2005_luglio

8
AMANI Porta il tuo cuore in Africa Anno V, n. 2 – Settembre 2005 Spedizione in A.P. D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) Art. 1 comma 2, DCB Lecco L’Etiopia non merita questo www.amaniforafrica.org di Andrea Semplici* In ottantanove anni, dal 1916, pri- mo anno della reggenza di Hailé Selassié, l’ultimo dei Negus, fino ad oggi, l’Etiopia ha conosciuto – con l’eccezione dei cinque anni di occupazione italiana – solo tre pa- droni. Oltre Hailé Selassié vi ha re- gnato il dittatore Mariam Hailé Menghistu, il Negus Rosso, il mag- giore dell’esercito che nel 1974 lo detronizzò e, un anno più tardi, lo uccise. Nel 1991, Melles Zenawi entrò in Addis Abeba alla testa di una ri- bellione nata nella lontana regio- ne del Tigray e spodestò Menghi- stu. L’ex guerrigliero, dopo quat- tordici anni, è ancora al potere. In Etiopia, tutti sembrano ag- grappati al trono imperiale. A onor del vero, Zenawi ha avuto tre conferme elettorali, ma le ul- time elezioni, nel maggio scorso, sono state un voto di sangue. San- gue, in gran parte, degli studenti dell’università: protestavano con- tro i presunti brogli elettorali del governo. Polizia ed esercito han- no sparato: almeno 36 morti nel- la battaglia dello scorso giugno, oltre tremila gli arresti. L’Eprdf (Ethiopian People Revolutionary Democratic Front), la coalizione dei partiti filogovernativi, ha vin- to le nuove elezioni: 302 seggi (se- condo dati provvisori) su 547, ma il risultato è stato contestato in 299 circoscrizioni. Le urne sono comunque state una sorpresa. Nel- la capitale, la doppia coalizione anti-Zenawi, due fronti che rag- gruppano 19 partiti di opposizio- ne, ha trionfato in tutte le 23 cir- coscrizioni. I risultati elettorali e la crisi di sangue che ne è seguita sono lo specchio dell’Etiopia, la raffigu- razione di un paese spezzato e dan- nato: 70 milioni di abitanti, spe- ranza di vita sotto i 46 anni, la metà della popolazione analfabe- ta, l’80% che vive con meno di due dollari al giorno. Ma in armi vi so- no 160mila soldati, mentre i me- dici sono appena tre per 100mila abitanti, poco più di duemila in tutto. Eppure l’Etiopia è uno dei più an- tichi regni della storia dell’uma- nità, erede di una tradizione leg- gendaria (Hailé Selassié era il due- centoventicinquesimo successore del figlio della regina di Saba e di re Salomone). E può vantare l’u- nica, vera vittoria di un esercito africano contro le armate colo- niali: Adwa, 1896, contro l’Italia. Un passato che non serve contro la povertà, contro le carestie: da al- meno tre anni l’aiuto alimentare di emergenza è diventato un abi- tudine. Il governo lancia ricorrenti appelli (quest’anno, a marzo, per sfamare 250mila bambini) e la co- munità internazionale si mette in movimento. Tonnellate di cereali (eccedenze canadesi, statuniten- Chi s’è messo in tasca il Pil di Anna Pozzi pag 2 Lo Spunto Appetito da elefante di Boukari Ouangraoua pag 4 News News Tutti connessi… a che cosa? di Diego Marani e Zachary Ochieng pag 5 Gesù è come mia nonna di Renato Kizito Sesana pag 7 Fuori dall’ombra Zauditù, Kimpa Vita, Pokou… Sovrane, profetesse ed eroine del passato iniziano ad essere meglio conosciute. Regine che ci parlano della donna africana oggi pag 3 Adozioni “Donne leader di Bamako” del fotografo maliano Seydou Keita a pag. 2 © Contemporary African Art Collection Limited / Corbis

description

Porta il tuo cuore in Africa Lo Spunto Adozioni pag2 di Diego Marani e Zachary Ochieng www.amaniforafrica.org di Boukari Ouangraoua di Andrea Semplici* pag 4 pag 5 pag 7 di Anna Pozzi di Renato Kizito Sesana Spedizione in A.P. D.L.353/2003 (conv.in L.27/02/2004 n.46) Art.1 comma 2, DCB Lecco Anno V,n.2 – Settembre 2005 “Donne leader di Bamako”del fotografo maliano Seydou Keita a pag. 2 © Contemporary African Ar t Collection Limited / Corbis

Transcript of 2005_luglio

Page 1: 2005_luglio

AMANIPorta il tuo cuore in Africa

Anno V, n. 2 – Settembre 2005Spedizione in A.P.

D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46)Art. 1 comma 2, DCB Lecco

L’Etiopia non merita questo

www.amaniforafrica.org

di Andrea Semplici*

In ottantanove anni, dal 1916, pri-mo anno della reggenza di HailéSelassié, l’ultimo dei Negus, finoad oggi, l’Etiopia ha conosciuto –con l’eccezione dei cinque anni dioccupazione italiana – solo tre pa-droni. Oltre Hailé Selassié vi ha re-gnato il dittatore Mariam HailéMenghistu, il Negus Rosso, il mag-giore dell’esercito che nel 1974 lodetronizzò e, un anno più tardi, louccise. Nel 1991, Melles Zenawi entrò inAddis Abeba alla testa di una ri-bellione nata nella lontana regio-ne del Tigray e spodestò Menghi-stu. L’ex guerrigliero, dopo quat-tordici anni, è ancora al potere.In Etiopia, tutti sembrano ag-grappati al trono imperiale.A onor del vero, Zenawi ha avutotre conferme elettorali, ma le ul-time elezioni, nel maggio scorso,sono state un voto di sangue. San-gue, in gran parte, degli studentidell’università: protestavano con-tro i presunti brogli elettorali delgoverno. Polizia ed esercito han-no sparato: almeno 36 morti nel-la battaglia dello scorso giugno,oltre tremila gli arresti. L’Eprdf(Ethiopian People RevolutionaryDemocratic Front), la coalizionedei partiti filogovernativi, ha vin-to le nuove elezioni: 302 seggi (se-condo dati provvisori) su 547, mail risultato è stato contestato in299 circoscrizioni. Le urne sonocomunque state una sorpresa. Nel-la capitale, la doppia coalizioneanti-Zenawi, due fronti che rag-gruppano 19 partiti di opposizio-ne, ha trionfato in tutte le 23 cir-coscrizioni. I risultati elettorali e la crisi disangue che ne è seguita sono lospecchio dell’Etiopia, la raffigu-razione di un paese spezzato e dan-nato: 70 milioni di abitanti, spe-ranza di vita sotto i 46 anni, lametà della popolazione analfabe-ta, l’80% che vive con meno di duedollari al giorno. Ma in armi vi so-no 160mila soldati, mentre i me-dici sono appena tre per 100milaabitanti, poco più di duemila intutto.Eppure l’Etiopia è uno dei più an-tichi regni della storia dell’uma-nità, erede di una tradizione leg-gendaria (Hailé Selassié era il due-centoventicinquesimo successoredel figlio della regina di Saba e dire Salomone). E può vantare l’u-nica, vera vittoria di un esercitoafricano contro le armate colo-niali: Adwa, 1896, contro l’Italia.Un passato che non serve controla povertà, contro le carestie: da al-meno tre anni l’aiuto alimentaredi emergenza è diventato un abi-tudine. Il governo lancia ricorrentiappelli (quest’anno, a marzo, persfamare 250mila bambini) e la co-munità internazionale si mette inmovimento. Tonnellate di cereali(eccedenze canadesi, statuniten-

Chi s’è messo intasca il Pildi Anna Pozzi

pag 2 Lo Spunto

Appetito da elefante di Boukari Ouangraoua

pag 4 News News

Tutti connessi… a che cosa?di Diego Maranie Zachary Ochieng

pag 5

Gesù è come mia nonnadi Renato Kizito Sesana

pag 7

Fuori dall’ombraZauditù, Kimpa Vita, Pokou…Sovrane, profetesse ed eroine del passato iniziano ad essere meglio conosciute. Regine che ci parlano della donna africana oggi pag 3

