.I materiali vanno indirizzati a: “Ricche Minere”, Redazione, Cannaregio 5243 - 30121 VENEZIA, [email protected]

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Sommario

contributi

clario di Fabio

Tino di Camaino nella bottega di Giovanni Pisano, circa 1300: indagini su un Sant’Andrea pistoiese .................................. 5

Giuseppe pavanello

Gli stucchi veneziani del Settecento: le fonti e le opere (IV) ...............................21

Giovanni boraccesi

Nuove testimonianze di oreficerie austriache e tedesche in Puglia ..............45

nicole heGener, bernhard rösch

Tiepolo architetto e Neumann pittore: il ‘problema’ dell’illuminazione nello scalone della Residenz di Würzburg .......57

maria teresa caracciolo

Sotto il velo di Iside. Artisti romantici davanti alla Natura ...................................75

scritti per antonello cesareo (parte seconda)

elisa debenedetti Uggeri e Cassas.

Due mostre e una rettifica ......................87

loredana lorizzo

Ricordi del Grand Tour. Lo Studio Cades e Santucci in via Vittoria a Roma .............94

Jean-philippe huys

Hercule à la croisée des chemins. Le choix de Felice Giani .................................................99

enrico lucchese

Felice Giani a Montmorency: un nuovo disegno e qualche riflessione ................103

roberto pancheri

Il Ritratto di Martin Knoller dipinto a Vienna da Giambattista Lampi ..........................110

simona sperindei

Un souvenir di Filippo Agricola per la duchessa di Sagan: il “tondo Taddei” ....116

bernardo Falconi

Una miniatura con i ritratti dei figli di Eugenio de Beauharnais e Augusta Amalia di Baviera come cherubini ......120

rita randolFi

Gli inventari dei beni di Pietro e Giuseppe Tenerani: documenti per scoprire e datare nuove opere ..................................124

emanuela rollandini

Tigri, grottesche e fiori: qualche aggiunta agli ornati di Tommaso Castellini fra Brescia e Trento .......................................133

matteo Gardonio

Per Urbano Nono: una primizia ‘neoclassica’ e alcune precisazioni .......142

attualità

Canova/Venezia 2015: nuovi allestimenti al Museo Correr e alle Gallerie dell’Accademia (Giuseppe pavanello)................................147

Artistic Practices and Cultural Transfer in Early Modern Italy. Essays in Honour of Deborah Howard, edited by N. Avcioğlu and A. Sherman (massimo bisson)...................166

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Clario Di Fabio

Tino di Camaino nella bottega di Giovanni Pisano, circa 1300: indagini su un Sant’Andrea pistoiese

I contributi storico-critici di Adolfo Venturi (1856-1941), soprattutto quelli consacra-ti ad argomenti medievali, non godono da tempo di una considerazione direttamente proporzionale alla loro mole, ai loro meriti pionieristici e anche alla posizione egemo-nica che il loro autore detenne a partire dal 1880 nel panorama della storia dell’arte e nel mondo accademico italiano1.

Malgrado il ruolo nodale che - seguendo una linea critica consolidata - egli assegnò all’opera di Nicola e Giovanni Pisano nella sua grandiosa Storia dell’arte italiana2, i suoi studi sull’argomento – articoli in riviste e volumi monografici – sono non di rado tra-scurati; capita perciò di rintracciarvi temi e oggetti di studio emarginati o anche disat-tesi.

Questo scritto riconsidera un’opera che proprio Adolfo Venturi ebbe il merito di render nota e che – a prescindere dall’attri-buzione, su cui le opinioni sue e di chi scrive non coincidono, come si dirà – può annove-rarsi tra le prove più ragguardevoli della sta-tuaria italiana in medie dimensioni di fine Due – primo Trecento. Tra le meno note, per quanto fin dall’origine esposta al pub-blico in collocazione eminente, in una città, Pistoia, che nel Medioevo, e in particolare a quelle date, non era di sicuro una ‘periferia artistica’, ma anzi uno dei meglio calcati – e non solo in campo scultoreo – palcoscenici dell’innovazione.

Si trova oggi all’interno della chiesa di Sant’Andrea, ma fino a recenti restauri cam-peggiava ancora in facciata3 (fig. 2), entro la lunetta del portale maggiore (dove ora un buon calco la rimpiazza), sopra la cornice corinziesca che sormonta l’architrave scol-pito nel 1166 dai fratelli Gruamonte e Adeo-dato. Le facevano ala i due leoni romanici, in atto di ghermire un basilisco e un uomo, di-sposti alla base dell’arcata a conci bicromi coronata da una ghiera foliata. Due proto-mi umane aggettano in fondo a quest’ulti-ma, mentre un’aquila ad ali spiegate s’ac-campa in chiave. La cornice architettonica della statua e il contorno decorativo, insom-ma, sono (o, meglio, erano) quelli di età ro-manica; epoca, questa, in cui probabilmente nulla doveva stare al centro della lunetta, parzialmente listata con bande in marmo bianco e pietra verde4. L’addizione figura-tiva risale senza dubbio all’ultimo Due, al più presto, o, al più tardi, al primissimo Tre-cento: la mensola della statua (murata nel retro e impostata sull’architrave), è scolpita in forma di cornice modanata – retta da tre mensoline foliate per arricchirla in termini decorativi e renderla meno massiva e più piacevole alla vista – e denuncia, in effetti, forme gotiche compatibili con un tale arco cronologico.

Il bianco e nero ricco e dettagliato del-le fotografie Brogi pubblicate dal Venturi documenta la sistemazione primitiva della

1. Tino di Camaino, Sant’Andrea Apostolo. Pistoia, chiesa di Sant’Andrea, navata destra

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Giuseppe Pavanello

Gli stucchi veneziani del Settecento: le fonti e le opere (IV)

1. Decorazione del soffitto dell’“Oseliera”, particolare. Venezia, palazzo Sagredo a Santa Sofia

“Im Pallast Sagredo bey St. Sofia”1. Nell’elenco delle opere di Carpoforo Maz-zetti Tencalla compilato da Johann Caspar Füssli non poteva mancare la menzione di uno dei cicli più affascinanti della decora-zione in stucco veneziana del Settecento, realizzato, come d’abitudine, assieme ad Abbondio Stazio. Si articola su tre nuclei: l’alcova, trasmigrata nel 1906 al Metropo-litan Museum of Art di New York, le sale del piano nobile e dei mezzanini, le stanze del cosiddetto ‘casino’ al terzo piano dell’e-dificio: un’iscrizione qui, nella Stanza dei Trofei, “mdccxviii. abondio statio carpoFo-ro mazetti.”, ha determinato il giudizio di chi si è interessato di questo complesso formidabile, a partire da anni lontani2.

Cominciamo dall’alcova, oggetto di una sorta di culto, data anche la sede musea-le prestigiosissima in cui è allogata (figg. 2-3)3. Per Venezia, è stato sicuramente un danno il suo trasferimento oltreoceano, ma la notorietà raggiunta grazie a quella collocazione ha, per converso, largamente compensato la privazione al patrimonio della città di un insieme che non si può de-finire che fuori dell’ordinario.

