2 Nota del Direttore - AION Linguistica · 2019-11-17 · Press, 2015, 724 pp. (E. Banfi) 305 G....
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2 Nota del Direttore
ANNALI del Dipartimento di Studi
Letterari, Linguistici e Comparati
Sezione linguistica
AIΩN N.S. 6 2017
4 Nota del Direttore
Direttore/Editor-in-chief: Alberto Manco Comitato scientifico/Scientific committee: Ignasi-Xavier Adiego Lajara, Françoise Bader, Annalisa Baicchi, Philip Baldi, Giuliano Bernini, Carlo Consani, Pierluigi Cuzzolin, Paolo Di Giovine, Norbert Dittmar, Annarita Felici, José Luis García Ramón, Laura Gavioli, Nicola Grandi, Marco Mancini, Andrea Moro, Vincenzo Orioles, †Max Pfister, Paolo Poccetti, Diego Poli, Ignazio Putzu, Velizar Sadovski, Domenico Silvestri, Francisco Villar Comitato di redazione/Editorial board: Anna De Meo, Lucia di Pace, Alberto Manco, Rossella Pannain, Cristina Vallini Segreteria di redazione/Editorial assistants: Valeria Caruso, Anna Riccio e-mail: [email protected] Annali-Sezione Linguistica, c/o Alberto Manco, Università degli studi di Napoli “L’Orientale”, Dipartimento di Studi Letterari, Linguistici e Comparati, Palazzo Santa Maria Porta Cœli, Via Duomo 219, 80138 Napoli – [email protected] ISSN 2281-6585 Registrazione presso il Tribunale di Napoli n. 2901 del 9-1-1980 Rivista fondata da Walter Belardi (1959 – 1970) e diretta da Domenico Silvestri (1979 – 2014) web: www.aionlinguistica.com e-mail: [email protected] © Tutti i diritti riservati. Vietata la riproduzione anche parziale, con qualsiasi
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ANNALI del Dipartimento di Studi
Letterari, Linguistici e Comparati
Sezione linguistica
AIΩN N.S. 6 2017
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI NAPOLI “L’ORIENTALE”
6 Nota del Direttore
PROPRIETÀ RISERVATA
INDICE
ARTICOLI, NOTE, SAGGI
A. BIANCHI, Metafora e metonimia nel processo polisemico: Saussure,
Jakobson, Lacan e i colori delle lingue 11
E. CAFFARELLI, Cromonimia propriale: i colori nella formazione di antro-
ponimi, toponimi e altri onimi 59
M. CASTAGNETO, Quaranta sfumature di grigio, di rosso, di nero:
l’organizzazione dei termini di colore in Turco tra lessico e morfologia 77
P. D’ACHILLE, M. GROSSMANN, I termini di colore nell'area AZZURRO-
BLU in italiano: sincronia e diacronia 109
F. DIODATO, Il lessico del colore: Basic Color Terms o prototipi ottimali? 145
M. E. FAVILLA, Colori, linguaggio e cervello 163
A. GUALANDI , ΣΩΖΕΙΝ ΤΑ ΚΡΩΜΑΤΑ. Colore e linguaggio tra
ontologia ed estesiologia 181
M. E. MANGIALAVORI RASIA, Colors in the lexicon-syntax-semantics
interface. Change-of-color verbs, lexical aspectual classes and
measuring-out machinery 197
D. SILVESTRI, Nomi e colori del mare in Omero. A proposito di alcuni
“punti di vista” cromonimici nel mondo greco antico 253
BIBLIOGRAFIE, RECENSIONI, RASSEGNE
N. GRANDI, L. KÖRTVÉLYESSY (EDS.), Edinburgh Handbook of
Evaluative Morphology, Edinburgh, Edinburgh University
Press, 2015, 724 pp. (E. Banfi) 305
G. SORAVIA, L’alba delle parole. Storia di una scoperta: parlare,
Pàtron, Bologna, 2016, 276 pp. (F. Carbone) 311
A. CANTERA, Vers une édition de la liturgie longue zoroastrienne:
pensées et travaux préliminaires, Paris, Association pour
l’avancement des étudies iraniennes (Studia Iranica. Cahier
51), 2014, 429 pp. (G. Costa) 317
8 Nota del Direttore
T. SCOTT-PHILLIPS Di’ quello che hai in mente. Le origini della
comunicazione umana, Carocci Editore, Roma, 2017, 242 pp.
(G. Costa) 329
A. L. PROSDOCIMI, Le Tavole Iguvine. Preliminari all’interpretazione.
La testualità: fatti e metodi, II, Firenze, Leo S. Olschki, 2015, 1457
pp. (M. Montedori) 337
A. CILIBERTI, La grammatica: modelli per l’insegnamento, Carocci
Editore, Roma, 2015, 107 pp. (P. Nitti) 343
G. GOBBER, M. MORANI, Linguistica Generale (II Ed.), McGraw-
Hill Education, Milano 2014, 291 pp. (P. Nitti) 347
ARTICOLI, NOTE, SAGGI
326 Maria Carmela Benvenuto e Flavia Pompeo
AIΩN-Linguistica n.6/2017 n.s. DOI: 10.4410/AIONL.6.2017.001
ANGELA BIANCHI*
METAFORA E METONIMIA NEL PROCESSO POLISEMICO:
SAUSSURE, JAKOBSON, LACAN E I COLORI DELLE LINGUE
Abstract
Investigating the relationship between metonymy and metaphor in
polysemic processes, particularly those concerning the semantic fields of colour in different languages, means considering different variables. These have been investigated from various perspectives: rhetorical, theoretical and psychological-cognitive. My research aims to reconstruct the genesis of the organization and functionality of the dichotomy in question, by examining its theorization which has been regarded as the very essence of the linguistic process. My focus will be on the dynamics of polysemy in the semantic fields of colour. The origins and theoretical evolution of this path of formalization can be traced back by taking into account the views of countless scholars. Their reasoning is founded on three main approaches which seem to intersect at different points: that followed by de Saussure and those intrinsic in the theories of Roman Jakobson and Jacques Lacan. In the standard linguistic process, metaphor and metonymy are formalized not only as rhetorical mechanisms, but also as linguistic encodings of cognitive mechanisms: especially in the polysemic processes they lead to the absorption and contraction dynamics of new signifiers under the same meaning. From a psychoanalytic perspective, metaphor refers to the level of meaning and concerns the linguistic rules of word combination in sentences. Finally, according to Lacan's philosophical point of view, the evolution of 'meaning' concerns both semantic ambiguity and polysemic mechanisms. With regard to the data analyzed, it must be noted that the intersection of three theoretical positions can be found in the diversity of these paradigms and in the polysemic mechanisms of language that focus on the semantic field of chromaticism.
Keywords: metaphor and metonymy, polysemy, chromaticism,
Saussure, Jakobson, Lacan
Angela Bianchi, Università degli Studi Guglielmo Marconi, [email protected]
12 Angela Bianchi
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La langue n'est créée qu'en vue du discours, mais qu'est-ce qui sépare le discours de la langue, ou qu'est-ce qui, à un certain moment, permet de dire que la langue entre en action comme discours? Des concepts variés sont là, prêts dans la langue, (c’est-à-dire revêtus d’une forme linguistique) tels que bœuf, lac, ciel, fort, rouge, triste, cinq, fendre, voir. À quel moment ou en vertu de quelle opération, de quel jeu qui s’établit entre eux, de quelle conditions, ces concepts formeront-ils le DISCOURS ? […] C’est la même question de savoir ce qu’est le discours, et à première vue la réponse est simple: le discours consiste, fût-ce rudimentairement, et par des voies que nous ignorons, à affirmer un lien entre deux des concepts qui se présentent revêtus de la forme linguistique, pendant que la langue ne fait préalablement que réaliser des concepts isolés, qui attendent d'être mis en rapport entre eux pour qu'il y ait signification de pensée (Saussure 2002, p. 277).
1. Introduzione. Oggetto e scopi del presente lavoro
Indagare il rapporto tra metonimia e metafora nei processi
polisemici, con particolare attenzione alla organizzazione dei
campi semantici dei colori nelle lingue, significa misurarsi con
diverse variabili, considerate da numerosi studi condotti da
svariate prospettive, da quella più strettamente linguistico-
retorica a quella più teorica fino a quella specificamente
psicologico-cognitiva1.
Ricœur, citando il semantista inglese Hulmann, ha in più
luoghi sottolineato il rapporto tra polisemia e metafora
riconoscendo nella polisemia il “fenomeno centrale della
metafora” definendola un “nome con parecchi sensi”e
affrontando il tema attraverso le tre strategie del ‘linguaggio
ordinario, scientifico e poetico’ (Ricœur, 1974: 275-287). La
1 Il problema è declinato sia in diacronia sia in sincronia e da diversi punti di
vista e caratterizzato da una ricchissima letteratura. Tra gli altri segnaliamo: Alfie-ri, 2008; Allan, 2008, Barcelona (a cura di), 2003; Dirven, Pörings (a cura di), 2003; Littlemore, 2015; Ortony (a cura di) 1980,; Polzenhagen, Kövecses, Vogelbacher, Kleinke (a cura di), 2014.
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multidimensionalità del problema metafora2 ha sicuramente
sollecitato gli studiosi ad occuparsene maggiormente rispetto alla
metonimia, come riconosciuto anche da Jakobson, nella sua
particolare declinazione della questione, che approfondiremo più
avanti:
niente di paragonabile ai numerosi scritti sulla metafora può essere citato per quanto concerne la teoria della metonimia. […] Non solo lo strumento dell’analisi, ma anche l’oggetto dell’osservazione spiegano la preponderanza della metafora sulla metonimia nelle ricerche scientifiche […]. La reale bipolarità è stata artificiosamente sostituita, in queste ricerche, da uno schema monopolare amputato, che in modo abbastanza sorprendente, coincide con uno dei due tipi di afasia e precisamente con il disturbo della contiguità (Jakobson, 1966: 44-45).
La nostra indagine mira a ricostruire la genesi della
costituzione e della funzionalità della dicotomia in oggetto, a
partire dalla teorizzazione di essa quale essenza stessa del
processo linguistico, in rapporto alle dinamiche polisemiche nella
strutturazione del campo semantico dei colori.
Già Antonino Pagliaro in Altri saggi di critica semantica aveva
riconosciuto a Vico l’importanza di un singolare intervento negli
sviluppi del pensiero occidentale, rilevando la centralità della
dottrina del linguaggio “nel quadro della nuova scienza”
(Pagliaro, 1971: 299). In anni più recenti, Albert Henry si sofferma
ugualmente sulle prospettive innovative seguite da Vico, in
relazione ai “problemi del linguaggio e in particolare sulla
metafora” che lo avrebbero portato “al termine di un processo
alquanto rivoluzionario, a ridurre a quattro il numero delle figure
tipo: metonimia, sineddoche, ironia, metafora”. Pur individuando
il limite della teoria vichiana nell’ancoraggio alla linea della
2 Cfr. Ortony (a cura di) 1980: 1-16.
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retorica classica anche per la “funzione dell’ironia come maschera
della verità”, Henry riconosce a Vico come “felicissima intuizione
quella che gli ha fatto raggruppare in una sorta di triade
fondamentale metonimia, sineddoche e metafora” e sulla base di
questo ambisce a dimostrare che “questa ‘trinità’ attual izza in
realtà una sola persona, generata da un’unica essenziale
operazione mentale” (Henry, 1975: 7-8).
Ancora in anni più vicini Valagussa segnala che quando
Giambattista Vico attribuisce alla metafora la capacità di fare “il
maggior corpo delle lingue appo tutte le Nazioni” (Vico, 2013:
956), egli non ha soltanto in mente la cospicua presenza delle
metafore in ogni idioma, riscontrabile soprattutto nella “prima
giovinezza delle lingue”, là dove la metafora rappresenta un
elemento irrinunciabile del processo linguistico, ma “fare il
maggior corpo” di una lingua significa anche, e soprattutto,
svelare, attraverso il processo metaforico, la traccia di quella
“corpolentissima fantasia” che non risponde agli “schemi” di una
lingua “tutta spiegata” (Valagussa, 2013: 139).
Sull’argomento Valagussa si sofferma in un significativo
passaggio:
la metafora incarna l’elemento vivente irriducibile a quella rete di correlazioni mediante cui la lingua si organizza e organizza il proprio mondo. […] L’intera Scienza nuova mostra il dispiegamento della mente umana, dall’età degli dèi sino all’età degli uomini e dunque in particolare dalle lingue geroglifiche sino alla lingua pistolare. Sappiamo da Vico che «Natura di cose altro non è, che nascimento di esse in certi tempi, e con certe guise; le quali sempre, che sono tali, indi tali, e non altre nascon le cose» […]. Se la formula vale anche per la lingua, allora questo processo di sviluppo del linguaggio, che tende ad una progressiva astrazione e ad una sempre crescente specializzazione e sofisticazione dei termini, appare come ineludibile e “destinale”[…]. All’in-terno di questo quadro, la metafora fa il corpo di una lingua perché è la sede in cui la lingua stessa attinge nuovamente al suo originario: da mente «tutta spiegata» ritorna a essere
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«corpo che si fa mente», uomo che nella sua robusta ignoranza fa sé regola dell’universo. La metafora costringe a riconoscere che il dire è innanzitutto, vale a dire nella sua genesi, un gesto: nell’atto della metafora si mostra come l’articolazione della lingua non sia un’operazione tutta interna alla mente, bensì un gesto mediante cui il corpo stesso si rende conscio di sé (Valagussa, 2013: 139-140).
Anche nell’ottica della linguistica cognitiva, orientata ad
un’indagine ‘ideologica’ dei fenomeni in oggetto, l’attenzione
degli studiosi si è maggiormente focalizzata sulla metafora. Per
Lakoff e Johnson “l’essenza della metafora è comprendere e
vivere un tipo di cosa in termini di un altro” e “la metafora non
è solamente una questione di linguaggio, cioè di pure parole”,
ma sono gli stessi processi del pensiero umano ad essere
“largamente metaforici”: essi intendono che “il sistema
concettuale umano è strutturato e definito in termini metaforici
(Lakoff e Johnson, 1998: 24). I due autori dedicano poche pagine
alla metonimia3, definendola come processo attraverso cui si
utilizza “un’entità per riferirci ad un’altra che è ad essa
collegata”, con una funzione non solo puramente referenziale,
ma volta a “fornire comprensione”, analogamente alla metafora
(Lakoff e Johnson, 1998: 56). Tuttavia, secondo Damiani, è alla
luce di questa interpretazione che si è sviluppata “la maggior
parte delle descrizioni prodotte dai linguisti cognitivi” sulla
tematica e, in prima istanza “la metonimia si presterebbe “ad
essere studiata in relazione al suo portato ideologico” perché
utilizzarla “significa non semplicemente preferire un’espres -
sione ad un’altra in maniera neutrale, ma implica il pensare e
l’agire in un certo modo piuttosto che in altri, e ciò potrebbe
essere conseguenza di una determinata ideologia”. Alla luce di
un’analisi più profonda, “a differenza della metafora, in cui si
ha la strutturazione di un dominio (solitamente più astratto)
3 Lakoff e Johnson, 1998: 55-60.
16 Angela Bianchi
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attraverso un altro dominio (solitamente più concreto)” la
metonimia sarebbe all’interno “dello stesso dominio concettuale,
o meglio all’interno dello stesso modello cognitivo idealizzato”,
secondo una concezione molto più estesa di metonimia per cui
“tutto il linguaggio è imperniato su processi metonimici, i quali
risultano dunque ancora più pervasivi di quelli metaforici”
(Damiani, 2009: 77-80).
Metafora e metonimia sembrano formalizzarsi come figure
retoriche, schemi concettuali, processi mentali impiegati nelle
pratiche della lingua a vari livelli, compreso quello polisemico.
In un lavoro del 2008 Alfieri ha proposto una ricerca rivolta a
“verificare se, al di sotto delle loro differenze linguistiche
superficiali e al di sotto delle loro differenze come strutture
concettuali, metafora e metonimia siano effettivamente due
cognitive instruments realmente indipendenti tra loro o se invece
rappresentino un solo processo mentale con due indipendenti
realizzazioni epifenomeniche a livello delle strutture concettuali e
delle espressioni linguistiche” (Alfieri, 2008: 3-4).