Adozioni

“Donne leader di Bamako” del fotografo maliano Seydou Keita

a pag. 2

©C

onte

mpo

rary

Afr

ican

Art

Col

lect

ion

Lim

ited

/ Cor

bis

Page 2: 2005_luglio

2 AMANI

si, europee) arrivano sugli alto-piani etiopici. Sono milioni (cin-que? sei?) i contadini che dipen-dono, quasi per abitudine, dagliaiuti occidentali. Paese dannato: da almeno otto se-coli – dalla conquista del trono im-periale, attorno al 1200, da partedi quella che sarà conosciuta comela dinastia negussita – a oggi, nes-suna generazione di etiopici hamai conosciuto la pace. Il miraco-lo del 1991 (la caduta di Menghi-stu. l’indipendenza dell’Eritrea,la concordia, nuova e improvvisa,fra Addis Abeba ed Asmara) è du-rato solo sette anni: prima di unanuova, insensata guerra. «15 mi-lioni di contadini condannati allapovertà», come ha calcolato LloydAxworthy, ex ministro degli este-ri canadese, inviato speciale del-l’Onu nella regione, sono la con-seguenza diretta di questa guerrafratricida scoppiata nel 1998, e fi-nita nel limbo di una tregua chenon sa trasformarsi in pace, fraEtiopia ed Eritrea. Un imperatore feudale, un tiran-no che si proclamò socialista, unex guerrigliero che ordina di spa-rare sugli studenti: è un destinocomune quello che sembra allac-ciare i tre padroni dell’Etiopia, uo-mini di potere così diversi fra lo-ro. Hanno dovuto e devono tene-re assieme un paese immenso.Hailé Selassié e Menghistu cerca-rono di mantenere il controllo del-la Grande Etiopia con i carri ar-mati. Ma il loro regno fu corrosodall’indipendentismo eritreo. Ze-nawi (solo due tigrini nella storianazionale hanno comandato unpaese da sempre in mano a un’é-lite amhara, etnia dominante frai padroni dell’Etiopia) ha cercatola strada di un coraggioso, ma am-biguo federalismo etnico; il paese,però, oggi rischia di sfuggirgli dimano. Ha già perso Addis Abeba, cittàdella burocrazia amhara e dei sen-za speranze. Ma anche città deicampus universitari di Arat Kilo,il Quarto Chilometro. Zenawi do-vrebbe conoscere bene gli studen-ti della capitale: lui, nato nella lon-tanissima Adwa, ha studiato me-dicina qui. Sa bene che furono loro,oltre i militari, ad accendere lamiccia che fece esplodere la dina-mite sociale sulla quale si illude-va di regnare Hailé Selassié. Do-vrebbe sapere che gli alleati più in-quieti della sua ribellione, dalleradici filomaoiste, contro la ti-rannia di Menghistu, furono pro-prio gli studenti. Ma furono anco-ra loro, quattro anni fa, a far scric-chiolare il suo potere: la guerracon l’Eritrea (non vinta e non per-sa) aveva riaperto ferite mai cica-trizzate, e gli studenti provaronoa dare una spallata al nuovo regi-me. Anche allora finì nel sangue,con oltre duecento morti nelle stra-de di Addis Abeba.Come oggi: gli studenti, classe in-tellettuale in un paese di contadi-ni analfabeti, sono l’innesco delletensioni sociali che, a cicli, ri-esplodono, attraversando con vio-lenza un paese antico e bellissi-mo. Che meriterebbe un ben altrodestino.

Lo Spunto

Chi s’è messo in tasca il Pildi Anna Pozzi*

Progetti

Kivuli Street Children Project, un progetto educativo nato dall’iniziativa deigiovani della comunità di Koinonia, che a Nairobi accoglie e sostiene i bam-bini di strada di due grandi baraccopoli della capitale. Il Centro Kivuli accoglie in forma residenziale 60 bambini di strada cu-randone la crescita e l’educazione, copre le spese scolastiche di altri 70bambini ed è aperto con vari progetti animativi a tutti i bambini del quar-tiere. Kivuli è diventato un punto di riferimento per i giovani e per gli adulti, conun progetto di microcredito, laboratori artigianali di avviamento profes-sionale, una biblioteca, un dispensario medico, un progetto sportivo, unlaboratorio teatrale, una sartoria, un pozzo che vende acqua a prezzi cal-mierati, una scuola di lingua, una scuola di computer e uno spazio sededi varie associazioni, aperto a momenti di dibattito e confronto per i gio-vani del quartiere.

Casa di Anita, una casa di accoglienza sorta a N’gong (piccolo centro agri-colo a 30 km da Nairobi), curata da tre famiglie keniane, inaugurata nell’a-gosto 1999. La Casa di Anita accoglie 30 bambine di strada, alcune orfanee altre figlie di famiglie poverissime, vittime di abusi sessuali, inserendolein una struttura familiare e protetta, permettendo una crescita affettiva-mente tranquilla e sicura.

Mthunzi Centre, un progetto educativo realizzato dalle famiglie della co-munità di Koinonia di Lusaka (Zambia) a favore dei bambini di strada. Il Centro Mthunzi, oltre ad accogliere 60 bambini di strada in formaresidenziale curandone la crescita e l’educazione, è un punto di riferimentoper la popolazione locale, con il suo dispensario medico e con i suoi labo-ratori di falegnameria e di avviamento professionale.

Riruta Health Project, un programma di prevenzione e cura dell'Aids, nel-le periferie di Nairobi, in collaborazione con Caritas Italiana.

Un progetto di emergenza a favore della popolazione delle Montagne Nu-ba e del Nilo Azzurro Meridionale, provate dalla guerra e da quindici anni diisolamento, che consiste nell’invio di aiuti (sale, medicinali, attrezzi da la-voro, materiale scolastico, vestiti e sementi) per la sopravvivenza della po-polazione locale, e nell’accoglienza di rifugiati a Nairobi.

Due scuole primarie sui monti Nuba che garantiscono l’educazione di ba-se (l’equivalente della formazione elementare e media in Italia) ai bambinidella zona circostante, in assenza di altre strutture scolastiche. Attualmen-te ognuna delle scuole ha circa 600 alunni. Il progetto include anche una scuo-la magistrale per selezionare e formare giovani insegnanti nuba (circa 50ogni anno) in modo da riattivare la rete scolastica autogestita dalle popola-zioni della zona.

News from Africa, un’agenzia di informazione mensile prodotta interamen-te da giovani scrittori e giornalisti africani, che raccoglie notizie e articoli diapprofondimento provenienti dai paesi dell’Africa subsahariana per poi dif-fonderle in tutto il mondo per via telematica e cartacea.

Africa Peace Point, organizzazione laica e apolitica che si prefigge la realizza-zione di iniziative popolari per la costruzione e la diffusione di una cultura dipace nelle comunità africane; la sede è a Nairobi, dove APP si è dotata di uncentro di documentazione e ha creato uno spazio in grado di ospitare forum,sessioni di formazione sulla pace e incontri tra gruppi di base.

Amani People Theatre, una compagnia di giovani attori che lavorano per unacultura di pace utilizzando il teatro per la mediazione di conflitti, con performancee rappresentazioni nei campi profughi del Kenya e nelle comunità di base.

Geremia School, una scuola di informatica che fornisce una formazione pro-fessionale di qualità, nell’ottica di contribuire a colmare il digital divideNord/Sud.

Dicono che l’Africa stia finalmente crescendo. Dicono che nel 2004 ilPil del continente è aumentato in media del 5,1% e che l’inflazione siè stabilizzata – sempre in media – sul 7,5%. Dicono anche che si trat-ta di segnali molto positivi. Ma allora che dire del 46% degli africaniche continua a sopravvivere con meno di un dollaro al giorno? Circa316 milioni di persone che vivono al di sotto della cosiddetta soglia dipovertà, che sopravvivono a stento nonostante i risultati record di al-cune economie nazionali. Un caso per tutti – estremo eppure emble-matico – è la Guinea Equatoriale, che nel 2004 è cresciuta del 34%,senza che la popolazione se ne sia accorta.Fa pensare il fatto che a crescere sia soprattutto l’Africa centrale,con una media del 14,4%. Ovvero i paesi con le maggiori ricchezzeminerarie e i minori livelli di democrazia. Anche in questo caso, laGuinea Equatoriale fa scuola. Il suo presidente Teodoro ObiangNguema, al potere dal 1979, è uno degli ultimi “dinosauri” d’Afri-ca, e non ha alcuna intenzione di mollare proprio ora che anche luiè stato travolto dalla “benedizione” del petrolio. È stato accusato dipesanti violazioni dei diritti umani, di sottrazione di fondi, di man-tenere la popolazione in condizioni di estrema povertà, senza risor-se né libertà. Lui se ne infischia. E può permetterselo, visto che go-de dell’appoggio – della complicità – delle compagnie internaziona-li che con il petrolio offshore di quest’isoletta al largo del Golfo diGuinea ci vanno a nozze. Gli esempi si potrebbero moltiplicare. Solo poco più a sud, l’Angoladi Eduardo dos Santos è cresciuta dell’11%, uno dei tassi più alti delcontinente. Nulla di cui stupirsi, se si pensa che il paese esce da qua-si trent’anni di guerra civile. Lo scandalo è che durante tutto questotempo il governo, presidente in testa, ha sempre fatto affari d’oro conil petrolio. Un capitolo a sé lo meriterebbe la Repubblica democrati-ca del Congo. Ma anche in Sudafrica, complesso e sfaccettato faro delcontinente, la crescita economica non può essere letta in bianco e ne-ro. In tutti i sensi. Stando ai dati, essa è costante anche se non cla-morosa; ma se li leggiamo con una lente più “umana”, allora vienefuori che chi si arricchisce sono pochi, pochissimi e, ancora oggi, so-prattutto bianchi. L’Africa che cresce del 5% è una bella notizia, spiace doverla ridi-mensionare. Ma non si tratta di ribadire le solite lamentele – o di rei-terare i soliti cliché – bensì di richiamarci alle nostre responsabilità:per esempio quelle legate all’aiuto allo sviluppo. John Matshikiza, gior-nalista sudafricano che compare anche sulle pagine di Internaziona-le, faceva notare di recente come le iniziative per alleviare la povertà

rappresentino una delle industrie più grandi al mondo. Così come leconferenze internazionali in cui si discute, in lussuosi alberghi, di co-me combattere la fame. «Almeno qui – commenta ironico Matshiki-za – si crea qualche posto di lavoro con la produzione di voluminosipacchi di documenti che dicono poco o niente, e di uniformi semprepiù fantasiose per hostess che non hanno idea di ciò di cui si parla».

*Anna Pozzi, redattrice di Mondo e Missione, ha lavorato al rilancio del settimanale cat-tolico L’Effort camerounais. È autrice di Made in Africa.

da pag. 1 L’Etiopia non merita questo

Il petrolio innaffia soprattutto chi ha la mano sui rubinetti.(Nella foto d’archivio: un nuovo pozzo in Siberia)

©B

ettm

ann

/ Cor

bis

*Andrea Semplici è giornalista. Colla-bora con numerose testate, tra cui Airo-ne, Altreconomia e Linus. È autore delleClupGuide Etiopia ed Eritrea.