Sono poche, infatti, le alcove veneziane settecentesche conservatesi, fatto che non sorprende se si considera l’uso di materiali deperibili come il legno, quindi le vicende secolari di trascuratezza che si sono susse-guite dopo la fine della Serenissima Repub-

blica. È stata da poco portata l’attenzione sulla cosiddetta “alcova di Nietzsche” in palazzo Berlendis alle Fondamenta Nuove, dove si crede abbia dormito il grande filo-sofo, che abitò nel palazzo a più riprese4.

Fragili per natura, sono scomparse da stanze che pur sappiamo averle ospitate. Frequenti sono infatti le citazioni negli in-ventari coevi, anche due o tre alcove per edi-ficio, ai vari piani, tale è l’imposizione della moda che prevedeva alcove con i relativi ‘re-tret’ in un secolo che della comodità aveva fatto una bandiera: due se ne sono consi-derate di recente nel Pezzana a San Polo, mentre qualche incertezza sussiste sulla destinazione della celebre stanza di palazzo Albrizzi, provvista di un sontuoso apparato in stucco con l’enorme tendaggio sorretto da una miriade di putti alati5 (fig. 5).

Analogamente, a ca’ Sagredo, sono nu-merosissimi e la fanno da padroni: beneau-guranti e al contempo simbolo della grazia, vengono a contrassegnare quegli spazi di uno spirito leggero, gioioso, spensierato: la loro innocenza è quasi un contraltare agli affanni del quotidiano, a capovolgere tanta retorica che si era compiaciuta di magnifi-cenze barocche6.

Anche solo gettando un primo sguar-do, ci si accorge tuttavia che la data 1718 nulla ha a che vedere con la nostra alcova: il gusto che ci si palesa è, a evidenza, con-sanguineo agli apparati di casa Albrizzi o

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Giovanni Boraccesi

Nuove testimonianze di oreficerie austriache e tedesche in Puglia

1. Argentiere AH (Antony Joseph Hueber [?]), Calice. Bari, Museo Diocesano

L’acronimo del punzone IK, affiancato dal marchio territoriale della città di Vienna in uso dal 1737 al 1784, contraddistingue un anonimo maestro orafo, che allo stato at-tuale delle ricerche risulta attivo nella metà del XVIII secolo. La sigla IK è importante, perché non compare nel repertorio dei pun-zoni della capitale austriaca1. Di quest’arte-fice, nella cattedrale di Conversano è custo-dito un noto e straordinario Calice (figg. 2-3) e la relativa Patena, sulla quale è raffigurato l’Agnello crocifero: pregevole manufatto che s’impone per la complessità della composi-zione, per l’abbondanza delle gemme profu-se e qualità esecutiva2.

Realizzato in argento dorato, propone ariose decorazioni fitomorfe, da cui emer-gono cherubini e, soprattutto, sei cartelle mistilinee a smalti policromi con temi legati alla Passione di Cristo e alle prefigurazioni eucaristiche del Vecchio Testamento, ossia l’Orto del Getzemani, la Salita al Calvario, la Crocifissione, Abramo e Melchisedec, l’Erezione del serpente di bronzo, la Raccolta della manna; meraviglia, ancor più, l’inserimento di circa quattrocento gemme, fra cui acquemarine, smeraldi, granati, ametiste, topazi e paste vitree, com’è emerso da una recente analisi mineralogica3.

Questo prezioso manufatto, che sul pia-no stilistico mi convinse a metterlo in rela-zione con altri tre calici presenti nella Scha-tzkammer e nel Museo Diocesano di Vien-

na, pervenne a Conversano per iniziativa del locale vescovo Gennaro Carelli (1797-1818), nativo di questa città; il presule, a sua volta l’avrà ricevuto in dono da Francesco Paolo Carelli, forse suo zio, il quale in qualità di arcidiacono accompagnò l’arcivescovo di Bari Michele Carlo de Althan (1728-1735)4 nella nuova sede episcopale di Vác in Un-gheria, allora Waitzen, rimanendovi dal 1735 al 1756, anno in cui morì a Vienna il 17 luglio5.

La difficile lettura dell’ultima cifra relati-va all’anno di fabbricazione (174?) del pun-zone territoriale di Vienna mi indusse nel 2007 a datare il calice di Conversano tra il 1740 e il 1749; la recente pulitura del manu-fatto permette, ora, di assegnare con certez-za l’esecuzione dell’opera al 1745.

Alla limitata produzione dell’ignoto ar-gentiere viennese identificato dal punzone IK associai il più sobrio Calice (fig. 4) con-servato nel Muzej za Umjetnosti i Obrt di Zagabria, anch’esso contraddistinto dallo stesso bollo dell’orafo e da quello territoria-le di Vienna del 17426. Tale punzone è stato rilevato anche da Francesco Lofano, che l’ha giustamente ricondotto al calice di Conver-sano, sul Servizio di ampolline (figg. 5-6), da-tato 1740, del Museo della Custodia France-scana di Terra Santa di Gerusalemme, pro-veniente dalla basilica del Santo Sepolcro, alla quale pervenne in dono postumo nel 1743 dall’imperatore Carlo VI d’Asburgo

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Nicole Hegener, Bernhard Rösch

Tiepolo architetto e Neumann pittore: il ‘problema’ dell’illuminazione nello scalone della Residenz di Würzburg

1. Würzburg, Residenz, Veduta dello scalone verso Nord con le allegorie dell’America al centro, dell’Asia a sinistra e dell’Africa a destra, la figura di Apollo in alto, nell’affresco di Giambattista Tiepolo

La sontuosa gabbia delle scale della residen-za vescovile di Würzburg è tra le creazioni di spazio più significative dell’architettura ba-rocca. L’idea dello scalone rappresentativo da parata – poco conosciuto all’architettu-ra francese, ma di importanza centrale per l’architettura in Germania e anche in Italia – qui, tecnicamente e artisticamente, sconfi-na ai limiti. Questo complesso inseparabile di architettura, scultura e pittura è opera di stretta collaborazione dell’architetto boemo Balthasar Neumann, degli scultori lombar-di Antonio, Ludovico e Materno Bossi, e di Giambattista Tiepolo. La straordinaria qua-lità e bellezza di questo insieme unico è per gran parte il risultato di diverse strategie ar-tistiche di regia di luce che tutti gli artisti deliberatamente perseguivano: lo scopo di questo contributo è di esporle chiaramente.

1. Genesi e struttura dello scalone di Balthasar NeumannÈ stato un vero caso fortunato che i lavori per le pareti del vano e per la decorazione si siano svolti più o meno continuativamente tra il 1737 e il 1766, con due interruzioni notevoli. La prima fu di natura economica: il principe vescovo Anselm Franz von In-gelheim impose misure restrittive; la secon-da fu causata dalla guerra dei Sette anni dal 1755 al 1763. Entrambi gli intervalli furono dunque talmente brevi che la genesi dello scalone resta caratterizzata da una certa

continuità di persone che rimasero fedeli al concetto originale1.

