2010 A mani libere

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A MANI LIBERE DUEMILADIECI

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2010 museo della ndrangheta

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DUEMILADIECI

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a cura diMaria Ficara

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Siamo al secondo volu-me di “A Mani Libere”, frutto di laboratori sulle tecniche di scrit-tura e racconto tenuti nel corso di sei mesi in undici scuole tra le province di Reggio Calabria, Vibo Valen-tia, Messina e Paler-mo. Per ricordare la cornice in cui questo libro nasce e allo stes-so tempo illustrare la sua specificità, sarà utile innanzitutto pre-sentarlo attraverso le “differenze”. Abbiamo definito i racconti del primo volume come “basati sulla fantasia”, per un percorso che cominciava a tasta-re la conoscenza dei ragazzi del fenomeno ndrangheta senza in-dagare quali fatti fos-sero vissuti e quali as-sorbiti, in vario modo, dalla realtà in cui gli stessi ragazzi vivono. Questo volume conti-nua quel percorso di racconto e lo svilup-pa, addentrandosi in storie realmente acca-dute, raccontando di vittime alle cui storie non si poteva purtrop-po scegliere di regala-re un lieto fine né, in molti casi, considerare che per esse il percor-

so della giustizia fosse concluso. Autori del primo volume erano allievi del triennio delle superiori; quest’anno, per rispettare i propo-siti che ci siamo prefis-si sin dall’inizio come comitato scientifico del Museo della ndranghe-ta, abbiamo lavorato con ragazzi del bien-nio, per una volontà di incidere in età via via minori, in cerca del mo-mento più opportuno in cui scardinare il “si sa” e costruire l’”io so”, per quella conoscenza oggettiva che è l’obiet-tivo fondamentale del Museo. Infine, se l’anno scorso erano tre scuole pilota della provincia di Reggio Calabria a saggiare le possibilità di discutere attraverso la parola libera di come la ndrangheta possa in-fluenzare la vita dei sin-goli cittadini, quest’an-no, grazie al progetto “Arcipelago della Me-moria”, le scuole del-la provincia di Reggio sono diventate sei e al-tre province –e questo ci inorgoglisce- hanno voluto condividere lo stesso percorso, per una riflessione che sep-pur nella diversità tra Calabria e Sicilia o fra

città e città, riguarda un problema fin troppo comune. Dopo le differenze, il libro è caratterizzato anche da anomalie: la prima è che se undici storie sono scritte da autori tra i 14 e i 15 anni, la dodicesima è in mano a un gruppo di ragazzi che abitano nel quartiere di Reggio dove sorge il Museo. Sono ventenni e per la maggior parte stu-denti universitari, ma soprattutto, con loro abbiamo scelto di trat-tare una storia che si distacca dalle altre. Non solo dal titolo, dato che ogni capitolo ini-zia con il nome della persona la cui storia si racconta, mentre il loro porta quello di un processo. Se le vittime raccontate da tutte le altre sono persone di forze dell’ordine, pro-fessionisti, giornalisti, medici, cittadini comu-ni che con la loro vita hanno pagato l’essere opposti a qualsiasi tipo di coinvolgimento con l’illegalità, la storia che emerge da quel proces-so e che i giovani di Cro-ce Valanidi hanno volu-to ricordare, è quella di un ragazzino che nella

sua breve esistenza frequentava la malavi-ta. Simbolo di una con-tiguità fatale, questa storia che si intravede nel racconto più esteso di un intero quartiere di Reggio Calabria, se-gue il lavoro sulla demi-tizzazione dei modelli negativi di cui il Museo si è fatto portatore: i miraggi che l’apparte-nere alla delinquenza offrono, si spengono semplicemente in una fossa, per anni segreta, che non rispetta nean-che l’altro mito, quello che gli ndranghetisti non toccano ragazzini o donne. Una discre-panza positiva, rispetto a tutte le altre storie, è invece la vicenda di Nello Ruello, vittima che può raccontare in prima persona la clau-strofobica realtà di ra-cket e usura di cui è sta-to prigioniero invisibile per più di dieci anni, prima di poter denun-ciare i suoi taglieggiato-ri e vederli condannati. L’ultima anomalia del libro ci sta a cuore, per-ché nasce dall’adesione ai lavori di Arcipelago della Memoria dell’ “As-sociazione Casa Memo-ria Felicia e Peppino Impastato” di Cinisi

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introduzione

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e ratifica la parteci-pazione di Palermo al progetto. Se questo “A Mani Libere” nasce con il preciso intento di rac-contare storie semi-di-menticate o addirittura semi-sconosciute, la ben nota storia di Pep-pino, attraverso la me-moria esercitata dalla sua famiglia, da tanti attivisti e infine da un film che ha valicato i confini regionali e na-zionali, in questo libro fa da spunto a riflessio-ni libere. Oltre le inter-viste a persone legate alla vittima, che sono il terminale di tutti la-boratori, gli studenti di Palermo hanno scelto di cercare Peppino nel-la loro vita, più che rac-contare la sua storia, come detto, ben nota. Per questo il capitolo elaborato dai ragazzi della scuola palermita-na chiude il libro con stralci dai loro ben più lunghi scritti e si ricol-lega idealmente ai rac-conti del primo volume, dove la “fantasia” non è pura invenzione lette-raria ma mostra i tratti duri di vicende fin trop-po reali. Per ultimo, vale sottoli-neare che il genotipo di questo libro possiede il

carattere della militan-za, nell’etimologia della parola che significa “oc-cuparsi attivamente”. Man mano che i mesi passavano e le storie di queste persone pren-devano corpo non solo sulla carta, ma anche nella vita dei ragazzi che ne discutevano a casa, che studiavano processi, che intervi-stavano magistrati, giornalisti, vedove, pa-renti e amici delle vit-time, che analizzavano giornali dell’epoca o do-cumenti di vario tipo, la realtà scorreva a ripro-va dell’attualità perfino delle storie più anti-che. La prima udienza del processo Marino a Reggio Calabria dopo vent’anni, la consegna a Cinisi del bene ma-fioso alla famiglia della prima vittima diretta nel trentaduesimo an-niversario della morte di Peppino, la scarce-razione e poi la revoca degli arresti domiciliari all’assassino di Graziel-la nella provincia di Messina, la sentenza della Cassazione a Pal-mi che conferma l’asso-luzione dell’Appello per i boss imputati dell’omi-cidio Ioculano sono solo alcuni degli eventi ac-

caduti durante i labo-ratori, durante la pre-parazione della bozza e fino ad oggi, durante la stampa di questo li-bro e che, ove possibile, abbiamo riportato. Non sono mancati omicidi e crimini nelle varie pro-vince, ma anche, fortu-natamente, questi mesi hanno visto i tantissimi nuovi arresti di latitan-ti, affiliati e insospet-tabili, la nascita di as-sociazioni anti-racket come quella -la prima- a Barcellona Pozzo di Gotto, la reazione della gente che comincia a incontrarsi spontane-amente a Reggio Cala-bria, intitolazioni –at-tese per anni- di piazze, assegnazioni di stabili e celebrazioni sentite di anniversari a cifra tonda. Se i crimini che accadevano sono entra-ti nelle discussioni dei laboratori e a volte nei commenti scritti degli studenti, questi ultimi hanno seguito con at-tenzione le vicissitudi-ni delle storie trattate che sentivano ormai loro, per averle studia-te a fondo e ri-racconta-te e hanno chiesto loro ai professori referenti o ai presidi di partecipa-re alle manifestazioni.

Sono diventati cittadini attivi, con uno sguar-do critico esercitato su una vicenda in partico-lare ma da cui hanno tratto una conoscenza più generale dei mecca-nismi della realtà –che molti intervistati spes-so chiamano in causa- e di quelli, spesso compli-cati, del percorso della giustizia in cui credere comunque, come unica possibilità, perfino di fronte al comprensibi-le scoraggiamento di molti familiari intervi-stati. E se oggi, anche in molte di queste sto-rie, rimangono molti interrogativi aperti, è perché si è lavorato sul semplice concetto che quando non si può avere una risposta è comunque importante avere una conoscen-za che ci permetta di formulare la domanda che quella risposta at-tenderà, che la storia di alcuni appartiene a tut-ti, e che tutti abbiamo l’elementare, inaliena-bile diritto di chiedere: “perché?”.

Maria Ficara

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ringraziamenti

Un ringraziamento speciale a tutte le persone che hanno accettato di essere intervistate dai ragazzi e dunque di rivivere momenti dolorosi, con la fiducia che la memoria possa servire:

Dott.ssa Viviana Balletta, vedova La RosaVittoria Dama, vedova Marino e il figlio Nino MarinoPasquale CampagnaFabio D’AmoreDott.ssa Natalia FilianotiProf.ssa Anna Vespia, vedova De GraziaGiovanni ImpastatoLa mamma di Peppe Valarioti, le sorelle Francesca, Angela e Teresa, la nipote Maria Concetta Nello RuelloSalvo Vitale

Per le storie di Luigi Ioculano e Antonio Mazza, il nostro rin-graziamento va ai magistrati:Dott. Marcello Minasi - Sostitu-to Procuratore GeneraleDott. Stefano Musolino – Pm della Procura di Palmi

Per i preziosi consigli sulle storie di vittime di mafia ringraziamo:Deborah Cartisano, Stefania Grasso, Antonio Russo, Dario Montana

Studenti che hanno partecipa-to ai laboratori di “Arcipelago della Memoria” e hanno lavorato alla realizzazione di questo libro:

Istituto Magistrale Statale “G. Mazzini” - Locri (RC):Annaida CaccamoAlberta CavalloVerdiana CinanniMaria ColauttiGizland GanzStefania PedullàDenise RomanoErika Scrivo

Istituto di Istruzione Superiore Statale “Felice Bisazza” – Messina:Roberta ArenaRoberta BarbalaceSara Di BellaMariella Di TermineAlessia GambadoroValeria LucianoAlessandra Piazzitta

Mariapaola PiccioneFederico RicciViviana Rizzo

Istituto Superiore “G. Minutoli” – MessinaSalvatore BasileYlenia BellinghieriGiovanni BonfiglioStefania Busà Antonio D’AngeloAntonio DilettiAnthony DilettoAndrea Galati Roberto Gentile Antonino Giaimo Daniele Molino

Istituto di Istruzione Superiore “S. Quasimodo” – Messina:Andrea AmantiLucia BarrileErica CarrozzaAntonio GalliPaolo MinutoliValentina OteriMery PalmeriGiuseppe RomeoCristina Sauta

Istituto Professionale di Stato per l’Industria e l’Artigianato “Enrico Medi” – Palermo:Alessandra Passantino BelliMarzia BonomoSalvo BertolinoFlaviano BruscaMichelle CasamentoEmanuele FerranteLoredana LonginoVincenzo MegnaGiuseppe MulèAngela RomeoElena SceltaGaetano Spadaro

Istituto Magistrale “Alvaro” - Palmi (RC):Alessia AgostinoSara AlboMargherita BraidoSabrina BologneseFederica MaggioreFederica SolanoGianluca TavellaCaterina TripodiAngelo XiangMelissa Zoccali

Istituto Professionale per l’Industria e l’Artigianato “E. Fermi” - Reggio Calabria:Carmelo AlampiAlessandro ChindemiMarian NituDomenico PorcinoGiovanni Tripepi

Istituto Professionale per l’Industria e l’Artigianato - Siderno (RC):Ersilia AielloMichele CataldoDafne CriacoMaria Raffaella CrudoVincenzo FemìaAzzurra La RosaAntonella LombardoFrancesca MacrìMelania MesitiNicodemo RomeoStella SicilianoFrancesca SpinelliDayana Vitale

Istituto Superiore “G. F. Gemel-li Careri” - Taurianova (RC):Martina Albanese Andrea CaliviRita CardonaGiuseppe Cutrì Giuseppe MandaglioElena Mastria Domenico SalernoAlessia SicilianoAlessia Spanò Arianna Zerbonìa

Istituto di Istruzione Superiore IPSSAR - Villa San Giovanni (RC):Martina AlvianoMaria CalabròMarta CamaValeria CilionePaola CreacoFlorin D’ArrigoFelice LicariMarina LofaroEmanuele Mansueto

Istituto di Istruzione Secon-daria “Vito Capialbi” - Vibo Valentia:Anna Grazia BarbalacoClelia BarbieriMiriam Barbuto

Roberta GrilloM.Pia Malito Erika Mazzotta Barbara PizzoniaChiara Vita

Croce Valanidi – gruppo Museo della ndrangheta:Gianni Alati Antonella BellocchioOrlando BellocchioOrsola CalabròPaola MalaraKiran RomanòAnna Siclari

Oltre le foto prodotte dagli studenti come esito del labo-ratorio, ringraziamo di cuore gli altri autori delle foto di questo volume:

Adriana Sapone -Reporter free-lanceFortunato Praticò -Maresciallo Capo presso la SIS del Comando Provinciale dei Carabinieri, Reggio CalabriaAdelaide Di Nunzio - fotografa free-lanceLaura Cammarata -fotografa free-lance

“A Mani Libere 2010” è stato reso possibile grazie all’im-pegno di:

Dott. Attilio Tucci – Assessore alle Politiche Giovanili della Provincia di Reggio Calabria, la persona che ha creduto nel progetto del Museo della Ndran-gheta e lo ha portato avanti;

e ai partner e collaboratori del progetto “Arcipelago della Memoria”:

Dott.ssa Daniela Bruno - Asses-sore alle Politiche Giovanili della Provincia Regionale di Messina;Dott. Gianluca Callipo - Asses-sore alle Politiche Giovanili della Provincia di Vibo Valentia;Dott.ssa Maria Teresa Scolaro -Dirigente Provincia di Reggio Calabria;Dott.ssa Alessandra Bordini – Referente del progetto per la

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Provincia di Reggio Calabria;Dott. Gabriele Schifilliti – Dirigente Provincia Regionale di Messina;Salvatore Cicciò - Referente del progetto per la Provincia Regionale di Messina;Dott. Antonio Vinci – Dirigente Provincia di Vibo Valentia;Dott. Gianpaolo Masciari - Referente del progetto per la Provincia di Vibo Valentia;Dott.ssa Giacomina Caminiti – Ufficio Scolastico Provinciale di Reggio Calabria;Dott.ssa Germina Buttitta – Responsabile Politiche Giovanili dell’Ufficio Scolastico Provinciale di Reggio Calabria.

RINGRAZIAMENTI PERSONALI

Dott. Nicola Gratteri – Procu-ratore Aggiunto DDA di Reggio CalabriaDott. Michele Prestipino –Procu-ratore Aggiunto DDA di Reggio CalabriaDott. Santi Cutroneo - Sostituto Procuratore di Vibo Valentia Dott. Mario Spagnuolo - Procu-ratore Generale di Vibo Valentia Dott. Salvatore De Luca - Procuratore Capo di Barcellona Pozzo di Gotto Dott. Michele Martorelli – Sosti-tuto alla Procura di Barcellona Pozzo di Gotto Dott. Francesco Massara - So-stituto alla Procura di Barcellona Pozzo di GottoIlario Di Chiera – Cancelliere Tribunale di Reggio CalabriaDott. ssa Elicia Falsone – Fun-zionario del Tribunale di Reggio CalabriaPasquale Angelosanto Coman-dante Provinciale dei Carabinieri di Reggio Calabria Carlo Pieroni -Comandante del Nucleo Operativo dei Carabinieri di Reggio CalabriaFabio Coppolino, Comandante della Scuola Allievi Carabinieri di Reggio Calabria.Renato Cortese, Dirigente della Squadra mobile di Reggio

Calabria.Don Salvino - Associazione antiracket Barcellona Pozzo di GottoProf. Raffaella Campo - Asso-ciazione antiracket Barcellona Pozzo di GottoSofia Capizzi - Associazione antiracket Barcellona Pozzo di GottoAvvocato Ugo Colonna Avvocato Natale Carbone Avvocato Giovanna Fronte Titta Prato - giornalista free lanceDott. Lucio Musolino – giornali-sta Calabria Ora Orsola Calabrò – componente del Centro di Documentazione del Museo della ndrangheta Igor La Camera - componente del Centro di Documentazione del Museo della ndrangheta Prof. Antonio Orlando –Istituto “G. Careri” di Taurianova Gea Gambaro – fotografaDino Sturiale – fotografo dl Diego Indaimo – Associazione Energia Messinese Serena Tarantino – fotografa Dott.sa Marina Montuori – Casa Memoria Felicia e Peppino Impastato

ESPERTI CHE HANNO CONDOTTO I LABORATORI:

Dott.ssa Maria Ficara (laboratori di scrittura e giornalismo nelle scuole di: Locri, Siderno, Reggio Calabria, Palmi, Villa San Giovan-ni, Taurianova, gruppo ragazzi di Croce Valanidi presso il Museo della ndrangheta) Dott. Davide Scotta (laboratorio di fotografia nelle scuole di: Locri, Reggio Calabria, Siderno, Palmi, Villa San Giovanni, Taurianova)Dott. Francesca Procopio (labo-ratorio di fotografia nella scuola di Vibo Valentia)Dott. Emanuele Rigano (labo-ratorio di giornalismo nelle tre scuole di Messina)Antonio Cucinotta (laboratorio di fotografia nelle scuole tre scuole

di Messina)Dott.ssa Paola Labadessa (labo-ratorio di scrittura nelle scuole tre scuole di Messina)Dott. ssa Claudia Brunetto (labo-ratorio di scrittura e giornalismo nella scuola di Palermo)Sergio Lo Verde (laboratorio di teatro e fotografia nella scuola di Palermo)Avv. Anna Cappuccio (Avvocato che ha collaborato alla ricerca delle storie nella provincia di Reggio Calabria)

Alla Dott.ssa Valentina Carvelli (coordinatrice generale), va il rin-graziamento speciale per la sua precisione, energia e impegno come progettista e promotrice di “Arcipelago della Memoria” e per la collaborazione fattiva alla cura del libro.

DIRIGENTI DEGLI ISTITUTI SCOLASTICI ASSOCIATI AL PROGETTO:

Dott. Francesco Bagalà - Istituto “C. Alvaro” di PalmiDott.ssa Adriana Bongiorno – Istituto “E. Medi” di PalermoDott.ssa Anna Maria Gammeri – Istituto “F. Bisazza” di MessinaDott. Pietro Giovanni La Tona – Istituti “S. Quasimodo” e “Minutoli” di Messina Dott. Antonio Loprete - Istituto “G. Careri” di TaurianovaDott. Rosario Lucifaro - Istituto “G. Mazzini” di LocriDott. Giovanni Aldo Marra – IPSSAR di Villa San GiovanniDott. Tommaso Mittiga - IPSIA di SidernoDott. Giovanni Policaro – Istituto “V. Capialbi” di Vibo ValentiaDott. Antonino Sergi – Istituto “E. Fermi” di Reggio Calabria

REFERENTI SCOLASTICI:

Prof.ssa Antonietta Barbaro, Prof. Michele Musarra – IPSSAR di Villa San GiovanniProf.ssa Maria Barone, Prof. Carlo Gino Currao – Istituto “C. Alvaro” di PalmiProf.sse Clelia Bruzzì, Maria Savo, Prof. Antonio Orlando – Istituto “G. Careri” di TaurianovaProf.ssa Yvonne Cannata - Isti-tuto “S. Quasimodo” di MessinaProf.ssa Caterina Caridi – Istituto “E. Fermi” di Reggio CalabriaProf.ssa Lucia Corsaro – Istituto “E. Medi” di Palermo Prof.ssa Laura Laurendi –Istituto “G. Mazzini” di LocriProf.sse Angela Mancuso, Rosalia Damiano – Istituto “F. Bisazza” di Messina Prof.ssa Silvana Manti, Prof. Filippo Milli – IPSIA di SidernoProf.ri Vincenzo Pirozzi, Giovanni Pagano – Istituto “Minutoli” di Messina Prof.ssa Daniela Rotino, Daniela Cesareo – Istituto “V. Capialbi” di Vibo Valentia

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01Il Dott. Luigi Ioculano, nato a Seminara il 27 Aprile 1941, fu ucciso nello stabile che ospitava il suo studio medico e l’abitazione della famiglia a Gioia Tauro, il 25 settembre 1995. Per l’omicidio, il 20 Aprile 2007 furono condannati in primo grado all’ergastolo il boss della Piana Pino Piromalli e Rocco Pasqualone, assolti in Appello il 19 giugno 2009. Dopo la stesura di questo capitolo, il 31 marzo 2010 la sentenza della Cassazione ha confermato l’esattezza delle argomentazioni presentate dall’accusa nel suo ricorso, in punto di causale del fatto e della sua imputabilità per questa via a Piromalli, ma ha valutato troppo fragili gli ulteriori elementi che dimostrerebbe la partecipazione concreta del boss alla specifica dinamica decisionale che ha condotto all’omicidio. Pertanto ha rigettato il ricorso presentato dall’accusa e ha confermato l’assoluzione degli imputati.

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Intervista a Stefano Musolino

di Alessia Agostino, Sara Albo, Margherita Braido, Sabrina Bolognese, Fe-derica Maggiore, Federica Solano, Gianluca Tavella, Caterina Tripodi, An-gelo Xiang, Melissa Zoccali (Istituto Magistrale “Alvaro” - Palmi -RC) 18-03-2010, Ufficio del dott. Stefano Musolino, Procura di Palmi.

Facciamo parte dell’Istituto Magistrale di Palmi e siamo accompagnati dalla professoressa Maria Barone e la dott.ssa Maria Ficara che fa parte del progetto “Arcipelago della Memoria” per il Museo della Ndrangheta, per cui abbiamo lavorato sulla storia del Dott. Ioculano. Con Maria Ficara abbiamo lavorato sui processi d’Assise e d’Appello e abbiamo alcune domande da porle.

Che ruolo ha avuto Stefano Musolino in tutto il processo Ioculano? Allora, innanzitutto questo è un processo in cui il ruolo requirente spettava alla Direzione Distret-tuale Antimafia che si trova a Reggio Calabria. Nell’ordinamento giudiziario italiano, infatti, insie-me alle Procure ordinarie che hanno una compe-tenza sui fatti-reati consumati in un determinato territorio (che tecnicamente si definisce circonda-rio) - quella di Palmi, ad esempio, ha competenza su tutta la piana di Gioia Tauro, da Rosarno sino a Barritteri di Seminara e poi sale su, comprendendo a tutta la zona pre-aspromontana tirrenica - c’è una competenza più ampia che è quella della Direzione

Distrettuale Antimafia. Questa ha sede a Reggio e ha una competenza su tutto il distretto della Corte d’Appello di Reggio, che coincide con la provincia di Reggio Calabria. Si occupa, principalmente, dei procedimenti che riguardano fatti di mafia, o anche di altri reati commessi per agevolare le organizza-zioni mafiose (sebbene, recenti interventi norma-tivi ne abbiano ampliato la competenza anche ad altri reati eccentrici rispetto a quelli “mafiosi”). Quindi non soltanto si occupa delle associazioni a delinquere di stampo mafioso, ma anche di qualsia-si altro delitto che è funzionale, strumentale agli interessi delle associazioni mafiose. Il delitto Iocu-lano è un delitto che ha questa caratteristica, cioè

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è un delitto che è stato descritto, nell’impostazione accusatoria, come funzionale a tutelare gli interes-si delle cosche mafiose di Gioia Tauro. Questa pro-spettiva ha radicato la competenza nella Direzione Distrettuale Antimafia. Io mi sono occupato del processo Ioculano in ma-niera del tutto casuale, per dir la verità, perché ini-zialmente dovevo essere applicato alla DDA per la trattazione di un altro processo che, per una serie di combinazioni particolari, non ho potuto tratta-re. Quando mi hanno dato questo incarico non co-noscevo niente della vicenda, non sapevo chi fosse

Ioculano, non avevo neanche una informazione da libero cittadino sui fatti. Perciò, ho incominciato a studiare le carte processuali per cercare di capire di che cosa si trattasse: questa è stata per me una piccola fortuna, perché ho avuto la possibilità di dedicarmi a lungo e con la curiosità del neofita allo studio del fascicolo, anche perché il processo tar-dava ad iniziare. Così ho studiato gli atti con un’at-tenzione, diciamo più meticolosa, rispetto a quanto possa fare solitamente, senza fretta, ripercorren-do minuziosamente tutta l’attività investigativa, senza preoccuparmi prima di vedere quali erano i provvedimenti che erano stati emanati in quel pro-cesso, dove vi era già una selezione dei fatti e degli

argomenti su cui accusa e difesa si erano confron-tati. Ho potuto così elaborare un’autonoma visione e quindi impostazione accusatoria della vicenda, senza essere condizionato – ad esempio – dalle vi-cende cautelari e dalle riflessioni e argomentazioni che lì erano state spese. Il processo Ioculano, in-fatti, è essenzialmente indiziario, manca cioè una prova diretta o immediatamente esplicativa della responsabilità del colpevole, questa deve, perciò, essere desunta da altri fatti che, combinati tra di loro, secondo un criterio logico-giuridico di rico-struzione storica della vicenda, offra al giudicante una tranquillizzante (“…oltre ogni ragionevole dub-bio…”) dimostrazione di colpevolezza dell’imputa-

e per l’esecutore dell’omicidio(il picciotto Rocco Pasqualo-ne).

Che i rapporti tra Ioculanoe Piromalli fossero antichi lospiega il nipote del medicoucciso, Vincenzo Frangella(medico anche lui), in una di-chiarazione agli inquirenti del29 settembre 2000: «I rapportitra mio zio e Giuseppe Piro-

4M O N I T O R

DOMENICA 22 aprile 2007 calabriaora

mafia&antimafia

La storiaErano tre amiciUno divenne un boss, l’altro

un fiancheggiatoreIl terzo

un uomo onesto

L’Afor riparteA sinistra, il bossPiromalli il giornodella cattura a GioiaTauro.Accanto glianimatoridell’associazioneAgorà, in cui sidistinse Gigi Ioculanoe, infine, a destra, ilmedico gioiese uccisodalla ‘ndrangheta il 25settembre 1998

Ioculano sfida la coscaE gli amici si fanno carneficiQuando il boss gli chiese: schierati con me. E lui disse di no

Questa è la storia di tre ami-ci e di due stili di vita. Tre ra-gazzi nati e cresciuti in unaterra difficile, dove comanda-no le ‘ndrine. E se non stai conloro, stai contro di loro. Peròquesta è una storia strana, cheper qualche decennio vira daquello che dovrebbe essere,per tutti, suo corso naturale.

I tre amici crescono: uno di-venta un boss, l’altro un fian-cheggiatore, il terzo un medi-co rispettato, che scrive paro-le colte e infuocate contro lamafia. E non riesce a tollerareche gli si dica pure per chi de-ve votare, e quello che deve enon deve fare.

Così finisce per comportar-si in un modo che non piacealla ‘ndrangheta. E si riunisceai suoi amici per l’ultima vol-ta. Quello che è diventato ilfiancheggiatore lo accompa-gna dal boss latitante, che innome della vecchia amiciziagli chiede di smetterla. Lui glimolla una rispostaccia da-vanti a un altro capomafia chesta lì per fare da “giudice”.Ma adesso i tre non sono piùragazzi. E a Gioia Tauro la di-sobbedienza e gli “sgarri” alclan si pagano col sangue.

Luigi Ioculano muore il 25settembre 1995, ucciso da unkiller per eseguire l’ordine diPino Piromalli, il suo amicod’infanzia diventato - per di-ritto di discendenza - il bossdella Piana. Aquasi dodici an-ni di distanza quella che erauna congettura da dimostrareè diventata verità processualeper una giuria di donne e diuomini della Piana. E’ succes-so a Gioia Tauro che un im-piegato amministrativo del-l’azienda ospedaliera (NicolaCallè) accompagnasse LuigiIoculano nel covo di Pino Pi-romalli per discutere di politi-ca e di onore.

E’ successo ed è tutto nerosu bianco, negli atti del pro-cesso che ha portato alla con-danna all’ergastolo per il boss

malli erano risalenti nel tem-po e praticamente da ricon-durre alla loro infanzia. Ov-viamente nel tempo i due eb-bero a prendere strade diver-se, ciò tuttavia non mise maiin discussione una famigliari-tà di colloqui tra i due rinsal-data peraltro dal fatto che Pi-romalli scelse di avvalersi del-l’attività professionale di miozio quale medico di famiglia».Il rapporto rischia di incrinar-si quando Ioculano intervienea un incontro pubblico inospedale criticando la struttu-ra. Nei posti più importanti,però, ci sono dei personaggiimparentati con la cosca re-gnante (un affresco non mol-to diverso da quello dipintodalla relazione Basilone sul-l’As di Locri). Uno di questinon la prende bene, chiude “ildottore” in una stanza e lo col-pisce pesantemente. Luigi Io-culano lo querela. E a quelpunto la famiglia cerca di in-

tervenire proponendo scusepubbliche per fermare la de-nuncia. Frangella spiega chelo zio non «avrebbe accettatomai tali scuse», perché «il cla-more suscitato dalla vicenda,la gravità del fatto e l’orgogliotestardo impedivano un acco-modamento in tal senso». Simette in mezzo anche il bosslatitante. Chiede di ritirare laquerela, ma quello non nevuole sapere: «Fidando sullavecchia conoscenza e facendoleva sul suo orgoglio - conti-nua Frangella - declinò la pro-posta». E’ il primo dei due“no” fatali a Ioculano. Il se-condo arriva qualche mesedopo, quando sono le sceltepolitiche a segnare una di-stanza. Piromalli non vede be-ne l’impegno politico del me-dico. Gli chiede di fare un pas-so indietro, candidarsi e accet-tare il sostegno della mala. E’ancora il nipote, in un’inter-cettazione ambientale a rac-

Il “no” di GigiQuesto discorso

della politicanon esiste, se no

tra me e tesi alza un muroalto due metri

contare la risposta: «Ebbe l’ar-dire di dirgli... non è vero que-sto discorso... altrimenti trame e te si alza un muro altodue metri».

E’ la risposta che trasformal’amico di un tempo in carne-fice.

(1 - continua)

COSENZA

il retroscena

«Dotto’, le faccio un regalo»Così scoprirono il covo del latitante

C’è un luogo cruciale nella storiadel processo sull’omicidio di LuigiIoculano. Quel luogo è il covo diGiuseppe Piromalli. Lì è avvenutol’incontro che ha sancito la condan-na del medico (come vi raccontia-mo nel pezzo di apertura). Lì è sta-to ritrovato uno dei tasselli fonda-mentali che ha consentito di legareil boss latitante all’esecutore mate-riale dell’omicidio, Rocco Pasqua-lone. Il libretto di lavoro ritrovatonel bunker è la prova che, ancheper Pasqualone, valeva la regolavigente per gli affiliati, che Piro-malli imponeva, con assunzioni fit-tizie, ai proprietari terrieri (nel ca-so del killer era per ricompensar-

lo). Una prova fondamentale, tro-vata nel luogo è cominciata la sto-ria di un processo che sembravadestinato a finire in nulla.

Dietro la storia del ritrovamentodel covo c’è un retroscena noto sol-tanto agli addetto al processo . Latelefonata di un uomo del clan ap-pena arrestato arriva al pm dellaDirezione distrettuale antimafia diReggio Alberto Cisterna: «Dottore,questa notte potrei farle un rega-lo». Gli attimi per decidere sonopochissimi. L’uomo viene preleva-to nella notte e trasportato sul po-sto. Il tempo stringe e il rischio cheil boss fiuti il pericolo è alto. L’in-tervento dei carabinieri scatta al-l’una. Una settantina di militarimettono a segno un colpo memo-

rabile. Non solo perché il capoclanviene assicurato alla giustizia, maanche perché dentro il covo c’è (ol-tre a una buona riserva di bottigliedi champagne) quel libretto del la-voro che chiarirà i rapporti tra idue esponenti della cosca Piromal-li condannato all’ergastolo per ildelitto Ioculano.

E’ Piromalli a capire come siamaturata la sua cattura. Lo dicechiaramente al colonnello (che poidiventerà generale, prima di mori-re prematuramente in un inciden-te) Gennaro Niglio mentre lo ac-compagnano in carcere: «Se le cosesono andate come dico io, io sta-notte entro in carcere mentre qual-cun altro esce».

p. p. p.

PABLO [email protected]

Rivederequella fase

storicaLa coraggiosa sentenza

emessa dalla Corte d’Assi-se di Palmi di condannaall’ergastolo del killer Pa-squalone e del mandante,il boss Piromalli, dell’effe-rato omicidio di Ioculano,dovrebbe fare riflettere se-riamente tutte le forze po-litiche, associazioni, ordiniprofessionali, soggetti eistituzioni varie che han-no avuto e hanno ruolo inquesta regione. La rifles-sione si impone per capiregli incomprensibili silenzi,assurde omissioni, inspie-gabili prese di distanze dauno degli omicidi più effe-rati. Colpevolmente la po-litica distratta non “capi-va” quanto avveniva perevitare i rischi incomben-ti per la vita di Ioculano. Epuò accadere che, a con-testare un termovaloriz-zatore o a battersi per lalegalità, si possa assurge-re o a simboli di una nobi-le battaglia o firmare l’at-to della propria morte.Calabria Ora, negli ampiservizi sull’argomentosferza, tra l’altro, l’assenzaal momento del verdetto,della grande stampa e dei“distratti soloni dell’anti-mafia di parata”. Sono ri-lievi pertinenti, ma occor-rerebbe soprattutto che leforze politiche rivisitino erileggano criticamenteuna fase della storia dellaCalabria per fare emerge-re le responsabilità dell’in-treccio politica-criminali-tà in una grande parte delterritorio della provinciareggina. bisogna rivisita-re quella fase anche percomprendere pienamentela motivazione data dal-l’ex sindaco di Gioia Tau-ro allorché, successiva-mente, scelse di abbando-nare il partito di prove-nienza passando ad altropartito asserendo che ciòavveniva per la sottovalu-tazione data alla battagliacontro la criminalità. Esarebbe di grande valoreche anche la Commissio-ne Antimafia vagliassecon rigore quella fase.

Demetrio Costantinopresidente Cids

l’intervento

COSENZA

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LUIGIIOCULANO

fare tutto il processo con quello che già c’era ag-giungendo una serie di elementi (rilevante, ad esempio, è stata la produzione del libretto di lavoro di Pasqualone, uno dei co-imputati, che era stato trovato nel bunker dove si rifugiava e dove poi era stato catturato Pino Piromalli, seguendo le indica-zioni di un collega della DNA che rammentava la presenza di tale documento in altro procedimento) e di argomenti che, modificando parzialmente la causale del fatto ed arricchendo il numero e la qua-lità delle prove, hanno tentato di dare una lettura innovativa della vicenda.

Perché, se l’omicidio avvenne nel ’98, il proces-so è iniziato nel 2003? Per questo tipo di reati ci sono specifici termini entro cui le indagini devono concludersi. Bisogna tenere conto che naturalmente il fascicolo, il pro-cedimento, nasce a carico di ignoti e i due anni di

convincente). E infatti, mi era stata segnalata una dichiarazione resa da un soggetto che ha caratte-ristiche processuali anomale: Cesare Dromì, che era un detenuto per reati anche gravi, anche per omicidio, che aveva iniziato un rapporto di colla-borazione con la giustizia. Era, per intenderci, tra i pentiti, anzi tra quelli che volevano iniziare un per-corso per essere qualificati così, un percorso che poi invece non si era concluso positivamente. In-fatti non è sufficiente che uno dica “io so dei fatti e voglio riferirli” perché diventi collaboratore di giu-stizia, c’è un percorso di valutazione della sua at-tendibilità in generale e dell’attendibilità specifica rispetto al suo narrato che consenta di qualificarlo come soggetto affidabile, in quanto tale ammesso al programma di protezione, garantito dalla legge.

Questo nel suo caso non è successo, a mio modesto giudizio anche a cagione delle sue specifiche ca-ratteristiche personali che si intrecciano con una tormentata storia familiare che ha coinvolto anche i figli minori. Ma Dromì aveva riferito dei dettagli importanti in relazione a questa vicenda, che non erano sin lì entrati nella valutazione processuale. Perciò, sono andato al carcere di Brescia dove era detenuto per sentirlo, per vedere se poteva dire o confermare alcune cose che aveva già detto prima ed eventualmente se quelle cose potevano essere approfondite perché erano cose riferite in un con-testo piuttosto generico. Sono riuscito a superare una sua iniziale ritrosia, l’ho convinto poi a venire anche qui a Palmi per essere sentito in dibattimen-to e lui ha reso delle dichiarazioni che si sono rive-late importanti per la prospettiva accusatoria. Quindi, concludendo, il mio contributo è stato in-tanto quello di sostenere l’accusa in giudizio, di

to. Garantendomi un approccio nuovo e personale alla vicenda, mi sono persuaso della insufficienza della causale proposta e della necessità di enfatiz-zare il progressivo isolamento in cui Ioculano è sta-to costretto anche da quelli che inizialmente erano i suoi sodali politici, quelli per cui lui si era speso. Ho, inoltre, individuato un altro elemento di prova - che sino ad allora non era stato mai valorizzato - che consentiva di ricollegare il Boss Pino Piromalli direttamente alla dinamica esecutiva dell’omici-dio. Poi ho avuto la possibilità di sviluppare quel-la che è un’eccezione procedurale: un’attività di indagine nel corso del processo (perché normal-mente le indagini si chiudono prima, quando si fa la richiesta di fare il processo nei confronti di un imputato, sulla base di un programma probatorio

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indagine durano fino a quando resta a carico di ignoti. Poi quando invece si individua, o si ritiene di avere individuato, il soggetto responsabile, il fasci-colo compie un ulteriore passaggio procedurale ed è iscritto a carico di noti, a carico delle persone che si ritengono responsabili. Da quel momento decor-rono altri due anni entro i quali le indagini devono essere completate. Questo in realtà non significa che il processo inizi immediatamente dopo i due anni, perché le indagini possono completarsi con l’acquisizione delle prove, ma la loro elaborazione potrebbe richiedere un po’ più di tempo e quindi questo può allungare ancora di più i termini.

É vero che poi l’Appello e gli eventuali gradi successivi non aprono altre indagini ma si basano su quelle effettuate per il processo di primo grado?Nel procedimento in Cassazione è sicuramente

così. Nel processo di Appello invece è possibile un riapertura dell’istruttoria (per raccogliere nuove prove), che - nel caso specifico del processo Iocula-no - è stata richiesta dalla difesa ed è stata negata per buona parte dalla Corte, a esclusione dell’ac-quisizione di alcuni documenti. Per parte dell’ac-cusa, la Corte ha acquisito l’ordinanza cautelare emessa nel procedimento “Cent’anni di Storia” il cui processo è in corso di celebrazione. Quell’ordi-nanza cautelare era rilevante, ai fini accusatori, atteso che in essa si evidenziava come il rapporto illegale e contaminante tra le cosche mafiose, di Pi-romalli in particolare, e il comune di Gioia Tauro, si fosse sviluppato, senza soluzione di continuità, dagli anni ottanta sino ai nostri giorni.

Come è possibile passare da un ergastolo dato in primo grado a un’assoluzione in Appello? Capisco che l’entità della pena sia un argomento

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suggestivo, forse ti avrebbe stupito di meno se a una condanna a un mese, oppure a mille euro di multa, fosse seguita l’assoluzione. In realtà, guar-dando alla vicenda nella “fisiologia” del processo, cioè nella sua normalità, queste situazioni sono del tutto omogenee e non vi è alcuna differenza. Questo è il nostro sistema processuale, che si svi-luppa per gradi e ha una speciale cura per i diritti dell’imputato. È il sistema di garanzie che discende direttamente dalla Costituzione, perché nel nostro paese si è responsabili di un fatto-reato soltanto quando questo accertamento si sviluppa in tre pos-sibili gradi di giudizio, ponendo innanzi a tre giudi-ci diversi -collegiali in questo caso- la valutazione di un fatto-reato. Nel caso del processo Ioculano, se il ricorso della Procura Generale fosse accolto non basterebbero neppure i tre gradi: la Cassazio-ne, infatti, annullerebbe la sentenza e rinvierebbe a un’altra sezione della Corte d’Appello di Reggio o alla Corte d’Appello di Messina, perché il proces-so di secondo grado riparta nuovamente. Pratica-mente in esito all’impugnazione della sentenza del-la Corte d’Appello che ha assolto gli imputati, se la Cassazione rigetta il ricorso Piromalli è definitiva-mente assolto dall’accusa di concorso in omicidio, mentre se accoglie il ricorso non può condannarli direttamente, ma deve limitarsi annullare la sen-tenza della Corte d’Appello di Reggio.

Non va direttamente a pronunciarsi?No, se pronuncia in maniera definitiva vuol dire che rigetta il nostro ricorso e conferma la sentenza precedente.

È vero che dobbiamo rispettare comunque le sentenze? E se ci deludessero?Le sentenze vanno rispettate nel senso che se ne riconosce l’ autorità. Ma questo non significa che

tutte le sentenze siano anche autorevoli; ogni sen-tenza deve meritarsi di esserlo. Potrebbe essere una decisione che non convince ed è giusto criti-carla, non esistono santuari in democrazia che dicono una parola, un verbo, e tutti quanti dicono “amen”. Bisogna comprendere che il giudice è un uomo che ha una qualità tecnica che gli consente di esprimere un giudizio, ma questo non basta a far-gli redigere sempre una buona sentenza. Su questo c’è stato un dibattito molto aperto e acceso anche all’interno della magistratura, dove si registrano sensibilità diverse. Non dobbiamo confondere il profilo dell’autorità con quello dell’autorevolezza. Il primo discende dal sistema e dal rispetto delle regole del sistema che è fondamentale, anzi è un prius, un postulato che garantisce e regolamenta la convivenza. Il secondo, invece, discende diretta-mente dalla qualità della decisione; non è, perciò, un requisito dato, ma un requisito che l’argomen-tare della decisione deve meritarsi. E ribadisco: l’argomentare della decisione, non i calzini indos-sati dal giudice che l’ha redatta, per rifarmi ad un esempio recente di critica astrusa a una sentenza. È legittimo criticare anche aspramente una sen-tenza affermando l’erroneità di un argomento, la sua insufficiente esplicazione, la sua contradditto-rietà con altri elementi pure acquisiti. Ma se l’at-tacco è alla persona del giudice, è evidente come non solo non si renda un servizio all’accertamento della verità, ma che inoltre il proposito sia quello di fare confusione, di sfuggire agli argomenti invece che affrontarli, screditando il sistema, anzi sfug-gendo alle sue regole.

Se ci mettiamo dalla parte dei familiari del dott. Ioculano, è una cosa molto triste pensare quanti anni stanno aspettando per avere giustizia… Hai ragione, ma secondo me loro ci possono inse-

LUIGIIOCULANO

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gnare molto, perché hanno avuto un atteggiamen-to, per tutto il processo - io li ho conosciuti in quella circostanza- di una straordinaria dignità … non di-rei soltanto coraggio, la dignità è quella capacità di dire le cose che è propria di chi non ha paura, non per spavalderia, ma perché sta nel giusto e non ri-tiene di dovere piegare la testa davanti a nessuno. È una libertà che viene dalla verità, dall’anelito di verità. Hanno aspettato, facendo valere i loro di-ritti con discrezione e senza clamori, rispettando tutte le decisioni; chiaramente anche loro avranno le loro opinioni su quello che è successo, ma le han-no sempre mantenute e sostenute con un atteggia-mento rispettoso delle attività di tutti, comprese le difese tecniche degli imputati. Un comportamento essenzialmente pervaso di questa dignità che è veramente la più bella eredità sociale che il dott. Ioculano abbia loro lasciato. A volte si dice che la qualità delle persone si vede quando non ci sono più, no? Io credo che le qualità di Ioculano si pos-sano apprezzare anche dal modo in cui hanno rea-gito i suoi familiari, nell’immediatezza e durante il processo. È il segno che ha lasciato veramente una grande eredità morale; è il segno che le cose che diceva le praticava, non erano slogan vuoti e i suoi familiari, che erano più vicini a lui, si sono imbevu-ti della sua dignità, della sua passione.

Perché la famiglia Ioculano ha lasciato Gioia Tauro? È stata minacciata? È scappata? Abbia-mo letto nel processo di un episodio successo alla figlia. Ha influito sulla scelta di trasferirsi a Roma? Non lo so, non ne ho parlato con loro, ma in tutta questa storia, per come io la interpreto, vi è una tragedia ulteriore e successiva alla morte del dott. Ioculano che ha reso senz’altro più penosa e insop-portabile la posizione dei suoi familiari. Credo, in-fatti, che il dott. Ioculano sia un personaggio che proprio in maniera tipica rappresenti l’archetipo del martire di ndrangheta. Innanzitutto, è stato un uomo vero di questa terra e che questa terra ha vissuto intensamente, con tutte le sue contraddi-zioni; cioè lui conosceva Piromalli, lo frequentava, aveva con lui un rapporto di amicizia che risaliva agli anni spensierati della giovinezza, come è ca-pitato a molti di noi reggini con i figli di ndranghe-tisti. Ma, per come è tipico di un uomo di questa terra, a un certo punto ha dovuto fare una scelta. Ed è stata una scelta insolita, per quello che sia-mo abituati a vedere, perché Ioculano ha vissuto il rapporto con Piromalli in termini autenticamente personali che andavano all’essenza delle loro per-sone, prescindendo dal fatto che quest’ultimo fosse un mafioso e che Ioculano era un medico. Quando però a un certo punto della loro relazione, la mafio-sità del suo interlocutore ha preteso di insinuarsi nel rapporto personale, Ioculano ha replicato, di-cendo sostanzialmente: “fermati, perché oltre non

ti faccio andare, c’è un limite rispetto alla tua vo-glia di sottomettermi e quindi di giocare con la mia dignità, di togliermi spazi di libertà personale. Io non ci sto”. Non siamo, purtroppo, abituati a questo tipo di relazione: uno dei problemi più gravi che ab-biamo, sta proprio nel fatto che gli ndranghetisti, invece, entrano agevolmente in relazione sociale con noi, senza incontrare resistenza, opposizione e perciò diventano nostri amici, o se non amici, diventano nostri vicini, stringiamo loro le mani, scambiamo con loro battute, li frequentiamo, ab-biamo relazioni che consentiranno loro a un certo momento, quando sarà loro necessario, di poterci chiedere qualcosa. E allora o avremo tutto il corag-gio e la coscienza della grandezza del dono della libertà e della dignità, come li ha avuti Ioculano, o soccomberemo, cedendone pezzo per pezzo, un poco alla volta, rinchiudendoci nelle nostre case, pieni di paura e privi di futuro.

Maria Ficara: io intanto ricordo ai ragazzi i pas-saggi del processo: il problema di ritirare la de-nuncia nei confronti del medico Tripodi che lo aveva assalito e la famosa “convocazione” nel covo di Piromalli, mentre questi era latitante, che gli chiede di non sostenere il sindaco che Io-culano appoggiava… Sì, addirittura Piromalli propose a Ioculano di candidarsi lui stesso, garantendogli l’elezione a sindaco, purché negasse ogni appoggio ad Alessio.

“gli ndranghetisti entrano agevolmente in rela-zione sociale con noi, senza incontrare resisten-za, opposizione, diventano nostri amici, ... strin-giamo loro le mani, scambiamo con loro battute, li frequentiamo, abbiamo relazioni che consenti-ranno loro a un certo momento, quando sarà loro necessario, di poterci chiedere qualcosa.”

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Ma neppure la blandizia, la tentazione della vanità e del potere, scalfirono Ioculano: la sua libertà di uomo e di cittadino, la sua dignità personale non avevano prezzo. E ribadisco quello che avviene nelle nostre relazioni sociali, di solito è proprio il contrario: l’arroganza mafiosa non incontra resi-stenze. In proposito, si afferma esattamente come la ndrangheta possa contare su due patrimoni forti che ne costituiscono i capisaldi: il primo è quello dei soldi - che non so se avete notato non sono mai investititi da queste parti perché hanno l’assoluta necessità di lasciarci poveri, servi e bisognosi; già solo per questo, una società che avesse un minimo di dignità, di coscienza e di consapevolezza si ri-bellerebbe – il secondo è quello delle relazioni per-sonali. E infatti, la capacità di costruirsi un saldo

e fitto reticolato di rapporti, non soltanto aiuta gli ndranghetisti a inserirsi di più e meglio nelle dina-miche sociali, politiche ed economici, ma fa sì che al momento del bisogno, loro abbiano tutta una se-rie di persone che, pur non essendo associati alla ndrangheta, se vi sarà un momento in cui bisogne-rà scegliere, staranno dalla loro parte.

Quindi sono le altre personeche li aiutano? Credo di sì. Quando, infatti, mi si chiede cosa può fare un giovane, un cittadino, per contrastare la ndrangheta, sposto il piano del confronto proprio su questo punto. Certo l’ideale sarebbe trovare

persone disponibili a denunciare fatti e persone, collaborando attivamente ed efficacemente con le istituzioni giudiziarie di polizia, però mi rendo conto che questa, al momento, non è una cosa che possiamo chiedere, perché purtroppo lo Stato non è in grado di garantire sicurezza. Ma c’è un altro piano dell’azione di contrasto che non richiede eroismi: io credo che ognuno dovrebbero chiedersi se non sia giunto il momento di dire “io, con te che sei mafioso, con te che sei colluso con la mafia, non voglio avere niente a che fare. Non ti permetterò di entrare in relazione sociale con me, ti considererò un nemico del mio futuro, del futuro della mia ter-ra”. Questo è quello che si può fare e questo è quello che Ioculano ha fatto e ci ha insegnato: lui è stato convocato dal capomafia e lo ha mandato a quel pa-

ese, gli ha detto: non puoi intrometterti nei miei spazi di libertà personale. È una reazione che, mi immagino, gli veniva dalla sua formazione cattoli-ca; cioè lui riconosceva la dignità, la libertà come doni di Dio e, proprio per questo, diceva: questa è la mia dignità, la mia libertà, tu qua dentro non ci entri nemmeno se viene chissà chi, è una cosa trop-po grande, un dono troppo personale ed essenziale su cui non sono disposto a fare alcun tipo di com-promesso. Letteralmente Ioculano dice a Piromalli: “se mi chiedi questo, vuol dire che tra noi si alza un muro, che abbiamo finito”. Questa è la prima cosa. La seconda è che è una vittima speciale, cioè un vero martire di mafia, perché a un certo punto

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capisce che l’antimafia delle etichette non va bene. Lui a un certo punto fa una scelta, si schiera aper-tamente per Alessio sindaco e con il gruppo politi-co che sosteneva gli Alessio in particolare, i fratelli Macino, per poi scoprire che in realtà neanche que-ste persone garantiscono o sono coerenti con quel-la tensione sociale che lo aveva indotto a schierar-si, ma che ora stavano tradendo, mentre lui voleva continuare ad affermare lo stesso principio. Infatti li ha accusati pubblicamente di essere, in realtà, un comitato, li definiva esattamente così: “un comita-to affaristico-mafioso”. Per questo per me Ioculano è un vero martire di mafia, perché non soltanto combatte la mafia, ma combatte anche l’antimafia

delle etichette … cioè si schiera completamente dalla parte di quelli che sembravano i buoni del-la situazione, ma quan-do scopre che non sono così buoni, non smette di combattere per affer-mare quei valori e dice ai suoi originari compagni di viaggio: “voi state tra-dendo il programma che io condividevo”.

Abbiamo discusso di questa parte, chiaman-dola vera libertà di pen-siero, per cui anche se si è scelto qualcosa, anche avendola difesa di fronte a una richiesta mafio-sa, poi non si segue quella bandiera per tutta la vita Dopo aver visto scelte politiche che riguar-davano un termovalorizzatore e altre cose, Iocu-lano cambia idea e critica apertamente le stesse persone che aveva sostenuto...Usando la terminologia biblica direi che questa è proprio la “parresia”, che in greco significa pro-prio il coraggio del libero parlare. Ioculano non ha nessuna etichetta, non ha interessi personali da tutelare, si riconosce, a un certo punto della sua esistenza, una missione che è la missione di fare verità e chiarezza in un determinato contesto e per farlo, per restare coerente alla sua missione, credo

abbia pensato che la vita valeva la pena di essere vissuta soltanto se la avesse vissuta intensamente e interamente, con integrità. Intendiamoci, questo non è scritto in nessun posto, è una mia interpre-tazione delle sue azioni, delle sue scelte. Ma cre-do fosse troppo intelligente per non capire che lo avevano progressivamente isolato, che diventava sempre di più un facile bersaglio, che sempre di meno erano i rischi (anche riguardo alle reazioni future) per chi progettava la sua morte; eppure non ha ceduto di un millimetro, è andato incontro al suo destino fieramente, liberamente.

Pensa che lui non aveva paura?

6M O N I T O R

SABATO 21 aprile 2007 calabriaora

L’Agorà: cultura e passione civile

Non cercate, negli scritti di Luigi Io-culano, l’antimafia dei megafoni. Pre-feriva gesti concreti e pesantissimi.Prendete “I cento passi”, spostatevida Cinisi a Gioia Tauro. Sostituite i Ba-dalamenti con i Piromalli. Certo, i per-sonaggi sono diversi. A Ioculanomancano i gesti gridati. Non urla alcielo il suo “no” alle logiche di CosaNostra. Non era un personaggio dafilm, Gigi Ioculano. Non è un martireda film. E, infatti, nei nove anni tra-scorsi dalla sua morte per mano del-le cosche della Piana,l’hanno ricordato inpochi. Siamo fatti co-sì, noi calabresi, piùattenti e legati ai mar-tiri degli altri che ainostri.

Eppure Ioculano,nella sua prosa (an-ch’essa understatement) parla di cosevicinissime a noi. Nel tempo e nellospazio. La metà degli anni ‘90, con lesue ansie, le sue speranze di libera-zione dal giogo mafioso, non è poi co-sì lontana. Non lo sono neppure i te-mi trattati, cristallizzati nella morsa incui la ‘ndrangheta stringe il territorio.La sanità e gli ospedali pubblici, gliappalti corrosi dalla malavita, le om-bre sul piano regolatore comunale.C’è tanto della Calabria dei giorni no-stri nelle denunce del “dottore”. Iltrait d’union è quel termovalorizza-tore che Ioculano ostacolò con tutte lesue forze. Dapprima insieme a unfronte piuttosto ampio, poi semprepiù solo. Questo scarto tra le battagliecondivise con quelli che consideravaamministratori degni per una terracosì difficile e la solitudine delle de-nunce degli ultimi giorni si vede tut-to nelle pagine dell’Agorà.

C’è il racconto della corsa in tipo-grafia per andare in stampa, carico diun entusiasmo chestride pesantementecon le riflessioni suuna città “bloccata”,la sua amata GioiaTauro che sembraaver deposto le armidavanti all’offensivadell’illegalità. In mez-zo, quasi quattro anni di speranze af-fidate a un foglio culturale che è an-che un’associazione, L’Agorà. La cul-tura per cominciare. Perché «abbiamoindividuato nella cultura una delle te-rapie più utili per combattere e guari-re la società gioiese dai malanni e daiveleni che l’appestano, convinti comeeravamo e come siamo che più l’uo-mo è istruito e colto, più sa servirsicon discernimento di tutto ciò che co-nosce, usandolo per il bene e per l’uo-mo, certamente non per il male e con-tro l’uomo». In queste parole c’è il ma-nifesto di una vita. In quei fogli c’ètutto l’impegno per vedere, finalmen-te, una città “normale” (in quante

campagne elettorali nostrane lo sen-tiamo ancora ripetere?).

Due giugno ‘94: «Era ora: finalmen-te l’ordine, la legalità e la loro applica-zione a Gioia Tauro - affermo compia-ciuto e soddisfatto, allorché... un tril-lo di telefono insistente, fastidioso equanto mai inopportuno interrompela conversazione: “Dottore, scusate-mi per l’ora, sto malissimo, ho biso-gno della vostra visita. E’ urgente”.Ripongo il ricevitore del telefono, ac-cendo la lampada posta sul comodi-no e guardo l’ora: sono le cinque delmattino. Rapidamente mi vesto, salgo

in auto e parto: co-mincia un’altra gior-nata di lavoro». C’ètutto Ioculano in que-ste frasi: l’impegno ci-vile e la passione peril lavoro. Tre dicem-bre ‘94, il commentoai risultati delle ele-

zioni amministrative della cittadina anoi geograficamente vicina: mentrenella prima fase i candidati più accre-ditati si sono attestati ciascuno sul20% circa dei voti, nella fase del bal-lottaggio tra i due candidati ha pre-valso il candidato dalla capacità indi-scutibile, ma che non sembra riscuo-tere molte simpatie dal punto di vistaumano per motivi che non sta a noianalizzare».

Tutto ruota attorno alla politica. Al-la sua capacità di illudere. E delude-re. Nove mesi prima di morire, l’ani-matore dell’Agorà racconta la sua de-lusione per il corso amministrativo aGioia. Le perplessità sulla composi-zione della commissione edilizia e sualcune scelte, come quella di privile-giare il completamento del lungoma-re alle altre urgenze cittadine. La rab-bia per la mancanza di legalità. I dub-bi sul «termodistruttore» (quello chela semantica politically correct di og-gi chiama «termovalorizzatore») e sui

silenzi di quel sinda-co Alessio su cui tan-to aveva investito:«Ci atterrisce l’idea didover continuare avivere in una cittànella quale a regnareè il disordine totale edove è legge l’inos-

servanza della stessa». Nove mesi do-po arriva la sentenza di morte dei Pi-romalli. Poi l’oblio nella memoria deicalabresi.

C’è martire e martire. Luigi Iocula-no è uno di quelli passati in punta dipiedi. Aveva coraggio. Tanto che ungiorno ricevette una telefonata con unconsiglio interessato. Quello di farsigli affari suoi, di non rompere più lescatole. Disse di no, e pago quel “no”con la vita.

Ieri la Corte d’assise di Palmi hastabilito che su quell’omicidio c’è lafirma della ‘ndrangheta. Cerchiamodi non dimenticarlo.

Pablo Petrasso

COSENZA

La paraboladi un uomocoraggioso

un martire calabrese

«Ci atterriscel’idea di

vivere in una cittàdove regna il

disordine totale»

La battagliacontro il termodistruttoree l’illegalitàelevata a modello

Il messaggioCiao Gigi, ci hanno privato di teall’improvviso. Hai lasciato in tutti noiun vuoto incolmabile, ma ci rimangono

i tuoi insegnamenti dei quali cercheremo diessere fedeli custodi: le grandi battaglie civili,il desiderio di cambiare la città, la speranzadi dare alla comunità qualcosa di diverso epiù bello, i progetti, simbolo e punto diriferimento di una Gioia Tauro nuova,civile,“normale”. Per te, purtroppo,tutto ciò è rimasto solo un sogno

La speranza...Abbiamo assoluto bisogno di ordine,sentiamo inderogabile la necessitàdell’affermazione delle regole, siamo

fortemente bisognosi di normalità,avvertiamo ardente il bisogno di trovarci tragioiesi che si possono sentire orgogliosidi dirsi tali, tra gioiesi ricchi di sensocivico e senso di appartenenza

Luigi Ioculano

I cento passi di Ioculanoper chiacchierare e discet-

tare su quel che non conosco-no. Perché l’assassinio barba-ro di Gigi Ioculano non hamai fatto notizia in Calabria.Eppure la vittima aveva unpercorso chiaro, un impegnosociale robusto, una militanzaantimafia costante e corag-giosa. Era il Peppino Impa-stato della Calabria, ma tan-t’è: anche per capire chi e per-ché aveva ucciso Impastatosono serviti quasi trent’anni.

