2005_febbraio

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AMANI Porta il tuo cuore in Africa Anno V, n. 1 – Marzo 2005 Spedizione in A.P. D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) Art. 1 comma 2, DCB Lecco Sudan, la pace perplessa www.amaniforafrica.org di Renato Kizito Sesana * Il 9 gennaio, finalmente, il trattato di pace per il Sudan – l’Accordo di Nai- vasha – è stato firmato. Ora le due parti che sono state in conflitto sin dal 16 maggio 1983, governo e movi- mento di liberazione (Spla), stanno lentamente mettendo in essere i com- plicati meccanismi previsti dal tratta- to, e la comunità internazionale si pre- para a monitorarli. Ci saranno sei mesi di pre-interim, durante i quali, fra le altre cose, si ela- borerà la nuova Costituzione. Poi co- minceranno i sei anni di interim, in cui la vita politica si dovrebbe normaliz- zare, seguiti da un referendum in cui i sudsudanesi potranno decidere che tipo di governo darsi. Prima della fi- ne del quarto anno ci dovrebbero es- sere elezioni a tutti i livelli, dalle am- ministrative nei villaggi alle presi- denziali. Da notare che i due firmatari dell’Accordo di Naivasha non voleva- no elezioni di alcun tipo prima del re- ferendum. Hanno dovuto piegarsi al- la volontà della società civile di ambo le parti che, sostenute dai facilitatori dei negoziati, le hanno chieste insi- stentemente. Il che la dice lunga sul- la mentalità democratica di governo e Spla. Ci sono altre considerazioni che non si possono evitare. Tra i nuba e i funj del Nilo Azzurro Meridionale c’è mol- to malcontento perché una loro ri- chiesta fondamentale, essere conside- rati parte del Sud, non è stata accet- tata. Ma la minaccia più grande sono i dram- matici avvenimenti del Darfur e quel- la che sembra essere una incipiente ri- bellione dei beja, nell’Est, che potreb- be diventare una sollevazione ancor meglio organizzata di quella del Dar- fur. Purtroppo non si può fare a me- no di pensare che alcune delle mani che hanno firmato l’Accordo di Naivasha siano le stesse che armano le due ri- bellioni. Un altro grosso pericolo è il possibile emergere di divisioni nel Sud, soprat- tutto da parte di popoli che non si so- no mai sentiti rappresentati dallo Spla. Il movimento di John Garang dovrà fa- re un enorme sforzo per trasformarsi in partito democratico. In sei mesi, dovrebbe mettersi nelle condizioni di governare il Sud Sudan oltre che di gio- care un ruolo importante a Khartoum. Ma dove sono i quadri? Anche se lo Spla dovesse immediatamente aprire le por- te agli esiliati che lo hanno aspramente criticato fino a pochi mesi fa, ciò non basterebbe a rimpolpare adeguata- mente il gruppo dirigenziale. Mi con- fidava di recente un pezzo grosso del- lo Spla che se il suo movimento rice- vesse nelle prossime settimane tutti i fondi promessi per l’educazione, la struttura logistica non sarebbe in gra- do nemmeno di spendere i soldi e di dis- tribuire libri e quaderni a tutte le po- che scuole attualmente esistenti. E poi l’Accordo di Naivasha non pre- vede nulla – lacuna incredibile – nel ca- so che una delle due parti “venisse a mancare” durante l’interim. Se un golpe rovesciasse il regime di Khar- toum o di Rumbek (che lo Spla ha scel- to come capitale per il Sud), o più sem- plicemente gli attuali leader non ve- nissero eletti fra quattro anni, chi sarà responsabile di portare avanti il pro- cesso di pace fino al referendum? Le due parti, dopo essersi accanitamen- te combattute per oltre un ventennio, Figli di Laura Mezzanotte pag 2 Lo Spunto Shalom House, chi aiuta chi di Alessandro Galimberti pag 5 News News La Scuola di Geremia di Daniele Parolini pag 5 A casa stavo male, in strada peggio a cura di Chiara Michelon pag 7 Occhio all’Africa I media alimentano il nostro banale immaginario dell’Africa. In che modo lo fanno? Il cinema africano ci propone un altro sguardo pag 3–4 Adozioni Un’immagine di Bye-Bye Africa, film di Mahamat-Saleh Haroun (Ciad, 1999) a pag. 2

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Figli Lo Spunto Adozioni pag2 www.amaniforafrica.org di Laura Mezzanotte di Renato Kizito Sesana* di Alessandro Galimberti pag 5 pag 5 pag 7 a cura di Chiara Michelon di Daniele Parolini Spedizione in A.P. D.L.353/2003 (conv.in L.27/02/2004 n.46) Art.1 comma 2, DCB Lecco Anno V,n.1 – Marzo 2005 Un’immagine di Bye-Bye Africa, film di Mahamat-Saleh Haroun (Ciad, 1999) a pag. 2

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AMANIPorta il tuo cuore in Africa

Anno V, n. 1 – Marzo 2005Spedizione in A.P.

D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46)Art. 1 comma 2, DCB Lecco

Sudan,la pace perplessa

www.amaniforafrica.org

di Renato Kizito Sesana*

Il 9 gennaio, finalmente, il trattato dipace per il Sudan – l’Accordo di Nai-vasha – è stato firmato. Ora le dueparti che sono state in conflitto sindal 16 maggio 1983, governo e movi-mento di liberazione (Spla), stannolentamente mettendo in essere i com-plicati meccanismi previsti dal tratta-to, e la comunità internazionale si pre-para a monitorarli.Ci saranno sei mesi di pre-interim,durante i quali, fra le altre cose, si ela-borerà la nuova Costituzione. Poi co-minceranno i sei anni di interim, in cuila vita politica si dovrebbe normaliz-zare, seguiti da un referendum in cuii sudsudanesi potranno decidere chetipo di governo darsi. Prima della fi-ne del quarto anno ci dovrebbero es-sere elezioni a tutti i livelli, dalle am-ministrative nei villaggi alle presi-denziali. Da notare che i due firmataridell’Accordo di Naivasha non voleva-no elezioni di alcun tipo prima del re-ferendum. Hanno dovuto piegarsi al-la volontà della società civile di ambole parti che, sostenute dai facilitatoridei negoziati, le hanno chieste insi-stentemente. Il che la dice lunga sul-la mentalità democratica di governo eSpla.Ci sono altre considerazioni che nonsi possono evitare. Tra i nuba e i funjdel Nilo Azzurro Meridionale c’è mol-to malcontento perché una loro ri-chiesta fondamentale, essere conside-rati parte del Sud, non è stata accet-tata. Ma la minaccia più grande sono i dram-matici avvenimenti del Darfur e quel-la che sembra essere una incipiente ri-bellione dei beja, nell’Est, che potreb-be diventare una sollevazione ancormeglio organizzata di quella del Dar-fur. Purtroppo non si può fare a me-no di pensare che alcune delle mani chehanno firmato l’Accordo di Naivashasiano le stesse che armano le due ri-bellioni. Un altro grosso pericolo è il possibileemergere di divisioni nel Sud, soprat-tutto da parte di popoli che non si so-no mai sentiti rappresentati dallo Spla.Il movimento di John Garang dovrà fa-re un enorme sforzo per trasformarsiin partito democratico. In sei mesi,dovrebbe mettersi nelle condizioni digovernare il Sud Sudan oltre che di gio-care un ruolo importante a Khartoum.Ma dove sono i quadri? Anche se lo Spladovesse immediatamente aprire le por-te agli esiliati che lo hanno aspramentecriticato fino a pochi mesi fa, ciò nonbasterebbe a rimpolpare adeguata-mente il gruppo dirigenziale. Mi con-fidava di recente un pezzo grosso del-lo Spla che se il suo movimento rice-vesse nelle prossime settimane tutti ifondi promessi per l’educazione, lastruttura logistica non sarebbe in gra-do nemmeno di spendere i soldi e di dis-tribuire libri e quaderni a tutte le po-che scuole attualmente esistenti. E poi l’Accordo di Naivasha non pre-vede nulla – lacuna incredibile – nel ca-so che una delle due parti “venisse amancare” durante l’interim. Se ungolpe rovesciasse il regime di Khar-toum o di Rumbek (che lo Spla ha scel-to come capitale per il Sud), o più sem-plicemente gli attuali leader non ve-nissero eletti fra quattro anni, chi saràresponsabile di portare avanti il pro-cesso di pace fino al referendum? Ledue parti, dopo essersi accanitamen-te combattute per oltre un ventennio,

Figli

di Laura Mezzanotte

pag 2 Lo Spunto

Shalom House, chi aiuta chidi Alessandro Galimberti

pag 5 News News

La Scuoladi Geremiadi Daniele Parolini

pag 5

A casa stavo male, in strada peggioa cura di Chiara Michelon

pag 7

Occhio all’AfricaI media alimentano il nostro banaleimmaginario dell’Africa. In che modo lo fanno? Il cinema africano ci proponeun altro sguardo pag 3–4