L’origine e le evoluzioni teoriche di tale percorso di
formalizzazione sono rintracciabili negli itinerari delle riflessioni
di innumerevoli studiosi, compiuti fondamentalmente su tre
principali direttrici che sembrano intersecarsi in diversi punti:
quella seguita da Ferdinand de Saussure e quelle inerenti le teorie
di Roman Jakobson da un lato e di Jaques Lacan dall’altro.
2. Metafora e metonimia: itinerari saussuriani
Confrontarsi con la figura e l’opera del linguista ginevrino
significa misurarsi con quello che Prosdocimi riconosce nella
definizione di ‘fenomeno Saussure’4 su cui si sofferma ancora e
più recentemente Stawarska (Stawarska 2015) e significa altresì
addentrarsi in quello che viene definito ‘le projet de Ferdinand de
4 Cfr. Prosdocimi, 2004: 3-34.
Metafora e metonimia nel processo polisemico 17
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Saussure’5: seguiremo alcuni dei suoi percorsi significativi ai fini
della nostra indagine.
2.1. Saussure e le “signe de parole”
Alla luce dei testi originali più recentemente scoperti6, a
integrazione e in molti casi in contrasto rispetto alla tradizione
della vulgata saussuriana, Saussure appare oggi il teorico non
solo della dimensione logico-grammaticale del linguaggio, ma
anche di quella retorico-ermeneutica, non nel senso metafisico
heideggeriano, ma in quello di un’’ermeneutica materiale’,
fondata epistemologicamente sulle scienze del linguaggio. Una
dimostrazione ci è offerta dal frammento saussuriano
rappresentativo del signe de parole, binomio costituito da una
componente fonologica - sia segmentale sia sopra-segmentale - e
da un ‘senso testuale’ di approccio retorico-ermeneutico
caratterizzato dagli intrinseci tratti logico-grammaticali. Il
frammento «Sémiologie = morphologie, grammaire, syntaxe,
synonymie, rhétorique, stylistique, lexicologie, etc. … le tout
étant inséparable»7 con la «phonétique» sembra già contenere
traccia della concezione di signifiant e signifié proposta da
Saussure nel 1911, in una prospettiva in cui la bifaccialità del
segno andrebbe rintracciata non solo nella tradizione logico-
grammaticale di una teoria del segno, ma anche nella prospettiva
retorico-ermeneutica di una teoria del testo (Bianchi, 2005: 151).
Tale linea di ricerca risulta percorribile, almeno per alcuni
tratti del pensiero di Saussure riguardanti entrambi i ‘fenomeni’
che abbiamo deciso di prendere in considerazione, che si
configurano non solo come meccanismi retorici, ma come
5 Cfr. Bronckart, Bulea, Bota (a cura di), 2010. 6 La bibliografia su questi aspetti è molto nutrita, in questa sede segnaliamo:
Bota, 2002; Fabbri, Migliore (a cura di), 2014; Gambarara, 1972; Gambarara (a cura di) 2007; Gambarara, Marchese (a cura di), 2013; Joseph, 2012; Marchese, 2003; Prampolini, 2004; Saussure, 2011; Vallini, 1979, 2013.
7 Frammento 8 [Sémiologie]: cfr. Saussure 2002, pp. 43-45, p. 45.
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codifiche linguistiche di meccanismi cognitivi: metonimia e
metafora innescano, in particolar modo nei processi polisemici,
dinamiche di assorbimento e contrazione di nuovi significanti
sotto uno stesso significato. Seguiremo le tappe del suddetto
percorso all’interno dell’intero sistema teorico saussuriano.
In uno dei passaggi più controversi del Cours si ragiona sul
nome di ‘linguistica’:
On peut à la rigueur conserver le nom de linguistique à chacune de ces deux discipline et parler d’une linguistique de la parole. Mais il ne faudra pas la confondre avec la linguistique proprement dite, celle dont la langue est l’unique objet. Nous nous attacheront uniquement à cette dernière, et si, au cours de nos démonstrations, nous empruntons del lumiere à l’étude de la parole, nous nous efforcerons de ne jamais effacer les limites qui séparent les deux domains (CLG, Saussure, 1916 [1922²]: 38-39).
In un lavoro di comparazione tra le idee saussuriane e le teorie
dei fonologi di Praga, Irina Vilkou-Pustovaïa (Vilkou-Pustovaïa,
2002 [2003]) mette in luce come, rileggendo più volte il testo,
emerga una diversa configurazione della fondamentale dicotomia
che oppone la langue alla parole. “La langue è differente dalla
parole come fonazione e lo stesso Saussure parla di ‘séparation de
la phonation et de la langue’: la parole è sprovvista di ogni senso
(significazione) concreto, è una semplice ‘manière dont on
l’exécute’, se si riprende la metafora della sinfonia applicata alla
lingua”. Saussure sembra rafforzare la tesi sull’ absence de sens
dans la parole attraverso l’“interdépendance de la langue et de la
parole; celle-là est à la fois l’instrument et le produit de celle-ci.
Mais tout cela ne les empêche pas d’être deux choses absolument
distinctes” (CLG, Saussure, 1916 [1922²]: 37-38). La parole produce
la langue, anche se quest’ ultima ne è l’instrument: la
combinazione dei suoni e dei segni in un idioma presuppone una
memoria linguistica e lo stesso Saussure “si interroga spesso sul
modo in cui ‘la parole est-elle présenté dans cette même
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collectivité [la langue, comme modèle collectif]’, parla della parole
come: ‘la somme de ce que les gens disent, et elle comprend: a)
des combinaisons individuelles, dépendant de la volonté de ceux
qui parlent, b) des actes de phonation également volontaires,
nécessaires pour l’exécution de ces combinaisons’”. Somme è
utilizzato qui non nel senso di système, in rapporto alla sémiologie
de la langue, ma in quello di sommation di casi particolari,
paragonabili al modo in cui si esegue una sinfonia. Le
“combinaisons individuelles” si realizzano in diacronia negli
“actes de phonation” e la parole si riduce a una combinatoria
volontaria di elementi di un idioma negli atti particolari di
fonazione: anche se essa contiene ancora altro, in quanto una
linguistica della parole è “psycho-physique”, tale aspetto non è
certamente legato alla costruzione del senso, ma alla nostra
facoltà naturale di parlare, infatti si può ribadire che “la langue
est nécessaire pour que la parole soit intelligibile et produise tous
ses effets”, mentre la parole non gode di tale necessità (Bianchi,
2005: 134-135).
Sembra emergere una nuova concezione del binomio langue-
parole, “in quanto la parole si caratterizza per una libertà di
combinazione che la langue non conosce: ‘le propre de la parole,
c’est la liberté des combinaisons; il faut donc se demander si tous
les syntagmes sont également libre’; inoltre, nel dominio del
sintagma è difficile distinguere tra ‘fatti di lingua’ e ‘fatti di
parola’”. Secondo diversi studi di Capt-Artaud8, la dicotomia
saussuriana langue-parole e lo stesso concetto di arbitraire du signe
stimolano “all’analisi del campo retorico distinto in ‘parola
retorica’ da una parte e ‘linguaggio poetico’ dall’altra, anche se la
realizzazione dell’analisi richiede l’interpretazione della langue
come sistema semiotico e la parole come comunicazione in atto”.
Nella comunicazione retorica il significato assume un rilievo
assente nella comunicazione normale e l’analisi retorica è volta ad
esplicitare tale rapporto che si stabilisce tra l’una e l’altra classe
8 Cfr. Capt-Artaud, 1989 [1990]; 1993 [1994]; 1994; 1997; 1997a; 2000.
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di sensi: l’una che costituisce il significato e l’altra che determina
l’identità di ciò che si comprende. Sarà definita retorica quella
comunicazione che implica un passaggio obbligato, una
circolazione tra il senso linguistico e ciò che si deve comprendere, in
uno ‘spazio’ in cui si alternano significato linguistico e senso
dell’atto di parola. Per questo si procederà a due distinte analisi,
l’una per il corpus retorico, orientato vero la parole e l’altra per
quello poetico, correlato alla langue. Sarà il ricevente, che
attraverso la sua competenza linguistica ad essere in grado di
rintracciare l’anomalia intra-semica che caratterizza il sema
poetico. Le due linee di forza della linguistica saussuriana
costituite dal binomio langue-parole e dall’arbitraire du signe9
convergono per la Capt-Artaud “nella concezione connotativa del
segno che può dare al senso la sua identità di conoscenza
pertinente hic et nunc”. Per la studiosa con retorica si può
intendere: “ogni atto di parole che faccia ricorso a un enunciato
che propone un’identità connotativa del senso rimessa in
questione dalla situazione comunicativa” con riferimento “alla
connotazione ostensibile, mirante ad una comunicazione riuscita”
in cui “l’emittente, per concepire le determinazioni pertinenti del
senso, prenderà in considerazione gli elementi che definiscono la
situazione di comunicazione che servono da contesto all’atto di
parole” con il risultato di un sistema di intercomprensione più
serrato. In questo tipo di comunicazione decisive sarebbero le
“conoscenze comuni, legate alla situazione, in quanto fondano la
retoricità del senso” e permettono di esplicitare i procedimenti
retorici dovuti all’impatto della connotazione manifesta, quali la
sineddoche, la litote grammaticale, l’allusione, la profusione, la
metalessi o connivenza culturale, per poi passare ad analizzare
l’ironia, che ricopre una nicchia particolare in quanto definita da
riferimenti a circostanze fittizie in opposizione all’enunciato.
Un’altra categoria di figure retoriche fa riferimento alle variazioni
dei punti di vista del soggetto in rapporto alla relazione segno-
9 Per gli studi sull’argomento cfr. anche Godel, 1984 [1985]; Bouquet, 1977: 297-291.
Metafora e metonimia nel processo polisemico 21
AIΩN-Linguistica n.6/2017 n.s. DOI: 10.4410/AIONL.6. 2017.001
referente: tra queste l’iperbole, la litote, l’eufemismo. Per
comprendere il funzionamento delle ‘figure poetiche’, Capt-
Artaud individua tre livelli di analisi: lo schema locutorio che
riguarda la comunicazione; lo schema sintattico che “rivela il
rapporto senso-sintassi e l’arbitraria differenziazione del senso” e
lo schema consuetudinario, “organizzato intorno all’orbita dei
referenti, per arrivare infine a collocare i tre tropi propriamente
detti in cui si qualificano le figure di significazione e denominati
tropi in una sola parola, ossia la metonimia, la sineddoche e la
metafora”. La metafora, in particolare “rappresenta un «elemento
magico» in quanto, giocando sullo schema sintattico, può
configurarsi «come apposizione» o risultare tipica del verbo: essa
è il centro di gravità del senso e lo rende mobile, essendo al
servizio della pertinenza e non della verità, esplorando punti di
vista possibili che aprono nuove vie al senso” ed è rafforzata
dall’interstestualità in rapporto alla definizione saussuriana di
valeur di un termine, dato da unione di ciò che esiste intorno alla
valeur stessa, sintagmaticamente e associativamente. Esiste
pertanto una relazione tra metafora e valeur che imposta anche la
differenza con la metonimia: quest’ultima può far entrare nel
lessico determinate conoscenze della sostanza ben stabilite da
pratiche comuni in vigore in una società e si estende nella lingua
modificando la valeur, mentre la metafora, a partire dal lavoro di
un solo parlante, cerca di rischiarare le zone ancora mal
conosciute della sostanza del contenuto. La metafora va dalla
‘magia’ al ‘sapere’ ed è per questo che risulta essenziale per il
discorso scientifico (Bianchi, 2005: 135-141)10.
Saussure si serve delle metafore per spiegare fatti di lingua e
per convalidare il valore ‘sociale’ della lingua e dei segni: non si
può però parlare di metafora in senso cognitivo o retorico, perché
la funzione che il linguista ginevrino attribuisce alla celebre
figura è propriamente esplicativa: “consapevole della novità dei
10 Su questi argomenti cfr. anche Cazzullo, 1992; Ricœur, 1981; sulla metafora co-
me elemento magico torneremo più avanti in relazione alla riflessione su Jakobson.
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problemi affrontati, Saussure non solo non ripudia innocenti
metafore ‘animistiche’, ma anzi, cerca di continuo paragoni che
chiariscano concetti da lui giustamente sentiti come radicalmente
nuovi”, come accade nel caso della lingua come ‘sinfonia’, ‘gioco
degli scacchi’, ‘alfabeto Morse’, ‘contratto’, ‘algebra a termini
sempre complessi’, ‘fiume che scorre sempre’, ‘vestito coperto di
toppe’, ‘pianta’, ‘arazzo’, oppure nel caso del segno dicotomico
paragonato a ‘anima e corpo’, ‘recto e verso’ e così via (Saussure,
2003: 378, nota 38).
La scelta dell’uso delle metafore, pertanto, “rende meglio
fruibile un sapere che, altrimenti, non avrebbe potuto godere di
un’efficacia persuasiva pari al rigore scientifico del grande
linguista”. Considerando integralmente il testo del Cours, le
figure retoriche utilizzate “non sono solo metafore, ma anche
similitudini o figure intermedie, a metà tra similitudine ed
esempio”. Nella descrizione del sistema ‘lingua’ si esplicita una
duplice forma di espressione delle somiglianze: la similitudine
(per somiglianze di ordine qualitativo) e la comparazione (per
somiglianze di ordine quantitativo) ognuna di esse dotata di una
propria struttura linguistica e distinta “essenzialmente per la
forma, esplicita in un caso ed implicita nell’altro: la seconda
sembra produrre un effetto a sorpresa rispetto alla prima”. Se
consideriamo, però, “la metafora non solo dal punto di vista
formale-linguistico, ma anche da quello dei meccanismi
semantici, la definizione di metafora come forma abbreviata
della similitudine non sussiste più”: nella similitudine non si
verifica un transfert semantico: tutti i termini della similitudine
conservano il loro significato letterale ed i due elementi sono
accostati, ma non sovrimpressi o identificati. Nel confronto tra le
due figure emerge che il rapporto alla base della similitudine è di
tipo logico, mentre nella metafora l’oggetto non è individuale e
unico, ma viene percepito nei termini dell’altro oggetto, per cui
l’identificazione stabilita a livello linguistico tra i due termini è
già presente a livello percettivo. Ancora, sia nella similitudine sia
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nella metafora l’accostamento può essere creativo, ma se nella
similitudine le due immagini di confronto sono distinte, la
metafora fonde il tutto in un’immagine unica; infine, mentre la
similitudine presenta la realtà psicologica in senso stretto, la
metafora si presenta come un artificio che la accomuna al mondo
magico-sincretico (Bianchi, 2005: 148-149).
Saussure “sembra mantenersi in equilibrio nell’uso delle due
figure: la sua genialità produce immagini di straordinaria
efficacia, come accade in presenza di metafore, ma il compito
esplicativo delle sue figure assegna alle immagini anche il senso
delle similitudini”. Si può puntualizzare che “quando due
fenomeni vengono sussunti sotto uno stesso concetto, la loro
assimilazione sembra risultare dalla natura stessa delle cose,
mentre la loro differenziazione sembra aver bisogno di essere
giustificata”. Uno dei passi più affascinanti e geniali del Cours, in
cui l’autore descrive i rapporti sintagmatici e associativi di una
lingua (CLG, Saussure, 1916 [1922²]: 170-171), suggerisce un
approfondimento intorno al concetto di valeur, considerata
“attività combinatoria” e “creazione di nuove combinazioni” nel
processo di associazione di più segni appartenenti ad uno stesso
paradigma, anche se questi segni provengono da liste associative
distanti. La nozione di valeur rappresenterebbe il ‘lato sensibile’
dell’analisi del contenuto. Arbitraire e valeur sono proprietà
solidali: le parole restano quelle della tribù, per cui non si può
rinunciare al contratto sociale, ma la singolarità del soggetto
parlante riprende tutti i diritti nel sintagma, per il tramite della
parole. La teoria saussuriana della valeur implica del resto due
ordini di essa, quello della valeur in absentia, fondato sui rapporti
associativi, e quello della valeur in praesentia, prodotta a livello
sintagmatico: nella convergenza dei suddetti ordini prenderebbe
forma il senso; in particolare, il senso è completo e attualizzato
solo in quello che il linguista nei testi autografi chiama ‘le
discursif’. Saussure tematizza, così, la valeur linguistique lasciando
aperta la questione del senso (o della significazione, o della
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referenza degli enunciati), in corrispondenza al dominio della
linguistica della parole, che egli concepiva come un tutt’uno con la
linguistica della langue (Bianchi, 2005: 149-150) ed esemplifica
efficacemente i meccanismi linguistici delle ‘solidarietà
sintagmatiche’:
Fig. 1. (CLG, Saussure, 1916 [1922²]:175) Fig. 2. (CLG, Saussure, 1916 [1922²]:178
2.2. Arbitraire, valeur, arcobaleno e onomatopee
La considerazione di arbitraire e valeur quali ‘proprietà solidali’
suscita un’ulteriore riflessione sul concetto stesso di arbitrarietà,
particolarmente significativo in rapporto al processo per il quale
lingue diverse formano la materia in modi differenti, ritagliando
le varie porzioni del continuum della materia complessiva del
mondo che ci circonda11.