Ioculano era un medico edun filantropo. Era un finescrittore innamorato dellasua terra ed un ecologista in-transigente. Era uomo dallaschiena dritta in una realtàdove vale il motto che “chi stri-scia non inciampa”.

Tutte cose che diventa diffi-cile fare quando vivi nel regnodei Piromalli.

Ed infatti ha pagato con lavita la sua solitaria battagliadi civiltà e la sua testimonian-za di operosa resistenza aldettato delle cosche mafiose.

Un omicidio di mafia, dun-que.

Un omicidio di alta mafia,aggiungiamo noi, perché de-

stinato ad eternare il poteresul territorio di una cosca ege-mone e non nuova a delitti dalchiaro simbolo “istituzionale”.

Ma anche un omicidio di-menticato, sottovalutato, la-sciato sulle spalle di qualchemagistrato inquirente cocciu-to oltre ogni limite e di una fa-miglia sradicata e costretta alasciare la Calabria. Una fa-miglia ridotta in solitudine,dimenticata dalle associazionie dalle istituzioni. Tenuta in-sieme da una Madre che mi-schia dignità e coraggio e dalgiudice si presenta, dopo avermesso in salvo i suoi figli, conparole semplici: “Mio maritonon l’ho tradito in vita e non

intendo tradirlo da morto.Quello che so lo riferisco tut-to”.

E quello che sa è terribile.Sa dei “Cento passi” che divi-devano Gigi Ioculano da Pep-pino Piromalli, nipote omoni-mo del patriarca della ‘ndran-gheta calabrese. Sa che eranostati anche compagni di scuo-la ma questo non impedì alboss di far prelevare Gigi daun medico suo amico e farloportare al suo cospetto, men-tre stava alla latitanza. Gliconcede un’ultima chance, unultima occasione di piegare laschiena e baciare l’anello: deltermovalorizzatore non deveparlarne più. Ma Gigi Iocula-no non si piega e continua ascrivere e denunciare. Fino al-la mattina di quel tragico 25settembre 1998, quando vieneattirato fuori dal suo studiomedico e massacrato davantial portone di casa.

P.S. Il Comune di GioiaTauro si è costituito parte civi-le. La Regione Calabria non loha fatto: all’epoca si era di-stratta.

La sentenzaImputati Decisione

Giuseppe Piromalli ergastolo ergastoloRocco Pasqualone ergastolo ergastoloDomenico Molè ergastolo assoltoConsolato Caccamo ergastolo assolto

Richiesta pm

> dalla prima

PAOLO [email protected]

VITTIMA DI MAFIAGigi Ioculano, nato aSeminara il 27 aprile 1941

L’ex Upim, dove il medicofu ucciso nel 1998

Aldo Alessio ebbe unrapporto stretto con GigiIoculano

Giuseppe Piromalli

“...Ioculano è un vero martire di mafia, perché non soltanto combatte la mafia, ma combatte anche l’antimafia delle etichette … cioè si schiera completamente dalla parte di quelli che sembravano i buoni della situazione, ma quando scopre che non sono così buoni, non smette di combattere per affermare quei valori e dice ai suoi originari compagni di viaggio: voi state tradendo il programma che io condividevo”

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Io credo che la paura sia una buona componente emozionale che è molto utile, nella misura in cui ti garantisce una certa lucidità. Il punto non è ave-re o non avere paura; solo i pazzi non ne hanno; il punto è farsi bloccare, rinchiudere dalla paura oppure fare delle scelte forti, nonostante la paura; Ioculano le ha fatte. Poi, vi sono aspetti speciali del suo martirio anche post-mortem che lo fa autenti-ca icona del martire di ndrangheta. Dopo quel bar-baro assassinio e le chiarissime implicazioni politi-che e di gestione di potere che vi erano coinvolte, l’anno seguente il comune di Gioia Tauro, in occa-sione dell’anniversario della sua morte, organizzò un mega concerto al porto di Gioia Tauro; cioè una cosa che, sostanzialmente, distraeva l’opinione pubblica dal ricordo di quello che era accaduto a Ioculano, per concentrarla su altro e ogni anno, ne-gli anni successivi, c’è sempre stata, in occasione dell’anniversario della sua morte, l’organizzazio-ne di qualche manifestazione che attraeva su di sé l’attenzione, distraendo l’opinione pubblica dal ricordo di Ioculano. Questo è proprio un classico at-teggiamento della ndrangheta e insieme l’emblema della nostra incapacità, come gente di Reggio e del-la sua provincia, di riconoscere le figure di qualità che abbiamo e di prenderle a modello. Anch’io che sono nato e cresciuto a Reggio, prima di leggere le carte processuali non sapevo niente di Luigi Iocu-lano, ho scoperto questo personaggio straordina-rio, leggendo le carte… e io sono del settore. Pen-sate quanto sono stati efficaci gli stratagemmi, in questa capacità di annullare la memoria collettiva di un uomo scomodo, scomodo sia per la mafia, sia

per l’anti-mafia di etichetta. Bisogna ricordare che Ioculano sia era fatto nemico anche dell’anti-mafia di etichetta; e allora chi aveva interesse a ricordar-lo? Soltanto la gente perbene; già ma dov’è la gente perbene, qual è la sua voglia di esporsi?

Ma secondo lei il suo sacrificio è servito?Dopo averlo conosciuto processualmente, mi sono imposto che chiunque mi avesse chiesto di anda-re a parlare del dott. Ioculano in qualsiasi posto, in qualsiasi momento, io ci sarei andato, perché è incredibile che di quest’uomo non si parli. È vera-mente incredibile. Per questo motivo sono andato a fare il processo anche in Appello, ho collaborato poi alla stesura del ricorso in Cassazione. Capisco che c’è chi dice che è sbagliato personalizzare troppo i processi, ma io, oltre al fatto puramente professio-nale, provo qualcosa di più, che deriva proprio dal fatto che da reggino mi sento in debito con lui. Mi piacerebbe che questo senso di riconoscenza fosse diffuso. Ma questo dipende da ciascuno noi. Sare-mo noi con i nostri comportamenti, le nostre scelte a dire se ne è valsa la pena. Certamente, Ioculano ci ha tolto un alibi, con il quale spesso ci puliamo la coscienza: non si può fare niente. Lui non era un personaggio speciale, un eroe senza macchia e senza paura; era una persona normale, aveva i suoi affetti, un lavoro che gli consentiva di vivere agiatamente e gli dava soddisfazioni professionali, amicizie ed interessi mondani. Non era diverso da molti di noi; ebbene ci ha insegnato che qualcosa si può fare, che non siamo destinati a chiuderci nelle nostre case, sopraffatti dalla paura, ci ha insegna-to che non possiamo svendere la nostra libertà, la nostra dignità. E ogni giorno, con il suo esempio, ci interroga, chiedendoci se valga la pena andare avanti rassegnati, umiliati ed offesi dalla sopraffa-zione della ndrangheta o se non sia giunto il tempo di rialzare la testa e dire: ora basta!!!

Quali sono le vicende oggi degli imputati? Piromalli è in carcere perché ha una sentenza de-finitiva per associazione a delinquere di stampo mafioso nel processo Porto e ha l’ordinanza di cu-stodia cautelare per Cent’anni di Storia. Molè ha una valanga di definitivi che lo faranno riflettere a lungo, Pasqualone ha un definitivo adesso per associazione a delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti… Caccamo credo sia libero.

Quindi questa sentenza poco incide, dati i loro altri crimini? No, questa sentenza è una sentenza importante se-condo me, a parte che era il primo ergastolo che prendeva Pino Piromalli e questo non è un dato secondario. La condanna per il processo Porto è una condanna minore, otto-dieci anni. Sarebbe una sentenza importante perché potrebbe cogliere que-sti profili che vi ho descritto, che sono importanti

“Il punto non è avere o non ave-re paura; solo i pazzi non ne hanno; il punto è farsi bloccare, rinchiudere dal-la paura oppure fare delle scelte forti, nonostante la paura”

LUIGIIOCULANO

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al di là della storia di Luigi Ioculano. Attraverso questi profili si entra nella comprensione di alcuni meccanismi tipici della ndrangheta e una sentenza potrebbe aiutare a capire che non ci sono santuari, che bisogna andare a guardare dappertutto, che non si può fare i professionisti dell’antimafia di fac-ciata e lucrarne.

Maria Ficara(ai ragazzi): quest’espressione fa riferimento a un articolo di Sciascia del 1987. ...tra l’altro sbagliato nel merito, ma grandemente profetico come è proprio dei grandi uomini. Scia-scia si riferiva praticamente al fatto che Borsellino era stato nominato procuratore, mi pare di Mar-sala, comunque avesse avuto un ruolo un incarico direttivo dal CSM in un tempo in cui l’anzianità in magistratura era un criterio importante. Il CSM in quel caso invece aveva privilegiato le qualità pro-fessionali di Borsellino, facendogli superare così un altro candidato che, tra l’altro, Sciascia cono-sceva e stimava molto. Allora lo scrittore poneva la questione dei cosiddetti “professionisti dell’anti-mafia”, di coloro, cioè, che si costruiscono una car-riera sull’antimafia. I fatti hanno dimostrato che il caso specifico che lo aveva indotto a quelle conside-razioni non le meritava, però forse, siccome lui era una persona di una lucidità straordinaria, aveva colto un problema che successivamente sarebbe stato un problema vero della nostra società.

Maria Ficara: torno a quello che diceva prima, parlando del contesto di Gioia Tauro. Oggi ci sono altre strategie con cui si cambiano alleanze...Mi riferivo prima all’ordinanza “Cent’anni di Sto-ria”, che prende il nome proprio dalla centenaria alleanza tra le cosche dominanti della piana di Gioia Tauro, tra le famiglie dei Piromalli e quelle dei Molè, legati tra di loro anche da vari rapporti di parentela, nell’ambito della quale certamente i Piromalli erano - vado semplificando - la testa pen-sante e i Molè erano i trucidi assassini. La sostanza delle cose era che ognuno aveva bisogno dell’altro, al di là di quanto si volessero bene e stessero bene insieme, perché i Piromalli continuavano a volere mantenere il controllo, il comando di tutta una se-rie di delicate operazioni e i Molè, a loro volta, ave-vano bisogno di qualcuno su cui fare affidamento, riconoscendosi una minore qualità criminale, dal punto di vista della raffinatezza, necessaria per entrare in sinergia con il mondo politico, economi-co, imprenditoriale, essendo invece bravissimi ad ammazzare chiunque. Non che i Piromalli siano scarsi da questo punto di vista, non mi ricordo se il papà o il nonno di Pino Piromalli fece ammazzare uno e lo diede da mangiare ai porci perché scompa-risse - questo per dire la “qualità” delle persone di cui stiamo parlando o l’ambiente in cui è cresciu-to Peppino Piromalli… È accaduto che l’avvio delle attività del porto di Gioia Tauro - non a caso nel

processo Porto si accerta essere stato un avvio che geneticamente nasce con l’imprimatur della mafia e dei Piromalli in particolare - ha fatto sì che qui, tra armi e droga, arrivi di tutto. Tra noi di Palmi e la DDA di Reggio, in poco più di un mese, abbiamo sequestrato tra i 500 e i 600 kg di cocaina. Però, ammesso che siamo stati bravissimi, possiamo ot-timisticamente ipotizzare di essere riusciti a se-questrare circa la metà dei carichi arrivati in quel periodo; sicché si può stimare che da Gioia Tauro passino mensilmente tra i 1000-1500 kg di cocai-na. Poi, al Porto di Gioia Tauro entrano armi e al-tro, e questa è l’ordinanza cautelare “Maestro”, a cui ha collaborato anche la procura di Palmi, che dimostra anche l’intervento della ndrangheta nel settore del traffico di merci contraffatte e di con-trabbando. Parliamo di settori criminali che fanno girare una quantità enorme di soldi. In questo con-testo, però, sono cominciate alcune frizioni tra le famiglie Piromalli e Molè, alcune pare determinate anche dagli esiti del primo grado del processo Iocu-lano, perché Piromalli è stato condannato e Molè è stato assolto. Si dice che, invece, sostanzialmente era proprio Molè a pressare perché Ioculano fosse

“non mi ricordo se il papà o il nonno di Pino Piromalli fece ammazzare uno e lo diede da mangiare ai porci perché scomparisse - questo per dire la “qualità” delle persone di cui stiamo parlando o l’ambiente in cui è cresciuto Peppino Piromalli…”

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8D A L P O L L I N O A L L O S T R E T T O

LUNEDÌ 23 aprile 2007 calabriaora

Le elezioni e gli interessi del clan

E’ per lo meno curioso che un exesponente del clan Piromalli sappiatutto del clima elettorale a Gioia Tau-ro. O forse no, pensandoci bene. Per-ché nelle terre più disgraziate è la po-litica a muovere tutto. E la mafia, chesa fare bene il suo mestiere, chiedesenza troppo farsi notare di muoverele file degli affari più grossi. Quelli cheai tempi della lira avevano le cifre anove zeri, e passavano per forza (acca-de sempre, specie nelle terre più di-sgraziate) per le stanze della politica.

L’attenzione dellacosca Piromalli sullacompetizione eletto-rale che vedeva - nel1997 - lo scontro traAldo Alessio (per ilcentrosinistra) e Giu-seppe Luppino (cen-trodestra) è totale. Inballo ci sono troppi interessi e quelliche danno fastidio, come Luigi Iocula-no, non sono tollerati. Una nota dellaSquadra mobile di Gioia riassume inpoche righe il contesto: «Quindi unprimo “segnale” di cosa veramentefosse successo, così grave da determi-nare la condanna a morte del dottorIoculano (...)» è «il controllo della vitapolitica e amministrativa della città diGioia Tauro in una fase in cui lo svi-luppo del porto apre scenari fino aqualche tempo fa inimmaginabili».

Gli affari, dunque. Quelli che ogni‘ndrina che si rispetti tiene in grandeconsiderazione. Quelli che, nella Pia-na di Gioia, si sintetizzano in pocheparole di un glossario fatto di appaltimiliardari: il porto, il termodistruttore(che oggi chiamiamo termovalorizza-tore, perché fa più trendy), il rigassifi-catore. Un vocabolario immutabile, ie-ri come oggi. Sullo sfondo c’è uno sce-nario politico sul quale gravano om-bre pesantissime.

Dare un’occhiata aiverbali dell’interroga-torio di Salvatore Ger-manò, collaboratoredi giustizia ed ex affi-liato al clan Piromalli,può essere illuminan-te. Il pentito racconta,con perizia da croni-sta di politica: «Mi consta che Iocula-no, il quale oltre a essere un noto me-dico era anche attivamente impegna-to in politica, appoggiasse la lista del-l’Alessio, ossia il Partito democraticodi sinistra. Ciò mi risulta perchè - se-guendo da vicino per come dirò – leiniziative politiche dell’avvocato Lup-pino Giuseppe, esponente in GioiaTauro del centrodestra – mai avevoavuto modi vedere coinvolto in taliiniziative il dottor Ioculano. PeraltroLuigi Sorridenti mi aveva riferito chelo Ioculano era su posizioni politichediverse da quelle che la cosca Piromal-li Molè appoggiava».

Ma perché un pentito ne sa tanto?Semplice, perché «Luigi Sorridenti(cugino dell’avvocato Luppino) mi

aveva chiesto di seguire da vicino co-stui nelle sue iniziative politiche al fi-ne di fornirgli un appoggio sia in ter-mini di voti che di assistenza in gene-rale per ogni sua necessità. (...) Cura-vo io personalmente di aprire l’ufficiopresso cui il Luppino aveva posto lasua segreteria». E «l’avvocato Luppi-no era perfettamente consapevole delruolo mio e, soprattutto, di Luigi Sor-ridenti nella famiglia Piromalli, nelsenso che gli era noto che io mi trova-vo lì in ragione del fatto che ero statomandato esplicitamente dal Sorriden-ti per fornirgli l’appoggio che ho det-

to». Nelle dichiarazio-ni rese al pubblico mi-nistero Alberto Cister-na, che seguì la primafase delle indagini suldelitto Ioculano arri-vando al rinvio a giu-dizio per i quattro in-dagati (due dei quali,

Pino Piromalli e Rocco Pasqualone,condannati all’ergastolo) l’analisi diGermanò si spinge fin quasi nelle se-zioni: «Mi attivai per cercare dei votiche effettivamente raccolsi in favoredell’avvocato Luppino, che comun-que non venne eletto. In particolarmodo come temevano la zona marinadi Gioia Tauro fu appannaggio del-l’Alessio e anche in contrada Mona-celli le cose non andarono come previ-sto. In quel frangente nonostante le ri-chieste di voto che provenivano dallafamiglia Piromalli - Molè e le assicura-zioni verbali che la gente ci forniva cir-ca la promessa di voti, di fatto le coseandarono diversamente».

Il panorama si allarga anche ad al-tri presunti appartenenti alla cosca. Espunta, nelle parole di Germanò, unaltro legame con l’omicidio di Gigi Io-culano. C’è, nel racconto, il riferimen-to a uno degli imputati nel processoche si è chiuso a Palmi nei giorni scor-si (che è stato assolto), Consolato Cac-

camo: «Conosco siaPaolo che ConsolatoCaccamo, essendouno dei due il futurosuocero di DomenicoStanganelli, nipoteprediletto di MommoMolè. Anche costoroera impegnati nella

competizione elettorale di cui ho det-to sostenendo il Luppino».

Ma c’è di più. Perché nell’ultima fa-se del racconto, l’uomo fa riferimentoa una svolta inaspettata: «Nel corsodella seconda tornata elettorale per lascelta del sindaco la famiglia Piromal-li arrivò divisa, nel senso che alcuniappoggiavano Cento e Luppino ed al-tri, invece, appoggiavano Alessio. Ciòmi venne detto da Luigi Sorridenti chemi confermò che parti della “fami-glia” avevano dato appoggio al sinda-co uscente». Le ombre si allargano e lalettura dell’isolamento di Luigi Iocula-no diventa ancora più inquietante.

(2 - continua)

COSENZA

La politicaal tempodei Piromalli

Il pentito«Lavoravamo

tutti perindirizzare

il voto a Gioia»

Gli investigatori«La morte di Ioculanolegata agli affariper il porto»

«I responsabili morali»«Mi intendano bene le si-

gnorie loro quando io affer-mo che stimo responsabilimorali della morte di miomarito Alessio (ex sindacoantimafia di Gioia Tauro,ndr) e Macino, ossia coloro iquali - dopo averlo coinvoltonelle loro iniziative che Luigiriteneva di dover condivide-re perché affini alle sue con-vinzioni - lo hanno, di fatto,inesorabilmente isolato in-nanzi ai suoi assassini. Affer-mo che mio marito è mortoperché è stato lasciato solo edè in ragione di questa solitu-dine che, dopo la sua morte,mi sono sempre rifiutata diincontrare quanti avrebberodovuto sostenerlo e quindiproteggerlo, così come hosempre rifiutato di prendereparte, unitamente alle mie fi-glie, ad ogni pubblica mani-festazione di commemora-zione». Le parole di RosariaMuratori, moglie di Luigi Io-culano, pesano come maci-gni sulla politica gioiese, an-che quella che si è sempre di-stinta per l’etichetta antima-

fia. Pesa la sua assenza dalla

scena locale - sua e delle suefiglie - per rimarcare una di-stanza da quelle istituzioniche avevano abbandonatosuo marito, lasciato da solo acombattere una battaglia im-possibile contro la ‘ndran-gheta.

Conta il suo esempio - suoe delle sue figlie - nella ricer-ca di una verità difficile dadimostrare e raccontare. Ro-saria Muratori ha raccontatotutto, senza paura, agli in-quirenti. Ricordano gli inve-stigatori che si sono compor-tati «come una famiglia pie-montese». Nessuna remora,segno che “il dottore” avevaseminato bene. Ma, quandoil senso civico si scontra conle logiche della politica, spes-so succede che l’unica stradapercorribile sia quella che

porta fuori dalla Calabria.Così Rosaria Muratori ha de-ciso di abbandonare la Pianae trasferirsi altrove. La fami-glia si è costituita parte civi-le e la Regione no. Un po’perché il processo è comin-ciato prima della “svolta” se-gnata dalla giunta Loiero. Unpo’ perché questa storia deldelitto Ioculano non se l’è fi-lata nessuno per un pezzo.Ha rischiato di essere relega-ta in quello spazio della me-moria che nessuno consultamai.

E’ anche per questo unastoria di straordinaria testar-daggine calabrese. Un po’ dipersone si sono incaponite.Alberto Cisterna, il magistra-to della Dda di Reggio che hachiesto più volte l’applica-zione delle misure cautelariper quelli che, anni dopo, sa-ranno riconosciuti colpevoli.Stefano Musolino, il pm cheha preso in mano il processoquando nessuno sembravacrederci più. Rosaria Mura-tori, che ci ha creduto senzapaura. Se cercate i nomi dei“buoni”, in questa storia, so-no tutti qui. (ppp)

l’accusa

ioculano, martire calabrese

PABLO [email protected]

DELITTO IOCULANO Il tribunale di Palmi

La moglie diIoculano

punta il ditocontro la politica

gioiese

Veneto:«Una nuova classe dirigente»L’europarlamentare pensa a un ciclo di seminari per valorizzare i giovani

Un ciclo di seminari di studio al termine delquale 50 giovani calabresi potranno usufruire diborse di studio per potere studiare all’estero. E’l’ambizioso progetto messo in piedi dalla fonda-zione “Armando e Anna Maria Veneto” in colla-borazione con “Italia domani”.

E’ lo stesso Veneto a spiegare in un incontrocon la stampa il programma dei lavori che, vener-dì prossimo, per un intero giorno porterà a Pal-mi giornalisti, professori universitari e impren-ditori per confrontarsi con giovani universitari elaureati provenienti da tutta la Calabria. «Il pro-getto – ha spiegato Veneto – nasce da un’idea co-mune con la fondazione “Italia domani” di Ma-rio Caligiuri. Siamo convinti che ci sia un difettodi operatività di una classe politica e burocratica,

non adeguata ai tempi. Ormai serve una prepa-razione interdisciplinare e tecnicamente perafet-ta». Una situazione con cui l’europarlamentare siconfronta quasi quotidianamente al Parlamentoeuropeo, dove «vedo tanti giovani che parlanoalmeno tre lingue e hanno una preparazione dialto profilo».

E proprio questo è il fine ultimo del ciclo di se-minari proposto dalla fondazione. «Vorremmodare la possibilità a 50 giovani calabresi – ha con-cluso l’ex sottosegretario – di confrontarsi con va-lidi professionisti, capire quali siano le possibili-tà che l’Europa dà loro. Per questo sono previste50 borse di studio che non saranno un premio,ma un investimento per la nostra Regione». Col-laborano al progetto, il gruppo Ppe del Parlamen-to europeo, l’Università della Calabria e l’Univer-sità Mediterranea.

PALMI

COSENZA

ucciso, mentre Piromalli fino all’ultimo aveva pro-vato a evitare che questo accadesse, anche se poi quanto meno non l’aveva più ostacolato. Io credo che questa sia una scusa, la base delle divergenze era un po’ più seria. Ora, in esito a questa frizio-ne, si è sviluppata una faida tra le due famiglie. Se avessero detto che ci sarebbe stata una guerra di mafia tra i Piromalli e i Molè, i gioiesi si sarebbe-ro chiusi in casa con i sacchi di sabbia alle porte per uscire solo alla fine della contesa, invece, a di-mostrazione di una inquietante ma straordinaria -perché va riconosciuta pure- qualità criminale, i Piromalli hanno fatto una guerra di mafia ammaz-

zando cinque persone in tutto. Si sono alleati con gli Alvaro di Sinopoli, che sono l’alter-ego dei Molè in quanto a capacità di sterminio e violenza, inoltre gli Alvaro non hanno guerre di mafia e non subisco-no attività giudiziarie da tempo, quindi sono tan-tissimi. Questo ha fatto sì che ammazzando poche persone, tra cui Rocco Molè, Princi e qualcun’al-tro che stava una attimo alzando la testa, hanno risolto la partita a loro favore. Diciamo subito che se ammazzi Rocco Molè a cento metri da casa sua alle 11.30, in pieno centro di Gioia Tauro, è perché ognuno deve capire, se Princi, che lo puoi eliminare in tutti i modi, lo fai saltare con la macchina, vuol dire che stai mandando dei chiari messaggi che vanno aldilà del singolo episodio e che sono stati effettivamente colti dai destinatari.

Prof. Barone: Anch’io ho una domanda: se si trattassero i mafiosi alla stessa stregua dei ter-roristi, lei pensa che questo problema si potreb-be estirpare?Non è possibile adottare le stesse strategie. Intanto per un fatto sociale e culturale, perché la mafia è assolutamente omogenea e intersecata al sistema di potere politico ed economico, mentre il terrori-smo era antagonista a quel sistema. Per aderire al brigatismo ci voleva un approccio ideologico: do-vevi fare un passaggio interiore forte, convincerti che c’era un’ingiustizia sociale imperante o che, nella logica del terrorismo religioso, c’è una socie-tà che va in un altro modo e un Dio che reclama che le cose cambino. Una cosa che voi ragazzi do-vreste mettervi bene in testa è che la ndrangheta, proprio strategicamente, tiene questa terra nella povertà. Nel processo Cent’anni di storia, i Piro-malli praticamente delegavano un loro faccendie-re a contrattare con i capi di stato di alcuni pae-si dell’america latina, per vedere chi gli offriva le migliori condizioni per impiantare un’industria di farmaci. Questo sempre nella logica che vuole zero investimenti nella nostra terra; ci lasciano nel bi-sogno, proprio perché così siamo più facilmente servili e siamo disposti a venderci la dignità per un piatto di lenticchie. In qualsiasi posto serio, la gen-te per bene andrebbe nelle piazze e indicherebbe gli ndranghetisti come nemici. Si tratta di un in-teresse prioritario che dovrebbe essere nostro che non possiamo delegare alla politica o a chicchessia. Ripeto, siccome sono di qua, ho vissuto queste cose, vogliamo iniziare quanto meno a metterli da parte, dico a non trattarli alla stregua di gente normale? Possiamo cominciare a non relazionarci con loro, a emarginarli? Un posto che si vuole liberare di una cosa apre quella che si chiama ‘la dinamica del nemico’, li riconosce come nemici. Noi dobbiamo fare questo, se pensiamo invece che è gente che in qualche maniera ci può essere utile e ci manca la percezione del nemico, faremo fatica a fare parti-

LUIGIIOCULANO

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re percorsi di liberazione. Io col mio nemico non ci voglio avere a che fare. Questo consentirebbe di far partire un rinnovamento sociale che al momento non c’è; anzi vige l’imperativo opposto: la totale in-tegrazione che è la fine delle prospettive di futuro per noi e la nostra bella terra.

E adesso vi porto a vedere le aule in cui si tengono i processi.

7M O N I T O R

SABATO 21 aprile 2007 calabriaora

La Corte d’assise: «Piromalli e Pasqualone colpevoli dell’omicidio»Delitto Ioculano, due ergastoli

Quattro colpiper una spietataesecuzione

Erano le 7.10 di mattinadel 25 settembre 1998 quan-do un killer, che la Corte haidentificato in Rocco Pa-squalone, uccise Luigi Iocu-lano con quattro colpi di pi-stola calibro 38: i primi dueal torace, gli altri due alla te-sta. Il dottore gioese stavauscendo dal suo studio chesi trovava al piano terra delpalazzo in cui viveva, nelcentro di Gioia. Fu freddatocon in mano una busta di fa-giolini, regalo di Angelo So-fo, colono della famiglia Pi-romalli e marito di Antoni-na Cambareri, donna dellepulizie della famiglia Iocula-no. Un particolare, quellodei fagiolini, nel quale il pmStefano Musolino ha rinve-nuto il mezzo attraverso ilquale il medico fu spinto aduscire dal suo studio e anda-re incontro alla morte. Per ilpm, infatti, la sera prima del-l’omicidio Sofo accompagnala moglie nello studio deldottore, dove la donna do-veva fare le pulizie. Il colonoporta con sé una busta con ilegumi, di cui Ioculano eraghiotto. La cosa strana è che,nonostante la confidenzache Sofo e Cambareri hannola famiglia del medico – hadetto il magistrato - lascianola busta con i fagiolini nel-l’ambulatorio. La mattinadell’omicidio, ha raccontatoMusolino – «Sofo si presen-ta di buon’ora all’ambulato-rio e insiste per farsi riceve-re per primo». Dalle rico-struzioni operate dalle forzedell’ordine, il colono si sa-rebbe recato all’ambulatorioper farsi firmare una ricettaper una parente di Piromal-li: quella per il pm è la firmadell’omicidio. «Sofo ha rac-contato – ha aggiunto il pm– che Ioculano sarebbe usci-to dallo studio per tornare acasa per prendere gli occhia-li, senza i quali, dice l’agri-coltore, non avrebbe potutofirmare la ricetta. Ma il me-dico da quanto ci risulta ave-va già lavorato al computerquella mattina senza i suoiocchiali, non mi convinceche sia tornato a prenderlisolo per una firma». Dalladinamica dell’omicidio si sache il killer che ha ucciso ildottore era fuori allo studioad aspettarlo, sapeva cioèche il dottore sarebbe uscitoda quella porta a quell’ora.«Sofo – ha concluso il suo in-tervento il pm – è stato man-dato lì da Piromalli e quellaricetta è la firma dell’omici-dio». (fa)

C’è la firma della ‘ndrangheta diGioia Tauro sull’omicidio di Luigi Io-culano, il medico ucciso il 25 settem-bre 1998. Così ha stabilito, ieri, la Cor-te d’assise di Palmi condannando al-l’ergastolo Giuseppe Piromalli e Roc-co Pasqualone e mettendo fine aduno dei casi giudiziari più controver-si accaduti negli ultimi dieci anni nel-la Piana di Gioia Tauro. L’omicidio diIoculano colpì profondamente l’opi-nione pubblica, non solo per la dina-mica e l’efferatezza del delitto, maper il valore tristemente simbolicoche quell’assassinio portava con sè.“Il dottore”, come era conosciuto incittà, era infatti impegnato in primapersona - attraverso l’associazioneculturale Agorà, di cui era stato il fon-datore e uno dei maggiori animatori- nel tentativo di rilancio di Gioia Tau-ro attraverso l’impegno civile e facen-do della legalità una pratica quotidia-na. Erano anni difficili a Gioia, in cuiil consiglio comunale fu sciolto perinfiltrazione mafiosa. Ebbene, Iocu-lano scelse di impegnarsi anche poli-ticamente, appoggiando l’elezionenel 1995 del sindaco del Pds AldoAlessio, politico di cui si ricorda l’im-pegno profuso contro la criminalitàorganizzata. Un con-nubio, quello tra ilprimo cittadino e Io-culano, che durò fi-no al 1997, quandoqualcosa tra i dueiniziò ad incrinarsi.E’ importante tenerepresente la fine diquel rapporto politico e di amicizia,perché nel corso del processo è statooggetto di studio e approfondimento

da parte del sostituto procuratore Ste-fano Musolino. Aquesti va dato meri-to di essere riuscitocon tenacia e perse-veranza a portare atemine un processocomplicato, in cuipochi all’inizioavrebbero scom-

messo su una condanna.Un processo difficile si diceva, sin

dall’inizio, quando le richieste di mi-

sure cautelari da parte della Dda diReggio furono riget-tate dal gip, dal Tri-bunale delle Libertàe dalla Cassazione.Infine il rinvio a giu-dizio e l’inizio, il 7 ot-tobre dello scorsoanno, della fase di-battimentale, dopootto anni dall’assassinio, contrasse-gnata dal ribaltamento delle tesi del-l’accusa, che passa dal movente ma-

fioso a quello politico-mafioso: per ilpubblico ministero,infatti, a decidere lamorte di Ioculano fu-rono Piromalli e Mo-lè, boss dell’omoni-ma cosca; Caccamo èl’anello di congiun-zione tra l’esecutorePasqualone e il clan.

La causale Musolino la rinviene nelcedimento da parte di Alessio e delsuo entourage, dopo anni di opposi-zione, alle criminalità organizzata diGioia Tauro. Per il pm alcuni cambi diindirizzo politico operati dalla giun-ta farebbero paventare questa possi-bilità.

Il caso più eclatante in questo sen-so per l’accusa è legata alla costru-zione del termodistruttore.

«Alessio – dice durante la requisi-toria Musolino – si era battuto stre-nuamente contro la costruzione del-le centrale Enel di Gioia. Poi invececambia idea, dando il suo assenso perla costruzione di un impianto moltopiù pericoloso e invece di farlo co-struire sui terreni che erano statiespropriati per la centrale, lo dirottasu quelli di contrada Cicerna, feudodei Piromalli».

La requisitoria del pubblico mini-stero ha battuto molto sul lato emoti-vo, Ioculano amico di gioventù di Pi-romalli, mandante dell’omicidio; Io-culano lasciato solo dai compagni checon lui avevano sognato una GioiaTauro libera dal giogo mafioso.

Un castello accusatorio che il colle-gio difensivo ha contestato definen-dolo «teatrale e privo di valore a livel-lo processuale», ma che è stato rece-pito quasi totalmente dalla Corte,presieduta da Maurizio Salamone,con la sentenza di condanna all’erga-stolo di Piromalli e Pasqualone.

A provare il collegamento tra idue imputati è il libretto di lavoro diPasqualone ritrovato nel bunker incui è stato arrestato Piromalli.Assol-ti invece, Caccamo e Molè.

“Il dottore” abbandonatoda chi lottava insieme a lui

Una parte dell’impianto ac-cusatorio del pm, portato in au-la durante la requisitoria, è l’iso-lamento di Luigi Ioculano nel-l’ultimo periodo della sua vita.Quegli uomini che con il medi-co di Gioia Tauro avevano con-diviso il sogno di una città vivi-bile riscattata dalla mafia, loavevano abbandonato. Il moti-vo dell’allontanamento del dot-tore, per il pubblico ministero,risiederebbe nella presa di co-scienza che quegli ideali cheavevano portato all’elezione asindaco di Aldo Alessio eranostati rimpiazzati dalle clientele edai favori al gruppo di amici vi-cini al primo cittadino. In que-st’ottica devono essere inqua-drati, per il magistrato, le difeseesterne del Comune a GiuseppeMacino, o gli appalti “semprevinti dall’altro fratello Macinoper le forniture al Comune”. Perquesto motivo il dottore si sa-rebbe allontanato dall’entoura-ge di Alessio e avrebbe tentatodi fare cadere l’amministrazio-

ne di centrosinistra guidata dalsindaco del Pds. «Un allontana-mento dettato dalla consapevo-lezza – ha detto Musolino – chequell’uomo (Alessio) che il dot-tore aveva considerato come “il

messia”, si era rilevato di tutt’al-tro spessore e provava vergo-gna di avere tirato in quell’espe-rienza tante altre persone». Lanecessità di lasciarsi alle spallequell’esperienza è rinvenibile,per il pm, nei tentativi di Iocu-lano di sganciarsi da Alessio edai fratelli Macino «un trio – hasottolineato Musolino – defini-to dal dottore “il comitato d’af-fari”». Una situazione che por-ta Ioculano ad appoggiarsi a Ni-cola Zagarella (foto), «un uomoper tutte le stagioni, un pavidoche ha reso dichiarazioni pienedi “non ricordo”, che parla diIoculano come di un uomo pre-occupato del traffico e dei par-cheggi. Politico della Margheri-ta che siede da assessore in unagiunta di centrodestra». Nellasentenza di ieri trova posto, perl’appunto, anche Zagarella, percui il pm ha chiesto la trasmis-sione degli atti alla Procura peril delitto di falsa testimonianza,insieme a Angelo Sofo.

f. a.

La rottura con l’exsindaco Alessio

e il ruolo diZagarella, accusato

di falsa testimonianza

Sullo sfondoi rapporticon la politicae gli appaltiper la centrale

“Il dottore”fu ucciso nel

settembre 1998Assolti Molè e

Caccamo

FRANCESCO [email protected]

il caso

«Di battaglie ne ho fatte tante, da sindaco, e ne hovinte. Forse, però, la guerra l’ho persa, perché la‘ndrangheta è sempre forte e molte cose lo dimostra-no». Aldo Alessio, uno degli amici politici di Luigi Io-culano, uno di quelli che piacevano al medico, con ilvizio della legalità, al punto che «più volte gli chiesi dientrare in giunta e di fare il vicesindaco, ma lui prefe-rì di no», commenta la notizia dei due ergastoli per ildelitto: «Non ho potuto seguire il processo, ma sonocontento che sia arrivata giustizia. Più volte da sinda-co ho sollecitato che l’inchiesta proseguisse, ho purefornito piccoli contributi. Un po’ tardiva, forse, ma larisposta c’è stata. È una notizia che ha un suo indub-bio peso e una sua forte rilevanza sociale».

Le cronache del processo avrebbero rilevato una sor-ta di isolamento di cui avrebbe sofferto Ioculano. Esi-ste peraltro, come riportato in sentenza, la richiesta delpm, evidentemente accolta dalla Corte d’Assise di Pal-mi, di invio alla procura degli atti relativi alla testimo-nianza, ritenuta non veritiera, di un ex assessore comu-nale. Un particolare, che non scalfisce l’opera svoltada Alessio che, alla domanda se mai avesse rilevato at-

teggiamenti di eccessiva prudenza, così risponde: «Sucerti argomenti ho sempre pigiato al massimo sull’ac-celeratore e devo dire che, alla fine, tutti gli altri mihanno seguito. Della lotta alla mafia ho fatto un pun-to stabile». Ed ecco che affiora il ricordo di quella chefu la primavera gioiese, di cui Luigi Ioculano era statoun convinto ispiratore e sostenitore: «È purtroppo so-lo un bel ricordo-riflette amaramente Alessio-. La cit-tà non è quella di allora. Io stesso non mi sono più ri-candidato, perché non ci sono le condizioni oggettiveper immaginare un recupero e una nuova forma diimpegno, al meno per il momento. Non nego che mipiacerebbe ancora». A55 anni sono ritornato al mio la-voro di comandante di nave e lo faccio con il solito im-pegno». Già il mare, per un vecchio lupo, è sempreuna sfida affascinante. Come la politica, che ha bisognodi timonieri leali e forti. Come Luigi Ioculano, mortoammazzato per un’idea. Non è peregrino dire che lasua guerra il medico galantuomo l’ha vinta. Nonostan-te tutto.

ENZO [email protected]

Quando anche a Gioia era primaveraIl ricordo del sindaco Alessio: «Fu una stagione di straordinario impegno»

“ ..Ioculano è un vero martire di mafia, perché non soltanto com-batte la mafia, ma combatte anche l’antimafia delle etichette … cioè si schiera completamente dalla parte di quelli che sembrava-no i buoni della situazione, ma quando scopre che non sono così buoni, non smette di combattere per affermare quei valori e dice ai suoi originari compagni di viaggio: voi state tradendo il program-ma che io condividevo.”

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LUIGIIOCULANO

Federica Solano e Federica MaggioreLa classe è un ambiente dove si instaura un rapporto di amicizia, di confronto e di divertimento. La nostra è formata da 25 alunni di diversi paesini. È un luogo di studio, ma instauriamo nuovi rapporti, socializziamo e ci aiutiamo l’uno con l’altro. Grazie al tempo tra-scorso abbiamo iniziato ad avere fiducia l’uno nell’altro e a creare un ambiente in cui l’elemento privilegiato è l’amicizia. Ormai per noi venire a scuola non è più un obbligo.

Federica SolanoPalmi è il mio paese natale. Si trova in provincia di Reg-gio Calabria ed è situata tra il mare e il monte Sant’Elia. Fu patria di molti artisti, come Francesco Cilea e Leo-nida Repaci. È una cittadina molto bella e grazie alla sua posizione offre bellissimi panorami sullo Stretto.

Sara AlboIn lontananza si vede un enorme mare blu con tanti gabbiani che volano all’orizzonte

Gioia Tauro è una città con 20.000 abitanti. Il suo porto da più di vent’anni dà lavo-ro a tante persone, anche di altri paesi. Viene classificato come secondo in Europa e ha fatto diventare Gioia Tau-ro una città di commercio. Rispetto agli altri paesi Gioia Tauro è conosciuta non solo per gli aspetti positivi ma anche per gli episodi che succedono. Spero in un futuro migliore per la città e i suoi abitanti.

Sabrina RizzitanoPalmi si affaccia sul mare della Costa Viola, limpido e azzurro con riflessi violacei. Sono le spiagge bianche, le scogliere brune, le insenatu-re incontaminate, solitarie e odorose di erbe selvatiche, che esercitano una forte attrattiva sui turisti. Il Mon-te Sant’Elia sovrasta la città e dalla sua vetta offre un panorama straordinario per vastità e bellezza: la Costa Viola, lo Stretto di Messina, l’Etna, le Isole Eolie, Capo Vaticano, la Piana con i suoi centri, l’Aspromonte e l’im-menso Parco di ulivi sarace-ni. Non vi è posto, infatti, da dove sia possibile abbrac-ciare a colpo d’occhio un così esteso orizzonte, una vastità così grande e varia. Sono cinque milioni, queste antiche piante saracene che, in aperta sfida al tempo, muoiono e rinascono su se stesse, miracolosamente, in un processo rigenerativo che sa di mistero e che as-sumono in questo divenire secolare, dimensioni giganti e forme bizzarre e spesso mostruose.

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Chiara RomanoA Palmi si racconta che un frate di nome Elia che vive-va sul monte fu tentato dal diavolo. Egli resistette alle sue tentazioni e il diavolo andando via contrariato, lasciò le sue impronte su un masso e quando si tuffò in mare diede forma al vul-cano che oggi chiamiamo Stromboli. Per me Palmi è una città molto bella, soprattutto in estate, perché è il periodo in cui ci sono le feste religiose e molti palmesi che vivono in altre città ritornano per trascorre le vacanze estive. Una festa importante è quella della Varia, un carro alto circa 16 metri a forma di nuvola che rappresenta l’assunzione di Maria al cielo. Ai piedi della nuvola ci sono gli Apostoli che piangono la morte di Maria e per tutta la nuvola delle bambine vestite da angioletti. In cima alla nuvola, un uomo che rappresenta il Padre Eterno sorregge una bambina che rappresenta l’Anima di Maria assunta in cielo, chiamata appunto Animella. Io sono molto legata alla città di Palmi, è la città dove sono nata e qui ho molti ricordi, anche se ci sono molte cose che andrebbero migliorate.

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Zaira StrangioLuigi Ioculano, nato a Semi-nara e vissuto a Gioia Tau-ro, medico di professione, portava avanti l’impegno a favore di iniziative sociali e culturali nella sua città, che conosceva bene. Ioculano parlava chiaro, scriveva ed esprimeva il suo pensiero senza paura. Le sue denun-ce andavano contro gli in-teressi delle organizzazioni malavitose che controllano il territorio di Gioia Tauro. Si interessò delle questio-ni riguardanti l’ospedale, gli appalti pubblici, il piano regolatore comunale e la costruzione del termova-lorizzatore. Il 25 settembre 1998, nel suo studio medico in pieno centro a Gioia Tauro un killer lo uccise. La notizia sconvolse l’intera città, ma pochi giorni dopo il funera-le la figura di Luigi Ioculano cadde nel dimenticatoio. La moglie lasciò Gioia Tauro pochi mesi dopo l’omicidio per stare vicina alle due fi-

racconti

glie che vivono e lavorano a Roma. Nel 2007 la Corte di Assise di Palmi ha condan-nato all’ergastolo Giuseppe Piromalli e Rocco Pasqua-lone per l’omicidio di Luigi Ioculano, mentre gli altri imputati Caccamo e Molè sono stati assolti. Il 25 set-tembre 2008 Gigi Ioculano è stato ricordato con una fiaccolata a Gioia Tauro 10 anni dopo la sua morte. Il 19 giugno 2009 la seconda sezione della Corte di Assise di Appello ha assolto con la formula dell’insufficienza di prove, per non aver com-messo il fatto, Giuseppe Pi-romalli e Rocco Pasqualone.

Chiara Romano Ioculano era amico d’infan-zia di Giuseppe Piromalli, boss della piana di Gioia Tauro. Proprio perché si co-noscevano da sempre, Piro-malli pensava che Ioculano sarebbe stato ai suoi ordini ma il medico, non avendo paura di lui, gli disse ben due volte no. Il primo no si riferiva al ritiro di una de-nuncia contro un medico dell’ospedale di Gioia Tauro che lo aveva aggredito, il se-condo no Piromalli lo riceve quando chiese a Ioculano di non appoggiare il can-didato che Ioculano invece sosteneva nella campagna per sindaco. Probabilmente questi sono i motivi per cui Luigi Ioculano ha pagato con la sua vita.Giovedì 18 Marzo 2010 in-sieme alla dott. Maria Ficara e alla nostra prof. siamo an-dati al tribunale per parlare con il P.M. Stefano Musolino per avere maggiori informa-zioni sul caso Ioculano.

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02NINOMARINO

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02Il Brigadiere Antonino Marino, nato il 5 ottobre del 1957 a San Lorenzo, muore in ospedale dopo l’agguato a Bo-valino Superiore la sera dell’8 Settembre 1990, in cui vengono feriti anche il figlioletto di due anni e la moglie in attesa del secondogenito. Il 26 gennaio 2009 c’è stata la prima udienza del processo che vede imputato come mandante dell’omicidio Giuseppe Barbaro, arrestato a Modena nel 2006, imprenditore e boss di Platì dove Mari-no era comandante dell’Arma.

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Intervista alla Sig.ra marino

di Ersilia Aiello, Michele Cataldo, Dafne Criaco, Maria Raffaella Crudo, Vin-cenzo Femìa, Azzurra La Rosa, Antonella Lombardo, Francesca Macrì, Me-lania Mesiti, Nicodemo Romeo, Stella Siciliano, Francesca Spinelli, Dayana Vitale (Istituto Professionale per l’Industria e l’Artigianato - Siderno -RC) 04-02-2010 Bovalino Marina

Come ha trovato la forza di andare avanti? Domanda tosta. La forza viene da sola, tu non sai neanche di averla. Devi affrontare le cose, io avevo i bambi-ni, quindi pensavo a loro, al bambino che avevo e a quello che doveva nascere. Non potevo pensare a ciò che avevo perso. Considera che avevo saputo lo stesso giorno che ero incinta e mi sono rivolta a Dio, gli ho chiesto di non farmi perdere il bambino. Eravamo in ospedale, mio marito era vivo dopo l’agguato, non potevo sapere che sarebbe morto. Poi invece il giorno dopo è successo. Lui è morto e il bambino è nato. L’ho chiamato Nino, come mio marito.

Assieme allo shock, ha subito pensato alla ragio-ne di quello che era successo? Ho fatto fatica a realizzarlo. Quando parlavamo lui era tranquillo. Mi diceva che a lui non sarebbe suc-cessa una cosa del genere. All’epoca, certo, si face-vano questi discorsi tra me e lui. Quando hanno uc-ciso il brigadiere Tripodi noi non eravamo fidanzati. Poi, certo, quando stavamo assieme, dopo un anno, questi discorsi li facevamo, ma lui mi tranquillizza-va. Mi diceva che a noi non sarebbe successo niente di male. Però devo dire che oggi, vedendo gli atti del processo mi rendo conto che avevano già fatto un al-tro tentativo che non gli era riuscito, quindi oggi ri-

fletto più di ieri, oggi vedo le cose con più chiarezza ed è ancora peggio, sapendo. Negli atti del processo ho letto la dichiarazione del pentito, che rivela che avevano già programmato di farlo un mese prima del tentativo fallito. Eravamo in macchina, andava-mo da mia suocera al suo paese e il tentativo non gli era riuscito perché nel bivio dove erano in agguato, in quell’attimo ci incrociò un’altra macchina e loro rinunciarono. Era agosto del ’90. È tremendo legge-re di quell’episodio, perché ora capisco che eravamo seguiti, perseguitati.

Non le torna il dubbio che la tranquillità di suo marito serviva soprattutto a proteggere lei e che

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lui magari sapeva bene? -Suo marito era consa-pevole del pericolo che correva?Ma sai, quando lui lo vedi tranquillo, vivi la vita con normalità. Certo lui sapeva che correva pericoli per il suo lavoro, ma era il lavoro che aveva scelto.

Che domande le hanno fatto i suoi figli quando sono cresciuti? Loro, per mia scelta, sono stati a conoscenza sin dall’inizio, perché man mano che crescevano e li ritenevo idonei, in base all’età che avevano, io gli parlavo in modo adeguato, in modo che sapessero. Mi ricordo che Francesco io l’ho portato subito al ci-mitero, non appena sono riuscita a camminare, già al trigesimo dalla morte di Nino, io ero con le stam-pelle, lo portavo con me e gli dicevo: “vedi, papà è

lì, ora è con gli angioletti”. E lui cercava fiori da por-targli, però non riusciva a capire. Non gli avevo spiegato come era suc-cesso. La domanda vera e propria me la fece quando era alle medie. Una do-manda cruda. Un giorno è venuto stravolto da scuo-la. Mi disse: “mamma, come ti sei fatta quella fe-rita alla gamba?” Da pic-colo me lo aveva chiesto, ma io gli avevo sempre risposto che ero caduta. Invece quel giorno, guar-dandolo negli occhi, capii che il ragazzino voleva sapere, che era arrivato il momento. Gli dissi tut-to: “quando hanno ucciso papà due colpi mi hanno ferito alla gamba”. Lui rispose: “lo sapevo. Pure io mamma?” E io: “sì, vedi, la ferita che ho io è come quella tua”. Un compagno di scuola, Antonello, gli aveva detto tutto. Ora, immaginate se quel giorno avessi detto una bugia. Mio figlio non mi avrebbe più creduto. Io in quel momento capii, lo ritenni abba-stanza maturo e capii che dovevo parlargli, come ho fatto man mano che crescevano. Quando spararono lui aveva sedici mesi, era stato risparmiato da quel ricordo. Dormiva nel passeggino e si svegliò per il dolore al ginocchio.

Crede che ci abbia pensato Francesco poi a rac-

contare al fratello più piccolo, a Nino? No, mi hanno chiesto sempre assieme. Una volta dissi loro, da bambini, che come nei film western, anche nella realtà ci sono guardie e ladri e il com-pito di papà era andare a scovare alcuni di loro … nel corso dei primi anni ho preparato così i bambini, raccontando queste cose.

A una certa età i suoi figli le hanno chiesto se ave-va giornali dell’epoca? Hanno voluto guardare, oltre le sue parole, a testimonianze del tempo?Io ho raccolto tutto di allora e loro sanno che nel momento che mi chiederanno darò tutto a loro, che li ho raccolti per questo … per esempio i giornali

“ mamma, come ti sei fatta quella ferita alla gamba?’... Gli dissi tutto: ‘quando hanno ucciso papà due colpi mi hanno ferito alla gamba”. Lui rispose: “lo sapevo. Pure io mamma?’E io: ‘sì, vedi, la ferita che ho io è come quella tua...”

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NINOMARINO

… ma ancora no, non me l’hanno chiesto. In effetti martedì 26 gennaio scorso, nell’articolo che è uscito il giorno dopo la prima udienza del processo, c’è la foto del funerale. I miei figli mi hanno chiesto “mam-ma tu dov’eri?” Io ho risposto che non conosco ne-anche questo momento, perché appena finito il fune-rale - ero sulla sedia a rotelle- mi hanno riportata a casa. In effetti abbiamo guardato la foto del giornale insieme, con la lente di ingrandimento e Nino mi ha detto: “c’è la nonna”, cioè mia madre. Ho visto anche mio padre e mio fratello, che ora non ci sono più, la mia famiglia è tutta in quella foto.

Siete stati o siete sotto sorveglianza?Ha mai avuto scorte? No. All’inizio, erano i primi tempi, i carabinieri era-no sempre attorno a casa mia, che giravano. La mia famiglia mi diceva che amici, colleghi di mio marito, oltre quelli che facevano le indagini, erano sempre vicini, giorno e notte. Però ufficialmente no, era più un fatto di affetto di amici e colleghi, oltre i cara-binieri che erano di servizio e passavano da casa nostra.

Dopo l’omicidio ha avuto altre minacce? No. Io sono stata col mio dolore. Forse quelli che indagano sui familiari ricevono minacce, ma io ero fuori dal mondo delle indagini, ero fuori da tutto. Vo-levano lui. Ucciso lui, avevano ottenuto quello che gli premeva.

Come vi siete conosciuti?Lui veniva a Bovalino, il mio paese e frequentava mio fratello, veniva a casa mia, ma io non gli davo

confidenza perché lui portava un anello al dito. Poi una sera che si cenava insieme, si parlava e io gli ho chiesto se era sposato. Lui disse di no, che non era neanche fidanzato, che quell’anello era un regalo di sua cognata! Be’, questa era una notizia interessan-te … perché a lui piacevo, come mi disse poi. Comin-ciammo a frequentarci, io lavoravo al tribunale di Locri in pretura e lui andava alla Procura, a volte mi accompagnava a casa e in quel periodo è nata la scintilla. Era il 1986, poi ci siamo sposati nell’aprile 1988. Volevamo subito dei figli, anzi il mio deside-rio era di averne uno all’anno! Solo che Francesco, il primogenito, nacque con parto cesareo e così do-vemmo aspettare per la seconda gravidanza. Meno male che aspettavamo Nino, sennò sarebbe rimasto solo Francesco.

Secondo lei la presenza dell’uomo di San Luca, quella sera, era programmata per l’omicidio? L’uomo di San Luca non aveva timore di essere fermato, se era un complice? Si pensò subito che quell’uomo fosse una talpa, per-ché era l’unico illeso dopo l’agguato. Però non ave-vamo la certezza. Oggi posso dire che non sembra fosse un complice, leggendo gli atti del processo –lui fu fermato per tanti giorni, fu interrogato- forse si trovava lì per caso. Non so altro di lui.

Il ragazzo che impugnava l’arma era a volto sco-perto? Non aveva preoccupazione che lo pren-dessero? Sì, era a volto scoperto. So che può sembrare stra-no, ma anche se mi ricordo tutto di quella sera, non ricordo il suo volto. Queste sono persone scelte per

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queste cose, quindi non gli interessava se sarebbe stato preso. Sono dei professionisti, per loro è un lavoro. Non mi stupirei se questa persona poi fosse scomparsa, perché spesso,dopo che fanno una cosa del genere, vengono eliminati.

Era da solo?Tutti hanno detto che aveva un complice che lo aspettava con un vespino. Io ho visto solo un uomo, quello che ha sparato, che era giovane e mi ricor-do che era a volto scoperto. Quando mio cognato, il fratello di mio marito è arrivato all’ospedale, gli ha chiesto: l’hai riconosciuto? E mio marito ha rispo-sto: “non era di qua”. Il mio ricordo è che è stato un attimo, ho sentito un uomo arrivare di corsa e tra questo e aprire il fuoco non è passato molto. Vedevo solo una fiamma continua che usciva da quell’arma che mi abbagliava, copriva il suo volto, io l’ho guar-dato mentre lui era impegnato a sparare. Forse la mia mente rifiuta il suo volto. Sono stati sedici colpi, hanno detto poi, per me una raffica interminabile. Pur di colpire mio marito ci ha ferito tutti.

Ci sarà stata gente attorno …In quel momento in paese tutti erano andati a ve-dere i fuochi d’artificio da vicino. Dove eravamo noi c’erano poche persone. Il gruppo bandistico si rilas-sava sul palco, un po’ lontano, dopo aver suonato, chi mangiava un gelato, chi parlava. Nel locale era-vamo solo io, mia mamma e quella persona di San Luca. Poi c’era una signora ambulante, col marito. Quelli dei locali, dei bar, i vicini c’erano tutti, chia-ramente. Guardavano i fuochi d’artificio dalle loro terrazze. Nessuno di loro però si è avvicinato per dare aiuto, anzi ci guardavano … a pensarci e a dirlo è tremendo … parlo di ragazzi ,miei coetanei, siamo cresciuti assieme, andavamo alle feste, perché Bo-valino Superiore è il paesino dove sono cresciuta. Ecco, questi stessi conoscenti stavano a guardare. Sono rimasta veramente scioccata soprattutto da due persone, a cui in seguito l’ho pure mandato a dire, che non potevo credere che non fossero nean-che intervenuti a soccorrerci. Loro hanno detto ai miei parenti che avevano avuto paura di farlo e si erano chiusi in casa. L’omertà fa pensare a sé stessi.

Come si è comportata la gente, gli amici di famiglia, la sua stessa famiglia e quella di suo marito subi-to dopo l’omicidio e durante gli anni successivi?La mia famiglia chiaramente ha sofferto con me. È tremendo a dirlo, ma amici fraterni di mio marito, con cui lui usciva tutti i giorni –lui ha vissuto a Platì quattro anni, di cui due quando era fidanzato con me. Uscivano a cena, a divertirsi, ci conoscevamo anche con le mogli, conoscevamo i figli che erano nati nel frattempo - … finché c’era lui c’era una gran-de amicizia, poi, dopo la sua morte, non si sono fatti più sentire. Invece c’è un ottimo rapporto con la fa-miglia di mio marito, con i miei suoceri. All’inizio,

il padre di Nino, essendo nato in un paese di mon-tagna, aveva pensato che io non avrei continuato il rapporto come quando c’era il figlio. Lui pensava: morto il mio sangue, non sarà più lo stesso. Aveva pensato che magari mi sarei risposata, perché la vita è questa. Poi quando hanno visto che andavo da loro con i bambini ogni mese –io glieli portai da su-bito- che rimanevo una settimana, hanno capito che non sarebbe cambiato niente. E anch’io negli anni mi sono affezionata ancora di più a loro. Pian piano mio suocero ha capito come ero e mi ha voluto bene, è lui che mi ha detto che all’inizio non se lo aspetta-va e che magari un’altra non sarebbe rimasta così vicina a loro.