Adozioni

Un’immagine di Bye-Bye Africa, film di Mahamat-Saleh Haroun (Ciad, 1999)

a pag. 2

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2 AMANI

si trovano ora ad essere i migliori al-leati. Ciascuna ha bisogno dell’altra perrestare al potere. È questo un puntoestremamente delicato, che potrebbeessere sfruttato da chi avesse interes-se a bloccare il processo di pace. Bisogna infine osservare che sei annisono lunghi. Anzi un’eternità, sul pia-no della politica internazionale. Ancherispettando tutte le scadenze, il refe-rendum si terrà il 9 luglio 2011! Saràcertamente cambiato il presidente de-gli Usa come pure la maggior parte deileader europei. E nessuno può imma-ginare quale piega avranno preso la si-tuazione mediorientale, il mondo ara-bo in genere, il terrorismo e la corsaal petrolio. Scommettere che in una re-gione volatile come il Sudan tutto pro-ceda per sei anni secondo i meccani-smi previsti dal trattato, in maniera im-permeabile agli eventi internazionalie alle loro ripercussioni locali, è un az-zardo non da poco. È ovvio, una pace vera non si può man-tenere solo sugli equilibri di forze, ilcontrollo del rispetto formale dei trat-tati e la spartizione delle rendite pe-trolifere. Ci vuole qualcosa di più, unavera volontà di pace, comprendenteun’adesione non solo formale a fon-damentali principi di convivenza. Equi la strada sembra farsi più lunga edifficile. Ma è qui che le persone e leistituzioni che in questi anni sono sta-te presenti nelle due parti del conflit-to potrebbero dare un contributo po-sitivo. Fra di esse la comunità cristia-na, la chiesa, o le chiese. È vero che nonsono state capaci di svolgere un ruolorilevante durante la guerra, se noncome agenzie di aiuto umanitario. Ileader, vescovi o pastori, si sono qua-si sempre lasciati rimorchiare daglieventi, talora anche da particolari per-sone o interessi. Non abbiamo senti-to autentiche voci profetiche di pace.Non c’è dunque da meravigliarsi se,nonostante le tardive proteste per es-sere stati esclusi dai negoziati di Nai-vasha, nessuno li abbia presi moltosul serio. Ma la difficoltà a reagire conprontezza e con visione profetica allesfide dalla società e della politica è ab-bastanza normale nella storia dellechiese. Dove invece esse sono capaci diincidere è sui cambiamenti a lungascadenza, sulla formazione delle co-scienze. È in questo campo che, se-condo me, dovrebbero concentrare tut-ti i loro sforzi negli anni a venire. Ilpunto focale dell’azione cristiana po-trebbe essere la pastorale dei dirittiumani, con un’attenzione particolareall’educazione al dialogo, alla pace e al-la promozione della giustizia. Detto tutto questo, considerati tuttigli ostacoli e dopo aver chiarito chel’impegno da parte di quanti sono sta-ti coinvolti nelle vicende sudanesi, sulterreno o per partecipazione emotiva,non può scemare proprio ora, questi so-no giorni di pace, di celebrazione. Per Amani e tutti gli amici che hannolavorato insieme a noi per far conoscerele sofferenze e la dignitosa resistenzadei nuba conto l’oppressione del go-verno fondamentalista di Khartoum,per tutti gli amici che insieme a noihanno sacrificato tempo e risorse, emo-zioni e reputazione, che con noi han-no raccontato il martirio della chiesanuba e pregato insieme ai suoi cri-stiani, è tempo di celebrare.

Lo Spunto

Figlidi Laura Mezzanotte*

Progetti

Amani sostiene

Kivuli Street Children Project, un progetto educativo nato dall’iniziativadei giovani della comunità di Koinonia, che a Nairobi accoglie e sostienei bambini di strada di due grandi baraccopoli della capitale. Il Centro Ki-vuli accoglie in forma residenziale 60 bambini di strada curandone lacrescita e l’educazione, copre le spese scolastiche di altri 70 bambinied è aperto con vari progetti animativi a tutti i bambini del quartiere. Kivuli è diventato un punto di riferimento per i giovani e per gli adulti, conun progetto di microcredito, laboratori artigianali di avviamento profes-sionale, una biblioteca, un dispensario medico, un progetto sportivo, unlaboratorio teatrale, una sartoria, un pozzo che vende acqua a prezzi cal-mierati e uno spazio sede di varie associazioni e aperto a momenti di di-battito e confronto per i giovani del quartiere.

Casa di Anita, una casa di accoglienza sorta a N’gong (piccolo centro agri-colo a 30 km da Nairobi), curata da tre famiglie keniane, inaugurata nel-l’agosto 1999. La Casa di Anita accoglie 30 bambine di strada, alcune or-fane e altre figlie di famiglie poverissime, vittime di abusi sessuali, inse-rendole in una struttura familiare e protetta, permettendo una crescitaaffettivamente tranquilla e sicura.

Mthunzi Centre, un progetto educativo realizzato dalle famiglie della co-munità di Koinonia di Lusaka (Zambia) a favore dei bambini di strada. Il Centro Mthunzi, oltre ad accogliere 60 bambini di strada in for-ma residenziale curandone la crescita e l’educazione, è un punto di rife-rimento per la popolazione locale, con il suo dispensario medico e con isuoi laboratori di falegnameria e di avviamento professionale.

Riruta Health Project, un programma di prevenzione e cura dell'Aids, nel-le periferie di Nairobi, in collaborazione con Caritas Italiana.

Un progetto di emergenza a favore della popolazione delle Montagne Nu-ba e del Southern Blue Nile, provate dalla guerra e da quindici anni di iso-lamento, che consiste nell’invio di aiuti (sale, medicinali, attrezzi da lavo-ro, materiale scolastico, vestiti e sementi) per la sopravvivenza della po-polazione locale, e nell’accoglienza di rifugiati a Nairobi.

Due scuole primarie sui monti Nuba che garantiscono l’educazione dibase (l’equivalente della formazione elementare e media in Italia) aibambini della zona circostante, in assenza di altre strutture scolastiche.Attualmente ognuna delle scuole ha circa 600 alunni. Il progetto inclu-de anche una scuola magistrale per selezionare e formare giovani in-segnanti nuba (circa 50 ogni anno) in modo da riattivare la rete scola-stica autogestita dalle popolazioni della zona.

News from Africa, un’agenzia di informazione mensile prodotta interamenteda giovani scrittori e giornalisti africani, che raccoglie notizie e articoli diapprofondimento provenienti dai paesi dell’Africa subsahariana per poi dif-fonderle in tutto il mondo per via telematica e cartacea.

Africa Peace Point, organizzazione laica e apolitica che si prefigge la realiz-zazione di iniziative popolari per la costruzione e la diffusione di una culturadi pace nelle comunità africane; la sede è a Nairobi, dove APP si è dotata diun centro di documentazione e ha creato uno spazio in grado di ospitare fo-rum, sessioni di formazione sulla pace e incontri tra gruppi di base.

“ Amani People Theatre, una compagnia di giovani attori che lavorano peruna cultura di pace utilizzando il teatro per la mediazione di conflitti, conperformance e rappresentazioni nei campi profughi del Kenya e nelle co-munità di base.

Due nomi altisonanti del potere europeo degli ultimi decenni. Jean-Christophe Mitterrand, figlio dell’ultimo re di Francia, e Mark That-cher, rampollo scapestrato della donna che è stata la più potente d’Eu-ropa dopo Caterina di Russia. Sono figli beccati con le mani nella marmellata in due storie afri-cane recenti. Il primo è stato implicato in Francia nel cosiddetto Angolagate, sto-ria di armi, petrolio e corruzione nell’Angola decadente degli ulti-mi schizzi di guerra. Il secondo è in mano alla giustizia sudafricana– con tutte le comodità degli arresti domiciliari nella sua grande farmfuori Città del Capo – perché da qualche mese è implicato in un ten-tato golpe in Guinea Equatoriale. Le loro storie parlano di affari-smi, sottoboschi internazionali, legami ambigui e scadente senso del-la Storia. Faccendieri, si direbbe se fossero italiani. E dunque duefigli degeneri? Che tradiscono le grandi visioni dei loro genitori?I rispettivi padre e madre avevano, nei confronti dell’Africa, atteg-giamenti solo apparentemente opposti, in verità accomunati da per-fetta coerenza con il passato coloniale dei loro paesi. Grande pater-nalismo di Mitterrand, grandi parole di sapore socialista. Ma ferreogoverno degli interessi francesi nelle ex colonie. Senza remore anchedi fronte ai vari rois nègres, definiti "amici della Francia" nonostantele loro dittature, purché non mettessero in discussione il "cortile"francese. La Lady di ferro invece non aveva peli sulla lingua e non ave-va scrupoli nel mostrarsi amica dell’apartheid, con una linea cheguardava esclusivamente agli interessi inglesi, di influenza e geopo-litici forse ancor più che economici. Che cos’hanno dunque imparato Mark e Jean-Christophe? Perdonateci la perentorietà, ma probabilmente fin da piccoli hannocapito bene una cosa: l’Africa è terra di conquista. Uscendo dall’in-terpretazione psicologica, va anche detto che da sempre Jean-Chri-stophe è stato l’inviato di suo padre nel ministero delle colonie, cheper decenni è stato in mano alle stesse persone. Un gruppo di potereconsolidato, con fortissimi intrecci nel mondo petrolifero dove per tan-to tempo ha regnato il sanguigno corso, Charles Pasqua. Che succederà ai due rampolli? A Jean-Christophe, probabilmente nulla. La giustizia francese non èriuscita ad arrivare al cuore del sistema.

Mark Thatcher una condanna, sulla carta, l’ha presa, ma di fatto èlibero cittadino. Il pasticcio del tentato golpe è stato veramente gran-de. Nelle sue modalità pareva di vedere un film degli anni Cinquan-ta o Sessanta. Mercenari, finanzieri libanesi e Mark a fare da garan-te politico. Il governo inglese ha ammesso che qualcosina sapeva. Stacercando di togliersi elegantemente da una situazione politicamentemolto imbarazzante.Nessuno dei due signori in questione finirà, insomma, in galera. Vi-sto come va il mondo di questi tempi, ci pare difficile pensarlo. Ci resta solo la speranza che i loro figli non abbiano imparato la le-zione dei nonni.