Appena eletto, il principe vescovo Philipp Franz von Schönborn (regnante dal 1719 al 1724) cominciò l’edificazione della nuova residenza nella periferia della città medie-vale di Würzburg. La costruzione e l’arre-damento delle sale grandi del corps de logis fu continuata da suo cugino Friedrich Carl von Schönborn, che dal 1729 al 1746 fu principe vescovo di Würzburg e Bamberga. Fin dal principio la direzione dei lavori fu nelle mani di Balthasar Neumann, ingegne-re e fonditore di campane. Dal 1737 furono erette le pareti dello scalone. Nel 1743 la vol-ta di tufo calcareo fu chiusa senza aver biso-gno di altri appoggi; copre più di 600 metri quadri, l’altezza della freccia misura 5,50 m.

Dal 1742 al 1744 furono murate le rampe della scala e le volte dell’ambulacro inferio-re2. Non si sa esattamente quando venne ini-ziata la decorazione dello scalone. È comun-que accertato che la Sala bianca fu stuccata da Antonio Bossi a partire dal 1744-1745. Non è da escludere che nello stesso tempo si siano svolti anche lavori di decorazione nello scalone. In merito, c’è un motivo ben preciso, perché nel 1745 Francesco Stefano di Lorena, imperatore designato e sposo di Maria Teresa d’Asburgo, partì da Vienna per Francoforte per la sua incoronazione e quindi ci si attendeva una sua visita a Würz-burg.

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Maria Teresa Caracciolo

Sotto il velo di Iside. Artisti romantici davanti alla Natura

1. Carl Gustav Carus, Faust nella foresta. Dresda, Staatliche Kunstsammlungen, Kupferstichkabinett

“Io per altro in volto almenoVo’ a quest’Iside mirar...”

Giuseppe Verdi, Un ballo in maschera, atto II

Tra gli aspetti forse meno noti, ma non per questo meno affascinanti, dell’opera let-teraria di Friedrich Schiller (1759-1805), contano le conferenze inaugurali e le le-zioni tenute all’università di Iena dal 1789 al 1792. Interventi di filosofia della storia, tra i quali spicca per l’alto interesse e l’at-tualità, la conferenza intitolata Die Sendung Moses (La Missione di Mosè), pronunciata nel 1789 e pubblicata nel 1790. Le frasi inizia-li dell’intervento preannunciano in poche righe la densità del tema: “La fondazione dello Stato giudaico per mano di Mosè è uno degli avvenimenti più degni di nota che la storia ha conservato, importante per la forza dell’intelletto per mezzo del quale fu posta in opera, più importante anco-ra per le conseguenze sul mondo, fino al momento attuale perduranti. Ambedue le religioni che dominano la maggior parte della terra abitata, il Cristianesimo e l’Isla-mismo, si basano sulla religione degli Ebrei e senza di essa, non ci sarebbe mai stato né Cristianesimo, né Corano [...]”1.

È inutile sottolineare l’attualità di un tale proposito: basti ricordare a riguar-do l’uscita nel 2014 del kolossal di Ridley Scott (lo si è potuto apprezzare o meno,

ma non lo si può ignorare), che ancora una volta, e con una serie inedita di effetti spe-ciali, ha riproposto la storia di Mosè nar-rata nel libro dell’Esodo, sollevando l’an-tica e irrisolta questione delle origini del monoteismo e ricollocandola nel quadro dell’incontro-scontro tra civiltà egiziana e religione ebraica, svoltosi in età biblica, intorno alla metà del secondo millennio avanti Cristo.

Molto prima che l’attualità del ventu-nesimo secolo riportasse alla ribalta quegli avvenimenti mitici, sottesi da pregnanti in-terrogativi, la lezione di Schiller inaugura-va sin dalla fase iniziale del Romanticismo una serie di riflessioni che furono espres-se non solo da saggi storici e filosofici, ma anche da racconti, poesie, opere liriche, disegni, dipinti e romanzi, ultimo dei qua-li (last but not least) uno dei capolavori di Théophile Gautier, Le Roman de la Momie, uscito a puntate a Parigi su «Le Moniteur universel» tra marzo e maggio del 1857, che ottenne un brillante successo di pub-blico e fu variamente illustrato, soprattut-to all’epoca dell’Art Nouveau2.

La conferenza di Schiller trattava, be-ninteso, del conflitto tra Mosè e il faraone Ramses II, della sfida del patriarca al so-vrano, delle sette piaghe inviate da Yaveh a flagellare i persecutori del popolo ebraico e della partenza di quest’ultimo dall’Egitto, sotto la guida di Mosè, per un esodo se-

Scritti per Antonello ceSAreo

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Elisa Debenedetti

Uggeri e Cassas. Due mostre e una rettifica

Il mio contributo per Antonello Cesareo ap-parso nel numero 4 (2015) di questa rivista si situava fra due mostre di successo: la pri-ma dedicata a Luigi Rossini 1790-1857. Incisore. Il viaggio segreto, tenutasi a Roma nel 2014; la seconda, Voyages en Italie de Louis-François Cas-sas 1756-1827, fra il 2015 e il 2016 presso il Musée des Beaux-Arts di Tours1. Suggestio-nata dalla prima delle due e probabilmente mal indirizzata, avevo attribuito le impor-tanti e finora ignorate prove ante litteram del vedutista francese all’incisore ravennate: forse, fra gli eredi di Giovan Battista Pirane-si nell’arte della veduta, il più prossimo al Maestro2.Occorre invece precisare che le due pagine, preziose per la loro unicità, da me pubblica-te in quella sede e concernenti il Panorama di Roma dai Colli Palatino e Aventino vanno sem-mai ricondotte al vedutista francese Cassas, che soggiornò a Roma una prima volta fra il 1779 e il 1782 e una seconda fra il 1787 e il 1791. I disegni di questa serie sono in realtà dieci, poiché manca la Veduta del Campidoglio e di Campo Vaccino presa dagli Orti Farnesiani, e vennero realizzati mentre lavorava per il suo mecenate, il conte de Choiseul-Gouffier, au-tore del Voyage en Grèce3, nel corso del suo secondo soggiorno romano; sono stati poi incisi all’acquaforte dall’artista stesso e da Jacques-Louis Bance, rialzati all’acquerello e pubblicati dal 1801 dalla Calcografia dei fratelli Piranesi, a Parigi. Nel 1813 l’editore e