Come si è comportata l’Arma, lo Stato, la società nei confronti della sua famiglia?Arma: nei riguardi miei e dei miei figli si sono messi subito a disposizione e hanno sempre fatto il massi-mo, quindi l’Arma mi è stata vicina più del dovuto. Invece sono amareggiata, ferita, perché mio marito non ha ricevuto adeguati riconoscimenti per l’ope-rato con cui ha servito lo Stato: ha combattuto se-questri di persona, traffico d’armi, di stupefacenti. ha mantenuto il suo giuramento e la sua fedeltà fino a perdere la vita e la sua memoria non è stata onora-

“ Vedevo solo una fiamma continua che usciva da quell’arma che mi abbagliava, copriva il suo volto, io l’ho guardato mentre lui era impegnato a sparare. Forse la mia mente rifiuta il suo volto. Sono stati sedici colpi, hanno detto poi, per me una raffica interminabile. Pur di colpire mio ma-rito ci ha ferito tutti. ”

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NINOMARINOce vorrebbe venire a fare servizio in Calabria ma io non sono d’accordo, c’è una lotta tra madre e figlio. Anche se io non sono d’accordo, lui mi risponde sempre che io non mi devo intromettere, che queste scelte riguarderanno lui e il suo lavoro, che il suo so-gno è proprio venire qui, innanzitutto. Poi desidera anche farsi una famiglia, ma prima vuole venire a svolgere servizio qui. Gli ho detto che solo dopo che io raggiungerò suo padre lui potrà fare quello che vuole, non prima. Ora è a Modena, il prossimo anno terminerà l’Accademia e andrà a Roma per la scuola ufficiali dove dovrà laurearsi in Giurisprudenza, poi sarà destinato alle compagnie …

Ha nominato Modena … dove è stato arrestato Barbaro, imputato dell’omicidio di suo marito. Ci parla del processo? Sì, guarda che coincidenza. Questo signore è stato preso nel 2006 all’ospedale di Modena dove si tro-vava per la cura di un tumore. Ora finalmente il processo di primo grado, dopo vent’anni. Tutti gli imputati hanno scelto il rito abbreviato. Ho scritto una lettera e l’ho mandata al mio avvocato, perché vorrei che la leggesse al giudice. In questa lettera io e i miei figli chiediamo semplicemente giustizia, per tutte le sofferenze che abbiamo vissuto. Hanno tolto a me il marito e ai miei figli il padre. Per me è importante che l’avvocato chieda di leggere que-sta lettera alla fine della sua arringa. È una piccola cosa la mia lettera, perché non si può raccontare cosa significa per dei ragazzi vivere tutta la loro vita risentendo a tutti i livelli di questa situazione, di quest’assenza, per colpa di qualcuno. L’unico ap-pagamento che possiamo avere, dopo vent’anni, è la giustizia. Non chiediamo altro. Io sono preoccupata, penso anche che magari gli avvocati della difesa, anche se saranno toccati dalla vicenda come uomi-ni, e rifletteranno per un attimo ascoltando quello che dico, poi però dovranno continuare a fare il loro lavoro. Temo che ci saranno altre amarezze. Poi, sembra che tutto succeda all’improvviso, in questo ventennale. L’altra sera mi ha chiamata mia suoce-

ta a dovere. Stato: io percepisco quello che mi spet-ta in base alle vittime di criminalità. Società: chi ha il problema se lo sbriga, la vita per gli altri non cambia. Io affronto i miei problemi da sola. Quando ti vedono ti salutano, ma niente di più. Se ti spetta qualcosa neanche te lo dicono, devi essere tu a in-formarti. Ringrazio la forza che ho avuto, che quan-do sono uscita dal tunnel in cui ero entrata ho fatto domande, ho lottato per le cose che mi spettavano.

I suoi figli desidererebbero entrare nell’Arma? Lei glielo permetterebbe? Francesco sin da piccolo ha espresso questo deside-rio, forse perché vedeva i colleghi presenti; anche a Natale, i colleghi di mio marito erano sempre qui, gli ufficiali venivano a farmi visita. Loro scherzavano sempre e mi dicevano: “signora, i suoi figli saranno dei nostri”. Io ho sempre risposto: “non li ostacolerò, ma non faranno il carabiniere semplice come il loro papà. Dovranno studiare e fare l’ufficiale. Questo sì glielo permetterò, ma fare il sottufficiale no, già ab-biamo avuto un’esperienza negativa”. E così è sta-to, in effetti Francesco ha voluto fare l’Accademia e sono orgogliosa della sua scelta. Nino invece non ne vuole sapere.

I suoi figli hanno mai desiderato vendicarsi, an-che con la violenza, della morte del padre? Questa domanda è molto toccante per me, perché sin da piccoli io non ho mai trasmesso a loro vendet-ta, ma sincerità, lealtà e rispetto per gli altri. Così sono cresciuti ragazzi solari. Mi ricordo che tempo fa, quando hanno ucciso l’ispettore Raciti, France-sco guardava la televisione e si è arrabbiato perché hanno detto qualcosa nei confronti dell’ispettore. Ha avuto una reazione di rabbia dal profondo contro chi lo ha colpito e non mostrava ancora pentimento. Sono sentimenti umani. Io come mamma sono sem-pre stata contraria al sentimento della vendetta. Ti dirò di più, io mi auguro che lui faccia il suo lavo-ro ma che non entri mai nella storia di suo padre. Abbiamo discusso fino a ieri sera, perché lui inve-

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ra e mi diceva: “sai, Vittoria, qui in paese ho sentito che vogliono intitolare a Nino la via in cui abitiamo. Anche le persone del Comune a cui ho chiesto mi hanno detto che è così, tu ne sai qualcosa?” Se è così io andrò alla cerimonia, perché io sono orgogliosa di mio marito, ma state sicuri che se vado, io lo dirò al sindaco che sono amareggiata. Dopo vent’anni si in-titola una strada? Dove erano i sindaci di allora? Ci vogliono quattro amministrazioni per capire quello che ha fatto mio marito e per ricordarsene? Anche mio figlio Nino non può non essere arrabbiato, per-ché le cose si fanno subito se ci si crede, invece lui è nato in quel paese e ci è cresciuto. Intitolare una strada è un segnale, è prendere posizione. Fare pas-sare il tempo è anche quello un messaggio, una scel-ta. Io non sono andata a molte cerimonie perché mio figlio è nauseato, non vuole saperne.

I suoi figli hanno vissuto episodi legati alla vicen-da del papà? Quando avevano quindici anni circa, i miei figli ave-vano un bel gruppetto di amici, che conoscevano già dalle medie e uscivano ogni sabato tutti insieme. Poi vidi che ci fu un periodo in cui i miei figli ruppero con molti di loro. Il motivo fu che alcuni di loro fre-quentavano un locale, il sabato sera, dove spesso capitavano anche delinquenti . Avendolo saputo, i miei figli ne parlarono ai compagni. Alcuni, che si manifestarono in quel modo veri amici, rispettaro-no il pensiero di Francesco e Nino mentre gli altri non volevano cambiare posto. La solidarietà venne solo da quattro di loro e da allora sono amici frater-ni. Quindi, perfino queste esperienze hanno dovuto fare, i ragazzi. Come nella mia esperienza in questi vent’anni, anche loro hanno provato che fin quan-do si sta bene si è tutti amici, poi quando sorge un problema, ci sono persone che non vogliono saper-ne. I miei figli hanno affrontato cose di cui altri loro coetanei, magari di altre parti d’Italia, certo non conoscono il significato, quale può essere una cosa banale come quella di non potere andare in un loca-le. Si tratta di fare scelte già a quell’età, di assumere

posizione rispetto a problemi più grandi di loro.

Ha mai avuto un confronto faccia afaccia con Barbaro? No, io non ho idea di come sia. In effetti vorrei anda-re all’udienza anche per vederlo. Non per trasmet-tergli odio, o rabbia, perché per lui provo indifferen-za. Ma per vedere com’è fatta una persona che ci ha fatto questo e soprattutto perché potrei incontrarlo per strada … sapendo che è malato penso che ma-gari non starà in carcere. Voglio vederlo in faccia perché lui sa chi sono io ma io non so chi è lui.

Cosa direbbe a suo marito se potesse tornare indietro?Forse gli direi, come dico a tutti carabinieri che io conosco, di pensare che si perde la vita e non si è ripagati per il merito che si è dato. Di tentare di fare il lavoro onestamente sì, ma di non farsi ammazza-re. Non è giusto che una famiglia si sacrifichi così. Mio marito si è gettato nel suo mestiere, era un ca-rabiniere, con la c maiuscola. Ma in questo mondo non si può fare, non ne vale la pena. Aveva trenta-due anni quando è morto, avevamo appena iniziato a farci la famiglia che entrambi volevamo e lui non si è goduto i figli, uno non l’ha neanche conosciuto. Noi volevamo tanti bambini, avevamo tanti proget-ti, eravamo felici di esserci “trovati” e che poteva-mo avere una lunga vita insieme. Dopo la sua morte non è stato ripagato come meritava. Certo, lui non sarebbe d’accordo con me, se fosse vivo rifarebbe esattamente quello che ha fatto. Ma io, da moglie fe-rita, che ha vissuto tutto quello che è successo, non posso che dire questo.

“Dopo vent’anni si intitola una strada? Dove era-no i sindaci di allora? Ci vogliono quattro ammi-nistrazioni per capire quello che ha fatto mio ma-rito e per ricordarsene?”

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NINOMARINO

LA LOTTA ALLA NDRANGHETA DEI

GIOVANI DELLA LOCRIDE.Sara Caccamo Ipsia SidernoDistaccamentodi Locri

Le origini della ndrangheta sono molto antiche, vengono fatte risalire al 1860-1870, epoca in cui nasce il cosiddetto brigan-taggio. Un fenomeno che aveva come finalità ultima quella della sopravvivenza in un clima arduo e ostile. Date, queste, che tuttavia non scandiscono con esattezza l’ini-zio della storia della criminalità organizzata, poiché essa assu-me diverse spoglie, si evolve e si adatta.La realtà odierna è, infatti, molto diversa da quella del passato, oggi diventa per un giovane sempre più tangibile e talvolta aspra. L’esperienza, del resto, che subentra in una società dove la ndrangheta si erge impetuosa nell’omertoso silenzio, stronca aspirazioni e progetti già ai primi passi del proprio cammino. Detta, infatti, regole e compromessi la criminalità, mettendo in ginocchio la propria persona, per la prima volta a conoscenza del reale peso delle scelte, delle responsabilità e degli errori del Paese. Aspetti che fanno, tuttavia, comprendere l’importanza della ribellione, quel manifesto di denuncia, di riscatto, divenu-to importante motivo e grande obiettivo. Forza, questa, frutto di quelle piccole gocce che scaveranno anche la roccia più dura, lasciando dietro di sé un passaggio e l’amarezza di non riuscire a sconfiggere questo tarlo della società. “Un’organizzazione dettata dalla consapevolezza del proprio valore, dell’esagerato concetto della forza individuale come unico e solo arbitrio di ogni contrasto, di ogni urto di interessi e di idee”. Uno “stato” insomma. Uno stato da sconvolgere e riordinare con decisione, fiducia e orgoglio. Elementi importanti per i fu-turi uomini del domani, per i giovani d’oggi accomunati dagli

stessi valori che diventano ideali e abbracciano il giusto.Ragazzi che in rivolta, spesso, nel quotidiano sentiamo lontani e di cui seguiamo le gesta attraverso i mass-media o solo dopo una strage. Per questo ora qui miriamo al piccolo, nel cuore di una città, di un paese, dove questi giovani divengono punti di riferimento. Appigli in una società difficile, che si rac-conta con il peso di vite stroncate da attimi scanditi dalla mor-sa della mafia, storie dai numerosi volti e realtà vicine. Diverse sono, del resto, le diramazioni della criminalità organizzata: la mafia, la camorra e la ndrangheta. Tarlo quest’ultimo che fa conoscere in negativo anche la nostra terra, la Locride, occul-tando quanto di più buono presenta, sotto strie di sangue e dolore. Bellezze celate che vogliamo riproporre, come quella del laboratorio “A mani libere”, autore di due libri, di cui uno prossimo alla pubblicazione, con il racconto di 12 storie vere. Un progetto seguito dalla dottoressa Maria Ficara, rappresen-tante del comitato scientifico del Museo della ndrangheta a Reggio Calabria. Struttura importante e imponente, come quel lusso che contorna le ricchezze di un boss arrestato, che oggi fanno da cornice a una mostra fotografica, divenendo agli oc-chi dei ragazzi stessi “ancor più triste e arido”. Le immagini della nostra storia con i suoi errori sfata, infatti, quei miti che il tempo, beffardamente, esalta, rendendo <<parla-bile>> il problema della criminalità; passo fondamentale secon-do gli antropologi. Le parole, infatti, hanno la forza di piegare questo male, annientano le barriere del tragico silenzio. Nel progetto, del resto, divengono forza, rabbia e calore, con il racconto della vita e della morte del Brigadiere Antonino Mari-no. Un uomo, un papà, un marito, un concittadino e in ultimo un carabiniere ucciso per le sue indagini contro la ndrangheta. Una figura scomoda da colpire l’8 settembre 1990. Una data memorabile, per molti indelebile, segno di quell’Onore vero, che non si scompone. Esempio di forza nel coraggio di soste-nere i propri valori fino alla fine, esempio di vita, dunque, nella sua morte.Testimonianza che insieme a tante altre, nell’immediatezza del timore di una drastica perdita di entusiasmo, soppianta quella rabbia che diviene ragione e motivo per cui continuare a lottare.Condizioni che permetteranno la formazione di radici forti in una terra contaminata, piccoli uomini che come quelli del labo-ratorio sottolineano le difficoltà del “vivere dentro la legge”, ma che con vigore si ribellano, scelgono, a differenza dei mafiosi. Per questi piccoli uomini, la parola “paura” è quella di non riuscire a cambiare la società, di accettare e subire in silenzio, facendo divenire il tutto una normalità. Un piccolo esempio di una piccola città e un grande valore per la nazione, stato per cui combattono e vivono divenendo una voce non più astratta: un’eco di Giustizia…una firma.

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Tratto da: Cronaca di una vendetta, di Cri-stina Zagari, racconto inserito nell’anto-logia “Bersagli innocenti: chi resta vivo non tace”, a cura di Assovittime, pubbli-cata da Dario Flaccovio dicembre 2009.

…diciannove anni dopo quel giorno

Ecco la mia famiglia. Quella che io non ho visto crescere. Han-no dovuto fare tutto da soli. I conti con la morte e quelli con la vita. Che idea vi siete fatto.No. Non ve lo chiedo. Non spetta a me. L’importante è che li abbiate ascoltati. Che per la prima volta il silenzio sia stato vinto. Vi chiedo un ultimo atto di pazienza. Leggete con me le carte delle indagini, del processo. Solo poche righe ancora. Poche parole.

Quel giorno non arrivò per caso. Quel giorno era stato deciso con cura. Da tempo. Il mio omicidio venne deciso due volte. Il primo a casa di Antonio Papalia, parente dei Barbaro e, in quegli anni, referente della cosca in Lombardia. Il compito vie-ne affidato a Paviglianiti che è originario di San Lorenzo come Marino. La seconda volta nell’abitazione di Francesco Barba-ro, cugino di Giuseppe Barbaro. In questa seconda occasione mentre Papalia e Paviglianiti sono intenti a decidere modi e tempi dell’omicidio, il proprietario di casa conversa con i sin-daci di due paesi per la realizzazione di muri e fogne: opere pubbliche. Opere pilotate. Chi lo racconta? Un pentito. Antonino Cuzzola, braccio destro e killer di fiducia di Domenico Paviglianiti. Il motivo era che il Brigadiere Marino faceva pressione, volevo arrestare i barbaro eh… - racconta Cuzzola agli investigatori in una serie di interrogatori 14 anni dopo la mia morte.

LETTERE

per la Sig.ra Marino.

Melania MesitiCara Sig.ra Marino, Sono una ragazza di quasi diciassette anni e mi chiamo Melania. Devo dire che sono rimasta molto colpita dalle sue rispo-ste, molto dirette ed emozio-nanti. So come ci si sente a perdere un padre e, nel caso di mia madre, un marito. Mio papà Giovanni è morto in un incidente sul lavoro, per col-pa di una distrazione. Anche se non è la stessa cosa, so cosa vuol dire perdere una persona cara e capisco ciò che si prova a non poter pro-nunciare più la parola ‘papà’. Capisco i suoi figli, capisco i loro pensieri e momenti di rabbia perché non è affatto facile vedere i nostri coe-tanei con i genitori mentre noi non possiamo neanche chiamarli. Mi avrebbe fatto molto piacere conoscerla di persona ma devo limitarmi a scriverle. Volevo dirle che le sono molto vicina e come me anche altre persone. Un abbraccio immenso a lei e ai suoi figli.

Dafne Criaco Anche se la sua testimo-nianza è molto toccante, io penso che non possiamo realmente capire come si sente, perché non lo vivia-mo in prima persona. Il fatto che mi ha colpito e che mi ha fatto riflettere è stata la reazione dei vicini la sera dell’attentato, che per paura si sono chiusi in casa senza dare nessun aiuto. Per non parlare del comportamento dei delinquenti, gente senza scrupoli tanto da essere a volto scoperto e che hanno perfino ferito il bambino.

Francesca MacrìSig.ra Marino, lei ha avuto una grandissima forza e tanto coraggio per prosegui-re nella vita e anche oggi, per poter raccontare la sua storia, che si capisce perfet-tamente essere una ferita incurabile. Trovare la forza di raccontare quell’episodio, rivivendolo, è molto difficile e apprezzo molto il fatto che lei ha risposto alle nostre domande che riguardavano quello che ha vissuto. Io non so cosa si prova con tutto ciò, però posso provare a capire e magari, provare a mettermi nei suoi panni e in quelli dei suoi figli. Non è ac-cettabile vedere con i propri occhi morire così una per-sona cara. Mi sono venuti i brividi a leggere le sue ri-sposte molto toccanti. Lei è stata una donna molto forte, anche per il fatto che, come si capisce dalle sue parole, ha cresciuto molto bene i suoi due figli.

Vincenzo FemiaCara Sig.ra Marino, io mi chiamo Vincenzo Femia, ho diciassette anni e abito a Grotteria. Sono rimasto ve-ramente colpito dai difficili episodi della vostra vita e soprattutto dall’atroce modo in cui suo marito è morto. Io spero che passerà adesso anni più sereni e magari, che possa incontrare anche un compagno.

lettere

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NINOMARINO

Vincenzo FemiaIl brigadiere Antonio Marino è stato ucciso a Bovalino da un sicario perché eviden-temente stava indagando su molte persone importanti della mafia. Queste gli han-no sparato mentre lui era con suo figlio di appena 3 anni e con la moglie incinta. Queste cose non dovrebbe-ro accadere. Sono dovute al fatto che oggi ci sono molte persone avide che fareb-bero di tutto per arricchirsi o per avere potere, come i mafiosi. Michele Cataldo

Sedie vuote in fila. Finestre coperte dalle tende, che im-pediscono alla luce del sole di entrare. Stanza vuota e semibuia, malinconia e solitudine.

Maria Raffaella CrudoVecchi palazzi, edifici ab-bandonati, scritte offensive, foglie d’autunno. Erba selvaggia. Ambiente che non viene tenuto bene dall’uomo

Nicodemo RomeoRealtà che rovina l’ambiente.

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Azzurra LarosaVecchi palazzi davanti alla scuola e sui muri scritte di colore rosso.

Ersilia AielloQualcuno abbassa il ramo di un albero e strappa un frutto . Dopo averlo preso, prosegue per il suo cammino.

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Una figura scomoda da colpire l’8 settembre 1990. Una data memora-bile, per molti indelebi-le, segno di quell’Onore vero, che non si scompo-ne. Esempio di forza nel coraggio di sostenere i propri valori fino alla fine, esempio di vita, dunque, nella sua morte.Testimonianza che insie-me a tante altre, nell’im-mediatezza del timore di una drastica perdita di entusiasmo, soppianta quella rabbia che divie-ne ragione e motivo per cui continuare a lottare.

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03Fortunato La Rosa, nato a Canolo il 1 dicembre 1941, medico oculista in pensione, viene ucciso l’8 Settembre 2005 sulla strada che da Canolo Nuovo porta a Locri. Sono ancora in corso le indagini.

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FORTUNATOLA ROSA

Intervista a Viviana Balletta

di Annaida Caccamo, Alberta Cavallo, Verdiana Cinanni, Maria Colautti, Gizland Ganz, Stefania Pedullà, Denise Romano, Erika Scrivo (Istituto Magistrale Statale “G. Mazzini” - Locri -RC).Presente all’intervista l’Avv. Anna Cappuccio, amica della Dott.ssa La Rosa.18-02-2010, Locri, Istituto Mazzini.

Maria Ficara: la mia prima domanda alle ragazze, dato che solo una di loro è di Locri, è stata se avessero sentito di questa storia…

Annaida: Io sono di Siderno e da quando sapevamo di dover analizzare questo caso, io ne ho parlato con i miei genitori e si sono subito ricordati, cioè si ricordavano anche a distanza di tempo.

Stefania: sì, pure io: mio padre lavora qui a Locri, ho portato a casa gli articoli e appena ha visto il cognome mio padre si è ricordato subito...

Maria: sì anche mia madre, che lavora all’ospedale a Locri si è ricordata.Maria Ficara: guardando le date dell’omicidio le ragazze hanno subito collegato che era il periodo dell’omi-cidio Fortugno, che ha suscitato clamore e reazioni. Dott.ssa La Rosa: sarete state alle elementari, allora, e so che anche nelle scuole di quel grado giravano

Alberta CavalloLa vita ha dalla sua l’imprevedibile. Non le si può dire: “aspetta”. Questo è quello che è successo alla Dott.ssa La Rosa, che non ha avuto il tempo di salutare il marito. Fortunato La Rosa è stato ucciso l’8 settembre del 2005. Perché? L’intervista che state per leggere racconta un po’ la vita di questa donna forte, che è riuscita a resistere a tutto. Ho avuto la fortuna di incontrarla e mi hanno colpito le diverse emozioni che c’erano in ogni sua parola: tristezza, paura, speranza. Una però pre-valeva su tutte: la rabbia. Sì, perché, dopo tutto, ogni emozione, ogni sensazione, col tempo, dopo uno strappo simile, si tramuta in rabbia. È strano come tutto possa cambiare in così poco tempo, perché la vita può finire domani, oggi, ora. Grazie all’incontro con la Dott.ssa La Rosa ho capito che la vita può essere una cosa senza senso, oppure nata e cresciuta per sfidarci, per renderci forti, per costringerci ad andare avanti. La vita è furba, perché ha in serbo cose che nessuno può immaginare. La cosa che conta di più è l’anima. L’anima della Dottoressa La Rosa è un’anima forte e senza paura e questo la rende diversa da tutte le altre persone.

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nelle classi per invitare gli studenti ad andare alle manifestazioni. Il fatto è che l’omicidio di mio mari-to è avvenuto quaranta giorni prima di quello di For-tugno e questo secondo me ha distolto l’attenzione verso la vittima “eccellente”.

Leggendo questi articoli, siamo venuta a cono-scenza della questione della DDA, come mai se-condo lei non è intervenuta subito?Questa è una domanda che mi sono posta anch’io, particolarmente perché subito, nei primi articoli, ci hanno detto: è un delitto di mafia. Poi, i carabi-nieri sin dall’inizio hanno sempre parlato di delitto di mafia, perché la DDA non sia intervenuta non lo

so, l’ho chiesto, hanno detto che cambiava poco, ma non credo, perché quando poi è intervenuta le cose sono state diverse.

Da quando è stato ufficiale l’interventodella DDA?A dicembre 2007... dopo due anni. È ufficiale, ma non se ne parla come invece succede per indagini relative ad altri omicidi..

Per potere investigare? Più tranquillamente... ma ... a tutt’oggi mi chiedo se staranno investigando? Perché una volta che ho

parlato con il giudice mi ha detto: “ci serve un colpo di fortuna”...

Sono in corso le indagini, quindi sappiamo che si può dire molto poco..però per esempio...possiamo sapere... chi è il giudice che se ne occupa?Il giudice dell’antimafia è De Bernardo. Lui se ne oc-cupa da quando il caso è competenza dell’antimafia ...però inizialmente c’era solo la dottoressa Depon-te che ora non c’è più.. che era un giudice di prima nomina alla Procura di Locri, uno dei tanti Sostitu-ti arrivati nella sede disagiata a inizio carriera..Si dava molto da fare a dire la verità, però ovviamente non era pratica di mafia.

Pensa che con il fatto che le indagini passano da una persona all’altra non ci sia una continuità, uno sviluppo? il fatto che il primo requirente fosse di prima no-mina poteva non avere importanza se la caserma che si interessava fondamentalmente delle indagi-ni avesse per lo meno suggerito e indirizzato… ma avrebbero dovuto fare tutto in un mese perché poi hanno avuto altro da fare…

Avv. Anna Cappuccio: veramente le indagini sono passate dalla procura ordinaria di Locri alla procu-

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ra distrettuale antimafia di Reggio Calabria....dopo due anni. Perché dopo due anni non me lo chiedete, perché me lo chiedo ancora io stessa..io credo che i carabinieri si siano confusi perché come sto parlando con voi io ho parlato con loro da su-bito...cioè mio marito mi raccontava delle cose e io gliele ho riferite pane al pane, vino al vino, e sicco-me alcune cose mio marito le aveva documentate, io gliele ho messe a disposizione. Loro in caserma han-no cose che se io richiedessi, chi c’è adesso potreb-be dirmi “non le abbiamo”, perché io gliele ho date spontaneamente e non c’è verbale.. a questo punto..

Come mai non hanno fatto il verbale?Perché io gliele ho messe a disposizione pensando: è mio interesse oltre che un dovere aiutare le indagi-ni, no? Loro non so perché non hanno verbalizzato.

Lei non può fare niente?Adesso con il giudice De Bernardo, ogni tanto parlo, sparlo, critico. Parlo con molta libertà come faccio

con voi, come faccio con tutti e quindi alcune cose sono venute fuori.

Quindi suo marito le aveva già fatto capirequalcosa.Mio marito mi raccontava tutto... e io ho riferito tutto..solo che.. mio marito mi raccontava ma non può confermare... quando era coinvolto qualcuno di Canolo, io ho cercato di informarmi e mi è stato confermato, ma agli inquirenti no... quindi io credo che uno dei problemi delle indagini sia che il punto di riferimento sono io, ma chi dovrebbe confermare o è morto e non può farlo o c’è ma ha paura.

Secondo lei perché hanno questa paura?Me lo sono chiesta tante volte..o è talmente potente il personaggio...o fa parte dell’educazione, scusate, calabrese, tipicamente omertosa.

Maria Ficara: questo è un tema fondamentale. Abbiamo parlato parecchio con le ragazze del pro-blema non soltanto di chi delinque, ma di tutta quella cosiddetta “zona grigia” che non compie crimini ma che non si impegna neanche a contra-starli.Ecco, queste persone per me sono peggio dei crimi-nali... perché non facendo quello che potrebbero, aiutano moltissimo i criminali, li invogliano a per-petrare delitti perché tanto nessuno dirà niente.

Maria Ficara: non bisogna dimenticarsi che an-che quella è una scelta. Si dovrebbe considerare che anche di quello si ha la responsabilità.Il punto è che lo fanno per educazione...è un modo di pensare diffuso. È anche vero che magari non si sen-tono garantiti, dobbiamo dire le cose come stanno, perché voi lo sentite, in televisione, sulla stampa, come lo sento io, che magari per esempio un pentito viene messo nel programma di protezione, dopo un certo numero di anni non lo è più, ma la mafia non dimentica. E senza arrivare all’esempio dei crimi-nali, anche la gente comune non si sente garantita, pensano: se collaboro, corro il rischio di fare la stes-sa fine, se non collaboro le cose restano così, tran-quille. In fondo non è colpa mia…E su questo fa leva il potere mafioso.

Suo marito aveva dato le dimissioni dall’ospedale.Si è pensionato per dimissioni volontarie come ho fatto anch’io d’altronde..

Non aveva problemi al lavoro...No, no. Ha deciso a un certo punto che non gli piace-va più lavorare in quell’ambiente, aveva trentacin-que anni di contribuzione e si è pensionato.

Suo marito si era rivolto ripetutamente alle au-torità…Sì, ma questo per cose che succedevano a Canolo,

“mio marito mi raccontava tutto... e io ho riferi-to tutto..solo che.. mio marito mi raccontava ma non può confermare...

FORTUNATOLA ROSA

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dove abbiamo dei terreni. Credo proprio che sia partito tutto da lì perché prima le proprietà era-no abbandonate, quindi tutti facevano quello che volevano. A un certo punto lui ha detto “mi voglio interessare”: ha recintato, andava ogni giorno, con-trollava. Non è come me, che vado ogni tanto a fare quelli che io chiamo “blitz”. Lui andava e veniva ogni giorno, quindi non gli sfuggiva niente.

Suo marito, visto che le parlava dei problemi, le ha fatto dei nomi per dirli alla polizia?Mi ha fatto dei nomi che io ho detto, io ho avuto a che fare con i Carabinieri, non con la Polizia, perché le indagini le svolge chi arriva per primo sul posto. All’inizio è venuta anche la Polizia a trovarmi, pro-babilmente pensando: è un delitto di mafia, quindi ci sarà collaborazione. Io ho ripetuto a loro quello che avevo già detto ai Carabinieri.

La terra è ancora di sua proprietà?Sì, faccio i miei “blitz”... con il cuore in gola, ma li faccio.

Lei e la sua famiglia avete tenuto un certo tipo di silenzio... se tornasse indietro lo rifarebbe?Dunque, io ho sempre pensato che non servissero raccomandazioni perché le cose si fanno per leg-ge, ne sono sempre stata convinta, io e mio marito abbiamo vissuto con questa convinzione, abbiamo svolto il nostro lavoro. Con questo modo di pensare sono cresciuti anche i nostri figli. Se dovessi tornare indietro forse no, non lo farei.

Cosa pensano i suoi figli?Sono più arrabbiati di me.

Loro erano a conoscenza di qualche problema?Mio marito ne parlava con me e sono convinta che vista la mia avversione per quella terra e quelle persone non mi avesse nemmeno raccontato tut-to. I nostri figli venivano un mese d’estate e pochi giorni, neanche sempre, a Natale, perché in genere da quando eravamo in pensione andavamo noi da loro... quindi quella informata ero io.

Quindi se lei non immaginava potesse succedere una cosa simile, ancora più difficile dirlo ai ra-gazzi.Mai mi sarei aspettata una cosa del genere, tanto-meno i miei figli. Quella mattina lui è salito a Canolo perché dovevano raccogliere delle cose nell’orto, e dato che io ho la passione dei funghi mi ha det-to: “perché non vieni? Mentre noi ci sbrighiamo nell’orto tu ti fai un giro per i funghi”. Io quell’anno avevo fatto un piccolo intervento al piede, gli ho det-to: “guarda, oggi no, magari un’altra volta, ma oggi proprio non me la sento”, sennò io sarei andata con lui. La domanda è: se ci fossi stata io, avrebbero fat-to a meno, o saremmo stati in due…? Se l’avevano

deciso, forse non l’avrebbero fatto quel giorno, ma d’altra parte sappiamo che quando decidono di uc-cidere qualcuno non si fermano neanche se ci sono bambini sulla traiettoria. Le ragazze qui hanno l’esempio del campo di calcetto… Certo, se io e mio marito fossimo stati assieme e avessero comunque deciso di farlo, essendo pieno giorno, io non sarei qui a raccontarlo, perché una volta che li vedi in fac-cia non stai zitto no? Già tutta Canolo sa che quello che sapevo l’ho riferito quindi...

Come è successo?In pieno giorno, in un strada che adesso io qual-che volta faccio per alternare i percorsi. Oggi non si incontra un cane, ma una volta era trafficatissi-ma specialmente in periodo di funghi come quello. Quindi io mi meraviglio come nessuno sia passato...

Lui a che ora tornava?Lui era salito da Canolo Vecchio perché il giorno pri-ma a Reggio aveva sbrigato una cosa per il vecchio

“mai mi sarei aspettata una cosa del genere, tan-tomeno i miei figli. Quella mattina lui è salito a Canolo perché dovevano raccogliere delle cose nell’orto, e dato che io ho la passione dei funghi mi ha detto: “perché non vieni? Mentre noi ci sbrighiamo nell’orto tu ti fai un giro per i funghi”.

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arciprete, poi era sceso da Canolo Nuovo, perché la strada è più comoda. Era stato in campagna, aveva la macchina carica di patate, peperoni, melanzane…io lo aspettavo per pranzo. All’una, quando non è arrivato, ho incominciato a chiamare sul suo tele-fonino ma non rispondeva. Dopo le 14.00 è venuto il maresciallo al cancello… mi dice...”signora mi faccia entrare”. Io ho capito subito che era successo qual-cosa, ho pensato a un incidente, non riuscivo a ca-pire di che entità. L’ho fatto entrare, il maresciallo non sapeva come dirmelo, si preoccupava che fos-si sola in casa. Gli ho detto: “guardi, non mi tenga sulle spine”, ma lui voleva sapere se avevo parenti vicini…in quel periodo a Roccella c’erano i cognati... mai pensando una cosa del genere, lui ha insistito perché chiamassi Roccella, ha risposto mia cogna-ta e in mia presenza lui le ha detto: “sa, sono qui dalla dottoressa...sono venuto perché suo fratello è stato attinto da colpi d’arma da fuoco”. Io gli ho detto “…ma sta scherzando”...mia cognata è partita subito...e io a quel punto sono voluta andare a Zo-maro. Il maresciallo insisteva “no, non ci vada asso-lutamente, stanno scendendo” e poi se n’è andato. Dopo un po’ mi chiama per chiedermi chi volevo che si interessasse per i funerali perché in genere la salma la prende chi poi fa i funerali, io gli ho det-to dell’impresa di Roccella, e allora ho pensato che avrei fatto in tempo anch’io ad arrivare. Ho chiuso il telefono e sono partita. Ancora ci penso e mi chiedo se è vero. Se non fossi andata, probabilmente non mi sarei mai resa conto della cosa...perché insomma la mattina è partito, dicendomi “vieni con me”…quin-di... era tranquillissimo.

Vedeva nessun problema ...non aveva nessuna paura...non aveva avuto avvisaglie...

D’altra parte quando gli hanno dato fastidio nel-le recinzioni, lui l’ha visto, è sceso ad Agnana, si è fermato in caserma e ha fatto la denuncia. Quando sono capitati casi di pascolo abusivo, la prima vol-ta ha parlato con il proprietario, la seconda gliel’ha mandato a dire, la terza è sceso ad Agnana e ha fatto la denuncia, quindi alla caserma di Agnana sapeva-no tutto, quando io ho avuto problemi di recinzione sono scesa ad Agnana e ho detto loro: “non vi aspet-tate che io faccia denuncia contro ignoti come ha fat-to mio marito, però nel tale punto hanno il vizio di tagliarmi la recinzione. Visto che andate e venite da Canolo Nuovo potreste farvi una passeggiata? Ma-gari li pizzicate... .non mi pare che ci siano andati…

Lei pensa che magari questo fatto di tagliare la re-cinzione potesse essere un avvertimento?No, è semplicemente prepotenza e maleducazione. Perché io da loro non vado, e se vado, vado con tutti i riguardi. Quindi che tu mi tagli la recinzione per an-dare a funghi, quando due metri più in là mio marito ti ha fatto la scaletta per scavalcare la rete...questo lei come lo chiama? Io inciviltà assoluta...

Prepotenza...arroganza...Prepotenza, arroganza, maleducazione...

Anche dispetto nei suoi confronti.Anche. Ma io soddisfazioni non gliene do, perché loro rompono e io aggiusto, senza dire neanche mezza parola.Ma dopo la denuncia che suo marito ha fatto... Quella di mio marito era una denuncia contro ignoti: tu fai la denuncia contro ignoti perché non hai la cer-tezza assoluta, però a voce in genere ti dicono.. “ma lei chi pensa?”

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Magari qualcuno ha un interesse verso le terre?Non certo ad acquistarle, a farsene padrone sì, per-ché con queste continue angherie speri che il pro-prietario si stanchi, che a un certo punto dica: ma chi me lo fa fare...

Magari qualcuno che le aveva avutein precedenza? In precedenza no, perché i terreni erano esclusiva-mente di famiglia. Mio marito li aveva ereditati dal padre e da uno zio, morto nel ‘79...non ha compra-to un metro...è vero che le terre sono sempre state aperte, abbandonate e lì pascolavano, coltivavano, raccoglievano...insomma lo zio era anziano, andava e non andava. Morto lo zio, mio marito in un primo tempo lavorava, quindi non si interessava più di tanto. Poi dalla pensione, dal ‘98 in poi, si interes-sa maggiormente, ha cominciato ad andare, quindi a rimettere ordine e un po’ per volta ha recintato tutto.

Secondo lei qualcuno è stato infastidito da questo ritorno all’ordine…Credo che questo sia stato...perché, ripeto, prima facevano quello che volevano, poi, a un certo punto ti trovi un padrone sempre in mezzo ai piedi, il ter-reno recintato e delimitato… e vi dirò di più: quando lui ha recintato, non è andato ad occhio, ha portato un geometra, hanno preso i punti in base alle mappe e ha sempre recintato un metro più sotto del limite stabilito, proprio per evitare qualunque tipo di con-testazione...quando poi denuncia i fatti, non c’è mai stato nessuno che è andato sul posto tipo a verifica-re qualcosa, ad aspettare che magari potesse succe-dere di nuovo un’altra cosa del genere.

Avv. Anna Cappuccio: poi, a conclusione delle in-dagini, si potrà sapere se c’è stato qualcos’altro. Al momento ci sono le indagini in corso, quindi non possiamo neanche sapere se i carabinieri hanno fat-to il sopralluogo e hanno avvistato qualcuno.

Quindi ai familiari non vengono date queste in-formazioni?A me dicono pochissimo perché effettivamente, me lo ha spiegato l’avvocato un giorno che ero partico-larmente furiosa, c’è un articolo di legge per cui le indagini non possono essere riferite neanche ai di-retti interessati.

Avv. Anna Cappuccio: sarebbe violazione del se-greto istruttorio.

Certo, ma cosa dovremmo pensare quando leggia-mo certe questioni sulla stampa?… io sono per le intercettazioni perché aiutano le indagini, ma sono contraria al fatto che delle intercettazioni si faccia-no articoli sul giornale prima ancora che le indagini vengono completate…

Lei prima continuava a chiamare queste persone, se così si possono definire, “loro”. Più o meno lei sa chi sono?Più o meno sì...

E come fate ad avere a che fare con le persone di quel posto?Io a Canolo parlo con pochissime persone. La si-gnora che faceva l’orto con mio marito continua a farlo, perché per me è una questione di principio e di capriccio, in modo che loro capiscano che non è cambiato niente. Per lo stesso motivo, a settembre hanno ucciso mio marito e a ottobre io ho organizza-to la raccolta delle olive proprio per dire loro: “non avete fatto niente”.

Lei non ha paura?Certo che ho paura, ma la rabbia è più forte.

In un articolo c’è questo giornalista, Giusep-pe Trimarchi, che offende la sua famiglia. Ecco come ci si sente a essere attaccati, a sentire dire

“i terreni erano esclusivamente di famiglia. Mio marito li aveva ereditati dal padre e da uno zio, morto nel ‘79...non ha comprato un metro...è vero che le terre sono sempre state aperte, abbandona-te e lì pascolavano, coltivavano, raccoglievano...

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FORTUNATOLA ROSALe capita di incontrare queste personeper strada?A dire la verità io della persona in questione non so la faccia, e questo è uno dei motivi per cui io non parlo con nessuno in quella zona, non chiamo nessu-no, io continuo a mantenere in ordine le proprietà, le faccio coltivare, le faccio pulire, faccio potare gli alberi ma non chiamo nessuno di quella zona.

Ma è solo una persona oppure...Ora mi chiede troppo..

Maria Ficara: teniamo il “loro” ...Io infatti chiamo “blitz” le mie visite a Canolo pro-prio perché io sono in una condizione di svantaggio. Non vado mai lo stesso giorno, la stessa ora. Anche se vado a far lavori, visto che non mi servo di gente di Canolo, non sanno quando vado, difficile che vada due giorni di seguito, e li chiamo blitz per questo motivo: è una forma di auto-protezione, insomma, e anche questo è il motivo per cui, anche se psicolo-gicamente mi costa molto, ogni tanto faccio l’altra strada, perché per andare a Canolo Nuovo, se passi da Canolo Vecchio c’è un punto strategico sempre pieno di uomini, che possono dire “la signora è pas-sata”... quindi io ogni tanto stringo i denti e vado dall’altra parte, ma per me è una cosa terribile.

Quindi quando lei fa quella strada pensa che po-trebbero avvisare qualcuno...Non lo so, io so solo che certo non sono tranquilla...neanche quando vado al cimitero. Cioè io non ho avuto minacce e, vi ripeto, non tratto con nessuno, quindi non do motivo di fastidio. Però anche questo potrebbe essere un motivo di insofferenza, perché mio marito in quelle terre spendeva tutti i soldi del-la sua pensione, da me nessuno vede il becco di un

che non avete fatto niente?Io non so se lui lo ha fatto per offendere o perché, essendo un mezzo paesano - (è il figlio della guardia municipale) - invece aveva risentimento per l’impe-gno che vedeva profuso nelle indagini sull’omicidio Fortugno. Sono io ad aver preso quello che lui ha detto, cioè che nessuno faceva niente per il Dott. La Rosa perché i parenti stavano zitti, come un’offesa personale. Quello che mi ha dato fastidio è che l’ar-ticolo è stato pubblicato su Calabria Ora, io quando mi sono resa conto di quello che diceva, di getto ho scritto la risposta, ho chiamato Calabria Ora. Mi hanno detto di mandare la mia replica per fax e gliel’ho mandata per ben due volte. Non l’hanno pubblicato, perciò poi io ho chiamato Pino Lombar-do e gliel’ho detto. Lui, con molta serietà mi ha det-to: “non posso criticare l’articolo di un’altra testata per una questione di correttezza professionale, però posso pubblicare la sua replica”. Così la mia risposta è uscita su “Il Quotidiano”.

Quando si parla di tutte le vittime della mafia non sempre risulta il nome di suo marito.Non c’è mai, infatti nell’immediatezza ci fu quel fa-moso manifesto, eppure essendo successo un mese prima mio marito non c’era; nella famosa targa di Polistena mio marito non c’è, ora, per la targa so che bisognava chiederlo, perché me lo ha detto Mario Congiusta, che lo ha chiesto. Io non credo di dover chiedere che mio marito venga scritto in un elenco di uccisi per mafia in cui c’è gente che con Locri non c’entra niente, che con la Calabria non c’entra niente.

Secondo lei perché non lo hanno voluto scrivere?Forse era necessario che qualcuno “suggerisse” anche il nome di mio marito….ma non immaginavo funzionasse così…..

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quattrino. Io neanche una bottiglia di acqua prendo a Canolo, mi riempio il bidone di casa alla fontana pubblica, al centro del paese.

Maria Ficara: quindi sta mantenendo la cura del-la proprietà, senza però far arrivare un indotto economico. Se qualcuno sperava che si tornasse ai campi abbandonati e quindi alla libertà che c’era un tempo...Esatto, io mantengo la cura che aveva mio marito, però senza i benefici che lui portava lì. Perché lui non solo li chiamava a lavorare, ma erano tutti rego-larmente assicurati...contrariamente a Rosarno...lui per prima cosa faceva la denuncia all’Inps: 55 -101 giornate, a secondo. Tutti erano regolarmente assicurati. Sicuramente avrete sentito dire che cosa significa essere assicurati Inps, non è tanto per la futura pensione, quanto perché c’è l’indennità di di-soccupazione, di malattia, di maternità…prendono un pacco di soldi...

Maria Ficara(alle ragazze): avete sentito di si-curo dei fatti di Rosarno...nelle altre scuole ne ab-biamo discusso: i ragazzi immigrati, soprattutto dell’Africa, che si sono ribellati lavoravano a giorna-ta sfruttati e pagati poco, mentre i contributi ven-gono versati a persone che non lavorano la terra e hanno le indennità di cui si parlava prima...

Prof. Laurendi: Colpisce sentire come lei si è or-ganizzata per gestire la proprietà ma allo stesso

tempo senza tenere i contatti con il territorio...ci vuole coerenza, ma anche determinazione e in-traprendenza, coraggio, nell’abbracciare deter-minati valori.Ci vuole una dose di rabbia...non mi fate né corag-giosa né virtuosa...c’è una dose di rabbia tale...è una questione di principio…

Avv. Anna Cappuccio: di principio... il dottore La Rosa, dalla storia che abbiamo ricostruito, opera-va nell’assoluta legalità, che sta anche nel fatto di denunciare chi fa soprusi perché immaginate...qui c’era veramente una sopraffazione, non solo dell’individuo, ma della proprietà. Se rapportate quello che è successo al dottore La Rosa a ognuna delle vostre case, è come se a un certo punto un vicino, una persona vi venisse a dire: quel pezzo del vostro giardino o della vostra casa è mio, ma non me lo vendi, me lo prendo, piano piano, ci metto la macchina, ci pianto le mie cose...è una sopraffazione.Mio marito ovviamente non sottostava. Per una questione di carattere, perché a un certo punto, ri-peto, quando lui ha delimitato le proprietà, si è te-nuto al di sotto della delimitazione, quindi è come dire: se io rispetto quello che non è mio all’eccesso, perché non devo essere rispettato? Questo è ciò che lui non concepiva. Era anche il motivo per cui io gli dicevo: ma a te che te ne frega, vendi tutto e andia-mocene dai ragazzi...

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Ecco questa era la domanda che volevo farle...qual era la sua posizione?Io ero assolutamente contraria...forse per questo penso che se ha avuto qualche problema gli ultimi giorni magari non me l’ha detto perché sapeva la mia contrarietà. Io non ho mai fatto mistero. Avre-te capito che dico quello che penso... a chiunque. Quando ho dovuto lamentarmi con i Carabinieri non gliel’ho mandato a dire, gliel’ho detto chiaramente, per telefono.

Prof. Laurendi: vede, lei dice che la sua è rabbia, ma si sente anche altro. Il dolore, ad esempio.Quello indubbiamente.

Lei non è originaria di queste parti…Io sono originaria calabrese...mia mamma era cala-brese, non di questa zona, ma calabrese. Il mio papà non era calabrese e sono cresciuta in Toscana. Della Calabria io ho assimilato solo quello che condivido, cioè alcuni atteggiamenti, i modi di pensare, li ho as-solutamente rifiutati e non mi adeguo. Quindi, sono calabrese a metà, apprezzo tante doti calabresi ma c’è una parte della Calabria che non concepisco e tanto meno mi adeguo... ci sono delle cose che trovo perfino stupide.

Maria Ficara: però anche chi è calabrese può non accettare una mentalità, non è soltanto chi ha avuto la possibilità di vivere in un’altra regione. Possiamo sempre scegliere...Ha ragione, però non si incontrano molti che scel-gono qualcosa di diverso. Io non ne ho incontrati.

Quando vi siete conosciuti lei e suo marito?Lui era all’università di Modena, l’ultimo anno si è trasferito a Siena perché aveva avuto problemi, non mi ricordo con quale esame, che ha deciso di soste-nere a Siena. Era Novembre del ‘68. Poi nel ‘69, a lezione di Medicina Legale, il Prof. Barni decise di far fare dei seminari su argomenti di Medicina Le-gale. A Siena eravamo una sessantina di studenti, ai tempi miei, tra cui noi donne eravamo solo quat-tro, ci conoscevano per nome, a momenti. Essendo di meno le donne, il professore decise che saremmo state i capi gruppo. I maschietti dovevano scegliere l’argomento e quindi il gruppo di studio. Il mio era il segreto professionale, mio marito scelse il mio grup-po. Fu un incontro-scontro perché io e lui avevamo opinioni diametralmente opposte. Ci siamo trattati a pesci in faccia proprio, abbiamo iniziato litigando, ma non me lo sono più levato di torno! Nel ‘70 ci sia-mo sposati, vuol dire che le liti ci sono proprio pia-ciute! Considerate che appena laureata io ho avu-to un incarico all’Università di Siena. Poi, quando è morto mio padre, mia madre è voluta tornare in Calabria. Io ero combattuta, all’epoca guadagnavo 105 mila lire, che nel ‘68 e ‘69 erano veramente una cifra. Non riuscivo neanche a spenderli, erano tan-ti soldi. Inoltre, quando il professore si divertiva a mettermi in commissione - con mio grandissimo im-barazzo perché gli esaminandi erano miei colleghi fuori corso - c’erano 100 lire a firma che mi pagava il Monte dei Paschi. Comunque mi sono dimessa per-ché anche mio marito dopo la laurea voleva tornare qua. Anche sua mamma era rimasta vedova, il pa-dre era medico a Roccella…Per quanto riguarda me, a ventiquattro anni tu decidi in base al sentimento… quindi ci siamo trasferiti qui in Calabria.

Quindi quando vi siete sposati lei non pensava che sareste venuti a vivere in Calabria...All’epoca non ci pensavo. Oggi so di aver fatto l’er-rore più grande della mia vita, credo di non averlo ancora finito di pagare, ed è stato quello di dimetter-mi, anche perché sono convinta che si sarebbe con-vinto e sarebbe tornato. All’epoca non era difficile entrare nelle cliniche, poi lui era bravo in oculistica e l’avrebbero preso a braccia aperte.

Che cos’è che la trattiene ancora qui?Il principio, perché, se quando io gli ho detto: “vendi tutto e andiamocene”, lui l’avesse fatto, avrei ven-duto anche la casa. Il fatto che lui non l’abbia fatto e i motivi che mi frullano in testa sono la mia questio-ne di principio.

Se l’esito dell’indagine darà un colpevole, potrà andarsene?Be’, io sono uno dei tre eredi, quindi devo tener con-to del parere dei miei figli. Una volta fatta giusti-zia, penso che anche i ragazzi potrebbero pensarla diversamente. Vendere tutto no, ma alcune parti

“purtroppo qui la legge non è uguale per tutti.. ..”

FORTUNATOLA ROSA

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“scomode”, diciamo così, scomode non perché siano quelle implicate ma ad esempio i boschi, che sono la parte che ha maggior valore però sono in punti lon-tani, di quelle mi libererei molto volentieri. Io dico sempre ai miei figli: “una doveva tenersene, cioè, andavi matto dell’uliveto di Canolo, vendevi tutto il resto ti tenevi quello, andavamo a Milano dove era-no i ragazzi, a un certo punto tornavi quando dovevi fare i lavori nell’uliveto, quando dovevi raccogliere le olive, tornavi d’estate, ma tutto l’anno…”

Maria Ficara: mi ha colpito quello che mi ha detto una volta, cioè che se uno dei suoi figli decidesse di tornare in Calabria, lei glielo impedirebbe...No, ora non vorrei. Soprattutto nell’immediatezza del fatto, tutt’e due hanno detto: “mamma io…” la mia risposta è stata: “non ci pensare nemmeno! Che faresti qua?” Ho detto no, nella maniera più cate-gorica.

Non vuole perché ha paura per i suoi figli?Perché ho paura per i miei figli e perché ritengo che non ne valga la pena.

Ma dopo l’omicidio i suoi figli sono venutiqua in Calabria?Sì, d’estate quando sono in ferie vengono qui, poi a Natale sono io che mi impongo ad andare, ma non mi fanno fermare fino a Capodanno, torniamo tut-ti qui. D’altra parte loro sono calabresi-calabresi, quindi il discorso è diverso. Praticamente sono sta-ti qui fino al liceo, poi sono andati all’Università a Milano. Quindi la mentalità è diversa, le cose non le vedono come le vediamo noi che siamo qua. Erano altri tempi... se ne erano già andati... no forse anco-ra no...quando hanno sparato al povero professore Panzera...forse erano gli ultimi anni di Liceo... parlo del professore che aveva scoperto che c’era spaccio di droga a scuola ed era intervenuto. Mi pare che ancora non ci siano colpevoli. Ricordo che quella fu una cosa terribile, era un professore molto stimato, molto conosciuto, molto disponibile con i ragazzi...insomma un professore come tutte le mamme vor-rebbero per i propri figli. Ora gli hanno intitolato la strada dove c’è il liceo scientifico, ma questo lo hanno fatto con notevole ritardo.

Nel caso di suo marito, abbiamo letto l’interro-gazione parlamentare che a un certo la Senatrice Angela Napoli ha presentato. Secondo lei ha sor-tito qualcosa?Lei è stata l’unica a interessarsi, ma non ha portato a niente, credo perché l’ha fatta nel momento in cui il governo Prodi stava cadendo. Oggi Angela Napoli è in disaccordo con il suo partito, è comunque PDL e mi pare sia ancora nella Commissione Antimafia. Ul-timamente ha fatto anche delle denunce abbastanza gravi per le prossime elezioni regionali perché ha richiamato l’attenzione sul fatto che nelle liste della

sua coalizione ci sono candidati in odore di mafia.

Lei in uno scritto ha detto che se avesse creduto a Mastella sarebbe andata a piedi...Si questo è sempre riferito all’articolo di quel “bravo ragazzo” canalese che diceva che i parenti stanno zitti e quindi le indagini non si fanno...cioè io gli ho voluto dire: non è che incatenandoti in Piazza Tri-bunale puoi sperare che facciano qualcosa di più, né pensavo all’epoca, parlando con Mastella, puoi pen-sare che influenzi la caserma di Locri…anche se a distanza di tempo a me è stato detto che tra i motivi per cui è prevalso su qualunque altro tipo di inda-gine l’omicidio Fortugno è stato che da Roma ogni

giorno arrivava una telefonata. Io non pensavo che fosse necessaria la raccomandazione...

Avv. Anna Cappuccio: in uno Stato democratico, in uno Stato di diritto, non deve essere così. Al-trimenti non ha senso il principio costituzionale secondo cui la legge è uguale per tutti.Purtroppo qui non è uguale per tutti.. perché se fa-cendo queste indagini io poi posso andare in televi-sione e tutti i giornali nazionali ne parlano, non solo un quotidiano della Calabria, forse io ho più sprone ad interessarmi… questa è la mia ultima convinzio-ne, spero che sia sbagliata.

“...sono calabrese a metà, apprezzo tante doti ca-labresi ma c’è una parte della Calabria che non concepisco e tanto meno mi adeguo...”

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Alberta CavalloI colori si alternano, vanno dall’arancio al verde al mar-rone. Le punte sembrano poterti infilzare ma, in realtà, sono innocue. È strano come un albero possa raccontare la sua vita, attraverso il ven-to, attraverso i cerchi den-tro di sé. Con le sue foglie grandi che si aprono come un ombrello, come se stes-se proteggendo il suo corpo dalla pioggia o dal vento. Il suo frutto, splendente alla luce del sole, pende come le foglie e si posa su alcune di esse come se le accarez-zasse. Con il vento, che col suo tocco delicato fa aprire questa singola pianta, dise-gnano un quadro perfetto. Solo la natura è capace di creare un figlio così bello, anche se insignificante per alcuni. Il suo corpo è molto forte all’apparenza, ma in re-altà è debole.

Annaida CaccamoUscendo dalla scuola a primo impatto noto il caos della vita quotidiana: mac-chine, motorini, biciclette e mentre ci muoviamo sento sotto i piedi le foglie cadute dagli alberi. Camminando ancora un po’ e fermandoci in un punto, sono di fronte a una panchina vuota e penso subito alla solitudine, a quante volte stare soli serve anche a noi, per pensare a noi stessi.Denise Romano

Oggi siamo fuori dalla scuo-la. Fisso il cielo ed è come un grande mare a mezzo-giorno, tutto azzurro. È pieno di nuvole che si spostano continuamente, sembrano proprio dei pesci. Mentre alzo la testa vedo degli al-beri, delle case.

Verdiana CinanniFuori dai cancelli della scuo-la possiamo notare la vita che scorre come al solito, fa freddo, c’è vento, il cielo è limpido e ogni tanto c’è qualche raggio di sole. Il bar di fronte all’istituto è pieno di ragazzi e nell’arianon ci sono tuttigli insetti dell’estate.Camminando vedo le foglieingiallite sul marciapiede.

Erika Scrivo Fuori dalla scuola vedo ra-gazzi che passano il tempo in un bar. Quei ragazzi non hanno voglia di studiare. Molti alberi e anche molte macchine.

pens

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lib

eri

Stefania Pedullà È azzurro, è limpido, pieno di gente buona, descrive la pace. Su di esso si pro-tendono nubi bianche che formano strane figure. Non piange. Dà come un senso di libertà, come se niente possa impedirti di guardarlo. Alcune nubi sono tristi, gri-gie. L’aria che le circonda è aria pura. Tutto ciò che dà è il senso di libertà. Come se tu potessi volare, come se fossi una colomba. È tutto, è l’infinito.

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Stefania PedullàOtto settembre 2005. Il dottore Fortunato La Rosa, uno stimato oculista in pensione, viene assassina-to a bordo della sua auto mentre fa ritorno a casa a Locri dalle campagne di sua proprietà a Canolo. I Carabinieri si sono occupati del caso che, solo dopo due anni, a Dicembre del 2007, è passato alla DDA. Dopo quasi cinque anni, sono ancora in corso le indagini.

Annaida Caccamo Abbiamo analizzato il caso del Dott. La Rosa, riflettendo sulle informazioni che abbiamo ricevuto da Maria Ficara durante i vari incontri con lei e grazie all’intervista fatta da noi ragazze alla vedova del dottore, la Dot-toressa Viviana Balletta. Mi ha colpito molto il modo in cui la Signora si è espressa, con molta cordialità e disponibilità, ma allo stesso tempo con fermezza. La dottoressa riesce a non far trasparire paura o timore che però secondo me, dato che lei lotta perché sia fatta giustizia sulla morte del ma-rito, deve essere presente. Grazie all’incontro con la vedova, abbiamo saputo di più sul dottore La Rosa: era un uomo per bene, tranquillo, umile, un ottimo marito e padre.

Erika Scrivo L’incontro con la Dottoressa La Rosa è stato veramente interessante e molto bello. Mi ha fatto capire che non dobbiamo mai arrenderci di fronte alla crudeltà della vita e alle ingiustizie. La Signora La Rosa, dopo la morte del marito, non si è arresa, ma continua a lottare con coraggio per difendere i propri principi.

Denise Romano Una delle cose che mi ha molto colpito intervistando la Dottoressa La Rosa è la sua “testardaggine”. Conti-nua a coltivare i terreni che il marito amava e curava, ma senza avere a che fare con la gente del posto, per-ché sicuramente qualcuno di loro sa cosa è successo, ma non ha collaborato con le indagini.

racconti

Verdiana Cinanni Quando a Dicembre i profes-sori sono venuti in classe a chiedere chi volesse parteci-pare al progetto “Arcipelago della Memoria”, tutti hanno pensato che fosse il solito lavoro sulla legalità, cioè solo una perdita di tempo. Io comunque ho pensato che valesse la pena pro-vare. Gli incontri mi hanno appassionato e, dato che l’ho raccontato in classe, a quel punto tutti avrebbero voluto partecipare. Il labo-ratorio ci ha completamente incantato, invogliandoci a documentarci ancora di più sulla uccisione del dottor La Rosa l’8 Settembre 2005 e ancora oggetto di indagine. L’incontro con la moglie, la dottoressa La Rosa, è stato bellissimo. Lei ha dato ri-spose esaurienti alle nostre domande, è stata molto disponibile nonostante l’ar-gomento. Nel suo racconto, nelle sue parole, si sente una forte dose di rabbia, do-lore e orgoglio che fa sì che lei non molli ma continui a lottare per ciò di cui ha di-ritto: la giustizia. Mi ha emo-zionato quando ha raccon-tato come si sono conosciuti col marito. Dalla voce che in quel momento un po’ le tre-mava, abbiamo sentito tutto il grande amore che c’era tra loro. Non è solo sua questa tragedia, la perdita di una persona così onesta, troppo onesta per questa terra.

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04Peppe Valarioti, nato a Rosarno il 14 febbraio 1950, segre-tario della sezione cittadina del PCI, venne ucciso la sera del 10 giugno 1980 a Nicotera. Il processo vide imputati alcuni esponenti della cosca di Rosarno e un membro del PCI ma fu rinviato a giudizio solo il patriarca don Peppino Pesce, poi assolto per insufficienza di prove nel 1982. L’inchiesta-bis si aprì dopo rivelazioni del pentito Scriva nel 1983 e oltre Don Peppino e Antonio Pesce vide imputati come mandanti anche il capobastone di Gioia Tauro Giuseppe Piromalli e Sante Pisani e come esecutore Francesco Dominello (ucciso nell’81). Tutti gli imputati furono assolti con formula pie-na nel 1987.