*Laura Mezzanotte è giornalista. Collabora con Radio Svizzera e diverse testate. Ha viag-giato soprattutto nell'Africa australe.

da pag. 1 Sudan, la pace perplessa

Mark Thatcher con la mamma in una foto del 1975

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* Renato Kizito Sesana,giornalista e padre combo-niano, è socio fondatore diAmani. È stato direttore delmensile Nigrizia, titolare diuna rubrica sul Sunday Na-tion, fondatore di New Peo-

ple e ha dato vita all’agenzia di stampaNews from Africa. Continua un’intensa at-tività pubblicistica con varie testate italia-ne e non. Vive a Nairobi, in Kenya, pressoil Centro Kivuli. È fondatore e direttore diRadio Waumini, emittente cattolica volutadalla Conferenza episcopale keniana. Dal1995 si reca regolarmente tra i nuba del Su-dan realizzando con loro progetti di aiutoalle popolazioni locali.

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3AMANI

Dossier

Lorenzo

di Maria Silvia Bazzoli*

«ML’Africa nel suo cinema

“Noisiamocosì”

Il cinema evolve al ritmodell’Africa che cambia

a l’Africa dov’è?!»,chiese uno spettatore al termine del-la proiezione di Three, un raffina-tissimo cortometraggio di Isaac Ju-lien. Il regista – che è black, british,gay, autore di film sperimentali e vi-deo-installazioni che vedono l’uti-lizzo di supporti diversi e l’intrecciodi varie forme artistiche, ed è espo-nente di punta di una nuova gene-razione di artisti per i quali le vec-chie coordinate “etniche”, geografi-che, culturali e cinematografiche nonfunzionano più e il termine “africa-no” ha il sapore di una trappola dis-criminante – ricordo che invitò congarbo quel signore ad andare a cer-care l’Africa negli angoli nascosti odimenticati dell’Europa.Accade sovente di assistere alla de-lusione del pubblico italiano di fron-te all'identità sfuggente, non imme-diatamente connotabile, di un filmrealizzato da un autore, o autrice,d’Africa. Nel nuovo millennio segna-to dalla globalizzazione, dalle migra-zioni e dalle contaminazioni, non è so-lo la geografia umana e sociale del-l’Africa ad essere cambiata, ma il suostesso cinema. I vecchi confini (e quel-li nuovi che taluni ambirebbero ana-cronisticamente ad erigere) si rivela-no inadeguati a contenere realtà so-ciali e culturali molteplici, sfaccettate,in movimento. Cosicché anche il ci-nema africano si è andato spoglian-do dell’approccio oggettivo e ideologicodei suoi pionieri, per assumere sguar-di multipli, soggettivi, che percorro-no il mondo per restituire le espe-rienze e gli intrecci che compongonola trama intricata del nostro villaggioglobale. Un cinema, dunque, semprepiù meticcio e contaminato, tanto neicontenuti quanto nella forma – esplo-sa anch’essa in una totale commi-stione di generi, supporti e formati –che mescola fiction, documentario,diario personale, cinema, arte e tea-tro, pellicola e video… E proprio nel-l’urgenza della mobilità e dell’agilitàche questi nuovi percorsi richiedono,va letto anche il progressivo “sconfi-namento” del cinema verso il video ele tecnologie “leggere”.

Se il ruolo di cui si sentiva investitala prima generazione di autori africaniall'alba delle indipendenze era quel-lo del maître d'école, dell'intellettua-le che attraverso il cinema (inteso co-me potenziale scuola serale di un con-tinente analfabeta) aveva il compitodi dare volto e voce a un popolo finoad allora negletto, la generazione at-tuale rivendica la libertà artistica atutti i livelli. «Innanzitutto perché –come affermava Idrissa Ouédraogogià alla fine degli anni Ottanta – pri-ma che africano mi sento uomo, unuomo come tutti gli altri, cittadino delmondo». Il regista burkinabé, tra imaggiori interpreti della nouvelle va-gue africana, fu tra i primi a suscita-re scalpore con dichiarazioni che nonassecondavano le aspettative del pub-blico e della critica occidentali versoun cinema africano povero e artigia-nale, nelle cui ambientazioni, atmo-sfere e tematiche di villaggio fossepossibile ritrovare "l’autenticità" e "latradizione" – che noi europei abbiamoperduto, alle quali non intendiamoritornare ma dentro le quali vorrem-

mo condannare gli “altri”. Oppureche spiazzavano le attese nei con-fronti di un cinema prettamente po-litico e sociale, in linea con il dettatodell’intellettuale africano al serviziodel suo popolo. Ad affermare il proprio diritto ad es-sere nel mondo, in opposizione a unamiope cultura delle “riserve” – geo-grafiche e culturali – si sono levate,non sempre comprese, le voci più li-bere del cinema africano: «Non ve-do alcuna differenza tra FriedrichDürrenmatt e me, l’unica distanza èl’età», dichiarava con sottile ironiaDjibril Diop Mambéty quando gli ve-niva chiesto perché avesse deciso perHyènes di ispirarsi al testo di undrammaturgo svizzero piuttosto chea un'opera africana. Ouédraogo, come Mambéty, comeJulien e molti altri, non ha mai in-teso negare la propria identità cul-turale, ma piuttosto liberarla da fa-cili e pericolose semplificazioni. Perquesto crede che «il pubblico, e an-che quello africano, ha diritto a unbuon suono, a immagini nitide, benilluminate, ben montate… L’Africanon si inventerà le tematiche, essesono preesistenti, appartengono al-l’essere umano… Ma non ne parle-rà allo stesso modo».Dagli anni Novanta ad oggi il cine-ma subsahariano è ulteriormentecambiato. Mambéty se n'è andato la-sciandoci altre due piccole perle dipoesia e umanità (Le franc e La pe-tite vendeuse de Soleil). Ouédraogo,che all'epoca della succitata dichia-razione era al suo secondo lungo-metraggio (Yaaba), ha confermato lasua totale libertà creativa spaziandodal cinema agli spot contro l'Aids,passando per il serial televisivo, di-mostrando di essere in ogni fran-gente un superbo e ironico creatoredi immagini. Julien prosegue il suo

percorso di sperimentazione. Mentrealtri giovani autori e autrici si sonoimposti all'attenzione internaziona-le grazie all'uso delle tecnologie "leg-gere" che hanno reso possibile unamaggiore democrazia dell'immagineanche in Africa.In Sudafrica la fine dell'apartheidha aperto un nuovo e importante po-lo produttivo nella regione australerendendo possibile ai registi neri larealizzazione di film oltre che di vi-deo. Nello Zimbabwe il cinema d'a-nimazione ha dato finalmente alla lu-ce il suo primo lungometraggio (TheLegend of the Sky Kingdom), men-tre in Burkina Faso e Senegal sonocomparse le prime serie tivù.

Quanto all'Italia, si sono moltipli-cati i festival e le rassegne dedicatial cinema africano, benché i filmafricani continuino a rimanere igrandi assenti dagli schermi dei cir-cuiti commerciali. Si è veduto il ma-gico Aspettando la felicità del mau-ritano Abderrahmane Sissako. Il ci-nema di Sissako narra da sempre diarrivi, partenze e ritorni. Di esi-stenze sospese tra nostalgia e desi-derio, nella ricerca di altrove geo-grafici, affettivi e dell’anima, doveapprodare, a cui ritornare per subi-to ripartire, in un viaggio dove lameta non è che lo stesso viaggio. Atestimoniare che l’erranza è condi-zione esistenziale prima ancora chenecessità storica, sociale, culturale,e che l’identità non è questione diconfini geografici ma spazia – o sirinchiude – fin dove vuole lo sguar-do dell’anima.

*Maria Silvia Bazzoli, collaboratrice perle pagine culturali di Diario, è critico cine-matografico per Cineforum, Filmcritica,Ragazzo Selvaggio, Panoramiche, e cura-trice di manifestazioni di cinema africanoe meticcio.

Da Nuovi graffiti d’Africa, raccolta di affiches del Coe

Carrellata1957 Afrique-sur-Seine, cortometraggio di Paulin Soumanou Vieyra

(Senegal), segna la nascita del cinema africano.

1966 Sembène Ousmane si impone all'attenzione internazionale con La noire de..., Tanit d’oro delle prime Giornate Cinematografichedi Cartagine (Jcc; biennali), a Tunisi.

1968 Le mandat, ancora di Sembène, è il primo film africano a Venezia.Premio Internazionale della Critica.

1969 Prima edizione del Fespaco, Festival Panafricano del Cinema diOuagadougou (biennale), in Burkina Faso.

1975 Palma d'oro di Cannes a Chronique des années de braise di Mohamed Lakhdar-Hamina (Algeria).

1981 A Verona, prima Rassegna di Cinema Africano (giunta nel 2004alla 24ª edizione).

1991 A Milano, primo Festival del Cinema Africano (15ª edizione inquesto mese di marzo).

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4 AMANI

Dossier

Specchi deformanti

Algeria

Ghana

Costad’Avorio

Liberia

Sierra Leone

GuineaGuineaBissau Benin

Togo

Libia Egitto

Sudan

Rep.Centrafricana

Etiopia

Eritrea

Gibuti

Rwanda

BurundiR.D.Congo

Gabon

Camerun

Nigeria

Niger

Burkina Faso

Guinea EquatorialeCongo

Tanzania

Uganda

Malawi

Swaziland

LesothoSudafrica

Zambia

Botswana

Namibia

AngolaMozambico

Madagascar

Comore

Seicelle

Zimbabwe

Kenya

MauritaniaMali

Marocco

Ciad

Somalia

Tunisia

SenegalGambia

Capo Verde

La concorrenza sleale dei prodotti cinesi non pro-voca scompiglio solo nel ricco Occidente, anche ipaesi africani sono stati investiti dalla marea ellecontraffazioni. Fra le vittime ci sono le "Nana Benz".Si tratta di donne imprenditrici del Togo, del Gha-na, della Costa d'Avorio e del Benin, così chiama-te perché i loro successo negli affari aveva comestatus symbol un'immancabile Mercedes Benz. Sindagli anni Sessanta le Nana Benz erano diventatele punte della lenta ma tenace emancipazione fem-minile in Africa, e dominavano il campo tessile. Perla verità le stoffe colorate venivano fabbricate inOlanda, Inghilterra e anche Giappone, ma nei lo-ro empori tutto prendeva un'aria africana. Ora i cinesi vendono a prezzi cinque volte inferio-ri. Sono cominciati i primi processi per contraffa-zione, ma la maggioranza delle Nana Benz sulla so-glia della pensione vedono il futuro delle loro fi-glie, le Nanettes, molto, molto incerto.