Page 3: 2005_luglio

3AMANI

Dossier

Lorenzo

di Pier Maria Mazzola*

URegine d’Africa

Teneree forti

Tra donne africane e storia c’è una relazione complessa. Ce ne accorgiamo anche solooccupandoci di principesse…

na principessa? Se lo di-ce lei, difficile dubitarne. La figura,il portamento, sono il ritratto diquello che uno immagina quandosi dice “regina d’Africa”. AminataFofana, nata in Guinea, residente aRoma da molti anni, è una slancia-ta mandingo di sangue blu. Ma, conmodestia tutta regale, non ama es-sere presentata in questo modo.«Non è una cosa che mi sono gua-dagnata, e mi imbarazza», dice. Hamandato un manoscritto alla Ei-naudi come un esordiente qualun-que, senza santi in cielo. Pratica-mente sconosciuta – anche se fa mu-sica (un cd per la Mercury) el’indossatrice a intermittenza («permangiare»). Detto fatto. La lunache mi seguiva, scritto direttamen-te in italiano, è stato presentato aFrancoforte e a Torino ancor primad’essere stampato. La principessache calzò una scarpetta la primavolta a 12 anni, quando si trasferìin città per andare a scuola, si reputasenza nasconderlo una donna for-tunata.Principesse… regine… Non sarà unpo’ da rotocalco guardare da questaangolatura alla donna africana rea-le, la cui condizione ci appare di so-lito meno brillante di qualche ecce-zione regale?

Non è detto. Proviamo a fare unpasso indietro nel tempo e vediamocosa potrebbe venirne fuori. Fac-ciamo un piccolo test. Hai dieci se-condi per fare i nomi di due impor-tanti personaggi della storia dell’A-frica, uno maschile e uno femminile.Già risposto? Ti saranno probabil-mente venuti in mente Lumumba,Senghor, Nyerere… O, con minorsforzo, Nelson Mandela. E le don-ne? I più aggiornati si saranno ri-cordati di Wangari Maathai (maquesta è quasi cronaca più che sto-ria), o persino di Graça Machel, lamoglie mozambicana di Mandela(ci risiamo). I più colti ci avranno

spiazzato con un balzo di tre milio-ni di anni fino a Lucy, la nostra gra-cile progenitrice rinvenuta in Etio-pia nel 1974. E i più religiosi, avran-no pensato a Candace, regina diEtiopia: un suo alto funzionario fuuno dei primissimi ad essere bat-tezzato nel nome di Cristo. E poi?...

Siamo in un campo della storiogra-fia africana effettivamente ancorapoco scandagliato. «La spinta mi èvenuta da mia figlia», confessaSylvia Serbin, una giornalista afro-caraibica che pur ha una solida for-mazione storica. «Aveva otto anni.Un giorno, mi ha domandato: “Co-me mai tutti gli altri popoli hannodelle donne celebri, e noi no? Gliindiani hanno Pocahontas, gli ame-ricani Calamity Jane, i francesi Gio-vanna d’Arco, gli inglesi la reginaVittoria… E noi? Prima non esiste-vamo?”. Siccome non si deve mai la-sciare un bambino senza risposta, horipreso i miei appunti sparsi e hoscritto un libro». Si intitola Reinesd’Afriques. È uscito in Francia l’an-no scorso, subito prima di un'altraopera simile, Femmes de l’ombre etGrandes Royales. Anche JacquelineSorel, l’autrice, è giornalista di lun-go corso, con uno spiccato interes-se per i protagonisti della storia afri-cana. Anche lei, francese, ha dovu-to concludere che «in Africa, comein tutte le società, le donne hannoavuto un grosso ruolo, ma occulto,“dietro”…». Non a caso ha voluto far posto nelsuo libro tanto a regine effettiva-mente regnanti quanto ad eroine“nell’ombra”, quelle che «erano qua-si scomparse dalle nostre memorie– come osserva la sociologa senega-lese Fatou Sow – mentre invece han-no segnato con le loro impronte lastoria africana». Tra queste donne-dietro, guerrieree reggenti, profetesse o resistenti osemplici “madri di”, troviamo nomicome Kimpa Vita (Donna Beatri-ce), la “Giovanna d'Arco” congole-se che creò un movimento messia-nico anticoloniale e finì ventiduen-ne sul rogo (1706); Nana Triban,che trasmettendo al fratello Soun-diata Keïta un segreto carpito al ne-mico, gli consentì di fondare l’imperomandingo del Mali (XIII secolo); la“stregona” Sourrania, che ad un fe-roce capitano francese in marcia sulCiad fece cogliere una vittoria diPirro (1899).

Una regina vera e propria è inveceAbraha Pokou, che nel Settecentocondusse una porzione di popoloashanti dall’attuale Ghana alla Co-sta d’Avorio, dando così origine aibaulé. Ma perché la sua gente po-tesse attraversare il Comoe in pie-na, dovette sacrificare il suo unicofiglio alla dea delle acque. Zauditù,l’imperatrice etiope «dal cuore te-nero», era sensibile e modesta, dalcarattere conciliante. Il popolo ri-vedeva in lei il padre, il grande Me-nelik II. Le succedette Hailé Selas-sié: altra musica. E poi Thandile, or-ganizzatrice degli swazi; RanavalonaIII, ultima sovrana del Madagascar;e Yennega, principessa-amazzone,la madre dell’eroe fondatore del po-polo mossi del Burkina…

Altre donne consegnarono il loronome alla storia non per la nobiltàdel sangue ma dell’animo, per la di-gnità che seppero conservare in mez-zo alle umiliazioni più atroci. È il ca-so di Bwanika, la katanghese com-prata e rivenduta una decina di volteal prezzo di un fucile, e di SaartjieBaartman, la “Venere ottentotta”impudicamente trascinata da unozoo umano all’altro, dalla puritanaLondra a Parigi l’illuminata.

Quale fu, dunque, il ruolo della don-na nella storia del continente?C’è chi sostiene con sicurezza che ilmatriarcato fu la forma originariadelle società africane. Per CalixtheBeyala, combattiva scrittrice ca-merunese, «fino al XVI secolo era-no le donne che comandavano, cheviaggiavano… Ma l’islam prima, epoi il cristianesimo, hanno relega-to la donna in cucina, e l’Africa è ri-masta orfana della figura matriar-cale». Allora «come spiegare – si do-manda un’allieva del grande storicosenegalese Cheikh Anta Diop, au-tore dell’ipotesi sostenuta da Beya-la – la rinuncia totale della donnaafricana al potere politico, la suaflebile rappresentanza nei movi-menti di resistenza?». «Il potere ef-fettivo delle donne è sempre statoun mito», conclude Penda Mbow,già ministro della cultura e femmi-nista militante. Per lei, neppure ilmatriarcato (inteso come sistemamatrilineare) garantisce, in realtà,l’esercizio del potere da parte delladonna.

Effettivo è invece il potere diffuso,quello esercitato “nell’ombra”, gra-zie a una capacità di influenza tut-ta muliebre. Ma se alle regine e prin-cipesse d’oggi questo non basta più,beh, come dar loro torto.Ma chiudiamo dando la parola a unuomo. Per Nuruddin Farah, scrit-tore somalo candidato al Nobel, «inSomalia le donne sono più forti de-gli uomini, e lo hanno provato do-po il crollo dello stato, quando han-no saputo organizzarsi meglio e piùvelocemente degli uomini. Hannosempre dovuto subire la patriarca-lità della società somala. Ma quan-do si sono ritrovate nella diaspora,hanno scoperto che la società pa-triarcale non dà valore a chi vale. Eallora hanno cominciato a muove-re le ali, a spiegarle, per mostrarequanto valevano, mentre gli uomi-ni nella diaspora diventavano sem-pre più depressi. È un fatto che ledonne sono generalmente superio-ri agli uomini, perché tutto è con-tro di loro; una giovane di 15 anniha antenne interne che la avverto-no dei pericoli che la circondano.Un ragazzo della stessa età è anco-ra un bambino. Questa maggioreconsapevolezza di sé è la qualità checerco di esplorare nei miei roman-zi. Era la stessa consapevolezza cheanimava mia madre, e che mi atti-rava a lei; sono stato sempre attiratodalle donne forti, quelle che ti diconodi punto in bianco dove e perchésbagli». Come delle vere regine.

* Pier Maria Mazzola è giornalista, giàdirettore di Nigrizia.

«Sono stato sempre attirato dalle donne forti, quelle che ti dicono di punto in bianco dove e perché sbagli» (Nuruddin Farah)

©O

livie

r M

arte

l/Cor

bis

Page 4: 2005_luglio

4 AMANI

News

Appetito da elefante

Algeria

Ghana

Costad’Avorio

Liberia

Sierra Leone

GuineaGuineaBissau Benin

Togo

Libia Egitto

Sudan

Rep.Centrafricana

Etiopia

Eritrea

Gibuti

Rwanda

BurundiR.D.Congo

Gabon

Camerun

Nigeria

Niger

Burkina Faso

Guinea Eq.

Congo

TanzaniaUganda

Malawi

Swaziland

LesothoSudafrica

Zambia

Botswana

Namibia

AngolaMozambico

Madagascar

Comore

Seicelle

Zimbabwe

Kenya

Mauritania Mali

Marocco

Ciad

Somalia

Tunisia

SenegalGambia

Capo Verde

Il buonumore fa superare anche tempi difficili. Ilnostro caso riguarda la Costa d'Avorio che da treanni è in preda a una devastante guerra civile. AdAbidjan, la capitale economica, i giovani hannoadattato il linguaggio alle dure circostanze in cuivivono. Per esempio, con due aerei da combatti-mento che seminano il terrore, come il Sukhoi e ilMirage-24, indicano dei seduttori. Un giovane cheviene soprannominato Sukhoi è il dongiovanni per-fetto: sceglie accuratamente la ragazza, la puntae certamente la "preda" cadrà. Il Mirage-24 è in-vece di bocca buona, cioè ci prova con tutte, bel-le o brutte che siano. Non poteva mancare il pre-sidente della Repubblica francese, e infatti inner-vosirsi viene espresso con se chiraquer. Niente dipiù ironico e sfottente, dato che Chirac certamen-te ha avuto occasione, più di una volta, di irritarsiper gli eventi ivoriani. Come si può capire, lo sco-po di questi buffi sinonimi è soprattutto di metterein ridicolo la Francia, una volta signora assoluta inquesto ex florido paese, ed ora odiata un po’ da tut-ti. Quindi il termine "Force Licorne", le truppe fran-cesi che fanno da cuscinetto fra ribelli e governati-vi, nel nuovo linguaggio indica dei rompiscatolesempre presenti, oppure calamità come le cavallette.