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Siamo studenti dell’Istituto Superiore Gian Francesco Gemelli di Taurianova, siamo qui perché stiamo lavorando sulla storia di Peppe. A voi, che siete la sua famiglia, vorremmo chiedere di raccontarci lui com’era, cosa faceva, che persona era…è vero che gli piaceva studiare?

Mamma di Peppe: A Peppe piaceva studiare sin da bambino. Io avevo insegnato a tutti i miei figli a leg-gere e a scrivere, perché ho la licenza elementare, che per quei tempi era particolare. Il bambino era sveglio, gli avevo insegnato a scrivere, come avevo fatto con le sorelle, su una tavolino di marmo, dove si poteva cancellare e riscrivere. Quando andavo in campagna, prima lo lasciavo da mia mamma, poi a quattro anni lo portai da una sua vicina di casa che faceva lezione. Allora non c’era una scuola nei pressi di casa nostra, ma c’era questa signora che insegnava ai bambini a casa sua. Peppe era il più piccolo e anche la maestra era colpita dal fatto che a lui piaceva imparare e che sapeva già scrivere. Lei

stessa lo preparò per gli esami di ammissione alla seconda elementare. Io ero contenta anche perché la scuola, fino alla quinta non si pagava. Mi ricordo che quando doveva entrare alle elementari, a cin-que anni, però, piangeva perché non si voleva met-tere il grembiule. Lui era piccolino, di età ma anche di statura- poi da grande è diventato un bel giovane ma allora ancora sembrava più piccolo della sua età- quindi la gente era colpita quando lui usciva col grembiule delle elementari. Poi a Rosarno fece anche le medie, invece per andare al Liceo a Palmi prendeva l’autobus.

Quindi Peppe conosceva così bene il mondo dei

Intervista alla mamma di Peppe Valarioti, alle sorelle Francesca, Angela e Teresa e alla nipote Maria Concetta.

di Martina Albanese, Andrea Calivi, Rita Cardona, Giuseppe Cutrì, Giu-seppe Mandoglio, Elena Mastria, Domenico Salerno, Alessia Siciliano, Alessia Spanò, Arianna Zerbonìa (Istituto Superiore “G. F. Gemelli Careri” – Taurianova, RC)Presenti all’intervista il Prof. Ugo Verzì Borgese e il Prof. Antonio Orlando, amici di Peppe Valarioti.10 -02-2010 - Casa Valarioti, Rosarno (RC).

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contadini perché lavoravate la terra?

Mamma di Peppe: Sì, mia mamma era casalinga, io ho iniziato ad andare in campagna quando mi sono sposata. Le terre che lavoravamo erano le nostre, non andavamo a giornata. Anche Peppe, più grande, mi accompagnava. Poi, quando lui aveva la macchi-na e mi vedeva che partivo per la campagna mi di-ceva: “vengo pure io, così ti accompagno e poi vengo a prenderti.”

Peppe era l’unico figlio maschio? Francesca: sì, la primogenita sono io, Francesca, poi c’è Angela, poi c’era lui e poi Teresa. Maria Concetta: io sono una nipote e me lo ricordo benissimo, perché sono sempre cresciuta qua a casa di mia nonna, abbiamo passato tantissimo tempo in-sieme e so quanto ci teneva a noi nipoti...Mamma di Peppe: soprattutto il primo nipote, che non voleva andare a scuola. Lui lo chiamava con uno sguardo, gli faceva così, lui saliva sopra e Peppe gli spiegava le lezioni, gli faceva fare i compiti.

Qualcuno dei nipoti assomiglia a lui? Maria Concetta: per quello che ricordiamo di lui, nessuno di noi gli somiglia molto, ma ho un fratello più piccolo, Giuseppe, che in piccola parte ce lo ri-corda, ma a livello di carattere no.Francesca: io ho sei figli io no e uno solo ha voluto studiare. È avvocato e noi diciamo: “prende dallo zio Giuseppe!”Teresa: mio fratello era troppo bravo, nessuno di noi è come lui…lui non vedeva la malvagità nelle persone. Se gli raccontavamo una cosa, lui non ci credeva al male...non ci pensava.Mamma di Peppe: quando lo avvertivamo lui non ci pensava, diceva: “non ti preoccupare, non ti preoc-cupare”. Quando io ho sentito che stava con i comu-nisti, gli ho detto: “non pensare che raccolgo i voti a te, perché io voto per la Democrazia” e lui mi rispon-deva “non voglio essere votato da te, se mi vogliono mi devono far salire loro”. Quando venne l’ora delle elezioni e lui andò per i fatti suoi, io gli ho chiesto: “sei salito?” e lui mi ha risposto “sì”. Ma io gli ho detto “non volevo che prendevi questa strada” e lui: “non ti preoccupare, non è come dici tu.”

Voi non volevate?Mamma di Peppe: io no, io non volevo...

Avvertivate che ci poteva essereun pericolo per lui?Angela: sì, però non subito.

E andando avanti con la sua storia?Francesca: andando avanti con la storia l’avverti-vamo perché man mano lui è cresciuto come per-sonaggio e si sentiva parlare di lui in paese, quindi abbiamo avuto paura...

Sentivate il pericolo attraverso la reazione della gente? Mamma di Peppe: io non volevo, gli dicevo: “non pensare che io voto per te”, ma lui mi ripeteva “io non voglio voti da te, però anche se ti raccontano cose sui comunisti, ricordati che non è vero.”

Non eravate d’accordo con il partito...Tutte le sorelle: no, no, no.

Mentre per lui era proprio importante, no?Mamma di Peppe: fece un comizio qua davanti, vi-cino casa, e mi ricordo che mi è venuto l’istinto, ho

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GIUSEPPEVALARIOTIdetto vado a trovarlo, vado a vederlo, voglio vedere come parla, che tutte le persone dicevano ha fatto un comi-zio, come parla bene vostro figlio!

E lei ci è andata, a sentirlo?Mamma di Peppe: no, quando sono arrivata là, il comizio era finito.

Quindi non l’avete sentito mai par-lare in pubblico?Mamma di Peppe: No, e mi dispiace. Io non sapevo nemmeno che sapeva parlare in pubblico questo figlio...in

casa era una persona umile, non parlava nemmeno l’italiano con i professori se qualcuno veniva a tro-varlo, per non mettere a noi a disagio.Angela: sì, per non mettere a disagio la famiglia lui parlava il dialetto, come lo parliamo noi.Francesca: nessuna di noi ha mai visto un suo co-mizio...noi non andavamo perché non eravamo d’ac-cordo che lui prendesse questa strada.

In famiglia ha mai parlato delle pressioni che aveva intorno a lui?

Teresa: no, no, mai. Si presentava sempre tranquillo..

Quindi non vi ha mai detto niente, se magari qualcuno gli dava fasti-dio…Maria Concetta: mia nonna gli di-ceva: “stai attento”, ma lui le rispon-deva sempre “mamma, tutti mi vo-gliono bene.”

E come avete fatto a superare que-sto momento?Maria Concetta: non sappiamo se l’abbiamo superatoAngela: non l’abbiamo mai supera-to... solo con il tempo...Teresa: siamo dovuti andare avanti perché la vita continua...Francesca: tutte abbiamo figli, ma non hanno mai festeggiato un com-pleanno, non abbiamo mai festeg-giato un Natale, o Pasqua.Angela: non ci siamo mai più riuniti insieme qui.Teresa: è vero, i nostri figli non han-no nemmeno una foto di un comple-anno festeggiato tutti insieme, in segno di lutto.

Voi come avete raccontato Peppe ai vostri figli?Francesca: Gli abbiamo sempre raccontato come era nostro fratello.

Maria Concetta: Io stavo sempre qui, a casa di mia nonna, quindi da bambina, per undici anni, sono sempre stata vicino a lui. A lui per esempio piaceva registrare le voci, mi diceva: “parla, parla” e poi mi faceva riascoltare. Andavo al mare con lui, facevo i compiti, era molto dolce.

I Rosarnesi sono riconoscenti verso la figura di Peppe?Mamma di Peppe: quelli onesti sì! Ancora c’è gente che gli porta fiori al cimitero e noi non li conosciamo neanche. Angela: non lo ha dimenticato nessuno a Rosarno...e sono stati pochi quelli che gli hanno voluto male.

Quindi la gente sapeva che lottava per migliorare la realtà di Rosarno.Teresa: sì, per difendere i diritti dei contadini.Mamma di Peppe: lui c’è l’ha in un quadro i conta-dini, gli operai, l’avete visto nella sua stanza? Per-fino accanto al letto ha voluto quel quadro! E con quel quadro lo ricordano nella piazza intitolata a lui, l’avete visto? Francesca: sì, mamma, hanno visto il murale in piazza...

Quando è stata intitolata la piazza a Peppe?Teresa: dopo due anni, mi sembra...Angela: sì, nell’ 82.

È una cosa che vi ha fatto piacere? Anche questo serve per fare ricordare alla gente...Maria Concetta: in parte è doloroso...sappiamo che lo ricorda alla gente, ma all’inizio, ogni volta che passavano le macchine per la strada per annuncia-re degli incontri e dicevano: “in Piazza Valarioti…” soprattutto i primi tempi, ci faceva stare male…Francesca: sappiamo che lo ricordano non solo a Rosarno, ma in tanti posti.

A parte il partito comunista, pensate che altri partiti lo ricordano? Vi hanno mostrato solida-rietà?Teresa: sì, altri ne hanno parlato, altri hanno conti-nuato a fare il Premio Valarioti. Io penso che se non avevano piacere non lo facevano...

Ci sono state persone dopo Peppe interessate come lui a quello che succedeva a Rosarno?Mamma di Peppe: no, no. Poi a poco a poco si sono mangiati tutto, la cooperativa Rinascita. A poco a poco hanno smantellato, hanno fatto i palazzi.Francesca: questo è un altro discorso, mamma.Angela: quello a cui noi teniamo è che almeno resti il nome nostro. Che non ci siano altri che lo prenda-no di diritto. Perché dei nostri parenti non ci è stato vicino nessuno.Francesca: nessuno...quando è stata l’ora della cau-sa, tutti i parenti si sono allontanati.

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Teresa: hanno avuto paura tutti...Mamma di Peppe: cambiavano pure strada. Passa-vano da un’altra strada, non da qui. Questa è una via principale. Mio marito è vissuto 93 anni ed era sempre seduto qua fuori e non passavano nemmeno più le sue sorelle di qua. Se ne sono andati tutti.Francesca: per questo noi non vogliamo che anche se ci sono parenti, visto che noi siamo femmine e il suo cognome non l’abbiamo passato ai nostri figli, ecco, noi non vogliamo che loro siano rispettati per Peppe.

Maria Ficara: la prima volta che sono venuta a trovarvi mi dicevate che questo è sempre stato un dispiacere per vostro papà, per vostro marito...Mamma di Peppe, sorelle di Peppe: sì, sempre. Angela: Eravamo pure una famiglia unita. Ma gli stessi familiari non ci sono stati a sostenere.Francesca: questo era un rione in cui praticamen-te eravamo tutti parenti. Eppure, dopo la morte di mio fratello si sono allontanati. Questo è peggio dell’omertà.

Peppino aveva qualche interesse? Per esempio, giocava a calcio?Teresa: a calcio non giocava. Il suo grande interesse era l’archeologia.Maria Concetta: Ascoltava tanta musica, aveva cassette di musica classica e di lirica, che gli piace-va un sacco. Pure la foto ultimamente, faceva tante foto...aveva la macchina fotografica e faceva sempre foto. Andava a fare foto anche con il professore Bor-gese.

(Al Prof. Borgese) Che tipo di fotografia faceva?Prof. Borgese: foto paesaggistiche, di studio. Legate agli antichi siti.

Non fotografava gli operai, i contadini?Prof. Borgese: eravamo appassionati di storia, di archeologia. Infatti lui ha scritto alcuni articoli di storia di San Ferdinando, su Medma, l’antica Rosar-no… eravamo tutti appassionati di storia archeolo-gica in generale..

Maria Ficara: e non solo, direi. Lui collegava la storia del passato ai problemi sociali del presen-te, no?Prof. Borgese: be’, sì.

Lei dove insegnava?Prof. Borgese: insegnavo lettere al liceo. Con peppe eravamo amici. Lui era del ‘50, io sono del ‘44.

Insegna ancora?Prof. Borgese: no, adesso sono in pensione. Scrivo libri a tempo perso.Mamma di Peppe: il professore non era comunista. Non era col partito comunista. Era molto amico di Peppe ma non era con il partito. Anzi, lui glielo dice-va di non fare politica!

A quell’epoca essere comunisti era proprio un problema?Francesca: sì, perché si diceva che quelli della De-mocrazia Cristiana erano persone più civili. La De-mocrazia Cristiana era come la chiesa…e mia mam-ma avrebbe pure voluto il figlio prete!Maria Concetta: da quello che mi raccontavano, addirittura c’erano delle omelie da parte dei sacerdoti contro il comunismo... come il male...il male assoluto...Mamma di Peppe: suonavano le campane a morto quando hanno vinto le elezioni!Francesca (a sua madre): sì, mamma, ma quello era un prete particolare, (a tutti): stiamo parlando degli anni ‘50, non di adesso...Angela: è che noi eravamo per la chiesa, con le suore. Siamo cresciuti all’oratorio... mia mamma ci portava tutte le mattine a messa anche se non vo-levamo...quindi poi votavamo pure come votavano

(...) sì, perché si diceva che quelli della democrazia cri-stiana erano persone più civili. La democrazia cri-stiana era come la chiesa…e mia mamma avrebbe pure voluto il figlio prete!

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GIUSEPPEVALARIOTIle suore..Teresa: il Partito Comunista era un sacrilegio, quasi!

… Ma quindi, dato che lui era nel Partito Comuni-sta, voi non l’avete mai votato?Tutte le sorelle: sì, l’abbiamo votato..l’abbiamo votato.Angela: però lui non c’è l’ha mai chiesto…e noi nem-meno gliel’abbiamo chiesto a lui...

Ma glielo avete detto?Angela: sì. E ancora lo votiamo, per dire la verità! Però ai nostri figli noi non diciamo niente...ma noi sì.Maria Concetta: io pure ...in memoria di mio zio. È come se facessi a lui un piccolo favore...Francesca: certo, poi diciamo: “chissà se c’era lui...”Maria Ficara: magari non sarebbe entusiasta della situazione di adesso, però per voi è come rispettare la sua memoria...Angela: anche se non sentiamo la cosa noi lo votia-mo lo stesso, è diventata la nostra tradizione.

C’è stato un successore di Peppe con gli stessi obiettivi?Tutte le sorelle: no, nessuno.Prof. Borgese: con lui si è chiuso pure il Partito Co-munista. (Al Prof. Orlando): tu lo sai, vero?Prof. Orlando: sì, è vero.Francesca: hanno fatto la Casa del Popolo. Però ci sono solo quattro vecchietti...quelli proprio antichi.Qual era il sogno di Peppe?

Angela: di poter cambiare Rosarno.Francesca: cambiare Rosarno e insegnare latino e greco a scuola, che erano la sua passione.Teresa: pure avere una famiglia.

Com’era Rosarno in quei tempi...quando lui era nel Partito Comunista...quando è stato ucciso...?Francesca: eh, non era affatto un bel periodo...la situazione era difficile. Peggio di adesso. Erano pro-prio gli anni di piombo...

C’erano anche le faide? Angela: sì...

E il processo? quando è iniziato? E gli imputati?Angela: è iniziato con la sua morte si è concluso dopo due anni, per non aver commesso il fatto. E tutto è finito lì. C’erano degli imputati, però non è stato condannato nessuno.

Voi credevate che tra gli imputati c’erano i colpe-voli? Avevate dei sospetti? Francesca: non lo sappiamo, non sappiamo niente. Noi ci salutavamo con tutti, eravamo amici con tut-ti... sai, non è che dici: avevamo avuto una discus-sione...niente...

Avete perdonato le persone che hanno ucciso Pep-pe, anche se non le conoscete?Tutte le sorelle: no, no. Non li abbiamo mai perdo-nati. Aspettiamo la giustizia divina.Maria Concetta: mia nonna dice che c’è ... c’è la giu-stizia divina, nonna?Mamma di Peppe: certo, che fa, allora, non c’è? Di-gli, digli della signora, come se lo è sognato la notte che è morto…Maria Concetta: un mese fa ero in macchina con una signora che gli ha dato un passaggio, e ci siamo messe a parlare di mio zio perché bene o male se lo ricordano tutti. Questa signora mi dice: “io non l’ho mai raccontato, però la notte che è morto tuo zio, mi sono sognata una donna vestita di nero che piangeva. Io le ho chiesto: mi devi dire che è morto mio fratello? ‘No’, dice quella donna, ma ‘beata quel-la mamma che ha mandato questo figlio in cielo’”. Quella notte è morto mio zio Peppe…lo abbiamo sa-puto la mattina quando ci siamo svegliati…

Non lo avete saputo la sera?Francesca: no, noi l’abbiamo saputo la mattina alle 4!Mamma di Peppe: pure più tardi...era giorno.

Sono venuti i Carabinieri?Angela (indicando la sorella): è venuto suo mari-to. Però a casa nostra erano venuti quelli che erano con lui a mangiare la pizza a Nicotera quella sera... Il professore Orlando ci ha raccontato che quella sera dovevano mangiare la pizza nella sede del

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partito...Angela: a mia mamma ha detto così, la pizzeria non era programmata...Mamma di Peppe: a me non ha detto che andava in pizzeria

Quindi c’è stata una soffiata di qualcuno?Maria Concetta: un agguato comunque era già pre-parato perché sennò non sarebbero andati a Nico-tera...Mamma di Peppe: no, quello era preparato...Angela: mi posso anche sbagliare, ma secondo me qualcuno del partito glielo deve avere detto...secon-do me proprio in quella comitiva c’era il traditore...Prof. Orlando: sentite questo ricordo del professore Borgese…Prof. Borgese: il mio ricordo è questo: la sera che avevano vinto i comunisti, mi trovavo nella piaz-za dove siete arrivati. Ho visto Peppe, che mi dice: “abbiamo vinto, abbiamo vinto!” Io non lo sapevo...aggiunge: “più tardi andiamo a mangiarci la pizza a Nicotera.” Sono state le ultime sue parole che ho sentito, poi non l’ho più visto.

Maria Concetta: ah, lui gliel’ha detto che andava-no a mangiare la pizza a Nicotera?Prof. Borgese: sì, sì…Angela: e forse a mia mamma, per non farla preoc-cupare, lui ha detto che rimanevano nella sede.Prof. Borgese: la notizia io l’ho avuta alle 6 del mat-tino.Prof. Orlando: pure io...Mamma di Peppe: ma la cosa era già preparata, sennò non lo aspettavano alla macchina sua. Secondo voi lo hanno ucciso perché avevano pau-ra di lui?Mamma di Peppe: no, lo hanno ucciso perché era onesto…

Ma secondo voi il bersaglio era proprio lui, oppu-

re hanno sparato al gruppo? Teresa: sì, sì era lui, perché lui era il più esposto...Gli hanno messo il microfono in bocca e l’hanno la-sciato solo...l’hanno abbandonato.Mamma di Peppe: una volta è passato il Prof. La-vorato, mentre io e mio marito stavamo mettendo fuori le botti del vino, e mio marito ha parlato a La-vorato, e gli ha detto: “non ho piacere che lui faccia politica” . Il professore lo rassicurò, ma poi abbiamo sentito che pure lui era comunista!

Ma voi siete fiere di Peppe, di quello che ha fatto?Maria Concetta: io sì...Francesca: se non l’aveva fatto era meglio...

Cioè trovate che la sua morte è vana? Oppure è servita a qualcosa secondo voi?Mamma di Peppe: sì, è servita, è servita...Francesca: ma a noi non è servita a niente...Angela: per noi la vita è cambiata in peggio...Teresa: noi lo volevamo vivo...

Che cosa gli direste oggi?Angela: che eravamo fieri di lui. Lui insegnerebbe a scuola, noi gli porteremmo le cose dalla campagna, lui sarebbe sposato… avremmo ancora tutta la vo-glia di...Francesca: di coccolarlo...Teresa: di coccolarlo, sì.

È vero che aveva una passione verso la terra, che gli piaceva coltivare, lavorare con i genitori? Mamma di Peppe: tantissimo. Non mi faceva anda-re sola in campagna. Veniva con me per aiutarmi e poi se ne andava in sezione. Francesca: Era molto presente con la famiglia, an-che con i nipoti. Se io avevo dei figli in ospedale, lui parlava con i medici, si occupava di tutto, noi con lui non avevamo bisogno nemmeno dei mariti! Ave-vamo lui.Angela: non abbiamo bisticciato nemmeno da picco-lini, quando invece è normale tra fratello e sorella, noi mai.

Lui era consapevole che la sua scelta poteva es-sere fatale?Mamma di Peppe: no, lui non pensava... forse all’ul-timo era preoccupato un po’, gli ultimi giorni...

Chi vi è stato più vicino dopo la morte di Peppe?Teresa: nessuno quasi...tranne gli amici suoi...gli amici della scuola, non quelli del partito. Quelli con cui era cresciuto, quelli che frequentava con il la-voro.

E loro...lo sapete cosa pensavano, cosa dicevano a Peppe? Magari non erano delle stesse idee po-litiche…

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GIUSEPPEVALARIOTIFrancesca: nessuno era delle sue stesse idee politi-che. Mamma di Peppe: io non ho mai detto una cosa per un’altra, e non capisco come non ha preso le mie parole, come non mi ha ascoltato...era proprio destinato...e questa cosa non mi passa…Prof. Borgese: io ho scritto alcuni versi su Peppe in un libro, dopo vent’anni. Non sono riuscito a scrivere prima. Si chiama “Il Medmeo dal cuore puro”…“dicevi se non saremo noi giovani a dare voce alle esigenze nostre, chi porgerà la mano? A chi dovremmo rivolgerci se non a noi stessi e alla nostra cor-rettezza…?”

Riesce a a dare una giustificazione della morte di vostro figlio?Mamma di Peppe: il destino…questa è stata la sua croce, il suo destino.

Alessia Siciliano

Giuseppe era l’unico figlio maschio della casa. Già da ragazzo si mostrò nemico della violenza e dell’odio. Le sorelle Francesca, Ange-la, Teresa e la nipote Maria Concetta affermano che cercava sempre di costruire attorno a sé un ambiente sereno, costruttivo, per una realtà basata sull’onestà. Già da questa informazio-ne si può capire che aveva fin dall’infanzia qualcosa in più degli altri, qualcosa che lo distingueva. Frequentò la scuola elementare e media a Rosarno, per poi continua-re il Liceo Classico di Palmi, al termine del quale si iscris-se all’Università di Messina, dove si laureò in Lettere Classiche nel 1973. Nono-stante le difficoltà finanzia-rie, Peppe non smise mai di studiare e di dedicarsi alla famiglia, aiutandoli anche nel lavoro campestre. Ave-va una forte passione per la musica e soprattutto per la ricerca biologica. Gli anni ’70 furono per lui molto im-portanti: riuscì nella stesura di un lavoro letterario aven-

te come tema “Medma-Rosarno: una problematica archeologica, topografica e storica”, riuscì nell’indagine storica svolta nello scritto “La questione meridiona-le” e anche in “Lavoratori, baroni, politici e lotte con-tadine”, avente come tema le condizioni della classe operaia prima e dopo il Fa-scismo. Nella seconda metà di quegli anni Valarioti seguì gli studi per il conseguimen-to dell’abilitazione all’inse-gnamento; si iscrisse poi al P.C.I., con la consapevolezza che per Rosarno sarebbe ar-rivato il momento del cam-biamento. L’11 giugno del 1980 è stato il giorno in cui Peppe è venuto a mancare: il suo corpo è stato ritrova-to nei pressi del ristorante “La pergola” dove lui con i suoi compagni si era reca-to per festeggiare la vittoria elettorale, la sconfitta delle ‘ndrine.”Questo schifo è an-che colpa nostra. E se non siamo noi a batterci chi lo fa?” diceva sempre agli ami-ci. Quella primavera Peppe aveva lanciato dai micro-

foni un messaggio di lotta, di coraggio, di speranza per la realizzazione, anzi per il recupero di quell’unità e so-lidarietà che negli anni ’50 si era concretizzata con la conquista delle terre del Bo-sco selvaggio. E fu così che una lupara squarciò il buio della notte. Due colpi sordi e precisi sparati vigliacca-mente e per il segretario della sezione comunista di Rosarno non c’è stato più nulla da fare. E fu così che in un attimo tutti i sogni e le speranze di cambiamento svanirono. Giuseppe Valario-ti comunque non è mai sta-to dimenticato. A suo nome è stata intitolata una piazza, “La Piazza Valarioti”. Su di lui sono stati scritti molti libri. C’è però una cosa da precisare: nonostante non sia mai stato dimen-ticato, non c’è mai stato nessuno che ha cercato in un certo senso di seguire le sue orme. Al processo l’unico inviato a giudizio fu Giuseppe Pesce. Ma quest’ultimo venne assolto per insufficienza di prove

dalla Corte d’assise di Pal-mi il 17 luglio 1982. Nell’ ’83 a parlare è Pino Scriva, ndranghetista di San Ferdi-nando, facendo i nomi di don Peppe Pesce, del nipote Antonio, del capobastone di Gioia Tauro Giuseppe Pi-romalli e di Sante Pisane, dice che sarebbero loro i mandanti, mentre a spara-re sarebbe stato il giovane Francesco Dominello, ucciso nell’ ’81. Le rivelazioni fiume di Scrive hanno fatto luce su omicidi eccellenti eppure l’inchiesta sull’omicidio Va-larioti si è conclusa con un buco nell’acqua. Per Valarioti nessuna giustizia, nemme-no un vero processo dopo le rivelazioni di Scriva. Pa-recchi dei protagonisti sono ormai morti, una verità giu-diziaria sembra difficile da raggiungere. Anche se “quel processo si sarebbe potuto celebrare, perché Scriva è sempre stato un pentito af-fidabile”- ha confermato l’ex magistrato Salvatore Boemi. Un processo che non si è fatto, una storia da riscrive-re, in cerca della verità.

Nonostante i suoi numerosi impegni quotidiani, Valario-ti aveva una relazione con una ragazza. La sua amo-rosa si chiama Carmelina, una bella donna della quale Peppe era molto innamora-to. I familiari di Peppe non si sono mai interessati alla sua vita privata, ecco spie-gato il motivo del perché non conoscevano Carmelina e l’hanno incontrata solo il giorno del funerale di Pep-pe. Carmelina non ha mai dimenticato Peppe, anzi, il suo amore verso di lui l’ha portata a fare una scelta di vita molto importante: quel-la di non sposarsi. La fami-glia ci dice: “La cosa che ci fa stare male di più è che in questo momento gli assas-sini di Peppe sono in libertà, magari si stanno bevendo un caffè, magari hanno una famiglia, cosa che Peppe purtroppo non potrà mai avere”. È stata davvero una bella esperienza entrare a casa di quell’uomo che ha sempre lottato per la sua Rosarno, che avvertiva in sé un grande disagio a vivere

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in un mondo fatto di soprusi e ingiustizie e per questo pose al centro della sua attività pubblica la lotta con-tro lo sperpero, gli imbrogli, contro la mafia e i politici corrotti. È una semplice casa, quel-la che abbiamo visitato, la casa di una semplice fami-glia. Nonostante siano pas-sati molti anni loro ricordano Peppe e ancora si commuo-vono a sentir parlare di lui. A Peppe piaceva studiare, studiava sempre. Non es-sendo comunque di una famiglia molto agiata, lui non si lasciava mai andare, si arrangiava con quello che aveva a disposizione, non chiedeva mai niente, faceva tutto da sé.Abbiamo avuto la bella pos-sibilità di vedere anche la camera da letto di Peppe e la stanza dove studiava e dava ripetizioni. Da allora non è stato toccato nien-

te. Tutti i libri, gli strumenti musicali, e addirittura tutti i vestiti di Peppe sono ancora lì, come se lui dovesse tor-nare. La camera da letto è piccola, con un letto, l’arma-dio e una piccola finestra. Appena si entra, gli occhi ricadono su un quadro che rappresenta la rivolta dei contadini. Non poteva di certo mancare un quadro del genere sopra il letto di Peppe. Sul letto è appoggia-ta una piccola statua della Madonna. Voglio ricordare che il no-stro professore Orlando è stato un carissimo amico di Peppe.

Alessia Spanò

L’auto corre veloce verso la meta. A bordo, i professori e alcuni compagni. Ai lati del-la strada estese piantagioni di oliveti e agrumeti. Penso che chi si troverà a percor-rere quel luogo durante la primavera, rimarrà inebriato dal profumo di zagara. Oggi ci attende un impegno im-portante. Siamo incuriositi e anche un po’ intimiditi perché non si va al solito convegno. Non ascolteremo soltanto parole. Il nostro è un appuntamento con una storia. Sì, avete compreso bene, una storia fatta di so-gni, passioni, sacrifici. È una storia che non paga, ma che nonostante il tragico finale lascia un’importante eredità a noi giovani.Il 14 febbraio del 1950 in un piccolo paesino della Cala-bria, Rosarno, da due geni-tori umili e onesti nacque

Giuseppe Valarioti. Fin da piccolo Giuseppe mostra-va un grande interesse per a scuola. All’età di quattro anni Peppe andò all’asilo: le sue insegnanti notarono subito le sue capacità e l’in-telligenza vivace e convin-sero la madre ad iscriverlo a scuola. Finite le scuole ele-mentari iniziò le medie. Pep-pe conosceva molto bene il

mondo degli agricoltori per-ché ne facevano parte i suoi genitori, si rendeva conto dei sacrifici che accompa-gnavano la loro vita e pian piano iniziò a farsi carico dei problemi che caratteriz-zavano il mondo contadino, capiva anche che soltanto attraverso lo studio poteva realizzare lo svincolo da una realtà subalterna, quale era quella delle sue origini, per

mirare a un riscatto sociale che lo vedesse protagonista nel contesto civile, culturale e politico di Rosarno. Per lo stesso motivo, conseguito il diploma di Licenza Media proseguì gli studi iscriven-dosi al Liceo Classico di Pal-mi. Ottenuta la maturità si iscrisse presso la Facoltà di Lettere Classiche dell’Univer-sità di Messina dove con-segui la Laurea con risultati brillanti. Peppe non vedeva del male nella gente. La forza dei valori e il radica-to sentimento di giustizia lo portarono a scendere attiva-mente in politica. I familiari non erano d’accordo con la sua decisione di militare nel Partito Comunista, però lui non ascoltò nessuno e andò avanti con la sua convinzio-ne. Contemporaneamente, aveva coniugato perfetta-mente la sua passione po-litica con quella sociale e culturale e con l’interesse per l’archeologia, seguendo tutte le vicende e la storia che avevano portato alla luce i reperti dell’Antica Medma. Venne eletto segre-tario del PCI Rosarnese.Il primo comizio di Peppe ancora oggi viene ricordato. Lui, essendo a conoscenza della riservatezza di sua madre e della sua famiglia, aveva consigliato loro di ri-manere a casa; non voleva che fossero proiettati in un mondo estraneo alla loro vita quotidiana. Nei gior-ni successivi, durante la campagna elettorale per le elezioni, tutti si complimen-tarono con lui per la forza del discorso e la convinzio-ne delle sue idee. Ognuno, ora, aveva il coraggio di esprimere la propria opi-nione politica senza doversi giustificare, solo perché si decideva di essere comuni-sti. In effetti l’appartenenza a tale partito, un po’ per pregiudizio o per disinfor-mazione, veniva visto come “il male”. Le elezioni che si

tennero il 10 giugno videro la vittoria del partito del Gio-vane Valarioti. La sera, tutti i componenti dello schiera-mento vincente andarono a festeggiare la vittoria in una pizzeria che si trovava a Ni-cotera Marina, e fu là che la mafia assassinò Giuseppe Valarioti. La famiglia vanne a sapere dell’omicidio solo nella prima mattinata; tutta la popolazione, sconvolta dell’accaduto, non sapeva dare una risposta al perché di questo tragico evento. Negli anni successivi fu isti-tuito in memoria di Peppe il premio Valarioti e una piaz-za del paese è stata dedica-ta a lui. Il dolore più grande, che i familiari hanno dovuto affrontare, al di là della in-colmabile perdita della per-sona cara, è stato l’esito del processo che si è concluso senza la condanna dei re-sponsabili, dal momento che le prove emerse non erano tali da riscontare la certezza della colpa. Sicura-mente Giuseppe Valarioti è stato assassinato per la sua lealtà, per il coraggio delle sue azioni, per la trasparen-za del suo modo di essere e per le scelte che rifiuta-vano qualsiasi compromes-so. A noi giovani, rimane l’esempio di una quotidiani-tà vissuta nella legalità. Ve-nire a conoscenza della sua storia vuol dire mantenerne viva la memoria.

La cosa che ci fa stare male di più è che in questo momento gli assassini di Peppe sono in liber-tà, magari si stanno bevendo un caffè adesso, magari hanno una famiglia, cosa che Peppe pur-troppo non potrà mai avere”.

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GIUSEPPEVALARIOTI

Intervista a Vincenzo Muratore

Intervista a Vincenzo Muratore 10-02-2010 P.zza Valarioti, Rosarno

Con l’esempio che ha dato Peppe Valarioti è cambiato qualcosa?È difficile cambiare la mentalità ma soprattutto non è facile cambiare la politica, non è facile annullare quei tentacoli che avvolgevano l’economia. Purtroppo devo dire che oggi siamo ritornati a quel periodo precedente al momento in cui Peppe è sceso in politica per cercare di cambiare le cose. Le cooperative sono state uno sfa-scio, perché? Per le arance di carta, ci sono state le speculazioni, perché non c’è stata la riconversione agraria, perché non si è fatto un ospedale, non è stato fatto un istituto superiore, quindi, come dico spesso, Rosarno ha perso tutte le possibilità di sviluppo. Eppure, come vedete, abbiamo una posizione felicissima, vicino al mare, al centro della Piana, l’autostrada, la ferrovia, tutte queste possibilità non sono state sviluppate adeguata-M

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mente. Per potere dare spinta a queste potenzialità di sviluppo ci doveva essere un cambio nella politica e soprattutto cercare di bloccare le forze criminali che in quel periodo andavano occupando tutti i posti strategici per fare in modo che dall’aspetto econo-mico entrasse nella politica per meglio dominare e gestire tutte queste cose. Peppe questo l’aveva intui-to, l’ha intuito, a qualcuno non è piaciuta questa im-postazione di lotta ed è stato eliminato, perché pur-troppo chi nella società vuole cambiare le cose trova sempre vita difficile. Ma la colpa non è solo di chi si è armato, un po’ la colpa è di tutti, perché quando ci sono queste situazioni le forze sane devono essere appoggiate e devono essere appoggiate soprattutto dai giovani che sono stimolo di cambiamento.

La famiglia diceva che tutti gli volevano bene. È vero che non aveva nemici? Oppure nello stesso partito c’era qualcuno che aveva invidia che lui assumeva potere? Peppe era amato, era amato perché era limpido, era chiaro, era trasparente, non aveva interessi perso-nali, veniva da una famiglia onesta di lavoratori, ha sempre praticato giovani disponibili al dialogo, di-sponibili al cambiamento, non aveva altri scopi, lo amavano tutti. Purtroppo chi è sempre ben amato e poi va a proiettare le proprie idee in campi come quello politico, culturale, o quello economico rischia che gli ideali vadano a cozzare con le problematiche, gli interessi di certa gente che vuole frenare il cam-biamento. È ovvio che quando un personaggio è sco-

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modo c’è sempre chi pensa di eliminarlo. Devo anche dire che Peppe è stato voluto bene, però non tutta Rosarno riconosce i meriti che lui ha avuto. Anzi, devo dire che ci sono state basse speculazioni, non confermate, e cioè che non è stato ucciso dalla mafia, che non è stato ucciso perché voleva rinnovare la po-litica, ma per questioni che offendono la sua memo-ria, che non voglio nemmeno riferire, che non stanno né in cielo né in terra. Quando si vuole distruggere l’immagine di qualcuno che è stato positivo, propo-sitivo, innovativo, allora si cerca di ingannare, per-ché il fango sporca, fa presto ad attecchire, le idee, invece, ci vuole tempo per farle penetrare nella testa delle persone.

Questo è un meccanismo che ormai si conosce…Sì, è un meccanismo consolidato oggi, anche nella politica. Se voi leggete alcuni giornali la mattina, in-vece di fare politica, di tutelare gli interessi dei la-voratori, c’è la guerra a chi fa scoop, a chi getta più fango sugli altri, ignorando i problemi reali della so-cietà del Paese. Ecco, Peppe voleva guardare i pro-blemi concreti, pratici, la valorizzazione dei giovani, dell’agricoltura, l’occupazione, e da questo poi pote-va nascere una prospettiva più consolidata per mi-gliorare le condizioni del paese, della Piana. Che poi, il problema non era limitato a Rosarno, il problema di Rosarno riguardava la Piana, la Calabria, erano gli anni in cui gli omicidi politici - Vinci, Lo Sardo, Vala-rioti - tutti questi fatti si inseriscono in una strategia molto chiara per le conoscenze da cui provenivano queste soppressioni, questi tentativi politici, e testi-monia anche la difficoltà della politica di rinnovarsi.

Qual è stata la reazione della gente dopo l’uccisio-ne di Peppe Valarioti? È stato relegato come omi-cidio di parte politica, cioè come lutto del partito comunista e non di tutti? Diciamo che quando si verificano questi fatti, questi episodi, la parte politica, le parti politiche, non si im-medesimano mai. Se fosse così, allora i problemi si ri-solverebbero. È ovvio che Peppe ha avuto avversità, prima e dopo. Prima probabilmente anche all’inter-

no del suo partito, perché secondo me è stato lascia-to troppo solo per combattere una battaglia molto grossa, perché le speculazioni non può distruggerle solo una persona. Gli altri partiti politici, ovviamen-te, al loro interno condividono queste idee di lotta, di cambiamento, però apertamente non lo ricono-scono. D’altra parte, però, bisogna dare anche atto al fatto che il cambiamento, le innovazioni, le lotte, durante quel periodo, venivano dal partito comuni-sta, dal partito socialista, dai magistrati, e quindi su-bito dopo la morte di Valarioti c’è stato un distacco. Quello che i giovani devono capire, è che le idee di Valarioti non hanno un’etichetta del partito comu-nista ma hanno l’etichetta dei giovani che vogliono avere fiducia nel loro avvenire, devono capire che laddove c’è mafia non c’è speranza, che se non c’è sviluppo non ci sono prospettive, che se la politica è sporca sarà sporca tutta la società civile, economica, e così via, quindi gli ideali di Valario-ti sono universali, chi non le accoglie fa un torto a se stesso e alla comu-nità. Purtroppo c’è sempre questo tentativo di respingere chi ha voluto fare. Oggi, lo vediamo, nella politica, nell’economia, si dà più credito a chi magari è più indagato, a chi magari è corrotto, a chi magari fa questo, questo e quest’altro, mentre le voci sane, le voci pulite, gli ideali concreti che mirano al cambiamento, allo svi-luppo, trovano, chissà perché, delle difficoltà, trova-no sempre ostacoli. Questo è anche perché la gente non esce allo scoperto. Oggi c’è molta indifferenza, non si capisce che i valori si possono cambiare so-lamente con le battaglie, con gli ideali, e sono finiti i gesti eroici, ecco, perché Peppe sapeva benissimo che si esponeva ad un grosso rischio, come lo ha fat-to Lo Sardo, come lo ha fatto Vinci, come lo ha fatto qualche altro giovane, come lo hanno fatti tanti ma-gistrati. Oggi c’è connivenza perché ci sono interessi, ramificazioni collaterali, diversamente io non riesco a spiegarmi certe situazioni, certi sviluppi nel campo della politica e dell’economia.

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GIUSEPPEVALARIOTI

storia che non paga, ma che nonostante il tragico finale lascia un’importante eredità a noi giovani. Il 14 febbraio del 1950 in un piccolo paesino della Calabria, Rosarno, da due genitori umili e onesti nacque Giuseppe Valarioti. Fin da piccolo Giuseppe mostrava un grande inte-resse per a scuola. All’età di quattro anni Peppe andò all’asilo: le sue insegnanti notarono subito le sue capacità e l’intelligenza vi-vace e convinsero la madre ad iscriverlo a scuola. Finite le scuole elementari iniziò le medie. Peppe conosce-

Arianna Zerbonìa

L’auto corre veloce verso la meta. A bordo Maria Ficara, i prof. e alcuni compagni. Ai lati della strada estese piantagioni di oliveti e agrumeti. Penso che chi si troverà a percorrere quel luogo durante la primavera, rimarrà inebriato dal profu-mo di zagara. Oggi ci atten-de un impegno importante. Siamo incuriositi e anche un po’ intimiditi perché non si va al solito convegno. Non ascolteremo soltanto parole. Il nostro è un ap-puntamento con una storia. Sì, avete compreso bene, una storia fatta di sogni, passioni, sacrifici. È una

va molto bene il mondo degli agricoltori perché ne facevano parte i suoi genitori, si rendeva conto dei sacrifici che accom-pagnavano la loro vita e pian piano iniziò a farsi carico dei problemi che caratterizzavano il mondo contadino, capiva anche che soltanto attraverso lo studio poteva realizzare lo svincolo da una realtà su-balterna, quale era quella delle sue origini, per mirare a un riscatto sociale che lo vedesse protagonista nel contesto civile, culturale e politico di Rosarno. Per lo stesso motivo, conseguito

il diploma di Licenza Media proseguì gli studi iscriven-dosi al Liceo Classico di Palmi. Ottenuta la maturità si iscrisse presso la Fa-coltà di Lettere Classiche dell’Università di Messina dove consegui la Laurea con risultati brillanti. Peppe non vedeva del male nella gente. La forza dei valori e il radicato sentimento di giustizia lo portarono a scendere attivamente in politica. I familiari non erano d’accordo con la sua decisione di militare nel Partito Comunista, però lui non ascoltò nessuno e andò avanti con la sua convinzione. Contem-poraneamente, aveva coniugato perfettamente la sua passione politica con quella sociale e culturale e con l’interesse per l’ar-cheologia, seguendo tutte le vicende e la storia che avevano portato alla luce i reperti dell’Antica Medma. Venne eletto segretario del PCI Rosarnese.Il primo comizio di Peppe ancora oggi viene ricordato. Lui, essendo a conoscenza della riservatezza di sua madre e della sua famiglia, aveva consigliato loro di rimanere a casa; non vo-leva che fossero proiettati in un mondo estraneo alla loro vita quotidiana. Nei giorni successivi, durante la campagna elettorale per le elezioni, tutti si complimen-tarono con lui per la forza del discorso e la convinzio-ne delle sue idee. Ognuno, ora, aveva il coraggio di esprimere la propria opinio-ne politica senza doversi giustificare, solo perché si decideva di essere comuni-sti. In effetti l’appartenenza a tale partito, un po’ per pregiudizio o per disinfor-mazione, veniva visto come “il male”. Le elezioni che si tennero il 10 giugno videro la vittoria del partito del Giovane Valarioti. La sera, tutti i componenti dello

schieramento vincente andarono a festeggiare la vittoria in una pizzeria che si trovava a Nicotera Marina, e fu là che la mafia assassinò Giuseppe Valarioti. La famiglia vanne a sapere dell’omicidio solo nella prima mattinata; tutta la popolazione, sconvolta dell’accaduto, non sapeva dare una risposta al perché di questo tragico evento. Negli anni successivi fu isti-tuito in memoria di Peppe il premio Valarioti e una piazza del paese è stata dedicata a lui. Il dolore più grande, che i familiari hanno dovuto affrontare, al di là della incolmabile perdita della persona cara, è stato l’esito del processo che si è concluso senza la condanna dei responsabili, dal momento che le prove emerse non erano tali da riscontare la certezza della colpa. Sicuramente Giusep-pe Valarioti è stato assas-sinato per la sua lealtà, per il coraggio delle sue azioni, per la trasparenza del suo modo di essere e per le scelte che rifiutavano qual-siasi compromesso. A noi giovani, rimane l’esempio di una quotidianità vissuta nella legalità. Venire a conoscenza della sua storia vuol dire mantenerne viva la memoria.

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Domenico Salerno

Lo studio non impedì a Giuseppe di aiutare il padre Antonio e il nonno nei lavori dei campi, anche se la corporatura gracile non lo facilitava e sua madre pensava che non fosse adatto ad un lavoro così duro e pesante. Aveva un grande amore verso la ricer-ca e fu presto folgorato dal fascino di Medma, l’antica Rosarno, tanto che cercò di approfondire gli studi fino a pensare di costruire una struttura dove potessero essere ospitati tutti i reperti. Il suo sogno non fu mai realizzato, ma questo amore verso la scoperta lo portò al ritrovamento dell’atto di fondazione della chiesa di San Ferdinando, cercato per più di cento anni, che lui trascrisse. Era appassionato di musica classica, sinfonica e poesia. Particolare attenzione por-geva ai giovani, soprattutto quelli che avevano avuto problemi giudiziari -perché secondo lui potevano essere incanalati nella retta via- e verso i braccianti e le raccoglitrici di olive, oppressi dai potenti signorotti locali. Mentre faceva le sue usuali

passeggiate per la vie di Rosarno, con gli amici, si intratteneva a parlare delle problematiche che affliggevano la Piana e commentandole con loro diceva: “Questo schifo è anche colpa nostra e se non siamo noi a batterci, chi lo farà?”. Nella metà degli anni ’70 Peppe completò gli studi per avere l’abilitazio-ne di insegnamento, che comunque non gli servì per trovare occupazione. Peppe non aveva mai chiesto una supplenza e non pensò mai di emigrare perché voleva far emergere Rosarno, ac-contentandosi di quei pochi introiti che gli derivavano dalle lezioni private che im-partiva ai giovani. Essendo un uomo con l’animo nobile e sensibile, durante le le-zioni, in presenza dei suoi familiari, per non farli sentire in soggezione, parlava in dialetto. In questi anni si iscrisse al P.C.I., divenendo segretario della sezione di Rosarno. I suoi obiettivi furono da subito molto chiari: combattere la mafia, i politici corrotti, lo sperpero e le ingiustizie. Non era per nulla facile portare avanti

un progetto del genere quando il paese era in pre-valenza abitato da persone ignobili e disoneste. Durante la campagna elettorale caricava sulla sua macchina manifesti e colla e andava in giro per i quartieri a fare propaganda. Valarioti e i compagni si interessarono alla costruzione del porto di Gioia Tauro che offriva molti posti di lavoro per tutta la Calabria; dopo un anno trascorso dall’inizio del progetto, loro si accorsero però che a godere dei lavori era soltanto la mafia. Alle elezioni che si svolsero nel 1979, il P.C. di Rosarno ottenne, nonostante l’atti-vità di Peppe, un risultato pessimo. Dopo si scoprì che la mafia era andata a casa dei comunisti a intimidirli minacciandoli di morte e compiendo atti vandalici ai vari componenti del partito. Nel 1980 decisero di essere precisi e distinsero i boss mafiosi dai piccoli delin-quenti, e allora il messaggio fu chiaro: bisognava iden-tificare e colpire le “menti”, perché erano quelle le persone che si arricchivano sulle spalle dei contadini

e delle persone oneste. Quella campagna elettorale fu violentissima. In tutti i modi cercarono di intimidirli. I fatti più eclatanti furono l’incendio della macchina di Lavorato, il tentato incendio della sede del P.C. di Rosar-no e i manifesti capovolti. L’8 e il 9 giugno del 1980, fuori dai seggi, i mafiosi cercarono ancora una volta di condizionare il voto. Si raccontano che don Peppe Pesce in persona, giunto dalle Marche con un per-messo speciale per la morte della madre, cercò con la sua presenza di intimidire gli elettori. Il messaggio era chiaro: nessuno doveva votare il P.C. La battaglia vide contrapposte l’onestà e la mafia.Molto chiara fu la risposta del partito che si svolse nell’attuale piazza Valarioti. La folla occupava tutte le vie circostanti e qui Peppe, davanti a quella platea, disse: “se vogliono intimi-dirci non ci riusciranno, i comunisti non si pieghe-ranno mai!”. Questo motto fu portato in tutti i quartieri, anche dove risiedevano la famiglie mafiose, continuan-do a sfidare le cosche.La vittoria del P.C. alle elezioni sarebbe stata la sconfitta delle ‘ndrine. Ecco perché probabilmente i capo bastoni della Piana decisero di far fuori un giovane eroe dell’anti-ndrangheta. Un mese dopo la morte di Peppe gli fu una piazza a Rosarno. All’inaugurazione, tra la folla si videro gli amici di Ciccio Vinci, anche lui ucciso in un agguato, il 10 dicembre del 1976, durante la sanguinosa faida di Cittanova.I sospetti della morte di Peppe ricaddero sulle co-sche Pesce, ma il 17 luglio del 1982 Pesce fu assolto per insufficienza di prove. Poi il silenzio, fino a quando

nel dicembre del 1983 Pino Scriva, ndranghetista e pen-tito di San Ferdinando, fece numerose rivelazioni, dicen-do che dietro l’omicidio di Valarioti ci sarebbe stata la decisione della cupola della Piana. Fece numerosi nomi: quello di don Peppe Pesce, del nipote Antonio e del capobastone di Gioia Tauro Giuseppe Piromalli. Loro sarebbero stati i mandanti, mentre a sparare sarebbe stato il giovane Francesco Dominello. Le rivelazioni di Scriva hanno portato a diversi ergastoli e centinaia di anni di carcere, eppure l’inchiesta-bis sull’omicidio di Valarioti nel 1987 si concluse “con un buco nell’acqua”. Con Peppe Valarioti se ne va un pilastro portante della cultura calabrese, perché in Calabria la , l’onestà e la legalità fanno paura.La delinquenza è l’unico mercato che dalle nostre parti non è mai in deficit. Tutto questo naturalmente non ci deve intimidire, non dobbiamo accettare con ipocrisia e rassegnazione i loro soprusi, nel nostro piccolo dobbiamo riscattare e amare la nostra terra per fa sì che la morte di Peppe non sia stata vana. E come dice la mamma di Peppe: “’ncesti a giustizia divina…” Spero che lui non sia stato una mosca bianca nella nostra società, perché ser-virebbero molti altri “Peppe” per migliorare la situazione calabrese.

I sospetti della morte di Peppe cadevano sulle co-sche Pesce ma il 17 luglio del 1982 Pesce è stato as-solto per insufficienza di prove.

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GIUSEPPEVALARIOTIElena Mastria A Peppe…

Ferma sulla soglia della stanza,

in penombra, i miei occhi incrociano lo sguardo pulito di un ragazzo che timida-mente sorrideda un ritratto posto sul tavolo.

Sei tu, Peppe, quel giovane che oggi conosceròdal racconto della tua anzia-na madre.Leggo, sul volto di lei un doloreprofondo mai svanitoed una composta dignità.

Piccola e minuta nel suo abito nero comincia a narrare di te.D’improvviso i compagni,i presenti, tutto ciò che mi circondasvanisce e la tua figura si materializza davanti a me.

Ti vedo bambino, con le manine appoggiate sul comodinomentre stringi un piccolo foglio di carta.Con mano incerta cominci a scrivere le prime sillabe sotto l’occhio attento della tua mamma.

Sul bianco di quel foglio il destinoaveva già segnato la tua sortecon il nero dell’inchiostro.

Adesso ti vedo fare i capriccinon vuoi indossare il grembiulino che ti rende così uguale agli altri.Dentro di te sapevi già che è diverso da tutti colui che lotta per un mondo di uguali.

La voce narrante va... e io ti vedoimpegnato nel lavoro dei campi.Apprezzavi quel mondo fattodi cose, di persone semplici e genuineper cui hai tanto lottato.

Il primo batticuore, l’amore,i successi scolastici, l’impe-gno politico e la voglia di cambiare le cose, il desiderio di un mondo più giusto senza compromessi.

Guardo le pareti della tua camera;sono nude e pulite, il tuo mondo è lì in quell’unico poster appeso al muro che rappresenta tutto il tuo universo.

Ogni cosa parla del tuo vivere quotidiano.Il piccolo scrittoio, i libri,gli appunti e gli oggettiraccontano le tue passioni,l’amore per la politica e per l’archeologia.

Vedo i segni della tua tragica fine,le testimonianze di coloro che tanto ti hanno amato finché una mano assassinaha stroncato i tuoi sogni.

La voce lentamente si spegne ed io torno alla realtà.Ora ti conosco Peppe!La morte ti ha sconfitto la memoria ti ha ridato la vita.

La memoria siamo noi:Giuseppe, Rita, Martina, Giuseppe,Alessia, Andrea, Domenico,Alessia, Arianna e io, Elenae tanti altri ancora.

Le sensazioni, le parole dei nostri raccontirotolano come valanghe che precipitano giù a valle e nel precipitare fanno un tale fragoreChe nessuno potrà mai dire… Di non aver udito!

Durante la gestione di Valarioti, che era se-

gretario del PCI di Rosarno e consigliere comunale, Il partito avviò una campagna di moralizzazione interna, soprattutto nella cooperati-va Rinascita. La ndrangheta, infatti, puntava ad ottenere i sussidi per i produttori e i dirigenti di Rinascita non avevano arginato questo inquinamento portato avan-ti dalle cosche rosarnesi. Valarioti provò a invertire la rotta e questo lo fece emer-gere nell’attacco frontale al potere della ndrangheta. Quello di Valarioti è stato un assassinio politico che si inserisce in una strategia in-timidatoria nei confronti del

PCI da parte delle cosche calabresi. A dodici giorni di distanza da Peppe, infatti, muore un altro dirigente comunista calabrese. Il 21 giugno sparano a Giannino Lo Sardo di Cetraro (coin-volto il boss Franco Muto) e due militanti vengono uccisi a sangue freddo, Ciccio Vinci e Rocco Gatto. Un attacco frontale al Partito Comunista che reagisce con grandi manifestazioni a cui partecipano anche dirigenti nazionali. Negli anni succes-sivi in pochi, troppo pochi, hanno ricordato Valarioti. Una memoria dispersa.

Giuseppe Cutrì

Giuseppe CutrìRosarno è un comune

di 15.885 abitanti della provincia di Reggio Calabria, vertice settentrionale di un’area densamente popo-lata (180.000 abitanti circa), la Piana di Rosarno. La cittadina, snodo ferroviario e autostradale di primaria importanza, si trova al centro di due comprensori con consistenti prospettive di sviluppo, la provincia di Reggio Calabria e quella di Vibo Valentia. Nel 2004 Rosarno ha ottenuto il titolo di città, conferitogli del Presidente della Repubblica, su proposta del Ministro dell’Interno. Tuttavia i ser-vizi sono scarsi (l’ospedale costruito negli anni ‘70 non ha mai aperto) e molti sono i segni di incuria e di sperpero edilizio, come il teatro greco in cemento armato mai effettivamente utilizzato. Il suo territorio (di cui 120 ettari sono parte del Piano Regolatore predisposto dall’ASI - Area Sviluppo Industriale - per gli insediamenti industriali) è la porta di ingresso terrestre (ferroviaria ed autostradale)

al porto di Gioia Tauro e alle aree destinate agli insediamenti produttivi. Ro-sarno attualmente figura tra le città con il più alto tasso di penetrazione mafiosa al mondo. La mafia ha iniziato a sfruttare gli extra-comu-nitari che occupavano la zona facendoli lavorare in nero e pagandoli poco. Ulti-mamente ricordiamo l’acca-duto del 7 Gennaio: alcuni sconosciuti spararono diver-si colpi con un’arma ad aria compressa su tre immigrati di ritorno dai campi (per la precisione, un giovane ma-rocchino, un ivoriano e un rifugiato politico del Togo con regolare permesso di soggiorno). La sera stessa del ferimento, un primo consistente gruppo di afri-cani protestò violentemente per l’accaduto scontrandosi con le autorità dell’ordi-ne. Il giorno seguente la reazione si fece più feroce e più di 2000 immigrati marciarono su Rosarno ingaggiando diversi scontri con la polizia. Nei giorni seguenti si verificarono diversi agguati, spedizioni punitive e gambizzazioni

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verso gli immigrati, dall’in-cendio di alcune automobili di loro proprietà fino ad arrivare all’appiccamento di un fuoco in un capannone di ritrovo per i migranti. Infine le forze dell’ordine riuscirono a riportare la calma tra ambedue le parti. Per evitare l’insorgere futuro di ulteriori tensioni, la maggior parte degli immigrati fu trasferito in altri luoghi, tra cui i Cpt/Cie (Centri di identificazione ed espulsione). La magistratura ha iniziato a indagare circa la possibilità che alcune cosche mafiose calabresi potessero aver avuto interessi a far scoppiare gli scontri oppure che li aves-sero sostenuti per ottenere consenso popolare. Nei giorni degli scontri la polizia arrestò Antonio Bellocco, esponente dell’omonima famiglia, perché investì con la propria auto alcuni immigrati e reagì calda-mente al tentativo di blocco delle forze dell’ordine. Il 12 gennaio, un’operazione

parallela portò all’arresto di diversi membri del clan Bellocco nel centro città di Rosarno.

A quasi trent’anni dalla morte, il delitto Valarioti resta ancora un mistero irrisolto di Rosarno. Se-condo gli atti processuali e le numerose testimo-nianze dell’epoca, l’origine dell’omicidio andrebbe ricercata nel connubio tra ndrangheta, affari sporchi e malapolitica che ruotava attorno alla cooperativa “Rinascita” di Rosarno, una delle prime esperienze as-sociazionistiche nel settore della produzione e della trasformazione agrumicola, nata proprio grazie all’im-pegno del Pci. A Valarioti è stata intitolata una delle piazze principali di Rosarno, a poche decine di metri dalla Casa del Popolo, vec-chia sede del Pci, che porta il suo nome. Al centro della piazza, in anni più recenti, è stata collocata una scultura, opera dell’artista Maurizio

Giuseppe Mandaglio

Giuseppe Valarioti nacque a Rosarno nel 1950 in una famiglia di contadini. A metà degli anni ‘70 si iscrisse al Partito Comunista divenendone segretario, seguendo i propri ideali e non quelli della famiglia che

prediligeva di gran lunga il partito della Democrazia Cristiana. Valarioti in poco tempo divenne molto famo-so e un giorno, chiamato a parlare davanti ad un pubblico molto vasto, fece risuonare nelle orecchie di tutti le proprie idee provo-cando, di certo, in alcuni dei presenti un notevole nervosismo. La sera che festeggiavano la vittoria elettorale, l’11 Giu-gno 1980, Giuseppe Valari-oti fu ucciso in un agguato mafioso di matrice tuttora oscura. Il processo aperto contro alcuni affiliati della cosca mafiosa dei Pesce di Rosarno si concluse con un’assoluzione generale e, a trent’anni dalla morte, il delitto Valarioti resta ancora un mistero irrisolto. Oggi quest’uomo può essere definito un eroe e un modello da seguire perché ci ha insegnato a far valere i nostri ideali ad ogni costo e anche se lui è morto, la sua opera vivrà per sempre finché anche un solo “Vala-rioti” continuerà a far sentire la propria voce.