critico d’arte Charles-Pierre Landon ha riu-nito le tavole in un’opera dal titolo Itinéraire pittoresque ou Grandes vues de sept collines de Rome avec la vue générale de la ville d’Athènes, dessinées et gravées au l’eau forte à trait par MM Cassas et Bance.Tali vedute sono composte da uno o due disegni separati presi dal medesimo punto di vista, fino a raggiungere il numero di un-dici incisioni, ma degli acquerelli originali sono al momento noti soltanto l’Aventino e il Gianicolo, entrambi conservati a Pari-gi, presso Didier Aaron et Cie. L’Itinéraire, perfettamente dettagliato, si uniforma alla Pianta Grande di Roma di Giambattista Nolli, la quale permette al contempo di identifica-re il punto di vista da dove l’artista traeva le proprie vedute panoramiche e le prospettive scelte. Di solito si tratta di luoghi elevati, come – per l’Aventino – il convento di San Bonaventura; la sola eccezione è costituita dalla chiesa di San Gregorio, per il Palatino. In quest’ultimo, da me pubblicato nel 2015, la veduta si componeva di un solo disegno, con una panoramica molto ampia, poi divi-sa in due, dove spiccano – nella parte sini-stra (fig. 1) – le rovine del Palazzo dei Cesari, il convento di San Bonaventura e la Torre di San Pietro in Vincoli; mentre nella destra (Seguito del Monte Palatino) si distinguono l’Arco di Costantino e il Colosseo (fig. 3).Nell’acquerello dell’Aventino (fig. 2) il colore è di un verde intenso, in primo piano, men-

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Loredana Lorizzo

Ricordi del Grand Tour. Lo Studio Cades e Santucciin via Vittoria a Roma

Nella Roma ottocentesca una fitta rete di negozi provvedeva alle esigenze dei sofi-sticati touristes del Grand Tour, occupando le strade che si diramavano dalla porta di piazza del Popolo, accesso prediletto dai viaggiatori stranieri. Grazie al libretto di Heinrich Keller, viatico per visitatori a cac-cia di souvenir redatto nel 1830, conosciamo l’elenco delle botteghe dei “pittori, scultori, architetti, miniatori, incisori in gemme e in rame, scultori in metallo e mosaicisti”, cui si aggiungono quelle degli scalpellini, dei “pietrari”, dei “perlari” e degli altri artigia-ni che potevano rifornire di oggetti l’avido forestiero, desideroso di riportare un fram-mento d’Italia nel paese di origine1. Tra i tesori più ambiti, anche perché facili da trasportare, vi erano le impronte intagliate in cera o zolfo le quali, contenute in scatole di legno corredate da iscrizioni esplicative, formavano collezioni portatili per inten-ditori costituite dal ricco repertorio della statuaria antica, miniaturizzata a uso del viaggiatore, così come dalle serie dei ritratti degli uomini illustri il cui intento classifi-catorio discendeva dalla tradizione rina-scimentale italiana. Tra i più noti esecu-tori di queste piccole meraviglie da cabinet era Tommaso Cades, figlio di Alessandro apprezzato intagliatore di pietra dura, cri-stallo di rocca e cammei2; egli esercitava la professione in uno studio situato al nume-ro 456 di via del Corso ed era artista rino-

mato per la sua raccolta di impronte, costi-tuite dai principali “monumenti gemmarj tornati in luce dal 1829 in poi”, pubblicate in diverse centurie, ovvero serie di cento3. Ricordata da Giuseppe Antonio Guattani nelle Memorie enciclopediche4, la dattiloteca di Cades, che implementava quella già av-viata dal padre Alessandro, svelava l’occhio esperto di un conoscitore apprezzato dagli intellettuali del tempo che si affidavano a lui per dirimere questioni relative all’au-tenticità delle gemme antiche5; la sua vasta esperienza lo indusse ad ampliare il volume degli affari impostando una società con un altro intagliatore in una via limitrofa al ne-gozio principale. Quest’attività collaterale è testimoniata da due superstiti cassette corredate da fogli esplicativi; in esse sono inserite due serie d’impronte di Uomini illu-stri greci e latini (figg. 1-2) e Uomini illustri ita-liani e di altre nazioni (figg. 3-4), parte di una “collezione di 8000 impronte da vendersi anche in dettaglio” presso lo Studio Cades e Santucci in via Vittoria n. 19, al terzo pia-no di un edificio tuttora esistente. Dal pun-to di vista tecnico è evidente l’unità degli esemplari realizzati con il medesimo stucco bianco, caratterizzati dalla precisione dei contorni e dal nitore delle immagini, indice di perizia e pratica esecutiva. Parte delle im-pronte sono calchi di cammei realizzati da Giuseppe Girometti, abile ritrattista di cui sono note le serie di uomini illustri antichi

studi iN MEMORiA di ANtONELLO CEsAREO 99

Jean-Philippe Huys

Hercule à la croisée des chemins. Le choix de Felice Giani

Comme hommage à un ami disparu, qui était épris et spécialiste de l’art néoclassique dans sa dimension européenne, voici une note sur un thème humaniste illustré par une grande feuille inédite de Felice Giani, dessinée à la plume et au lavis (fig.  1)1. Le thème est celui d’Hercule à la croisée des che-mins, en italien Ercole al bivio. Il ne s’agit pas d’une énième aventure du semideus ou héros mythologique mais bien de la représenta-tion emblématique du choix de vie entre le chemin laborieux qui mène à la Vertu et la voie facile qui porte à la Volupté. Le su-jet provient, comme on le sait, d’une fable morale écrite sous une forme allégorique par l’un des maîtres de Socrate, Prodicus de Céos, dans Les Saisons de la vie, un livre à ja-mais perdu mais dont ce célèbre apologue du Choix d’Hercule a justement été repris par Xénophon, disciple de Socrate, dans ses Mémorables (II, 1). Cette allégorisation du libre arbitre – l’Hercules prodicius – est un beau témoignage de la philosophie et de la rhétorique des sophistes de la Grèce antique qui nous est parvenu2.

La scène que présente le dessin de Gia-ni procède de la forme canonique mise en place deux siècles auparavant par Annibale Carracci3: dans sa peinture pour le plafond du Camerino di Ercole au palais Farnese à Rome (1596)4. En position assise et médita-tive, Hercule se tient de face, entre les deux figures féminines qui l’attirent chacune. Ex-

hibant sa musculature hors norme, le héros au repos s’appuie sur sa massue tandis que la Volupté a, à ses pieds, une nature morte qui reprend ses attributs symbolisant les plaisirs profanes. De son côté, la Vertu in-dique à l’horizon la montagne surmontée de son temple qui accorde gloire et renom-mée. Le paysage de fond est divisé en deux parties associées aux allégories qui se font face.