In Breve

di Boukari Ouangraoua*

Ecoturismo e popolazioni, difficile binomio

La popolazione della Mauritania è per il 99,5% mu-sulmana e sino a quest'anno ha rispettato il "ri-poso islamico", giovedì e venerdì, invece di quel-lo “universale”, sabato e domenica. L'aveva isti-tuito nel 1982 il colonnello Haidallah, allora capodi stato, e l’ha ora cancellato il primo ministro OuldM'Bareck dopo consultazioni con i vari partiti e so-prattutto con il Consiglio superiore islamico.Il capo del governo ha detto: «È indiscusso che ilvenerdì sia giorno di raccoglimento, ma si ri-spetta anche lavorando. Quando l'imam chiamaalla preghiera, il musulmano lascerà il lavoroper la moschea o per un luogo di preghiera, e unavolta compiuto il suo dovere religioso, riprende-rà le sue attività».Dietro questa decisione ci sono anche semplici cal-coli economici. Solo l'anno scorso la Mauritania,per questa sfasatura di giorni lavorativi col restodel mondo, ha perso 50 milioni di euro.La novità è stata comunque accolta bene dalla po-polazione (circa 3 milioni di abitanti). Molto di piùdella decisione, presa tempo fa, di stabilire rap-porti diplomatici con Israele. Decisione che ha fat-to arrabbiare molte nazioni musulmane.

Guerra a colpi di ironia

Venerdì ora et labora

L'uso del telefonino portatile ha invaso anche l'A-frica. Su una popolazione che ha superato gli 800milioni di abitanti, esistono oltre 65 milioni ditelefonini, circa uno ogni 10 persone e anche me-no, se ricordiamo che gli africani sotto i 15 an-ni sono il 40%. È comunque un'invasione rela-tiva se paragonata ai circa 60 milioni di telefo-nini italiani su una popolazione di 57 milioni.La diffusione di questa tecnologia è stata verti-ginosa anche nel continente nero, specie se con-frontata a quella dei computer, campo nel qua-le l'Africa naviga in coda alle classifiche mon-diali. Il computer ha un prezzo sovente utopisticoper queste economie, e poi bisogna saper leg-gere e scrivere. Non dimentichiamo che l'anal-fabetismo è una piaga ancora diffusa. Col tele-fonino basta parlare ed ascoltare.Lo hanno capito i grandi operatori del settore cheinvadono ogni zona del continente, città e cam-pagne. Si può assistere così a scene con imma-gini contrastanti, come nei mercati tradizionalimarocchini. Tra capre, asini, carretti e biciclet-te spicca la tenda colorata del venditore di te-lefonia mobile, sempre affollata. Il mercato ru-rale in Marocco è stimato in un milione e mez-zo di telefonini. Sarà per questo che la campagnavendite è stata chiamata Akhi al-Fellah, cioè"Mio fratello agricoltore"?

Il più amato dagli africani

B

Maurizio

urkina Faso. Lo scorso mese di mag-gio, all’inizio dell’ultima stagione delle piogge,i contadini sul limitare del parco naturale diBalés si dedicavano serenamente alle loro atti-vità. Da cinque anni gli elefanti non si fanno piùvedere nella parte sud di questa foresta protet-ta, posta a circa 175 chilometri dalla capitaleOuagadougou. Non avviene lo stesso per i pro-duttori che hanno i campi contigui ad altre par-ti della stessa foresta, i quali continuano a ve-dere le loro coltivazioni devastate dai pachi-dermi. La direzione delle Acque e Foreste,incaricata della protezione degli elefanti, non siè mai spinta a stabilire un legame fra le tre oquattro carcasse sospette che ogni anno sco-prono nella foresta, e gli agricoltori vittime de-gli elefanti. Léon Yaméogo, direttore provincia-le dell’Ambiente, attribuisce i decessi alla vec-chiaia. Ma non ignora che «con la coltura delcotone, i contadini dispongono di pesticidi pereliminare animali come questi».Secondo un abitante di Poura che chiede l’ano-nimato, «i coltivatori versavano dell’acido da bat-teria nel foraggio, nei pressi delle piste frequen-tate dai pachidermi». Gli elefanti, che sono in gra-do di coprire un centinaio di chilometri in ungiorno, se ne andavano poi a morire lontano.

I contadini di Poura hanno adottato queste mi-sure estreme non sopportando più di vedere iloro campi saccheggiati – cosa che avviene da

una trentina d’anni. Boukaré Kouanda, di Bo-romo, è furibondo quando ricorda che in casaconserva almeno una decina di ricevute di de-nunce di sinistri di questo genere. E il minimoverbale costa almeno tre euro di carburante, ne-cessario a pagare le spese di dislocazione dellaforestale. In tre anni, dal 1999 al 2002, i dan-ni causati dagli elefanti si stimano a 61milaeuro. «E solo il 10% delle devastazioni vengo-no dichiarate», ammette Madi Sawadogo, del-la direzione dell’Agricoltura. Le constatazioniufficiali, del resto, non danno luogo ad alcun ri-sarcimento. Lo stato non può continuare a in-coraggiare l’ecoturismo a spese degli agricoltori,si sente dire. La regione di Balés è in effetti ric-ca di vegetazione abbondante e di una apprez-zabile popolazione di elefanti che attira ogni an-no centinaia di turisti.I contadini attribuiscono i disastri causati da-gli elefanti, divenuti troppo numerosi – nel2004 il primo censimento realizzato li valuta-va attorno ai 400 –, all’incapacità della forestaprotetta di soddisfare i loro bisogni alimenta-ri. Ma l’aumento dei pachidermi non spiegatutto. «Le devastazioni – sostiene un altro col-tivatore, Souleymane Rabo – sono orchestrateda un piccolo numero di elefanti cattivi per na-tura». «Sono forse dei vecchi maschi esclusi daun branco – relativizza Lamine Sebogo, spe-cialista in materia – ma nemmeno questo ren-de ragione di danni così elevati».Secondo Léon Yaméogo, la foresta, con i suoi140mila ettari, può ampiamente provvedere al-l’alimentazione degli elefanti, nonostante il lorofabbisogno quotidiano pro capite di cibo oscilli frai 300 e i 400 chili. La sua accusa vola piuttosto

contro i piromani e i bracconieri, che costringo-no i pachidermi a fuggire verso la periferia dellaforesta, la quale a sua volta viene progressiva-mente erosa dai contadini in cerca di terreni col-tivabili. "L’Africa occidentale – ricorda Lamine Se-bogo – ha perduto negli ultimi vent’anni l’80%dei percorsi degli elefanti, a vantaggio dell’agri-coltura e degli insediamenti umani".

In mancanza di meglio, il vecchio Souleymaneha abbandonato i suoi campi e ora manovra lazappa su terre povere distanti dalla foresta.Molti gli agricoltori che come lui sono migrati.Chi rimane, per limitare i danni sorveglia i cam-pi, accende fuochi di legna e vecchi pneumati-ci, pianta spaventapasseri, tutto per cercare ditenere alla larga questi animali. Le autorità consigliano di mantenere una fasciaincolta larga due chilometri tutto attorno allaforesta. «Falsa soluzione», replicano i contadi-ni, che ben sanno come gli elefanti si muovanoben al di là di una tale barriera. I servizi am-bientali hanno previsto l’apertura di punti d’ac-qua perenne in foresta e il coinvolgimento del-le popolazioni nella lotta agli incendi e al brac-conaggio. Ma il denaro scarseggia, le misuretardano a concretizzarsi.I coltivatori che devono fronteggiare l’emer-genza auspicano l’abbattimento dei pachider-mi colpevoli. Se non si trova presto una solu-zione, il rischio è che anche altri villaggi pren-dano esempio dai metodi spicci dei loro vicinidi Poura.

*Boukari Ouangraoua è corrispondente dal Burki-na Faso per il consorzio di agenzie Syfia international.

Sahara Occ.

È proprio colpa dei pachidermi?

©S

ycho

lt A

ugus

t / G

amm

a

Page 5: 2005_luglio

no degli effetti sui media italiani degli attenta-ti dell'11 settembre 2001 è che in molti si sono resi contoche per capire gli arabi bisogna quantomeno parlare l’arabo.Agenzie, carta stampata, radio e televisioni hanno inizia-to a cercare giornalisti in grado di spiegare “l'arabo” ai let-tori italiani con una conoscenza diretta di luoghi e perso-ne. L'egiziano Magdi Allam e l'algerino Khaled Fouad Al-lam sono diventati punti di riferimento per i due principaliquotidiani nazionali e per centinaia di migliaia di lettori.Perché ciò non accade anche per i paesi dell'Africa subsa-hariana? Esistono eccezioni. (Un esempio? Jean-Léonard Touadi,congolese, giornalista Rai. Oppure John Matshikiza, su-dafricano, giornalista del Mail & Guardian e columnist perInternazionale). Eppure sembrano soltanto confermare laregola: di rado i media italiani spediscono i loro inviatispeciali nell’Africa subsahariana, ancor più raramente han-no corrispondenti stabili, quasi mai utilizzano giornalistiafricani come collaboratori. Quanti sudanesi hanno scrit-to sul Darfur e sul Sudan? (Eppure un veterano della stam-pa sudanese, Moanghoub Mohamed Salih, è appena statopremiato dalla World Association of Newspapers per la suacarriera).Per restare a due paesi africani uniti all'Italia da non pochilegami storici ed economici – Libia e Somalia –, chi ci met-te in contatto con giornalisti libici e somali? (A proposito, In-ternazionale ci ricordava che Duniya Muhiyadin Nur, gior-nalista della radiotivù nazionale somala Hornafrik, è statoassassinato vicino a Mogadiscio il 6 giugno. Daif al-Ghazal,del giornale Libya al-Youm, con sede a Londra, è stato tro-vato morto a Bengasi il 2 giugno. Era stato rapito da scono-sciuti il 21 maggio; sul corpo, segni di tortura).