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Carnevali, che rappresenta la morte di Valarioti ed è stata dedicata “a tutte le vittime di mafia”. Il Comune di Rosarno, negli anni ‘90 ha anche istituito un premio, intitolato a Valarioti che, nelle varie edizioni, è stato concesso all’impe-gno antimafia e a quello sociale di enti, personaggi e istituzioni.

La famiglia Valarioti ancora oggi conserva gli oggetti, i vestiti e le foto di Giuseppe, segno che vogliono lasciare viva la sua memoria. E proprio per alimentare questa memoria, Rosar-no ha voluto intitolare a Valarioti la piazza centrale, dove è stato installato un monumento in onore dei caduti a causa di agguati mafiosi ed è stato dipinto in un murale il quadro preferito di Giuseppe, “Il Quarto Stato”, con la sua immagine all’interno.

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GIUSEPPEVALARIOTI

Martina AlbaneseNell’aprile-maggio del 1978 venne in visita a Rosarno la Commissione Antimafia. La riunione si svolse all’interno del salone della cooperativa Rinascita, vi parteciparono tutti i partiti e i cittadini di Rosarno. Peppe fece un intervento molto duro dicen-do che non ne poteva più delle parate, perché ogni volta che queste finivano, rimanevano solo le parole e di concreto non veniva fatto niente. Rimproverava il fatto che ci si fermava sempre alle apparenze e non si andava a fondo per trovare la verità. Tutta la gente comune era d’accordo con lui. In quel periodo il Partito Comunista si stava affermando ed era a un passo da incarichi di gover-no. La sera dell’11 giugno 1980, Peppe aveva detto ai genitori di non aspettarlo in piedi perché sicuramente avrebbe fatto tardi. Non fece più ritorno a casa.andava a festeggiare la vittoria con i compagni.

Dopo la cena, si stavano dirigendo in gruppo verso la macchina. Lui fu il primo ad allontanarsi dal gruppo per andare ad aprire la portiera, in quel momento fu colpito da due colpi di lupara al petto, si accasciò, chiese aiuto e immediatamente fu portato all’ospedale di Gioia Tauro dal compagno Peppi-no Lavorato, ma purtroppo per lui non ci fu più niente da fare.Il colpevole di tale efferato crimine non fu mai trovato, ci fu un processo contro alcuni mafiosi che però si concluse con l’assoluzione di tutti. Alcuni rosarnesi sono rimasti riconoscenti a Peppe e nel 1982 venne intitolata una delle piazze principali di Rosarno in sua memoria. Al centro della piazza è stata collocata una scultura che rappresenta la sua morte ed è stata dedicata “a tutte le vittime di mafia”.

Rita CardonaRosarno:antefattoNel dicembre 2008 si era svolta una marcia di prote-sta della comunità africana a Rosarno, dopo che uno sconosciuto aveva fatto fuo-co su alcuni immigrati che stavano in una fabbrica fati-scente, ferendo gravemente un ventenne ivoriano. In quel caso la risposta degli immigrati fu pacifica, con manifestazioni per chiedere un miglioramento delle loro condizioni di vita.

Rosarno:Gennaio 2010Tra il 7 e il 9 gennaio è scoppiata una rivolta urba-na a Rosarno, con violenti scontri, dopo il ferimento di tre immigrati africani con un’arma ad aria compressa da parte di sconosciuti. In due giorni il numero di feriti è stato di 53 persone, tra cui 18 poliziotti, 14 rosarnesi e 21 immigrati. La magistra-tura ha iniziato a indagare sulla possibilità che alcune cosche della ndrangheta abbiano avuto interesse a far scoppiare gli scontri o che li abbiano sostenuti per ottenere consenso popolare. Dopo gli attacchi il Ministro dell’Interno Roberto Maroni ha dichiarato che la rivolta è stata il risultato di una politica di tolleranza verso l’immigrazione clandesti-na. Il parroco di Rosarno, don Carmelo Ascone, ha criticato apertamente i fatti accaduti e li ha motivati con la situazione di disagio e disperazione in cui vivevano gli immigrati.

Rosarno: trent’anni fa

Giuseppe Valarioti, uomo di grande intelletto e

molto coraggioso, trascorse l’ultimo decennio della sua vita a battersi per una Calabria libera dalla mafia. Nel ‘75, quando nacquero le “Leghe per l’Occupazione”, partecipò attivamente al movimento e si fece notare subito per la sua capacità di comunicare e di esprimersi in pubblico. In quegli anni si iscrisse anche al Partito Comunista Italiano e divenne segretario della sezione; successivamente entrò nel comitato di zona e poi in quello Provinciale. Rispetto ai suoi compagni di sezione, era un prodigio. Infatti, tutti gli altri, per procedere nel partito impiegavano qualche anno, lui invece, in qualche mese, passò ben due volte di grado. Durante una visita a Rosarno della Commis-sione Antimafia, guidata da Gerardo Chiaromonte, Peppe fece un intervento molto forte e disse: “Non se

ne può più delle semplici parate, ogni volta si parla ma non si fa mai niente!”. Nel 1980, durante le elezioni successe di tutto: incendiarono la macchina di Lavorato; fecero trovare una testa di vitello davanti alla sezione del partito, tentarono di incendiare la sede e infine voltarono al contrario i manifesti elettorali. Una sera si decise di andare alla sezione per discutere di questi problemi. Peppe intervenne e disse: “loro vogliono farci piegare, ma noi non ci piegheremo!” Le elezioni regionali furono vinte da Lavorato, e la sera dell’11 giugno andarono a festeggiare in un ristorante a Nicotera. Al termine della cena, fuori dal ristorante, Peppe venne fucilato a colpi di lupara. Al funerale c’erano i comunisti di tutta la Cala-bria e tanta altra gente dei paesi limitrofi. Alcune sezioni della Piana in senso di rispetto e di omaggio abbassarono le bandiere.

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Giuseppe Mandoglio Giuseppe CutrìDà una sensazione di solitudine che oggi viene ac-centuata dalla presenza della pioggia.

Domenico Salerno Guardando la linea dell’orizzonte appaiono ai miei occhi i binari della ferrovia. Un viaggio verso un al-tro luogo oppure verso un’altra vita che non è quella terrena.

Andrea Calivi Taurianova è un comune di circa 15.000 abitanti, nato dalla fusione dei comuni Radicena e Iatrìnoli. La città è situata nella parte più meridionale di Gio-ia Tauro, tra il mare e la montagna. La zona pianeg-giante è coltivata ad agrumi, olivi, viti e ortaggi. Il 5 maggio del 2009 l’Amministrazione di Taurianova è stata sciolta per associazione a delinquere. Al mo-mento la Commissione Prefettizia che la governa è formata dal Dott. Vincenzo D’Antuono, il Dott. Filip-po Romano e il Dott. Giancarlo Tarantino.

Alessia Siciliano Cittanova è il paese in cui abito dalla nascita. Può essere datata nell’anno 1618, con il bando di edifi-cazione del “Nuovo Casale di Curtuladi” in segui-to denominato Casalnuovo e sorto come centro di raccolta delle popolazioni dei casali distrutti dal terremoto del 1916. Il 2 Aprile dell’anno 1852 prese il nome di Cittanuova. È sempre stata un passaggio obbligato e un centro di diramazione degli scambi commerciali poiché la stessa presenza dell’abitato era connessa al sistema di comunicazione.

Giuseppe CutrìAi primi del Settecento a Taurianova si verificò una crisi profonda dell’agricoltura e molti subivano il carcere per non poter pagare le tasse e vendevano tutto quello che possedevano per poter sostenere la propria famiglia. Nel 1806 fu abolita la feudali-tà. Durante la seconda guerra mondiale Taurianova ospitava gli sfollati da Reggio, e divenne anche sede del Comando della Divisione “Mantova” e della Divi-sione “Lupi di Toscana”. Nella sua immediata perife-ria s’installò un deposito per l’approvvigionamento di una intera armata e di una polveriera; nelle vi-cinanze s’accampò una grossa divisione tedesca, la Panzergrenadier.La produzione olearia ha per lungo tempo costituito la principale risorsa economica cittadina. Accanto

alle aziende agricole sono presenti alcune piccole industrie operanti nei settori meccanico, della lavo-razione del legno e di quelle del cemento. Attualmente il paese comprende cinque scuole (due elementari, due medie e una superiore), un ospeda-le, quattro banche, un ufficio postale, una biblioteca comunale e negozi vari. Come paese è molto grande e bello ma al momento, come fama comunale, non è delle migliori: non abbiamo un sindaco. Per il reato di associazione mafiosa infatti il comune è stato af-fidato ai commissari. Il corso, è l’unico punto di in-contro dei ragazzi del paese. Taurianova è un paese dove si può vivere tranquillamente anche se, non molto tempo fa, è stato oggetto di un episodio molto doloroso: l’uccisione di un ragazzo di diciotto anni che ha sconvolto tutto il paese.

Domenico Salerno Nata il 12 agosto del 1618, Cittanova si trova ai pie-di dell’Aspromonte. Domina la Piana di Gioia Tau-ro dalla terrazza più alta, quella confinante con il massiccio delle Serre. Fu molte volte distrutta da terremoti, perché attraversata da una faglia che fa parte del sistema di faglie Serre-Aspromonte. Una zona vicina della dorsale Appenninica è chiamata Zomaro. Quest’altopiano è composto da distese di faggi, lecci, abeti, ginestre, e altre piante mediterra-nee che sono state inserite tra le specie vulnerabili. Tra i prodotti tipici quello che primeggia è il pesce stocco, lavorato con le acque aspromontane. Citta-nova ha dato i suoi natali a molti artisti calabresi, ma la persona che mi inorgoglisce maggiormente è stata Teresa Gullace, nata a Cittanova e trasferita-si all’età di 37 anni a Roma. Suo marito Girolamo Gullace venne arrestato dai nazisti che lo portarono in una caserma. Qui la donna lo andò a trovare in-sieme alle mogli di altri prigionieri. Secondo le te-stimonianze di queste, Teresa tentò di avvicinarsi al marito, forse per consegnargli del pane, ma ve-dendola andare verso il marito, un soldato tedesco la uccise. Lo sdegno e la rabbia popolare costrinsero i tedeschi a rilasciare Girolamo Gullace. Nei giorni seguenti, la tragica storia divenne un presupposto per la Resistenza e per numerosi gruppi partigiani e cittadini che resero la sfortunata donna uno dei simboli della loro lotta. È la figura che ha ispirato il personaggio di Anna Magnani in “Roma città aper-ta”. Cittanova a lei ha dedicato la via dove nacque e una scuola materna.

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05Natale De Grazia, nato a Catona il 19 Dicembre 1956, capi-tano di corvetta, muore improvvisamente la sera del 13 dicembre 1995 per un arresto cardiocircolatorio. Si tro-vava in viaggio per le sue indagini sulle navi cariche di rifiuti tossici affondate nel Mediterraneo. Nel 2009, dopo il ritrovamento al largo delle coste calabresi di altri relitti sospetti, esplode nuovamente il caso delle “navi dei veleni”.

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o.Intervista alla Prof.ssa De Graziadi Carmelo Alampi, Alessandro Chindemi, Marian Nitu, Domenico Porci-no, Giovanni Tripepi (Istituto Professionale per l’Industria e l’Artigianato “E. Fermi” - Reggio Calabria)

20-01-2010 Istituto Fermi

Secondo lei, le indagini condotte dalle forze dell’ordine hanno reso giustizia a suo marito?Giustizia è una parola grande, io credo che in Italia spesso la richiesta di giustizia venga disattesa.

Se è stata la ndrangheta a uccidere suo marito, secondo lei, voleva dare una dimostrazione?Io ancora oggi non ho risposte certe sulle cause della morte di mio marito e, comunque, se -e ribadisco se- è stata la ndrangheta, sicuramente ci sono state complicità e collusioni politiche, insomma di quella parte malata dello stato.

Cosa prova oggi, nel momento in cui nuove sco-perte hanno riportato l’attenzione sul mistero della morte di suo marito? E in questi anni, quali sono stati i comportamenti della Marina, della stampa e la posizione degli inquirenti?L’interesse per questo grave e inquietante proble-ma è stato ed è altalenante, anzi spesso è oggetto di strumentalizzazioni politiche, ma bisogna ricordar-si che è nell’interesse della collettività e dei giovani in particolare che bisogna agire e pretendere delle risposte senza compromessi. Per quanto riguarda la Marina Militare devo dire che ha conferito a mio marito medaglie e onorificenze ufficiali ma i grandi ammiragli che mi hanno conosciuto e a cui ho chie-

sto, nel nome di mio marito, di ricordarsi dei miei figli, Giovanni e Roberto, si sono dimenticati quasi subito. Gli inquirenti poi vengono sollevati da cer-ti incarichi e incontrano troppe difficoltà a portare avanti alcune inchieste.

In un’intervista lei ha dichiarato che suo mari-to le diceva che lui non rischiava la vita rispetto alle persone che stavano più in alto di lui. La mia domanda è la seguente: lei pensa che suo marito in realtà sapeva che rischiava per quello su cui stava lavorando?Mio marito sapeva della gravità del problema ma sentiva anche il dovere di agire e di fare tutto ciò

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che era necessario, perché non accettava l’idea di lasciare agire indisturbati certi criminali incoscien-ti, non lo poteva permettere. Lui credeva molto in ciò che faceva e diceva sempre: “che mare stiamo lasciando ai nostri figli?”

Cosa pensa del fatto che è stato dichiarato dece-duto per morte naturale? Cosa pensa del malore che lo avrebbe portato via? La causa della morte di mio marito, come dicevo

non è chiara, ma comunque sia, è scaturita da un sovraccarico di stress e tensione che questa difficile indagine ha provocato in lui, sempre che la morte sia stata naturale... Io ho molta fede e dico che al padreterno non sfugge nulla.

Ne ha parlato con i medici? Il punto è che tutti possiamo morire per un malore ma è strano che a mio marito sia accaduto proprio in quel frangente.

Se potesse fare qualcosa, che cosa farebbe per la storia di suo marito?

Nessuno di noi può sapere cosa lo aspetta, è tutto imponderabile, ma io per la verità non mi posso rim-proverare nulla, ho amato mio marito e ho sempre rispettato i suoi ideali che peraltro condividevo. La sua, anzi, la nostra storia, pur nella sua tragicità, è ricca e intensa e se da un lato sono stata segnata dal dolore, dall’altro ho vissuto con lui una vera, gran-de e immortale storia d’amore.

Se potesse, si vorrebbe vendicare? La vendetta è un sentimento che non conosco e mi ritengo fortunata perché chi lo prova si fa solo del male.

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Come ha spiegato l’armatore a suo marito che aveva in casa una copia del certificato di morte di Ilaria Alpi?Io del certificato di morte di Ilaria Alpi sono venuta a conoscenza dai giornali.

Se potesse tornare indietro,cosa direbbe a suo marito?Gli direi che pensare al prossimo va bene ma anche un po’ a se stessi.

Secondo lei, le indagini dopo l’avvenuto sono sta-te adeguate da poter chiudere il caso, da esclude-re la possibilità di complicità tra mafia e stato?Non mi risulta che abbiano condotto delle indagini.

… Servizi segreti dietro la morte del capitano?Molti lo sospettano.

Il capitano era la vera anima di quell’inchiesta. Poi è stata chiusa?A chi sono passati i suoi compiti?È stato insabbiato tutto per molto tempo. È vero che lui era l’anima dell’inchiesta, dopo non mi sembra di

aver visto qualcuno determinato come lui.Perché i figli sono stati messida parte dalla Marina?Sinceramente non lo so, ma credo che faccia parte del nostro sistema “italiano” dimenticare facilmen-te e lasciarti da sola a lottare per i tuoi diritti.

In questa vicenda si può pensare a una complicità tra lo Stato e la ‘ndrangheta?Questo è pensabile.

Cosa pensano i suoi figli? Cosa hanno imparato dall’impegno del padre?Purtroppo i ragazzi hanno pagato il prezzo più alto e le conseguenze sono sentimenti di rabbia e sfidu-cia ma, devo anche dire, che il ricordo del padre e la sua vita esemplare li accompagneranno sempre.

Se suo marito fosse ancora qui,cosa gli direbbe oggi?Devo essere schietta con voi, oggi col senno di poi gli direi: “non sacrificare la tua vita perché c’è tanta ingratitudine ed ignavia”. Ma non è detto che lui mi ascolterebbe …

“Basta essere furbi, aspettare delle giornate di mare giusto, e chi vuoi che se ne accorga?” A questo punto l’interlocutore dall’altro capo del telefono sembra avere qualche perplessità, forse una sorta di rigurgito di coscienza:“E il mare? Che ne sarà del mare della zona se l’ammorbiamo?”“Ma sai quanto ce ne fottiamo del mare? Pensa ai soldi – è la risposta – che con quel-li, il mare andiamo a trovarcelo da un’altra parte…”

Conversazione tra due potenti boss della ndrangheta. Dagli atti delle indagini coordinate da Alberto Cisterna (fonte web)

NATALEDEGRAZIA

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Marian NituSi sospetta che nel Mediterraneo la criminalità organizzata, dagli anni ’80, potrebbe aver affondato negli abissi del mare decine di navi cariche di barili radioattivi, “le navi dei veleni”. Si parla di collegamenti complicati fra Olanda e Somalia, Calabria ed ex-Jugoslavia, che coinvolgerebbero uomini dei servizi, politici, faccendieri di tutto il mondo. Il Capitano De Grazia tra il 1994 e il 1995 era il principale inve-stigatore sull’affondamento delle navi con a bordo fusti radioattivi. De Grazia fu il primo a trovare le coordinate della motonave Rigel che fu affondata al largo di capo Spartivento nel 1987 e a portare avanti le indagini. Mentre indagava sulle navi dei veleni, il Capitano De Grazia morì. Era il 13 Dicembre 1995. Nel 2006 un pentito, Francesco

Domenico PorcinoTutte ammassate, in una giornata di sole quasi estiva, si presentano le case di Reggio Calabria, ma con uno sguardo immenso sul suo mare piatto, caldo e così blu… e le navi… per adesso conservano un perché, quelle misteriose navi…

Marian NituA me piacciono molto i pae-saggi. Vorrei che anche qui, dove ora abito io, ci fosse la foresta che da piccolo ricordo di avere davanti alla mia casa in Romania. Mi mancano i prati verdi dove andavo ogni giorno a giocare in compagnia dei miei amici.

Fonti, ha raccontato a un magistrato antimafia di Milano delle ultime tre navi affondate in tre posti diversi per non farsi scoprire dalla Finanza: una a Metaponto, l’altra nel Tirreno e la terza a Maratea.

Giovanni Tripepi, Carmelo AlampiVi sono molti sospetti sui relitti al largo delle coste calabresi, ma si cerca anche a terra. Nella zona di Cetraro si parla di sostanze pericolose sotterrate nelle colline sovrastanti il mare, perché sono è stata rilevata la carica radioattiva.

Domenico Porcino Era il 21 aprile 2006 quan-do a Milano un magistrato antimafia raccoglie la testi-monianza del pentito Fran-cesco Fonti che ha lavorato per la ‘ndrangheta per circa trent’anni. Fonti parla di tre navi che nel 1993 vennero

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fatte affondare a Cetraro,in provincia di Cosenza. Nelle navi c’erano dei rifiuti tossici che arrivavano dall’estero , probabilmente dalla Norvegia. I motoscafi, che servivano per portare i carichi di esplosivo militare, vennero procurate dal boss di Cetraro al quale andarono circa 200 milioni delle vecchie lire. Nel giro di una settimana tutto era pronto, ma a quel punto sembrava troppo rischioso far affondare tre navi nello stesso punto e così vennero fatte affondare una a Cetra-ro, una a Metaponto e una a Maratea. Inoltre vennero trovate grandi quantità di metalli pesanti radioattivi ad Amantea , sul fiume Oliva, e tutto ciò sta portando l’aumento di tumori maligni. Sui casi delle navi dei veleni stava indagando il capitano di corvetta Natale De Grazia, sapeva dove si nascon-devano le rotte e i vascelli

segreti sui traffici dei rifiuti tossici, di scorie radioattive ed armi. Natale De Grazia era partito il 13 dicembre 1995 per raggiungere i porti di Massa Marittima e La Spezia perché c’erano 180 navi che erano partite da lì per poi essere affondate. Ma quella sera, dopo una cena con i colleghi muore improvvisamente per arresto cardio-circolatorio, senza mai avere avuto problemi al cuore. Il pentito Fonti in un intervista del TG 3 disse che lui era convinto che De Grazia fosse stato eliminato perché era riuscito a trovare la verità. Noi ci poniamo tante domande: Perché l’inchiesta è stata chiusa senza accertare la verità dei fatti? Perché il Ministero della Difesa ha archiviato il tutto? Ci può essere complicità tra ndrangheta e stato? Speriamo per tutti noi che il mistero verrà risolto e che per una volta sia fatta GIUSTIZIA…

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Alessandro ChindemiCome sfondo c’era un bel mare blu oceano, con una barchetta bianca. La barchetta bianca era piena di uomini con vestiti anti-radiazioni che buttavano liberamente in acqua bidoni pieni sino all’orlo di materiali tossici. Il mare è diventato di uno strano colore. Tutti i pesci, i coralli e le altre forme di vita nelle vicinanze sono state distrutte. Gli uomini senza vergogna se ne sono andati, di loro non è rimasta altra traccia.

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06Giovanni Filianoti, nato il 26 gennaio del 1947, agente ge-nerale Ina-Assitalia, viene ucciso mentre fa rientro nella sua abitazione a Reggio Calabria la sera dell’1 febbraio 2008. Sono in corso le indagini sul delitto.A distanza di due anni, il 1 febbraio 2010, i figli Wal-ter, Natalia e Roberto hanno inaugurato a Reggio Calabria la Fondazione Giovanni Filianoti per com-memorare la memoria del padre e promuovere la cultura della legalità.

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Intervista a Natalia Filianoti

di Martina Alviano, Maria Calabrò, Marta Cama, Valeria Cilione, Paola Creaco, Florin D’Arrigo, Felice Licari, Marina Lofaro, Emanuele Mansueto (Istituto di Istruzione Superiore IPSSAR - Villa San Giovanni -RC)

15-04-2010 Fondazione Giovanni Filianoti, Reggio Calabria

Ci hai ricevuto alla Fondazione Giovanni Filianoti, ci parli di questa iniziativa? Pochi mesi fa abbiamo inaugurato questa Fondazione, di cui sono Presidente. L’abbiamo creata per far conti-nuare a vivere una persona che non c’è più, ricordando i suoi principi. Mio padre non faceva campagne per la legalità o altro, ma ci ha trasmesso principi e valori in cui credeva, dal fatto che era innamorato dello sport, perché in una società come la nostra è un interesse sano che ti consente di relazionarti, di crescere bene,

all’importanza che dava allo studio. Amava molto i giovani e questa Fondazione serve a promuovere iniziative per loro. Quindi mantiene vivo il ricordo di mio padre e promuove la cultura per i ragazzi, non solo cultura della legalità, ma cultura in gene-rale, perché già quella allontana da idee e pratiche sbagliate.

Pensi che vivere a Reggio Calabria sia pericoloso?Penso che vivere a Reggio sia pericoloso quanto vi-vere nelle altre città. Il pericolo non lo determina il territorio, il pericolo siamo noi che costituiamo il territorio. Nel momento in cui si è verificata questa tragedia, io e mio fratello il giorno dopo ci siamo

guardati e ci siamo detti: ma noi che ci facciamo in questa città? Avevamo voglia di scappare, di andare via, di abbandonare una terra che ci aveva tolto la persona più importante. Hanno sempre parlato del-la Calabria come una terra piena di corruzione e di violenza, ma per noi, come per tutti voi, è qualcosa che si sente al telegiornale, anche se ci colpisce si pensa sempre che non toccherà mai a noi. Quando invece succede, allora ti dici: esiste. Cosa fare? For-se è il caso di andare via… Questo è stato anche il no-stro pensiero, però poi ci siamo chiesti: cosa avreb-be fatto papà? Cioè, se si fosse verificata la stessa cosa ma con uno dei figli, mio padre non sarebbe mai andato via, anzi, avrebbe cercato di scoprire, di fare

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qualcosa, quindi siamo noi che dovremmo cercare di migliorare questa terra. Io qui rappresento una fondazione, ma sono una cittadina normale, una ragazza cresciuta con i valori che le sono stati tra-smessi e che crede nella legalità. Sta a noi cambiare questa città.

Provi rabbia per quello che è successo e per i re-sponsabili? Sì, certo. È una rabbia infinita. All’inizio pensi che diminuirà, ma poi scopri che aumenta, soprattutto verso l’indifferenza. Però impari a trasformarla in voglia di reagire, tentando di capire cosa è succes-so, sostenendo quelle che possono essere le indagini

con tutto quello che ti viene in mente, da quando ti alzi la mattina fino alla sera. Non passa giorno che io non pensi a questa vicenda che ha cambiato la mia vita, però la rabbia mi ha anche fortificato, mi ha fatto vedere la vita e la società in maniera com-pletamente diversa, mi ha anche spinto a voler fare qualcosa per questa città. La nascita della Fondazio-ne è il primo passo e certo è una goccia nell’oceano, però tutti dobbiamo fare la nostra parte se vogliamo ottenere qualche cambiamento. Io sono comunque ottimista. Anche di fronte alla tragedia, la mia soffe-renza l’hanno vista in pochi. Forse perché non vuoi che gli altri ti vedano crollare e sai che devi farti ca-rico dei doveri della famiglia, dell’azienda … capisci

che hai delle responsabilità nei confronti ditua ma-dre, dei tuoi fratelli. Pensate che mia madre, che ha 56 anni, ha vissuto tutta la vita in funzione di mio padre. Mio padre aveva iniziato a lavorare dall’età di 18 anni, mentre lei ha cresciuto ed educato i fi-gli e si è dedicata al marito, un’ideale di coppia un po’ anni ’50. Capite che quando ha perduto lui le è mancato proprio il fulcro. Lei aveva perso suo padre all’età di tre anni, e in questo ragazzo incontrato a quattordici anni e poi sposato a diciannove, ha tro-vato anche questa figura. Venuta meno la presenza di mio padre, a lei è venuta meno la vita. Mio padre aveva una grande personalità. Così come gestiva la sua azienda era in famiglia: accentratore, delegava

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GIOVANNIFILIANOTI

Andavate d’accordo?Dalle foto potete vedere che io ero sempre appicci-cata, abbarbicata a lui. Fin da piccola mi portava in giro e diceva che ero la sua ‘fidanzata’, poi da gran-de lavoravamo insieme in azienda, era orgogliosissi-mo del fatto che avessi seguito le sue orme, anche se lui all’inizio non voleva. Desiderava che io mi facessi un mio percorso, cosa che ho fatto con la laurea in Legge, che lo ha reso ancora una volta felice perché lui si era dovuto fermare al diploma. Ho provato la pratica legale, ma ho visto che era diversa dalla te-oria, dagli studi che amo e casualmente, accompa-gnando mio padre a una riunione a Catania, fui in-vitata a fare un corso come manager di agenzia e mi sono subito appassionata alla gestione delle risorse umane. Quello che dico sempre ai ragazzi è che biso-gna credere alle cose con entusiasmo.

Come hai saputo dell’uccisione di tuo padre?

gli studi qui, poi giovanissimo ha deciso di andare al nord. Sua madre era malata terminale, i suoi fratelli lavoravano alle poste, ma lui non si vedeva in quel ruolo impiegatizio, voleva qualcosa di suo. Andò dal-la sorella a Venezia, iniziò a lavorare come rappre-sentante di libri, capì l’inclinazione per la vendita,

il commercio. Tornò a casa per aiutare la famiglia. Quando aveva vent’anni sua madre morì. Iniziò a la-vorare come consulente presso la SAI, poi co-agente assicurativo presso la Reale Mutua, poi agente ge-nerale: un percorso assicurativo autonomo, indi-pendente, soprattutto molto caparbio. Difficilmente non raggiungeva una cosa che si era messo in testa.

Non è passato molto tempo dalla morte di tuo pa-dre. Come ti senti?Purtroppo la vivo come un film, non credo di aver elaborato il lutto. La mia famiglia mi ha tenuto lon-tana il più possibile perché con mio padre io avevo un rapporto speciale, fatto di complicità e grande sintonia, eravamo sempre assieme. ..sono stata una figlia desiderata tantissimo, nella sua famiglia han-no avuto solo maschi, quindi quando sono nata, lui era al colmo della felicità.

poco, anche se con discrezione. Per lei questo vuoto è incolmabile. Noi ragazzi alla fine reagiamo, anche questo è il motivo per cui si rimane. È vero che in questa città qualcuno non ci voleva, ma noi rima-niamo qui. Tutt’oggi mi chiedono: perché rimani? Le mie radici sono qui, mio padre è nato qui, ha fatto

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Quella sera ero andata a cena con un gruppo di col-laboratori. Mi ha chiamato mio fratello, dicendomi che avevano sparato a papà. Il piccolo, Roberto, si trovava a casa con mia madre. Hanno sentito il can-cello che si apriva ma che si è richiuso dopo poco. Roberto è uscito e ha visto la macchina di mio pa-dre, in una traversina, che si era schiantata con-tro un pilastro, con l’autoambulanza già accanto e anche la polizia, che qualcuno aveva già chiamato. Roberto è riuscito ad avvicinarsi a mio padre che si trovava accasciato sul fianco destro e, dato che avevano già aperto lo sportello, una gamba pendeva fuori dalla vettura. L’autopsia ha rivelato che prima è stato colpito al torace e poi alla testa, da sette colpi consecutivi. A me tutta la vicenda sembra ancora incredibile. Ero in stato confusionale quando una catena umana, fatta di polizia e amici mi hanno im-pedito di avvicinarmi a mio padre quella sera, ma poi è stata una scelta, o forse un blocco, quella di

non entrare in camera mortuaria. Volevo ricordarlo vivo. Penso che sia dovuto al modo in cui è morto. Forse quando si spegne dopo una malattia si può accettare di vedere un genitore, ma non in questo modo, morto di morte violenta. Forse è un modo per difendersi dalla realtà. A che punto sono oggi le indagini?Le indagini sono in corso, ma non ho notizie a ri-guardo. Mio padre era una persona normale, non ha mai avuto problemi, non deve essere facile. Sap-piamo che è stato aperto un procedimento contro ignoti e nel corso di questi due anni gli inquirenti hanno cercato tutta una serie di elementi che con-sentissero di ricostruire la vicenda. Ora, che idea si siano fatti non lo sappiamo, oppure se ci sia una pista che prevale su un’altra, non perché non ci sia-mo interessati, ma perché quello che si può fare in questi casi è solo rispondere alle loro domande, non

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GIOVANNIFILIANOTIottenere risposte. Certo, da vittime ci si sente un po’ “indagati”, mentre si freme per sapere qualcosa, ma non si può fare altro, nella speranza di dare il contributo che faccia loro scoprire i colpevoli. Non vi nascondo che ora che sono passati due anni, ci piacerebbe sapere se stanno vagliando una pista piuttosto che un’altra, ma non abbiamo notizie. An-che il motivo per cui la Fondazione è nata dopo due anni è stata una scelta per non intralciare le inda-gini: il semplice dubbio che una Fondazione a nome

di un grosso imprenditore potesse avere un’eco im-portante in città, ci ha fatto scegliere di mantenere il rigoroso silenzio fino a quest’anno.

Ma tu che idea ti sei fatta?Io ogni giorno mi faccio un’idea diversa, da quando è successo. Ma se non si hanno elementi è difficile. Ad esempio, questa sede era il secondo ufficio di mio padre. In quanto agente generale era presente nella struttura dell’Assicurazione, dove ha lavorato per ventisei anni. Negli ultimi sei anni, subentrando i figli, lui aveva iniziato a diversificare, a estendere la sua attività e i suoi interessi, avendo un istinto e una mentalità imprenditoriale, per cui era ammini-stratore di alcune società, presidente di altre, tutte nel settore degli immobili. Ha sempre avuto il palli-no per l’acquisto, la vendita nel settore immobiliare. Come autodidatta e persona molto curiosa, aveva sviluppato tanta conoscenza sul campo e tanta com-petenza. La prova che era una persona che riusciva a gestire un’enorme mole di lavoro e di interesse l’abbiamo avuta quando è venuto a mancare, perché io, i miei due fratelli e due collaboratori abbiamo avuto difficoltà a gestire tutte le sua cose!

Prof. Barbaro: Anch’io voglio farti una domanda. Nella vita di tutti i giorni, incontri tanta gente, ti sei mai chiesta: e se stessi parlando con l’assassi-no di mio padre?O col mandante … già. Sai, il dubbio ti accompagna giornalmente, dalla mattina alla sera, dalla gente che incontri per strada al cliente che viene in agen-zia. Il dubbio alberga in te ma se permetti che pren-da il sopravvento è finita. Nessuno può darmi una risposta, io osservo molto le persone. Quando vi di-cevo che per me la vicenda è come un film, intendo anche dire che io ho, fotografate nella mente, tutte le persone che c’erano quel giorno e anche al fune-rale di mio padre. Non nascondo che quando si avvi-cinano alcune persone c’è un minimo di sussulto. Lo stesso mi succede quando ritorno a casa e magari a volte mi è capitato che si affiancasse qualcuno in moto per chiedermi informazioni. Non vi posso na-scondere che a volte sono tornata a casa sconvolta, perché mi sembrava di aver vissuto qualcosa che magari era successa a mio padre. La paura di fare quella strada ogni giorno, la voglia di cambiare casa c’è, perché comunque ogni volta che esci ti sembra di vedere la sua macchina contro il pilastro. Dopo l’omicidio di mio padre hanno illuminato la strada, ma è stata sempre buia. Un anno prima era già stata uccisa una persona lì, un architetto.

Abbiamo letto un articolo che troviamo strano, perché lega i due omicidi al fatto che quella stra-da è buia e isolata, mentre il dato da leggere sem-mai è la frequenza degli omicidi in città…Certo, non puoi collegare due omicidi alla scarsa il-luminazione. Due persone, per motivi diversi, che si conoscevano di vista perché abitavano nella stes-sa strada, sono state uccise… ti dirò di più: mia ma-dre sentì il vicino ferito chiedere aiuto, e poco dopo venne chiamata l’ambulanza… comunque non so che reazione avrei se mi trovassi di fronte a chi ha ucciso mio padre, davvero non lo so. Secondo me lì subentrerebbero emozioni che neanche immaginia-mo. La cosa che so è che io ho una vita davanti e sono determinata ad aspettare. Il fatto che oggi non sappiamo niente non mi scoraggia, aspetterò tutto il tempo che servirà e sono pronta ad andare avanti anche nel caso che le indagini si chiudessero senza avere trovato i colpevoli. Fino a oggi non ci siamo mai mossi per non intralciare le indagini in alcun modo. Siamo in attesa di vedere se verrà scritto qualcuno tra gli indagati.

Secondo te l’omicidio di tuo padreè di mano mafiosa?Io me lo sono chiesto da subito, dal momento stesso in cui si è verificato. Ci sono due elementi, per quello che mi hanno detto: l’arma e la modalità. So che il caso è passato alla DDA, ma bisogna vedere se riter-ranno il caso di loro competenza. Il termine ultimo per le indagini dovrebbe essere giugno.

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Ci sono stati testimoni?Che io sappia, no, ma qualcuno ha chiamato l’ambu-lanza. Mi è stato anche detto che dietro la macchina di mio padre ce n’era un’altra, con una coppia, che poi è stata convocata in questura, ma anche qui, non so cosa abbiano detto e quindi cosa abbiano visto. Se qualcuno era appostato sotto casa, nella traversa, o se qualcuno ha affiancato mio padre, con un mezzo e poi è scappato, non lo sappiamo. Se lo hanno seguito o se conoscevano le sue abitudini, altro interrogati-vo … solo gli inquirenti ad esempio possono capire la stessa dinamica dell’agguato, da dove abbiano spa-rato … pare che a oggi la stessa arma non sia stata usata di nuovo… queste sono solo alcune delle cose che noi ci chiediamo ogni giorno.

In questi due anni avete avuto minacce o subito qualcosa di strano? No. Questa è una domanda che mi fanno sempre, come anche se mio padre negli ultimi tempi era preoccupato per qualcosa … lui all’epoca era solo dispiaciuto per una cosa che riguardava la famiglia, l’udienza di separazione di mio fratello maggiore, da buon genitore aveva quello tra i pensieri. Anche lo stesso giorno, lo abbiamo sentito al telefono ed era tranquillo. Io ci avevo parlato proprio cinque minuti prima e forse mio fratello maggiore era ad-dirittura al telefono con lui quando è stato colpito perché è caduta la linea …

Abbiamo letto che tuo padre era amministratore della “Otto Immobiliare”, pare che fosse indaga-ta per riciclaggio di denaro sporco? Com’ è finita?Vi spiego cosa è successo, la “Otto Immobiliare” è una SrL che aveva acquistato un immobile e poi ne hanno gestito la conduzione, affittandolo. Mio pa-dre allora era presidente di questa società. Qualche anno fa sono state indagate non so quante agenzie immobiliari a Reggio e il nome di questa società ha tratto in inganno. È stato un errore nell’iden-tificazione della società, perché non era agenzia immobiliare ma si occupava della gestione e am-ministrazione dell’immobile. Questo è dimostrabile documentalmente, è stata inserita per errore in un procedimento e poi esclusa subito. Il problema è che i giornali si saranno fermati alla prima notizia, sen-za seguire lo sviluppo.

Se non fosse successo, a quest’ora come sarebbe stata la tua vita?Sicuramente diversa. Sarei stata una figlia di fami-glia, avrei continuato a lavorare nel mio piccolo uffi-cio con cinque ragazzi, avrei mantenuto alcune cose che ho dovuto necessariamente sospendere…non lo dico a malincuore, perché subentrano priorità senza che neanche tu te ne accorga…ma avrei con-tinuato, quello sì, a fare la figlia, la “cocca di papá”, avrei continuato a viaggiare con lui, perché il primo viaggio all’estero lo feci con lui in Grecia, mentre io

con la squadra giravo in Italia. Avevamo la stessa passione per la scoperta, oggi viaggio pensando che lui potrebbe essere con me, che potrei continuare a condividere tante cose con lui. Un mese fa ero in Africa e riflettevo sulle difficoltà atroci che la gente vive nel mondo. Pensavo questo: lì non dipende da loro, qui dipende proprio da noi, siamo noi che rovi-niamo la società.

“io ero sempre appiccicata, abbarbicata a lui. Fin da piccola mi portava in giro e diceva che ero la sua ‘fidanzata’, poi da grande lavorava-mo insieme in azienda, era orgogliosissimo” del fatto che avessi seguito le sue orme, an-che se lui all’inizio non voleva.

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La visita alla Fondazione “G.Filianoti” effettuata nell’ambito del progetto “Arcipelago della memoria”, ci ha confermato quanto già da noi percepito durante il nostro percorso proget-tuale: le donne calabresi, soprattutto le più giovani, sono testimoni coraggiose dell’impegno profuso per promuovere il rispetto della legalità, senza sosta, senza timore. Conoscere Natalia, presidente della Fondazione

“Giovanni Filianoti”, dedicata a suo padre, rimasto vittima di un omicidio di mafia ancora senza colpevole, è stato per noi occasione di crescita umana e civile. Perché? Una donna così giovane, affermata profes-sionalmente, vuole tenere viva la memoria del padre (dirigente generale dell’ Ina Assitalia), dedicando la sua attenzione, le sue energie ai giovani. Sicuramente perché crede che noi ragazzi, quali

cittadini di domani, dobbia-mo essere consapevoli della necessità di una partecipa-zione responsabile e attiva alla vita sociale, perché solo così fiduciosi, potremmo guardare al futuro più sereni, liberi dai condiziona-menti e dai tabù che ancora gravano su di noi. Che la nostra voce sia sempre ferma e chiara, come lo è stata quella di Natalia, quando ci ha raccontato la sua esperienza dolorosa di

figlia brutalmente privata del padre, e di cittadina che ancora crede nelle Istituzioni! Questo è il nostro augurio. Noi studenti dell’IPSSAR crediamo che le valenze creative un messaggio veicolato dal progetto “Arcipelago” possa essere sintetizzato così:

AudaciaRiscattoCoraggio

La Fierezza dei Giovani CalabresiMaria Calabrò, Marina Lofaro, Cilione Valeria, Creaco Paola, Florin D’errigo, Licari Felice, Emanuele Mansueto

ImpegnoProveEducazione

LegalitàAvvenireGioventùOrgoglio

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Paola Creaco Fotografie con le parole.Stretto di Messina: un panorama così bello, tutto naturale. Splendido e lucen-te ogni piccolo particolare. E pensare che ci vogliono distruggere questo paradiso con una mega struttura fatta di calcestruzzo e acciaio, il ‘ponte’…

Marina Lofaro Il porto di Villa San Giovanni è la parte iniziale della Via Marina. Favorisce i trasporti commerciali tra Messina e Reggio e rappresenta un bene molto importante per Villa. È una zona molto frequentata sia dai turisti che dai pescatori.

Marta CamaMare cobalto, affacciato sullo stretto di Messina, uno scenario spettacolare, da ammirare. Oggi il mare è molto calmo e l’acqua è limpida. Una giornata perfetta per attraversare lo Stretto con la nave. Grazie al fenomeno della Fata Morgana, la Sicilia si può ammirare perfettamente da Villa San Giovanni. Il cielo è di un azzurro bellissimo ed è limpido, il sole è abba-stanza lucente da riflettersi sul mare.

Felice LicariVilla con un bel ponte assomiglierebbe a New York. Un enorme ponte di cemento e di ferro darebbe un fascino di modernismo e innovazione.

Maria Calabrò Questa descrizione rappre-senta il mare: le sue onde così limpide e chiare, rispec-chiano i raggi del sole come se fossero piccoli cristalli per raccontare la bellezza di cui esso è caratterizzato; viene attraversato da navi e il vento soffia tra le nuvole bianche e rappresenta l’im-menso cielo azzurro.

Martina Alviano Oggi, 19 marzo, sono affacciata sulla terrazza della scuola e sono rimasta meravigliata da una visuale a dir poco spettacolare: c’è una giornata fantastica, un mare stupendo e molte case… il cielo è abbastanza limpido. Si sente l’aria di primavera.

Valeria Cilione Fotografia: questo paesag-gio rappresenta lo stretto di Messina e Villa San Giovanni. Dall’alto si vedono le navi che permettono

il trasporto di passeggeri e merci tra la Sicilia e la Calabria. si vede molto bene la sicilia. È una bellezza naturale, il cielo che si rispecchia nel mare e dà un panorama con colori chiari. C’è un cielo limpido. Oggi c’è una giornata molto bella, sembra primavera, gli uccelli si sentono cantare e affacciandomi dall’alto si vede molto verde, tra alberi e fiori.

Florin D’ Errigo La ndrangheta è il fattore principale che ha fatto parlare di Reggio Calabria. nella seconda metà di anni ottanta le strade di Reggio furono insanguinate da una guerra di ndrangheta tra le famiglie. La ndrangheta è considerata la più forte e pericolosa organizzazione criminale in Italia.

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07Nello Ruello, fotografo e commerciante di Vibo Valentia, vit-tima di estorsione e usura dal 1992, trovò il coraggio di denunciare i suoi taglieggiatori nel 2004. Gli imputati dei clan Lo Bianco-Barba sono stati tutti condannati. Ruello vive sotto scorta dal 2005.

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Quale è stato il suo primo pensiero dopo che quell’uomo le ha chiesto di pagare il pizzo?Il mio primo pensiero? Non è che mi hanno chiesto subito il pizzo. Il 17 novembre del ’92, nell’aprire la sara-cinesca, ho visto una lattina con della gelatina e una miccia. In un primo momento non me ne ero nemmeno accorto, gli ho dato un calcio, mi sembrava una lattina di coca cola che qualcuno aveva bevuto, ma poi un mio dipendente mi ha detto “quella è una bomba”. Oltretutto, c’è da dire che poi quel mio dipendente è stato

Intervista a Nello Ruello

Di Anna Grazia Barbalaco, Clelia Barbieri, Miriam Barbuto, Roberta Gril-lo, M.Pia Malito, Erika Mazzotta, Barbara Pizzonia, Chiara Vita (Istitu-to di Istruzione Secondaria “Vito Capialbi” - Vibo Valentia)19-01-2010 Galleria fotografica Ruello, Vibo Valentia

arrestato perché era colluso. In quel momento, lo-gicamente, ho chiamato i carabinieri, sono venuti, hanno ispezionato tutto ed effettivamente era una bomba. Quel segnale, da qual momento, ha rovina-to la mia vita. Ho cercato delle spiegazioni, tanto è vero che quella mattina stessa un giornalista della Gazzetta del Sud mi ha intervistato e ho anche di-chiarato che io il pizzo lo pagavo, ma lo pagavo in natura, con servizi fotografici, con occhiali, quindi mi meravigliavo di questa bomba. Quell’articolo è uscito il 18 novembre del ’92 sulla Gazzetta del Sud. Nessun magistrato, nessuno, vedendo quella dichia-razione che io pagavo il pizzo mi ha mai domandato ma a chi lo pagavate? A chi no? Chi erano questi?

Perché allora a Vibo, purtroppo, la Magistratura e le Forze dell’Ordine se ne fregavano. Quello che vi sto dicendo l’ho detto anche in Tribunale.La compagnia assicurativa non voleva più assicu-rarmi, il proprietario del locale mi voleva cacciare perché sosteneva che il fabbricato era a rischio. Ho dovuto combattere contro tutti, e poi sono dovuto andare dal capo mafia, che tutti sapevano chi fos-se, a domandare chiarimenti sulla questione. “ Non vi preoccupate, professore, me la vedo io” … perché allora mi chiamavano professore. Dopo un anno, mi viene a dire “mi dovete fare un regalino a Pasqua e a Natale per darlo a quei ragazzi”. Mi sono consul-tato in famiglia, ho messo 500 mila lire di una volta

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in una busta e li ho consegnati al tizio che hanno mandato. Questo me li ha sbattuti in faccia, dicendo: “e questi che cosa sono?” le loro pretese erano ben altre. Volevano 50 milioni a Natale e 50 a Pasqua. Da quel momento è stato tutto un disastro.

Come si sentiva quando vedeva entrare nel suo negozio le persone che sapeva che poi le avrebbero chiesto i soldi? Un taglio alle viscere … ma lo dovevo sopportare. Era una cosa che mi sconfortava …Poi oltre al pizzo sono andato a finire sotto usura, per un motivo molto semplice. Lavoravo alla Banca Nazionale del Lavoro - è bene che queste cose si sap-piano- e non avevo avuto problemi per anni e anni, il direttore che c’era mi diceva “non ti preoccupare, fai assegni, lavora con tranquillità non ti preoccu-pare delle esposizioni debitorie …”, e siamo andati avanti per parecchio tempo. Una sera è venuto in-sieme a un’altra persona, comunicandomi che dal giorno dopo sarebbe stato trasferito e quel signore avrebbe preso il suo posto. Dopo due giorni il nuovo direttore mi chiama dicendo “lei deve rientrare, se non rientra entro domani, dopodomani, se arriva un assegno non glielo pago e lo mando in protesto”. In quel momento, chi poteva darmi i soldi contan-ti, per far fronte a questa nuova situazione …? Solo la ndrangheta … purtroppo. Quindi mi sono dovu-to piegare … e ho dovuto chiedere a questa gente di prestarmi i soldi, e da quel momento è stata una rovina tremenda, perché pigliare 100 milioni di vec-chie lire e dare 10 milioni al mese a loro … capite cosa può significare. È stata una rovina, una rovina che poi si è protratta nel tempo.

Ha mai pensato di farsi giustizia da sé?No, avrei dovuto pigliare un mitra e ammazzare a tutti. Non è possibile.

Come ha fatto a tenere nascosto alla sua famiglia un dramma così grande?Questa è stata la cosa più complicata … la mia non era più una vita serena, a tavola con i miei familiari non partecipavo alle loro conversazioni , sembravo assente …Ma non potevo raccontare tutto a loro, certo erano a conoscenza che pagavo in natura a questi personag-gi ma se avessero saputo tutto, la loro vita sarebbe stata sconvolta (anche se dopo pure la loro esisten-za si è modificata …)Fino all’ultimo mi sono tenuto tutto dentro, sen-za farmi sfuggire niente … non è stato facile … quand’ero solo mi lasciavo prendere dallo sconforto … ma dovevo farlo …

Come si sentiva mentre usciva dalla questura dopo la denuncia?Dopo la denuncia, mi sono sentito sollevato … la mia famiglia mi è stata molto vicino. Anzi, le mie figlie

mi hanno detto: “se denunci, devi andare fino in fon-do e non tornare indietro”. Ho avuto il loro appog-gio. Da quel momento anche dallo Stato ho subito delle umiliazioni. Per sei mesi non ho avuto la scor-ta, perché quando ho fatto la denuncia alla Guardia di Finanza, non alla Questura, l’ho fatta in un modo diverso, perché conoscevo una persona che ha fat-to in modo di poter avere degli investigatori della Guardia di Finanza di Palmi e di Lamezia, fuori dalla Caserma di Vibo Valentia. Oltretutto ho dovuto tro-vare un Magistrato che di nascosto, di notte, sono dovuto andare a trovare al Tribunale per spiegargli la mia faccenda. Questo Magistrato, in una giorna-ta, ha passato tutto alla DIA di Catanzaro senza che nessuno al tribunale di Vibo sapesse della mia de-nunzia. Perché se si fosse scoperto che avevo fatto la denuncia mi avrebbero ammazzato.

Come vive una famiglia sotto scorta? Qual è il rapporto con le sue guardie del corpo? Vivere sotto scorta è come essere “prigionieri”. Le mie abitudini, come quelle della mia famiglia sono cambiate … ma si deve fare e dobbiamo andare avanti … Comunque ho un bel rapporto sia con la Polizia che con la Guardia di Finanza. Attualmente ho la Guardia di Finanza e per me sono dei nipoti, mi trattano benissimo, ho un rapporto meraviglioso. Ho avuto a che fare con l’ufficio scorta della Polizia, perché all’inizio, per poter avere la scorta, ho do-vuto appoggiarmi alla stampa. In quei mesi la situa-zione era pesante, il capo mafia locale, agli arresti

La compagnia assicurativa non voleva più assicurar-mi, il proprietario del locale mi voleva cacciare perché sosteneva che il fabbrica-to era a rischio. Ho dovuto combattere contro tutti, e poi sono dovuto andare dal capo mafia, che tutti sapevano chi fosse, a do-mandare chiarimenti sulla questione.

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NELLORUELLOdomiciliari, aveva il permesso di uscire due ore al giorno e si fermava davanti al mio negozio. Un’altra cosa assurda è che io ho un appartamento a Bivona e il capo ndrangheta agli arresti domiciliari aveva affittato l’appartamento di sotto. Io non sono più po-tuto andare nel mio appartamento, ero senza scorta e quello stava sotto. Cose che succedono solo a Vibo Valentia.

Ma i ragazzi della scorta cambiano o sono sempre gli stessi?Per un anno ho avuto la Digos e non era una scorta perché mi portavano da casa al negozio e poi se ne andavano. Poi è venuto il prefetto Sodano, che era

una persona per bene e la scorta l’ha cambiata, sem-pre della Polizia però dell’Ufficio scorta, quindi 24 ore su 24. Uomini per bene, con i quali ho avuto un bellissimo rapporto. Da circa un anno sono passato alla Guardia di Finanza, anche loro sono dei ragazzi eccezionali a cui voglio molto bene. Hanno i turni, due la mattina e due il pomeriggio. Per natale tutta la loro sezione mi ha regalato un orologio … c’è deci-samente un bel rapporto.

Cosa consiglierebbe a qualcuno che si trovasse nella sua stessa condizione? Sia quella attuale che quella precedente. Denunciare. Denunciare e stare a testa alta, non ab-bassare mai la testa come ho fatto io. Ho aspettato dieci anni prima di fare questo passo, non certo solo per colpa mia. Volevo denunciare anche prima ma “qualcuno” mi aveva consigliato di “lasciar perdere”.

Perché, secondo lei, molti non hanno il coraggio di denunciare?

Perché hanno paura (è legittimo) pensano di essere soli a combattere una battaglia più grande di loro … le denunce sono poche, se fossero di più tutto sareb-be più facile. Subiscono, peggio per loro. Io lo vado ripetendo con-tinuamente di denunciare, anzi mi sto esponendo per aiutarli. Viene qualche mamma a dirmi “... con mio figlio ci troviamo in queste condizioni” … ma se non fanno la denuncia, lo Stato come gli viene in-contro?

Prof: Però lo Stato deve venire incontro, perché il problema che a volte ci poniamo in classe è pro-prio questo: che a volte ci sentiamo abbandonati.

Vedere un delinquente uscire dopo una settimana e lei se lo trova di fronte al negozio … Certo non è bello vedere in giro le persone che tu hai denunciato e sono stati condannati, scorazzare per la città indisturbati, ma è sempre meglio che essere assoggettati a loro ed essere nelle loro mani … diventare la loro marionetta. Le leggi ci tutelano in parte purtroppo, dovrebbe essere modificato il si-stema … ma ci vuole tempo .Io ho fatto una battaglia, perché sono andato dal Prefetto di allora. Il lunedì sono andato in Questura a chiedere il porto d’armi, dopo due ore dall’usci-ta della Gazzetta del Sud, dove c’era un articolo che avevo mandato il sabato, il Prefetto Tafaro mi chiama, con il Comitato di Sicurezza, mi chiede no-tizie. “Signor Prefetto, io sono venuto a domandar-vi protezione e voi mi avete detto: e io cosa posso fare?”. Purtroppo sono cose che succedono. Da quel momento mi hanno dato la scorta della Digos. Non essendo a conoscenza di come sono le prassi, solo dopo un certo periodo ho capito che non era così.

“Signor Prefetto, io sono venuto a domandarvi pro-tezione e voi mi avete det-to: e io cosa posso fare?”. Purtroppo sono cose che succedono.

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Bisogna lottare. Serve la capacità di lottare, perché se uno non ha scheletri nell’armadio può lottare. La mia storia è lunga e complicata. Ho dovuto combat-tere anche con il sottosegretario Mantovano: è una persona molto per bene, però chi gli dava le notizie era una persona falsa. Poi dietro la mia insistenza, mi ha visto a Roma, mi ha chiesto scusa, siamo di-ventati amici.

Cosa è cambiato per lei oggi?Oggi sono molto più tranquillo, anche se vivo sotto scorta. Sono contento di quello che ho fatto, perché le persone oneste l’hanno capito e mi sono vicine. A Vibo Valentia molti amici e molti parenti si sono allontanati, per paura … I politici anche perché in qualche modo collusi con il clan locale che per qua-ranta, cinquanta anni ha sempre comandato a Vibo Valentia e nessuno mai lo ha denunciato. Potentis-simi. Oggi sono un uomo libero … sono sotto scorta, ma sono un uomo libero. Nel mio negozio posso por-tare roba di qualsiasi valore, qualsiasi prezzo, che non viene quello là a dirmi “mettete da parte che poi passa mia moglie”, oppure prima passa la moglie e poi viene il marito. Questo non succede più, quindi nel mio negozio c’è libertà. Posso portare occhiali di seicento, mille euro. Prima non poteva farlo, perché le cose migliori venivano a prendersele loro.

Crede ancora nella giustizia?Nella giustizia sì, certo come dicevo prima, le leggi che ci sono non bastano … dobbiamo accontentarci. Ci vorrebbe la certezza della pena e maggiore tute-la, uomini e mezzi adeguati. Ci sono magistrati in gamba, che fanno il loro lavoro con dedizione e spi-rito di sacrificio, ma purtroppo non basta.Nella sentenza d’appello per il processo al capo lo hanno condannato, hanno confermato la condanna al clan, ma al figlio hanno dato uno sconto di pena.

Si sente un eroe?No. Io sono stato costretto…quello che ho fatto l’ho fatto perché volevano pigliarsi il negozio di mia fi-glia. A quel momento un padre deve svegliarsi.

Ma lei è credente? A volte si è rifugiato magari nella fede?Si sono credente, anche per l’ aiuto di Dio sono ve-nuto fuori da questo calvario …Questa domanda mi è stata fatta da un avvocato della difesa in Tribunale durante il processo, chie-dendomi se li ho perdonati … certo come cristiano hanno il mio perdono, ma la giustizia deve fare il suo corso …

Cosa vuol dire l’arte, la pittura, la fotografia per voi? L’arte … io ero un bravo fotografo una volta, per me la fotografia era tutto, quando ero ragazzino con le

scatole delle scarpe costruivo delle macchine foto-grafiche … era la mia grande passione. Il mio lavoro mi ha permesso di vedere cose stupende , ho immor-talato momenti magici … istanti che non torneran-no più. Con quello che ho subito, negli ultimi dieci anni, non avevo più la forza e la testa per fare il mio lavoro come si deve. Avevo perso lo smalto anche per il mio adorato lavoro … Anzi, vi posso dire una cosa, molta gente mi riteneva scorbutico, non sa-lutavo, non rispondevo al telefono, ma avevo altre cose per la testa, purtroppo.

Secondo lei qual è l’aspetto più debole della ndrangheta?La debolezza della ndrangheta può essere una sola: la denuncia compatta da parte di tutti … senza se e senza ma …Se la gente, la società civile fa gruppo, la mafia non ha più la stessa forza. Se si è da soli la ndrangheta se ne frega, ma se si è cinque, dieci, cento, la ‘ndrangheta è sconfitta. E poi ci vuole la certezza della pena. Se uno viene con-dannato a cinque anni, deve fare cinque anni. Gente condannata a dodici anni può stare agli arresti do-miciliari nella propria città? Questo succede.

Avete mai pensato di andare via da Vibo?Purtroppo andare via da Vibo, per uno che ha un’at-tività e una famiglia, non è facile. Io, per esempio,

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NELLORUELLO

ho lavorato fuori, a Cesenatico, a Saint Vincent nell’ufficio stampa, ho girato l’Italia, però me ne sono voluto tornare a Vibo, quando avevo venticin-que anni. Ho lavorato a Modena, a Bologna, in molti posti, sempre nella qualità di fotografo. Sono voluto ritornare a Vibo perché mi piace la mia terra. Se fos-si rimasto su, la mia vita sarebbe stata diversa, ma purtroppo tornare indietro non è possibile.

Vediamo il quadro di Natuzza, lei crede in lei? Le è mai capitato di confidarsi con lei?Io sono molto devoto di Natuzza, la conosco da più di trent’anni, è stato un punto fermo della mia esisten-za, così come della mia famiglia. Ci siamo sempre rivolti a lei con fede in molte situazioni, di salute e non solo … Mi ha sempre spronato ad andare avanti, dicendomi che avevo fatto bene a denunciare e a continuare su questa strada. Natuzza ha cresimato una mia figlia … era di casa da me.