In Breve

di Jean-Léonard Touadi*

L’Africa nei media europei

Zhor Rehihil, musulmana e militante pro-pale-stinese, è da quattro anni la conservatrice di unmuseo dedicato al giudaismo, unica istituzione delgenere esistente nel mondo arabo. Il museo hasede in una villa di Casablanca, strettamente sor-vegliata dalla polizia, ma le parole di Zhor sem-brano sciogliere ogni tensione. «La presenzaebraica in terra araba risale alla notte dei tempie al cultura marocchina è, prima di tutto, arabo-musulmana, ma comprende anche elementi ber-beri, africani, andalusi ed ebrei». Zhor Rehihil ha dedicato la sua tesi in antropolo-gia alla minoranza ebraica marocchina: «Volevocapirli, conoscerli, scoprire se esiste una diffe-renza tra i nostri ebrei e quelli che da studentes-sa vedevo solo come massacratori dei palestine-si». Ora la giovane studiosa insegue un grande pro-getto: presto il museo dovrebbe ospitare incontriinterconfessionali. Sulla strada della pace si mar-cia insieme.

I cinesi tagliano la strada alle Mercedes

Un museo per intendersi

Ai nostri giorni la cosa più importante sembra es-sere quella di avere una buona immagine. Il re-sto non conta. Sarà per questo che MuammarGheddafi ha chiesto a un'agenzia statunitense dimigliorare il disastroso look che il regime libi-co ha negli Stati Uniti. Il contratto con la FahmyHudome International di Washington gli coste-rà circa un milione e mezzo di euro per un an-no. Nemmeno troppo, per fare del lobbying a unuomo che sino a poco tempo fa terminava i suoidiscorsi con la frase: «Che l'America vada aldiavolo!». Un lavoro analogo, ma stavolta per ingraziarsiGheddafi, è stato intrapreso da Kenneth Kaun-da, l'ottantenne ex presidente dello Zambia.Kaunda ha lasciato il suo ruolo di pensionato edè andato in Libia a perorare la causa dell'ami-co Albert Reynolds, ex primo ministro irlande-se. Reynolds ora presiede la Life Energy Tech-nology Holdings Inc., che fa progetti per rici-claggi di rifiuti e per esplorazioni petrolifere.Gli amici si vedono nel "bisogno".

Lifting a Tripoli

P

Maurizio

uò uno dei paesi più poverial mondo spendere per organizzareun festival di cinema? A questa do-manda provocatoria di un giornalista,l'ex presidente del Burkina Faso, Tho-mas Sankara, replicò che consuma-re le immagini degli altri è come sui-cidarsi culturalmente. E, molto piùtardi, alla stessa domanda lo storicoe scrittore congolese Henri Lopesesclamava, quasi irritato, che «l'Africaha bisogno, e subito, del suo cinema,perché nessun popolo può vivere alungo consumando le immagini deglialtri».Ma il problema degli africani non èsolo il consumo di immagini altrui.È anche quello di riscattare l'imma-gine di sé e della propria terra pro-dotta da altri, gli europei. Un'im-magine veicolata, per secoli, dallaletteratura etnografica, l'iconogra-fia coloniale e i racconti missionari.Un corpus considerevole di stereotipi,pregiudizi, elaborazioni teoriche cheformano una galleria di rappresen-tazioni ed è ormai entrato a far par-te dell'inconscio collettivo dell'uomoeuropeo, tuttora ben vivo.È possibile rintracciare i principalifiloni dell'immagine dell'Africa e de-gli africani, riduttiva o distorta, chei mezzi di comunicazione continua-no a perpetuare (ce lo conferma, per

l’Italia, anche una recente indaginedell’Università di Siena per Amref:L’Africa scomunicata). Il primo fi-lone è quello di un continente con-cepito come un tutto indifferenzia-to. Un luogo geografico senza di-stinzioni e con storie intercambiabili.L'Africa come un immenso villaggiodove accadono "cose strane" che ap-partengono a quel genere particola-re di uomini, gli africani appunto,senza tempo e senza spazio definiti.L'Africa come un luogo mentale,piuttosto che un insieme di realtàspecifiche con il loro radicamentogeoambientale, delle storie diversi-ficate, un bagaglio antropologico,modi di dire e di esprimere l'assolu-to, il bene e il bello, difficilmente ca-talogabili in modo onnicomprensi-vo. L'Africa intesa come un magmainforme è un’invenzione europea,una costruzione coloniale finalizza-ta a giustificare l'imperialismo otto-centesco.Occorre invece ripristinare i millecolori delle "Afriche" che declinano alplurale l'esser negri. L'agilità tipica-mente nomade delle culture ai bor-di del deserto, l’impressionante com-postezza dei popoli del Sahel, la vi-tale esuberanza degli abitanti dellagrande foresta equatoriale, la fiera re-sistenza dei guerrieri dell'Africa au-strale oppure la gentile ospitalità dialcuni popoli delle savane vicine al-l'Oceano Indiano, non sono proprioomologabili. E poi è una questione digiustizia: ogni popolo ha diritto che

le sue gesta siano raccontate nella lo-ro intrinseca novità e non annegatein un vasto e anonimo contenitore,chiamato Africa.

Il secondo filone è quello di un'Afri-ca succursale dell'inferno, un infer-no con tanti gironi. Ciascuna con-sorteria “pro Africa” si impadroniscedi uno e lo spaccia per il tutto. Ogniassociazione ha la “sua” Africa: quel-la dei lebbrosi, dei bambini soldato,dell'Aids, dei pozzi da scavare, dellemutilazioni genitali da combattere(battaglia sacrosanta!), delle perife-rie degradate, degli street boys, dellemasse da evangelizzare. È l'Africadella messinscena e della spettaco-larizzazione, anche dello sfrutta-mento della sofferenza altrui a fini difund raising. La fibra emotiva è di ri-gore. Si tratta di suscitare la pietasdel donatore senza preoccuparsi di farcapire le cause remote e attuali ditali situazioni. Qui gli africani sonopassivi, oltre che pazienti, in attesache irrompa il deus ex machina eu-ropeo che tutto sana, salva e risolve.E vengono poi mostrati ballanti ecantanti, grati di fronte a tanta ge-nerosità. Quest'Africa della bontà eu-ropea ignora la soggettività di popo-li che da sempre si sono caratteriz-zati per la loro capacità di resistenzae débrouillardise (l’arte di arran-giarsi). Donne, giovani e intere co-munità – tramortiti dai meccanismidella globalizzazione neoliberista e dapoteri locali conniventi – che cerca-

no di dare un senso alla loro esi-stenza, ridotta ad una ginnastica in-dividuale e collettiva di sopravvi-venza.Cambiare l'immagine dell'Africa si-gnifica non “essere voce” di questerealtà, come spesso si dice, ma tendereun megafono perché queste voci ar-rivino il più lontano possibile. In al-tri termini, l'immagine delle Africheche hanno smesso di guardare il cie-lo degli aiuti rende giustizia alla real-tà di un continente che ha imparatoad "ottimizzare l'anarchia" della po-litica e dell'economia ufficiali. Questoforse servirà poco alle operazioni diraccolta di fondi, ma sarà più ade-rente al vissuto degli africani.

C'è infine l'immagine di un'Africa ri-piegata sul suo passato, ritenuto mi-gliore del suo presente. Un'Africabaobab, dalle radici che attingono al-la notte dei tempi. È la terra serba-toio di valori primordiali – archetipici– dove l'uomo europeo smarrito nel-la giungla del post-moderno hi-techpotrebbe ritrovare un "supplementod'anima". È l'Africa immutabile chedeve rimanere tale, per la gioia deicandidati al mal d'Africa.A forza di considerare quest'Africa dalsapore archeologico insopportabilesi corre il rischio di non scorgere lavitalità lussureggiante delle Africheflamboyant. Il flamboyant è l'alberosimbolo di un'Africa che sorride alpresente e ride al futuro. Uomini,donne, giovani che senza più il com-

plesso coloniale si lanciano nell'av-ventura di modellare il loro vissuto,attingendo contemporaneamente al-la ricca tradizione e al discernimen-to delle cose nuove e buone che por-ta la modernità degli altri. Cambia-re l'immagine dell'Africa è seguire lapista mutevole delle evoluzioni chespiazzano e che cantano l'Africa co-me "pentola che bolle".

*Jean-Léonard Touadi, originario delCongo, è giornalista (Rai, Nigrizia e altretestate) e conferenziere.

Come ridurrea un magma indistinto

un continente cosìvasto e differenziato?

Sahara Occ.