“I media italiani non sono interessati all'Africa e ne par-lano solo in riferimento ad aids, guerre e carestie”. Sarà an-che vero, ma perlomeno tra gli addetti ai lavoratori è di-ventata una critica scontata e abusata, quindi inutile. An-che perché non è vero che tutti i media italiani parlino pocoe male dell'Africa: anzi in termini assoluti sono sempre piùnumerosi gli articoli, trasmissioni radiofoniche, documen-tari televisivi e siti internet dove si possono trovare infor-mazioni sull'Africa; sempre più giornalisti e lettori si inte-ressano a temi africani. È in termini percentuali che l'in-formazione dedicata all'Africa sembra destinata a rimanereuna minoranza, come periodicamente testimoniano ricer-

che e analisi. Non tanto, però, perché essa stia diminuen-do in quantità e qualità, quanto piuttosto perché rischia divenire sommersa e annullata da un flusso sempre più ca-pillare e costante di altre immagini, suoni e parole. Una parte di responsabilità risiede forse anche tra i letto-ri/ascoltatori/telespettatori/navigatori. Raramente essiadottano per i media il consumo critico. In fondo anche que-sti sono prodotti da comperare: perché non applicare an-che qui i metodi così ben sviluppati dal commercio equo esolidale? Quanti sono i fruitori dell’informazione che met-tono in opera un boicottaggio organizzato dell'informazio-ne/intrattenimento, e contemporaneamente una richiestacontinua e precisa di informazione “altra”? Forse in Italia c'è anche un altra ragione per cui non si cer-cano i giornalisti africani. Per troppi anni, organizzazio-ni non governative e missionari si sono presentati come “lavoce di chi non ha voce”, pensando di avere il dovere di spie-gare l'Africa e gli africani agli italiani. Essere “voce di chinon ha voce” rimanda a un'Africa di altri tempi, senzamezzi di informazione all'altezza, popolata da africani tracui erano rari i giornalisti capaci, e con italiani che in granparte non avevano mai visitato un paese africano.Oggi tutto questo è cambiato. “Essere voce di chi non havoce” rischia di essere uno slogan logoro, buono solo a gra-tificare chi aspira al ruolo di portavoce.

A novembre si svolgerà, a Tunisi, il Summit Mondiale sul-la Società dell'Informazione (la scelta della sede ha susci-tato non poche polemiche, visto che il paese nordafricanonon brilla certo quanto a libertà di stampa). Un vertice in-ternazionale organizzato su richiesta dell'Onu dall'Unioneinternazionale delle telecomunicazioni (Uit), con centinaiadi politici, esperti, docenti universitari, uomini d’affari,rappresentanti della società civile, per parlare di rivoluzionenelle nuove tecnologie dell’informazione e di divario digi-tale, di chi controlla l’informazione e di quali sono i dirit-ti di chi la cerca. Nella speranza (così dicono gli organiz-zatori) che tutti i paesi, al Nord come al Sud, possano trar-ne beneficio. Lo stanno preparando da due anni e sarà ilpiù grande appuntamento istituzionale mai organizzato sul-l’argomento.Che cosa significa il diritto di avere accesso all'informazione?In un mondo che vogliono farci apparire sempre più in-terconnesso, significa poter avere accesso a un computer,a una linea telefonica, a internet? E chi garantisce il dirit-to a saper utilizzare quel computer, per non parlare dei con-tenuti? Società dell'informazione potrà significare anche avere ildiritto di ricevere più informazioni da chi vive, in prima per-sona, una situazione?

In questi anni, alcuni giornalisti magrebini sono più voltefiniti in carcere, dove spesso sono ricorsi allo sciopero del-la fame. Grazie a internet e alle organizzazioni per i dirit-ti umani e per la libertà di stampa (su tutte la francese Re-porters sans frontières) sono ormai conosciuti anche all'e-stero. Ali Lmrabet in Marocco, Taoufik Ben Brick e ZouahirYahyaoui in Tunisia, Ghoul Hafnaoui e Mohammed Ben-chicou in Algeria… La lista potrebbe continuare. Sarebbebello che si allungasse anche con qualche giornalista del-l'Africa a sud del Sahara. E senza bisogno di carceri e scio-peri della fame.

*Diego Marani è giornalista, già redattore di Nigrizia. Scrive per Altre-conomia, Jesus, Galatea e altre testate.

5AMANI

News

Tutti connessi… a chi? a che cosa? Società dell'informazione

A Città del Capo, Sudafrica

di Diego Marani*

©A

bbas

/ M

agnu

m P

hoto

s

Koinonia Media Centre è uno dei molti progetti di Koino-nia Community. Il Centro, fin dall'inizio, e nonostantemolte limitazioni, si è servito delle tecnologie informati-che come suo strumento di lavoro per raggiungere unmondo più vasto.L'utilizzo di internet come mezzo di comunicazione è an-cora nelle sue fasi iniziali in Kenya, così come in molti sta-ti africani. La liberalizzazione dell'industria dei media hadato origine a numerosi quotidiani, riviste e radio, alcu-ne al limite dell'osceno. Raramente i temi principali sonola pace, i diritti umani, le nuove tecnologie, se non in ca-si eccezionali ed eclatanti. Questi mezzi inoltre non per-mettono agli utenti di esprimere il loro punto di vista suiproblemi che affliggono la loro vita quotidiana. I grandi mezzi di comunicazione internazionale non aiu-tano poi a migliorare la situazione, visto che sembrano de-diti ad assicurare la copertura informativa degli aspetti ne-gativi dell'Africa, anche quando quelli positivi sono più nu-merosi.

News from Africa attraverso dei programmi radiofonicicerca di dare agli ascoltatori notizie da tutto il continentee al contempo offre loro la possibilità di esprimere opinio-ni e commenti, coinvolgendoli nel dibattito e nei programmi.News from Africa continua a gestire un sito web (in pre-cedenza si chiamava AfricaNews) e un'agenzia di infor-mazione online. Lo staff redazionale è composto di soli duedipendenti, ma il sito ha corrispondenti sparsi per tutto ilcontinente, remunerati per ogni articolo pubblicato. Newsfrom Africa ha stabilito collaborazioni regolari anche conmezzi di informazione italiani quali Internazionale, Vo-lontari per lo sviluppo e Redattore sociale. Il sito è acces-sibile all’indirizzo www.newsfromafrica.org oppure attra-verso un link nell’italiano Peacelink.Quando fu fondata nel 1996, da padre Kizito, AfricaNewsera la prima pubblicazione online del suo genere in Africa.Oggi continua quella linea editoriale che si traduce in ar-ticoli e commenti su argomenti riguardanti la pace, i dirittiumani, giustizia e riconciliazione, buon governo, emanci-

pazione femminile, sviluppo. Inoltre mantiene la sceltapreferenziale per i poveri, cercando di presentare le varieanalisi dal punto di vista degli africani che lottano per lalibertà, la dignità e la giustizia.Il sito web è aggiornato quotidianamente. Fin dall'inizioNews from Africa è stata ospitata da Peacelink; all'iniziodi quest'anno i due redattori Clement Njoroge e ZacharyOchieng, assieme a John Anyona e Herbert Wamalwa del-lo Shalom IT Centre (la “Geremia School”), hanno segui-to una formazione di due settimane su Phpeace, un soft-ware sviluppato da Francesco Iannuzzelli, amministrato-re del sito di Peacelink. Il corso era tenuto dallo stessoIannuzzelli insieme a Enrico Marcandalli. L'obiettivo, rag-giunto, era gestire le pagine web di tutti i progetti di Koi-nonia (www.koinoniakenya.org) senza necessariamente ri-correre ai webmaster di Peacelink.

* Zachary Ochieng è redattore di News from Africa.