La composition de Giani se distingue toutefois de celle du maître bolonais par quelques détails iconographiques, telle une variante. Hercule semble ici avoir déjà fait son choix. En effet, il tourne la tête vers la Vertu, attentif à ce que celle-ci lui fait miroi-ter en branådissant la couronne de laurier, alors que la Volupté se donne ostensible-ment à lui, le touchant des mains tout en ex-hibant son corps5. Cette dernière est assimi-lée à Aphrodite ou Vénus, dont le fils Cupi-don s’étend aux pieds d’Hercule, enlaçant la massue du héros avec un sourire complice. Mais déjà la Volupté semble regarder avec inquiétude sa rivale. Derrière elle se profile un visage de satyre tandis que s’élance une jeune femme sur le point d’accrocher –  en un geste qui fait écho au bras levé de la Ver-tu  – l’extrémité d’un feston à une branche du tronc massif orné de menus objets et d’une inscription encadrée6. La Vertu est, quant à elle, caractérisée en Pallas ou Mi-nerve, coiffée d’un casque grec et arborant

studi iN MEMORiA di ANtONELLO CEsAREO 103

Enrico Lucchese

Felice Giani a Montmorency: un nuovo disegno e qualche riflessione

1. Felice Giani, Veduta di villa Aldini a Montmorency.Roma, Museo Napoleonico

Amici nell’ideale della Rivoluzione almeno dall’estate 1799, quando l’artista illustrò in un disegno la visita notturna, mentre era ospite di Antonio Aldini, “dalla guardia e sbiri di Bologna”1, Giani e l’avvocato emilia-no si ritrovarono, nel nuovo secolo domina-to da Napoleone Bonaparte imperatore dei francesi e re d’Italia, pittore e mecenate.

Se sopravvivono le decorazioni di Felice

Giani per il palazzo bolognese del conte Al-dini2, è purtroppo andata distrutta, già nel 1818, la villa che il segretario di stato del Regno d’Italia e tesoriere dell’ordine della Corona di Ferro acquistò nel 1810 a Mont-morency, nei dintorni di Parigi3. Lì, dal 10 novembre 1812, come documentato da un foglio dell’Istituto Nazionale per la Gra-fica4, Giani e il collaboratore per gli ornati

110 ricche minere - 5/2016

Roberto Pancheri

Il Ritratto di Martin Knoller dipinto a Vienna da Giambattista Lampi

1. Giambattista Lampi, Ritratto di Martin Knoller.

Leopoli, Galleria Nazionale

2. Giambattista Lampi, Ritratto di Martin Knoller.

Collezione privata

A seguito dell’occupazione sovietica della Galizia, nel 1940 l’odierna Galleria Nazio-nale di Leopoli entrò in possesso di molte opere d’arte appartenenti al locale Museo Lubomirski, tra cui un pregevole ritratto virile databile su base stilistica allo scorcio del XVIII secolo1 (fig. 1). Nel catalogo di una mostra di antichi maestri allestita a Leopoli nel 1909, Mieczysław Treter aveva descritto e illustrato il dipinto come opera di scuo-la tedesca, assegnandolo al pittore tirolese Martin Knoller2. Prima di entrare nella col-lezione dei principi Lubomirski, dove recava il numero d’inventario 305, esso era stato di proprietà del pittore galiziano Francis-zek Tepa, che visse tra il 1829 e il 1889. Nel catalogo del museo predisposto nel 1949 e nella guida di Popov del 1965 la stessa tela è attribuita a Giovanni Battista Lampi, senza alcuna indicazione sull’identità del ritratta-to3, rimasta finora ignota4.

L’uomo del ritratto è ripreso a mezza fi-gura e si presenta all’osservatore avvolto in un mantello rosso, a braccia conserte, girato di tre quarti verso destra. Indossa una cami-cia bianca, di cui è visibile la candida gala di batista della manica sinistra, mentre in capo porta una semplice parrucca incipriata, con codino annodato sulla nuca. Un’intensa luce naturale illumina il volto, caratteriz-zato da uno sguardo penetrante e da una bocca carnosa, per poi smorzarsi nella pe-nombra del fondo. Esso è costituito da una

parete che s’interrompe con una rientranza all’estremità destra della composizione. In alto, lo spigolo del muro appare scheggiato. A segnare magistralmente uno stacco lumi-noso tra il rosso del mantello e l’incarnato del collo bastano le candide pieghe dello jabot.

La scelta di un abbigliamento dimesso, l’assenza di qualsiasi onorificenza o segno di riconoscimento e la stessa postura del personaggio rivelano l’intento di creare un ritratto informale: una decisione evidente-

116 ricche minere - 5/2016

Simona Sperindei

Un souvenir di Filippo Agricola per la duchessa di Sagan: il “tondo Taddei”

Nel corso dell’Ottocento l’impulso promos-so dal fenomeno del Grand Tour rinvigorì l’interesse dei viaggi alla volta di Roma e dell’Italia, favorendo le aspettative degli amanti delle belle arti affascinati non solo dalle antiche rovine ma anche dalla celebra-zione dei grandi artisti rinascimentali. L’am-mirazione rivolta verso Michelangelo e Raf-faello, quali innegabili artefici di una lezione pittorica tratta dai secoli d’oro, per il loro ri-gore compositivo e monumentale, rafforzò l’attrazione da parte di un’elevata clientela rivolta non solo ai preziosi reperti archeolo-gici ma soprattutto alle opere d’arte proprie della grande tradizione classica toscana.

In questo ambiente culturale e intellet-tuale, destinato a incidere nel patrimonio della conoscenza europea, si distinse la figu-ra di Katerina Wilhelmina von Biron (1781-1839), nota come Caterina Guglielmina du-chessa di Sagan e principessa di Curlandia1. Donna assai colta e rinomata negli ambien-ti romani, sin dalla sua prima giovinezza aveva potuto godere delle bellezze offerte dalla città eterna soggiornandovi nella pri-mavera del 1785 con il padre Pietro, illumi-nato mecenate ed appassionato collezioni-sta2. In tale occasione aveva avuto modo di incontrare alcuni dei più popolari artisti attivi nell’Urbe, tra cui Angelica Kauffmann che l’aveva ritratta bambina in pendant con la madre, la duchessa Anna Charlotte Do-rothea von Medem (1761-1821).

Sin dalla prima giovinezza Caterina Gu-glielmina, donna bellissima e di fascino irresistibile, si distinse per la sua vivacità intellettuale dinanzi agli occhi del genitore che si impegnò nel concertarle una fortu-nata unione matrimoniale con uno dei più illustri partiti d’Europa il principe Louis Ferdinand di Prussia, un progetto che sfor-tunatamente fallì, destinandole il titolo e il patrimonio3.

Entusiasta dell’arte italiana la giovane era ritornata più volte nella città papale e nel corso del 1826 acquisiva dal pittore Filippo Agricola (1795-1857), una serie di quattro coppie di ritratti ispirati alla grande letteratura italiana raffiguranti l’effige dei più celebri esponenti assieme alle loro muse ispiratrici: Dante e Beatrice, Petrarca e Laura, Ariosto e Alessandra, Tasso e Eleonora, tele am-piamente lodate da Vincenzo Monti in una celebre composizione poetica4.

L’artista, figlio d’arte del più rinomato Luigi, era stato con ogni probabilità intro-dotto nell’entourage della nobildonna attra-verso l’autorevole figura paterna che già nel 1815 aveva soddisfatto il desiderio di Doro-tea, sorella minore della duchessa, eseguen-done un prezioso ritratto in miniatura5.