11 “Ogni lingua traccia le sue particolari suddivisioni all’interno della “massa
del pensiero” amorfa, e dà rilievo in essa a fattori diversi in disposizioni diverse, pone i centri di gravità in luoghi diversi e dà loro enfasi diverse. […] A determina-re la sua forma sono soltanto le funzioni della lingua, la funzione segnica e le altre da essa deducibili. La materia rimane, ogni volta, sostanza per una nuova forma, e non ha altra esistenza possibile al di là del suo essere sostanza per questa o quella forma” (Hjelmslev, 1968: 56-57).
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Interessante in questa prospettiva è la strutturazione lessicale
nelle varie lingue per i termini di colore: ogni lingua attribuisce a
colori differenti diverse sfumature, sezionando in modi diversi lo
stesso arcobaleno. In generale, il grado di diversità delle griglie
concettuali tra due o più lingue è di solito proporzionale alla
distanza culturale, antropologica, delle comunità che di quelle
lingue fanno uso: “dietro ai paradigmi offerti nelle varie lingue
dalle designazioni dei colori possiamo, - dice Hjelmslev -
sottraendo le differenze, scoprire tale continuo amorfo, lo spettro
solare, a cui ogni lingua impone arbitrariamente le sue
suddivisioni”.
La nozione di colore e il tema della sua percezione,
categorizzazione e denominazione ha suscitato da sempre
l’interesse di un grande numero di studiosi appartenenti a
discipline eterogenee ed è stato affrontato da molteplici
prospettive e metodologie, da quelle più strettamente
evoluzionistiche diffuse nella seconda metà dell’Ottocento, a
quelle legate alle due grandi posizioni novecentesche marcate
storicamente, filosoficamente e linguisticamente dell’univer -
salismo e del relativismo, collocate nella più generale
argomentazione riguardante il rapporto tra lingua e pensiero 12. La
ricognizione della storia degli studi sull’argomento fornita in
Grossmann (Grossmann 1988: 3-27), il cui lavoro di descrizione
sincronica e diacronica delle lingue considerate è basato
teoricamente e metodologicamente “sulla lessematica di E.
Coseriu - e sui - […] lavori di S. Stati riguardanti l’analisi
componenziale degli aggettivi nelle lingue romanze” (Grossmann
12 La bibliografia è chiaramente ricca e pluridisciplinare. In questa sede per ov-
vi motivi segnaliamo lo storico lavoro di Berlin & Kay, 1969, inquadrato nella pro-spettiva universalistica, ma sottoposto poi a revisioni e rettifiche in relazione alle posizioni relativistiche, come approfondito in Grossmann 1988: 17-27; inoltre, tra gli altri, indichiamo: Cardona, 1976, 1985; Ember & Ember, 1998; Grossmann, 1988; Lévi-Strauss, 1966; MacLaury, 2001; Vincent, 1983 e nelle prospettive più recenti: Deutscher, 2013 e i numerosi lavori di Pastoureau: 1987, 2008, 2008a, 2010, 2013, 2016.
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1988: 28), sarà poi ripresa, approfondita ampliata dagli studi
successivi articolati, sempre in un’ottica di interdisciplinarietà,
tra i due focus di ricerca del color vision e del color naming13.
La tematica viene affrontata nel nostro percorso seguendo la
riflessione sui problemi dell’arbitrarietà e della convenzionalità
della lingua, che rivela la modalità tipicamente saussuriana di
confrontare il piano astratto/mentale con quello
concreto/materiale. Attraverso l’interpretazione di Hjelmslev, che
ridefinisce e radicalizza il pensiero di Saussure si arriva più
recentemente a parlare di arbitrarietà ‘verticale’ e arbitrarietà
‘orizzontale’14.
Ragionando sull’arbitrarietà ‘orizzontale’, paradigma
particolarmente significativo per lo studio scientifico del
linguaggio, Keidan sottolinea
che i concetti della mente e i significati linguistici appartengono a due ambiti piuttosto differenti: sono fatti, per così dire, di materia diversa; i primi sono entità positive, i secondi non sono che opposizioni. Tuttavia, i significati linguistici spesso seguono le strutture concettuali […]. Gli eventuali parallelismi semantici dei sistemi lessicali e grammaticali di lingue diverse si spiegano non con il venir meno dell’arbitrarietà, ma con il contatto tra lingue, e, più in generale, tra culture diverse. Non a caso, quanto più lontane (geograficamente, culturalmente) sono due comunità prese in esame tanto più incommensurabili saranno le loro lingue. Una volta che un certo sistema linguistico ha selezionato un insieme finito di significati lessicalizzati (o grammaticalizzati) tutti gli altri significati sono ancora esprimibili. Infatti, le cose dicibili non sono limitate al numero dei segni, ma sono potenzialmente infinite: il linguaggio, in tutte le sue
13 Segnaliamo in particolare: Anderson, Biggam, Hough, Kay (a cura di), 2014;
Biggam, 2012; Bornstein, 2006, 2007; Goldman, 2013; Kay, Berlin, Maffi, Merrifield, Cook, 2009; MacLaury, Paramei, Dedrick (a cura di), 2007.
14 Cfr. Simone, 1991: 66-67.
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manifestazioni storiche, è caratterizzato dalla cosiddetta onnipotenza semantica (Keidan, 2008: 40).
Nei casi delle strutturazioni lessicali per la “nomenclatura dei
colori regna sia l’arbitrarietà «orizzontale» che quella «verticale»”
(Keidan, 2008: 47). Inoltre,
nonostante alcune probabili tendenze universali (da attribuirsi più alla fisiologia della mente che non al linguaggio in quanto tale, cfr. l’ipotesi proposta in Berlin e Kay 1969), le lingue storico-naturali selezionano i colori «focali» in modo del tutto imprevedibili. Allo stesso modo, scelto un certo termine «focale», si vede che esso può essere utilizzato per un range di sfumature molto largo, e di nuovo quasi imprevedibile (Keidan, 2008: 47).
Nell’ambito della formulazione dei nomi di colore, campo lessicale
che ricopre una realtà continua, non ‘naturalmente’ segmentabile,
Hjelmslev, confronta l’inglese e il gallese riconoscendo segmentazioni
diverse all’interno dello spettro (Hjelmslev, 1968: 57-58).
Analogamente, lo stesso processo ricorre nelle dinamiche di
mutamento semantico nella transizione dal latino alle lingue romanze,
“come nel caso della rappresentazione dei colori che in latino era
bidimensionale in quanto uno stesso colore era distinto lessicalmente
l’uno dall’altro anche per il tratto distintivo della brillantezza (cfr. ater e
niger, albus e candidus) che poi scompare nelle lingue romanze”
(Lazzeroni (a cura di) 1987, pp. 28-29; Bianchi, in stampa).
Nel caso di lingue culturalmente distanti, ma con un dominio
semantico di base, teoricamente non ‘arbitrariamente’
scomponibile, accade più o meno la stessa cosa, come nel caso
dell’inglese e del malese per i termini indicanti ciò che ricopre un
corpo vivo in natura (capelli, peli, pelliccia, piume, lanugine
vegetale ecc.), come indagato in Blust15
15 Sull’argomento cfr. anche Cardona 1976; 1985 e la ricca bibliografia commen-
tata ivi fornita.
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il malese sembra concettualizzare come distinti solo i capelli e le piume della coda, laddove tutto il resto è indistinto, è considerato la stessa cosa […] a volte ad un termine dell'inglese ne corrispondono due nel malese, come hair: rambut + bulu, che sembra la stessa differenza tra 'peli della testa' capelli e 'peli del corpo' peli che abbiamo in italiano, anche se rambut è più esteso di capelli applicandosi anche ad oggetti per i quali noi preferiremmo peli, per cui ad esempio il frutto, simile ad un riccio rossastro, e diffusissimo in Asia, del Nephelium lappaceum in malese è detto rambutan (ma in sundanese […] si ha buluan), nome col quale è generalmente noto (per modo di dire) anche in Occidente. Ma a volte ad un termine del malese ne corrispondono fino a cinque dell'inglese (bulu: hair + (downy) feathers + floss + fur) mentre ad un altro termine del malese non ne corrisponde uno specifico in inglese ( lawi: tail feathers) (Blust, 2009: 333).
In ambito fonosimbolico e onomatopeico, in cui il dominio
dell’arbitrarietà risulta delimitato, si abbinano proprietà
cromatiche alle qualità evocative di alcuni suoni rispetto ad altri,
come nel caso delle vocali posteriori /o/ e /u/, deputate ad
indicare l'oscurità (come in oscuro, buio, cupo) o del parallelismo
tra colore e vocali, che se in Voyelles di Arthur Rimbaud16 si
declina ‘poeticamente’, in Jakobson si formalizza linguisticamente
attraverso la concordanza tra sistemi di suono e sistemi di colore.
Gli esempi considerati per la costituzione dei campi semantici
di ‘colore’ e per le limitazioni dell’arbitrarietà hanno permesso di
misurarci con i due assi del sintagma e del paradigma, come
accade per la metafora e la metonimia, configurati pertanto come
i due poli tra cui l’atto di parola oscilla. Tale caratteristica emerge
in maniera particolarmente significativa nella riflessione degli
altri due autori che abbiamo scelto di prendere in considerazione:
Jakobson e Lacan.
16 Rimbaud, 2009: 167-169.
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3. Metafora e metonimia tra processi e strutture: Jakobson e
Lacan
3.1. Sistemi di suono e sistemi di colore, direttrice metaforica e
direttrice metonimica tra sintagma e paradigma: le posizioni di Jakobson
Jakobson declina il problema dei rapporti sintagmatici e
paradigmatici del sistema lingua in diverse istanze: da quello
dell’analisi del linguaggio infantile e della costruzione delle
strutture fonologiche a quello delle problematiche legate ai
disturbi del linguaggio.
Nel celebre saggio del 1941 Kindersprache, Aphasie und
allgemeine Lautgesetze17 Jakobson inquadra il problema dell’afasia
come disturbo linguistico e sulla base del rapporto tra lingua del
bambino e lingue del mondo, riflette sul rapporto tra ontogenesi e
filogenesi del linguaggio:
tanto l’ontogenesi quanto probabilmente la filogenesi del linguaggio sono basate sullo stesso principio di base, che è normativo per l’intero campo del linguaggio. […] Questo principio è semplice fino alla banalità: non si può erigere la soprastruttura senza aver fornito le fondamenta, né si possono rimuovere le fondamenta senza aver rimosso la soprastruttura. Ma a questo semplice principio obbediscono gli aspetti dinamici e statici del linguaggio […]. Il progresso linguistico del bambino, come il regresso dell’afasico, sono essenzialmente dirette conseguenze, e soprattutto concrete, di questo principio. La struttura stratificata del linguaggio è così rivelata, e più sono i dati sul linguaggio dei bambini e degli afasici che la linguistica rende accessibili ricavandoli dai diversi popoli, più significativamente e completamente essa può manipolare le leggi strutturali delle lingue particolari e del linguaggio in generale (Jakobson, 1971: 96-97).
17 Per l’edizione originale del saggio facciamo riferimento a Jakobson, 1971a: 328-401;
per le citazioni ci riferiremo invece alla traduzione italiana in Jakobson, 1971: 11-104.
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L’argomento sarà approfondito nel saggio del 1955 Aphasia as a
Linguistic Topic18 in cui si attribuisce all’uomo la facoltà di
articolare parole e di esprimersi in un discorso sulla base di due
rapporti fondamentali: uno, “interno, di somiglianza (e contrasto)
[…] alla base della metafora” e uno “esterno, di continuità (e
lontananza)” che “determina la metonimia”. Il linguaggio in tutte
le sue articolazioni prevede sempre una certa contiguità fra i
componenti dell’atto linguistico che ne assicura la giusta
trasmissione: nel circuito della parola è necessaria una certa
equivalenza fra i simboli usati dall’emittente e quelli conosciuti e
interpretati dal ricevente, altrimenti il messaggio risulta
inefficace: “gli elementi costitutivi di ogni messaggio sono
necessariamente legati al codice mediante un rapporto interno di
equivalenza e al contesto mediante un rapporto esterno di
contiguità” (Jakobson 1971: 112). Secondo Jakobson la metafora è
implicata nella codifica mentre la metonimia presiede alla
decodifica e tali rapporti valgono per tutti i livelli del linguaggio
a partire dai fonemi fino agli enunciati, come già segnalato nel
saggio del 1941:
si confrontino le parole tedesche blau e flau. Fra b e f esiste un rapporto di sostituzione, fra ognuno di questi due suoni e la l seguente un rapporto contestuale. L’ultimo rapporto è detto sintagmatico (Saussure, Cours de linguistique générale, 170 sgg), e il rapporto tra elementi di una stessa serie sostitutiva è detta associativo, o, secondo il più esatto termine di Hjelmslev, paradigmatico (Jakobson, 1971: 72).
L’esempio proposto è relativo alla questione riguardante la
“natura del rapporto iniziale fra consonante e vocale” , al fine poi
di confermare che “il rapporto sintagmatico si forma nel bambino
prima del rapporto paradigmatico – il contrasto consecutivo
18 Per l’edizione originale del saggio facciamo riferimento a Jakobson, 1971b: 229-239;
per le citazioni ci riferiremo invece alla traduzione italiana in Jakobson, 1971: 107-120.
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prima dell’opposizione simultanea” e che “il contrasto fra
consonante e vocale si presenta, allora, sull’asse sintagmatico”
(Jakobson, 1971: 71-72).
Classificando le strutture fonologiche, in particolare nel
contesto della ‘scissione’ delle varie consonanti in ‘labiali, dentali,
larghe, strette, anteriori, posteriori’, l’autore innesta la riflessione
sul ‘cromatismo’ e sulle “concordanze fra sistemi di suono e
sistemi di colore” (Jakobson, 1971: 68), applicandola alla struttura
fonologica e alla sua diversa segmentazione nel sistema. Partendo
dalle posizioni di Köhler e Stumpf, Jakobson condivide con i
“grandi maestri dell’acustica moderna” la similarità tra
‘sensazioni visive’ e ‘suoni linguistici’ che risultano
da un lato chiari o cupi , e dall’altro cromatici o acromatici in gradi diversi. Col decrescere del cromatismo (ricchezza di suono) il contrasto chiaro~cupo si fa più marcato. Le vocali più sono larghe più sono cromatiche, e perciò più lontane rispetto al contrasto luce~ombra. Di tutte le vocali a possiede il massimo cromatismo ed è la meno toccata dal contrasto luce~ombra, mentre le vocali più strette, che sono particolarmente soggette a questo contrasto, mostrano un cromatismo minimo (Jakobson, 1971: 75).
Il cromatismo viene riconosciuto come “qualità fenomenica
specifica delle vocali” la a rappresenta la “vocale ottimale a cui
corrisponde la quantità massima del processo accessorio” e le
consonanti sono “suoni «senza pronunciato cromatismo»”. Alla
luce dell’analisi acustica, “le labiali oppongono una qualità cupa
alla qualità chiara delle dentali” e “poiché la quantità del processo
fondamentale cresce, secondo Stumpf, nella direzione dalla luce
all’ombra […], sono le labiali che presentano l’optimum
consonantico”. “Nello sviluppo del linguaggio infantile la prima
opposizione vocalica nasce solo dopo la prima opposizione
consonantica chiaro~scuro” e si assiste a “uno stadio di sviluppo in
cui le consonanti esercitano già una funzione distintiva, mentre la
singola vocale funzione ancora semplicemente come una vocale di
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appoggio e come portatrice di variazioni espressive”. L’ordine in
cui appaiono i suoni quali elementi costitutivi di significato vede in
prima posizione le consonanti “che si dividono sulla linea
orizzontale o bianco-nera” seguite dalle vocali “che si
differenziano lungo la linea verticale secondo il grado di
cromatismo”, seguendo uno sviluppo “nella stessa successione di
quello delle sensazioni visive”: solo in una seconda fase “i cosidetti
colori dello spettro a diversi gradi di cromatismo [… ] si associano
alla serie incolore bianco-nera” (Jakobson, 1971: 77-81).