U

Internet di pacedi Zachary Ochieng*

Page 6: 2005_luglio

6 AMANIA d o z i o n i

Architetti dell’animadi Gianluca Sebastiani*

I pulcini di Mariadi Giovanni Spata*

Non ho un buon rapporto con gli architetti, da quando uno diloro mi ha soffiato una ragazza che mi piaceva tanto e un altromi ha costruito una casa surreale con corridoi che non portanoa un bel niente. Ma quando mamma Mary mi srotola sul tavo-lo i progetti di una nuova casa per le bambine, con gli occhi umi-di carichi di sogni, mi lascio coccolare dalle sue parole e mi ri-concilio per un istante con tutto l’albo professionale. Le dita tozze seguono sulla carta il perimetro della struttura,mentre la voce emozionata coniuga ogni attesa ed ogni parolaa un futuro prossimo. «Questa è la casa per la nuova famiglia,così potremo accogliere altre dieci bambine. Qui faremo gli uf-fici e la scuola di computer. Mentre qui, nell’edificio già com-prato e sistemato, mettiamo le macchine da cucire. E resta an-cora spazio per la fattoria, gli animali, una stalla con più muc-che. Siamo pronti a crescere, serve solo l’impegno e il sacrificiodi tutti».Penso sia per via di questa storia del sacrificio di tutti che unquarto d’ora dopo mi ritrovo a traslocare delle pesantissime Sin-ger messe a nuovo e luccicanti, fin giù oltre la strada, per si-stemarle nella nuova struttura che farà da sede per i corsi diformazione. E siccome sbaglio a collocarle di stanza, suggeriscodi abbattere un muro. Ma pare che l’opzione non sia previstasul progetto, e la mia schiena debba ancora sacrificarsi. Fortu-na che sono in buona compagnia: Susan, Purity e Victoria, tre

ragazze di quasi vent’anni, con famiglie molto povere, che tut-te le mattine entrano il cancello di Anita e imparano taglio ecucito. Allegre come si addice alla loro età, sono subito diven-tate care amiche mie e di tutte le bambine.C’è un’aria effervescente a Casa di Anita, di idee in sviluppo edi cambiamento. Purtroppo si è portata via Mary Wanjiku.Mary la bambina, la ragazza. Con l’aiuto della comunità ha ini-ziato gli studi alla scuola superiore, presso un collegio privato,e al termine di ogni trimestre torna a vivere dalla madre, chein questi anni ha seguito il progetto di microcredito di Koino-nia e ha sviluppato una piccola attività di ristorazione che l’hasollevata dalla miseria e le permette di prendersi cura dei figlicon serenità. È una di quelle belle storie che ti fa voltare indie-tro e capire che la strada fatta finora è valsa qualcosa. Qualchevolta tornerà a salutare le sorelle con cui è cresciuta, ma nonso se sarò qui. So che mi mancherà l’acuta ironia di Mary, quan-do dopo cena cucinavamo fino a tardi frittelle per il giorno do-po e la mia cultura scolastica scricchiolava sotto le sue osser-vazioni. «Non essere egoista, anch’io ho la mia vita», mi direb-be se fosse qui, questa ragazza di 14 anni diventata saggia perstrada.Anita cresce, come un bambino che ha quasi terminato la suadentatura, lo staff si rafforza e ogni volta che si libera un lettoc’è un nuovo ingresso.

Poi arriva Winny, nove anni, mi prende la mano. Apre una por-ta nel mio cuore, puntella le mie paure. Mi ritrovo piccolo in sca-la reale, con le emozioni in squadra. Lavora la mia anima e larende faccia-a-vista. Camminiamo senza scarpe su un pavi-mento solido. L’amicizia e i suoi sorrisi hanno costruito un pon-te. È una progettista sublime, Winny. Da grande sarà un ar-chitetto, e costruirà corridoi che portano incontro al mondo.

*Gianluca Sebastiani è un volontario di Amani.

Il 2005 è l’anno dedicato al microcredito, ma non tutti san-no cosa sia , o meglio, non hanno mai avuto la possibilità divederne un esempio pratico. Il microcredito non è solo un pic-colo credito, come dice la parola, ma è fiducia nei confrontidella gente, di quella gente che non possiede nulla e che perquesto non ha la possibilità di accedere alle normali vie fi-nanziarie. A Kivuli esiste un programma di microcredito (Employmentand Enterprise Program, Eep), il quale di norma elargiscecrediti ai poveri che vivono nelle vicinanze. Se la gente chie-de un prestito, è perché vuole ingrandire o migliorare la pro-pria attività. O semplicemente perché ha bisogno di liquidi-tà per le tasse scolastiche dei figli o per una visita medica.Una storia emblematica quella di Maria Kabiti. Vedendo cheil marito con il suo lavoro non ce la faceva a coprire tutte lespese della famiglia, decise di darsi da fare. Venuta a saperedel microcredito di Kivuli, venne ad informarsi. Dopo le pra-

tiche di prammatica, nel settembre 2003 entrò a far parte del-la clientela di Eep. Il suo progetto consisteva nell’allevare pul-cini per poi rivenderli: con il consueto prestito di 10.000 scel-lini (nemmeno 110 euro) avrebbe potuto acquistare un centi-naio di pulcini e mangime per i tre mesi necessari prima dirivenderli. Con determinazione e duro lavoro, nel febbraio 2004 Maria ri-uscì a vendere tutti i pulcini, con un profitto di 30.000 scelli-ni. Poté così ripagare il suo debito a Eep e comprare altri 200pulcini e relativo mangime. Maria ha in questo momento unapiccola azienda con oltre 1.000 pulcini, che ogni tre mesi ri-vende. Ha inoltre migliorato la sua attività con l’acquisto dinuove attrezzature che le facilitano il lavoro, ed ha assuntodue persone che lavorano per lei. Dopo il primo prestito ne chie-se un altro e così via: adesso può pagare le tasse scolastiche alfiglio in una scuola privata, aiuta il marito a sostenere la ge-stione della casa e ad ogni ciclo produttivo guadagna abbastanza

da poter comperare nuovi pulcini. Da quando ha ricevuto il pri-mo prestito, Maria ha sempre pagato entro le scadenze e ades-so ha un gran numero di ordini e di clienti abituali che si for-niscono da lei. Nel maggio 2005 ha chiesto un nuovo prestito.Ha intenzione di ampliare l’azienda e di raggiungere un livellodi vita che porti lei e la sua famiglia definitivamente fuori dal-la povertà. Maria oggi è molto rispettata nella comunità, è unesempio per tutti per come ha migliorato il suo standard di vi-ta. La sua è una storia particolarmente fortunata, ma in mol-ti stanno ora seguendo le sue tracce ed hanno deciso di ricor-rere a loro volta a un prestito. In queste storie a lieto fine non va trascurato l’impegno del-lo staff di Eep, operatori qualificati con uno stipendio minimoe orari di lavoro massacranti, ma che si sentono ripagati dalsorriso di un cliente.

*Giovanni Spata è casco bianco della Caritas Italiana.

Casa di Anita

Il nuovo terreno della Casa di Anita, con gli edifici da ristrutturare

"Stregato dai Monti Nuba". Potrebbe sembrare lo slogan di un'a-genzia turistica e invece, molto più semplicemente, è ciò che èaccaduto a un maggiore del nostro esercito. Si chiama LorenzoGuani, ha 38 anni ed è della Spezia. Tra l’ottobre 2004 e il mar-zo di quest'anno è stato in Sudan, appunto sui Nuba, per mo-nitorare la sospirata pace – facciamo gli scongiuri – fra i gover-nativi del Nord e i ribelli del Sud.Le due fazioni hanno cominciato a scannarsi nel 1956, appenaavuta l'indipendenza dagli inglesi; hanno sospeso per una deci-na d'anni e poi, nel 1982, hanno ripreso. Nel 2002, in anticiposulla pace con tutto il Sud firmata il gennaio scorso, i nemici sisono accordati quanto ai Monti Nuba: e anche al nostro ufficiale,con altri 48 colleghi di nove nazioni, è toccato controllare chele due parti facessero i bravi.Ha girato per sei mesi, con un ufficiale governativo e uno del-l’Spla, su e giù per quelle montagne dove il potere di Khartoumaveva cercato di estinguere appunto i nuba. Guani, come i col-leghi, girava disarmato. Sarà forse per questo che il cuore, o me-glio l’anima, ha preso il sopravvento. La mente tornava spessoin Italia dove c'erano la moglie Anna Lisa e i due figli, di 7 e 3anni, ma gli occhi godevano i paesaggi incontaminati, le popo-lazioni festo-se specie con chi, disarmato, portava la pace.«È stata un'ottima forma di peacekeeping», riconosce il maggio-re. «Eravamo ben visti e sempre ben accolti». Il problema reli-gioso, musulmani contro cristiani, tanto strombazzato, e valido

per certe zone dell'immenso Sudan, non è mai affiorato. «Si stu-pivano - ricorda l'ufficiale - che io chiedessi informazioni su que-sto argomento. La religione è l'ultimo dei problemi, mi dicevano».Purtroppo, dopo tanti anni di guerra certe situazioni si sono in-cancrenite e le due parti non sono ancora in grado di dialogareda sole. A fine giugno la sparuta Joint Military Commission èstata sostituita dal poderoso spiegamento delle Nazioni Unite:diecimila uomini, in tutto il Sudan, più 750 poliziotti e 750 os-servatori. Che Dio ce la mandi buona, protegga la pace e i bi-lanci dell'Onu.Mentre i Monti Nuba rapivano il cuore di Lorenzo, la mogliesvegliava le coscienze e la generosità dei liguri. E così i circa 600allievi di una delle scuole sostenute da Amani hanno smesso disedersi per terra o su tronchi d'albero ed hanno ora, come glialtri bambini del mondo, dei veri banchi di scuola. Guani diceche gli sembra di conoscere Kizito anche se non l’ha mai in-contrato, e lo spiega così: «Tutti sui Nuba me ne parlavano. Di-cevano: è un prete che parla poco ma bada ai fatti. Credo sia ungrande complimento fatto dagli africani».Ora per il maggiore non sono previste altre trasferte, è felice distare con la sua famiglia, però qualcosa lo tormenta dolcemen-te e lo confessa: «Quei nuba, non riesco proprio a dimenticarli».

*Daniele Parolini è stato giornalista del Corriere della Sera, direttore diAfricaNews edizione italiana e per molti anni collaboratore di Nigrizia.

«Non riesco a dimenticarli»di Daniele Parolini*

Kivuli Centre

Monti Nuba

Il maggiore Lorenzo Guani a Boram, in missione di peacekeeping

Page 7: 2005_luglio

Ogni settembre l’enorme cupola difoglie verdi si trasformava in unacupola di fiori di azzurro intenso,come un piccolo cielo, ma que-st’anno un colpo di vento è riusci-to ad abbatterla.