Con il passare degli anni il sodalizio tra il pittore e l’aristocratica si andò progressiva-mente consolidando, tanto che ben presto il giovane venne impiegato nella realizzazione di un particolare souvenirs a ricordo di uno

120 ricche minere - 5/2016

Bernardo Falconi

Una miniatura con i ritratti dei figli di Eugenio de Beauharnais e Augusta Amaliadi Baviera come cherubini

1. Franz Lieder (da Joseph Karl Stieler), I primi cinque

figli di Eugenio de Beauharnais e Augusta Amalia di Baviera come

cherubini. Collezione privata

Si ritiene di rendere omaggio alla memoria di Antonello Cesareo rendendo nota un’o-pera singolare, che certo sarebbe piaciuta a lui, appassionato studioso del neoclassico. Si tratta di un’attraente miniatura di alta qualità pittorica1, conservata in una colle-zione privata milanese, raffigurante i pri-mi cinque figli nati dal matrimonio tra il principe Eugenio de Beauharnais, viceré del Regno Italico dal 1805 al 1814, e Augusta Amalia von Wittelsbach, principessa di Ba-viera, celebrato a Monaco, alla presenza di Napoleone e di Giuseppina, rispettivamen-te padre adottivo e madre dello sposo, il 14 gennaio 1806 (fig. 1).

L’artista, dotato di una raffinata tecnica miniatoria, rappresenta sulla sottile lastra d’avorio i piccoli principi dagli occhi cerulei come cherubini, con un taglio ravvicinato, limitato alle testoline ricciute e alle tenere spalle da cui spuntano piccole ali, immor-talati tra nubi che celano quasi completa-mente l’azzurro del cielo. Il modello icono-grafico, ampiamente diffuso tra Settecento e Ottocento per ricordare, soprattutto, piccoli estinti, è qui adottato, invece, per rappresentare bambini ancora in vita, solu-zione sperimentata alcuni anni addietro dal celebre Giambattista Gigola (Brescia, 1767 - Tremezzo, Como, 1841), nominato nel 1806 “Ritrattista in Miniatura” del viceré2, nel raffigurare sopra un piccolo tondo d’a-vorio i suoi primi tre figli3.

Tutti e cinque i principini raggiungeran-no, infatti, l’età adulta, e contrarranno otti-mi matrimoni, congiungendosi con i ram-polli di importanti case regnanti. In primo piano, in basso, con lo sguardo lontano, è raffigurata la primogenita, Giuseppina (Jo-sephine Maximilienne Eugénie Napoléone, Milano, 14 marzo 1807 - Stoccolma, 7 giu-gno 1876), proclamata principessa di Bo-logna nel 1807 e duchessa di Galliera nel 1813, che sposerà nel 1823 il principe eredi-tario di Svezia e Norvegia, Oscar I, figlio di Karl XIV Johan (Jean-Baptiste Bernadotte), divenendo regina nel 18444.

Alla sua sinistra, poco più in alto, con gli occhi rivolti verso il basso, si staglia l’effigie della secondogenita, Ortensia Eugenia (Eu-génie Hortense Auguste, Milano, 23 dicem-bre 1808 - Freudenstadt, 1 settembre 1847), che andrà in sposa nel 1826 a Federico Gu-glielmo di Hohenzollern-Hechingen5.

Alla sua destra, con lo sguardo assorto, la mano poggiata a una nuvola e una faretra sulla spalla, che lo identifica come il solo maschio, qui in veste di Eros, è raffigurato lo sfortunato terzogenito, Augusto (August Eugène Charles Napoléon, Milano, 9 di-cembre 1810 - Lisbona, 28 marzo 1835), che sposerà nel 1835 la regina Maria II di Porto-gallo, morendo senza discendenza due soli mesi dopo il matrimonio6.

Dietro di lui, rivolta sorridente allo spettatore, è rappresentata la quartogeni-

124 ricche minere - 5/2016

Rita Randolfi

Gli inventari dei beni di Pietro e Giuseppe Tenerani: documenti per scoprire e datare nuove opere

Spesso la vita di un artista viene paradossal-mente capita grazie al ritrovamento di do-cumenti stilati dopo la sua morte. È anche il caso di Pietro Tenerani: infatti, intrecciando le diverse notizie dedotte dal suo inventario dei beni e da altri atti pubblicati di recente si ha un’idea più precisa della produzione, ma anche del carattere, degli affetti e delle scelte di uno degli scultori più interessanti dell’Ottocento italiano1.

Il 14 dicembre del 1869 Tenerani viene a mancare. Nonostante da qualche tempo soffra di problemi di salute sempre più in-validanti, che gli impediscono di seguire le commesse, costringendolo ad affidarle ai suoi amatissimi allievi, Pietro decide di non rogare un testamento, in quanto gli stretti legami familiari e la fiducia illimitata che ripone nei figli, soprattutto in Carlo, lo ren-dono estremamente tranquillo riguardo la sorte dei suoi beni. Tuttavia Carlo, seguen-do l’esempio del padre nel momento in cui passa a miglior vita il fratello Giuseppe, come si vedrà in seguito, si preoccupa di pubblicare gli annunci giudiziari che avver-tono della compilazione dell’inventario dei beni, per saldare eventuali creditori del pa-trimonio2.

Il documento, piuttosto prolisso, si pre-sta a letture diverse. Vi si ritrova la descrizio-ne integrale della casa dello scultore, situata in via delle Quattro Fontane 173, e quella dei suoi atelier, divisa in due parti: nella pri-

ma, compilata dal rigattiere Francesco Bal-mas, figlio di Benedetto, che ha il negozio in piazza dell’Apollinare 32, si rintracciano gli strumenti di lavoro, nella seconda, redatta dal nipote e inseparabile allievo Tommaso Cardelli, che abita a poca distanza dal ma-estro, in via delle Quattro Fontane 155, alla presenza dello studente Leopoldo Graziosi, i gessi, i marmi, i bozzetti.

Non voglio soffermarmi in questa sede sulle opere conservate nei numerosi atelier dello scultore, né sui suoi acquisti immobi-liari tesi a coronare il desiderio di costruire una casa-museo, considerato che questi ar-gomenti sono già stati oggetto di altri miei studi3, ma sui dati nuovi che permettono di rintracciare notizie importanti circa gli ulti-mi anni della carriera dell’artista.

Tenerani ha ormai raggiunto una posi-zione economica di tutto rispetto. La sua casa di via delle Quattro Fontane, contraria-mente a quanto affermato da Raggi, risulta essere piuttosto comoda e confortevole4.