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una calda domenica di settembre e Francesco,venuto a conoscenza delle mie frequentazioni africane, ha vo-luto incontrarmi. Dopo pochi secondi articola l’immancabi-le: «Anche a me piacerebbe fare del volontariato. Come pos-so fare?».Alzi la mano chi, di ritorno dal continente nero, non si èsentito rivolgere almeno una volta una domanda del genere.La tentazione è quella di rispondere: «Ma tu cosa sai fareper renderti utile in Africa? Credi che non ci siano cuochi,là, infermieri, agronomi, muratori, ingegneri? Credi di po-ter essere utile solo perché sei bianco?». Ma significhereb-be castrare ingiustamente lo slancio idealista del malcapi-tato interlocutore. Allora cerco in qualche modo di esserepropositivo. Fino a poco tempo fa le mie indicazioni risul-tavano scarsamente risolutive e, soprattutto, poco convin-te: «Ci sono i gruppi missionari, i campi di lavoro, le Ong…Informati a questo numero». Poi, a Nairobi è sorta ShalomHouse. Sono rimasto affascinato dall’autenticità di questaesperienza e la ripropongo con entusiasmo ai potenzialiesploratori.

Mentre Francesco espone le sue motivazioni, penso a quan-to la nostra immagine dell’Africa sia intrisa di approssi-mazioni mediatiche e luoghi comuni, cui la prosopopea ter-zomondista di alcuni missionari ha fornito un fertilissimohumus. Neppure persone profonde e preparate come Fran-cesco ne sono immuni. Comincio a svelargli la proposta. Par-to ovviamente narrandogli dell’esperienza vissuta, dellepersone incontrate. Francesco sulle prime resta deluso:vuole il volontariato, fare qualcosa per gli altri. Si aspettabambini da salvare, vite umane da redimere, affamati e as-setati, bassifondi della storia, mutilati, case da erigere…La mia mente corre, invece, agli amici di Shalom House.Alle loro facce. Alle mille iniziative che gestiscono con com-petenza. Alle stanze semplici e pulite, con doccia e bagno,che potrebbero ospitare Francesco e i suoi amici per quat-tro soldi… Forse troppo comode per l’avventuriero che mista davanti. Eppure così funzionali a quello che dovrebbeessere l’obiettivo fondamentale di chi vuole conoscere l’A-frica: farsela raccontare da chi ci è nato e ci vive; immer-gervisi senza preconcetti, senza tempistiche imposte daprogrammi o progetti da rispettare.Ricordo il sorriso, la disponibilità e l’entusiasmo del dot-

tor Michael Ochieng ogni volta che presenta l’opera di cuiè coordinatore. Che cosa direbbe Mike a Francesco? Comedefinirebbe Shalom House? Non potrebbe fare riferimen-to a categorie nostre quali: albergo, casa di accoglienza, ora-torio, circolo culturale e ricreativo, centro sociale, centroformazione, mensa comunitaria, centro congressi, centrodocumentazione, organismo per il turismo solidale, centrostudi, agenzia di stampa, Ong, associazione pacifista, co-munità cristiana… Perché Shalom House è tutto questo,caro Francesco, ed ha una vera e propria anima: Koinonia,una comunità con volti e storie precise, di persone che sisono riunite per condividere sogni, opere, amicizia, impe-gno per lo sviluppo, preghiera. L’ispirazione viene da lon-tano, dalla tradizione dei primi cristiani e dalla loro vogliadi incidere sulla realtà circostante, di rispondere ai biso-gni così come si manifestano nel quotidiano.

Finalmente raccomando a Francesco di recarsi per qual-che giorno o settimana a Nairobi, dove lui e i suoi amicipotranno incontrare quella che chiamano la vera Africa.Francis, George, Bernard e gli altri sapranno guidarli at-traverso Kibera, una delle baraccopoli più grandi del mon-do – Mike la chiama ancora "casa mia". Poi al Kivuli Cen-tre e alla Casa di Anita. E, perché no, ai safari nei più beiparchi del mondo, ad una gita alla Rift Valley, ai villaggimaasai. Troveranno persone in grado di accompagnarli nel-lo spirito del turismo responsabile. E perché non scopri-

re come si producono tè e caffè o altri prodotti del com-mercio equo?Lo avverto che si imbatterà in giovani in giacca e cravatta,con fogli e cartelle tra le mani. Sono quelli di Kards, un brac-cio di Koinonia che effettua consulenze professionali in ma-teria di economia e sviluppo. Ora stanno studiando un pro-getto di microcredito. Inoltre non deve dimenticare di far-si spiegare come opera Africa Peace Point, oppure diimmergersi nella redazione di News from Africa per rendersiconto di come le informazioni che circolano nel Nord a pro-posito del Sud del mondo siano limitate e superficiali…Mi permetto di dargli un ultimo consiglio: cerca di conoscerequesti giovani africani e la loro storia. È un modo rivolu-zionario ed efficace per “aiutare” l’Africa. Conoscere la gen-te, avere degli amici, fare un pezzo di strada insieme. Tor-nerai con una prospettiva nuova e sarai realmente missio-nario. Ma non in Africa, bensì nel tuo paese. Contribuendoa creare davvero quella cultura tanto reclamizzata del vil-laggio globale. Shalom House e Koinonia sono una commovente fucina ditalenti e di idee sorte attorno a un cristianesimo “africano”per certi versi più autentico, per altri ancora acerbo, ma chevivifica ogni piccolo seme gettato sulla buona terra. Che quiabbonda, grazie a Dio.

*Alessandro Galimberti, pubblicista, già consulente di Caritas Italia-na, è socio di Amani.

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News

Chi aiuta chi Shalom House

Uno scorcio della Shalom House

di Alessandro Galimberti*

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Lezione di informatica nella Geremia School

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La staffetta è una delle gare più bel-le e spettacolari dell’atletica leggeraperché chi partecipa corre più per icompagni che per se stesso. La staf-fetta di cui vogliamo parlarvi nonappartiene allo sport ma il suo tra-guardo è assai più nobile ed elevato.È cominciata quando gli amici han-no visto cadere, a soli 51 anni, Ge-remia Bosio, un talento dell’infor-matica ma soprattutto un impareg-giabile educatore. In quella tragicacircostanza è scattata la staffetta cheora congiunge Brescia con Nairobi,l’Italia dell’evoluzione tecnologicacon l’Africa emarginata.Gianni Argenziano, Renzo Fracassi,Carlo Archetti, Luigino Bonari, Bat-tista Bosio e Mario Moretti hannopensato a ciò che Geremia aveva nel-la mente e nell’anima. Alle parole cherivolgeva agli allievi, sia che fosse al-l’università sia che fosse a casa sua,dove era sempre pronto, ad ogni oradel giorno, a dare consigli ed esempi

pratici ai giovani. «Bisogna studiare»,diceva loro in dialetto bresciano. «Han-no bisogno di aiuto», diceva agli ami-ci per giustificare la sua totale, com-pleta dedizione agli studenti.Gli amici di Geremia si sono passa-ti il bastoncino della solidarietà, del-la fratellanza, ed è nata una bellis-

sima squadra. Forse è stata fatta ri-cordando il viaggio di Geremia ven-tenne nel Burundi. Forse è stata l’im-magine di Geremia, felice nella sua500 traboccante di ragazzi del Mo-zambico, ai quali teneva dei corsi diformazione, a stabilire il traguardodi questa struggente staffetta.Ora il traguardo è stato raggiunto edall’anno scorso decine di ragazziafricani possono stare al passo dei lo-ro coetanei europei e americani nel-l’evoluzione informatica. Brescia, te-nace e schiva campionessa del vo-lontariato, registra con naturalezzae semplicità questo nuovo piccolo-grande progetto.È l'abbraccio ideale fra gli ex-conta-dini padani trasformatisi in im-prenditori industriali e gli ex-conta-dini africani in cerca di un futuromigliore. «La mia tenacia - solevadire Geremia - viene dalla terra, dal-la mia origine contadina». E ne erafiero. (Daniele Parolini)

Staffetta contadina La “Scuola di Geremia”In alcuni locali della Shalom House è operativo, dal febbraio 2004, lo Shalom In-formation Technology Centre. È una scuola che contribuisce a colmare il digital di-vide Nord/Sud proponendo ai giovani keniani corsi di informatica, una formazioneprofessionale di qualità. A fine 2004 erano 74 gli studenti che avevano già comple-tato i corsi, di durata variabile tra le due settimane e i tre mesi, che vanno dalle no-zioni basilari di computer alle certificazioni A+, I-Net+ e Network+. Senza dimenti-care Linux, il sistema alternativo ai costosi Windows e affini. L’avvio dello Shalom IT Centre, che ha naturalmente il suo bel sito (www.shalomit-center.co.ke), è stato reso possibile dagli amici di Geremia Bosio, che hanno lan-ciato il progetto "Geremia School".