Ho in mano un bel libro di recentepubblicazione, Jesus of Africa, unapanoramica sulla cristologia afri-cana preparata da Diane Stinton,una teologa protestante canadeseche insegna in un’università di Nai-robi. La lettura ha il vantaggio dinon essere troppo impegnativa eogni tanto alzo gli occhi e vedo ibambini e ragazzi di Mthunzi chetornano da scuola, si liberano del-l’uniforme, fanno i compiti, dannouna mano nei lavori di casa e, per-ché no, come tutti i ragazzi del mon-do ogni tanto bisticciano. Alcuni diloro, con i rami più piccoli della ja-caranda, si esercitano a fare picco-le sculture in legno.La ricerca della Stinton è impor-tante. Gesù è la figura centrale del-la nostra fede: come viene visto da-gli africani? Che rilevanza ha nel-la loro vita cristiana? Con ricchezzadi documentazione e grande com-petenza l’autrice scava il tema epropone quattro modelli fonda-

mentali di come gli africani vedonoGesù: Fonte di Vita e guaritore;Mediatore e Grande Antenato; l’A-mato, amico e fratello; e infine Ge-sù il Leader, capo e liberatore. L’o-pera è pubblicata a Nairobi dallePaoline, che nell’Africa anglofonastanno giocando un ruolo impor-tantissimo per l’emergere di unanuova teologia africana. Altro chele editrici missionarie italiane chepubblicano libercoli di missionaripiù o meno autocelebrativi.Stamattina, prima che i bambinipartissero per la scuola, ho chiestoloro di pensare un po’ durante ilgiorno a chi è Gesù per loro, e di dar-mi ciascuno, prima di cena, un fo-glietto con la sua risposta in menodi dieci parole. Adesso comincianoa venire uno per uno. Bernard, in-vece che un foglietto, mi porta unascultura abbozzata su legno di ja-caranda. Bernard avrà 11 anni. È qui con noi da tre, dopo aver vis-suto in strada per due e aver la-sciato per sempre una famiglia dis-astrata che oggi non esiste più: ge-nitori veri e genitori adottivi, zii,tutti gli adulti sono morti di aids.Mi mostra un volto scolpito nel le-gno, a fianco dell’illustrazione delcatechismo da cui ha cercato di co-piarlo. La somiglianza è approssi-mativa, ma la differenza più gran-de, certamente voluta, è che il Ge-sù di Bernard ha un ampio sorriso,o per lo meno questa è l’intenzio-ne. Gesù che sorride? Non è un’im-magine che si vede abitualmente.«Gesù è contento perché io sono vi-vo», mi spiega Bernard.«Gesù è il mio cuore», cioè è il cen-tro della mia vita, dicono la mag-gioranza dai biglietti. Quasi tuttisentono Gesù come fonte di vita,guaritore compassionevole, forzadi ripartire dopo le difficoltà. Pochi,cinque su oltre sessanta, dicono cheGesù è principalmente fratello eamico. Solo un altro, oltre a Ber-nard, è veramente originale, anchese ha superato le dieci parole date

come limite. Dice: «Gesù per me ècome mia nonna, che mi ha volutobene più di chiunque altro».Speriamo che il prossimo SinodoAfricano sia capace di svelarci il vol-to africano di Gesù. Ci dica cose sem-plici, come Bernard e i suoi amici, eci aiuti – tutti noi cristiani, qualsia-si servizio esercitiamo nella chiesa– ad essere gente in mezzo alla gen-te. Un volto di Gesù che sia auten-tico e che sia africano. Un Gesù cre-dibile, che cammina con noi sullenostre strade, entra nelle nostre mi-nuscole botteghe come nei super-mercati, si affaccia sorridente dopoaver chiesto permesso con un som-messo hodi sulla soglia delle nostrebaracche e delle nostre case, che noninsegna ex cathedra, che ci ascoltacon pazienza infinita e ci convincecon la sapienza del cuore, che ci apregli occhi e ci fa vedere le realtà piùprofonde, senza fermarsi alle paro-le, agli ornamenti, che ci aiuta a ve-dere la realtà vera che sta al di là de-gli affascinanti inganni della ric-chezza e del potere.

Vedo che mamma Edina e l’aiu-tante stanno ancora aggiungendofarina all’enorme pentolone di po-lenta che deve soddisfare la fame disettanta ragazzi, e che la carne è an-cora semicruda, per non parlaredelle foglie di lepu ancora nell’ac-qua di lavaggio. Mi preoccupo, per-ché mi pare che mentre io fanta-sticavo, il sole sia tramontato già daun pezzo. «A che ora abbiamo lacena?», chiedo a Raphael, uno de-gli educatori, che intravvedo in-daffarato a raccogliere una monta-gna di panni ormai asciutti dall’al-tra parte del grande cortile. «Allesette!», mi risponde con grande si-curezza. Guardo l’orologio e vedoche sono le sette e quarantatré mi-nuti. Mi tranquillizzo. Grazie a Diosono ancora in Africa. Mi ricordo diHector, che oltre ad essere lo stu-dio manager di Radio Waumini aNairobi fa anche il deejay del nostroprogramma di musica reggae. Agli

inizi delle trasmissioni si dimenti-cava di annunciare l’ora. Dopo unmio richiamo l’ho sentito annun-ciare: «Sono passate da pochi minutile sette e dieci».Chi sarà in ritardo all’Ultimo Gior-no? Gli africani? O forse Gesù, or-mai diventato così africano da nonriuscire a mantenere neanche quel-l’appuntamento? Però non possia-mo pensare a un Gesù che diventicosi africano da non essere più ca-pace di mettere in crisi. Gesù è unodi noi, ma è anche il TotalmenteAltro che ci visita. Se lo accettiamocostringe ogni persona, ogni tradi-zione, ogni cultura, ad uscire da séstessa per confrontarsi con lui, percapirsi e purificarsi.

Finalmente chiamano per la cena.I piatti sono già pronti, in una gran-de tavolata. Chokepo fa la preghie-ra spontanea prima del pasto: «Ge-sù ti ringraziamo perché anche og-gi ci hai dato da mangiare. Aiutacisempre, e noi saremo sempre al tuoservizio». Il piccolo ricattatore sisiede con aria beatificamente com-punta, e attacca un piatto di po-lenta che in un’osteria di Bergamoservirebbe cinque adulti. Vorrei far osservare che la preghieradi Chokepo è, come dire, un po’ uti-litaristica. Mentre mi preparo men-talmente la rampogna e mi alzoguardandomi in giro per chiedereun po’ di silenzio, vedo il Gesù delgrande batik che ho comperato inBrasile nel 1988, in una cooperati-va di sem terra, e che adesso domi-na la tavolata. Mi aveva attiratoquel grande abbraccio che sembraavvolgere i discepoli e farne unacosa sola, anche se mi infastidiscel’espressione triste e un po’ inca-volata che sembra essere una ca-ratteristica dei sem terra. Ma sta-sera sorride, come il Gesù della scul-tura di Bernard. Mi risiedo, e lascioperdere.

*Renato Kizito Sesana, giornalista epadre comboniano, è socio fondatore diAmani.

A d o z i o n i

Mthunzi Centre

7AMANI

Gesù è come mia nonnaAdozioni a distanza

Perché tutti insieme L'adozione proposta da Amani non è in-dividuale, cioè di un solo bambino, maè rivolta all'intero progetto di Kivuli, del-la Casa di Anita, di Mthunzi o delle Scuo-le Nuba. In questo modo nessuno di loro cor-rerà il rischio di rimanere escluso. In-somma "adottare" il progetto di Ama-ni vuol dire adottare un gruppo di bam-bini, garantendo loro la possibilità dimangiare, studiare e fare scelte co-struttive per il futuro, sperimentandola sicurezza e l'affetto di un adulto. Esoprattutto adottare un intero proget-to vuol dire consentirci di non limita-re l’aiuto ai bambini che vivono nelcentro di Kivuli, della Casa di Anita, delMthunzi o che frequentano le scuole diKerker e Kujur Shabia, ma di estender-lo anche ad altri piccoli che chiedono aiu-to, o a famiglie in difficoltà, e di spez-zare così il percorso che porta i bambi-ni a diventare street children o, nel casodei bambini nuba, di garantire loro ilfondamentale diritto all’educazione. Abbiamo infatti sperimentato che a vol-te anche un piccolo sostegno econo-mico permette ai genitori di continua-re a far crescere i piccoli nell’ambien-te più adatto, e cioè la famiglia diorigine.In questo modo, inoltre, rispettiamola privacy dei bambini evitando di dif-fondere informazioni troppo personalisulla storia, a volte terribile, dei nostripiccoli ospiti. Pertanto, all'atto dell'a-dozione, non inviamo al sostenitore in-formazioni relative ad un solo bambino,ma materiale stampato o video concer-nente tutti i bambini del progetto che siè scelto di sostenere. Vi ricordiamo che una caratteristica diAmani è quella di affidare ogni pro-getto ed ogni iniziativa sul territorioafricano solo ed esclusivamente a per-sone del luogo.Per questo i responsabili dei progetti diAmani in favore dei bambini di strada so-no keniani, zambiani e nuba.Con l'aiuto di chi sostiene il progettodelle Adozioni a distanza, annualmenteriusciamo a coprire le spese di gestio-ne, pagando la scuola, i vestiti, gli alimentie le cure mediche a tutti i bambini.

Come aiutarciPuoi "adottare" i progetti realizzati daAmani con una somma di 26 euro almese (312 euro all'anno): contribui-rai al mantenimento e alla cura di tut-ti i ragazzi accolti da Kivuli, dalla Ca-sa di Anita, dal Mthunzi o dalle Scuo-le Nuba. Per effettuare un'adozione a distanzabasta versare una somma sul c/c postale n. 37799202 intestato adAmani Onlus – Ongvia Gonin 8 – 20147 Milanoo sul c/c bancario n. 503010 Banca Popolare Etica CIN G – ABI 05018 – CAB 12100EU IBAN IT93 G050 1812 1000 00000503 010

Ti ricordiamo di indicare, oltre il tuonome e indirizzo, la causale del ver-samento: "adozione a distanza". Ci consentirai così di poterti inviareil materiale informativo.