Nell’approfondimento della questione Jakobson intende fornire
prima una significativa precisazione:
si può restare nei limiti dei fenomeni fonologici per quanto riguarda la ricerca sulle qualità del suono e considerare i termini chiaro-cupo, cromatico-acromatico, come d’altro lato le tinte variegate o incolori, quali semplici metafore, e sostituirli eventualmente con termini non metaforici, ma il problema della somiglianza fenomenica fra suono e colore acquista sempre più risalto […]. Evidentemente le due serie di qualità, «luminosità-cupezza» e «cromatismo-acromatismo», sono comuni al suono e alle sensazioni visive, e la struttura dei sistemi di suono e di colore mostra marcate concordanze (Jakobson, 1971: 84)
seguita dalla presentazione, sul modello della ‘sinossia
acustico-cromatica’ di Langenbeck, del “sistema di colori
vocalico” (Jakobson, 1971: 85), sintesi dei dati di ricerca raccolti
da un’informatrice “ceca- trentadue anni, molto musicale, dotata
anche come pittrice” e che “sin dall’infanzia riusciva
immediatamente a richiamare per ogni suono linguistico uno
stesso colore chiaramente sfumato” (Jakobson, 1971: 85):
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Fig. 3. (Jakobson, 1971a: 387)
“L’opposizione di tutte le labiali o velari da un lato e di tutte le
dentali o palatali dall’altro è stata interpretata come un’opposizione
di scuro e chiaro e le velari e palatali sono apparse «più compatte»
delle labiali e dentali” sottolinea il linguista e “il colore di l è stato
caratterizzato come acciaio, quello di r come blu rosso (simile a o) e
quello di ř ancora «una sorta di blu»”. Ed è in questo contesto che
l’autore rintraccia analogie tra “lo sviluppo del senso del colore (e i
suoi disturbi patologici)” e “lo sviluppo e la disgregazione del
sistema fonologico”:
la preferenza per nero e rosso allo stadio dello sviluppo infantile , in cui i colori variegati non sono ancora distinti, richiama alla mente il contrasto iniziale della oclusiva bilabiale e di a . Inoltre si può paragonare l’«agnosia per i colori diversi dal rosso, nero e bianco» […] allo stad io della vocale unica e massimamente cromatica e della scissione delle consonanti labiali e dentali. I casi di parziale cecità al colore, in cui sono ancora riconosciuti solo il blu e il rosso fra i colori variegati […], corrispondono al vocalismo lineare, e il sistema di colori variegati «blu-rosso-giallo» della comune cecità al verde […] è simile al triangolo vocalico fondamentale (Jakobson, 1971: 86).
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Passando poi a considerare la parola come “la più alta unità
linguistica obbligatoriamente codificata” Jakobson afferma che
“non ci è concesso coniare nuove parole nel nostro parlare, salvo
che non siano rese chiare all’ascoltatore mediante traduzione in
parole convenzionali o mediante un contesto esplicito”; del resto,
nella prospettiva psicoanalitica succede che al posto di una parola
possa crearsi, nel discorso, qualcosa di nuovo e inaspettato: si
fornisce un prodotto metaforico, che agisce a livello della
significazione. Diversamente accade per i neologismi, che
appartengono al campo psicotico. Le regole che sanciscono la
combinazione delle parole in enunciati, secondo Jakobson, sono
racchiuse nel codice, fisso e determinato, ovvero nella langue, come
negli esempi da lui riportati (Jakobson, 1971: 112-113).
Sul problema l’autore torna nuovamente nel 1956 in Two
Aspects of Language and Two Types of Aphasic Disturbances19, che
costituisce la seconda parte del volume redatto con Halle dal
titolo Fundamentals of Languages20. Qui vengono identificate due
‘direttici semantiche’, due modalità di realizzazione per ogni
segno linguistico, sia esso costituito da fonemi, parole e/o frasi:
una “direttrice metaforica”, fondata sulla selezione tra termini
alternativi e, quindi, sulla sostituzione per somiglianza di certe
entità linguistiche e una “direttrice metonimica” (Jakobson, 1966:
40) basata sulla loro combinazione in unità maggiormente
complesse, dato che ogni segno è composto di segni costitutivi e,
a sua volta, si combina con altri segni. Per Jakobson “l’atto
linguistico implica la selezione di certe entità linguistiche e la
loro combinazione in unità linguistiche maggiormente
complesse” e “una data unità significativa può essere sostituita
con altri segni più espliciti appartenenti allo stesso codice; in tal
modo viene rivelato il suo significato generale, mentre il senso
contestuale è determinato dalla sua connessione con altri segni
19 Per l’edizione originale del saggio facciamo riferimento a Jakobson, 1971b: 238-
259; per le citazioni ci riferiremo invece alla traduzione italiana in Jakobson, 1966: 22-45. 20 Jakobson, Halle, 1971: 67-96.
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all’interno della stessa sequenza”. Tale duplice carattere del
linguaggio è osservabile nella clinica di quelli che lo studioso
definisce “disturbi della parola” (Jakobson, 1966: 24-28).
Esisterebbero quindi:
due tipi fondamentali di afasia, a seconda che la carenza principale risieda nella selezione e sostituzione (mentre la combinazione e la situazione nel contesto rimangono relativamente stabili) ovvero, al contrario, risieda nella oppure la combinazione e nella situazione nel contesto (con una relativa conservazione delle normali operazioni di selezione e sostituzione) (Jakobson, 1966: 28-29).
“Tra gli afasici del primo tipo (deficienza nella selezione) il
contesto costituisce il fattore indispensabile e decisivo” e in essi
sarebbe compromessa in particolare la capacità di denominare.
Tali pazienti non riescono a pronunciare su richiesta dell’esami -
natore parole che normalmente possono pronunciare in una frase
spontanea, con l’aiuto del contesto interno alla frase stessa e non
sarebbero in grado di effettuare una sostituzione fra un segno
linguistico ed un suo sinonimo da selezionare nel codice; mentre
mantengono intatta la capacità di parlare ed utilizzare qualsiasi
termine in un discorso con dei referenti in un contesto. In questo
tipo di afasici, la facoltà che risulta particolarmente compromessa
è quella relativa all’utilizzo della metafora. L’afasico con disturbo
della selezione non riesce a stabilire un’equivalenza semantica fra
due segni e quindi l’operazione ‘questo sta per questo altro’,
tipica della metafora, non può essere compiuta. La relazione di
identità fra segni è inesistente, mentre rimane integra quella di
contiguità: la comunicazione è tutta spostata sul campo della
metonimia:
un segno (per esempio ‘forchetta’) che ricorre di solito per un altro segno (per esempio ‘coltello’) può essere usato invece di questo. Gruppi di parole come ‘coltello e forchetta’, ‘lume da tavolo’, ‘fumare una pipa’, hanno dato
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origine alle metonimie ‘forchetta’, ‘tavolo’, ‘fumo’; la relazione fra l’uso di un oggetto (pane abbrustolito) e i mezzi per produrlo dà origine alla metonimia ‘mangiare’ invece di ‘gratella’ (Jakobson, 1966: 35).
Al contrario, nel caso delle le afasie del secondo gruppo, legate
al “disturbo della contiguità” (Jakobson, 1966: 35), ad essere
danneggiata è la capacità di strutturare un contesto interno al
discorso:
sono perdute le regole sintattiche che organizzano le parole in unità più elevate; questa perdita, chiamata agrammatismo, determina la degenerazione della frase in “semplice mucchio di parole” […]. L’ordine delle parole diventa caotico; i legami di coordinazione e di subordinazione grammaticale , sia di accordo, sia di reggenza, sono dissolti […]. Meno una parola dipende grammaticalmente dal contesto, più forte è la sua persistenza nel discorso degli afasici nei quali è colpita la funzione di contiguità e più rapidamente viene eliminata dai malati che soffrono di un disturbo della similarità (Jakobson, 1966: 36).
In pazienti di questo tipo è evidente un tipo di comunicazione
orientata più sul versante della similitudine e della metafora:
quando viene meno la capacità di costruire il contesto, il malato, relegato al gruppo di sostituzione, opera con le similitudini e le sue identificazioni approssimative sono di natura metaforica, al contrario delle identificazioni metonimiche comuni negli afasici di tipo opposto. Cannocchiale invece di microscopio, fuoco invece di luce a gas sono tipici esempi di tali espressioni quasi metaforiche, come le ha battezzate Jackson, poiché, in contrasto con le metafore retoriche e poetiche, non presentano nessuna deliberata trasposizione di significato (Jakobson, 1966: 37).
“Le varietà di afasia sono numerose e diverse, ma tutte
oscillano fra i due tipi antitetici or ora descritti” conferma
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Jakobson: la metafora sarebbe deficitaria nei disturbi della
similarità, laddove il primo tipo di disturbo “implica un
deterioramento delle operazioni metalinguistiche”, mentre la
metonimia è soppressa nel secondo tipo di affezione che “altera la
facoltà di conservare la gerarchia delle unità linguistiche”
(Jakobson, 1966: 39-40). L’ipotesi jakobsoniana in cui si formalizza
la “proporzione metafora : afasia di Broca = metonimia : afasia di
Wernicke” (Alfieri, 2008), nonostante “lo stile brillante e
l’approccio multidisciplinare” con la quale l’autore la sostiene,
presenta i suoi limiti. Tuttavia, la proposta di Jakobson si
diffonde e ha successo “anche tra i non addetti ai lavori”
diventando “una sorta di vulgata” (Alfieri, 2008: 10, nota 13).
Nei lavori successivi – Toward a Linguistic Classification of
Aphasic Impairments (1964)21, Linguistic Types of Aphasia (1966)22,
On Aphasic Disorders from a Linguistic Angle (1980)23 – si continua a
ragionare sul problema, in direzione evolutiva e propositiva
nell’urgente attualità della questione:
i disordini della combinazione (contiguità) sembrano essere connessi con le lesioni più anteriori della corteccia, e i disordini della selezione (similarità) con le lesioni più posteriori […]. Nei tipi efferente e dinamico dei disturbi della combinazione, è colpito l’asse della successività, mentre i tipi sensoriale e semantico dei disordini della selezione colpiscono l’asse della simultaneità. Quanto ai due tipi intermedi, uno, l’afasia afferente, è un disordine della combinazione che colpisce l’asse della simultaneità, mentre l’altro, l’afasia amnestica, è un impedimento della selezione riguardante l’asse della successività […]. A me sembra che la dicotomia successione- simultaneità, che ha una parte così essenziale e ancora inesplorata nel linguaggio, offra una
21 Per l’edizione originale del saggio facciamo riferimento a Jakobson, 1971b:
289-306; per le citazioni ci riferiremo invece alla traduzione italiana in Jakobson, 1971: 143-167.
22 Per l’edizione originale del saggio facciamo riferimento a Jakobson, 1971b: 307-333; per le citazioni ci riferiremo invece alla traduzione italiana in Jakobson, 1971: 169-190.
23 Jakobson, 1985: 128-140.
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chiave per la ricerca in corso sui diversi sistemi di segni nella loro interrelazione. Forse lo studio di questo dualismo farà nuova luce sulle diverse funzioni e aree funzionali del cervello (Jakobson, 1971: 185-186).
Un ulteriore aspetto in cui la dicotomia metafora-metonimia ricorre
nella teoria jakobsoniana è quello riguardante la magia verbale.
Jakobson ha “distinto una magia metaforica e una magia metonimica”
(Fónagy, 1993: 91)24, motivandone significativamente l’esistenza
attraverso “la concorrenza fra i procedimenti metonimico e metaforico
[…] evidente in ogni processo simbolico, sia intrasubiettivo, sia sociale”
(Jakobson, 1966: 44). Jakobson, citando Frazer e lo studio sulla struttura
dei sogni di Freud, riconosce che “il problema fondamentale è quello di
sapere se i simboli e le sequenze temporali utilizzate sono fondati sulla
contiguità (“spostamento” metonimico e “condensazione” sineddochica
[…]) o sulla similarità (“identificazione” e “simbolismo” […]). “La
similarità dei significati collega i simboli di un metalinguaggio ai
simboli del linguaggio al quale questo si riferisce” e nello stesso tempo
“un termine metaforico al termine cui si sostituisce”, per cui “quando il
ricercatore costruisce un metalinguaggio per interpretare dei tropi, egli
possiede mezzi più omogenei per trattare la metafora mentre la
metonimia, basata su un principio diverso, sfugge facilmente
all’interpretazione” (Jakobson, 1966: 44).
Abbiamo già visto come la teoria di Jakobson evolva nei
contributi successivi sul tema. Il riferimento al ragionamento
sulla magia verbale è particolarmente interessante perché esso
attrae fortemente l’attenzione di Lacan.
3.2. Metafora e metonimia tra significato e significante: Lacan,
Freud, Saussure
In un contributo del 2015, Roberto Giacomelli osservava come,
mentre Saussure riconosce il valore del segno linguistico, inteso
24 Cfr. anche Sériot, in stampa.
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nella sua essenza biplanare, nella sua “natura logica, puramente
immateriale” (Giacomelli, 2017: 660)25 e “dotato di una funzione
differenziale”, attraverso il rapporto con gli altri termini del
sistema che permettono la sua identificazione per opposizione, lo
sviluppo del concetto proposto da Jakobson consiste nella
trasformazione della relazione di opposizione in quella di rinvio.
Sia nel caso della metafora sia in quello della metonimia si
verificherebbe un’operazione di rinvio da un significante ad un
altro e un altro ancora, ad ottenere una catena di significanti. La
relazione di rinvio torna nella riflessione sulla magia verbale, in
cui Jakobson si riferisce a “uno studio sulla struttura dei sogni”
(Jakobson, 1966: 44) a solo titolo di esempio. A questo punto si
inserisce la riflessione di Lacan: “con la seconda proprietà di
significante, di essere composto secondo le leggi di un ordine
chiuso, si afferma la necessità del substrato topologico di cui il
termine di catena significante che uso di solito, dà
un’approssimazione: anelli la cui collana si sigilla nell’anello di
un’altra collana fatta di anelli” (Lacan, 1974, vol. I: 496).
Espandendo enormemente l’osservazione di Jakobson sulla
struttura del sogno, Lacan formalizzerà un’intera teoria basata
sull’inconscio ‘strutturato come un linguaggio’ (cfr. Lacan, 2010:
140).
In primissima istanza, Lacan intende la scienza linguistica
“sospesa alla posizione primordiale del significante e del
significato come ordini distinti e inizialmente separati da una
barriera resistente alla significazione”. Successivamente, Lacan
evolve verso “uno studio esatto dei legami propri del significante
e dell’ampiezza della loro funzione nella genesi del significato”
(Lacan, 1974, vol. I: 492). Vengono individuati due distinti tipi di
rapporto fra un significante e un altro, metafora e metonimia, che
sono causa di due effetti diversi di significazione: la metafora
25 La prima pubblicazione del contributo è in Giacomelli 2015. L’argomento è
trattato anche in Giacomelli 2006.
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produce significazione “rilasciata” mentre la metonimia produce
significazione “trattenuta”:
la funzione propriamente significante che si dipinge in tal modo nel linguaggio ha un nome […]. È fra le figure di stile o tropi, donde ci viene il verbo trovare, che si trova di fatto questo nome. Questo nome è metonimia […]. Designeremo con essa il primo versante del campo effettivo che il significante costituisce perché il senso vi prenda posto. Diciamo l’altro. È la metafora […]. La scintilla creatrice della metafora non scaturisce dal fatto che si sono messe in presenza due immagini, cioè due significanti ugualmente attualizzati. Essa scaturisce fra due significanti uno dei quali s’è sostituito all’altro prendendone il posto nella catena significante, mentre il significante occultato rimane presente per la sua connessione (metonimica) col resto della catena. Una parola per un’altra, un mot pour un autre, ecco la formula della metafora. […] (Lacan, 1974, vol. I: 500-502).