Geremia Bosio

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6 AMANIA d o z i o n i

È l’African Children Day, bellezza!di Gianluca Sebastiani*

Aids, non solo soccorsodi Maria Chiara Cremona*

«Prendi, ci sei quasi… Mancato! Dài, riprova… ecco! No, nean-che questa volta».Il Kenya si sveglia all’alba indaffarato come il tubo di scap-pamento di una vecchia Lambretta. Ciascuno inizia il suogran daffare, vendere riparare spadellare. Piano piano però siprendono le misure alla giornata, che già prima di pranzoscorre tranquilla come un diesel a regime e sembra non pro-mettere sorprese. È allora che arriviamo noi, annunciati dalla voce metallica del-l’altoparlante. Oggi è la Giornata Africana dell’Infanzia. AllaCasa di Anita c’è fermento già da un po’, tra cartelloni da im-bastire e ciclostilati da volantinare, slogan per tenere alto ilnome e pièce teatrali da rappresentare in itinere, su ogni tipodi terreno. Parlano di genitori carenti o colpevoli, della vita distrada, di un numero imprecisato di fratelli o sorelle dimen-ticati.Varchiamo il cancello e ci mettiamo in marcia. Come serpen-tone è un po’ scomposto: Patrick alla guida del pick-up dovrebbestare in testa, e noi dietro a piedi. Ma gli tagliamo la strada,gli entriamo dalla portiera, sediamo sul cassone. Intanto qual-cuno inizia a notare i cartelloni che sventolano nell’aria, e tut-te queste bambine con la maglietta bianca e la scritta rossaAnita Home.Assaliamo Ngong dalle spalle, diretti alla spianata del merca-to. Per raggiungere il mercato da questa direzione dobbiamo

attraversare un piccolo slum della cittadina. La gente è tuttaper strada, non ci son dubbi. Qualche baracca ha una speciedi veranda, che fa ombra a uomini appisolati su qualche cas-sa, intenti a scrutare la giornata. Nessuno sta dentro casa. C’èuna forza centrifuga che spinge fuori, tra la polvere, accom-pagnata da un clima caotico. Noi anziché serrare le fila ci spargiamo nel caos, mentre l’al-toparlante gracchia più forte. È un viavai di volantini che dis-tribuiamo per far conoscere Casa di Anita. Vedo Sharon ri-spondere a un uomo che le ha detto qualcosa. Sembra anzia-no. Indossa una giacca trasandata e barcolla. Sharon inizia acorrergli incontro e a dire: «Prendi!». Se lui allunga la mano,lei ritira il foglietto. Poi glielo fa passare di nuovo sotto il na-so, gioca a confonderlo. Lui tenta anche una corsa, ma con tut-ta la buona volontà resta un uomo vecchio e ubriaco, colpitosul fianco da un folletto irriverente di 14 anni. Mi godo la sce-na. È la rivincita di una ragazzina su di un mondo di adultiche ha provato a schiacciarla. Qualsiasi cosa abbia subito Sha-ron da uomini del genere mentre stava per strada, non le han-no tolto la vita e la voglia di qualche sberleffo.Oramai si è divertita. Chiamo il malcapitato per scamparlo dal-le grinfie della ragazza. Non appena mi stringe la mano, miinveste una zaffata di alcol sporco. Siamo quasi giunti al mer-cato per la nostra rappresentazione. Il vecchio stenta a mol-larmi. Povero anche lui, conciato così.

Poi ho un’idea. «Scusa, Sharon, hai un volantino?». Lo porgo alvecchio. «Shika mzee, prendi! Ci sei quasi… mancato. Dài, ec-co… No!». Come serpenti che cambiano pelle, le bambine arri-vano al mercato a scombinarne l’ordine. È l’African Children Day.

*Gianluca Sebastiani è un volontario che ha partecipato a uno dei cam-pi estivi 2004 di Amani.

Joseph ha sette anni, due fratelli, non ha più genitori. Il pa-dre non l’ha mai conosciuto, la madre è morta qualche an-no fa, di Aids. Non è uno scherzo essere malati a Nairobi, sevivi in baraccopoli e sopravvivi grazie a lavori occasionali, per-ché la malattia ti debilita fino al punto in cui non ce la faipiù a lavorare, e il tuo destino è la fame. Per di più l’Aids èportatrice di componenti culturali che riducono il malato al-la segregazione, lo allontanano dalla famiglia, ne fanno unrigettato dalla comunità. Completamente solo, quindi, con lamalattia, la sofferenza fisica e psicologica, e magari dei figlia carico. Figli che si trasformano da bambini da curare in bam-bini che curano, i cosiddetti care givers, che sono vicini allasofferenza dei genitori, che affrontano la morte così piccolie soli.Al funerale della mamma di Joseph c’erano cinque persone,oltre ai tre figli. Nessun altro. Bernard, il più grande, pian-ge ancora quando ci pensa. Come se la madre non fosse sta-ta capace di amare, come se tutto quello che ha fatto per lo-ro non fosse riconosciuto da nessuno, come se loro non esi-stessero, vittime dell’indifferenza della baraccopoli. Joseph è ora a Kivuli, dopo qualche mese di vita di strada chesignifica fame, solitudine, ancora una volta discriminazione

e mancanza d’amore. Quante volte ha dovuto fare i conti conemozioni negative, con la sofferenza. Eppure non si sente cat-tivo, non si sente un chokora (bambino di strada) da allon-tanare perché pericoloso. Sente forte il legame con la madremorta, con i fratelli. Sente di appartenere a una famiglia, oraa due – la sua di origine e Kivuli. Kivuli non è solo il luogo del soccorso: un letto, cibo tutti igiorni, la possibilità di andare a scuola, un gruppo di amici,degli educatori che si prendono cura di te, una struttura cheti accoglie. Kivuli è anche il momento dell’accettazione delpassato e della creazione di basi per un nuovo futuro. Kivu-li è anche il momento del lavoro su di sé, dell’accettazionedel trauma e di tutto il dolore dell’infanzia, per accettarlo co-me parte della propria storia e andare oltre. A Kivuli non si può ignorare la pandemia, che tocca troppibambini, orfani o meno. Durante la settimana dell’Aids, or-ganizzata dallo staff del Riruta Health Project (con sede alKivuli Center, si prende cura di persone affette dall’Hiv nelquartiere) in occasione della Giornata Mondiale dell’Aidsdel 1° dicembre, i bambini sono stati coinvolti in attività diprevenzione. Una giornata insieme allo staff e a un gruppodi giovani volontari formati su tematiche relative alla pre-

venzione: un esercizio di pulizia del Centro (un semplice mo-do per imparare la cura delle cose che ci stanno intorno) epoi un breve momento di confronto sull’Aids, per finire conun po’ di animazione e uno snack per tutti. La giornata, ben partecipata, è stata l’occasione per lo staffdel Riruta Health Project di toccare con mano quanto è im-portante creare per i piccoli ospiti della comunità dei momentiin cui confrontarsi sui temi che riguardano la loro vita. Si èpensato allora, insieme agli educatori, di organizzare due vol-te la settimana un forum con i bambini in cui trattare te-matiche diverse: non solo Aids, ma la crescita in generale, lerelazioni, l’uso di droghe ed alcol... Una volta al mese viene proposta una terapia di gruppo, perle varie fasce di età, che vada più in profondità, in modo daaffrontare i disagi che i bambini provano. Viene inoltre loroproposta la possibilità di counselling individuale, per chi sisente di aprirsi con una persona adulta che possa capirlo, aiu-tarlo e guidarlo.

*Maria Chiara Cremona, operatrice di Caritas Italiana, si occupa delRiruta Health Project e di altri progetti (microcredito e attività generan-ti reddito).

Casa di Anita

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C'era una volta un uomo chiamato Sholaye. Era enorme, etutti nel villaggio di Moring sui Monti Nuba lo temevano.Sholaye era un buon cacciatore e si era fatto un nome trala gente di Moring.Un giorno cadde ammalato, al punto di non potere parlarené aprire gli occhi. Quando sua moglie lo vide in quello sta-to, pensò che fosse morto. Pianse e pianse finché tutti nonsi radunarono fuori della sua casa. Ancor prima che Ngachamil medico arrivasse, Sholaye fu dichiarato morto e si co-minciò a preparare il funerale. Dei giovani furono mandatia scavare la fossa e gli anziani si occuparono degli ultimi ri-ti. Mentre portavano Sholaye alla tomba, questi si riprese,ma non riusciva a parlare. Tentava di far capire a gesti chenon era morto, ma nessuno gli faceva caso. Giunti al cimi-tero, lo calarono nella tomba e se ne andarono subito via.Sholaye era stanco di protestare e rimase tranquillo nellatomba. Si riposò ancora diverse ore, fino a ristabilirsi del tut-to. Quando si sentì bene, decise di uscire dal tumulo. Comeè tradizione fra i nuba ghulfan, sulla tomba era stata collo-cata una pentola. Sholaye la spostò delicatamente e venne

fuori. Si sedette a riposare sull'orlo della fossa finché nonfece buio, e s'incamminò verso casa. Giuntovi, andò dirittoda sua madre. «Dove sei stato, figlio mio? – chiese la madre– Non ti hanno seppellito oggi?». «Non sono morto, Aia», re-plicò Sholaye. «Ero solo malato e mi sentivo debole. Al ci-mitero ho cercato di dirlo, ma nessuno mi sentiva». «Puoidirmi – soggiunse allora Sholaye – chi sono stati coloro chemi hanno condotto alla sepoltura?». La madre parlò. Sho-laye ringraziò e poi giurò: «D’ora in poi, io vivrò nella soli-tudine e non darò pace a quanti mi hanno fatto morire pri-ma della morte».Da buon cacciatore, prese la sua lancia e due cani e andò avivere in zone selvagge, da dove poteva venire a turbare l'in-tero villaggio. Sholaye compariva di notte e metteva pauraa chiunque si trovasse fuori casa. Per questo la gente smi-se di uscire la notte e Sholaye si trasferì a Tima, dove tra-scorse il resto dei suoi giorni con il popolo tima.

Questa storia è tratta da Once Upon a Time in the Nuba Mountains(vedi pag. 8).