Leggevo della sua delusione, ieri, in occasione del corteo, nei confronti degli altri commercianti di Vibo.Io ce l’ho con il presidente della Confcommercio. Il presidente della Confcommercio che parla di le-galità doveva fare almeno un comunicato per dire: durante il passaggio del corteo spegnete le luci, ab-bassate la serranda. Se passa un funerale, uno ha rispetto e abbassa la serranda, senza che glielo dica nessuno. Una fiaccolata silenziosa è un segno tri-ste, va abbassata la luce. Si vede che lungo il Corso Vittorio Emanuele questi negozi non sono proprio dei commercianti, ma non hanno dato un segno di

appoggio al corteo. Hanno voluto dare un segno che sono dall’altra parte, e questa è una cosa assurda. Non è questione di avere paura. Chiudere il negozio è un segno di rispetto. Si vede che gli hanno imposto di tenerlo aperto. Ma non è la prima volta. Anche quando è stato inaugurato il mio negozio, il nuovo negozio, c’era tutto lo Stato che è venuto a Vibo. Dal Presidente dell’Antimafia al Sottosegreta-rio all’Interno, il Prefetto Antiracket, c’erano tut-ti, il 21 maggio del 2007, tranne i commercianti di Vibo Valentia …

Una domanda forse un po’ indiscreta per capire se la città di Vibo appoggia un commerciante come lei che ha deciso di denunciare. L’attività commerciale va bene?La gente comune sì, però c’è molta gente che non mi può vedere, ce n’è parecchia. Non mi possono vede-re per quello che ho fatto. Poi non parliamo dei poli-tici, di gente che quando vedeva il capo mafia faceva l’inchino, tra questi dottori, avvocati …Ho avuto difficoltà anche a trovare un avvocato che tutelasse i miei interessi, molti avvocati di Vibo si sono defilati adducendo questo o quel motivo.Poi ho trovato un bravo avvocato donna di origini siciliane, ma residente a Vibo, lei mi è stata sempre accanto in tutte le mie battaglie … con coraggio e dedizione.Tornando all’attività devo dire che nei primi giorni dopo la denuncia, i miei affari non sono andati sem-pre bene, la gente aveva paura, e non frequentava il mio negozio con tranquillità. Adesso conoscendo le mie posizioni e avendo visto i risvolti della mia vicenda, sono un po’ meno timorosi … anzi devo dire che diversa gente, viene anche da fuori provincia per gli acquisti, dicendomi che vengono proprio per quello che ho fatto.

Poco tempo fa ho sentito di una minaccia che hanno fatto contro di lei, del cemento ricevuto sulla porta di casa, non so dove. Sì, nell’appartamento quassù che sto preparando perché sopra dovrò fare il laboratorio fotografico e sotto l’esposizione. Non credo che sia la ndrangheta, l’avrebbe bruciata la casa, avrebbe rotto la porta, è stato un segno … non so, è stato fatto per ben due volte, forse qualche mitomane .... Quando succedo-no queste cose si devono denunciare. Oltretutto, sia questo laboratorio sia quello sopra lo sto facendo con i soldi dello Stato e quindi devo dare conto di tutto quello che faccio. Lo Stato mi è venuto incontro. Cer-to, dopo tante polemiche, dopo tante cose, non è che la strada sia stata libera. Poi, per quello che succede a Vibo, se mettono una bomba a un negozio per di-struggerlo, sicuramente gli avranno chiesto prima la mazzetta, perché se prima si distrugge l’attività come si fa a chiedere il pizzo? Se sparano, sparano e poi gli vanno a chiedere la mazzetta sì, ma quello che ha subito la bomba, invece, sa già chi era andato a chiedere la mazzetta. Ed è giusto che faccia la sua

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denuncia, non dire “no, io non ho ricevuto nessuna minaccia”.

Lei fa parte anche di associazioni contro la mafia, antiracket?Sì, appartengo a Riferimenti, sono Responsabile Na-zionale Antiracket. Riferimenti è il Coordinamento Antimafia Gerbera Gialla. Ho avuto un riconosci-mento nella Gerbera Gialla nel 2007, sono l’unico ad avere avuto la Gerbera Gialla e non essere uno della Polizia, della Finanza, un uomo della società civile. Le altre sono state date o a giornalisti o a Capi della Polizia, a Generali.

Lei prima ha detto che ha deciso di denunciare quando il boss, i mafiosi si sono intromessi nella vita di sua figlia…Stavano facendo in modo che l’attività di mia figlia, il negozio di ottica, fosse loro. Non potevo permet-tere che rovinassero la sua vita … in quel momento ho avuto forza di dire basta, quella non era più vita che potevo fare.

E se magari questo non fosse accaduto, lei avrebbe denunciato comunque?Io ero andato a denunciare alle Istituzioni locali. Ho fatto nomi, cognomi, ma mi è stato consigliato di non farlo. Purtroppo per quello che dico non ho

testimoni, non posso dire con chi ho parlato. Però la persona con cui ho parlato poi con il tempo è scivo-lata su una buccia di banana e l’ha pagata. Cosa ne pensa di questa iniziativa della Confindustria “Io il pizzo non lo pago”Non l’ha fatto Confindustria di Vibo, l’ha fatta quella della Sicilia. Deve essere un impegno sentito e por-tato avanti, altrimenti resta solo uno slogan, senza concretezza …

Di questo progetto che arriva da Reggio, “Arcipelago della Memoria”, e del Museo della ndrangheta, cosa ne pensa?Sono iniziative che ci vogliono, per far capire ai gio-vani che il futuro è loro. Bisogna che ci sia la piena legalità, che loro quando si laureano non siano co-stretti ad andare via, perché è loro diritto lavorare sul posto. La Comunità Europea ha stanziato in Ca-labria un sacco di soldi. Dove sono finiti? I giovani che sanno fare il loro lavoro devono andare al nord. Io ve lo dico anche come padre, perché ho una figlia che è oculista, è andata al nord e lì sta facendo stra-da. Mi ha operato lei assieme al primario, mentre se fosse stata qua non avrebbe potuto fare niente. Alla mancanza del lavoro voi giovani vi dovete ribellare.

Oggi sono un uomo libe-ro … sono sotto scorta, ma sono un uomo libero. Nel mio negozio posso porta-re roba di qualsiasi valore, qualsiasi prezzo, che non viene quello là a dirmi “mettete da parte che poi passa mia moglie”, oppure prima passa la moglie e poi viene il marito. Questo non succede più, quindi nel mio negozio c’è libertà.

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NELLORUELLO

La storia rielaborata dalle ragazze dellaboratorio inmaniera collettiva.

La storia di Nello Ruello ini-zia nel 1992, quando trova un ordigno davanti alla sa-racinesca del suo negozio. Inizialmente, credendolo una semplice lattina, non ci fa nemmeno caso. È il suo commesso che gli fa notare cos’era in realtà quella cosa che era stata depositata durante la notte per strada. Dopo qualche giorno, un affiliato della cosca di Vibo Valentia entra nel negozio e gli chiede di fare “un’of-ferta per le persone che si trovano in carcere”, la formula della richiesta del pizzo. Ruello, dopo essersi consultato con la famiglia, mette in una busta 500 mila lire e le consegna all’uomo, che sprezzante gliele butta in faccia e chie-

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de 50 milioni. La cosa gli provoca un’ulcera. Intanto alcune “persone” comincia-no ad appostarsi davanti al negozio. Lentamente la clientela diminuisce e Ruello si trova sfrattato e con un protesto in banca. La sua unica salvezza è il “credito privato”. Ottiene 30 milio-ni. Inizialmente nessuno si rende conto del guaio in cui si è cacciato. Per pagare, Ruello intacca il patrimonio familiare, ma non basta. Gli usurai vogliono prendergli tutto. Quando arrivano a pretendere il negozio della figlia, Ruello dice basta, vuole denunciare. Siamo nel novembre del 2004. Si rivolge alla Questura ma, sentito il nome del boss, la risposta è sempre una: “lasci perdere”. Ruello non vuole mollare, denuncia lo stesso: di notte si reca a Catanzaro, dove finalmen-te i suoi usurai vengono denunciati.

Gli usurai preferiscono farsi dare i soldi in contanti perché in questo modo non si creano prove e di conse-guenza non c’è reato. Gli usurai vogliono legare a loro la vittima, spingendola a non poter pagare e dover diventare lui stesso usuraio per saldare i debiti, impri-gionandolo nella ragnatela: se mai volesse denunciare, essendo lui stesso nel giro, verrebbe incriminato anche lui. La legge sull’usura è stata cambiata nel 1996. Prima il tasso di interesse oltre il quale il prestito di-ventava usura era del 15%. Oggi la legge stabilisce che il tasso venga aggiornato ogni anno. La conoscenza dello stato di bisogno della vittima da parte degli usurai, che prima non contava, è un aggravante. Chi denuncia ha diritto a un mutuo a tasso zero per ricominciare la sua attività.

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08Graziella Campagna, nata a Saponara il 3 luglio del 1968, fu uccisa con cinque colpi di fucile da distanza ravvicinata il 12 dicembre 1985 e il suo corpo fu ritrovato a Forte Cam-pone – Musolino, sui Monti Peloritani, da alcuni escursionisti il 14 dicembre. Graziella fu sequestrata e uccisa perché nella lavanderia di Villafranca Tirrena, dove lavorava dal 1 luglio di quell’anno, aveva trovato un’agendina tra gli indumenti di un clien-te che rivelavano che il sedicente Ingegnere Cannata era in realtà il boss palermitano, all’epoca latitante, Gerlando Alberti Jr. La tormen-tata storia processuale si è protratta per più di venti anni. Solo l’11 dicembre 2004 gli esecutori materiali, Gerlando Alberti Jr e Giovanni Sutera, sono stati condannati all’ergastolo.Dopo la stesura di questo capitolo, i primi di maggio, la Cassazione ha annul-lato l’ordinanza con cui nel dicembre 2009 erano stati disposti gli arresti do-miciliari di Alberti, oggi ultra-settantenne, che pertanto è tornato in carcere.

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Intervista a Pasquale Campagnadi Andrea Amanti, Lucia Barrile, Erica Carrozza, Antonio Galli, Paolo Mi-nutoli, Valentina Oteri, Mery Palmeri, Giuseppe Romeo, Cristina Sauta (Istituto di Istruzione Superiore “S. Quasimodo” - Messina)

12-04-2010,Istituto Quasimodo.

Pasquale chiacchiera con gli studenti aspettando che il gruppo sia completo…Siamo andati in una trasmissione a Bari, con Don Ciotti, che si chiamava “Niente di personale”. Nella sala di registrazione mi guarda il presentatore e mi dice “devi dire in tre minuti la storia di Graziella”. Credetemi, tre minuti sono tantissimi. In quel momento era in diretta, anche se poi l’hanno mandata in differita, ma non si poteva sbagliare perché non c’era la possibilità di ripetere. Tre minuti, credetemi, sembrano pochi ma non lo sono. Poi racchiudere tutta la storia non è facile, non per timidezza ma per dolore, perché ripetere alcune

cose …non è facile. Ringrazio dell’invito tutti voi. Io lo dico sempre che per me fare questi incontri con i ragazzi mi rende veramente orgoglioso, perché ve-dere i ragazzi che si muovono in maniera forte nella legalità è un passo importante per la vita. Ancora siete giovani e perciò rispettare le regole della vita, cominciare da ora, sicuramente il vostro futuro lo renderà ancora più …non sicuro, però quanto meno vi rende più responsabili. Questi sono degli incontri che amo più di tanti altri enormi, con grandi mani-festazioni. Noi, come famiglia Campagna, non abbia-mo nessuna bandiera, per noi non c’è destra, non c’è sinistra. La mafia non ha colore. Noi partecipia-mo per ricordare Graziella, ma anche nelle enormi

manifestazioni a volte ci sono dei colori che tirano, però noi, ecco, prediligiamo più questi incontri dove veramente parliamo con una parte sana, più genu-ina, dove i ragazzi riescono a seguire meglio, o me-glio la storia li colpisce in maniera più forte.

Cosa prova per quegli uomini che sono stati con-dannati per l’omicidio? Odio o compassione?Guarda, se dicessi che non si prova odio sarei mol-to superficiale. Diciamo che quello di Graziella è stato un omicidio premeditato, ecco, non è stato un omicidio a caso. Graziella fu prelevata, portata in macchina per mezz’ora. Poi, a freddo, le hanno sparato cinque colpi di lupara a distanza ravvici-

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nata, senza guardare negli occhi una bambina. Lei è morta senza aver commesso nulla. Ecco, questa premeditazione, questa freddezza, questo tempo di pensare per la strada e di dire “…ma che cosa stia-mo facendo?”, ecco, questo non ti può portare a una compassione, anche se dopo, religiosamente, devo dire che tento di seguire le parole del Signore, “Per-dona, perché non sanno quello che fanno”, anche se non è facile perdonare. A maggior ragione quando tu fai l’omicidio e per 25 anni dici sempre che non sei stato tu, con tutte le prove del mondo, perché ci sono stati 24 anni di carte, contro carte, testimoni, contro testimoni, registrazioni. Il caso di Graziella è uno di quei casi …mi hanno colpito le parole del

Procuratore della Repub-blica che disse: “questo non è un processo di indi-zi, ma di prove concrete”. Il semplice fatto che tutti i testimoni di giustizia, anzi, scusate, tutti i pen-titi, perché è diverso dal testimone di giustizia, ci hanno detto tutte cose una diversa dall’altra, vuol dire che non c’era quell’accordo che a volte si combina … e poi c’era-no delle registrazioni im-portantissime che Pietro, mio fratello -poi ne parlia-mo più in là – fece. Vedere a dicembre, in un giornale che si chiama “Vivo”, la persona che è stata condan-nata all’ergastolo definitivamente -perché c’è stata una pronuncia definitiva della Cassazione - vederlo a casa in poltrona, seduto, intervistato il 25, giorno di Natale, che dice in siciliano “l’omicida di Graziella Campagna vi l’ati a circari nautramente”, cioè pa-role che lui in venticinque anni non ha mai pronun-ciato, perché si è sempre rifiutato di parlare, ecco, queste cose fanno male. Come fa male vedere una persona che è stata condannata definitivamente che viene mandata agli arresti domiciliari perché non c’è una struttura sanitaria, o meglio non ci sono le persone che possono accompagnarcela tut-ti i giorni… ma anche il fatto che gli fossero dati gli

arresti domiciliari per una certificazione mandata da parte delle carceri di Parma, dove c’erano delle lastre, delle cose che dicevano che lui era malato: c’è stato un ricorso in Cassazione, non so se l’avete letto sul giornale che è uscito una settimana fa, e la Cassazione si pronuncerà a maggio. Perché il Procu-ratore della Repubblica di Bologna, credo il Procu-ratore Capo, non so il nome, si è appellato dicendo che la scarcerazione è stata irregolare, in quanto non ci sono state delle controanalisi, perché è vero che ci sono queste carte, ma è pur vero che la giusti-zia deve pretendere le controanalisi per poi incro-ciarle. Invece no. Pensate che noi l’abbiamo saputo l’11 dicembre e il 12 dicembre c’era il ricordo di Gra-

“ Graziella fu prelevata, portata in macchina per mezz’ora. Poi, a freddo, le hanno sparato cinque colpi di lupara a distanza ravvicinata, senza guardare negli occhi una bambina. Lei è morta senza aver commesso nulla. Ecco, questa premeditazio-ne, questa freddezza, questo tempo di pensare per la strada e di dire “…ma che cosa stiamo facendo?”, ecco, questo non ti può portare a una compassione”

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ziella, il venticinquesimo anno dalla sua scomparsa. Noi ci aspettavamo un mazzo di fiori da parte dello Stato, invece c’è stata la scarcerazione del colpevo-le. Una notizia orrenda. Noi, dopo 25 anni, non pos-siamo provare compassione per questi motivi. La compassione si prova quando tu ti penti, quando tu dici “ho sbagliato”, anziché dire: compro 25 figuri-ne di Papa Giovanni Paolo II, o “io sono altamente religioso e leggo la Bibbia” … ma chi legge la Bibbia non uccide. La Chiesa, quando ci sono questi artico-li, deve intervenire e dire “noi non vogliamo questa gente” e io invece sto vedendo questa totale assenza della Chiesa negli ultimi tempi. Io non voglio esse-re contro la Chiesa, per carità, ma proprio a favo-re di una Chiesa che si muova nella legalità e dica a questi ragazzi “non ascoltate queste cose”. Vero che ci sono dei preti, chiamati pretacci da strada, come Don Ciotti, Zanotelli e tanti altri, che magari vivono nel cuore della gente, girano e vedono vera-mente quali sono i problemi reali … mi hanno colpito le parole di Don Ciotti, che diceva che un uomo si è ucciso perché non poteva portare avanti la famiglia e lui è andato ai funerali. A volte sentiamo parlare i nostri politici, che ci dicono che è tutto a posto, che dobbiamo spendere per aiutare l’economia … Ecco, a volte non è realtà quello che si dice, la realtà la vi-vono questi sacerdoti che camminano con noi nelle strade, ecco io quello che dico: tu sei un missionario ma lo fai col cuore, non mettendoti dietro un altare

e pronunciando quelle parole. Ecco, vorrei la Chiesa un po’ più vicina a queste cose.

Come è cambiata la sua vita?La mia vita è cambiata in maniera molto negativa direi, piena di dolore. Noi siamo una famiglia nume-rosa. Papà e mamma hanno avuto nove figli, dico nove perché la prima è morta e doveva essere una sorella, prima di me. Mia madre ha avuto tanti figli non perché non si guardava la televisione -molti di-cono così-. Lei ha perso il suo papà a tre anni, non lo ha mai conosciuto, ed è rimasta figlia unica, per al-

tro cresciuta con la bisnonna perché mia nonna, per poterla mantenere, ha sempre lavorato. Ha vissuto una vita in solitudine, è cresciuta da sola, perciò la sua gioia era quella di avere una famiglia numerosa, per poterla abbracciare a sé. Ci ha cresciuti nella dignità. Io ricordo che mio padre lavorava mattina, mezzogiorno e sera, non c’era mai a casa, perché per mandare avanti otto figli devi lavorare, perciò la mamma è stata la cosa principale per noi, ci ha cresciuti con amore, con educazione. Vedersi man-care una figlia, così, una figlia che aspettava al ri-torno dall’autobus, non vederla arrivare, poi sentir dire che è stata uccisa con cinque colpi di lupara, tu rimani sconcertata e ti chiedi “perché?” …non lo trovi dentro di te un perché, perché non c’è. E allo-ra, magari, si vive in maniera disagiata, chiedendo “ma che cosa non abbiamo fatto?”, ecco, ti nasco-no dentro quei sensi di colpa, come “… perché l’ho mandata a lavorare?”. Graziella ha insistito, vole-va andare lei a lavorare, era bravissima a scuola, studiava tantissimo, era una ragazza veramente a modo; lei studiava e poi nei momenti liberi cuciva a casa, perché all’epoca mia mamma faceva la sarta e perciò le ha insegnato a cucire, a farsi le lenzuola per la dote, per quando si sarebbe sposata … Questo per noi è stato un colpo mortale. La storia dei due fratelli è un po’ diversa. Io ero il primogenito, ero quello che stava più a casa, Pietro era partito, già lui era carabiniere, era in Calabria. Le prime parole che ho detto a mia madre sono state “tu devi vivere per noi, perché senza di te la famiglia non c’è più”. Non c’è più perché il dolore poteva portare a tan-te cose, poteva portare anche poi a rispondere con la violenza. È duro sapere che tu perdi una sorel-la in quel modo senza fare nulla, ecco. Io lavoravo, Graziella lavorava, papà lavorava, Pietro faceva il carabiniere, le altre sorelline erano a casa perché erano piccole, e perciò in una famiglia bella, unita, col sorriso, scoppia questa bomba …e sono stati mo-menti brutti, molto brutti, perché dopo l’uccisione c’è stata la solitudine, il silenzio … Abbiamo resistito nel dolore, oggi lo posso dire e ringrazio Dio di aver reagito così. Abbiamo scelto di camminare al fianco della giustizia, di seguire, nonostante il dolore, la le-galità. Molti, ancora oggi, mi dicono “se ero io li am-mazzavo”, “se ero io gli sparavo”, “se ero io…”. Ecco, noi non abbiamo pensato a questo, perché vuol dire essere meschini come loro. Noi vogliamo che il giu-dizio lo ricevano dalla giustizia ma soprattutto da Dio, noi vogliamo arrivare là e un domani, se tutto è come tutti noi crediamo, riabbracciare i nostri cari, in questo caso Graziella, con dignità, non pensando che abbiamo risposto al male con la stessa arma.

Che reazione ha avuto quando ha saputo che sua sorella è stata uccisa senza avere una colpa?La nostra reazione è stata quella di invocare giusti-zia, di cercare in tutti i modi di arrivare alla verità. Io posso dire che come fratello maggiore l’ho presa

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un po’ male. Di questo devo ringraziare Pietro che ha avuto tanta tenacia. Io, onestamente, nei primi tempi, volevo chiudermi nel dolore e continuare a vivere con la famiglia cercando di dimenticare que-ste cose affinché non ci fosse la disgregazione della famiglia. Cercavo di utilizzare belle parole per la mamma, di non nominare tanto il fattaccio perché mia madre sveniva ogni cinque minuti quando uno le diceva le cose. Mentre Pietro no, Pietro l’ha pen-sata diversamente da me. Pietro ha messo la mano sulla bara quel giorno dicendo “io ti porterò gli as-sassini, te lo giuro qua e te li porterò…” e da quel momento ebbe una reazione, lui proprio non lasciò in pace nessuno per arrivare alla verità. Incomin-ciò a coinvolgere colleghi a fare un sacco di cose. Ecco, la reazione fu molto diversa. La mia fu quella purtroppo di chiudermi nel dolore, non per paura, ma perché io sono molto riflessivo, non sono impul-sivo. Nel dolore ho guardato lontano e pensavo che si poteva, da un momento all’altro, distruggere la famiglia, ho cercato di pensare … si dice “salviamo il salvabile”, in quel caso io volevo salvare quello che potevo, far superare quella fase iniziale a mamma e papà in modo che piano piano si entrasse nell’altra, quella delle indagini, mentre Pietro, più istintivo, si è buttato a capofitto nell’azione, come avete visto nel film.

Prof.ssa Cannata: Il film racconta un fratello maggiore, che era lei, con un carattere un po’ dif-ficile, ma per quanto riguarda la gente nel paese, è vero che sapevano qualcosa, soprattutto quelli della lavanderia…?Le dico solo questo: queste persone, dal cognome Alberti, vivevano da più di due anni a Villafran-ca. La Polizia ha dei libri, dovete sapere, con tutti i ricercati d’Italia più pericolosi, e hanno anche le foto. Gerlando Alberti era nella prima pagina, per-ché iniziava con la A: lui, con la stessa faccia, non aveva nulla di diverso da ora, era preciso, viveva tranquillamente. Giovanni Sutera era stato condan-nato per omicidio ed era ricercato, aveva la stessa faccia, aveva i capelli un po’ più corti. Non solo. Que-ste persone cambiavano macchine, andavano al bar, parlavano con le istituzioni, col Maresciallo. Quello che avete visto là non è campato in aria, è una ri-costruzione presa dagli atti. Ora, che cosa pensare delle istituzioni a Villafranca? Se ognuno di noi, nel suo piccolo, ricoprisse la sua carica in maniera one-sta, per dire, incominciamo con il Maresciallo dei Carabinieri, che si prendeva il caffè con loro, non li apriva quei fogli? Non la vedeva quella pagina? Eppure era semplicissimo. Vi racconto quello che è successo quando sono andato alla Polizia. Lavoravo in maglieria a Villafranca e la Polizia ha suonato alla porta, mi dicono: “Pasquale, devi venire con noi a Messina”. Siamo saliti su un’Alfetta gialla, non me lo dimenticherò mai. A Messina c’era il Commissa-rio, i vari ispettori, Demeco, Zanghì, ancora ricordo

nomi e cognomi. Mi hanno fatto sedere, mi hanno fatto vedere questo libro di cui parlavo prima, l’han-no aperto, indicando: “questa persona ha ucciso tua sorella. Questa persona era a Villafranca da più di due anni. Questa persona ci è scappata, ci è scap-pata. Noi cercavamo in questa zona e dato che lui è il nipote di Cerlando Alberti il “Paccarè”, uno dei più grossi trafficanti internazionali di droga, lo te-nevamo sotto controllo, ma è scappato”. Dicono per negligenza dei due carabinieri che l’hanno fermato e che se ne sono andati con la sua patente, e soprat-tutto per la negligenza del Maresciallo dei Carabi-nieri che anziché prendere questa foto e portarla al Nucleo Operativo o alla Compagnia Provinciale di Messina, se l’è tenuta nel cassetto. Tua sorella era qua, ora non c’è più. Ecco, già sentire queste cose per un fratello è allucinante. Oggi vediamo telefilm come “Ris”, oggi non è come allora, ma quanto meno andare a cercare le tracce … mio fratello Pietro è salito lassù, ha preso i bossoli, glieli ha portati…Quella di Graziella è una storia sconcertante, che

sembra una brutta fiaba, perché ha dell’incredibile. Cioè, se uno va a pensare… ma può essere mai? U Maresciallu ca canusce a chiddu, il finto Colonnello, ma unni simu ccà? Cioè, dove siamo arrivati? Quan-do viene raccontata sembra una storia assurda, ma purtroppo sono cose vere, sono cose vere, e per noi della famiglia sentire queste cose… ci fu un processo che iniziò ma che finì subito perché il primo cavillo sapete quale fu? Che non gli era stato notificato il mandato di cattura. Allora inizia il processo, noi ci siamo costituiti parte civile, ci siamo seduti, è durato cinque minuti e dopo cinque minuti, c’era Cucchiara

“La Polizia ha dei libri...con tutti i ricercati d’Italia più pericolosi. Gerlando Alberti era nel-la prima pagina.... Queste persone cambiavano macchine, andavano al bar, parlavano con le isti-tuzioni, col Maresciallo.”

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che dice… “ma qua manca la firma!”, e il Pubblico Ministero: “tutti a casa”. Poi, senza fare un secondo processo sono stati prosciolti, completamente. E poi, praticamente sono nate tutte le vicende…Prof.ssa: Ma la vostra forzaè stata determinante …Io dico sempre che la determinazione per una fami-glia ci vuole, ci vuole per la dignità, ma soprattutto per l’amore verso la propria sorella, o figlia, come in questo caso, perché non si può chiudere tutto nel si-lenzio e far passare tutto nel dimenticatoio. Sia per noi, ma soprattutto per Graziella, perché quella ra-gazzina meritava che i suoi carnefici venissero con-dannati, perché non si può finire in quella maniera. Ma la risposta noi la dovevamo dare anche ai vostri genitori, a voi, ai vostri figli. Il messaggio deve rima-nere affinché noi veramente crediamo in qualcosa perché altrimenti qua si arriva peggio del far-west.

Cosa si prova quando si scopre che alcune perso-ne delle forze dell’ordine diventano addirittura complici della mafia?Oggi, purtroppo, si continua ad andare avanti con queste cose, è una storia che continua. L’altro gior-no ho letto sulla Gazzetta, e mi dispiace pure leggere queste cose, di quella rapina che c’è stata al super-mercato in cui praticamente il palo era un Mare-sciallo dei Carabinieri, tutt’ora al servizio al Coman-do Provinciale. Dico, con tutto il rispetto, con tutti i problemi che abbiamo, perché sappiamo che oggi tirare avanti con una famiglia è difficile, però che se tu hai scelto quel mestiere per tutelare la nostra sicurezza… ti metti a fare il palo a dei delinquenti?

Torno a ripetere, noi dobbiamo avere fiducia nello Stato, dobbiamo avere fiducia nelle Istituzioni, in gente che veramente ci tuteli, vogliamo arrivare a questo, ad avere la certezza per lo meno di essere tutelati. L’educazione dovrebbe cominciare dai genitori. La prima cosa che ci dicono è “facitivi i fatti vostri”. Ecco, questo noi lo tramandiamo perché abbiamo paura e omertà nell’affrontare le cose. Che è quanto ci fu allora, omertà totale. Tutti si chiusero dentro per dire “…ma sì, l’ammazzaru, ma vui facitivi i fat-ti vostri”, ecco questo silenzio si allargò perché per anni e anni si marciò nel buio totale. Non venne nes-suno a dire “sì, ma questo tizio si trovava qua …”. Questo successe dopo che tutto riemerse, però la no-stra solitudine fu quella di non avere nessun aiuto, il deserto totale intorno a noi. Chi poteva sapere? Sì perché il resto era chiaro: lavoro-casa, casa-lavoro. Tutti hanno testimoniato che Graziella era una ra-gazza modello.

Prof.ssa: all’inizio avevano dato la colpaa quel ragazzo…Sì, c’era quel ragazzino che le andava dietro, ma la cosa sfumò subito. All’inizio si voleva dare questa impronta per raggirare un poco la questione. Anche il Maresciallo diceva sempre “a quest’ora si sarà fatta la scappatella, state tranquilli, che cosa volete che faccia?”. Poi invece ci sentimmo dire nella Ca-serma “è stato lui”, perché la Polizia aveva preso la patente. E con la foto sul tavolo ci dissero “è stato questo qua, lui è stato” … una cosa abominevole.

Come si sarà sentito Pietro, come uomodelle Forze dell’Ordine?Pietro si è sentito ferito, ferito perché non aveva l’appoggio più importante, quello dell’Arma, dei col-leghi, ma soprattutto dei superiori. Tra i colleghi si sa, diversi lo aiutavano, ci sono stati dei carabinieri valorosissimi, tipo il Comandante Piermarini, che oggi è colonnello a Roma, che prese la cosa a cuore e incominciò a fare quello che deve fare un carabi-niere, interrogare, seguire tutte le cose, prendere le registrazioni, avviare quanto meno una vera e propria indagine. Perché bisognava cominciare a lavorare sul caso, interrogare persone, fare degli appostamenti affinché i criminali venissero inter-cettati, insomma fare quello che si deve fare per ogni omicidio. Una cosa che voglio puntualizzare, che forse in que-sti anni è stata detta, è che le cose si sono scoperte perché realmente i pentiti parlarono. Ma la cosa sconvolgente su Graziella fu la condanna del giudice Mondello a Catania per associazione a delinquere. Mondello fu quello che prosciolse questi signori. Ci furono dei pentiti che identificarono la situazione di questa massoneria che si era creata tra gente delle Istituzioni e questi signori. Se oggi si è arrivati a un processo concluso non è stato solo per la televisio-

“la cosa più grave è che l’appello l’abbiamo fatto con i criminali liberi, a volte andavamo a mangiarci un panino e loro erano accanto a noi che mangiavano. Per-ché? Quando ci fu la prima condanna sono stati condan-nati all’ergastolo, ma ci sono dei termini ben precisi per la custodia cautelare; superan-do quei termini, il criminale ha diritto a essere scarcerato per decorrenza dei termini”

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ne, con programmi come “Chi l’ha visto?” o il film sulla storia di mia sorella. La televisione ha dato una grande testimonianza, ha diffuso la conoscenza del caso in tutta l’Italia. Lo dico perché gli avvocati difensori dei delinquenti, in questi anni, hanno cer-cato di sminuire il fatto che diventava importante solo per l’attenzione televisiva. In un intervento quando fu intitolata la piazza a Graziella, ricordavo di quando Mastella rinviò il film e il Presidente del-la Corte d’Appello, Niccolò Fazio, disse “… poteva turbare la sensibilità dei giudici popolari”. Io risposi “mi auguro che non turbi la serenità della gente, dei cittadini”. Il film, se lo avete visto, è poi semplice-mente una storia d’amore …

Prof.ssa: ma voi l’avete visto primache andasse in onda?Sì certo, noi l’abbiamo visto prima, già da quando facevano le riprese. Abbiamo visto un grande Bep-pe Fiorello, che è ancora vicino alla famiglia, ancora oggi non gli mancano parole per noi. Non dimenti-cherò mai che quando andò a “Domenica in”, dopo la trasmissione mi telefonò e mi disse “Pasquale, vedi che quello che ho detto là lo penso veramente, vi sarò vicino, non solo ora ma anche dopo, perché voi per me siete la mia famiglia”. Lui dice sempre di ringraziare Dio per aver conosciuto Pietro, perché Pietro gli ha dato qualcosa che a lui mancava. Lui è fiero di aver conosciuto questa famiglia così umi-le, così piccola, così semplice, che è stata colpita in maniera ingiusta. Lui è stato un vero uomo, non un attore, devo dirlo perché è così, la realtà è questa. Non ha fatto il film e poi si è dimenticato. È venuto a Saponara e se lo chiamo adesso, dopo tre anni dal film e lui è libero, partecipa volentieri a incontri con i ragazzi, è sempre a disposizione.

Che cosa ne pensa del tempo impiegato dallagiustizia per emettere la sentenza definitiva?Che cosa penso? Che queste cose non devono più succedere, perché i processi devono rassicurare i cittadini, non possono durare 24 anni, più dell’inte-ra vita di Graziella. La cosa più sconvolgente per noi è ancora un’altra, che poco fa non ho detto. Nono-stante la lungaggine, la cosa più grave è che l’appel-lo l’abbiamo fatto con i criminali liberi, a volte anda-vamo a mangiarci un panino e loro erano accanto a noi che mangiavano. Perché? Quando ci fu la prima condanna sono stati condannati all’ergastolo, ma ci sono dei termini ben precisi per la custodia caute-lare; superando quei termini, il criminale ha dirit-to a essere scarcerato per decorrenza dei termini. Superando i 18 mesi, se il magistrato non deposita la sentenza, loro sono liberi. Erano 178 pagine scrit-te come queste qua, proprio grandissime, non era-no molte. Ci sono voluti due anni e mezzo. Loro in questi due anni sono usciti tranquillamente. A Mes-sina la situazione del personale è drammatica, sul giornale tutti si sono stretti attorno a quel giudice,

perché lo capivano, perché purtroppo i tempi del-la giustizia sono lunghi a causa di queste cose. Non pensarono a questa povera ragazzina dopo tutti questi anni, non pensarono alla famiglia a cui dover dire “noi abbiamo rimandato fuori queste persone”. Nell’ultimo processo, invece, sono stati condannati il 18 marzo, cioè a distanza di novanta giorni esatti è stata depositata le sentenza di 374, 378 pagine, non ricordo. A distanza di un anno la Cassazione si è pronunciata, cioè è andato tutto in maniera precisa, come deve essere la giustizia. Quella sera, quando stava per finire il processo, a mezzanotte e venti hanno confermato la condanna di primo grado. C’erano oltre 70 carabinieri in bor-ghese, tutti con i telefonini, perché in quel momento c’era la cosa drammatica che Gerlando Alberti non si era presentato, allora c’era il rischio di non tro-varlo più. Poi invece, dopo un’ora l’hanno preso. Ragazzi, queste sono cose che abbiamo vissuto re-almente. Ora, addirittura, dopo la denuncia del film da parte di alcuni, e dopo la richiesta di archivio, si sono appellati. Dico, oggi che noi siamo qua, che sono passati 25 anni che ci sono voluti per la giusti-zia e io sono a parlare con voi. Cerco di fare ancora degli sforzi perché mi auguro che voi, crescendo, sappiate valutare nel vostro futuro chi può essere la persona che possa veramente darci una mano. An-che voi stessi, col vostro studio, con le vostre espe-rienze, se volete diventare dei futuri magistrati, fa-telo con amore, credendo in quello che fate. Io oggi

“i processi devo-no rassicurare i cittadini, non possono durare 24 anni, più dell’intera vita di Graziella”

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lavoro al comune, sono un ufficiale di anagrafe. Io nel mio piccolo cerco di sapere chi è la persona che viene nel paese, chiamo i vigili quando c’è qualcosa di strano, tra quelli che fanno le richieste. Dobbiamo cominciare tutti quanti a muoverci. E non perché ce lo dicono i politici amici, dobbiamo fare tutto in pie-na regola. Se ognuno fa qualcosa nel suo piccolo le cose andranno meglio, sicuramente.

Crede che sua sorella abbia avuto giustizia?Graziella la giustizia l’ha avuta perché sono sta-ti condannati i suoi assassini. Adesso è successa un’altra cosa. Alfano ha detto che avrebbe mandato l’ispezione, ancora oggi non abbiamo avuto risposta. Io l’altra volta ho chiamato la Commissione Antima-fia per sapere notizie. Noi vogliamo che lo Stato si muova per le cose che toccano noi cittadini comu-ni, non solo quando interessa, vogliamo che lo Stato ci tuteli. Quando sbagliano, è giusto che anche loro paghino, che vengano allontanati, sostituiti. Ognuno deve prendersi le proprie responsabilità.

Come vedrebbe sua sorella oggi? Sposata,con figli?Graziella la vedrei sposata, con figli e felice di vive-re. Quello che lei voleva era solo farsi una famiglia, vivere tranquillamente. Graziella non aveva ambi-zioni enormi, voleva solo essere autonoma, lavorare e potersi creare un futuro per aiutare la famiglia. Non voleva diventare qualcuno, nella sua semplici-tà, come tutte le altre sorelle, come la mamma inse-gnava, si sarebbe dedicata ai figli, avrebbe amato la famiglia. Io ho due figli, la mia gioia è quella di avere una moglie, e mentre io lavoro lei sta accanto ai fi-gli. Perché la mamma è quella che sa stare accanto,

con cui ci si confida. Graziella la vedrei così, nella sua semplicità, a godersi quello che ci tocca, che Dio ci manda per vivere, la nostra vita, semplicemente questo.

Com’è nato il rapporto fra la famiglia Campagna e l’avvocato che ha rappresentato la “forza di an-dare avanti”?L’avvocato è stato e sarà sempre una persona della nostra famiglia. Perché dovete sapere che l’avvoca-to Repaci, sono passati 25 anni, non ha mai voluto un centesimo, mai. E un avvocato che fa questo è un po’ anomalo. Fabio Repaci ha avuto quel grande merito di pensare che Graziella era sua sorella e ha quello di credere molto in quello che fa, soprattutto per ridare giustizia a una ragazzina innocente. Lui ha vissuto questa storia come se fosse sua, comple-tamente sua. Si è battuto contro tre avvocati, tre contro uno. L’ha fatto in maniera così egregia, così professionale, così precisa, concentrandosi sugli atti, ha visto tutto quello che è successo, tutto quello che si è raccolto, e da lì ha potuto dire “sono stati loro”. Purtroppo qua invece non hanno pagato tutti. La giustizia ha mandato giustamente in galera chi ha ucciso Graziella, ma tutta quella superficialità, o connivenza rimane … Fabio ha dimostrato che non bisogna solo parlare ma bisogna agire. Fino a oggi ha avuto ragione lui. Mi auguro veramente che la diano questa risposta, ora c’è la Cassazione che si pronun-cerà. La sospensiva del carcere è otto mesi, che ora stanno per scadere, vedremo quello che succede.

Lei cosa pensa della mafia? Cosa penso della mafia? Io questa parola la scono-scevo, perché per noi la mafia non esisteva, non era

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niente, neanche la parola, perché noi vivevamo in un paesino di 4.000 abitanti dove si viveva di solo lavoro, di tranquillità, di tantissima pace, noi lascia-vamo le porte di casa nostra aperte. C’era la micro criminalità che esiste in tutti i posti, quello che ti ruba lo stereo… La mafia, questa parola agghiac-ciante, noi l’abbiamo appresa da quello che ci è suc-cesso. Graziella è stata uccisa proprio per questo: la mafia non guarda nessuno in faccia, neanche una ragazzina. È andata contro la vecchia mafia, che pare dicesse che non bisognava toccare ragazzini e donne. Ormai la mafia è spietata. L’omicidio di Gra-ziella ti fa capire che perfino una ragazzina innocen-te può venire uccisa e abbandonata sul ciglio della strada, per dire “ecco cosa è toccato a lei”. Potevano occultare il corpo, potevano farla scomparire, pote-vano fare tante cose, invece è stato fatto apposita-mente per farla vedere, per dire “noi siamo forti, noi siamo qua, state attenti che potete finire come lei”. Ecco perché questo grande silenzio, questa grande voglia di non parlare, perché la questione abbrac-ciava un po’ tutti i campi, dall’imprenditore al poli-tico. È stato detto “questo è l’unico delitto di mafia commesso in provincia di Messina”, proprio il vero delitto di mafia: lupara, la vittima lasciata là, fred-dezza nell’omicidio. Graziella morì, come dice mia mamma, senza essere toccata, fu prelevata, inter-rogata e uccisa.

Dopo 25 anni di silenzio, com’è vivere adesso con quelle persone che vi hanno lasciato soli in quel periodo? Adesso com’è incontrarli per strada?Oggi abbiamo tantissime persone che ci dicono “bra-vi”, tantissime persone che ci dicono “siete stati ve-ramente grandi”, “avete fatto una cosa bellissima”, ma queste persone, ancora dopo 25 anni, quando c’è una manifestazione non si vedono e non parte-cipano. Ecco, questa è la cosa peggiore. Noi non ci facciamo caso, credimi, noi siamo andati oltre con il dolore. Noi ci siamo fatti talmente tanti anticorpi dentro che non ci tocca più nessuno. Anche quando hanno dedicato la piazza a Villa-franca. È stata voluta da quasi 3.000 firme. Quando questi cittadini che volevano creare la piazza sono andati dal Sindaco e hanno detto “noi vogliamo in-titolare la piazza a Graziella Campagna o a Peppino Impastato, ma pensiamo più alla ragazzina perché è morta qui a Villafranca”, lui rispose alle quattro persone che si erano recate da lui: “Qua non c’è nes-suna piazza da dedicare”. E allora loro si sono messi a raccogliere le firme. Quando gli hanno presentato la lista, hanno detto: “Ecco qua il registro, con tre-mila firme di donne, mamme, e molta gente che vuo-le intitolare la piazza a Graziella Campagna”. Non bisogna solo parlare, se uno crede in qualcosa si deve agire. Io dico sempre che li capisco, li capisco perché sono padre di famiglia, capisco quelli che di-cono ai figli di farsi i fatti propri, ma questo aumen-ta l’omertà e la paura aumenta con la fragilità della

giustizia. Però dobbiamo reagire, è quello che i gio-vani devono fare. Io mi auguro che veramente i gio-vani si rendano responsabili ma soprattutto oltre a gridare giustizia gridate per i vostri diritti, il diritto che dovete avere un domani, dopo che i vostri padri hanno fatto il sacrificio di farvi studiare, è quello di entrare un giorno nel mondo del lavoro, di essere responsabili e vigilare.

Un progetto per il futuro? Io vorrei fare l’ “Associazione Graziella Campagna”, è da tanto che ne parliamo. Il nostro progetto è quel-lo di aiutare i giovani, utilizzando questi beni confi-scati, non con le parole ma con i fatti, mantenendo solido il nome di Graziella affinché il suo sacrificio serva a questi giovani. Vogliamo utilizzare questi terreni, queste palazzi-ne, questi beni, affinché venga dato lavoro ai giova-ni, perché veramente si inseriscano nel mondo del lavoro.

“Io vorrei fare l’ “Associazione Graziella Campa-gna”, è da tanto che ne parliamo. Il nostro proget-to è quello di aiutare i giovani, utilizzando questi beni confiscati...affinché il suo sacrificio serva a questi giovani”

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Mary Palmieri

Mi trovo a leggere un arti-colo che racconta la morte di Graziella Campagna, del suo assassinio… lei, quella ragazza dai sani principi. Saponara Superiore. Era il 12 dicembre quando Graziella non tornò più a casa. Era sua abitudine, chiusa la lavanderia in cui lavorava, andare alla ferma-ta dell’autobus, l’autobus che la portava quasi davanti casa, ma quella sera ac-cadde qualcosa di diverso. Graziella non lo prese come

sempre, quella sera pioveva ininterrottamente e lei accettò un passaggio. Salì su una macchina, di sicuro conosceva il conducente, non vi sarebbe mai salita altrimenti. Quell’autovettura, però, non la portò a casa ma al Forte Campone, luogo in cui fu ritrovato il suo corpo. Il commissario disse che si poteva trattare delle solite cose da ragazzi, una fuitina magari, e quindi era meglio aspettare. Ma Graziella non

racconti

l’avrebbe mai fatto. Dopo il ritrovamento del corpo iniziarono le indagini. Si sa per certo che è stata uccisa per un’agendina, un’agendina che aveva trovato in una camicia in lavanderia, un’agendina che conteneva il vero nome del boss. Ma quale “ingegnere Cannata!” Gerlando Alberti, si chiama.Lei non diede nessuna im-portanza a quell’agendina ma quei boss che l’hanno picchiata e colpita con dei

proiettili sì, e pure tanta, visto che hanno ucciso un’innocente. Morta per una stupida agendina! È davvero assurdo! Morta per mafia! Una parola che porta sola-mente dolore e morte.

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GRAZIELLACAMPAGNA

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Andrea Amanti, Erica Carrozza, Paolo Minutoli

Stradine di Villafranca. Dentro alla lavanderia “La regina” c’erano vestiti di tutti i tipi, dagli abiti di sera ai cappotti, dai vestiti da sposa alle camicie. Dietro il bancone, la titolare della lavanderia, la signora Franca.In nero, la paga era di 150.000 lire, piuttosto scarsa, ma che avrebbe ugualmente contribuito ad aiutare la numerosa famiglia composta da genitori e sette fratelli.

Stirava, faceva consegne. Poi alle 20:00 la corriera che riportava a casa. Dopo cinque mesi conosce-va molti clienti abitudinari, come l’ingegner Cannata, un uomo di Palermo sui quarantacinque anni, molto distinto, conosciuto e stimato da tutti, affiancato sempre dal suo fedele amico Giovanni. Un giorno, all’interno del taschino destro di una sua camicia, un’agendina rossa

piuttosto sgualcita, una foto del Papa e degli appunti. L’ingegner Cannata non era l’ingegner Cannata! Quella sera poi pioveva più del solito, tanto che la pioggia si accumulava ai bordi delle strade. La corriera sta per arrivare ma tutto ad un tratto si accosta una macchina. Ci sono dei volti familiari che offrono un passaggio. Al posto di an-dare a Saponara, cambiano direzione, intraprendendo

una stradina sterrata e ripi-da. La macchina arriva in un posto buio, isolato, sembra quasi ci sia un castello con due torri. Poi tantissime domande assurde che in primo momento sembrava-no insensate. L’agendina! Ecco cosa interessa loro. Il braccio riceve il primo col-po. Un forte colpo alla testa. Proseguono altri due colpi allo stomaco e alla spalla. L’ultimo colpo è quello fatale, diretto al petto.

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09Matteo Bottari, Primario Endoscopista del Policlinico uni-versitario di Messina, venne ucciso la sera del 15 gen-naio 1998 a colpi di lupara in faccia. La Commissione Nazionale Antimafia che si recò a Messina a un mese dall’omicidio affermò che la città è governata da un “grumo di interessi politico-affaristico-mafiosi” che avrebbe il suo fulcro all’Università. Il cosiddetto “caso Messina”, che ha svelato corruzione ende-mica e altissima infiltrazione di mafia e ndran-gheta, in questi anni ha coinvolto giudici, sot-tosegretari e imprenditori, mentre non si conoscono ancora mandanti ed esecutori materiali del delitto Bottari.

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Intervista a Fabio D’Amore

di Roberta Arena, Roberta Barbalace, Sara Di Bella, Mariella Di Ter-mine, Alessia Gambadoro, Valeria Luciano, Alessandra Piazzitta, Ma-riapaola Piccione, Federico Ricci, Viviana Rizzo (Istituto di Istruzione Superiore Statale “Felice Bisazza” – Messina)

26-03-2010 Istituto Bisazza

Quando ha saputo e come ha reagito nell’immediato alla notizia dell’attentato a Matteo Bottari?L’ho saputo mentre ero di guardia quella sera, io sono un medico e lavoravo con lui. Mi ha chiamato un giornalista per telefono, perché il professore aveva una macchina particolare, un Audi S4 e all’epoca ce

n’era solo una in città. Mi ha chiesto che mac-china avesse il professore, “che colore era?” “ma perché, gliel’hanno rubata?”, cioè ho fatto un po’ di domande su cosa era successo, ma non me lo vo-levano dire. “Gli hanno sparato” “Come, gli hanno sparato? No, sarà un altro professore, forse più im-portante dal punto di vista della gestione dell’eco-nomia universitaria, ha una macchina come la sua ma non una S4…” Ho detto: “guardate il modello della macchina”. Hanno guardato “… è la sua”. Al-lora io ho lasciato tutto, non mi avevano detto che era morto, mi avevano detto che era molto grave; ho lasciato tutto al mio collega che lavorava lì e sono andato.Era una cosa stranissima, non ci credevo, mi sem-

brava lontano mille miglia il pensiero che potesse essere vero, uno come lui, a cui non interessava nulla, anche tutte le cose che sono state dette dopo, sono tutte cose così lontane dalla sua personalità, per chi lo conosceva bene realmente, che ancora ci lasciano perplessi dopo anni. Non c’è una verità per quello che è successo secondo me. Tutte quelle storie che hanno detto, quando si parlava di appal-ti universitari … lui non c’entrava completamente niente, non gliene fregava nulla, lui andava con sof-ferenza a quelle riunioni.

Che tipo era, caratterialmente, Matteo Bottari? Lui fondamentalmente era un compagnone. Chia-ramente era più grande di me, aveva 49 anni

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quando è stato ucciso, quindi poco più grande di me adesso, per noi era come un fratello maggiore, molto scherzoso, affabile con tutti, buono, molto generoso con i pazienti, con le persone, assoluta-mente una brava persona, molto umile, tutti pre-gi, veramente, non perché stiamo parlando di una persona morta, ma perché era così realmente. Si è visto anche dal suo funerale, dalle testimonianze che ci sono state, tutti hanno confermato queste cose; non solo da quello che le persone hanno detto, perché è chiaro, potrebbe essere per la facciata che si dicono belle parole, ma anche quello che si può leggere negli interrogatori della Polizia. Le cose chieste in quel momento hanno fatto sì che uscis-se l’immagine di una persona per bene, buona, che non aveva nemici; per carità, magari litigava con dei colleghi universitari, come può capitare a due colleghi di lavoro che non si amano…

Lei si è fatto un’idea sulperché l’abbiano ucciso?Assolutamente no. Io sono stato interrogato for-se perché ero tra le persone più vicine a lui. Sono stato interrogato più volte, la prima volta per cin-que ore, poi dopo una settimana, poi dopo anni, ma non riesco a trovare una spiegazione … ripeto, perché contrariamente a quello che c’era prima e c’è tutt’ora -una sorta di baronia dell’università, dove ci sono alcune “capocchie” che la comandano in tutto e per tutto – lui, pur facendo parte di quel gruppo di persone, perché era il genero del Retto-re precedente, era molto vicino, aveva un rapporto filiale con il Rettore del tempo, il Professore Cuzzo-crea. Al di là di tutto questo, a lui non interessava nulla degli appalti, il suo interesse era diventare prima associato, poi ordinario, il resto non gli inte-ressava, non aveva problemi economici, non aveva bisogno di prendersi l’appalto per quello schifo di tangenti, assolutamente non gli interessava. Ave-va un disinteresse totale verso il denaro. All’epoca in endoscopia c’era solo un servizio convenzionato che era il suo e si lavorava moltissimo privatamen-te; avevamo la gestione di tutte le case di cura di Messina e alcune in Calabria. Sono state fatte tante illazioni, chiaramente. Secondo me, l’unica cosa che io vedo possibile è un segnale dato al Rettore di allo-ra. Non al suocero di Bottari, il quale -lo sapevamo in pochissimi – era già malato di Alzheimer. Erano due anni che non usciva di casa, con la scusa che ha avuto la condanna per questioni universitarie ma in realtà era chiuso in casa per la malattia, quindi non si sarebbe fatta un’azione del genere contro un vec-chio che praticamente non avrebbe neanche potuto capire.Per altro i rapporti tra i due non è che nel corso della vita fossero stati idilliaci, quindi quel-la era una pista da escludere, mentre, come dicevo prima, con Cuzzocrea era molto legato, e quindi un’azione fatta contro di lui in quel momento poteva avere un peso fortissimo nei confronti di Cuzzocrea.

Come siete diventati amici leie il professore Bottari?Io sono stato inviato da Bottari dal professore Cuz-zocrea. Mi sono laureato nel 1983 e avevo due pas-sioni: chirurgia estetica ed endoscopia. All’epoca il professore Cuzzocrea mi consigliò di fare endosco-pia perché a me era morto il padre da piccolo e per fare una carriera universitaria importante e riu-scire anch’io a mia volta a guadagnare e a lavorare mi sarei dovuto specializzare prima in chirurgia generale, poi in chirurgia plastica e poi finalmente fare l’estetica, sarebbe stato molto lungo … invece mi indicò il professore, molto bravo, amico suo. Mi disse “perché non vai da lui?” Con Bottari facem-mo presto amicizia. Quello era un periodo in cui era ricercatore, poi è diventato professore associa-to, stava sviluppando la sua endoscopia, ci siamo trovati con altri ragazzi e abbiamo cominciato un percorso tutti insieme a lui. È stato il mio maestro, mi ha mandato in Spagna a studiare, è nato un rap-porto molto intenso e poi per affinità personali ci siamo legati moltissimo. Praticamente vivevamo in simbiosi, stavamo più insieme noi due che con le nostre famiglie. Stavamo anche otto ore al giorno insieme, il sabato e la domenica ci vedevamo spes-so, partivamo insieme per i congressi, quindi era un rapporto molto stretto.

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cui lui ambiva, ma il Rettore gli aveva detto: “fatti la tua strada, avrai il tempo per fare le tue cose”. Quindi quella pista non è assolutamente vera, è vero che i due non si amavano, spesso capitava che si insultassero come due che si stanno antipatici, ma non si può pensare ad altre cose. Invece Bottari era stato nominato nel Senato Accademico al posto di Longo. Io ho saputo dopo che in questo Senato Accademico, dicono, si gestissero appalti. Se que-sta potesse essere una pista, di certo non gli hanno dato neanche il tempo di fare la prima seduta. Poi lui ci teneva così poco che se ne è completamente fregato, tanto da non avermelo neppure racconta-to. A lui importava la gestione del Dipartimento di Gastroenterologia e di Medicina dell’apparato digerente che lui voleva andare a dirigere. Ma c’è una graduatoria, una gerarchia universitaria, per la quale Longo sarebbe diventato professore ordi-nario mentre lui era associato, e quindi gerarchica-mente sarebbe toccato all’altro e non a lui, quindi c’era stata un po’ di maretta…Una cosa che poi a me ha fatto arrabbiare molto a suo tempo, una notizia strana che esce sulla prima pagina del giornale più importante di Messina, con il titolo “L’endoscopista che piace alle donne spo-sate”. Secondo me, andava chiamato chi ha scritto quell’articolo per chiedergli “tu sai qualcosa? allo-ra ce la devi spiegare”. Immaginate i problemi che può causare nella famiglia di una persona che non può difendersi. È sbagliato. Uscire sulla pagina del giornale dicendo una cosa del genere secondo me è gravissimo. Un articolo, tra l’altro, non firmato da nessuno. Questa è una cosa che la magistratura seria avrebbe dovuto appurare, perché una cosa si-mile o è un depistaggio o c’è qualcosa che non vuoi dire. Purtroppo chi è morto non ti può querelare, non ti può dire nulla; la famiglia poi in quel momen-to non ha ritenuto opportuno fare niente, anche perché probabilmente avrà avuto altri pensieri. Questa pista qua, comunque, credo sia stata fugata abbondantemente perché poi esistono le intercet-tazioni, gli interrogatori che hanno fatto a tutti noi, ormai sono diventati pubblici, tutto il mondo sa chi si vedeva o non si vedeva con il professore. Restano le altre piste, ad esempio che gli fosse ad-dossato qualche errore di qualche caso medico non andato bene. A noi non era capitato direttamente, ma spesso, purtroppo, in medicina i colleghi sca-ricano la responsabilità su altri. E siccome, per esempio, il professore Longo non aveva una clien-tela selezionata, per usare un eufemismo, di gente che veniva dalla Calabria, una volta è capitato un problema di una biopsia che non avevano mai riti-rato. Noi avevamo chiesto per tre volte il ritiro di questa biopsia. Dopo l’estate abbiamo visto che il paziente si era aggravato e abbiamo chiesto: “per-ché non lo avete operato?” ed è successo un pande-monio. Era un paziente all’epoca portato appunto dal professore Longo, si sono scatenati tutti i vari

A dodici anni di distanza ancora non si conosce il nome del mandante. Chiede giustizia?L’abbiamo chiesta ufficialmente, questa è davvero una vergogna. Sono successe tante cose in questi anni. Sono cambiati per quattro volte i magistra-ti che seguivano questa operazione, e secondo me questo non è un buon metodo. I magistrati sono stati tutti molto bravi e, lo dico veramente, mol-to attenti, però quando portano avanti un certo tipo di lavoro e poi vengono sostituiti, per promo-zione o altro, il lavoro riparte da capo. Ma ripartire con il lavoro dopo cinque anni non è la stessa cosa, perché hai un mare di carte da leggere. Io stesso ho avuto difficoltà - quando mi hanno interrogato l’ultima volta, credo due o tre anni fa, non ricor-do, dopo l’ennesimo cambio del magistrato - a ri-cordarmi le cose successe dodici anni prima, cioè nei giorni precedenti la morte del professore, vera-mente diventa difficile, anche ricordarsi i dettagli di quello che hai detto, mentre in quei giorni avevi ricordi freschi. Il giorno prima della tragedia siamo

andati a operare a Cosenza. Quello era un periodo in cui stava male mia madre, purtroppo, quindi era un mese che non andavo a lavorare perché ero sta-to a Milano. Lui mi ha quasi obbligato ad andare a operare, per farmi distrarre e mi ha raccontato una serie di cose che sono successe in quel perio-do. Lui peraltro era molto arrabbiato per sue cose personali. A questo proposito, quella storia mon-tata sulla direzione del Dipartimento di malattie dell’apparato digerente - l’ho detto in tutte le sal-se e in tutte le lingue- non risponde al vero. Esi-ste un’indagine giudiziaria sui rapporti personali del Prof. Longo con personaggi di dubbia moralità e su questo non entro in merito, ma sul fatto che ci possa essere stato l’omicidio in quanto Bottari prendeva il posto di Longo, questo non è assoluta-mente vero. Bottari, il giorno prima di morire era arrabbiatissimo con Cuzzocrea perché ufficialmen-te aveva saputo che Longo aveva preso il posto a

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calabresi che c’erano in quel periodo, sembravano un po’ preoccupati. Io questa cosa qua l’ho fatta presente il primo giorno che mi hanno interrogato, anche lì pare che abbiano fatto degli accertamenti. Negli anni ci sono stati anche un sacco di pentiti. Hanno arrestato anche quello che si pensava potes-se essere uno dei mandanti, con tutto il suo clan, è possibile che non abbia parlato nessuno? Insom-ma, noi tutti vogliamo capire perché è successo, ma è una storia che ha ancora molte ombre.

Il professore le aveva mai confidato qualcosa di particolarmente delicato?Assolutamente no. Come dicevo, noi il giorno pri-ma eravamo andati insieme a operare in Calabria. Ci siamo fermati per una sosta e lui scherzando ha detto “qua è pericoloso”, ridendo. Se avesse avuto il minimo sospetto, il minimo pensiero, non sarebbe ritornato in Calabria dove anni prima aveva subi-to una minaccia perché aveva aperto uno studio. Gli avevano fatto trovare dei segni inequivocabili di non andare più e lui ci aveva dovuto ripensare. Noi andavamo ad operare in un posto in cui lo ave-vo portato io perché c’era un chirurgo amico mio a cui dispiaceva non poter fare interventi. Lui all’ini-zio neppure voleva, “magari andiamo a disturbare qualcuno”, “no assolutamente, perché qui non c’è nessuno che fa queste cose, poi è una cosa mia, vo-glio che vieni tu con me”. E quindi si era informato bene su chi fossero questi, proprio perché era mol-to attento, anche se io chiaramente avevo lavorato tanti anni con queste persone e non c’era mai stato nessun problema. Lì, da questo punto di vista, era tranquillissimo.