Quando Freud ne L’interpretazione dei sogni descrive le leggi
del lavoro onirico, quello che compie è effettivamente una
sistematizzazione linguistica dell’inconscio. Alla condensazione
freudiana, Lacan fa corrispondere la metafora, in qualità di
struttura di sovrapposizione dei significanti, mentre allo
spostamento, operazione di viraggio della significazione, la
metonimia:
come si vede, la metafora si colloca nel punto preciso in cui il senso si produce nel non-senso, cioè in quel passaggio che Freud ha scoperto dar luogo, quando superato a ritroso, a quella parola, a quel mot, che in francese è «le mot» per eccellenza, la parola che non ha altro patronato che il significante dello spirito, e in cui si tocca con mano che è il proprio destino che l’uomo sfida attraverso la derisione del significante […]. Questa rivelazione, è a Freud che s’è fatta, e la sua scoperta egli l’ha chiamata inconscio […]. Questa struttura di linguaggio che rende
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possibile l’operazione della lettura, sta alla base della significanza del sogno, della Traumdeutung […]. L’Entstellung, tradotta trasposizione, in cui Freud mostra la precondizione generale della funzione del sogno, è ciò che sopra abbiamo designato con Saussure come lo scivolamento del significato sotto il significante, sempre in azione (da notare: inconscia) nel discorso. Ma si ritrovano in essa i due versanti dell’incidenza del significante sul significato. La Verdichtung, o condensazione: cioè la struttura di sovrapposizione dei significanti in cui prende campo la metafora e il cui nome, condensando in sé la Dichtung, indica la connaturalità di questo meccanismo con la poesia, fino al punto di includere la funzione propriamente tradizionale di quest’ultima. La Verschiebung, o spostamento: cioè più vicino al termine tedesco, il viraggio della significazione dimostrato dalla metonimia e che, fin dalla sua apparizione in Freud, è presente come il mezzo dell’inconscio più adatto per eludere la censura (Lacan, 1974, vol. I: 503-506).
Il rapporto di comparazione tra il lavoro onirico e le sue leggi e il
sistema lingua è comprovato da Lacan nell’intento programmatico
stesso del suo scritto: “il nostro titolo lascia intendere che al di là di
questa parola, è tutta la struttura del linguaggio che l’esperienza
psicoanalitica scopre nell’inconscio” (Lacan, 1974, vol. I : 489).
Ma la lettura lacaniana necessita di un approfondimento: è
quanto ha fatto Giacomelli che sottolinea “l’interesse della cultura
tardo-ottocentesca per l’attività inconscia entro una psicologia
associazionista onde l’attività del parlante è frutto di mozioni
psichiche”. Giacomelli rileva che “Freud e Saussure appartengono
alla stessa generazione di studiosi, (quella dei Neogrammatici cui
il ginevrino opporrà poi la sua visione sincronica, e le sue
dicotomie”) un ambito culturale che valorizza “lo psichismo del
parlante, particolarmente intrinseco dei Neogrammatici e al quale
Freud si rifà apertamente”. Se da un lato“la brevità della vita di
Saussure gli ha impedito un contatto profondo con la psicoanalisi
anche se si interessò di anagrammi e anche di glossolalia”,
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dall’altro “in uno scritto del 1913 Freud mette la scienza del
linguaggio al primo posto fra le metodiche che entrano in
contatto epistemologico con la psicoanalisi e ne dà un
inquadramento molto simile a quello di Saussure sui rapporti fra
linguistica e semiologia” (Giacomelli, 2017: 646):
Freud, per parte sua, si occupa della semantica delle lingue primitive - nel quale cerca i significati “primi”, legati all’inconscio, delle parole - e, ancora, usa concetti linguistici […]. Nel Cours Saussure non nomina né la psicoanalisi né l’inconscio, ma l’aggettivo inconscio ricorre abbastanza spesso a indicare manifestazioni dell’inconscio descrittivo, ciò che sfugge alla coscienza, ben distinto dall’inconscio dinamico, sede di una significazione non consapevole legata alla parte sommersa della mente-coscienza. L’inconscio è perciò, nello psichismo di fine Ottocento, “ciò che sfugge alla coscienza”, definito da Saussure subconscient come si usava ai suoi giorni […] (Giacomelli, 2017: 646-647).
Giustamente Giacomelli osserva che la lettura di Lacan in
materia di psicoanalisi è condotta fondamentalmente su principi
strutturalisti, ma in particolare su quelli del “secondo
strutturalismo, quello di Hjelmslev e dell’algebra della lingua,
che comporta una formalizzazione del metodo linguistico entro
una teoria che vede nel linguaggio una struttura da cui il singolo
parlante è lontanissimo perché, in certo senso, la subisce e, dice
Lacan, non parla la lingua ma da questa è parlato” (Giacomelli,
2017: 649).
L’applicazione dello strutturalismo linguistico all’inconscio
freudiano in Lacan è il retaggio dell’eredità delle idee di Claude
Lévi-Strauss, antropologo strutturalista che negli anni ’50
introduce nell’ambiente culturale francese un dibattito fra
antropologia e psicoanalisi. Lévi-Strauss tenterà di individuare le
relazioni elementari alla base delle strutture sociali e di capire
quali relazioni esistono fra queste strutture e l’inconscio, inteso
anch’esso come una struttura. Nell’interpretazione lacaniana
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il significato è messo in secondo piano dal predominio di un Significante ontologizzatosi, anzi dei Significanti in una catena associativa che si dipana dentro il testo, unità di studio della psicoanalisi, della linguistica, della semiologia, della critica letteraria secondo visione della cosiddetta nouvelle critique della rivista“Tel Quel”. Questo metodo interdisciplinare risale alle dicotomie saussuriane anche se ne è tratto deduttivamente: fra il Cours e il secondo strutturalismo si è inserito il fantasma di una Forma che ha vita autonoma e regge il sistema, la struttura, definita “assente” perché la sua primordialità segnica è oscurata dalle incrostazioni della storia. Se Saussure è il profeta di questo quadro scientifico non perciò ne è direttamente il padre: lo si vede bene nelle forzature che il suo pensiero ha subìto nella teoria di Lacan, che al grande linguista ha attribuito posizioni che questi – stando alla lettera del Cours – non ha espresso. Pur essendo geniale l’uso di alcuni postulati strutturalistici ai fini della sua nuova psicoanalisi, il francese ha dato vita a un Saussure virtuale proiettando nella teoria linguistica concetti, valori, prospettive della psicoanalisi estranei alla lettera dello strutturalismo linguistico (Giacomelli, 2017: 649-650).
Ci soffermiamo ora su un segmento del ragionamento di
Lacan, relativo ad alcuni aspetti legati in particolare alla
semantica storica.
Secondo Giacomelli è evidente che “ciò che Lacan ricerca
nelle unità lessicali del linguaggio non è la langue di Saussure
ma la ‘sua’ langue, il misterioso codice sociale dei sentimenti,
delle pulsioni, quell’inconscio che sovrasta e spiazza il
soggetto” (Giacomelli, 2017: 656). Lo scivolamento continuo del
significato sotto il significante, alla base dell’algoritmo
lacaniano (Lacan, 1974, vol. I: 491) sembra essere determinato
dalla diacronia, concetto saussuriano ben definito, ma
diversamente interpretato:
l’enunciato, il discorso, che in Saussure è un’unità sintagmatica della sincronia del parlante, viene qui
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accoppiato con la diacronia, l’altro estremo della dicotomia saussuriana, estraneo per sua natura al polo opposto. Ma a Lacan fa gioco mescolare in modo arbitrario postulati ben distinti e opposti nella logica del Cours, adombrando tra l’altro la linearità della sincronia saussuriana per proporre una sorta di evoluzione diacronica dell’umanità, che per secoli e secoli parla da sola; e, nella terapia, la “diacronia” spiega il fluire del discorso, del langage del soggetto che corre di Significante in Significante alla inutile ricerca dell’Altro (Giacomelli, 2017: 656).
Giacomelli reputa “accettabile per la linguistica, specie per la
semantica storica” il concetto, che Lacan riconosce, di slittamento
“di significazione sotto gli stessi significanti” (Lacan, 1981: 66) in
diacronia, in relazione alla “oscillazione fra trasparenza e opacità
semantica assieme agli stadi intermedi di semi-trasparenza e
semi-opacità”, ma puntualizza che “la diacronia non ha niente a
che vedere con il sintagma” e che
anche la segmentazione biunivoca è cosa solo della sincronia, dello psichismo individuale che con la storia nulla condivide. È arcinoto che la storia linguistica determina slittamenti del significato di alcuni significanti che restano intatti mentre, al di sotto, il significato può mutare. L’ambiguità semantica, la polisemia, i giochi di parole sono possibili grazie a questa evoluzione del significato, ma il rimando infinito da Significante a Significante voluto da Lacan in un’atmosfera erratica ricorda solo da lontano e in senso, se si vuole, filosofico questi avvenimenti linguistici (Giacomelli, 2017: 657).
Un’ulteriore considerazione è suggerita dall’asserzione
lacaniana che mette in rapporto l’inconscio al langage (Lacan,
1981: 188), interpretato “nel senso antico de La Fontaine […]
ossia ‘discorso’ e non già ‘struttura, sistema’ […]”. Sarebbe la
“sintagmaticità del messaggio che si svolge “diacronicamente”
(così Lacan), che si struttura; la diacronia sarebbe solcata dai
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rapporti sintagmatici… Da Saussure siamo anche qui molto
lontani”. La conclusione di Giacomelli identifica le opere di
Freud e di Saussure quali “frutto del positivismo fin-de-siècle”
che “hanno condotto la psicoanalisi e la linguistica in direzioni
opposte pur se entrambe si dedicano alla lingua” : se il “Cours
fu, come si sa, una sintesi teorica resa possibile anche dalle
ricerche storiche dei Neogrammatici e ha poi dato luogo a
studi che, fino a Chomsky, si concentrano su fatti di cui si può
dare una interpretazione formale e logica”, Freud con la sua
opera si è collocato in una posizione diametralmente opposta
poiché “da presupposti di natura biologica e neurofisiologica
ha costruito una teoria che a tali dati (memoria, sogno, lapsus)
fornisce una base di spiegazione mitica, “storica”,
antropologica pescando nell’intera cultura occidentale, dai miti
greci fino al presente”. In questa prospettiva Lacan appare
come “un filosofo-umanista anche se nei suoi algoritmi e
formule algebriche ha tentato, secondo la moda del secondo
strutturalismo, di impressionare con un puntiglioso apparato
formale ed epistemico di natura algebrica” , atteggiamento che
non gli ha permesso di realizzare il suo intento, in quanto “dei
sentimenti, del desiderio e di quel misterioso Significante che li
incarnerebbe nella vita dell’uomo è difficile rintracciare
qualcosa nella formula” indicata dall’autore come sintesi
dell’uomo stesso (Giacomelli, 2017: 662-663).
3.3. Lacan, il nodo borromeo e il concetto di colore
La tensione di Lacan verso l’Altro, luogo misterioso e
simbolico dei significanti e verso l’immagine quale elemento
‘formatore della funzione dell’Io’, in quello che l’autore
definisce ‘stadio dello specchio’ (Lacan, 1974: 87 -94) trova un
riscontro nelle teorie sviluppate da Merleau-Ponty (Merleau-
Ponty, 1945, 1964), in particolare in Il visibile e l’invisibile .
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In questo quadro si inseriscono studi interdisciplinari di
diverso tipo, particolarmente interessanti ai fini della nostra
indagine26.
Nella teorizzazione lacaniana delle idee di Merleau-Ponty “da
una parte l’Altro custodisce il segreto della forma, della Gestalt,
avvicinando l’individuo a un momento a tratti mitico, che narra
la complessità della formazione della sua personalità; dall’altra è
il campo in cui sorge lo sguardo, la tavolozza dei colori che
sfuggono all’intenzionale, luce che colpisce il soggetto della
visione, già oggetto dello sguardo del mondo” (Albarello, 2014:
93).
Nei Seminari, che rappresentano il suo vero e proprio
‘laboratorio di ricerca’, Lacan si sofferma in diversi luoghi sulle
idee di Merleau-Ponty, in particolare, ne I quattro concetti
fondamentali della psicoanalisi (Lacan, 1979, 2003) e ne L’angoscia
(Lacan 2007), affrontando i problemi legati alla “visione” e alla
definizione dello sguardo come “oggetto causa del desiderio”,
applicando il concetto anche alla percezione del colore e
relativizzando la vera dimensione e la vera forma dell’oggetto,
nella logica del perceptum propria del Merleau-Ponty di
Phénoménologie de la perception (Merleau-Ponty, 1945).
Lacan rintraccia nella Fenomenologia della percezione di Merleau-
Ponty significativi esempi “della funzione di sintesi di quanto
avviene dietro la retina” individuando “fatti molto notevoli che
mostrano, per esempio, che il solo fatto di mascherare, grazie ad
uno schermo, una parte di un campo che funziona come sorgente
di colori composti” faccia vedere “in un modo completamente
diverso la composizione di cui si tratta”:
Qui, in effetti, cogliamo la funzione puramente soggettiva, nel senso ordinario del termine, la nota di meccanismo centrale che interviene, giacché il gioco di luce organizzato nell’esperimento, e del quale
26 Cfr. le indagini condotte da Albarello, 2014; Pagliarini, 2014; Silvestri 2007;
Recalcati, 2012, 2016.
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conosciamo tutte le componenti, è distinto da ciò che è percepito dal soggetto. Altra cosa ancora è accorgersi – il che ha pure una faccia soggettiva, ma adattata in modo ben diverso – degli effetti di riflesso di un campo o di un colore. Poniamo, per esempio, un campo giallo accanto a un campo blu – il campo blu, per il fatto di ricevere la luce riflessa sul campo giallo, ne subirà delle modificazioni. Ma, sicuramente, tutto ciò che è colore è solo soggettivo – nessun correlato oggettivo nello spettro ci permette di attribuire la qualità del colore alla lunghezza d’onda, come pure alla frequenza interessata a questo livello della vibrazione luminosa (Lacan, 2003: 96).
Lacan pone al centro del suo insegnamento la questione
dell’Altro quale elemento fondamentale per la formalizzazione
dell’Io, del soggetto e in questa direzione
procederà in un approfondimento che lo porterà a superare il primo impianto strutturalistico del suo ‘ritorno a Freud’ e approfondire i tre registri del Reale, Simbolico, Immaginario. Si tratta di tre consistenze costitutive della personalità, il cui particolare annodamento prevede che il venir meno di uno degli anelli produca lo scioglimento degli altri due. In particolare il nodo borromeo è costruito per rispondere a una questione essenziale della cura psicoanalitica, dove convivono la parola che presenta un’immagine uditiva (Immaginario) e una sua logica di senso (Simbolico) ma è anche luogo in cui si sperimenta che quel che si dice parla d’altro ed è per il soggetto impossibile e insopportabile (Reale). Quest’ultimo appare come una dimensione antinomica della realtà ma lo si coglie partendo da essa (Albarello, 2014: 96).
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Fig. 4. (Lacan, 2006: 24)
Il concetto di ‘nodo borromeo’ è introdotto da Lacan nella decima
lezione del seminario Encore (Lacan 1975: 107-123), ripreso l’anno
successivo nel seminario XXI Les non-dupes errent (Lacan 1997)27 e
riproposto poi nel seminario XXIII Le Sinthome (Lacan 2005, 2006)
per mostrare cosa accade nei meccanismi delle strutture psicotiche.
Nella traduzione italiana (Lacan, 1983) il titolo della suddetta lezione
è Anelli di corda, con un rinvio alla storia della famiglia Borromeo e
alle sue armi, dove i tre nodi costituiscono una triplice alleanza e la
cui simbologia serve a Lacan per spiegare la teoria topologica della
realtà intesa come l’incarnazione sensata e pensabile di ciò che
risulta dall’intersezione dei tre ordini appena citati: Immaginario,
Simbolico e Reale. Il richiamo è alle tre dimensioni della geometria
euclidea definite a partire dai suoi tre enti fondamentali (il punto, la
linea e il piano), ma anche al triangolo della significazione e non è
un caso che i tre anelli vengano rappresentati in genere attraverso
‘colorazioni’ diverse, in uno…
27 La pubblicazione è fuori commercio, si tratta di un documento interno alla
Associazione Freudiana Internazionale.