I periti estimatori cominciano la loro ispezione dalle camere con il camino e da letto, dove Pietro conserva i gioielli e le monete d’oro e d’argento nei cassetti dei se-crétaire. Alcune medaglie sono chiaramente commemorative di eventi storici come quel-la relativa all’istituzione del dogma dell’Im-macolata Concezione, proclamato nel 1854 da papa Pio IX, che ha fatto realizzare a Po-letti la colonna di piazza Mignanelli, o anco-

studi iN MEMORiA di ANtONELLO CEsAREO 133

Emanuela Rollandini

Tigri, grottesche e fiori: qualche aggiunta agli ornatidi Tommaso Castellini fra Brescia e Trento

Nel 1977 Fausto Lechi, nella sua monumen-tale ricognizione dedicata alle dimore bre-sciane, riservava un cenno e un’immagine di dettaglio alla decorazione di un piccolo salotto con “tondi di fiori trattati da una mano maestra”1, al primo piano di palazzo Sertoli Da Ponte, oggi Bersi Serlini, dimo-ra settecentesca che sorge su un terreno già appartenente all’antico convento di Santa Chiara, in prossimità delle mura del castel-lo. Costruito dai Malvezzi, nel XIX secolo il palazzo appartenne alla famiglia Passerini, abbienti commercianti di seta originari di Casto in Val Sabbia che nel 1818, in un mo-mento di favorevole espansione della loro attività, lo acquistarono da Giovanni Tosio per farne la loro residenza cittadina2. Com-mittenti non privi di sensibilità culturali, con attitudini per la musica e per la pittura coltivate a titolo di diletto, espressero incli-nazioni patriottiche e simpatie mazziniane, soprattutto per voce di Giambattista (1793-1864), complessa figura di intellettuale he-geliano, che partecipò con Filippo Ugoni alla cospirazione bresciana del 18213. Fu probabilmente il raggiungimento di un’am-bita visibilità sociale a sollecitare il rinnovo degli spazi destinati all’abitare, privilegian-do l’intimità raccolta del vivere borghese, con un programma decorativo che mostra la sua coerenza proprio nella sequenza di ambienti affidati a diverse mani e diversi stili, che intrecciano memorie dall’antico,

vedute e soggetti naturalistici colti dal vero, secondo principi condivisi dall’estetica ro-mantica.

In sintonia con tali assunti poetici il sa-lottino, affacciato sul cortile interno con due grandi aperture vetrate, miniaturizza lo spazio di una loggia all’antica, ritmato da lesene binate in finta radica che, impre-ziosite da capitelli dorati, poggiano su uno zoccolo con specchiature a imitazione del-la tartaruga. Le pareti, dal fondo blu notte, risultano così spartite in regolari comparti occupati da candidi riquadri a grottesche, che diventano il raffinato parato sul quale esibire tableaux di corolle fragranti, saldan-do all’antico piacevolezze ornamentali da interno biedemeier, in una dimensione do-mestica e confortevole. L’estrosa impalca-tura di gracili racemi bizzarramente abitati, saldati da cammei e mascheroni, richiama assai puntualmente lo straordinario reper-torio di invenzioni che la bottega di Giulio Romano mise in opera sulle pareti della loggia del Giardino segreto di Palazzo Te a Mantova4 (figg. 1-3). L’onda lunga del revi-val cinquecentesco veniva così praticata in un brano di pittura assimilabile alla riva-lutazione romantica di Giulio per mano di Carlo d’Arco5, verosimilmente alimentato da una conoscenza diretta dei modelli, che la relativa vicinanza a Brescia rendeva possi-bile. Non mancano, in parallelo, interpreta-zioni liberamente desunte dalle Logge Vati-

142 ricche minere - 5/2016

Matteo Gardonio

Per Urbano Nono: una primizia ‘neoclassica’ e alcune precisazioni

Ancora da decifrare pienamente, la figura dello scultore Urbano Nono (1849-1925), fratello del più celebre Luigi ma anche – e fatto non di poco conto – maestro di Arturo Martini, è stata oggetto, di recente, di una buona voce biografica1. La sua opera rima-ne, nella scultura dell’Italia post-unitaria e sfrondata da una certa retorica e aneddotica alla quale non si poteva di sicuro sottrar-re, originale per un modo tutto personale di aggredire la materia, lasciandola spesso frammentata, dando un senso costante di gessi come fuoriusciti dall’acqua. Non è un caso, che proprio su questo elemento egli abbia intrapreso le sue più fortunate ricer-che, giungendo – come noto – agli allora considerati capolavori come A Rimbalzello del 1885 o Torrente del 1888, “bizzarro, ardi-to, immaginoso”2.Sempre a tali anni e allo stesso genere va ricondotta l’inedita Venere che esce dal bagno che oggi decora il giardino di villa Comin-cioli Fassina a Mirano3 (figg. 1-2). L’opera, che solo a un’attenta osservazione rivela la firma e la data “U IX° 1891” rappresenta una committenza del tutto privata ottenu-ta attraverso l’intermediazione di Riccardo Selvatico, cognato della moglie Ginevra Charmet e sindaco di Venezia proprio tra il 1890 e il 1895. Giustamente, come scrive Eugenia Querci, “È probabile che l’amici-zia con Selvatico abbia agevolato per Nono l’ottenimento di alcune commissioni”4 ed è

1. Urbano Nono, Venere che esce dal bagno. Mirano, villa

Comincioli Fassina

interessante constatare come la statua sia giunta per volere della famiglia Comincio-li a Mirano, all’epoca roccaforte del nemico di Selvatico, Filippo Grimani, sindaco della cittadina dal 1886.Si tratta di una monumentale scultura in marmo dove Nono, pur rievocando nel vol-to della giovane un neosettecentismo all’e-

146 ricche minere - 5/2016

attualità 147

Canova/Venezia 2015: nuovi allestimenti al Museo Correr e alle Gallerie dell’Accademia

In singolare coincidenza, la sistemazione di parte delle ampliate Gallerie dell’Acca-demia, che contempla spazi adeguati per le collezioni canoviane, si è abbinata al nuovo allestimento delle collezioni analoghe del Museo Correr. Cominciamo da qui. Prota-goniste, due sale neoclassiche dell’ex Palaz-zo Reale affrescate da Giuseppe Borsato e Giambattista Canal, quindi ambienti limi-trofi, restaurati al pari delle opere esposte1. Storica la decisione di ricollocare stabil-mente il mobile creato nell’Ottocento per accogliere bozzetti, disegni, dipinti, meda-glie, strumenti di lavoro, la maschera fune-raria dello scultore, eccetera, in parte donati al Correr da Domenico Zoppetti, già recu-perato dai depositi (dov’era dal 1952) una trentina d’anni fa per essere presentato nel-la mostra celebrativa dei centocinquant’an-ni del Museo2 (fig. 1). Nel contempo, sono state riposizionate le statue giovanili in pie-tra di Euridice e Orfeo, quindi il marmo del Dedalo e Icaro, gessi – statue, bassorilievi, bu-sti –, dipinti e bozzetti, collocandovi accan-to - si auspica temporaneamente per motivi di conservazione - alcuni disegni delle col-lezioni grafiche, in particolare fogli dell’Al-bum Cicognara presentati per la prima vol-ta alla mostra Venezia nell’età di Canova3. È stato pertanto ‘liberato’ del tutto il salone, dov’erano collocate da sempre Euridice e Or-feo: ambiente che così ha recuperato l’aspet-to d’origine di spazio per eventi (nell’Otto-cento ospitava persino la cerimonia del Gio-vedì Santo, alla presenza del viceré). Nella sequenza, non si è optato di seguire un ordi-ne cronologico (come mai?), dal momento che queste statue, le prime di Canova, non le si incontra subito, avendo privilegiato di porre, in quella che era la sala del trono, il citato ‘mobile’ assieme ai gessi del Paride e dell’Amorino Pisani4. Sono state ricreate le