Crede che se vi fosse stata una maggioreaccuratezza nelle indagini si sarebberopotuti scoprire i colpevoli?I colpevoli non lo so, i mandanti secondo me sì. Se le azioni fossero state molto più forti all’inizio, come quella che dicevo prima io, di cercare contez-za di alcune dichiarazioni, di alcuni fatti, secondo me avrebbero potuto portare a una maggiore chia-rezza. E non cambiare i magistrati continuamente.

Lei cosa ha fatto per far sì che la gente non sidimenticasse di lui?Quello che faccio io lo faccio soprattutto nel no-stro ambito, quello medico. Portiamo avanti i suoi insegnamenti, i suoi studi veramente importanti. Senza falsa modestia credo che oramai a Messina e in provincia io sia tra i migliori a fare questo tipo di interventi e mi vanto di portare avanti il nome della sua scuola. Però, soprattutto, sto cercando di tenere sempre alta l’attenzione. Ho chiesto di inti-tolare a lui la rotonda dell’Annunziata, da quando era Presidente del Consiglio Comunale e per non mettere in imbarazzo il Prefetto ho aspettato il momento di passaggio, perché prima di dieci anni

dalla morte di un personaggio famoso non si può intitolare nulla se non con le intenzioni del Prefet-to. Questi, essendo l’esponente dello Stato in città avrebbe potuto avere un po’ di difficoltà visto che il caso non è stato ancora risolto. Dopo il 2008, non essendo più Presidente del Consiglio dopo l’annul-lamento delle elezioni, ho portato avanti l’istanza con i miei consiglieri comunali e con un gruppo di amici. La prima fiaccolata è stata molto seguita, la piazza è quella che voi avete visto, è la rotonda dove è stato ucciso. Ma ancora oggi pare non ci sia una volontà precisa, infatti stiamo incalzando il Sindaco perché a questo punto dipende da lui.

Crede che un giorno la richiesta di intitolare la rotonda dell’Annunziata al professore Bottari verrà presa in considerazione? Se il problema è quello di non voler acclarare una vittima di mafia, allora io solleverò un ulteriore ordine del giorno in Consiglio Comunale. Si potreb-be dire di tutto del professore, tranne che fosse un mafioso, vista la sua assoluta lontananza da quegli

ambienti.

Lei cosa pensa della mafia?La mafia purtroppo è quella schifezza che impedi-sce di colmare il gap che c’è con il nord. La mafia non è solo quella che ammazza, è tutto quello che ti blocca ogni iniziativa, che ti blocca lo sviluppo. Mil-le cose non si fanno perché la mafia non vuole, per non ledere gli interessi di questo o di quello, perché non ci può guadagnare, perché non ha interesse a fare una cosa in un’area. Ti fa costruire, ti fa deva-stare aree. Non c’entra nulla quello che è successo a Giampilieri, però vediamo tante costruzioni in zone assolutamente non idonee, per pressioni che vogliono sfruttare certe aree. Mafia significa non fare uscire in giro notizie che possono dare fasti-dio, mafia potrebbe essere rimettere notizie total-mente false per non fare scoprire la verità. Tutto questo purtroppo è una cosa che ci blocca, abbiamo

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una cappa sopra di noi. Quello che il “caso Messi-na” ha sollevato è che si è visto che a Messina ci sono degli interessi che non possono essere toccati e non vengono toccati da cinquant’anni. Magari il mafioso uno lo immagina con la coppola, come nel film di Riina, ma non è quello; purtroppo la mafia è fatta di gente insospettabile che ti paralizza l’eco-nomia della città e lascia la gente nell’ignoranza per non farla sviluppare, per non farla ragionare. Perché se uno ragiona la mafia perde, con la cultu-ra la mafia perde, per questo bisogna partire dalla scuola per cercare di sollevare il livello, perché la gente capisca cosa è giusto, cosa non è giusto, cosa

ti fa bene per il momento e cosa invece può garan-tire lo sviluppo del territorio. Purtroppo noi siamo veramente indietro di almeno venti anni rispetto al nord, per questi motivi.

Cosa pensa che abbia potuto fare di tanto grave il professore al punto di essere privato della pro-pria vita?Io personalmente nulla, l’ho detto già prima. Proba-bilmente la vicinanza ad altre persone importanti che potevano condizionare sviluppo, interessi e al-tre cose future gli è costata la vita. Secondo me è questa la cosa fondamentale. Io penso che l’unica

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logica sia questa, anche perché poi abbiamo visto quello che è successo dopo, con i vari depistaggi, le finte minacce, le macchine rubate, le pallottole arrivate, insomma tutte queste storie. Secondo me si è cercato di sollevare un po’ un caos per non andare veramente al nocciolo della questione. Ma lui, ci metterei una mano sul fuoco, non ha potuto fare nulla per stimolare un’aggressione così feroce e brutale.

Secondo lei l’omicidio è servito comeavvertimento per qualcuno, oppure erail professore il “solo” bersaglio? Secondo me era un segnale verso una struttura universitaria che magari voleva cercare di cambia-re. Può darsi, se è vero che là si decidevano tutti gli appalti, che un cambiamento del genere sarebbe stato epocale per un certo gruppo e quindi bisogna-va dare un segnale subito. Potrebbe essere stato un segnale verso Cuzzocrea e la gestione in quel mo-mento dell’Università, che abbiamo visto che poi muoveva parecchi soldi. Insieme al Comune, l’Uni-versità è uno dei più grossi affari che c’è, dà molti posti di lavoro e vi girano milioni di euro.

Pensa che il professore avesse potuto temere qualcosa o in quei giorni aveva lo stesso compor-tamento di sempre? No, assolutamente no, era tranquillissimo. Il gior-no prima, quando siamo andati a operare fuori era di una tranquillità unica, era arrabbiato per altre cose ma non sospettava completamente di nulla.

Chi era per lei Matteo Bottari?Un professore o un amico? Era una guida e un fratello, era un esempio, mi ha insegnato tutto e veramente la sua morte ha cambiato anche la mia vita perché poi me ne sono andato dal Policlinico, non ho fatto più la carrie-ra universitaria. Tante cose mi hanno nauseato, soprattutto il fatto che subito dopo il funerale ab-biamo sentito delle persone che dicevano che biso-gnava prendere gli apparecchi del professore e ci hanno costretto ad aprire il sevizio dopo tre gior-ni. Io ho smontato il mio armadietto e me ne sono andato, mi sono dimesso. Questo mi ha comporta-to il fatto di cambiare vita completamente; avevo molto richieste, perché con lui lavoravo nel privato quindi non ho avuto nessuna difficoltà, per cui il giorno stesso mi hanno assunto in una casa di cura privata, anzi in due, perché ho avuto la possibili-tà di non avere l’esclusiva. Poi da lì è cominciata la mia avventura politica, perché quell’anno tanti amici che vedevano in me uno che poteva cercare di smuovere un po’ le acque mi hanno incoraggiato pure a candidarmi e sono stato eletto la prima vol-ta nel ’98 nel Consiglio Comunale. Anche altri col-leghi sono andati via, si sono sparpagliati un po’ a Catania, un po’ in altri posti, il gruppo si è dissolto,

diciamo, anzi ci hanno dissolto, più che altro.

La corruzione dell’Università messinese esiste?Credo che siano state ulteriori inchieste a far ve-dere che purtroppo esiste ancora, esiste però non si capisce come. Si parla molto ma si agisce poco. Questa è una cosa che secondo me porta la gente a essere disillusa, l’allontana da questo mondo uni-versitario che sembra un po’ falso. È un mondo che affascina sicuramente, ma il destino sembra già se-gnato per i giovani che pensano di andare in un po-sto dove non c’è prospettiva. Quando sono entrato, pensavo alle tante possibilità del mondo della me-dicina, dei congressi, delle grandi ricerche, delle grandi scoperte che si possono fare; però poi capi-sci che se non hai il “tuo santo in paradiso” è tutto deciso, a seconda se in un dato momento o in un al-tro vince una corrente o un’altra. Allora arrivano i posti di lavoro, le possibilità di carriera e questo non è giusto. Devo dire che io sarei entrato in que-sto filone, essendo l’allievo prediletto del professo-re che era agganciato al Rettore. Pur non essendo figlio di professore universitario, avevo incontrato il Professore Bottari, eravamo diventati un’isola fe-

lice all’interno dell’Università, perché lui si sceglie-va i collaboratori. È vero che molti glieli mandava-no perché chiaramente sono cose che succedono dappertutto, però automaticamente quelli veniva-no un po’ messi da parte e lui si batteva molto per noi. Nel tempo avremmo continuato quella strada. Però per chi non ha avuto la fortuna di essere figlio di professore universitario e di non conoscere un Bottari come me, o fa per anni l’autista e porta la spesa a casa alle persone, oppure non ha possibili-tà. E questo, contrariamente all’idea di quello che dovrebbe essere lo scambio di professori, di cultura

“Era una guida e un fratello maggiore per me, era un esempio, mi ha insegnato tutto e veramente la sua morte ha cambiato anche la mia vita.

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e di conoscenze con gente che ti viene da Milano a Messina, da Messina a Cagliari. Lo scambio della cultura che dovrebbe essere la base dell’Universi-tà oramai non c’è più, qua abbiamo le dinastie, il padre lascia il posto al figlio, magari blocca il con-corso per trent’anni fino a quando suo figlio che è appena nato si laurea, si specializza …le abbiamo viste a Messina, queste cose. Ma dico, le vediamo solo noi? I magistrati non le vedono? Questo ti la-scia un po’ l’amaro in bocca per quello che c’è in giro. Ma non significa che non bisogna muoversi, al contrario significa che bisogna battersi per cercare di fermare queste cose, perché se tutti ci muoviamo e cerchiamo di invertire questa tendenza può darsi che la realtà cambierà. Se invece tutti continuiamo a sperare nella mollichina che ci potrà dare la per-sona a noi vicina, se continuiamo a credere in chi fa qualche promessa, ad esempio alle ragazze…non combierà mai niente. Invece tutto questo schifo non dovrebbe esistere. Dovrebbe vincere veramen-te la meritocrazia. Se questo lo vogliamo tutti noi, se appena vediamo una cosa storta la denunciamo, costi quel che costi, e ci battiamo a portare avanti le nostre idee ci sarà un cambiamento, altrimenti resterà sempre così e purtroppo non ci sarà futuro.

Pensa che esista ancora un “caso Messina”? Sì, anche se il caso Messina, così come è stato sol-levato, secondo me è stato molto giornalistico. A Messina, come dicevo prima, c’è una sorta di cap-pa che blocca il sistema, con interessi intrecciati, che prende diversi rami della società. L’idea che hanno dato non è solo quella, è uscita come una cit-tà di mafia, di gente corrotta. Questo non è vero,

è solo una piccola parte che è così. Purtroppo è la parte che riesce a condizionare, che orienta mol-to l’elettorato e la città. Però io penso che per la maggior parte non sia così, anzi ne sono convinto e per questo sto continuando a impegnarmi perché qualcosa possa cambiare. Io penso che se ci sarà un altro cambiamento o una maggiore rigidità da par-te delle istituzioni e soprattutto, ripeto, della magi-stratura, se si riuscisse a portare avanti iniziative vere, se si andasse fino in fondo con le condanne, io penso che si risolverebbe tutto, quindi il “caso Messina” secondo me non c’è più, nei termini in cui era stato costruito, ma purtroppo l’andazzo è sem-pre lo stesso. Magari in alcuni momenti ci hanno voluto far ricredere, ma è una cosa che rimane e che ci leva l’aria.

Ritiene che ci sia una sincera volontà di riscat-tare l’Università di Messina di cui si parla nega-tivamente, soprattutto sui quotidiani nazionali?La volontà di chi? Se è un po’ come i discorsi dei Parlamentari, tutti diciamo che dobbiamo andare a votare con il voto della preferenza, ma questa legge chi la deve cambiare? La devono cambiare quegli stessi che ne sono i beneficiari. Quindi si deve fare una riforma universitaria seria, a partire dal Mi-nistero. Ma quelli che ci sono adesso perpetueran-no i loro privilegi e non avremo un cambiamento. Se dipende da loro, loro non si vogliono riscattare perché sennò perderebbero sicuramente i loro be-nefici. Bisogna che qualcuno glieli faccia perdere, nel senso che non c’è nulla di male a essere figlio di un universitario, l’importante è che il figlio di uni-versitario si impegni come si impegna chiunque, lotti per avere quelle cose come chiunque. Che poi possa essere avvantaggiato perché a casa respira l’aria dell’università, capisce i movimenti, capisce le dinamiche, magari può avere qualche aggancio in più, la possibilità di studiare e approfondire le cose. Quello sarebbe il suo vantaggio, ma se diven-tano benefici di casta allora no. Certo, questo non farebbe rinnovare la casta.

Che cosa ci consiglia di fare concretamente per cambiare la mentalità mafiosa che ancora impe-ra su parte dell’Università di Messina?Impegnarvi e denunciare qualsiasi schifezza che vedete nella vostra vita. Questo è importante, non farvi mai ricattare da nessuno, perché se già uno vi minaccia vuol dire che teme, è lui stesso che si spa-venta. Le persone che non minacciano sono quelle che fanno i fatti di cui potreste spaventarvi. Ai miei tempi esisteva il discorso, ormai credo che non si verifichi più, degli studenti che entravano per ul-timi a fare esami. C’era la scusa che il ragazzo era timido ed entrava sempre per ultimo, era diventata una consuetudine. Se cominciate a fare pressione sulle cose che vedete, se tu da ragazzo denunci una cosa del genere non cambia niente, perché il pro-

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“La verità, sarebbe un mes-saggio per tutti

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fessore quel voto glielo segna a parte. Però se tut-ti insieme isolate questo tipo di persone e anziché prenderli a modello come persone furbe e intelli-genti che riescono a superare gli ostacoli li conside-rate persone da allontanare, se quando i professori cercano di sfruttare la posizione per altri scopi, fate una bella denuncia alla magistratura, a un magistrato giusto, allora tante cose cambieranno. Oramai c’è stata molta pubblicità intorno a queste cose, e i furbi sono un po’ più preoccupati, non han-no più la spudoratezza che avevano anni fa. Le cose certo capitano lo stesso, ma ci sono diversi proces-si in atto e se arrivasse qualche condanna esempla-re adesso, penso che le cose cambierebbero.

Sente la mancanza del professore in alcune cose particolari?Molto. In tante cose, soprattutto professionalmen-te, non ho trovato nessun’altra guida. Anche da un punto di vista umano era la persona più gran-de con la quale potermi confrontare. Se avevo un problema potevo parlarne con lui, perché mi fidavo ciecamente. Non ho trovato più nessuno allo stesso livello. Professionalmente una guida così è difficile da trovare perché era veramente eccezionale. Lo ritenevo un superiore e tutt’ora, se potessi, mi rap-porterei a lui per migliorarmi, per affinare le mie conoscenze, per avere un consiglio. Ora come ora, veramente non saprei a chi rivolgermi, si rivolgono a me gli altri, ma io ho bisogno comunque di quel livello più alto che lui aveva, perché nella vita si deve sempre migliorare. A me manca sicuramente.

Conosce e ha ancora rapporti con la famigliadel professore?Assolutamente sì, il figlio è tanto uguale a lui, è la fotocopia, incredibile. Il carattere è diverso, il figlio è più introverso, lui era molto più spigliato.

Come ha reagito la famiglia di frontea quanto accaduto?La famiglia si è chiusa in sé, perché giustamente con tutta la baraonda che è successa, con tutte le notizie, non capivano più neppure loro chi erano i loro amici, chi i loro nemici. Poi, soprattutto quan-do hanno letto le cose bruttissime che sono state scritte … Quando ti interroga la Polizia ti fanno do-mande su cose molto private e poi dopo cinque anni non sono più segrete, per cui gli avvocati possono disporre di queste cose e tu sai tutto quello che ognuno ha detto su di te, sull’altro, e capisci quan-ta gente meschina ci sia, che magari ti fa la faccia bella da un lato e poi ti pugnala alle spalle. Loro per anni sono stati chiusi un po’ in se stessi, ora hanno ripreso una vita normale, per quanto possa essere normale una vita dopo una cosa del genere. Il fi-glio, sono contento, lavora all’Università pure lui, è un ottimo radiologo interventista, non ha voluto fare endoscopia e forse ha fatto pure bene, perché

il paragone col padre sarebbe stato troppo pesante. È un ottimo professionista, la madre era una pro-fessoressa universitaria e si è messa in pensione, la professoressa D’Alcontres, ora ha i nipotini, ha altri interessi e la vita va avanti. Quando ci vedia-mo, ci chiediamo “tu sai qualcosa? novità nelle in-dagini?”, ma purtroppo non c’è niente di nuovo.

Qual è il messaggio che vuole mandare affinché nessuno si dimentichi di Matteo Bottari?Il messaggio è che vorrei lasciare questa rotonda in imperitura memoria, e il messaggio più bello sarebbe non quello che posso lasciare io ma quello che potrebbe lasciare la fine di questa storia, cioè fi-nalmente trovando la verità, ci sarebbe una giusti-zia per tutti. Altrimenti ci sarà sempre quello che cerca di insinuare qualche dubbio. In questi anni magari la gente non sapeva chi fossi e il rapporto che avevo con il professore e più volte ho litigato con persone che dicevano stupidaggini. A volte poi, sentendo menzogne, la reazione è stata magari so-pra le righe perché ci si innervosisce e si diventa aggressivi. La verità sarebbe il messaggio per tutti, sperando che il tempo ce la conceda.

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MATTEOBOTTARI

Viviana RizzoNella terra di coloro che ti avrebbero tolto la vita. Insegnante di Università, amico, collega. Mi sembra ridicolo e assurdo. Mandanti e assassini sono a piede libero, sono rimasti impuniti, come nulla fosse, riprendendo tranquillamente la loro vita, mentre quella della tua famiglia, dei tuoi colleghi, amici, di chi ti voleva bene, è rimasta tra-fitta come se una scheggia avesse attraversato il loro cuore. Il tuo caso è stato chiuso per mancanza di indizi, pro-ve. La gente va avanti e non pensa più a quell’egregio medico ucciso con due colpi di lupara, sparati in piena faccia, all’Annunziata. Una fiaccolata in tuo onore si tiene proprio dove è

accaduto l’incidente. C’è una richiesta affinché ti venga intitolata la rotonda che è stata costruita dove ti hanno ammazzato. È importante che la genti non dimentichi. Tutte le vite rubate devono essere ricordate.

Valeria LucianoUna moto si era avvicinata…due colpi in pieno volto.Un silenzio infinito. “Chia-mate un’ambulanza, presto, sta morendo” poi disse qualcuno. Rumori, urla, tante urla!!Chiunque abbia ucciso verrà preso e sconterà la sua pena?Sarà fatta giustizia?

Valeria Luciano,Roberta ArenaNon tutti sanno chi era e come venne ucciso il professore Matteo Bottari, perciò abbiamo deciso di fare conoscere questa storia attraverso l’intervista a un suo caro amico a distanza di 12 anni. Il 15 gennaio 1998 Matteo non fece più ritorno a casa perché fu ucciso a colpi di lupara. È giusto che tutti sappiano che la ndrangheta ha colpi-to, che è riuscita a infiltrarsi nell’Università.Bisogna convincere tutte quelle persone colpite o quanto meno ricattate da mafiosi, anche solo perché vogliono pagato il pizzo, di denunciare prima che sia troppo tardi queste persone, se così possono essere

chiamate. Dopo tutto ciò che sentiamo alla televisione è il minimo incoraggiare le persone a denunciare cose che vedo-no o subiscono loro stessi. La mafia va combattuta e tutti possiamo farcela. Sentiamo di essere cresciute molto.Su questa esperienza indi-retta, ci siamo rese conto di quanto sia spietata la mafia.

Sara Di Bella Gocce di pioggia, chiare, limpide, sono tutte così all’inizio, poi cadendo sulla terra alcune affondano nel fango, altre riescono a non sporcarsi. Quella stessa pioggia che la sera del 15 gennaio 1998 cadde sul corpo di Matteo Bottari, si mescolò col san-gue di un innocente…

racconti

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Pare che la mafia colpendo Bottari in realtà voleva colpire il Rettore Diego Cuzzocrea.La mafia infatti era infiltrata nell’Università per scopi economici e di clientelismo infatti in cambio di “laute ricompense” venivano rila-sciati falsi titoli di studio che rendevano dotti in campi decisamente particolari in cui è fondamentale la preparazione.Così invece senza nessuna frequenza ci si pregiava del titolo di dottore magari in medicina pur non avendo mai preso un bisturi in mano.Grande incredulità e sgomento ha provocato la morte del noto professioni-sta messinese.Dietro a quella mano che ha premuto il grilletto c’è qualcosa di più grande che si deve arrestare, debellare, ma come può un cittadino contrapporsi a tutto ciò?

Semplice, basta dire di no anche alle più piccole cose e avere il coraggio di denunciare le più grandi, perché lo Stato possa intervenire e tutelare.Nel caso del prof. Bottari si sta aspettando il processo per mettere la parola fine a quest’inchiesta.

Tante luci rosse… un’auto in fila… due spari… un’Au-di nera si schianta contro la vetrina di un negozio…Ancora oggi tante domande non hanno risposta…Si apre il caso Messina! Il professore Bottari è stato ucciso. Come mai la diffusione del-la “parola” mette così tanta paura alle organizzazioni criminali?Forse perché esse temono che ciò possa porre i riflettori sui loro meccanismi, che possa far capire cosa c’è dietro. Forse temono che la diffusione della “parola” possa far cambiare qualcosa, possa attrarre l’attenzione della gente.…allora cos’è in realtà la mafia?

La mafia si nutre di ignoran-za, prepotenza, sottomissio-ne, ingiustizia…È quell’ostacolo che non ci consente di sperare in un futuro migliore.Ci tiene ancorati a qualcosa che non è la giustizia. Ci porta ad allontanarci sempre più da quest’ultima, fino a soffocarla.

Perché è stato ucciso?Non era un giornalista, uno scrittore, un giudice, non ha raccontato la mafia alla gente…forse ha semplicemente detto: No!Se non ci si ribella alle ingiustizie sin da subito, queste, entrando a far parte della nostra quotidianità ci coinvolgeranno a tal punto da convincerci che l’illecito sia proprio dire: BASTA!

Roberta ArenaSono passati ormai 12 anni da quel giorno, ma ancora non si è trovato un

colpevole. Non conoscevo il professore in prima persona, ma co-nosco quell’Università dove lui insegnava, verminopoli, covo di vermi. Non capisco come tutto si sia sviluppato senza che nessuno si sia accorto di niente: da un lato la vita normale dell’Università e dall’altro un mistero di ricatti e minacce. Un luogo che doveva essere protetto e tutelato, divenuto la base della ndrangheta, infiltratasi senza problemi. Penso a tutta quella gente che passando da qua non sa cosa sia successo o for-se, se lo sa, resta del tutto indifferente. L’indifferenza è la cosa più crudele che si possa avere nei confronti di un’altra per-sona. Questi fatti dovrebbe-ro riguardare tutte le perso-ne e non essere accantonati per poi scivolare pian piano nel dimenticatoio.

Mariapaola PiccioneQuella sera era apparente-mente tranquilla. La moglie lo chiamava come sempre ma quella sera durante la solita chiacchierata qualco-sa andò storto. I due rumori che lei aveva sentito al telefono erano due colpi di fucile che avevano colpito in piena faccia il marito. Perché? Perché quegli uo-mini hanno ucciso Matteo Bottari? È come se gli assassini si fossero dileguati nell’aria, neppure la Polizia è riuscita a trovarli.

Alessia Gambadoro L’omicidio del profes-sore Bottari avvenne il 15/01/1998 da parte della mafia calabrese. N

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Antonio Mazza, ingegnere e imprenditore di Barcellona Pozzo di Gotto (Me), editore di Tele News, fu ucciso il 30 luglio 1993 nella sua abitazione pochi mesi dopo l’omicidio di Beppe Alfano, il giornalista che colla-borava con la combattiva emittente televisiva. Il caso dell’omicidio Mazza fu archiviato e resta uno dei misteri di Barcellona Pozzo di Gotto, cittadina ad altissima densità mafiosa che la Commissione Nazionale Antimafia ha definito caratterizzata da “impenetra-bilità” e “impunità”.

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Chi è un Sostituto Procuratore?Non è facile spiegare cos’è un Sostituto Procuratore Generale: cercando di semplificare, sono il vice del Pro-curatore Generale, cioè il massimo grado di tutti i Pubblici Ministeri in una zona del territorio che si chiama “distretto”. Debbo quindi passare a spiegarvi cos’è un Pubblico Ministero.

Intervista a Marcello Minasi (Sost. Procuratore Generale, Messina)

Di: Salvatore Basile, Ylenia Bellinghieri, Giovanni Bonfiglio, Stefania Busà, Antonio D’Angelo, Antonio Diletti, Anthony Diletto, Andrea Gala-ti, Roberto Gentile, Antonino Giaimo, Daniele Molino (Istituto Superiore “G. Minutoli” – Messina).19-04-2010 Istituto Minutoli

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Il Pubblico Ministero è il magistrato che rappresen-ta l’accusa, cioè il potere punitivo dello Stato, contro chi commette un reato. Il distretto è un territorio che, nel nostro caso copre tutta la provincia di Mes-sina (qui da noi coincide con la provincia). In quel territorio in cui ha giurisdizione, (cioè pronuncia le sentenze), la Corte d’Appello, che è il giudice di più alto grado, il Tribunale (non nel senso di palazzo, ma di giudice) è il gradino inferiore, il primo grado di giurisdizione (nel distretto di Messina ce ne sono quattro). Il Pubblico Ministero che rappresenta l’ac-cusa presso il tribunale si chiama Procuratore della Repubblica, quello che la rappresenta presso la Cor-

te d’Appello, Procuratore Generale. Quindi le mie funzioni sono quelle di Procuratore Generale della Repubblica davanti alla Corte d’Appello. Qualche volta mi chiamano per queste conversazio-ni con i ragazzi delle scuole. Ci tengo subito a dire che per me non sono “lezioni”, credo che la lezione crei sempre un diaframma tra chi parla e chi ascol-ta, è anche un’istintiva reazione di difesa. La nostra è una conversazione: io vorrei, dunque che voi ora interveniste, mi faceste delle domande. Ormai in Italia non si esiste se non si è televisiva-mente approvati. Per dare un punto di riferimento “notorio” su quello che faccio io, vi posso dire che,

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abbastanza di recente - è stato un anno e mezzo fa circa - ho rappresentato l’accusa nel processo d’Ap-pello per l’assassinio di Graziella Campagna. Ecco, questa è la cosa recente più di notoria conoscenza. Più conosciuta perché? Non perché la gente si occu-pi degli omicidi, purtroppo si occupa sempre troppo poco di quello che succede, ma perché la televisio-ne ha consacrato la notorietà di questo caso con il suo intervento con quel programma che si chiama “Chi l’ha visto?”. L’omicidio di Graziella Campagna è diventato un caso nazionale, anche attraverso una fiction che ha cominciato a essere diffusa pro-prio mentre c’era il processo in corso, creando tutta una serie di problemi. C’è chi mi ha chiesto “…ma la televisione può entrare nelle aule di giustizia? Si può, mentre la Corte che decide, la Corte d’Appello, è in Camera di Consiglio per prendere la decisione sul processo, esercitare una pressione attraverso la versione dei fatti ricostruiti della fiction?...”. Ci sono una serie di problemi. Ma resta il fatto che la pubbli-cità dei processi è sempre positiva e che, per di più, questa volta bisogna dare veramente al programma il grande merito di aver evitato l’affossamento del processo. Io non guardo mai la televisione, infatti non avevo mai seguito “Chi l’ha visto?”, prima di essere sta-to costretto a seguire questa vicenda perché me ne dovevo occupare personalmente come Pubblico Ministero. Ho dovuto riconoscere che la televisione non è sempre negativa: ha portato alla riapertura di un processo che era finito in un nulla di fatto, era finito male. Quando andò in onda una puntata dedicata all’omicidio di Graziella Campagna, alcu-ni mafiosi “pentiti”, che veramente sapevano come erano andati i fatti, guardavano la televisione in carcere. Si accorsero di quello che si diceva sulla vicenda - che tra l’altro non avevano approvato: l’assassinio feroce di una quindicenne! - e chiese-ro di parlare con il Pubblico Ministero. In base alle loro rivelazioni le indagini si riaprirono e il processo arrivò alla sentenza di condanna degli assassini di Graziella Campagna. Quindi, questo è un caso in cui il movimento di idee, l’opinione pubblica che fa pres-sione, l’interesse della gente, hanno fatto ritornare a galla un processo che era completamente chiuso.

Si sapeva chi erano gli assassini di un delitto così efferato, ma erano stati assolti e il tutto era finito con un’archiviazione. Ecco perché di mafia bisogna parlare sempre, checché ne dica il nostro Presiden-te del Consiglio e la sua convinzione che si fa cat-tiva figura all’estero. A parlare dei problemi non si fa mai cattiva figura, perché significa prendere co-scienza di quello che succede nel nostro territorio. Specialmente da Napoli, anzi dal Lazio in giù, l’80% dell’economia è in mano alla delinquenza organiz-zata. Dobbiamo reagire, dobbiamo parlarne. Se non fosse stato per Roberto Saviano - gli dovremmo fare un monumento- di camorra non se ne sarebbe as-solutamente parlato. Avrebbero continuato a man-giarsi il territorio senza che nessuno muovesse un dito. Quindi di mafia si deve parlare. Non ci preoc-cupiamo delle cattive figure se parliamo di mafia, anche perché all’estero sono più informati di noi, sanno, e come, del contagio mafioso che sta attac-cando anche altri paesi. La strage di Duisburg dimo-stra proprio questo: c’è una faida della ‘ndrangheta calabrese che si è compiuta in una città della Ger-mania. A Bruxelles metà delle nuove abitazioni del patrimonio immobiliare sono state acquistate dalla ndrangheta, a Milano lo stesso. In Irlanda, dove le cose costano ancora di meno, la ndrangheta e Cosa

Nostra hanno comprato intere cittadine e control-lano anche il mercato del lavoro. E così anche la ca-morra, di cui parla Saviano nel suo libro “Gomorra”. Pensate che Saviano è un ragazzo, mi pare che abbia 31 anni (ormai si può dire che è un ragazzo; ai miei tempi io, a 31 anni, ero quasi Consigliere in Corte d’Appello e mi sentivo un vecchio). Pensate quanta gente a quell’età ciondola per le strade, per i localet-ti della città. Saviano ha fatto esplodere il problema della Camorra, e come ha fatto? Chiacchierandone

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in salotto? No, andando sul campo. Saviano fingeva di essere uno degli spacciatori, entrava a Scampia, entrava con il casco, con il motorino, come facevano loro per il codice di intesa che si sono dati, ha stu-diato come avveniva la vendita degli stupefacenti. È andato a scaricare balle di merci nelle mani dei cinesi, credo per un anno e mezzo, due. I cinesi com-pravano interi palazzi nel porto di Napoli e si colle-gavano con la camorra napoletana. Ha fatto questo per capire cosa succedeva, chi erano i capi, quali erano i meccanismi. Ha girato per le città infestate dalla camorra, ha parlato, ha rischiato anche. Ades-so vive come, anzi peggio, di un recluso. Ne parla nel suo ultimo libro: non può andare al cinema, pensate che ha voluto vedere uno degli ultimi film e il War-ner Village, che è il cinema multisala di Roma più grosso, gli ha dovuto riservare un’intera sala. Lui e la scorta, in tutta la sala, hanno visto il film con quattro carabinieri, che lo seguono perennemente, anche se va in bagno. Non può andare al ristorante, non può andare da nessuna parte, vive con questi quattro carabinieri che a turno cambiano e quando è entrato nella sala, pensate, questo è un particola-re ridicolo, gli hanno chiesto il telefonino, e sapete perché? Perché temevano che lui, approfittando del fatto di essere solo nella sala, registrasse col telefo-nino il film e poi se lo rivendesse, violando i diritti sul film! Questo per dirvi come vive questo ragaz-zo a 31 anni. Non può avere una fidanzata, non può andare in giro con le ragazze, non può andare nei pub come fanno tutti la sera, a passeggiare, e lo fa, così per diventare ricco, come dicono gli stupidi? Rischia la vita e lo fa perché ha denunciato. Si deve parlare di mafia!

Lei poco fa ha detto che se ne parla poco. Io finora

ne ho sentito parlare e si fanno tante belle chiac-chiere, ma dei fatti concreti per risolvere questo problema non se ne parla, si parla del potere che mafia, camorra hanno, anche all’estero. Ma delle soluzioni per combattere la mafia non ne ho mai sentito parlare…Intanto precisiamo una cosa, già il parlarne è un fatto concreto. Pensate che il processo “Spartaco”, il più grande processo sulla camorra che si sia mai fatto, è andato avanti, è riuscito a celebrarsi perché Saviano ne ha parlato in Gomorra, sennò si sareb-be spento. Poco fa vi ho fatto l’esempio di Graziella Campagna. Il processo si è fatto e gli omicidi sono in galera condannati all’ergastolo perché la trasmis-sione “Chi l’ha visto” ha presentato il caso. E poi c’è l’opinione pubblica, le associazioni antiracket … proprio l’altro giorno Tano Grasso diceva che ha formato l’associazione antiracket a Barcellona Poz-zo di Gotto ma su iniziativa, cosa strana, e questo lo dobbiamo dire, di un imprenditore messinese. A questo imprenditore, che abita proprio qua vicino, hanno bruciato cantieri, macchine. Ieri gli hanno dedicato uno spazio in una trasmissione TV, per-ché? Per una cosa concreta: l’unione. Nelle asso-ciazioni antiracket, tutti gli imprenditori possono unirsi, non si sentono soli, si sentono tutelati dalla legge, e si sostengono a vicenda: questo è un primo risultato concreto. E poi le associazioni e l’opinione pubblica possono far pressione sull’autorità politica, e qua entriamo in un campo minato. Se si parla si può evitare, per esempio, che aboliscano - perché in concreto si abo-liranno - le intercettazioni telefoniche. Chi, come il Maresciallo che qui assiste alla nostra conversazio-ne, fa questo mestiere come lo facciamo noi, sa che in materia di stupefacenti l’80% dei processi si fa perché si riesce, a volte per caso, a captare la con-versazione di delinquenti. Ovviamente molti politici hanno l’interesse di eliminare questo indispensa-bile strumento di indagine. Io ho la mia visione del perché: si dice che da queste intercettazioni, poi, vengono fuori le schifezze che fanno i politici, ma quelle le sappiamo comunque. Io temo che sia addi-rittura molto peggio, si vogliono eliminare perché è una delle prestazioni che si sono promesse nell’ulti-mo patto con la mafia (il famoso “papello”) e ora si sta pagando il conto. Potremmo parlare fino a stase-ra ma dobbiamo ritornare alla nostra storia. Questa era un po’ un’introduzione. Domani voi vivrete in questo paese e se tutti non reagiamo vivrete in un paese orribile, una specie di inferno. Si deve argina-re questa marea mafiosa.

Io ci penserei due volte prima di mettermi contro un’organizzazione così grande, e prima di me cer-co di tutelare mia moglie, i miei figli…Loro hanno paura della parola, hanno paura che noi parliamo: una volta non si doveva nemmeno pronunciare la parola “mafia”. La parola è un’ arma contro la mafia. Certo, c’è un margine di rischio, ri-

Saviano ha fatto esplodere il problema della Camorra, e come ha fatto? Chiacchie-randone in salotto? No, andando sul campo. Savia-no fingeva di essere uno degli spacciatori, entrava a Scampia, entrava con il ca-sco, con il motorino, come facevano loro per il codice di intesa che si sono dati ha studiato come avveniva la vendita degli stupefacenti.

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schio che si riduce se ci si unisce. Ieri lo spiegava benissimo alla televisione Tano Grasso, della cui amicizia mi onoro, che ha creato il movimento an-tiracket e lui faceva capire come capta questa sorta di solidarietà tra gli imprenditori per cui non si sen-tono più soli e non hanno più paura. Ma ritorniamo ad Antonio Mazza.

Come si colloca tra i delitti di mafia la morte di Mazza?Confesso che io lo conosco per puro caso, per lavo-ro, perché sono convinto che l’omicidio di Mazza sia collegato a quello di Beppe Alfano e io ho fatto il Pub-blico Ministero nell’omicidio del giornalista. Io stes-so, che faccio questo mestiere, se non avessi fatto il processo Alfano non avrei saputo niente dell’omici-dio di Mazza. Sono dovuto andare a ricostruire un po’ la storia, di questa vittima quasi sconosciuta della mafia. Ammazzano Beppe Alfano –sorvoliamo sulla sua storia in quest’occasione dato che è lun-ga- perché anche lui faceva informazione e la face-va seriamente. A un certo punto, il capo della co-sca barcellonese, definito da Brusca “l’unico uomo d’onore (termine in gergo per indicare un affiliato) nella zona di Messina”, cioè Gullotti, dice: “questo giornalista dà fastidio con le sue inchieste”. Avviene durante una riunione alla quale partecipano anche Brusca e Di Matteo. Brusca, è per intenderci, quel-lo che ha premuto il bottone del detonatore che ha fatto saltare in aria Giovanni Falcone. Di Matteo è quello il cui figlio fu bruciato nell’acido muriatico e lui, dopo quell’episodio, decise di parlare e di col-laborare con lo Stato. Dunque in questa riunione, Gullotti a un certo punto dice: “c’è un giornalista che sta dando troppo fastidio, a noi e ai politici. Lo possiamo ammazzare?” Voi sapete che la “cupola” deve dare l’assenso perché si faccia un omicidio. C’è una discussione; c’è chi è contrario all’omicidio, perché si sarebbe fatto troppo chiasso, c’è chi dice: “vabbe’, ce lo leviamo di torno”. Insomma, per far-la breve, nel Gennaio ‘93 viene ammazzato Beppe Alfano. Il 13 luglio dello stesso anno, cioè sei mesi dopo, viene ucciso Mazza. Perché dico che questi

omicidi son tra loro collegati? Intanto Mazza era un compagno di scuola di Alfano, erano molto ami-ci, avevano presentato insieme una lista per le ele-zioni amministrative, che era stata completamente trascurata dall’elettorato, per cercare di rinnovare la città di Barcellona. Dei due, stranamente è pro-prio Mazza è quello a cui piace fare informazione. Lui è un imprenditore, compra una televisione che si chiama TeleNews (credo che non esista più). In questa trasmissione fanno una rubrica con Alfano, lui è l’editore e l’altro il giornalista, dove si parla-va dei problemi pratici della gente e si chiamavano a partecipare direttamente i politici e gli ammini-stratori, come dovrebbe essere normale in una de-mocrazia (noi purtroppo siamo in una democrazia incompiuta). Li chiamano a rispondere: perché non si raccoglie la spazzatura? Perché c’è speculazione edilizia da queste parti? E così via. I politici all’ini-zio pensano che sia il solito giochetto delle parti in cui ognuno finge di dar conto all’ elettorato, poi si accorgono che questi due fanno sul serio e disertano la trasmissione che è costretta quasi a chiudere: o meglio loro continuano a denunciare i problemi ma non viene più nessuno degli amministratori. Alfano sarà ammazzato perché sta facendo indagini vere e proprie, inchieste giornalistiche (si chiama giorna-lismo d’inchiesta). Rimane Mazza. La spiegazione più semplice - ecco la risposta alla prima domanda – è che Mazza era l’amico più intimo di Alfano, co-nosceva il suo lavoro.Non si è mai capito quale filone di indagine di Alfa-no avesse determinato l’omicidio: può essere l’Aias, può essere il traffico d’armi, può essere la presenza nella provincia di Messina, ben tutelato purtroppo, del latitante Santapaola, boss della mafia catanese, collegato con Gullotti, possono essere tanti filoni. Allora cosa successe? Mettiamoci nei panni del ma-fioso che controlla la zona: io, mafioso, cosa penso? Ho ammazzato Alfano, così ha smesso di rompere le scatole, ma resta Antonio Mazza, che ha ancora la televisione, sicuramente ricomincia. Non solo, Al-fano certamente si è confidato con Mazza, gli avrà detto qual è il nocciolo delle sue indagini, se sono “C

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ANTONIOMAZZAle armi, o altro. Guardate che sembra strano ma è così. L’omicidio di Graziella Campagna lo dimostra: il mafioso certe volte ammazza, noi diremmo, con una brutta espressione, “per il sì e per il no”, non si sa mai. Quella povera ragazzina che ne doveva sape-re dei nomi trovati nel vestito? Era una commessa in una lavanderia, lo sapete, e trovò questo appunto con tutti i nomi dei latitanti e dei più grossi perso-naggi della zona, mafiosi e politici. Probabilmente non sapeva, questa povera ragazza, neanche chi fossero. Ma i mafiosi cosa fanno? Decidono: intan-to l’ammazziamo e ci mettiamo al sicuro. Una vita umana vale questo in mano a questa gente vigliacca (perché è gente che parla di onore ma è gente vi-gliacca). Qua hanno fatto la stessa cosa: “Antonio Mazza probabilmente non farà niente, da solo, sen-za Alfano, ma noi, in ogni caso e per sicurezza, lo ammazziamo.” E badate, come lo ammazzano? Po-tevano, non so, aspettarlo all’angolo della strada, sparargli, ma poi magari si sarebbe detto che era una questione di donne, come si suole fare in Sicilia. No, no. La mafia ha un suo codice, gli omicidi devono valere da esempio, affinché serva da lezione per al-tri, perché non parlino. Anche i semiologi, cioè colo-ro che studiano i linguaggi, i segni, hanno analizzato queste cose. Nella sentenza di Alfano si dice che fu ammazzato come prevenzione nei confronti di altre indagini come quella che svolgeva lui. Stessa cosa è stata fatta per il professore universitario Bottari: se fosse stato ammazzato in un modo qualunque, tutti avrebbero pensato “ecco, l’ha ucciso un mari-to tradito che ha perso la pazienza”. Invece no, si ammazza sparandogli in faccia e col fucile a canne mozze. Mazza pure viene ucciso platealmente, non gli si fa un agguato, molto più sicuro. Lui sta cenan-do, o giocando a carte, nel giardino della sua villetta con altri due, tre amici, quindi c’è anche il rischio di pigliare qualcuno che non c’entra. Un volume di

fuoco spaventoso. Il volume di fuoco dimostra l’ag-gressione mafiosa, quando è preparata. Qui si spara con due calibro 38 e due fucili a canne mozze. Che bisogno c’era di tutto questo per ammazzare un po-veretto indifeso? Vengono diverse persone con il passamontagna e sparano con un volume di fuoco spropositato perché si capisca che è una lezione, che è un omicidio mafioso. La gente impara la lezio-ne, e quindi non se ne parla più. Ecco perché l’omi-cidio Mazza si colloca tra i delitti di mafia. In che modo una famiglia può chiedere giustizia per la perdita di un proprio caro ucciso dalla cri-minalità?Nel caso di Mazza, checché io ne sappia, non c’è sta-ta una grande mobilitazione dell’opinione pubblica, sulla stampa e non si capisce perché, a differenza del caso Alfano. Sonia Alfano, che ora è parlamen-tare europeo e che io conosco bene, durante il pro-cesso veniva con la madre continuamente a parlare con me, per vedere come io quale Pubblico Ministero volevo affrontare il caso e se lo facevo seriamente, perché purtroppo avevano avuto brutte esperienze precedenti. Controllavano anche il mio operato, ed è giusto, in democrazia è giusto. Cioè volevano ren-dersi conto, “questo vuole fare sul serio o no?” C’è stata anche grande pressione sull’opinione pubbli-ca. Il processo per l’omicidio Alfano, che in primo grado era finito con l’ assoluzione di Gullotti, in se-condo grado ha portato alla condanna a trent’anni di reclusione. Una famiglia può e deve chiedere giu-stizia. C’è anche un’associazione delle famiglie delle vittime sia di mafia che degli attentati, delle stragi di Stato, che ne sostiene le richieste risarcitorie e di giustizia.

Gli assassini si pentono degli omicidi? Questo è il discorso sulla capacità di rendere la pena un mezzo di recupero sociale. Co

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Il condannato in genere non è solo l’assassino, ci sono reati anche minori Anche questo è un discor-so lunghissimo che mi piacerebbe molto fare perché credo molto a questo potere di recupero, anche per-ché l’ho verificato nella mia esperienza professiona-le. Rappresento l’accusa anche presso il Tribunale di Sorveglianza, che è proprio quell’organismo che deve studiare le pene alternative per recuperare i condannati entro un certo limite di condanna, ma anche l’ergastolano. Per esempio, forse qualcuno di voi non sa che l’ergastolano invece di trascorrere tutta la vita in carcere, può fare fino a venti anni: se dimostra un comportamento di recupero, poco a poco si tolgono - si chiama liberazione anticipata- dei periodi di pena. Ecco che a volte si pente e la fun-zione principale della pena è sì di punire ma anche di recuperare queste persone alla società civile.

Quanto pesa il giro degli appalti edilizi nel terri-torio Messinese?Moltissimo. Cosa nostra, cioè la mafia siciliana, a Pa-lermo ha fatto scempio di una città. Non so chi di voi è andato a Bagheria, che era un giardino di arance e limoni fino agli anni ‘50. La mafia ha speculato, cosa tipica della mafia degli anni ’60, e continua a farlo. Anche a Messina, dove cerca di controllare il terri-torio, sia attraverso il pizzo sia attraverso il rilascio delle licenze. Guardate come hanno ridotto Messina negli ultimi due anni. Dove abito io, c’era un giar-dino di fronte alla mia casa, poi ci hanno costruito due palazzi di dieci, dodici piani, con licenze “legit-time”. Si devono mettere dentro gli amministrato-ri, non solo i mafiosi! Lì era tutta zona bloccata dal piano regolatore, hanno concesso licenze e hanno costruito. Perché? Si sono venduti, perché la mafia fa pressioni sui politici che danno l’autorizzazione a costruire, e i mafiosi gli procurano voti, il cosiddetto “voto di scambio”. Si è fatta pure una legge sul voto di scambio ma non ha funzionato.

E l’informazione? Dalla discussione che abbiamo fatto fino a questo momento si può capire quanto è importante l’in-formazione. Perché si preoccupa tanto Berlusconi, salvo pigliarsi i diritti di editoria, di quello che dice Saviano? Perché capisce che se Saviano continua così, i processi contro la camorra si terranno seria-mente. Lui non si potrà tenere un Sottosegretario sul quale pende una richiesta di custodia cautelare, cioè di arresto per fatti relativi a complicità con la Camorra. Dobbiamo dirle queste cose. Non si può te-nere nel Governo un imputato per reati gravissimi, per associazione a delinquere con richiesta di custo-dia cautelare. Ecco perché si preoccupa tanto delle intercettazioni.

Lei sta dicendo quindi che la mafia è radicata an-che in politica. Noi di chi ci dobbiamo fidare? Dovete informarvi, non guardate solo la televisione. In televisione c’è “Chi l’ha visto”, ma c’è anche il te-

legiornale serale del Tg1 dove non vi fanno sapere quello che succede in Italia. Informatevi con i gior-nali alternativi…

Se io sono a capo del Governo, io uso tutti i mezzi per far vedere quello che voglio…Ma questa non è democrazia! Informatevi, per la vostra salvezza. C’è quel giornalino, di quattro soldi, di quattro pagine, ma è (giustamente) arrabbiato, si chiama “Il fatto quotidiano”. Vi fa la controinforma-zione: leggetelo, verificate quello che dice, se sono veri i fatti che racconta (e che gli altri non vi raccon-tano). Non è propaganda questa, è l’invito a sapere quello che succede. Molte persone vengono dimenticate, Antonio Mazza è una di quelle. Quando mi è stato chiesto di parlare di Mazza ho dovuto rinfrescare la mia memoria, sul momento non ricordavo neppure chi era, confesso. Questa è un’ulteriore dimostrazione che bisogna parlarne sempre, non si può dimenticare.

La rete televisiva di cui Mazza era proprietario, aveva influenza?Accidenti se aveva influenza! Tant’è che l’hanno ammazzato. Facevano una rubrica ogni settimana e i politici venivano, scusate il termine, sputtanati, perché gli chiedevano, ad esempio: “tu perché non ritiri la spazzatura?” e quello non sapeva cosa ri-spondere.

Fin dove si spingeva con le sue inchieste?

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ANTONIOMAZZASi spingeva parecchio. Con Tele News fecero delle inchieste al termine delle quali i Carabinieri, per ordine della Procura, sequestrarono documenti al Comune e all’Ospedale di Barcellona. Si spingevano molto avanti, davano notizie reali.

Sono frequenti le minacce prima di un episodio di questo tipo?Probabilmente Mazza non lo hanno minacciato, hanno deciso di punto in bianco di farlo fuori. Lei, come Sostituto Procuratore, ha mai avuto problemi con la mafia?Sì, qualche problemino l’ho avuto. Ma l’avevo mes-so nel conto. È successo un fatto misterioso che denunciai: probabilmente una talpa negli uffici del tribunale. La sera prima della mia requisitoria an-dai in ufficio a studiare. La requisitoria è la richie-sta motivata del Pubblico Ministero alla Corte. Ho parlato quattro, cinque ore per dimostrare perché si doveva condannare Gullotti. Bene, la sera prima stavo preparando la scaletta, perché io parlo come sto facendo adesso, sempre a braccio, non leggo. Io allora avevo due telefoni, uno collegato al centralino e l’altro era una linea diretta, cioè c’era un numero telefonico riservato, forse non lo conosceva nem-meno il centralino, peraltro non usciva sull’elenco telefonico. A un certo orario, saranno state le sei e mezza o sette di pomeriggio, arriva la telefonata. Con un accento siculo molto carico, da film di mafia - ora uno ci ride, ma all’epoca … - uno sconosciu-to dice: “Lei è il Signor Minasi?” E io: “E lei chi è, cosa vuole?” “Ma lei è Minasi?” “Io non le dico chi sono, mi dica lei chi è” “Ah va bene, lei non mi vuole dire chi è”, e chiude. Come faceva a conoscere quel numero? Forse qualcuno della cancelleria, forse

aveva trovato il numero alla Telecom. Non ha fatto minacce esplicite, la mafia non fa cose molto elabo-rate, basta una telefonata, a volte baste un silenzio eloquente. Come faceva a sapere che ero in ufficio, dove di solito il pomeriggio non restavo? Evidente-mente mi avrà visto entrare, già si era fatto dare il numero e mi ha telefonato la sera prima della requi-sitoria, perché io capissi come dovevo comportarmi. La cosa mi ha ulteriormente caricato, per cui forse sono stato più arrabbiato e motivato di come non sarei stato normalmente. Ecco, per dire, i problemi. Certo, dopo questa telefonata e un velato attacco mi-natorio durante il processo, che mi fu fatto da uno dei difensori di Gullotti, mi diedero la scorta. Poco dopo, quando feci l’ordine di carcerazione e Gullotti finì dentro -fino a quel momento aveva passeggiato tranquillamente per Barcellona dopo essere stato assolto- successe un fatto difficilmente equivocabile. Io a quel tempo abitavo in una frazio-ne isolata di campagna, in una casa praticamente introvabile. La tutela mi riaccompagna, mi lascia a casa, dove c’erano le porte e le finestre blindate. Nell’andar via dal viale di ingresso trovano una macchina con quattro persone dentro. Le identifica-no e via radio scoprono che tutte e quattro sono di Barcellona. In particolare uno di loro era stato rin-viato a giudizio per mafia assieme proprio a Gullotti, quindi era un affiliato della sua banda. Chiedono che cosa facessero lì: “siamo tossicodipendenti, siamo venuti a bucarci”. Il poliziotto, un Sovrintendente della Polizia di Stato, chiede loro: “e dove sono le siringhe?” “Ce le siamo dimenticate” “Come? Voi partite da Barcellona, arrivate a 40 Km di distan-za e giusto qua sotto per bucarvi, guarda caso una settimana dopo che è stato arrestato Gullotti e vi dimenticate, però, la siringa e l’eroina da iniettarvi nelle vene?” Era evidente che i quattro erano venuti proba-bilmente autonomamente perché volevano “farsi belli” col loro capo per studiare i luoghi in caso di un’azione punitiva. Ecco, questi sono “piccoli” problemi. Naturalmen-te ho cambiato casa, sono andato a vivere in città. Però attenzione, il mio trasferimento è avvenuto dopo più di un mese, non perché non volessi, ma perché solo allora e per caso ho saputo di queste mi-nacce - perché di questo si trattava - quando è tor-nato di turno il Sovrintendente di Polizia che ave-va fatto la relazione di servizio. Egli mi disse “Ma come? Sta ancora lassù?”, “E perché non dovrei starci?”, “È pericolosissimo, se ne vada immedia-tamente”. Poi aggiunse “non dica niente, non dica niente ai miei superiori, perché si vede che non vo-gliono che lei lo sappia”. Ed era così, non volevano che io lo sapessi. Anzi, io mi ero accorto che da un certo tempo erano diminuiti i servizi di vigilanza radiocollegati che facevano nella zona: come dire ai mafiosi: se volete, accomodatevi, noi facciamo finta di non vedere. Ecco un esempio, purtroppo, di infil-trazioni nelle istituzioni. Io ovviamente, un po’ pre-

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occupato, protestai: feci un telegramma al Questore, al Ministro dell’Interno - a quell’ epoca Napolitano che nemmeno mi rispose, per la cronaca. Se ne fre-garono altamente, io capii l’antifona e me ne andai da quel posto solitario. Questi sono i piccoli proble-mi, cioè adesso mi sembrano piccoli, all’epoca…La giustizia fa sempre il suo dovere? No. Il caso di Alfano, un po’ quello di Graziella Campagna, ma forse anche quello di Mazza, sono la dimostrazione che la giustizia non sempre e non del tutto funziona. L’andamento del processo di Graziella Campagna fu chiaramente inquinato. Lo sostengo perché proprio io ho fatto la requisitoria in Appello e lo conosco bene dal di dentro. Fu tut-to messo a tacere perché le indagini sull’omicidio avrebbero fatto conoscere la situazione di coper-tura di cui godevano latitanti famosi nella zona di Villafranca e di Messina. Graziella Campagna, sen-za volerlo, era venuta, non dico a conoscenza - per-ché forse non se ne era neanche resa conto – ma si era imbattuta in questa situazione di copertura e di connivenze mafiose. La giustizia non aveva fatto il suo dovere. Purtroppo ci sono stati anche, lo dico con grande dispiacere, dei magistrati che frequen-tavano la nota masseria di Don Santo Sfameni e che attraverso aggiustamenti del processo avevano contribuito a non farlo andare avanti. È merito, lo ripeto, della trasmissione “Chi l’ha visto?” ma an-che, poi, dei magistrati che hanno ripreso in mano le indagini, le hanno portate avanti e sono arrivati fino alla sentenza di secondo grado che ha confermato l’ergastolo. Questo è un altro dei grossi problemi, la giustizia è vulnerabile. Se le leviamo le armi, cosa che oggi si sta facendo programmaticamente, que-sta è una cosa grave. Voi dovete chiedere conto di questo a chi ci governa. Perché ci levano le intercet-tazioni? Perché ci levano tanti strumenti? Il proces-so è diventato impossibile. Perché si danno tre anni di indulto? Per favorire Previti?

Cosa pensa della nostra democrazia?Ci stanno demolendo lo Stato. Io dico che ci stanno riducendo a uno stato non del terzo, ma del quar-to mondo. Nel terzo mondo vi assicuro, io conosco esempi, non sono ridotti come noi. Se voi andate in Tunisia, avete l’impressione di un paese molto più avanzato e civile dell’Italia. Noi siamo più ricchi perché abbiamo una tradizione economica diversa, eravamo una potenza industriale. Ci riduciamo a una colonia della mafia, in cui c’è paura di uscire per strada. Ci dobbiamo ribellare. Chi di voi è stato in una città del nord delle dimensioni di Messina, si sarà accorto che intanto non c’è circolazione pri-vata. Noi siamo abituati, o “costretti”, a prendere la macchina, come ho fatto io per venire qui. È assurdo e a noi pare normale. Cominciamo ad accorgerci di queste cose. Perché non ci sono più autobus a Mes-sina? Perché l’Atm, un po’ come l’Aias di cui si occu-pava Beppe Alfano, è una centrale di sistemazione di clientele mafiose e politiche, non è un servizio per

Daniele Molino

Come ogni estate nella villetta a Gianmoro, vicino Barcellona Pozzo di Gotto, un’oretta al mare e poi come tutte le sere i vicini di casa, con la solita briscola in quattro. Le facce dei vicini: scon-volte. Un corpo per terra… morto.Un Killer lo aveva ammaz-zato con due colpi di fucile e quattro di pistola. Lui era un bravo ingegnere, parlava liberamente.Siamo circondati dalla mafia e non sempre possiamo combatterla.

Antonino Giaimo, Anthony Diletti, Roberto Gentile

Per un attimo ci fu silenzio. Quel giorno era bellissimo ma si trasformò in una tragedia.Nessuno dei Barcellonesi ha partecipato ai tuoi funerali, la città stessa non ha dato il lutto cittadino. A Barcellona c’è molta paura, ci sono molte bugie, non tutti sono dei giusti.

i cittadini. Ribelliamoci a queste cose. Ci hanno fatto una legge elettorale per cui non possiamo sceglie-re nemmeno i nostri rappresentanti. Ribelliamoci a questa legge elettorale. Altro che presidenzialismo, siamo in un sultanato di basso profilo. Io sono stato in un sultanato, nell’Oman, i sultanati quelli veri, arabi, hanno un sacco di soldi, ma come sono ammi-nistrati? C’è un signore assoluto, come ormai da noi sta diventando il Presidente del Consiglio. E allora, che faccia il dittatore, ma che almeno amministri.

Cosa ci può dire di Antonio Mazza come uomo?Francamente non lo conoscevo, non lo conoscevo personalmente. Praticamente non lo conosce nes-suno, è un martire trascurato.

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VALANIDI

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11“Valanidi” è il nome di un quartiere della zona sud di Reggio Calabria e quello di un processo, conclusosi il 1 giugno 1998 con 23 ergastoli, che vide un centinaio di imputati accusati di svariati delitti tra cui omicidi, estorsioni, traffico dì’armi e droga “finalizzati allo scopo di acqui-sire in modo diretto e indiretto il controllo del terri-torio”. Gli imputati, distinti nel processo in ranghi ndranghetistici di: Capi della direzione strategi-ca, Santisti, Sgarristi, Camorristi, Picciotti e Gruppi operativi nei quartieri di Saracinello, Arangea e Croce Valanidi, avevano dato vita alle faide inserite nel contesto della cosid-detta “prima guerra di mafia” che sconvol-se Reggio Calabria tra il 1985 e il 1991.