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spettacolo anche di colori dove il sipario […] si alza su una scena già illuminata dall’Altro, che è anche la scena altra, quella dell’inconscio, da cui dipendono i colori e i loro nomi, dotati di specifiche valenze emotive. I colori stanno ‘tra’ soggetto e oggetto, come relazione che precede, in un luogo, dell’Altro, che non è dalla parte del soggetto che ne è affetto, né soltanto dalla parte di un oggetto di cui il colore sarebbe una proprietà (Albarello, 2014: 98).
4. Conclusioni
Se “rispetto alla vulgata tradizionale che propone molte figure
retoriche, due strutture concettuali e due (o tre) processi mentali
si propone una diversa conclusione: molte figure, due schemi
concettuali, un solo processo mentale” (Alfieri, 2008: 18),
postulato con il quale ci sentiamo di concordare, una motivazione
può essere rintracciata nell’inscindibilità dei rapporti esistenti tra
le componenti del sistema lingua, anche e in particolar modo in
relazione ai meccanismi polisemici innescati da esso, declinati
specificamente nel campo semantico del colore.
Se nel processo linguistico standard, metafora e metonimia si
configurano non solo come meccanismi retorici, ma anche come
codifiche linguistiche di meccanismi cognitivi, innescando, in
particolar modo nei processi polisemici, dinamiche di
assorbimento e contrazione di nuovi significanti sotto uno stesso
significato, nella prospettiva psicoanalitica il prodotto
metaforico agisce a livello della significazione seguendo regole
che sanciscono la combinazione delle parole in enunciati, e che
appartengono alla langue, codice fisso e determinato. Infine, le
evoluzioni di ‘significato’ sono alla base dell’ambiguità
semantica e dei meccanismi polisemici attraverso gli
“slittamenti di significazione sotto gli stessi significanti” in
diacronia, letti ‘filosoficamente’ da Lacan.
I principi che informano la teoria di Saussure e che trovano una
cristallizzazione nelle dicotomie tramandateci dalle pagine del
50 Angela Bianchi
AIΩN-Linguistica n.6/2017 n.s. DOI: 10.4410/AIONL.6. 2017.001
Cours, vengono diversamente declinati nelle teorie jakobsoniana e
lacaniana: ci sembra che nella diversità del suddetto paradigma e
attraverso i meccanismi polisemici della lingua, con particolare
riferimento alle strutturazioni dei campi semantici del cromatismo,
sia avvenuta l’intersezione delle tre direttici teoriche.
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ENZO CAFFARELLI *
CROMONIMIA PROPRIALE: I COLORI NELLA FORMAZIONE
DI ANTROPONIMI, TOPONIMI E ALTRI ONIMI
Abstract Il contributo si occupa della presenza dei nomi dei colori (cromonimi) nelle
principali tipologie di nomi propri nel seguente ordine: il verde in antroponimia; l’azzurro nella toponimia; il bianco nell’odonimia: il grigio nella crematonimia: il rosa e il viola in una particolare tassonomia scientifica, la mineralogia. L’attenzione è puntata via via su un particolare aspetto degli studi onomastici, nell’ordine: la motivazione e le paretimologie; la funzionalità toponimica; la descrittività microtoponimica; la fantasia crematonimica; la lessiconimizzazione dei cromonimi come turbamento semantico nelle tassonomie scientifiche.
Parole chiave: Antroponimia, crematonimia, cromonimia, lessicalizzazione, topo-
nimia The paper deals with the presence of colour names (chromonyms) in the
principal proper name typologies in the following order: green in anthroponymy; light-blue in toponymy; white in odonymy; grey in chrematonymy; pink and purple in a special scientific taxonomy (mineralogy). In each chapter the attention is stressed on a particular aspect of onomastic studies, as follows: motivation and paretymologies; toponymic functionality; microtoponyms’ descriptiveness; chrematonymic fantasy: lexicalization and onymization of chromonyms as semantic disorder in the scientific taxonomies.
Keywords: Antroponymy, chrematonymy, chromonymy, lexicalization, to-
ponymy
1. Il verde in antroponimia o della motivazione onomastica
(e paretimologica)
Una delle spie della popolarità dei colori nelle motivazioni
onomastiche in genere è data dai numerosi processi di rietimo-
Enzo Caffarelli, Rivista Italiana di Onomastica, [email protected]
60 Enzo Caffarelli
AIΩN-Linguistica n.6 n.s. DOI: 10.4410/AIONL.6.2017.003
logizzazione che conducono a forme contenenti un colore. In an-
troponomastica un ricco esempio è offerto dai cognomi legati – in
apparenza – al cromonimo verde.
Una premessa storica. Nel Medioevo, fin dopo il Mille, erano
tre i colori fondamentali dell’arte e della cultura in generale: il
bianco, il nero e il rosso. Senza entrare nelle motivazioni e nelle
spiegazioni che competono allo storico dell’arte o all’antropologo,
numerosi nomi e cognomi tra quelli che esprimono un colore so-
no legati proprio al bianco, al nero e al rosso.
Eppure, almeno dal XIII secolo se non prima, altri colori sono
penetrati nell’arte e nella cultura occidentale, come l’azzurro, il
giallo e il verde. Tuttavia gli antroponimi collegabili a questi
“nuovi” colori sono pochissimi o sono esiti paretimologici. Allora
delle due l’una: o dobbiamo ipotizzare che la formazione dei co-
gnomi da nomi personali e soprannomi si sia compiuta entro il
XII secolo, ipotesi che sappiamo errata; oppure i nuovi colori non
sono presenti nell’onimia per motivi estranei alla cronologia.
La ragione fondamentale che si può addurre è che nei sopran-
nomi (qualcuno poi imposto anche nome personale) ciò che col-
piva soprattutto l’immaginazione delle comunità dei parlanti era-
no barba e capelli e la pelle: particolari anatomici ai quali ben si
associano il bianco, il rosso e il nero (con il “bruno” e il “moro”),
con le loro sfumature, ma non il verde, il giallo o l’azzurro, il che
esclude (o riduce al minimo) una motivazione incerta che si attri-
buisce ai cognomi cronominici, ossia il colore degli indumenti o
dei vessilli dei partiti e delle associazioni di appartenenza, ecc.,
questi sì caratterizzati anche dagli altri colori; e si pensi in parti-
colare al verde e al giallo con cui erano talora raffigurati i giullari
di corte o altre figure medievali legate all’estroversione se non al-
la follia.
Interessante è allora la presenza del cromonimo verde nei co-
gnomi moderni, ma legati ai soprannomi e ai nomi personali me-
dievali. Tali cognomi, escludendone alcuni rarissimi, sono una
quarantina. Partiamo dalla base verde con Verde e Verdi, forme di
frequenza medio-bassa, contrariamente a quanto generalmente si
Cromonimia propriale: i colori nella formazione di antroponimi, toponimi e … 61
AIΩN-Linguistica n.6 n.s. DOI: 10.4410/AIONL.6.2017.003
ritiene per l’accostamento ai quasi cento volte più numerosi Rossi
e Bianchi per il richiamo al tricolore e per la popolarità di un illu-
stre portatore quale Giuseppe Verdi. Nella graduatoria stilata in
base ai dati SEAT Pagine Gialle (1999-2000) Verdi occupa la 4028ª
posizione per frequenza, mentre il più frequente Verde si colloca
al rango 724.
Ebbene, in alcuni casi si tratta di una banale paretimologia da
nomi personali di origine germanica, in particolare dell’elemento
radicale *behrta ‘illustre, famoso’, evidentemente passato a vert-
/verd- nei volgari italiani. Ne è una prova il nome Alberto o Alibert
o simili, che si riflette nel raro cognome Alverdi, accentrato nel
Basso Veneto e nella Lombardia occidentale. Si tratterebbe per-
tanto, nel caso di Verde, specie campano, e di Verdi, centro-
settentrionale e poligenetico, di forme aferetiche con -e- tonica
aperta.
D’altro canto, l’imperiese e torinese Verda dovrebbe continuare
il personale medievale Verda, adattamento del germanico Werda, a
sua volta dall’antico alto tedesco wërd ‘degno’, connesso con Wër-
de ‘dignità’ (anche se in Piemonte l’aggettivo verde presenta un
femminile analogico verda). Verderàjme, Verderame, Verderamo, Ver-
dirame corrispondono a varianti corrotte e rietimologizzate di un
nome germanico che può risalire a Beltrame, incrociato con la altre
tradizioni onomastiche e influenzato dal siciliano virdirramu ‘ver-
derame; solfato di rame’. Si tratta di voci rare, siciliane tranne
Verderame campano e Verderamo leccese, con ulteriore rietimolo-
gizzazione, come pure nella variante metatetica Verdemare, poco
numerosa e soprattutto catanese. Caracausi (1993) suggerisce una
terza possibilità paretimologica, ossia dal nome personale Valde-
maro1. Anche gli apparenti composti bicromatici Verderosa, Verdi-
1 Un Verteramus scabinus del X secolo è nel Regesto di Farfa di Gregorio di Ca-
tino (Giorgi/Balzani, 1879-1914); Angelus de Berderamo è attestato in Sicilia nel 1269 (Caracausi, 1993); un comes Bertheraymus Andriae è documentato nel 1322 (Poma, 1919); l’ipotesi di una corrispondenza con il sostantivo del lessico verde-rame è stata ampiamente scartata e peraltro già Bongioanni (1928) si richiamava al nome germanico Bertrando.
62 Enzo Caffarelli
AIΩN-Linguistica n.6 n.s. DOI: 10.4410/AIONL.6.2017.003
rosa, Verdirosi dovrebbero avere alla base un nome germanico
formato con *baltha- ‘ardito, forte, coraggioso’ e con *hrot- ‘gloria,
fama’.
Verdelli, almeno in Lombardia, rappresenterà la pluralizzazio-
ne antroponimica del toponimo lombardo Verdello, comune del
Bergamasco2. Verdèri e Verdèrio indicano origine, provenienza o
comunque legame con l’altro toponimo lombardo Verderio – Infe-
riore e Superiore –, comuni lecchesi. Verdicaro, palermitano, sarà
variante di Perdicaro, con scambio P- > V-, o di Verbicaro. Alla base
del calabrese Verdiglione, Caracausi (1993) pone il personale
d’origine germanica Bertilo, giunto al cognome odierno attraverso
il francese Bertil(l)on. Il biellese Verdòia potrebbe raccostarsi al ti-
po Bertòia.
Verdesca, tipicamente salentino, può risalire a un microtopo-
nimo Verdesca (una località così chiamata si trova nel comune di
Vairano Patenora-Ce), variante di bertesca ‘torre di legno con feri-
toie di una fortificazione’ (Caracausi, 1993). Anche per il napole-
tano e salernitano Verdoliva è plausibile una rietimologizzazione
da una base differente; se non fosse così frequente, si potrebbe
pensare a un cognome imposto a trovatelli. Quanto al siciliano
Verdura e al parmense Verduri, rinviano al sostantivo identico che
potrebbe essere stato usato sia come voce toponimica sia come
soprannome per una persona che lavorava nei campi o vendeva
ortaggi.
Tuttavia è innegabile che una porzione di cognomi con Verd-
rappresentino davvero in modo diretto il colore. Ne era certo De
Felice (1978) che indicava come Verde e Verdi traessero origine da
soprannomi riconducibili al colore verde. Dalle forme base si sono
poi sviluppati vari alterati: il rarissimo romano Verdécchi e
l’ascolano e teramano Verdécchia, il leccese Verdicchia e il campano
e marchigiano Verdicchio, l’anconitano e maceratese Verdenelli, i
2 Ma è difficile spiegare in modo simile l’altrettanto significativo nucleo to-
scano, specie aretino e fiorentino; uno Ioannes Ambrosius de Verdellis tra gli stu-denti del Ginnasio Patavino nella prima metà del Cinquecento (Martellozzo Fo-rin, 1982) farebbe piuttosto pensare a un patronimico.
Cromonimia propriale: i colori nella formazione di antroponimi, toponimi e … 63
AIΩN-Linguistica n.6 n.s. DOI: 10.4410/AIONL.6.2017.003
toscani Verdiani e Verdigi, il molisano Verdile, il piemontese Verdi-
na con il campano Verdino e Verdini diffuso nell’Italia centrale, i
marchigiani Verdinelli e Verdolini, il napoletano Verdolino e il ve-
ronese Verdolin; il poligenetico Verdone (difficilmente corrispon-
dente all’ornitonimo) con il raro barese Verdoni e l’alessandrino e
genovese Verdona; l’umbro Verducci con la (forse) variante cala-
brese Verduci, i siciliani Verduzzi e Verduzzo.
Dunque, nonostante le probabili o certe rietimologizzazioni,
anche il verde è parte dell’onomastica medievale, moderna e con-
temporanea, senza che ne siano chiare le motivazioni. Il ricorso a
Verde come microtoponimo non si può escludere, ma neppure
considerare una spiegazione ricorrente. Un soprannome allegori-
co e astratto pare poco convincente3. Soprannomi occasionali per
chi avesse barba e capelli di un color biondo scuro, vagamente as-
similabile al verde, o per chi si tingesse il volto di verde, sono
plausibili. Non è escluso, infine, che tutte le spiegazioni citate
siano valide e abbiano contribuito, in misura differente, alla for-
mazione e alla diffusione degli odierni cognomi del verde.
I nomi personali del verde, quelli vivi nel XX secolo, hanno ul-
teriori motivazioni. Verdina, per esempio, è esclusivamente sardo
e riflette il culto per la Madonna di Valverde il cui santuario si
trova ad Alghero (Sassari); si sono chiamate Verdina nel ’900 circa
130 donne (con una manciata di Verdino). Verdolina è quasi certa-
mente un altro nome mariano se riflette il culto per la Madonna
di Valverde di Bovino (Foggia) sebbene le oltre 50 presenze relati-
ve al XX secolo si concentrino in Campania. Esiste poi il nome
Valverde, in origine toponimo spagnolo della provincia di León e
poi epiteto mariano (anche a Catania e a Tarquinia-Vt); dal culto
per questa Madonna hanno origine i nomi Valverde e Valleverde,
concentrati nelle province di Foggia e di Avellino: una decina di
Valverde nel ’900 in Italia, il triplo del diminutivo Valverdina, un
3 Per esempio Rapelli (2007) ritiene che alla base siano nomi personali, so-
prattutto femminili, con il significato di ‘bimbo o bimba che rappresenta il rigo-glio, la nuova gemma della famiglia’.
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centinaio di Valleverde e quasi 200 Valleverdina; anche il semplice
Verde può essere in alcuni casi una forma accorciata di Valverde: se
ne contano appena un dozzina nel ’900 tra femmine e maschi, e
difficilmente si può pensare a un prenome descrittivo che conti-
nui il medievale Verde, documentato per es. da Brattö (1953) nel
1260 in Verde e soprattutto in Verdebellus.
Più ampia la diffusione di Verdiana (oltre 1800 nel XX secolo
con un centinaio di Verdiano) con gli allotropi latineggianti Viri-
diana, probabilmente di provenienza spagnola, e Veridiana, forse
contaminato da verità. L’influenza di Giuseppe Verdi, patriota
ovviamente prima che musicista, può avere influito solo debol-
mente nel ’900, certo però sul rarissimo prenome maschile Verdi e
forse su Verdana e Verdano di poco più frequenti, in Emilia Roma-
gna e nel Pesarese4.
Come col verde, si potrebbero spendere alcune parole sul rosso
in antroponimia, che vanta tra i suoi circa 300 cognomi semanti-
camente collegati anche i due di gran lunga più numerosi in Italia
(Rossi e Russo) con un gruppo semantico omogeneo ben frequente
in altri Paesi e in altre lingue; o sul bianco che, com’è palese, non
può alludere a una qualsiasi persona di barba e capelli bianchi,
perché non avrebbe valore distintivo, bensì a bambini o giovani
albini o precocemente incanutiti, che effettivamente spiccavano
nella comunità per la loro devianza cromatica. Il rosa è un altro
colore che compare ingannevolmente nei nomi di famiglia (per es.