basi di tutte le statue, recuperando in pari tempo il piedistallo originario dell’Amorino relegato nei depositi da oltre trent’anni. Oscillazioni della museografia: dopo tanti sussulti ‘modernisti’ si è tornati a una so-brietà che è conseguenza di ragionamenti meditati, di cui sono qui segni anche le col-locazioni in zone alte delle pareti dei busti colossali di Clemente XIII e della Religione, come a riprendere idealmente l’allestimento che Giannantonio Selva aveva messo a pun-to nella casa padovana del senatore Girola-mo Zulian, da cui provengono tanti gessi del Correr, in primis bassorilievi5. Il percorso prosegue in quella che era la Sala da pranzo nel Palazzo Reale, dove incontria-mo, al centro, il capolavoro della giovinezza ‘veneziana’ dell’artista, il gruppo di Dedalo e Icaro, esaltato dal riflesso negli specchi pa-rietali, così come le statue poste nel primo ambiente (fig. 2). Tale specificità, utilissima nel caso di sculture, è stata riproposta nella stanza, priva di decorazioni, che ora ospita Euridice e Orfeo, a creare un ideale collega-mento e al tempo stesso per ampliare un ambiente alquanto compresso (fig. 3). Le due statue, in origine poste lungo un viale nella residenza di campagna che i Falier pos-sedevano ai Pradazzi di Asolo, sono qui col-locate secondo un nesso narrativo – così già erano nel salone –, che vede Orfeo, davanti, girarsi verso Euridice nel corso dell’itinerario che lo sta conducendo fuori dell’Ade. Emble-matici i versi trascritti dal giovane Canova6.A completamento, ci si imbatte ancora nel-la serie dei bassorilievi, cinque pezzi, dopo i quattro visti all’inizio: non comune la solu-zione nel posizionamento, cioè ‘dentro’ la parete. Defilato, il gesso del Pio VI orante, che prega ora in un contiguo ambiente di fron-te a un rilievo rinascimentale con una Sacra conversazione (fig. 5). In origine, l’immagine del pontefice morto in esilio era posta sotto l’altare della Confessione in San Pietro; da un po’ di anni il marmo è stato relegato nel-le Grotte Vaticane come fosse un oggetto di scarto. L’attitudine dell’orante inginocchia-

148 ricche minere - 5/2016

166 ricche minere - 5/2016

Artistic Practices and Cultural Transfer in Ear-ly Modern Italy. Essays in Honour of Debo-rah Howard, edited by N. Avcioğlu and A. Sherman

Ashgate, Farnham, 2015, 286 pp.£ 70ISBN 978-1-4724-4365-6

La figura di studiosa di Deborah Howard è legata, fondamentalmente, alla storia ar-chitettonica di Venezia, anche se non ha mancato, negli anni, di estendere i propri interessi di ricerca anche ad ambiti conti-gui quali la storia dell’arte e i rapporti tra musica e architettura nel Rinascimento, in una vera e propria prospettiva intercultura-le. Non sorprende, quindi, che i volumi a lei dedicati in occasione del suo retirement (vo-lumi, al plurale: perché gli scritti che le sono stati dedicati compongono ben due tomi) estendano il proprio orizzonte oltre la sto-ria dell’architettura nella città lagunare.Questa recensione si concentra sul secon-do dei due volumi, pubblicato nel 2015. Mentre il primo, uscito due anni prima e al quale anche lo scrivente ha avuto l’onore di fornire un contributo, verteva principal-mente sull’architettura e l’arte a Venezia in età moderna (Architecture, Art and Identity in Venice and its Territories, 1450-1750, edited by N. Avcioğlu and E. Jones, Ashgate, Farnham 2013), in questo caso ritroviamo invece un’apertura verso un panorama più ampio, con interventi che non sono ristretti a livel-lo geografico ma investono territori diversi. Il volume si compone di tredici contributi, per la maggior parte di studiosi anglosas-soni; le tematiche si polarizzano tra storia dell’arte e storia dell’architettura, con una suddivisione quasi chirurgica tra le due di-scipline. Com’è facilmente intuibile, recensire un volume che si compone di saggi scritti da diversi autori, non imperniati su un unico argomento, sottopone al recensore un di-

lemma forse insolubile: affrontare critica-mente e in profondità ogni singolo contri-buto, destreggiandosi in ricerche di cui non sempre si ha un’approfondita conoscenza? O limitarsi a descrivere il volume per quello che propone, rischiando di apparire superfi-ciali e lasciare il lettore con una sensazione di scarso interesse e partecipazione? In atte-sa che qualcun altro trovi una formula effi-cace per comporre tale dissidio, si è scelto qui di adottare una soluzione salomonica, cercando per quanto possibile di contempe-rare i due estremi.L’opera si apre con una scrupolosa biografia di Deborah Howard scritta da Patricia For-tini Brown, seguita da un’introduzione del-le due curatrici. Una miscellanea di saggi da-gli argomenti disparati difficilmente si pre-sta a essere inserita in un contesto organico, ma va dato atto alle editor di aver comunque individuato quattro macroaree in cui suddi-videre il materiale, in ossequio a una dichia-rata idea di “cross-cultural exchange” che superi spazio e tempo (al di fuori, insomma, di precise delimitazioni geografiche o pe-riodizzazioni storiche). È un escamotage in-gegnoso ma che dimostra tutti i suoi limiti quando si nota che l’introduzione s’intitola “Reframing the Renaissance”, nonostante vi siano capitoli che trattano di artisti sei-centeschi. Il testo è comunque interessante anche per comprendere meglio il sostrato critico e culturale che anima il libro: l’unico appunto che gli si può muovere – ma questo vale per la quasi totalità dei saggi raccolti – è l’accentuato anglocentrismo che lo permea, sia a livello di prospettiva critica che di ag-giornamento bibliografico. Per una raccol-ta che fin dal titolo dichiara che il proprio campo d’indagine sono l’arte e la cultura italiane non si tratta, purtroppo, di un rilie-vo da poco.La prima sezione si compone di quattro saggi dedicati a “Another Rome”, un tito-lo sotto cui sono raccolti interventi che, in maniera più o meno pertinente, riguardano Roma o vi si relazionano in modi simboli-

issn 2284-1717

€ 29,00