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Antonella Bellocchio

Il nostro cammino inizierà dalla casa della vicina delle galline di mia nonna e finirà dove è stato piantato un cipresso tanti anni fa. Cammineremo tra le pietre di un deserto bianco, anche il suo guardiano è bianco. Poi incontreremo l’acqua, la più buona del mondo! Un giardino stregato e incantato, e rospi e grilli. Vedremo case abitate da cani e latitanti, agnelli e gatti e ragni. Passeremo sotto ciliegi scomparsi, cammineremo sull’arcoba-leno e dentro un passaggio segreto, dove si è nascosto il mare. E ancora una casa riemersa, e un bambino di pezza impiccato e ancora pietre e sassi. E poi ci aspetterà la meraviglia e noi ci fermeremo a guardare! ....e poi da qui l’orizzonte è molto più lontano...E

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Orsola Calabrò

Benvenuti a Reggio Calabria, 200 km di costa, un mare pulito (?) e pescoso, un panorama senza eguali al mondo, affacciata sullo Stretto con un clima unico e propizio: la natura le ha donato uno degli angoli più belli del mondo, l’uomo gliel’ha tolto.La provincia è caratterizzata da due fattori distintivi a cui soprattutto la gente che abita qui è talmente abi-tuata che quasi non ci si fa più caso: il mare con il suo fascino, i suoi colori e le sue

luci e la ndrangheta con il suo potere, i suoi affari e i suoi interessi.Benvenuti a Reggio Calabria, dove spiagge calde e lunghissime si alternano a suggestive scogliere, dove sopravvivono antichi me-stieri per alcuni dei quali la gente muore ogni giorno.Questo “cuore del Medi-terraneo” per bellezza e cultura è stato per secoli la culla della Magna Grecia e il luogo per eccellenza degli scambi commerciali, ruolo che conserva ancora oggi anche se non si commercia-no più manufatti e spezie ma droga, che procura ogni anno un fatturato di gran lunga maggiore di quello di una grande fabbrica al nord, altro che divario economico.Benvenuti a Reggio Calabria, dove il patrimonio

architettonico permette di ripercorrere i passaggi della storia antica ma non di quella attuale, visto che un commerciante che chiude la sua attività deve inventarsi presunti problemi di salute per non dover dire, nem-meno quello è permesso, di essere stanco di subire pressioni e dover dare la sua merce senza ricevere mai un soldo.Benvenuti sulle dolci cime dell’ Aspromonte, soggetto principale della provincia di cui domina gran parte del territorio, offrendo i suoi paesaggi come scenario di tranquille gite familiari e di numerosi rapimenti.Benvenuti a Reggio Calabria che a Nord-ovest abbraccia la Piana di Gioia Tauro con i suoi terrazzi verdi di oliveti, ricchi di agrumeti, casa-

prigione di moderni schiavi dalla pelle scura costretti a lavorare tutto il giorno per pochi euro.Benvenuti a Reggio Calabria, dove tradizioni storiche e culturali si sono mescolate alla religione e danno vita a processioni ed eventi folcloristici dove “portatori” d’eccezione tengono sulle spalle il Santo e nelle mani la vita delle persone.Benvenuti qui, dove a volte si ha l’impressione di vivere in un contesto socio-cul-turale diverso dal resto del mondo, dove la tradizione occidentale sembra non essere ancora arrivata dopo 2000 anni. Dove vigono leggi e regole particolari.Anche la lingua si riveste di accezioni semantiche uni-che da poterci quasi scrivere un dizionario Italiano-Cala-

Benvenuti a Reggio Calabria

In questa periferia dell’Italia la tv e i giornali arri-vano solo per docum

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brese: parole come giustizia e Stato hanno un significato diverso e “essere un uomo di pace” equivale ad essere un assassino, dove famiglia è sinonimo di relazioni malavitose e dove l’applau-so diventa connivenza e ammirazione non a chi fa del bene ma a chi ha fatto della sua vita un tripudio di illegalità.In questa periferia dell’Italia la tv e i giornali arrivano solo per documentare fatti negativi, per dare a queste zone 5 minuti di notorietà e poi lasciare nell’oblio il lavoro di chi ogni giorno co-struisce qualcosa di buono.Benvenuti a Reggio Calabria.BENVENUTI davvero a quei reggini che vogliono ricominciare a vivere, che sono portatori di sguardi accoglienti e che dimostra-

no il calore con gli abbracci e non incendiandoti il negozio. Benvenuto a chi sceglie di essere attore e non spettatore nello scena-rio della storia che scuote e interpella, a chi vuole restituire dignità alla nostra terra, dove 50 persone osannano un boss e 250 cantano alla libertà, dove la speranza si costruisce poco a poco e dove ancora si sogna che un giorno, come dice C. Alvaro, <<Dopo grandi calori una lieve rugiada pas-si sul mondo a inumidirne la sete.>>Sete che sarebbe già tanto che ogni reggino riuscisse anche solo a percepire.Solo il tempo conosce le risposte. Intanto, benvenuti a Reggio Calabria.

Kiran RomanòAnna Siclari

Camminando di notteLa capacità dell’essere uma-no è quello di intendere e volere, ma cosa spinge l’uomo a compiere determi-nate azioni di violenza a tal punto da uccidere un altro essere umano?È questa la domanda che ci siamo poste prima di leggere sentenze che si occupavano di storie di vittime.Ma tra queste, ce n’è una in particolare, una storia che ci ha colpito profondamente, il perché non lo sappiamo, forse perché era un giovane come noi, forse perché era un nostro vicino di casa, o forse perché siamo vittime dell’omertà in cui viviamo.Sono passati circa 20 anni dal quell’omicidio. 20 anni di silenzi, 20 anni in cui hai sempre guardato un luogo, il tuo luogo … è diverso da quello che era in quegli anni, oppure non è cambiato nulla?Ma realmente sono suc-cessi quegli avvenimenti? Leggendo la sentenza di un processo sul nostro paese, ci accorgiamo che proprio quel paese, dove tu sei cre-sciuta, dove hai passeggiato lungo le strade, scorciatoie e sentieri, dove tu saluti per strada la gente, dove tutti sanno di tutti, dove tu non sai invece niente di loro … ti accorgi che non è cosi.Eppure questo paese appare circondato da case private, una sopra l’altra o attaccate, da ville recintate, da una chiesa da cui prende il nome, da un cimitero che divide il paese in due parti uguali, da fornai, da supermercati, da insegne di edilizie, da pochi venditori, da un bar, da macchine lussuose che vedi sfrecciare o parcheggiate ai bordi della strada, da un grande parco con attrazione sportiva. Ma c’e qualcosa

che lo caratterizza, esso è colorato da tanto “verde”. Il verde, segno di speranza e di cambiamento.Poi ti accorgi che di notte, questo verde non si vede più, tutto il paese diventa “nero”, le strade di questo paese diventano nere, le case si vedono in penom-bra. Tutto appare fermo, desolato e triste.Ti accorgi anche che in re-altà questo paese è sempre in “movimento di giorno”, ma è una ruota che gira, “silenziosamente”, di notte, come se la “notte” custo-disse i segreti più nascosti di questo paese, e questi segreti, oggi, sono visibili dopo una morte ingiusta.L’uomo scavò la fossa per un’altra persona, ma non sapeva che la fossa la stava scavando dentro di sé. La fossa della sua morte, la morte della dignità umana.

Come burattino eseguì ordini. E come può l’uomo capace di tanto amore diventare capace di tanta crudeltà? Si muore così a piccole dosi e lentamente. Eppure tutti gli uomini vorrebbero il bene ma tendono al male e chi si lascia trasportare dal male.. oggi domani.. lentamente morirà. Una fossa che signi-ficati può avere? La fossa serve per mettere qualcosa o qualcuno dentro. La fossa è buia, non ha luci, nella fossa ci si può nascondere, ma non sarà mai un luogo di rifugio, perché prima o poi la luce verrà anche nel buio e allora tutto sarà chiaro e si sapranno le azioni malvagie. Prima o poi tutto viene fuori. Il cuore dell’ uomo è dunque come una fossa scavata da se stesso .. ma scegli tu cosa farci abitare.

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VALANIDI

Orsola Calabrò

Croce Valanidi è una frazione semi-sconosciuta di Reggio Calabria che dista 6,27 Km dalla città e fa par-te della XIII circoscrizione di Ravagnese, che è composta da più di 5000 famiglie con una maggioranza di donne rispetto agli uomini. Chissà se il fatto che gli uomini siano di meno sia perché qui nascono più femmine o semplicemente sia legato al fatto che qui meno di 20 anni fa c’è stata una delle guerre di mafia che ha causato più vittime a Reggio Calabria.Qui negli ultimi anni la popolazione è scesa più volte in piazza per prote-stare per la discarica che hanno comunque aperto o per la mancanza di acqua nelle abitazioni, ma mai si è nemmeno immaginato di dover dire una parola, figuriamoci di protestare, per quello che ha caratterizzato i suoi ultimi anni … quei pochi che parlano di mafia, lo fanno per dirti quanto sia sconveniente parlarne o

occuparsene.A Croce Valanidi c’è una scuola calcio frequentata da 350 bambini e con capien-za di 2500 persone,che vivono dunque quoti-dianamente questo paesino, ma di queste, chissà quante conoscono la storia che sto per raccontarvi…Da qui c’è una meravigliosa vista del mare e il rumore più caratteristico è quello delle campane della chiesa.Suonino esse a festa o intonino un mortorio, sono loro a scandire la vita che passa.Sono questi piccoli partico-lari gli unici capaci di aprire, con potenza sorprendente, una finestra sulle mille realtà che compongono il quadro di questo paese.La storia che sto per raccontarvi non è mai stata raccontata: nessuno si è mai occupato di capire ve-ramente cosa sia successo, e lo stesso processo i cui atti citeremo più volte, come “unica” voce a riguardo, non ha causato indignazione o sconcerto, semplicemente perchè è rimasto un fascico-

lo per gli addetti ai lavori. Forse in un posto normale questa storia avrebbe porta-to a una mobilitazione ge-nerale, a titoli sui giornali a speciali per la tv. Qui no, qui siamo in Calabria e l’abilità principale è far dimenti-care ciò che è scomodo, controllare anche il diritto di sapere, di conoscere.Questa è una storia assai strana, per dire la verità, in cui nessuno è quello che sembra e in cui si svolgono relazioni indecifrabili e am-bivalenti tra i personaggi.La storia che sto per raccon-tarvi, quella che non è stata mai raccontata, è possibile ricostruirla solo tramite gli atti di un processo e le dichiarazioni di un pentito.Croce Valanidi, nei primi anni novanta, vede la pre-senza di un clan, quello dei Latella, che si occupa della gestione e del controllo del territorio, ed è impegnata nella guerra di mafia che segna quegli anni, alleata ai “Ficareddi”, che passano dalla parte del clan rivale. In questa storia più grande entra Letterio Nettuno, un

ragazzino di 15 anni, che lavora come manovale nella ditta di uno dei “Ficareddi” ed è, secondo quanto dichiarato nel processo, in rapporti con esponenti del clan mafioso di Croce Valanidi e, come dichiara lo stesso padre, è già solito consumare furti.Tutto inizia il 5 Gennaio 1991 con la denuncia del padre di Letterio per la scomparsa del figlio avve-nuta il giorno prima. Ma non vi sembri strano: Croce Valanidi è un poco distratta, a volte perde i suoi figli senza rendersene conto, li lascia là sul ciglio della strada e dopo un secondo non sono più. Anche senza sparare per le strade le vittime cadono in silenzio, a volte per colpe più grandi di loro.Il padre, dicevamo, che ha ritrovato la vespa del ragaz-zo regolarmente parcheg-giata, si è accorto insieme alla moglie che lì accanto vi erano tracce lasciate dalle gomma di un’autovettura.Sempre il padre racconta ai Carabinieri come sia

Se quel giubbottino di pelle fosse solo un’anomalia

di un giorno freddo di Gennaio e non uno dei segni

di riconoscimento del corpo di un ragazzino di 15

anni ormai disfatto dalla calce?

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probabile che il figlio sia stato rapito a causa della partecipazione a un atten-tato contro un esponente della cosca dei Latella in cui, sapremo dopo, Letterio era sospettato di aver fatto da basista. Un semplice sospetto che però gli era costato la vita.Continuando a scorrere la denuncia si legge come Letterio, vestito in jeans, maglione verde e giubbotto di pelle scura, nonostante il freddo di Gennaio, si fosse recato con la sua vespa 50 a comprare dei giornali e non fosse più tornato.I genitori si rivolgono anche al famoso programma “Chi l’ha visto?” e arrivano in studio ben due segnalazioni che ammettono di aver visto il giovane a Milano e Brindisi, indicando esatta-mente i vestiti di Letterio. Un segno di speranza o l’ennesima crudeltà?Croce Valanidi è un paesino di sole ma è attraversato da quella linea d’ombra tra ciò che si vede e ciò che è tra le persone per bene –tante- e quelle che hanno scelto altro e soprattutto scelgono

per gli altri…Sì, perché la decisione di sequestrare ed eliminare il giovane era già stata presa, il piano per rapirlo e farlo confessare già pianifica-to: ecco perché uscire a comprare i giornali, azione normale e banale, diventa l’ultimo atto da uomo libero di questo ragazzo.Viene fermato dalla paletta della polizia, è costretto a salire su una macchina, i segni delle cui frenate i genitori avevano notato, portato presso una casa vicino a cui già era stata scavata la buca in cui sa-rebbe stato sepolto. Viene interrogato e torturato con schiaffi, pugni e mozziconi di sigarette e confessa di aver partecipato all’attentato e di aver ricevuto 200.000 lire per il suo “servizio”. L’ammissione di colpa non era necessaria e basta un colpo alla gola inflitto da un paletto, meno rumoroso di una pistola, per mettere fine alla vita di Letterio. La scena successiva vede la sepoltura e il corpo del giovane ricoperto di calce viva per occultarne i resti.

Resti successivamente spostati in un altro luogo, tra quei campi un giorno immacolati o adibiti a colti-vazioni che in poco tempo hanno lasciato spazio alle varie costruzioni, in uno strano accostamento di case modeste e ville sfarzo-se che lascia all’osservatore quella sensazione di avere davanti un cantiere sempre aperto.La ricostruzione degli eventi è legata alle dichiarazioni di un pentito a cui questi fatti sono stati raccontati da chi li ha eseguiti, in particolare l’assassino materiale del delitto, riconosciuto dal processo come Giovanni Puntorieri, perseguitato a lungo da incubi e ricordi legati a questo delitto.Ed è allo stesso Puntorieri, quasi per uno scherzo brutale della sorte, che il padre di Letterio si rivolge per avere notizie del figlio, non ricevendo alcuna informazione ma solo la stretta della stessa mano che aveva spezzato la vita del ragazzo.Per molto tempo la vicenda di Letterio è rimasta

nell’oblio, fino all’apertura del processo e alla prova del DNA sui resti trovati nel luogo indicato dal pentito. Accertamenti in un primo tempo vietati ai genitori, dal carcere, da quegli stessi che avevano impedito anche il ritrovamento del corpo ai genitori e una sepoltura al ragazzo.È ampiamente provato nel processo che l’uccisione di Nettuno si inseriva nella “guerra di mafia” tra opposti schieramenti per ragioni di supremazia, che la vita di questo ragazzo insomma era la pedina di un gioco più grande di lui e dei suoi 15 anni.A rendere ancora più strana questa storia giunge notizia dal carcere che all’attentato da cui è partito tutto Letterio non aveva partecipato, secondo quanto dichiarato da chi ne era uno degli esecutori e che quindi il sospetto su cui si è consu-mata la sua vita potrebbe essere infondato.A Croce Valanidi passano due linee di autobus, entrambe ogni giorno attra-versano luoghi che hanno

fatto da sfondo a ciò che vi ho raccontato. Nell’incrocio di luoghi e di volti che cam-biano e dipingono il tempo che passa, rimangono sospese delle domande: e se il protagonista di questa storia fosse nato altrove? Se avesse conosciuto Croce Valanidi solo per la scuola calcio o per la parrocchia? Se quel giubbottino di pelle fosse solo un’anomalia di un giorno freddo di Gen-naio e non uno dei segni di riconoscimento del corpo di un ragazzino di 15 anni ormai disfatto dalla calce?Queste domande, forse, non avranno mai un ri-sposta, ma lasciano aper-ta una necessità: quella di rimanere se stessi, di non rassegnarsi sotto il peso schiacciante della Storia, per non dimenticare cosa è stata la “sconosciuta” e “non nominata” ndran-gheta nella tranquilla Croce Valanidi, qui dove le strade, nonostante le colate di asfalto, portano ancore in sé le impronte del sangue, segni di una storia per lungo tempo dimenticata.

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Paola MalaraTrovo spesso difficoltà a spiegare dove abito a persone poco pratiche della periferia di Reggio Calabria. I punti di riferimento sono sempre: la fine dell’autostra-da, prima che diventi strada statale 106, la rotatoria attorno alla quale si sono stabiliti l’edicola di Giorgio, il fruttivendolo e un negozio Unieuro quasi ormai in disuso e poi una salita da seguire. “Sempre avanti” dico. Le case, a parte la villa “Ciclo-pe”, sono tutte sulla sinistra. Un centro scommesse aper-to da poco, una showroom di arredamento, una piccola macelleria Sisa, una scuola elementare, un tempo anche un asilo, il cimitero. A destra, oltre la strada, oltre i giardini che fino a trent’anni fa erano coltivati ancora con contratti di mezzadria, corre il letto quasi sempre asciutto di una fiumara. Una

fiumara che ha nascosto e nasconde spazzatura, ma non solo. Che potrebbe raccontare tutta la storia del paese dalla sua nascita, ma si fermerebbe con omertoso timore prima di raccontare cosa ha dovuto vedere tra il 1985 e il 1991, gli anni della seconda guerra di mafia.Continuando “sempre avanti” la strada che percorre Croce Valanidi, puoi trovare agglomerati di case popolari, un ufficio delle poste, un enorme parco con campi da gioco a cui un famoso calciatore ha dato il nome, dove giocano quotidianamente ragazzi di ogni età, ragazzi normali, ragazzi – semplicemente – vivi. Poi c’è una chiesa che avrebbe dovuto essere un teatro, una chiesa che è stata motivo di scandalo per gli abitanti del paese che avrebbero voluto vedere restaurata la loro chiesetta

dei poveri, invece di vedersi “trasferiti” altrove. E fuori dalla porta della chiesa, un elenco di nomi che segue il titolo “gruppo operativo” ha qualche elemento in comune con un’altra lista, di un altro “gruppo operativo” - di una cosca, questa volta - che si può leggere tra gli atti di un maxiprocesso che vide indagate 99 persone per crimini di mafia. È la Sentenza Valanidi, una raccolta di macabre storie con la medesima ambientazione, i medesimi personaggi principali e po-che variazioni sui secondari. Storie che si è cercato di dimenticare a forza, storie che hanno toccato un po’ tutti, nel paese, storie che non devono essere raccontate. Quella di Letterio è solo una delle tante. È Giovanni Riggio, pentito e collaboratore di giustizia, a rompere il segreto. “Mi confessò di sognarlo

spesso, e aveva ribrezzo di se stesso”, dice Riggio davanti ai giudici, parlando dell’esecutore materiale del delitto. Che cosa sognava Puntorieri? Cosa aveva quella vittima di più delle tante altre?Certamente aveva molti anni in meno: Letterio era un ragazzo di 15 anni appe-na, ma già conosciuto tra i clan della zona. Era solito rubare negli appartamenti, dava grane assieme ai suoi coetanei, ubbidiva a chi lo pagava meglio. Ed è probabilmente solo per questo motivo, che si ritrovò a fare da basista nell’at-tentato contro Giovanni Ficara, il gioielliere, il primo attentato nella storia della mafia in cui venne usato un bazooka, per strada, in pie-no giorno, con le macchine che passavano. Un piano perfetto nel quale Letterio aveva il solo compito di star nascosto e dare il segnale

È scritto nelle leggi degli uomini d’onore: chi at-

tenta alla vita di un boss, deve essere scuoiato com

e un maiale. Sulle leggi degli uom

ini d’onore, però, è scritto anche che i ragazzini non si posso-no toccare. Qual è l’onore?

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al momento giusto. Un piano fallito miseramente, considerando che né il boss venne ucciso, né il ragazzo rimase nascosto: era stato riconosciuto. È scritto nelle leggi degli uomini d’onore: chi attenta alla vita di un boss, deve essere scuoiato come un maiale. Sulle leggi degli uo-mini d’onore, però, è scritto anche che i ragazzini non si possono toccare. Qual è l’onore? Letterio venne a lungo inseguito, costretto a fermarsi con l’inganno di un posto di blocco, trascinato via dalla sua vespa, una mattina di Gennaio che non erano ancora finite le feste, mentre aveva addosso un maglioncino verde e dentro le tasche caramelle. Tre uo-mini sopra un ragazzino di 15 anni. “Devi dirci i nomi”. “Devi dirci tutto quello che sai”. Ci sarà stata una furia

rabbiosa negli occhi di chi lo ha interrogato, lo ha tor-turato, gli ha spento i moz-ziconi di sigarette sul corpo, lo ha tenuto immobilizzato con uno spuntone di legno alla gola. Ci deve essere stata per forza, una rabbia furiosa, per annientare la pietà, la commiserazione, l’angoscia per quel ragaz-zino che anche se le cose le sapeva se le sarà fatte strozzare in gola dal pianto, dal terrore. Chissà se in quel momento non ha deside-rato, nell’istante prima di soffocare davvero, di essere un ragazzo normale, dove normale non significa “omo-logato al sistema vigente”, oppure di vivere in un luogo in cui il “sistema vigente” non è il potere mafioso. Normale, semplicemente vivo, in un...Com’era nei sogni di Pun-torieri quel ragazzo? Vivo o

morto? Riggio racconta ancora, aiu-ta gli investigatori a ritrovare quel che resta del corpo del ragazzo, in un casolare, sot-to 70cm di calce: ben poco. Qualche ciocca di capelli, qualche frammento di ossa. Il resto è disciolto, sparito, confuso al cemento. La madre non avrà neppure una tomba su cui pian-gerlo. La madre che aveva chiamato, illusa, “Chi l’ha visto”, che aveva mandato il marito a chiedere notizie proprio all’assassino. Saranno passati davanti agli occhi dell’uomo d’onore quei sogni, mentre rispon-deva che non ne sapeva nulla? “Nelle tasche gli cercavamo pizzini” continua il pentito.Ma nei giorni dell’Epifania, cosa ci vuoi trovare in tasca, a un ragazzino?

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12Peppino Impastato nacque a Cinisi (Palermo) il 5 gennaio 1948.Si ribellò ben presto alla cultura mafiosa a cui apparteneva la sua fa-miglia. Le tante attività sociali e culturali con cui si opponeva alla cultura della mafia e dell’omertà culminarono con la fondazione di Radio Aut nel 1977, con cui si denunciavano gli affari illeciti delle cosche e la corruzione nel territorio. Nella notte tra l’8 e il 9 maggio 1978 Peppino fu ucciso e fatto saltare in aria sui binari della ferrovia. Nel 1992 il caso Impastato venne archi-viato. Dopo istanze e petizioni da parte della famiglia e del Centro Impastato l’inchiesta fu riaperta nel 1996. Il 5 mar-zo 2001 la Corte d’Assise ha condannato Vito Palazzolo a trent’anni di reclusione e l’11 aprile 2002 ha comminato l’ergastolo a Gaetano Badalamenti.

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Intervista a Giovanni Impastato

di Alessandra Passantino Belli, Marzia Bonomo, Salvo Bertolino, Flaviano Brusca, Michelle Casamento, Emanuele Ferrante, Loredana Longino, Vin-cenzo Megna, Giuseppe Mulè, Angela Romeo, Elena Scelta (Istituto Profes-sionale di Stato per l’Industria e l’Artigianato “Enrico Medi” – Palermo)

09-12-2009 Casa Memoria, Cinisi

Qual era il suo rapporto con Peppino?Fra me e Peppino c’era una notevolissima differenza di età che si fece sentire soprattutto in quel periodo e in quella fase generazionale in cui lui iniziò la sua lotta alla mafia a Cinisi. Cinque anni sono tanti e spesso non è

facile capirsi. Quando è morto aveva solo trent’ anni e io venticinque. Quando ho cominciato a frequenta-re il suo ambiente, i suoi amici, avevo soltanto venti anni. Poi noi eravamo completamente diversi, ave-vamo due caratteri diversi. Lui era molto coraggio-so, molto più spregiudicato di me, molto più intra-prendente. Io cercavo, invece, di comportarmi bene e di non creare tensioni. Si litigava spesso insomma. Io avevo molta più paura di lui di fronte ad alcune cose. Il periodo più impegnativo, per esempio, è sta-to quello del “Circolo Musica e Cultura”. Peppino aveva sfruttato mezzi di comunicazione inediti per quel periodo: la musica, il teatro, l’arte, il cinema. E in quel contesto era un piacere stare con lui. È stato

un momento di crescita culturale per tutti. C’erano dibattiti e c’era molto entusiasmo. Io ho frequentato il circolo in modo molto intenso, ma tra noi i conflitti rimanevano.

Siete cresciuti comunque insieme…Peppino veniva sbattuto spesso fuori di casa e non c’era quindi la possibilità di vivere l’emozione del fratello maggiore vero e proprio. Capitava che lo in-contrassi fuori, era più un amico, perché non viveva-mo il nostro affetto all’interno delle mura familiari. Ero a disagio quando Peppino veniva buttato fuori da casa da mio padre. In quel momento mi mancava una forma di protezione, mi mancavano gli affetti.

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All’interno della mia famiglia si creavano contrasti forti, non c’era la possibilità di relazionarsi in ma-niera serena. Spesso mi dava fastidio questo, vede-vo Peppino come responsabile di questa atmosfera familiare. Anche io ero in conflitto con mio padre, ma al contrario di Peppino cercavo di mantenere un minimo di rapporto per evitare quella rottura netta che invece Peppino causava.

Quando Peppino ha rotto davverocon la famiglia?Tutto è scoppiato dopo la morte dello zio Cesare Manzella. Peppino in quel momento voleva capire, chiedeva, faceva tante domande. Io ero piccolo. Un

altro momento di rottura è stato quando ha fonda-to il giornale “L’idea so-cialista”. Io ero piccolo, ero molto affascinato da lui. Lo vedevo come un vero rivoluzionario. Sul giornale, per esempio, lui affrontava il problema del sesso. Eravamo nella Sicilia degli anni sessan-ta. E Peppino fece proprio un’inchiesta sul sesso. Rileggendo ora quelle pagine si vede come era riuscito a operare una grande rottura per quel tempo. “L’idea sociali-sta” era realizzata con la macchina per scrivere e poi veniva ciclostilata, poi si spillavano i fogli e si distribuiva per il paese. Il giornale parlava di mafia e politica, ma non solo. Tornando alla mia famiglia, tutto era molto difficile. Molto. Io condividevo in pieno le idee e le scelte poli-tiche di Peppino, ma spesso non approvavo i metodi: lo scontro diretto con la mafia, senza mezzi termini, con rischi altissimi. Avevo paura di questo scontro diretto. Anche se oggi capisco che è il metodo più incisivo e diretto. Ma io allora ero un ragazzino. Non avevo una coscienza ideologica e politica come quel-la che ho adesso. Allora non avevo i mezzi culturali e politici per potere affrontare il problema. Lui dif-fondeva volantini con nomi e cognomi dei mafiosi. Io

avevo paura. Alla radio poi faceva lo stesso. Quando è morto nostro padre, io ero preoccupato. Dicevo a Peppino di fermarsi perché il pericolo era enorme. Nostro padre era una protezione per Peppino, era un mafioso, amico di mafiosi, morto lui il pericolo per Peppino era grande. Prima di uccidere Peppi-no hanno dovuto uccidere mio padre simulando un incidente stradale. Mio padre non ha mai avuto un ruolo di primo piano, come per esempio Tano Bada-lamenti, ma era comunque un mafioso.

E lei cosa pensava di suo padre?Non andavo d’accordo con mio padre, non condivi-devo le sue scelte. Ma non avevo intenzione di pro-

“Lui diffondeva volantini con nomi e cognomi dei mafiosi. Alla radio poi faceva lo stesso. Quando è morto nostro padre, io ero preoccupato. Dicevo a Peppino di fer-marsi ... Nostro padre era una protezione per Peppino, era un mafioso, amico di ma-fiosi, morto lui il pericolo per Peppino era grande. Prima di uccidere Peppino hanno dovuto uccidere mio padre simulando un incidente stradale. ”

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PEPPINOIMPASTATO

esempio, ha affrontato davvero la mafia, ha fatto ridere tutto il paese alle spalle dei mafiosi. E sa-rebbe senz’altro stato eletto al consiglio comunale se non l’avessero ucciso. Lui cresceva, poi quando hanno visto che faceva sul serio, lo hanno ucciso. Oggi la stessa cosa accade con noi, con il lavoro quotidiano di Casa Memoria. Noi vogliamo che Ci-nisi si liberi dalla cultura mafiosa. E ci sono per-sone che lentamente condividono le nostre scelte, anche se magari non hanno il coraggio di esporsi. Ma la maggioranza del paese ancora oggi non ha realmente capito chi era Peppino Impastato. Per questo è importante avviare un percorso costante con le scuole che possa fare crescere gli studenti. I ragazzi devono acquisire una coscienza anti mafio-sa molto forte. La storia di Peppino oggi è attuale, anzi è avanti rispetto a oggi, perché molti militanti politici non hanno ancora capito quello che Peppi-no aveva già capito trenta anni fa.

all’ultimo anno del liceo. Era delle Marche e aveva deciso di lavorare con il padre, di fare l’imprendito-re nella fabbrica di scarpe della famiglia. Poi, inve-ce, ha conosciuto la storia di Peppino attraverso il film e i libri e tutto per lui è cambiato. Il suo futuro insomma. Ci siamo incontrati dopo molti anni e mi ha raccontato che stava per laurearsi in legge. Oggi è un giudice. Ma in fondo ogni lavoro portato avanti con onestà può cambiare le cose. In Calabria avevo conosciuto una ragazza che pensava di fare l’inse-gnante da grande, ma poi ha approfondito la storia di Peppino, ha fatto la tesi di laurea su di lui. E oggi lavora come giornalista in un importante quotidia-no della Calabria per dare un contribuito alla verità. L’ho vista fino all’anno scorso e mi ha intervistato. Mi sono emozionato. Lei è diventata una giornali-sta. Ha fatto strada. Questi sono i nuovi Peppino. E ce ne saranno tanti altri ancora, che io non conosco.

Come era visto Peppino a Cinisi?E oggi invece cosa pensa la gente del paese di lui?Era considerato una scheggia impazzita. Ma nell’ul-timo periodo, prima della sua morte, stava comin-

ciando ad aumentare i suoi consensi. Forse per questo è stato ucciso. La gente lo vedeva come un rompiballe, uno animato dall’euforia giovanile, che si comportava come un pazzo. Ma lui a poco a poco ha cominciato a fare cose di grande interesse e la gente cominciava a capire. Ha partecipato alle lotte contadine, si batteva contro il lavoro nero, ha ten-tato di organizzare i disoccupati del paese. La sua era un’antimafia che partiva dal basso, dal sociale. La gente non lo tollerava per alcune cose. Non veni-va capito in questa realtà. Perché gli argomenti che affrontava erano molto distanti dalla cultura della gente. E poi c’era una classe politica che cercava di isolarlo, perché Peppino poteva mettere davve-ro in difficoltà il loro percorso politico basato sugli interessi personali. Per questa forma di ribellione e di anticonformismo veniva visto dalla gente come un diverso. Ma molti giovani lo seguivano grazie anche al lavoro con la radio. Con la sua ironia, per

vocare una rottura e tentavo di mediare. Ero picco-lo, non avevo una personalità già formata. Non ero dalla parte di mio padre, ma da quella di Peppino, ma con delle divergenze molto forti. Peppino ha vis-suto in un periodo preciso: la guerra del Vietnam, le rivolte studentesche e operaie, le stragi, il sessan-totto. Lui è cresciuto in quel contesto. E poi era un grande appassionato di musica, di teatro. Era figlio di quel tempo. Il tempo in cui nasceva il rock e c’era-no i primi raduni musicali. Peppino, per esempio, ha organizzato un raduno nella spiaggia Magaggiari di Cinisi. Iniziava ad ascoltare i primi cantautori ita-liani come Tenco, De Andrè e Claudio Lolli. Peppino cresceva anche attraverso la musica.

Secondo lei ci potrà mai essere un altrocome Peppino?Quello era un periodo molto diverso, ma anche oggi ci sono ragazzi molto impegnati che hanno una spinta emotiva forte per lottare e andare avanti. Oggi si è consapevoli che bisogna fare rete e che non bisogna fare gli eroi solitari. Ricordo, per esempio, che una decina di anni fa ho incontrato un ragazzo

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Per lei cosa è cambiato nella mafia da ieri a oggi?Negli anni quaranta, nel periodo delle lotte conta-dine, subito dopo la costituzione della prima Re-pubblica, si veniva dall’esperienza della resistenza anti fascista. C’è stato uno scontro molto forte in quegli anni. Il movimento contadino si è scontra-to con gli agrari e i feudatari perché lo stato ave-va approvato la legge, la famosa riforma agraria, che spartiva in parte equa le terre. Ma non veniva rispettata. La mafia nasce lì con il gabelloto, l’in-termediario tra gli agrari e i contadini. Il gabello-to poi divenne il mafioso che rubava agli agrari e sfruttava i contadini. C’è stata la strage di Portella della Ginestra dove sono stati uccisi di contadini. Una settimana prima per la prima si vota in Sicilia e vincono le sinistre, espressione di questo grande movimento contadino. Dopo la strage c’è il silenzio totale da parte dello Stato. La riforma agraria che doveva far crescere la Sicilia non viene applicata. I contadini vengono buttati sul lastrico. E dopo venti anni abbiamo dalla Sicilia un esodo biblico, più di un milione di persone va via. L’emigrazione. Sono andate via molte intelligenze, gente capace che do-veva costruire il futuro dell’Isola. Da lì un grande degrado sociale, morale e culturale. A questo punto la mafia ha un ruolo determinante per bloccare la crescita della nostra terra. Negli anni sessanta la mafia ha cambiato strategia. Da mafia agricola è diventata urbana. Poi la guerra di mafia, e la ma-fia stragista che si scontra con lo Stato. Poi hanno arrestato i grandi boss. Ma credo che forse è sta-ta sconfitta la mafia militare, ma è rimasto intatto l’apparato della borghesia mafiosa. Questo appara-to garantisce ancora oggi un’accumulazione illega-

le. Oggi i mafiosi sono gli imprenditori, gli avvocati, i medici. Che magari si organizzeranno in modo militare. Oggi la mafia è riuscita a inserirsi all’in-terno del sistema politico. Una borghesia mafiosa parassitaria. I centri commerciali, il riciclaggio, le banche. C’è un sistema di potere politico legato a loro. Certo non è vero che tutti i politici sono ma-fiosi, non dobbiamo mai entrare in una fase di ras-segnazione. Ma purtroppo attorno a me vedo tante persone rassegnate. Che non cercano la verità, che non ne hanno bisogno. In questo modo si spalanca-no le porte alla mafia. E finiamo per assomigliare a loro. Dobbiamo selezionare una classe politica più dignitosa. Poi c’è la cultura mafiosa. E dipende da noi crescere, capire, informarci. Abbiamo lo stru-mento del voto per cambiare le cose. Comunque la mafia c’è.

Perché lei non entra in politica?Perché il ruolo che svolgo in questo momento è più importante di entrare in politica. Il mio ruolo è parlare con i ragazzi e andare nelle scuole. Portare avanti una battaglia dal basso. Così è più efficace se-condo me combattere la mafia.

Ma suo fratello, invece, stava tentando una car-riera politica?Sì. Ma la mia scelta è diversa. Sono uno dei pochi che con l’antimafia ci ha rimesso. Ho trascurato la mia attività, la mia famiglia. E vado avanti così.

Come sarebbe stato se non ci fosse stato Peppino?Sarebbe stato tutto diverso. Non ci sarebbe stata Casa Memoria.

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Intervista a Salvo Vitale

Amico e compagno di Peppino Impastato

Cosa ricorda di Peppino?Peppino era un grande comunicatore. Nel 1998 l’Ordine dei giornalisti l’ha riconosciuto come giornalista, uno degli otto uccisi dalla mafia in Sicilia. E poi fondò “L’idea socialista”, anche se ne uscirono solo cinque numeri. Il sindaco allora ci denunciò, perché il nostro giornale non aveva un direttore responsabile iscritto all’Ordine dei giornalisti. Noi neanche ci pensavamo a queste cose, volevamo dire la nostra e basta. Peppi-no usava molto lo strumento del comizio e i manifesti scritti a mano. Con il tempo scoprì che anche con la musica si poteva fare politica, per cui cominciammo a fare i concerti e abbiamo creato proprio un circolo,

“Musica e cultura”. Tutto questo in un paese mor-to. Noi cominciammo a proiettare film, a sentire musica di un certo tipo, a suonarla, a fare dibatti-ti. Il circolo era formato da 150 persone, anche da ragazzi, figli di mafiosi, giovanissimi, che magari volevano distaccarsi dalla loro famiglia. Poi venne la radio, a Terrasini, ci sentivano fino al Golfo di Castellamare. Si chiamava “Radio Aut”, una radio di controinformazione. Il discorso della comunica-zione nel caso di Peppino è fondamentale. La no-stra radio funzionava in modo diverso dalle altre, si faceva musica di un certo livello. Mandavamo i Pink Floyd, i Genesis. E poi cercavamo notizie fra la gente: i pescatori di Cinisi, gli operai. Poi c’era

anche “Onda pazza”, una trasmissione satiro-poli-tico-schizofrenica, in cui improvvisavamo in base alle idee portate da Peppino su Cinisi e da me su Terrasini.

Con la radio attaccavate la mafia?Noi smorfiavamo le situazioni che capitavano in paese, cambiavamo un po’ i nomi per non farci de-nunciare. Una volta abbiamo immaginato di essere in un villaggio indiano e il grande capo era “Tano Seduto”, ossia Tano Badalamenti, il boss. Peppino faceva satira politica e prese per il culo tutti de-nunciando gli interessi mafiosi che c’erano dietro alle cose. E i mafiosi tutto possono sopportare tran-

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ne essere presi per il culo, il mafioso si sa è uno di “rispetto”. Mancare di rispetto a don Tano era pericoloso. Perché lui non era un mafioso qualsiasi, e tale è rimasto nella storia della mafia. Intorno al 1970 ha deciso di creare la cupola, l’organizzazio-ne di Cosa Nostra. E con i dieci capi mandamento della Provincia di Palermo si spartiva il controllo del territorio. Un vero e proprio governo della ma-fia. E Badalamenti rimarrà a capo di questa cupola dagli anni Settanta al 1978. A questo punto Bada-lamenti viene spodestato, prima da Michele Greco e poi da Totò Riina. A Cinisi tra gli anni Ottanta e l’’84 ci furono 42 morti. Tutti i parenti di Badala-menti furono uccisi, Riina fece piazza pulita. Nel 1985 lo beccarono in Spagna a organizzare la “piz-za connection”. Venne arrestato negli Stati Uniti e fu condannato a 45 anni per traffico di droga. In Italia con due anni sarebbe stato fuori. Morì poi in galera negli Stati Uniti.

Cosa ricorda della morte di Peppino?Peppino decide di candidarsi alle elezioni comu-nali e cinque giorni prima del voto lo fanno salta-re in aria sui binari della Palermo-Trapani. Io ho ben presente quello che si disse allora. Per i Cara-binieri era saltato in aria da solo nel tentativo di mettere una bomba. In quel momento diventammo tutti compagni di un terrorista. Era il giorno in cui trovarono morto Aldo Moro. A quel punto ci siamo messi a fare le indagini noi stessi. Siamo andati sul posto, siamo andati a raccogliere i brandelli del suo corpo. La sua macchina era là, nessuno si è preoccupato di rilevare impronte. In un casolare lì vicino poi abbiamo trovato delle pietre sporche di sangue, ma ci sono voluti ben nove mesi per ar-rivare alla verità che Peppino era stato ucciso in quel casolare e poi messo a esplodere sui binari. La prima volta chiusero il caso come “omicidio per mano di ignoti”. Dopo un processo di quattro anni Badalamenti viene condannato come mandante dell’omicidio di Peppino, questa è l’unica condanna che ha avuto in Italia. Sul corso di Cinisi c’è la famosa casa dei “100 passi”, la casa di Badalamenti che noi come Associazione abbiamo chiesto in affidamento. Ma non l’abbiamo ancora ottenuta perché dicono che non è stata acquistata con i soldi della mafia. C’è una causa in corso. Speriamo di avere questa casa perché vorremo farci una biblioteca con tutti i libri di Peppino, un posto per fare antimafia in maniera seria. Chissà se si realizzerà. Ho questo sogno, poi potrò morire in pace.

Alla fine la verità ha trionfato…Quello che ha coinvolto Peppino alla fine può con-siderarsi un fatto di mafia che si è risolto positiva-mente. Perché, anche se dopo tanti anni, l’assassi-no è stato punito. Ci sono, invece, molti altri casi in cui non si trovano neanche gli assassini. O come il

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caso di Placido Rizzotto per cui gli assassini ven-nero liberati durante il processo per insufficienza di prove. Addirittura avevano confessato. E disse-ro che lo avevano fatto sotto tortura da parte dei Carabinieri. Che prima vennero condannati e poi assolti. Ma allora dov’era la verità? Di casi come questo ce se sono tantissimi. E se siamo arrivati alla verità è anche grazie alla madre di Peppino, Felicia Bartolotta. Una donna coraggiosissima. È anche per lei che voi siete qui. Lei diceva sempre che la sua casa era piena di gente a differenza di quella di Badalamenti che era sempre chiusa. Alla sua morte come testamento ha lasciato detto di tenere aperta questa casa. Dopo la morte di Pep-pino fu la prima a costituirsi parte civile. Sono so-lito raccontare un episodio. Come sapete le donne siciliane quando muore qualcuno della famiglia si vestono a lutto e non escono di casa. Lei, invece, cinque giorni dopo la morte di Peppino si fece ac-compagnare da sua nuora Felicetta a votare per suo figlio candidato che anche da morto fu eletto consigliere comunale a Cinisi. Questo voleva dire che in fondo la balla che Peppino era un attentatore non se l’erano bevuta in paese. Felicia ci ha sempre stimolato ad andare avanti con la sua ferma inten-zione di volere giustizia. Lei non voleva vendetta. E gli Impastato se la potevano fare la vendetta. Ma lei non la voleva. Decide piuttosto di rivolgersi al magistrato per chiedere giustizia. Credere nella giustizia è necessario, le istituzioni sono importan-ti. La scelta della mamma di Peppino è stata quella della legalità. Certo abbiamo dovuto aspettare ven-tiquattro anni. Credere che attraverso la legalità si può costruire uno Stato diverso è giusto.

E la gente di Cinisi che pensa di tutto questo?Se giri in paese e chiedi dove si trova la casa di Peppino magari ti dicono “Chi è Peppino?”. Perché qui alla gente non gliene frega niente di Peppino. Vengono da tutto il mondo per sentire la sua storia e poi e magari le scuole di Cinisi non vengono a tro-varci. Esistono i mafiosi, gli antimafiosi e gli indif-ferenti. Ecco a Cinisi ce ne sono molti di indifferen-ti. E siccome Peppino non era omogeneo a questo sistema, la gente non lo riconosceva come concit-tadino. Peppino con Cinisi non c’entrava niente. Sì, ogni tanto aveva delle crisi e voleva mollare tutto, ma alla fine andò sempre avanti.

Ci può raccontare proprio il giorno in cuiè morto Peppino?Verso mezzanotte, dopo averlo aspettato invano per ore decido di andare a letto. L’indomani mat-tina alle 6,30 mia madre mi sveglia e mi dice che Peppino nel tentativo di mettere una bomba lungo la ferrovia era saltato in aria. Ero sconvolto. Poco dopo arrivano a casa mia alcuni compagni da Ci-nisi e mi dicono “ammazzarono Peppino”. A cento metri da casa mia c’era la radio. Vado alla radio con gli altri ragazzi, togliamo un po’ di cose, le re-gistrazioni delle trasmissioni le abbiamo salvate, poi i documenti e andiamo sul posto in cui Peppino era stato ucciso. Non ci fanno passare. Poi ci hanno convocato tutti in caserma, stranamente a me no, ma molti altri sì. Furono interrogati per tre, quat-tro ore. Cercavano i compagni del terrorista. Noi ci sentiamo smarriti. Nel primo pomeriggio arriva la bara con i resti di Peppino. Dietro la bara spunta un po’ di gente. Abbiamo trovato una gamba e qualche

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altro frammento di corpo. Per Peppino arrivaro-no da tutta la Sicilia. I suoi funerali sono stati la prima manifestazione antimafia della Sicilia. Non eravamo soli. C’era una certa solidarietà, da parte del movimento che una volta faceva capo a “Lotta continua”, un movimento extra parlamentare.

Qual è, invece, l’ultimo ricordo cheha di Peppino?Era il primo maggio. Lui era in paranoia perché al-cuni ragazzi avevano organizzato uno “schiticchio” in campagna e non lo avevano invitato. Era in radio più nero della pece, allora lo ho invitato a casa mia per distrarlo. Ma lui era incazzato nero, ce l’aveva con questi compagni.

Lei ha mai ricevuto delle minacce perla sua attività antimafia?Quattro mesi dopo la morte di Peppino, un tipo che non vedevo da tanto tempo mi invita a cena da lui, la cosa mi coglie di sorpresa. Finita la cena mi dice “attento ai bambini quando escono da scuola, che magari non li trovi più”. L’indomani ho noleggiato un camion e me ne sono andato a vivere a Partini-co. Questa è stata l’unica intimidazione che ho rice-vuto. I mafiosi prima ti fanno “scantare”, ti taglia-no le gomme della macchina, ti avvisano. Peppino, invece, non ebbe nessun avviso.

E lei ora ha paura?Avere paura è normale, umano.

Ha mai pensato di arrendersi?No, perché i mafiosi cercano di farti smettere per evitare che le cose cambino. Fa parte della nostra cultura l’idea di non cambiare, un po’ come scrive Tomasi di Lampedusa nel “Gattopardo”. Pensate per esempio cosa sarebbe la Sicilia se non si pa-gasse più il pizzo. In questi ultimi anni stanno na-scendo delle forme di ribellione, c’è una legge che protegge chi denuncia. E i mafiosi stanno capendo che se perdono questa battaglia perdono una parte importante della loro forza, del loro potere. Dobbia-mo andare avanti così.

L’associazione è ancora in attesa dell’affidamentodel bene di Gaetano Badalamenti.

Il laboratorio con i ragazzi è cominciato nel mese di novembre. Dodici ragazzi hanno chiesto di partecipar-vi dopo la conferenza stam-pa di apertura del progetto. Era stato già deciso che si sarebbe lavorato ad un laboratorio di scrittura dedi-cato ed ispirato alla figura di Peppino Impastato. L’obiet-tivo - a pensarci adesso mi sembra veramente un obiettivo lungimirante – era quello di abbattere i muri interiori creati dalla famiglia, dal contesto sociale, dai condizionamenti di un certo sostrato culturale che con-dizionano le esperienze, il vissuto, il modo di pensare di molti ragazzi, che ne limi-tano e deformano il modo di sentire, di osservare e valutare, non rendendoli veramente liberi di riflettere ed esprimersi secondo altre possibilità. Quel muro che Peppino era riuscito ad abbattere trovando non solo la morte, ma anche la possibilità di dare un senso profondo ed un valore unico alla propria vita. Gli incontri presso la scuola e le due visite a “Casa memoria” di Cinisi, dove i ragazzi hanno potuto conoscere, attraverso la testimonianza diretta del fratello, la storia di Peppino Impastato, il più delle volte a loro nota solo attraverso il film “I Cento passi”, hanno costituito un vero e proprio esercizio di libertà. Durante le attività svolte a scuola in Aula Magna il luogo stesso si trasformava perché al suo interno si creavano spazi e momenti di libertà che lo ridefinivano. La possibilità di “giocare” rivedendo e riorganizzando i propri spazi e movimenti

in un costante riferimento al rapporto libero con l’altro, di comunicare su più piani e con l’utilizzo di più codici, di decostruire e reinventare assieme delle storie ha aperto un varco ad altre possibilità di osservare ed interpretare la realtà ed i vissuti personali. Da questo esercizio sono nati i dieci racconti, storie a volte brevi ed ingenue, a volte più sentite e complesse dalle quali tuttavia traspare una visione della vita, in alcuni

casi, radicalmente trasfor-mata, una trasformazione che non sempre si riesce a raggiungere durante le attività svolte in aula. La speranza è che il tempo non faccia di nuovo deposi-tare al fondo tutto ciò che è stato o che potenzialmente

riflessioniavrebbe potuto essere espresso, che ha trovato un piccolo varco per emergere e che deve essere costan-temente coltivato, non solo a scuola.

Lucia Corsaro.

“...La speranza è che il tempo non faccia di nuovo deposita-re al fondo tutto ciò che è stato o che potenzialmente avrebbe potuto essere espresso...”

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PEPPINOIMPASTATOLoredana Longino

Qual è la mafiaNell’immaginario collettivo mare, fichi d’india, arance, coppole, riportano in modo ormai naturale all’idea di Sicilia.Un’associazione romantica e riduttiva che se da un lato ne esalta le bellezze natu-rali e le atmosfere popolari e folcloristiche del fascino isolano della gente sicula, dall’altro lato non coglie la vera essenza e le infinite sfaccettature di un popolo che la storia spesso ha penalizzato politicamente ed economicamente tanto da ridurne il valore nella definizione “problema del mezzogiorno”.Così, da sempre, è stata percepita questa meravi-gliosa terra che ha dovuto condividere la sua identità culturale e solidale con un’entità meschina e distruttiva qual è la mafia, termine questo, che con lupara e omertà è diventato ingiustamente l’elemen-to caratterizzante della sicilianità nel mondo, quindi l’essere siciliani è diventato nel tempo un marchio di di-sonestà e arretratezza civile che ha radicato in tanti il preconcetto delle diffidenze e del non rispetto verso il popolo di quest’isola.Ma se il fenomeno mafioso è una realtà radicata di questa terra è pur vero che questo male non ha mai infettato la totalità della gente, la quale vive profondamente e in modo innato i valori della famiglia, dell’ospitalità, dell’attacca-mento alle proprie radici, del lavoro e dell’amore per l’arte nonché la buona cucina e la gioia di vivere.La vera cultura siciliana è questa e trova la sua mas-sima espressione nel senso dell’onore e del coraggio che è intrinseco nello spirito di quest’isola.

La storia, infatti, ci ricorda che la lotta dolorosa contro questo “cancro” è stata caratterizzata dal sacrificio di tantissimi siciliani “ser-vitori dello stato” e gente comune che con fermezza si è opposta al tentativo di invasione devastante di questo male nel tessuto sociale. Peppino Impastato, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino non sono che tre dei tantissimi siciliani martiri ed eroi morti per onorare e rendere giustizia a questo popolo e a questa terra, offesi e umiliati da parassiti feroci estranei alla madre terra che li ha generati.È difficile spiegare a chi non vive questa realtà cosa vuol dire convivere con questo male che serpeggia e pro-lifera intorno a noi. Troppo spesso ci si accusa di omer-tà non riflettendo sul fatto che milioni di siciliani sono estranei alla mafia e vivono la quotidianità nella legalità, lavorando e alimentando le aspirazioni e i sogni di ogni essere umano che crede nei valori della vita. Solo in contesti particolari questo male viene percepito e rico-nosciuto in figure, famiglie o gruppi che risiedono in un determinato territorio ma con i quali non si instaura mai un rapporto sociale, non considerandoli come componenti del proprio vis-suto, sono solo protagonisti di una cronaca sanguinosa ed entrano nella nostra vita solo attraverso i mezzi di informazione o attraverso l’uccisione, il ricatto e la persecuzione subita da qualcuno che c’è vicino.Allora, improvvisamente, ci si rende conto che la mafia siciliana non è un incubo ma una concreta e vera minaccia… (…)

racconti Alessandra

Passantino Belli

Un sogno di libertà(…) Molti devono farci i conti tutti i giorni. Alcuni lo combattono, altri si girano dall’altra parte facendo finta di niente. Avete capito bene, il fenomeno in questione è la mafia.Minacce nei confronti di povera gente che cerca di far fronte alla già difficile vita aprendo delle piccole attività commerciali. Molte persone che perdono la vita nel tentativo di far trionfare la giustizia e spazzare via questo fenomeno...Non capisco cosa ci sia di bello nel maltrattare la gente che ha una visione diversa rispetto alla vita di questi “uomini”. Non capisco come si può per-mettere a qualcuno che non sa niente di noi di poter decidere sulla nostra vita e, in alcuni casi, anche sulla nostra morte.(…) Alcuni rispondono con definizioni molto vaghe, altri guardano come se si dicesse qualcosa di strano, altri ancora continuano a parlare tra loro…Ci può essere una soluzione per fermare questo orrendo fenomeno che con il tempo miete sempre più vittime innocenti? L’inizio di qualcosa che si spera possa realmente cambiare la situazione e rendere tutti più liberi, più liberi di poter circolare tranquillamente per le strade della città…TUTTI devono sapere cosa succede, TUTTI devono lot-tare, TUTTI devono cambiare il loro modo di pensare per poter dire finalmente che la mafia è stata realmente sconfitta.“Ragazzi come voi in lotta contro la mafia” “Noi non siamo mafiosi, siamo persone!” “Vogliamo giustizia non la mafia!”

Dobbiamo continuare a lottare, dobbiamo lottare per tutta la gente che ogni giorno riceve minacce e ricatti, per chi è morto per difendere i propri ideali o per farsi ascoltare, dobbia-mo combattere per tutti ma in modo particolare per noi stessi.

Angela Romeo

Volere giustizia inve-ce che vendettaPensavo che la vendetta facesse parte della mia vita. Che se qualcuno sbagliava con me dovevo vendicarmi. Soprattutto se si trattava di un amico. Vendicarsi per me era il modo più giusto per fare valere i miei diritti. Ho capito che mi sbagliavo (…)

Emanuele Ferrante

Un giorno la mafia finiràGiovanni fa parte di un gruppo che lotta per il cam-biamento sociale e culturale che sa di avere contro la criminalità e sa che è difficile combattere contro la mafia. La maggior parte della gente del loro paese è mafiosa. (…) È la storia di ragazzi che nel loro piccolo hanno cercato di migliorare l’avvenire…La mafia un giorno non sarà più il grave problema che è oggi, non sarà più oggetto di studio nelle scuole e questa brutta parola sarà dimenticata.

Flaviano Brusca

La differenza unisce(…) I ragazzi cominciarono a spintonarlo e a insultarlo, lo ricoprirono di parolacce e, infine, lo minacciarono: “Se non ti ritiri da scuola, ti pestiamo e ti rendiamo la vita impossibile”. Un giorno

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durante il tragitto, lui si accorse che uno dei suoi aggressori, stava subendo a sua volta un’aggressione da due teppistelli. La voglia di voltarsi dall’altra parte era davvero tanta, ma la sua bontà d’animo non glielo permise e si catapultò in soccorso del suo compagno (…)

Gaetano Spadaro

La mafia chiede il pizzoLa storia ha inizio a Paler-mo, precisamente in Piazza Politeama, una piazza centrale e molto grande della città dove i giovani si riuniscono. Al proprietario di un bel negozio con un’atti-vità ben avviata, iniziarono ad arrivare gli avvertimenti dalla MAFIA. Di mattina, all’orario di apertura, colla nei lucchetti del negozio, perché si rifiutava di pagare il pizzo. Il padrone del ne-gozio denunciò la Mafia con coraggio sapendo a cosa andava incontro. Ma non ottenne niente. La Mafia gli bruciò quel negozio lus-suoso e così bello, costruito con tanta fatica, lasciando solo un cumolo di cenere. La Mafia si trovava ovunque e il mondo senza prepoten-za non esisteva. Sull’orlo del fallimento. Stava per chiudere. Non potevano pagare i dipendenti con la Mafia che pretendeva sem-pre soldi (…) La famiglia nonostante tutto, continuò a vivere con la speranza che i figli e i figli dei figli potesse-ro crescere in un mondo mi-gliore di quello in cui loro avevano vissuto.

Salvo Bertolino

Far sentire lapropria voce(…) Con il tempo cominciò a guardare le cose da un’al-

tra prospettiva e cominciò a capire chi fosse lui e che certamente suo padre non lo aiutava in un modo le-gale. Con sempre maggiore consapevolezza scoprì molti altri suoi loschi affari. Cercò quindi di far ragionare suo padre, ma non ebbe alcuna risposta, il padre continuava a ripetergli che tutto ciò era stato fatto per lui, che se non gli andava bene poteva anche andarsene di casa, ma non sarebbe più stato privilegiato in altra maniera. Era arrivato il momento di dover decidere chi era adesso. In quei giorni non faceva altro che pensare alla decisione da prendere. Da un lato voleva ribellarsi, ma dall’altro lato non voleva mandare il padre in galera. Passavano le settimane, ma lui era sempre più confuso, ormai questo peso diventava sempre più grande e non gli permetteva più di parlare, di respirare, di vivere, anche se mai come allora si sentiva nel pieno passaggio della sua vita per poter decidere autonoma-mente, per poter scrutare i fatti ed esprimere suo giudizio tranquillamente, senza essere influenzato da nessuno. Dinnanzi a sé aveva due strade. Sapeva che una era sicuramente quella giusta. Non era una strada qualunque, ma una strada da percorrere per tutto l’arco della sua vita, senza la possibilità di poter tornare indietro. Intraprese quella strada. Era la via più giusta da prendere per avere una vita sua, non sapeva se sarebbe stata una vita migliore, ma la sentiva sua. Cominciò la sua battaglia ma iniziò pian piano a non sentire più quel peso che per mesi l’aveva tormentato. Passò molto tempo, ma riuscì a dimostrare le ingiustizie che il padre aveva commesso in quei lunghi anni, quelle

ingiustizie che non aveva visto perché era cresciuto con esse. Col tempo la sua voce si faceva sempre più robusta e facendo sentire la propria voce aveva trovato la sua vita.

Elena Scelta

Sono una ragazza di paeseSono una ragazza di paese, vivo a Corleone, un paesino vicino Palermo. (…) La mafia per me è un gruppo di gente ignorante che crede di comandare tutto e tutti, non pensando mai a quanto dolore e a quanta sofferenza possano provocare nella vita degli altri. L’onore, per loro, è solo tutto ciò che non tradisce la famiglia. Spero solo che un giorno la mafia scompaia dall’esistenza della terra e che tutte le persone del mondo trovino pace e sere-nità per sempre. (…)

Marzia Bonomo

Lottare per un sogno(…) Nonostante tutti gli ostacoli della vita, io sono riuscito sempre ad andare avanti con i miei sogni e la forza di andare avanti. Mia madre per difendermi fu an-che picchiata e maltrattata. La mia infanzia non fu una delle migliori perché non l’ho vissuta come desidera-vo, cioè come i ragazzi della mia età. La mia vita è stata un po’ combattuta, ma io ho sempre cercato di fare vincere il mio sogno, la mia passione, che mi da la vita.

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A MANILIBERE

DUEMILADIECI

a cura diMaria Ficara

Provincia diReggio Calabria

PoliticheGiovanili

RegioneCalabria

Provincia Regionale di

Messina

Comune diReggioCalabria

Prefettura diReggio Calabria

Provincia diVibo

Valentia

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Progetto grafico e Dtp:Tiziana Brisotto

Renato Ravenda

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Stampato a Giugno 2010 da:www.grafoeditor.it

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