Rosace ‘rosso’, Rosà e Rosada ‘rugiada’, con Rosadini e Rosadoni, Ro-
safio, Rosalia, Rosaniti, Rosanò, Rosari, Rosasco, Rosazza, alcuni dei
quali detoponimici).
Più significativi per qualità e quantità sono i cognomi indicanti
un colore scuro: Neri, Bruni, Mori e i loro suffissati e derivati for-
mano un ampio repertorio. In questo caso è certamente la pelle ad
4 I dati relativi ai nomi personali sono attinti in gran parte al dizionario Utet
dei nomi di persona (Rossebastiano/Papa, 2005); in alcune voci riecheggia la pos-sibilità che l’imposizione di nomi come quelli appena citati possa essere spiegata «col valore simbolico di gioventù e rigoglio posseduto dal colore», ipotesi che mi lascia piuttosto dubbioso.
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essere stata individuata come elemento raro e particolare, non
tanto i capelli e la barba neri, che nel territorio italiano, sia pure
nei secoli di invasioni germaniche di persone di pelo biondo e
rosso, hanno caratterizzato la maggioranza della popolazione. Il
grigio è presente specie nelle forme settentrionali e centrali Bigi,
Bisi e Bisio, Bixio5.
2. L’azzurro in toponomastica o della funzionalità toponimica
Possiamo affermare che i colori mancanti o paretimologicamente
suffragati in antroponimia siano invece presenti a pieno titolo in to-
ponimi? La risposta è parzialmente positiva, almeno per il colore ver-
de, così diffuso in natura (anche se, proprio per questo, si potrebbe
avanzare la facile obiezione che dovrebbe essere poco usato per la sua
scarsa qualità distintiva). Ma non per l’azzurro.
Nel manuale di Pellegrini (1990), le basi aggettivali relative a
colori o indicanti gradi di luminosità e indicizzate sono le seguen-
ti: aureu, blancu, bruno, claru, coccinus, fuscu, galbus, lucidu, nigru,
obscuru, opacu, pinctu, russu e viridis; albus, ater, caelicus, coccinus,
furvus e melinus, argentum e aurum.
Va da sé che, di là dalla più o meno chiara etimologia cromati-
ca, interessa analizzare le motivazioni, non tutte ovvie. La mag-
gior parte dei cromotoponimi sono stati imposti per la presenza
naturale o artificiale di un dato colore. Tuttavia la neotoponimia,
5 È vero poi che altri colori sono divenuti cognomi, ma talvolta si tratta di
coincidenze legate proprio all’origine del nome del colore. Il nome di famiglia Marrone indica la castagna; Arancione è legato all’agrume; Amaranto è anche un fi-tonimo, e nome personale d’origine medievale (Amarante e Amaranti potrebbero risultare varianti di Almirante, Amirante con assimilazione vocalica); Viola si ri-chiama nome del fiore e al personale che ne deriva; i toscani Azzurri e Azzurrini e il meridionale Azzurro si spiegano come originari nomi personali o come cogno-mi imposti a trovatelli, documentati come tali per esempio presso lo Spedale de-gli Innocenti di Firenze (Di Bello, 1997) e l’Istituto dell’Annunziata di Napoli (Caffarelli, 2015). Anche Gialli e Giallini derivano da nomi personali e talvolta potrebbero nascere da un incrocio con derivati da Giovanni. Neppure questi dal colore, però; e si tratta di forme molto rare.
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da non confondersi con l’odonimia tout-court (come in uso presso
alcuni autori amatoriali), ossia i toponimi di conio recente, ri-
sponde in buona parte a esigenze turistiche e commerciali e ricor-
re a voci di lessico, tra cui i cromonimi, che hanno un valore sim-
bolico in chiave evocativo-promozionale senza necessariamente
descrivere i siti che ne sono i referenti.
Ciò significa che in questa neotoponimia definibile “artificiale”
incontriamo per esempio il colore azzurro, che manca del tutto (o
quasi) nella stratificazione toponimica del passato. Non c’è dub-
bio che l’azzurro sia legato in primo luogo al mare, ma ci si po-
trebbe chiedere come mai i parlanti non abbiano mai utilizzato
questo cromonimo considerato che il mare e i corsi d’acqua sono
esistiti da sempre e così gli insediamenti sulle rive.
Poiché la medesima osservazione vale per blu, celeste, ceruleo,
turchese (a parte i casi in cui quest’ultimo è traccia della presenza
di genti turche) e turchino (ma quasi solo in odonimi, perlopiù le-
gati al Passo del Turchino e alla strage del 1944 che ne porta il
nome), la risposta non consterà nella maggiore o minore popolari-
tà del cromonimo dal punto di vista lessicale, o della sua disponi-
bilità – del tutto superfluo ribadire in questa sede che le voci az-
zurro o blu entrano nel lessico, in territorio italiano, relativamente
tardi e lo stesso celeste è voce dotta – ma nella scarsa efficacia
dell’uso di tale cromonimo a fini distintivi, direzionali, indicativi
e alle altre funzioni svolte da un toponimo6.
Un solo comune italiano si qualifica come azzurro, Porto Azzur-
ro all’Isola d’Elba e si tratta di ridenominazione recente, ufficiale
dal 1947, introdotta per valorizzare l’isola dell’arcipelago toscano
e per evitare l’automatica associazione del precedente toponimo,
Portolongone (Longone fino al 1873), con la fortezza divenuta un
noto penitenziario.
6 Qui tuttavia entra in gioco anche la tridimensionalità del colore – tonalità,
luminosità e saturazione – che si combina con i differenti valori attribuiti dai si-stemi lessicali: possiamo chiederci in quale misura nel mondo greco e latino, e ancor prima, il verde abbia inglobato anche ciò che noi modernamente chiamia-mo azzurro o blu o celeste; per i latini, il mare era viridis, come la vegetazione.
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Considerando le località minori, possiamo citare tra i molti
esempi dalla banca dati di SEAT Pagine Gialle 2014: Angolo Azzurro
a Palau-Ot; Baia Azzurra a Mondragone-Ce e altrove; Lido Azzurro a
Crotone, Lampedusa-Ag e altrove; Parco Azzurro a Guidonia Mon-
tecelio-Rm; Riva Azzurra a Terracina-Lt e Rivazzurra a Rimini; Rivie-
ra Azzurra a Diamante-Cs; Vela Azzurra a Selargius-Ca: Villaggio
Azzurro a Catania e altrove7; Villaggio Gabbiano Azzurro ad Augusta-
Sr, Lentini-Sr, Roseto Capo Spulico-Cs; ecc. Inoltre: Borgo Sole Blu a
Cassano delle Murge-Ba; Capo Blu a Pula-Ca; Lago Blu a Valtournen-
che-Ao; Cascina Celestina a Isola Sant’Antonio-Al; Contrada Celeste a
Civitanova Marche-Mc e Cosoleto-Rc; Contrada Colle Turchese a Pe-
tacciato-Cb; Località Sassi Turchini a Portoazzurro-Li: Località Tur-
china a Tarquinia-Vt; in Villaggio Costa del Turchese a Botricello-Cz o
in Villaggio Selva del Turchese a Uggiano La Chiesa-Le l’allusione sa-
rà a gente turca.
In sintesi, i colori azzurro/blu/celeste/turchino/turchese sono sì
presenti nel repertorio toponimico italiano, ma in denominazioni
perlopiù moderne e legate a denotati come villaggio, parco, lido, baia,
riva, ecc. Il che vale solo in parte per il verde, presente in modo assai
più numeroso, con dieci comuni (Monteverde, Monteverdi Marittimo,
San Mauro Castelverde, Valverde, Verdello e Verdellino, Verderio Supe-
riore e Inferiore, Verduno, Villa Verde) e oltre cento tra frazioni, locali-
tà, contrade, borgate, villaggi, fondi, isole, parchi, residenze.
3. Il bianco nell’odonimia o della descrittività microtoponimica
Anche tra gli odonimi sono presenti i colori: da antroponimi con-
tenenti un cromonimo (e qui poco interessano); da toponimi conte-
nenti un cromonimo; da indicazioni specifiche dell’area di circola-
zione (storia, geomorfologia, presenze, ecc.); da repertori banal-
mente classificatòri e fungibili (in minima parte).
7 E numerosi altri omonimi, che tuttavia non figurano negli stradari perché
sono soprattutto strutture residenziali o semiresidenziali – hotel, stabilimenti balneari, club sportivi, ecc. – non classificabili come località.
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La banca dati SEAT Pagine Gialle 2014, interrogata su “bian-
co” e “bianca”, anche in voci più ampie, restituisce meno di 30
occorrenze tra comuni, frazioni e località maggiori e quasi 1500
tra località e aree di circolazione urbane (odonimi). Emerge che:
a) la costruzione nei composti con un sostantivo è sempre N+A
con l’eccezione di Biancavilla, nome relativamente recente, ma
comunque attestato nel sec. XVI;
b) in alcuni comuni la voce Bianco è di derivazione antroponi-
mica (e agionimica): è il caso di San Giovanni Bianco, da cui di-
pendono, come riferimento, nella provincia di Reggio Calabria,
Caraffa del Bianco e Sant’Agata del Bianco, e la cui fondazione è
probabilmente legata alla figura di un monaco Johannes Blancus o
Blank o a S. Giovanni Evangelista, rappresentato in genere in vesti
candide e pertanto “bianco” per antonomasia (un altro caso agio-
nimico è Santa Bianca nel Centese). L’etimo è certo per Roccabianca
(Parma), per Misterbianco (Catania) ‘monastero bianco’ e verosi-
mile per Castelbianco (Savona) oltre che per le frazioni e località
maggiori, dove il cromomino è variante abbinato;
c) il numero degli odonimi/microlocalità contenenti le voci
bianco e bianca può ridursi notevolmente portando a uno le 380
occorrenze di Monte Bianco e i cognomi ricorrenti di personaggi il-
lustri (nonché Bianco e Bianca quali nomi personali). Quel che con-
ta è piuttosto il repertorio dei sostantivi associati al colore bianco
e che hanno attirato l’attenzione della comunità dei parlanti. Si
tratta di oltre un centinaio di voci (computando anche suffissati e
varianti), a loro volta classificabili in:
– idrogeomorfologici: Acqua, Arena, Capo, Chiusa, Col/Colle, Costa,
Creta, Fosso, Grotta, Isola, Lama, Marmo, Monte, Padula, Pe-
dra/P(i)etra, Peschio, Poggio, Punta, Rena, Rio, Ripa/Riva, Rocca,
Ronco, Sasso, Serra, Spiaggia, Terra, Valle, ecc.;
– zoonimici e fitonimici: Biancospino, Capra, Caval/-lo e Cavallino,
Cigno, Erba, Fico, Gallo, Gelso, Lupo, Oca, Pesco, Pre, Quercia, Rosa,
Spino, Tarantola;
– aree di circolazione: Camin, Can, Canal, Rua;
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– costruzioni e prodotti e oggetti dell’attività dell’uomo: Borgo,
Ca’/Casa/Casina, Cappella, Casal/-le/-li, Cascina, Casetta, Chiesa,
Coppola, Farina, Fontana, Fonte, Forno, Grangia, Lana, Maso, Mas-
seria, Molin/-no, Osteria, Palazzo, Palo, Pane, Ponte, Pozzo, Taver-
na, Tetto, Torre, Villaggio, Villa/Villino, ecc.;
– celebrativo-tematici-esonimici: Balena, Milite, Moro, Pagoda, Sol-
dato;
– fisio-antroponimici: Barba, Bocca, Dama, Madama, Regina;
– astronimici: Luna, Stella;
– crematonimici: Uno (Giardino Vittime della Uno Bianca);
– cromatici (autoreferenziali): Bianca, Bianco.
Si può ragionare su quale funzionalità assuma il colore nel quadro
più generale e generico delle funzioni che svolge un toponimo. Poiché
qui si tratta perlopiù di microtoponimi riflessi in odonimi antichi e
tradizionali, possiamo disinteressarci di quei pochissimi che verosi-
milmente sono parte di un gruppo semanticamente coerente e dunque
con mero valore enumerativo-distintivo, o simbolico (forse il solo
biancospino e alcune tra le voci indicate come celebrativo-tematiche-
esonimiche), e notare invece come un’ampia tipologia odonimica sia
rappresentata in queste microlocalità o aree di circolazione. È anche
probabile che non pochi casi si riferiscano a insegne di luoghi di risto-
razione o simili; ciò ribadisce l’importanza per l’orientamento e per la
vita sociale di tali punti di riferimento e il fatto che gli esercizi com-
merciali nel passato fossero spesso caratterizzati da icone in cui non
solo l’oggetto rappresentato, ma anche il suo colore aveva una funzio-
ne, se non altro distintiva.
Inoltre la presenza di denotati piuttosto banali fa emergere il deno-
tante come vero elemento distintivo: non sono notevoli il fosso, la
spiaggia, il lupo, la quercia, la casetta, la chiesa, ecc. in se stessi, ma il
fatto che fossero bianchi là dove ce li saremmo aspettati di un altro co-
lore o dove era necessario distinguerli da entità analoghe.
Si torna così a quanto toponomasti, geografi, storici della bo-
tanica o della zoologia sottolineano: un fito- o zoo-toponimo indi-
ca spesso la presenza di un unico esemplare particolarmente vi-
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stoso o eccentrico più che la testimonianza di un’abbondanza di una
certa specie animale o vegetale.
4. Il grigio in crematonimia o della fantasia onomaturgica
In numerosi nomi di prodotti commerciali, così come di esercizi com-
merciali, vengono utilizzati cromonimi che diventano dunque nomi pro-
pri o, nella grande maggioranza dei casi, parte di catene onimiche la cui
proprialità può essere considerata completa, parziale, cangiante in dipen-
denza del contesto, oppure nulla, secondo differenti scuole di pensiero.
Quasi ogni settore merceologico ricorre a cromonimi. In alcuni casi le
occorrenze sono più numerose e significative, come nel settore alimentare
(per es. Rossopomodoro) o in quello farmaceutico (Tantum Verde e Tantum
Rosa, Fluor Verde, Multum Rosa, Moment Rosa, con prevalenza del rosa in
quanto la sua valenza non è descrittiva ma di target, ossia le donne).
Ci aspetteremmo un uso assai ridotto del grigio, colore connotato
spesso negativamente (grigiore, ingrigirsi, esistenza grigia, zona grigia,
ecc.). Ma c’è almeno un ambito in cui il grigio è presente in modo mas-
siccio, il settore automobilistico. Si sa che da qualche anno o decennio il
grigio/argento è il primo colore nel mondo per le auto, coprendo una
significativa fetta di mercato. Ebbene, i colori delle vetture, così come
indicati nei listini, sono centinaia.
E come nella pittura sono ormai antonomastici di Rosso Tiziano, Ros-
so Carpaccio o Blue Voroneţ8, ecc., così s’incontrano centinaia di cromo-
nimi formati da un colore base tradizionale in funzione di denotato e da
un nome proprio o una voce di lessico quale denotante per specificare
tonalità, intensità, luminosità, ecc. Si tratta di un catalogo vastissimo e
in continua espansione (e non riguarda solo il mondo dei motori).
I cromonimi formati con un nome proprio toponimo o antroponi-
mo, registrabili dalle presentazioni degli allestimenti di autovetture,
sfiorano i 300. Dai soli listini Fiat-Lancia-Alfa Romeo sono ricavabili
circa 200 cromonimi propriali e i grigi risultano una cinquantina: tra
8 Il monastero romeno presso Gura Humorolui, famoso per il suo “Giudizio
universale” detto anche “la Cappella Sistina d’Oriente”.
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questi, Alsazia, Atlantic, Baltico, Bernini, Borromini, Botticelli, Carrara,
Cellini, Colosseo, Crono, Degas, Elisa, Fontana, Gonzaga, Havana, Juvarra,
Lipari, Luce di Amalfi, Mercury, Nettuno, Orione, Palladio, Patrizia, Pom-
pei, Rossini, Silverstone, Tiepolo, Tudor, Vesuvio, Vinci. Inoltre: Arancio
Narciso, Avorio Paganini, Beige Modigliani, Bianco Saratoga, Bordeaux
Favignana, Giallo Naxos, Marrone e Nero Caravaggio (talora i denotanti
si ripetono), Rosso Etna, Turchese Efson, Verde Chamonix, Viola Ma-
genta, Visone Stradivari, ecc.