Sholaye sepolto vivo

Kivuli Centre

Monti Nuba

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Erano i più grandi del gruppo a darci la colla. Io, Lazaro, non avevoi soldi per prenderla. Quando sniffi ti senti leggero leggero, come unapiuma. E non senti fame. Se la sniffi prima di andare a dormire ti ad-dormenti subito, senza pensare a niente. Sono rimasto cinque settimane per la strada. Avevo dieci anni. Dor-mivo nei corridoi e davanti alle entrate dei negozi, col mio cartonci-no preso tra la spazzatura. Me lo portavo sempre in giro, per pauradi non trovarne un altro per la notte successiva. Quando faceva buiolo stendevo con cura per terra e mi sdraiavo. Ci trovavamo con tuttoil gruppo, ci si metteva in cerchio e si accendeva il fuoco in mezzo. Sista bene vicino al fuoco, col caldo che combatte contro la notte fred-da. Si parla, si chiacchiera, si sniffa colla e poi si dorme. Fino al gior-no dopo.Non si deve mai dormire nello stesso posto perché c’è il rischio dellapolizia. Se ti beccano ti picchiano, perché dormire vicino ai negozi nonsi può. Sono luoghi privati e la polizia ha pistole grandi per farti ma-le. Ogni tanto mi hanno preso e mi sono preso tante botte. Per for-tuna esistono gli amici, in strada, che ti aiutano.Era importante essere amico di Charles perché lui conosceva bene ipoliziotti. Uno di loro in particolare era suo amico e ogni tanto ci da-va qualcosa da mangiare.Fu sempre Charles a insegnarmi come ci si deve comportare in stra-da e come dormire per non essere picchiati o derubati. Senza di luisarei stato perso. E avrei sbagliato tante volte. Quando sbagli c’è sem-pre qualcuno che ti picchia.Ad esempio da lui imparai che devi stare attento a non dormire, sehai dei soldi dietro. Devi spenderli e non tenerteli mai addosso. Io pen-savo che fosse utile raccogliere i soldi delle elemosine e nasconderlisotto i vestiti, tenerli per domani, per mangiare. Ma Charles mi dis-se che era un grande errore. Se mentre dormivi qualche altro ragaz-zo di strada sapeva che avevi i soldi addosso, ti rivestiva le cavigliecon la carta e la plastica e poi ti dava fuoco. Mentre tu saltavi dal do-lore e cercavi di spegnere il fuoco, gli altri ti rubavano i soldi. Per for-tuna l’ho saputo subito e non ho mai dormito coi soldi appresso.

Mia madre, dopo qualche settimana dal giorno della mia fuga, si ri-cordò di me e venne a cercarmi in strada. Mi trovò seduto per terracon in mano del fil di ferro, a piegarlo e a farlo diventare qualcos’al-tro. Mi piace costruire le macchine e i camion con il fil di ferro. Io hovisto le sue gambe davanti a me, le ho riconosciute e ho alzato gli oc-chi.Lei mi disse: «Figlio, torna, torna da me». Ma io rifiutai. Da lei men’ero andato perché non stavo bene e so che mi avrebbe picchiato an-cora, come sempre.Le dissi: «Mamma, non posso tornare, tu mi picchi e non mi dai maida mangiare».Ma lei fece la faccia buona e disse che no, non mi avrebbe picchiatomai più, che non mi avrebbe fatto del male: «Non succederà, te lo pro-metto, perdonami».Non le credevo. Era bugiarda. Mi avrebbe picchiato di sicuro. «Nonti voglio più vedere, mamma, vattene, io resto qui», dissi.Allora lei si infuriò e mi disse che se questa era la mia scelta non sa-rei mai più dovuto tornare a casa. Non avrei più dovuto farmi vede-re. Mai e poi mai, per nessun motivo. Obbedii.Ma se a casa mia stavo male anche in strada non si stava bene. E ave-vo sempre paura che qualcuno mi facesse del male. Un giorno ho det-to al mio amico Charles: «Non ce la faccio più, mi sa che torno a ca-sa». Ma Charles sapeva che a casa stavo male e che mi picchiavano,gliel’avevo raccontato io, allora mi propose di andare al Mthunzi Cen-

tre. «Al Mthunzi si sta meglio, se vuoi ti accompagno lì». Mica avevopensato, io, al Mthunzi Centre. Ho meditato sulla proposta del mioamico. Poi ho detto sì. Charles mi ha sempre dato dei buoni consigli.Di lui mi fidavo.Il giorno dopo siamo partiti, con l’autobus, per arrivare a Kasupe. Unavolta arrivati al cancello io ero terrorizzato. Magari volevano picchiarmiperché non mi conoscevano. «No, Charles, andiamo via, io torno instrada con te». Ma Charles mi rassicurava. Ho guardato tra le sbar-re del cancello e ho visto dei ragazzi che giocavano nel cortile. Mi so-no un pochino calmato. Ho salutato Charles, che tornava a vivere instrada, e sono entrato per il cancello. Un po’ mi tremavano le gam-be. Mi hanno dato fagioli e nshima, e ho visto tutto con occhi diver-si. Mthunzi mi sembrava un bel posto.Mangerei sempre nshima, è buonissima. Solo che se vivi in strada tiabitui a certe cose e non riesci a scrollartele di dosso. Ognuno, qui alMthunzi Centre, ha il suo piatto col suo cibo. Ci sono la nshima, i fa-gioli, i kapenta, le lepu, gli impwa. Tu prendi il tuo piatto e te lo met-ti davanti. Poi preghi, e quando preghi chiudi gli occhi. Ma se chiudigli occhi qualcuno ti ruba la nshima. Questo credevo, appena arriva-to qui. «Bisogna nasconderla sotto il tavolo oppure mettersela den-tro i polsini della maglia o della camicia», pensavo. «Così quando aprigli occhi non hai perso neanche un grammo della tua polenta e puoimangiare in pace». Sono cose che impari in strada e che non ti ab-bandonano. Lo vedo dai ragazzi nuovi che vengono qui. Hanno pau-ra che noi gli rubiamo la nshima e se la nascondono addosso. Ma ionon gliela ruberei mai, adesso! Ora chiudo gli occhi quando prego eso che troverò il piatto uguale a quello che avevo preso.Dopo qualche notte al Mthunzi ho pensato che i grandi volessero pic-chiarmi. Non ero ancora sicuro che mi volessero bene e non mi fida-vo di nessuno. Ero il più piccolo e magari non stavo simpatico a queiragazzi. Non so perché ho sempre paura che qualcuno mi voglia pic-chiare. Il clima era tranquillo, qui, e nessuno aveva l’aria cattiva. Maio avevo paura lo stesso.Una notte ho fatto dei brutti sogni e la mattina sono corso via, finoalla fattoria che sta lontano da qui. Ho corso, corso e corso a gambelevate. Mi sono fermato col fiatone e ho pensato: «Ma perché scappo?Nessuno al Mthunzi Centre mi farà male». Sono tornato indietro eda quel giorno non me ne sono mai andato da qui.

*Chiara Michelon, giornalista, ha raccolto le storie di vita dei ragazzi di Mthunzi, in vistadi editarle in forma di libro.

A d o z i o n i

Mthunzi Centre

7AMANI

A casa stavo male, in strada peggio

Adozioni a distanza

Perché tutti insieme L'adozione proposta da Amani non è in-dividuale, cioè di un solo bambino, maè rivolta all'intero progetto di Kivuli, del-la Casa di Anita, di Mthunzi o delle Scuo-le Nuba. In questo modo nessuno di loro cor-rerà il rischio di rimanere escluso. In-somma "adottare" il progetto di Ama-ni vuol dire adottare un gruppo di bam-bini, garantendo loro la possibilità dimangiare, studiare e fare scelte co-struttive per il futuro, sperimentandola sicurezza e l'affetto di un adulto. Esoprattutto adottare un intero proget-to vuol dire consentirci di non limita-re l’aiuto ai bambini che vivono nelcentro di Kivuli, della Casa di Anita, delMthunzi o che frequentano le scuole diKerker e Kujur Shabia, ma di estender-lo anche ad altri piccoli che chiedono aiu-to, o a famiglie in difficoltà, e di spez-zare così il percorso che porta i bambi-ni a diventare street children o, nel casodei bambini nuba, di garantire loro ilfondamentale diritto all’educazione. Abbiamo infatti sperimentato che a vol-te anche un piccolo sostegno econo-mico permette ai genitori di continua-re a far crescere i piccoli nell’ambien-te più adatto, e cioè la famiglia diorigine.In questo modo, inoltre, rispettiamola privacy dei bambini evitando di dif-fondere informazioni troppo personalisulla storia, a volte terribile, dei nostripiccoli ospiti. Pertanto, all'atto dell'a-dozione, non inviamo al sostenitore in-formazioni relative ad un solo bambino,ma materiale stampato o video concer-nente tutti i bambini del progetto che siè scelto di sostenere. Vi ricordiamo che una caratteristica diAmani è quella di affidare ogni pro-getto ed ogni iniziativa sul territorioafricano solo ed esclusivamente a per-sone del luogo.Per questo i responsabili dei progetti diAmani in favore dei bambini di strada so-no keniani, zambiani e nuba.Con l'aiuto di chi sostiene il progettodelle Adozioni a distanza, annualmenteriusciamo a coprire le spese di gestio-ne, pagando la scuola, i vestiti, gli alimentie le cure mediche a tutti i bambini.

Come aiutarciPuoi "adottare" i progetti realizzati daAmani con una somma di 26 euro almese (312 euro all'anno): contribui-rai al mantenimento e alla cura di tut-ti i ragazzi accolti da Kivuli, dalla Ca-sa di Anita, dal Mthunzi o dalle Scuo-le Nuba. Per effettuare un'adozione a distanzabasta versare una somma sul c/c postale n. 37799202 intestato adAmani Onlus – Ongvia Gonin 8 – 20147 Milanoo sul c/c bancario n. 503010 Banca Popolare Etica CIN G – ABI 05018 – CAB 12100EU IBAN IT93 G050 1812 1000 00000503 010

Ti ricordiamo di indicare, oltre il tuonome e indirizzo, la causale del ver-samento: "adozione a distanza". Ci consentirai così di poterti inviareil materiale informativo.