Qui stasera anche Cristo sorride

©A

less

andr

o M

asce

tta

È il tardo pomeriggio e sono nel cortile di Koinonia.

Mi siedo sul grande tronco della jacaranda caduta di recente.

Dominava il cortile nel 1982,quando venni a vivere in questa

casa con i primi ragazzi.di Renato Kizito Sesana*

Page 8: 2005_luglio

Chi siamoAmani, che in kiswahili vuol dire “pace”, è un’associazione laica euna Organizzazione non governativa riconosciuta dal Ministero de-gli Affari Esteri. Amani si impegna particolarmente a favore delle popolazioni afri-cane seguendo queste due regole fondamentali:1. Curare lo sviluppo di un numero ristretto di progetti, in modo dapoter mantenere la sua azione su base prevalentemente volontariaper contenere i costi a carico dei donatori. 2. Affidare ogni progetto ed ogni iniziativa sul territorio africano so-lo ed esclusivamente a persone del luogo. A conferma di questo, mol-ti degli interventi di Amani sono stati ispirati da un gruppo di gio-vani africani riuniti nella comunità di Koinonia. Le principali attività di Amani sono le case di accoglienza per i bam-bini e le bambine di strada di Nairobi (Kivuli Centre e Casa di Ani-ta) e di Lusaka (Mthunzi Centre); la difesa del popolo nuba in Su-dan, vittima di un vero e proprio genocidio; e News from Africa, un'a-genzia di stampa formata interamente da giovani giornalisti escrittori africani. Inoltre, Amani sostiene una piccola scuola a Nai-robi nel poverissimo quartiere di Kibera; e una compagnia di gio-vani attori che lavorano per una cultura di pace attraverso la me-diazione dei conflitti: l'Amani People Theatre.

Come contattarciAmani Onlus – Ong (Organizzazione non lucrativa di utilità socia-le e Organizzazione non governativa)via Gonin, 8 – 20147 Milano – ItalyTel. 02 48951149 – 02 4121011 – Fax 02 [email protected] www.amaniforafrica.org

Come aiutare Kivuli, Casa di Anita, Mthunzi e le Scuole NubaBasta versare una somma sul c/c postale n. 37799202 intestato adAmani Onlus-Ong – via Gonin 8 – 20147 Milano, o sul c/c bancarion. 503010 Banca Popolare Etica CIN G – ABI 05018 – CAB 12100EU IBAN IT93 G050 1812 1000 0000 0503 010. Ricordiamo inoltre di scrivere sempre la causale del versamento eil vostro indirizzo completo.Nel caso dell'adozione a distanza è necessario versare 26 euro men-silmente almeno per un anno. È importante indicare in entrambi icasi la causale del versamento.

Le offerte ad Amani sono deducibiliI benefici fiscali per erogazioni a favore di Amani possono essere con-seguiti con due possibilità alternative:1. Deducibilità ai sensi del DPR 917/86 a favore di ONG per dona-zioni destinate a Paesi in via di sviluppo. Deduzione nella misuramassima del 2% del reddito imponibile sia per le imprese che per lepersone fisiche.2. Oneri deducibili ai sensi del DL 460/97 per erogazioni liberali afavore di ONLUS.Per le imprese, per un importo massimo di euro 2.065,83 o del 2%del reddito di impresa dichiarato.Per le persone fisiche, detraibile nella misura del 19% per un im-porto complessivo non superiore a euro 2.065,83.Ai fini della dichiarazione fiscale è necessario scrivere sempre ONLUSo ONG dopo Amani nell’intestazione e conservare:1. per i versamenti con bollettino postale: ricevuta di versamento;2. per i bonifici o assegni bancari: estratto conto della banca ed even-tuali note contabili.

8 AMANI

Iniziative

Editore: Associazione Amani Onlus–Ong, via Gonin 8, 20147 MilanoDirettore responsabile: Daniele ParoliniCoordinatore: Pier Maria MazzolaProgetto grafico e impaginazione: Ergonarte, MilanoStampato presso: Grafiche Riga srl, via Repubblica 9, 23841 Annone Brianza (LC)Registrazione presso la Cancelleria del Tribunale Civile e Penale di Milanon. 596 in data 22.10.2001

Porta il tuo cuore in Africa

AMANI

Sudan meno oscuroNon è dato leggere un libro sul Sudan in lingua italiana, se sieccettuano i titoli riguardanti Daniele Comboni, missionario dell’Ottocento, e pochissimo altro, tra cui Io sono un nuba di Kizito Sesana (2004) e, con uno sguardo più complessivo sulla storia del paese,Il dramma del Sudan, specchio dell’Africa di Irene Panozzo (2000).Ora la stessa autrice torna sull’argomento con un volumetto più accessibi-le a chiunque, Sudan. Le parole per conoscere, nello stile divulgativo-seriodella collana “Il giro del mondo” degli Editori Riuniti (pagg. 159, € 9,00).Chi ha già avuto in mano Congo di Jean-Léonard Touadi, medesima collana,capisce di cosa parliamo. Il libro è costruito come un glossario, dalla voce“Abid” (schiavo) a “Zande Scheme” (progetto di sviluppo economico concepito dagli inglesi, che pose le premesse della prima guerra civile). Introduzione, cronologia, box e cartine completano l’opera. Disponibile presso la sede di Amani.

Sabato 8 ottobre a Matera, premiazione dei vincitori del concorso per giovani scrittori indetto dall’associazione culturale Energheia. Per la sezione “Africa Teller” – promossa in collaborazione con Amani e giunta alla sua 5ª edizione – la giuria ha preferito il racconto di cui proponiamo di seguito uno stralcio. Ne è autore uno studente di medicina keniano. La giuria era formata da Anna Maria Gallone (direttrice del Festival del Cinema Africano di Milano), Anna Pozzi(Mondo e Missione) e Pap Khouma (direttore di El Ghibli, rivista onlinedi letteratura della migrazione). Anche quest’anno i lavori dei finalisti sono raccolti in un volume, disponibile presso la sede di Amani.

Arrivarono le nuvole e si posero so-pra il piccolo paese. Poco prima c’erastato il sole e tutti avevano il sorrisosulle labbra. Poi, come uno sciame dilocuste, arrivò la nuvola dall’est che,spostandosi lentamente, produsseun’ombra scura al suo passaggio e,bloccando i raggi del sole, privò i lo-ro visi di luminosità rendendo tutti lu-natici ed ansiosi.Andrew sedeva su una sedia di fron-te alla finestra nel Joe’s Bar. Si chie-deva perché mai fosse venuto in que-sto posto abbandonato da Dio e dagliuomini.Si guardò intorno nel locale e scrutòle facce degli altri clienti. C’erano Ja-mes e Jones con la loro scacchiera, gliocchiali dalla montatura pesante edi cappellini a quadretti. Per molti ver-si si assomigliavano. E sempre sede-vano e giocavano a scacchi, quasi igna-ri degli altri, chiusi nel loro piccolomondo.Dall’altra parte si trovava il cieco.Andrew non era mai riuscito a capi-re di che cosa si occupasse, ma lo ve-deva ogni mattina mentre si recavaal lavoro. Suonava sulla chitarra lestesse vecchie melodie e cantava convoce rauca ma nient’affatto male.

Portava un po’ di musica in questo pic-colo paese.Maria col suo grembiule stava al ban-cone. Doveva essere stata bellissimanel fiore degli anni, ma la vecchiaial’aveva derubata di molte cose e leinon nascondeva la sua sofferenza e de-lusione. Quasi mai sorrideva e parla-va solo quando le si rivolgeva la pa-rola. Il suo grembiule bianco gli ri-cordava la maestra del collegio. Ladonna più glaciale e brutale che aves-se incontrato in tutta la sua vita.Angel, come veniva chiamata, giravaper il bar, parlando e sorridendo atutti. Lei era come Maria doveva es-sere nel fiore degli anni, e il pensie-ro che sarebbe invecchiata lo rattri-stava. Gli piaceva, ma era solo unabambina anche se possedeva la gra-zia di una donna.Distolse gli occhi dai clienti e guardòverso la finestra. Quello era il suo po-sto preferito nel Joe’s Bar e tutti sem-bravano rispettare quella sua prefe-renza. Non trovava mai nessuno se-duto lì e non ne chiese mai il motivo.Il buio lo colse di sorpresa. Lo spa-ventava da quando era bambino; pre-se il suo soprabito e mise una banco-nota sotto il suo cappuccino bevuto a

metà. Si alzò per uscire e sentì gli oc-chi di tutti fissarlo perplessi, chie-dendosi il perché.Sarebbe partito il giorno dopo. Si sa-rebbe avvicinato al capitano per dir-gli che si era stancato di quel posto do-ve nessuno sembrava importarsi dilui. Sarebbe tornato a casa dove l’a-vrebbero assillato con domande sul-la sua esistenza.Alzò lo sguardo verso il cielo e si di-resse verso la sua Renault nera. Erastata un regalo di Johnson Butler cheera arrivato e partito senza che nes-suno lo rivedesse mai più.Per un attimo sembrava che il mon-do si sarebbe spaccato, mentre le goc-ce di pioggia colpivano i tetti delle ca-se. Arrivò la prima ondata che fece tre-mare le case e gli alberi; lui stava allafinestra e guardava fuori, guardò ilampi di luce azzurrina sulle collinee si chiese – sì, si chiese – come si sa-rebbe sentito come uomo bianco, co-me sarebbe stato essere privilegiato,e parte del suo cuore sprofondò e de-siderò che uno di quei lampi lo colpissee, di fatti, quasi successe. Colpì la fi-nestra di fronte, mandando in fran-tumi i vetri. Ma ciò non lo distolse daisuoi sogni ad occhi aperti.

Gli ultimi momentidi Justus Kilonzi vincitore della 5ª edizione di “Africa Teller”

Premio letterario Energheia / Africa Teller