Ragazzi del Mthunzi Centre, in Zambia

©M

aria

Maz

zoli

©M

aria

Maz

zoli

In strada hai sempre fame. Mezza mela è poca, per riempire la pancia. E col freddo senti il bisogno di mangiare qualcosa di più. Allora sniffi il bostick. Così ti passano la fame e il freddo.

a cura di Chiara Michelon*

Page 8: 2005_febbraio

Chi siamoAmani, che in kiswahili vuol dire “pace”, è un’associazione laica euna Organizzazione non governativa riconosciuta dal Ministero de-gli Affari Esteri. Amani si impegna particolarmente a favore delle popolazioni afri-cane seguendo queste due regole fondamentali:1. Curare lo sviluppo di un numero ristretto di progetti, in modo dapoter mantenere la sua azione su base prevalentemente volontariaper contenere i costi a carico dei donatori. 2. Affidare ogni progetto ed ogni iniziativa sul territorio africano so-lo ed esclusivamente a persone del luogo. A conferma di questo, mol-ti degli interventi di Amani sono stati ispirati da un gruppo di gio-vani africani riuniti nella comunità di Koinonia. Le principali attività di Amani sono le case di accoglienza per i bam-bini e le bambine di strada di Nairobi (Kivuli Centre e Casa di Ani-ta) e di Lusaka (Mthunzi Centre); la difesa del popolo nuba in Su-dan, vittima di un vero e proprio genocidio; e News from Africa, un'a-genzia di stampa formata interamente da giovani giornalisti escrittori africani. Inoltre, Amani sostiene una piccola scuola a Nai-robi nel poverissimo quartiere di Kibera; e una compagnia di gio-vani attori che lavorano per una cultura di pace attraverso la me-diazione dei conflitti: l'Amani People Theatre.

Come contattarciAmani Onlus – Ong (Organizzazione non lucrativa di utilità socia-le e Organizzazione non governativa)via Gonin, 8 – 20147 Milano – ItalyTel. 02 48951149 – 02 4121011 – Fax 02 [email protected] www.amaniforafrica.org

Come aiutare Kivuli, Casa di Anita, Mthunzi e le Scuole NubaBasta versare una somma sul c/c postale n. 37799202 intestato adAmani Onlus-Ong – via Gonin 8 – 20147 Milano, o sul c/c bancarion. 503010 Banca Popolare Etica CIN G – ABI 05018 – CAB 12100EU IBAN IT93 G050 1812 1000 0000 0503 010. Ricordiamo inoltre di scrivere sempre la causale del versamento eil vostro indirizzo completo.Nel caso dell'adozione a distanza è necessario versare 26 euro men-silmente almeno per un anno. È importante indicare in entrambi icasi la causale del versamento.

Le offerte ad Amani sono deducibiliI benefici fiscali per erogazioni a favore di Amani possono essere con-seguiti con due possibilità alternative:1. Deducibilità ai sensi del DPR 917/86 a favore di ONG per dona-zioni destinate a Paesi in via di sviluppo. Deduzione nella misuramassima del 2% del reddito imponibile sia per le imprese che per lepersone fisiche.2. Oneri deducibili ai sensi del DL 460/97 per erogazioni liberali afavore di ONLUS.Per le imprese, per un importo massimo di euro 2.065,83 o del 2%del reddito di impresa dichiarato.Per le persone fisiche, detraibile nella misura del 19% per un im-porto complessivo non superiore a euro 2.065,83.Ai fini della dichiarazione fiscale è necessario scrivere sempre ONLUSo ONG dopo Amani nell’intestazione e conservare:1. per i versamenti con bollettino postale: ricevuta di versamento;2. per i bonifici o assegni bancari: estratto conto della banca ed even-tuali note contabili.

8 AMANI

Iniziative

Editore: Associazione Amani Onlus–Ong, via Gonin 8, 20147 MilanoDirettore responsabile: Daniele ParoliniCoordinatore: Pier Maria MazzolaProgetto grafico e impaginazione: Ergonarte, MilanoStampato presso: Grafiche Riga srl, via Repubblica 9, 23841 Annone Brianza (LC)Registrazione presso la Cancelleria del Tribunale Civile e Penale di Milanon. 596 in data 22.10.2001

Porta il tuo cuore in Africa

AMANI

Gentile redazione di Amani,solo da poco, purtroppo, seguo le vostre attività e ricevo il vostro bellissimo giornale, ma posso dire chein questo poco tempo sono diventata una vostra fan! Mi piace quello che fate e mi piace come lo dite, mipiace Kizito e mi piacciono i ragazzi africani con cui collaborate.Forse è sulla scia dell’entusiasmo che vi scrivo dalla provincia di Milano per chiedervi se sia possibile,magari proprio attraverso il giornale, far sapere a persone ben disposte come me se ci sia un modo persentirsi ancora più partecipi della bella realtà Amani. Ad esempio se ci sono bisogni cui noi “fan”possiamo rispondere rendendoci utile con idee, mezzi o tempo messo a disposizione. So, dal mio passato in un’altra realtà associativa, che non è facile gestire le risorse così dette“volontarie”, ma nel caso in cui questa possibilità con Amani esista, perché non mettere in contattodomanda e offerta?N.B.: Con alcuni amici abbiamo deciso di organizzare delle iniziative per raccogliere fondi per ibambini nuba, magari realizzare una vera e propria biblioteca per loro, come suggerito da padre Kizito.Non è che siamo a corto di idee, ma ci piacerebbe sapere se qualcun altro è già riuscito a sensibilizzaredegli studenti e delle scuole sul tema dell’educazione sulle Montagne Nuba, e in tal caso se sia possibilescambiare con noi materiale, suggerimenti, consigli!

e-mail firmata

Carissima "Fan",impossibile nasconderti il piacere che ci fa sentire con quale calore delle persone seguono il lavoronostro e dei nostri amici africani. Ci farà altrettanto piacere ricevere anche lettere meno entusiastichema che ci possano stimolare a far meglio e a mantenere un contatto diretto con chi ci segue. Approfittiamo della tua lettera per girare il tuo appello ai lettori, che sono anche i nostri attivisti, queivolontari che costituiscono la vera forza dell’associazione e hanno dimostrato in tante occasionifantasia e intelligenza.Vi invitiamo quindi tutti a segnalarci le esperienze di sensibilizzazione, comunicazione, educazione efund raising relative ai progetti di Amani e Koinonia, che avete realizzato nel vostro ambiente o sulterritorio. Raccontate voi stessi come vi siete organizzati per andare nelle scuole, per mettere in piediun concerto, una mostra, una conferenza. Raccontateci che cosa avete imparato dall’esperienza, qualicambiamenti avete dovuto introdurre nel tempo, se vi siete costruiti degli strumenti appositi chepotrebbero essere utilizzati anche da altri volontari, se la sede e lo staff di Amani vi sono stati disupporto e come – e quant’altro possa riuscire utile ad altri gruppi. Il nostro periodico serve anche aquesto, a ricevere e trasmettere stimoli, a condividere idee ed esperienze.Rispetto all’incontro tra "domanda e offerta" di energie volontarie, per ora possiamo solo anticipare chel’associazione sta studiando quale canale adottare per realizzare questa dinamica. Mentre, da un lato,l’associazione è favorevole al rafforzamento delle realtà territoriali legate ad Amani, dall’altro stapensando alla costituzione di gruppi di lavoro che si pongano obiettivi e funzioni specifiche, attornoalle quali coagulare forze e risorse. Contiamo di poter parlare presto di iniziative concrete da proporrea tutti i nostri lettori e simpatizzanti.Aspettiamo i vostri contributi. Grazie.

La Redazione

P O S T A

C'era una volta......sui Monti Nuba. È disponibile pres-so la sede di Amani un bel libro illu-strato di favole. Edito a cura di Koi-nonia Nuba, serve come libro di letturaper l'insegnamento dell'inglese nellescuole nuba. Le storie di Once Upon aTime in the Nuba Mountains sono sta-te raccolte dagli alunni stessi e poi tra-dotte in inglese standard.

Città nude«La città nuda è una forma apparen-temente urbana, cui è stata amputa-ta una parte di vita: spogliata dellacomponente economica e politica econgelata nel tempo in un eterno pre-sente». E Città nude. Iconografia deicampi profughi è il titolo di un volu-me fresco di stampa, incentrato sul-la narrazione e l'analisi del campo di

Kakuma, in Kenya, che dal 1992 ac-coglie circa 80mila rifugiati, in granparte sudanesi. Il libro è disponibileanche presso la sede di Amani. Lohanno curato Camillo Boano e Fa-brizio Floris per l’editore FrancoAn-geli di Milano (pagg. 128, € 12,00),con contributi di Maria Chiara Cre-mona, Chiara Marchetti ed Elisa Ros-signoli.

Capire i Grandi LaghiL'Africa ex belga è, per molti versi, unvero guazzabuglio. Il genocidio primae la guerra, poco dopo, che ha rove-sciato Mobutu – il "re" dello Zaire – so-no gli episodi più clamorosi di unastoria lunga e intricata, sulla qualenon è stata ancora messa la parola fi-ne. Jean-Léonard Touadi si è rim-boccato le maniche per aiutarci a ca-pire. Bisogna dire che ha trovato la via

giusta: una chiara introduzione; sche-de cronologiche (con cartine); un glos-sario che consente di entrare in temadalla porta che il lettore preferisce.Congo Ruanda Burundi. Le paroleper conoscere (Editori Riuniti, pagg.135, € 9,00).

Costruire la pace in AfricaMichael Ochieng, il coordinatore diAfrica Peace Point (v. pag. 2, tra i"Progetti"), è la voce-guida di un bre-ve documentario prodotto da Amaniper presentare il senso di App ed al-tre iniziative collegate. La marcia del-la pace del 18 settembre scorso – del-la quale vediamo scorrere delle im-magini – è stato un momento altodell'impegno di Africa Peace Point.La videocassetta, 12' in inglese e in ita-liano, è disponibile presso la sede diAmani.