Anche nei listini di altre aziende la scelta è ampia. Non sempre
si tratta di correlazioni ovvie, anzi la maggior parte dei nomi so-
no semplicemente evocativi e suggestivi, rimangono irrelati o
comunque non hanno una funzione descrittiva ed esplicativa, an-
che perché i significati vanno oltre le conoscenze enciclopediche
di un parlante di media cultura, italiano o no. Alcune denomina-
zioni sono autoreferenzali, come grigio Fiat, metallizzato Alfaro-
meo, metallizzato Lancia, oro Lingotto (si noti il gioco basato
sull’inversione), blu Lancia, ecc. Non mancano richiami espliciti
alle corse di Formula Uno e ai circuiti automobilistici in genere,
dal grigio Silverstone della Fiat al grigio Daytona dell’Audi, insie-
me al giallo Imola e al rosso Monza ancora del gruppo Fiat, dal blu
Mugello al blue Sepang dell’Audi, ecc.
Tra i colori pastello del gruppo Fiat (ispirati alle favole) figu-
rano grigio Castello incantato e grigio Soldatino di piombo (metalliz-
zati)9; combinati con voci di lessico, per limitarsi ai grigi: khaki
grigio e matt grey; grigio intellettuale, grigio perbene, grigio sfrena-
to, grigio pungente, grigio bel tenebroso, grigio underground, grigio
riservato, grigio deciso, grigio concentrato, grigio cattivo carattere.
Neppure fuori d’Italia mancano combinazioni lessicali curiose:
grigio altica (Renault) che ricorda un coleottero dalla livrea scura me-
tallica, grigio luna SEAT, grigio condors (Audi), grigio elefante (Ci-
9 Insieme a giallo Riccidoro, a nero Lupo Cattivo, rosso Mangiafuoco, blu Sire-
netta, perla Specchio magico, il tautologico bianco Biancaneve, cipria Principessa, bronzo Lampada di Aladino e infine due singolari inversioni come rosso Cappuccet-to e azzurro Principe.
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troën), glamour grey (Mitsubishi), grigio metro e grigio tecno (Opel),
grigio urano e pepper grey (Volkswagen), grigio quasar e grigio minerale
(Suzuki), grigio polvere di luna, grigio marmaid (‘sirena’) e grigio jel-
lyfish (‘medusa’) su Ford, grigio eclissi su Renault.
Con questi sintagmi cromatici siano di fronte a un gruppo ristretto
di denotati, i colori, che incoraggiano l’abbinamento con un denotante
a volte semanticamente appropriato e altre un po’ meno, tratto ora dal
lessico, ora dalla toponimia, ora dall’antroponimia. Ne risultano sin-
tagmi propriali che non possono considerarsi a mio parere nomi pro-
pri tout-court, e neppure sintagmi che assumono funzione propriale
senza assumerne il valore (come per es. i titoli delle opere
dell’ingegno umano); ma semplici apposizioni contenenti un nome
proprio – quando lo è il denotante – che non viene né lessicalizzato
(non si trasforma in nome comune), né transonimizzato (non muta ca-
tegoria onimica in quanto il cromonimo non è un nome proprio).
5. Il rosa, il fuchsia e il viola in mineralogia o la lessiconimizza-
zione come turbamento semantico nelle tassonomie scientifiche
Un ulteriore capitolo di un certo interesse è rappresentato dal ri-
corso (o dalla presenza apparente) a un colore nelle tassonomie scien-
tifiche. Se analizziamo il vasto repertorio delle specie mineralogiche
(inclusi pietre, cristalli, ecc.) per verificare in che modo un colore è
contenuto nella radice delle voci e ci limitiamo al novero delle specie
suffissate in -ite, la classe grammaticale più frequente in tale àmbito,
possiamo verificare non solo la presenza di alcuni colori in particolare,
ma anche come un eponimo equivalente a un cromonimo crei pertur-
bazione nel sistema e nella comprensibilità del nome.
Per esempio la specie detta fuchsite, facilmente interpretabile come
un minerale color fuchsia, si presenta verde smeraldo;10 prende il no-
me dal geologo e mineralogista tedesco Johann Nepomuk von Fuchs.11
10 Al punto che pare poco perspicua la descrizione della verdite riportata dal
GRADIT: ‘varietà verde della fuchsite’. 11 Vedi MineraliDeAgostini: scheda Fuchsite.
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Analogamente, la violaite trae il nome dal mineralogista Carlo Maria
Viola e non dal colore viola, come invece la violarite; la rossite, di colore
giallognolo, riprende il cognome del geologo statunitense Clarence
Samuel Ross (con Ross che crea ambiguità almeno nella lingua italia-
na, dove finisce per associarsi all’idea di ‘rosso’); la rosite è dedicata al
mineralogista tedesco Heinrich Rose ed è di colore rosso. La bianchite
ha origine dal cognome del mineralogista italiano Angelo Bianchi
(Università di Padova): qui, per mera coincidenza, il colore di tale sol-
fato di zinco e di ferro è appunto il bianco (ma anche il giallognolo)12.
Considerando anche lingue diverse dall’italiano, la brunogeieri-
te è in onore di Bruno H. Geyer, mineralogista in Namibia; la bro-
wnleeite di Donald R. Brownlee, astronomo di Seattle e la brown-
millerite di Lorrin Thomas Brownmiller, chimico della Pennsylva-
nia; la blakeite ricorda William P. Blake, pioniere americano della
geologia. L’elemento green- ‘verde’ dell’oronimo del Colorado
Greenhalg, del nome di famiglia (detoponimico) Greenough appar-
tenuto al geologo inglese George Bellas e del titolo nobiliare di
Charles Cathcart ossia Lord Greenock, hanno originato rispettiva-
mente, la greenhalgite e la greenovite di color rosso, nonché la
greenockite di color giallo-arancio; la grunerite ricorda Louis Em-
manuel Gruner, chimico svizzero.
Tra gli eponimi toponimici: la rosasite prende nome dal monte
Rosas, nell’Iglesiente; la rosiaite da Rosìa di Sovicille (Siena); la
redgillite e la redledgeite dalle miniere Red Gill in Cumbria e Red
Ledge in California.
Insomma rosite, rossite, roselite, fuchsite, al pari di bianchite, red-
gillite, greenovite, ecc. finiscono per occupare una casella semanti-
camente incongrua con le altre denominazioni, creando un possi-
bile turbamento della comprensibilità tassonomica. Al contrario,
azzurrite, celestite (o celestina), ceruleite, verdelite e verdite sono for-
mati dal suffisso -ite più il nome del colore del minerale che signi-
12 Un caso simile riguarda il modello automobilistico Bianchina, suffissato del mar-
chionimo aziendale Bianchi, anche in quel caso si aveva interferenza semantica, in quan-to la vettura poteva essere effettivamente bianca ma anche di altri colori, creando appa-renti ossimori come “una Bianchina nera”.
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ficano, come pure altri, per es. la greenalite, silicato che trae il no-
me inglese del colore verde13.
6. Conclusioni
Detto che in qualsiasi àmbito onimico avremmo potuto esem-
plificare con altri colori, ciò che pare emergere dalla presentazio-
ne di questi dati, sia pure – evidentemente – tutt’altro che com-
pleti, è che la presenza dei colori nei nomi propri è significativa
sul piano quantitativo; su quello qualitativo offre la possibilità di
svariate indagini; racconta interessanti storie onomastiche legate
all’etimologia e alla motivazione; si estende su un arco tipologico,
oltre che s’intende diacronico e diatopico – notevole, ovvero in
qualsivoglia àmbito onimico.
Riferimenti bibliografici
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logiche e storiche, Torino, F.lli Bocca [rist. anast. 1979, Bologna,
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Brattö, Olof, 1953, Studi di antroponimia fiorentina. Il libro di Monta-
perti (an. MCCLX), Göteborg, Elanders.
Caffarelli, Enzo, 2015, “Gli esposti dell’Istituto Madonna
dell’Annunziata di Napoli. Nomi e cognomi tra il 1830 e il
1860”, in Rivista Italiana di Onomastica, XXI, 2: 529-590.
13 A questi pochi esempi possono aggiungersi, individuati per il proprio colo-
re, nomi formati con aggettivi del greco antico: ianthinite per il violetto; la serie xantite (varietà giallo-bruna di vesuvianite), xanthiosite (giallo + sulfureo), xantho-conite, xanthoxenite, xanthophyllite; erythrite ed erythrosiderite per il rosso, come pure phoenicochroite per il porpora (si noti la sillaba chro per indicare ‘colore’, presente anche in glaucochroite), cui si richiamo anche la leucophoenicite (eviden-temente combinata col bianco); e infine le serie appunto con glauco (glauconite, -cerinite, -sphaerite, ecc.) per il blu-verde e con leuco (leucite, -phanite, -phosphite, -spherite, ecc.).
Cromonimia propriale: i colori nella formazione di antroponimi, toponimi e … 75
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MARINA CASTAGNETO*
QUARANTA SFUMATURE DI GRIGIO, DI ROSSO, DI NERO:
L’ORGANIZZAZIONE DEI TERMINI DI COLORE IN TURCO
TRA LESSICO E MORFOLOGIA1
Abstract
This work describes the linguistic processes in Turkish morphology to
form color terms expressing intensification or diminution. There will be shown four patterns of reduplication, three of which are devoted to ex-press intensification and the fourth works as a sort of attenuation, as it ex-tends the denotation of a word to express “X and the like”. On the level of affixation, this work introduces six different suffixes (-CA, -(I)msI, -(I)mtrak, -rAk, -cIl,-lI2) that, when applied to the adjectives of colours, tone down the colour or diminish it in different ways: approximation, similari-ty or attenuation, variegation, dispersiveness.
Keywords: Color terms, intensification, diminution, reduplication,
Turkish
Marina Castagneto, Università degli Studi del Piemonte Orientale “A. Avogadro”, [email protected]
1 Il numero 40 presente nel titolo (invece dell’atteso 50…) corrisponde alla designazione di “molti, moltissimi”, perché è un limite di seriazione numerica e corrisponde ad una connotazione di pienezza in tutto il mono islamico: si con-fronti il nome del palazzo ad Ispahan, in Persia, noto come Çihil Sutun (ovvero palazzo delle 40 colonne, nel senso di “molte colonne”, visto che in realtà sono solo 20); il toponimo Άγιοι Σαράντα (40 Santi), relativo alle coste albanesi, o espressioni genuinamente turche come kırklara karışmak “scomparire, rendersi invisibili” (lett. “mischiarsi ai 40”), o l’epiteto kırk ambar, lett. “quaranta magaz-zini”, rivolto a chi ha conoscenze enciclopediche, oppure, per concludere, si può citare la famosa novella di ambiente arabo-persiano “Ali Baba e i 40 ladroni” (sulla valenza nel Turco del numero 40, cfr. Castagneto, 1998: 65). L’articolo ri-guarda dunque i nomi delle molte sfumature di colore nel Turco e la formazione dei nomi che le descrivono.
2 The quoted suffixes depend in their form on the vowel harmony. The mecha-nism of vowel harmony in Turkish is explained at the footnote 26.
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1. Introduzione
Per quanto riguarda il lessico dei colori, la lunga diatriba scien-
tifica si è concentrata sui termini di colore di base, originata dal no-
tissimo lavoro di Berlin & Kay (1969) e proseguita con le successive
revisioni del modello ivi proposto (tra cui i lavori di Kay & McDa-
niel, 1978; Kay, Berlin, Maffi & Merrifield 1997; Kay & Maffi, 1999)
e con le critiche legate al problema della sovrapposizione tra colori
di base (Mac Laury, 1997), all’anglocentrismo di questo modello,
alla comparabilità interculturale dei colori (Wierzbicka, 2005).
Ma un problema altrettanto importante, in cui emerge più for-
temente l’arbitrarietà nella organizzazione dei singoli sistemi lin-
guistici, è legata al modo o ai modi in cui gli aggettivi di colore
possono essere intensificati e, soprattutto, diminuiti.
2. Scale di gerarchia di intensificazione degli aggettivi in Turco
Anche se gli aggettivi di colore dispiegano un comportamento
fortemente paradigmatico, compatto sia sul piano della semantica
che su quello del trattamento morfosintattico, il problema della in-
tensificazione/diminuzione del colore deve essere necessariamente
inquadrato sul piano più ampio della intensificazione/diminuzione
della classe degli aggettivi.
Per quanto riguarda il Turco sono state proposte diverse scale
di gerarchie di intensificazione (Müller, 2003: 80; Hatiboğlu, 1973:
213, quest’ultimo soprattutto sulle forme deverbali). Riportiamo
qui la scala indicata da Savaşcı (1991: 323-324), proposta in Müller
(2003: 80-813):
3 Poiché il lavoro monumentale di Müller è in Tedesco, anche le traduzioni
proposte delle forme intensificative del Turco sono in Tedesco. Le riporto come ta-li, per non amplificare i problemi di traduzione. Mi limito a glossare le forme tra-dotte in Tedesco, per comodità del lettore: -4: un tantino bello; -3: un po’ bello; -2: abbastanza carino; -1: bello, in un certo qual modo; 0: bello; +1: un po’ più che bel-lo; +2: più bello di “bello”; +3: abbastanza bello; +4: piuttosto bello; +5: molto cari-no; +6: davvero molto bello; +7: molto bello; +8: assai bello; +9: considerevolmente
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-4 en biraz güzel “ein bisschen schön” -3 biraz güzel “etwas schön” -2 güzelce “ganz hübsch” -1 güzel müzel “einigermassen schön” 0 güzel “schön” +1 biraz fazla güzel “etwas mehr als schön” +2 fazla güzel “schöner als schön” +3 güzel güzel “ganz schön” +4 epey güzel “ziemlich schön” +5 çok güzel “sehr hübsch” +6 pek güzel “wirklich sehr schön” +7 güpgüzel “sehr schön” +8 oldukça güzel “recht schön” +9 bir haily güzel “beträchtlich schön” +10 gayet güzel “überaus schön” +11 fevkalade güzel “ausserordentlich schön” +12 olağamüstü güzel “überdurchschnittlich schön” +13 güzel mi güzel “wunderschön” +14 son derece güzel “äusserst schön” +15 korkunç güzel “schrecklich schön” +16 güzeller güzeli “die/der Schöne der Schönen” +17 daha güzel “noch schöner” +18 en güzel “die/der schönste”4
E’ chiaro che è richiesta tutta la competenza di parlante ma-
drelingua di Savaşcı nel redigere questa lista, che però non mi
sentirei di condividere completamente (anche a parere di Müller
alcune forme come güpgüzel andrebbero spostate in posizione più
bello; +10: oltremodo bello; +11: straordinariamente bello; +12: bello in modo supe-riore alla media; +13. meravigliosamente bello, magnifico; +14. bello in sommo gra-do; +15 paurosamente bello; +16: bello tra i belli; +17: ancora più bello; +18: il più bello).
4 Gece (1995, 240 e sgg. citato in Müller, 2003: 80) presenta un’altra scala di in-tensificazione, organizzata come gerarchia decrescente, e interamente basata su una gerarchia semantica affissale: a) kırmızı “rot” -> kırmızı-msı “rötlich”; b) mavi “blau” -> mavi-mtırak “bläulich”; c) uzun “lang” -> uzun-ca “ziemlich lang”; d) yaban “fremd” -> yabansı “sonderbar”. E’ interessante che l’esemplificazione della dimi-nuzione di intensità sui gradi più bassi avvenga soprattutto attraverso la scelta di aggettivi di colore.
80 Marina Castagneto
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alta della scala), e l’autore stesso si rende conto di avere accomu-
nato forme di intensificazione su base morfo-sintattica (a suo
giudizio affissi e lessemi liberi, in realtà affissi, quantificatori e
modalizzatori) estensibili a tutti gli aggettivi, e forme idiomatiche
di intensificazione che devono essere apprese di volta in volta.
A parere di chi scrive, questa scala di intensificazione serve
soprattutto a mostrare come si possa intensificare o diminuire il
contenuto semantico di un aggettivo attraverso mezzi di tipo les-
sicale (si consideri ad esempio l’avverbio korkunç, “paurosamen-
te”), derivazionale e flessivo (es. attraverso il suffisso –CA, o at-
traverso le forme di superlativo) e tramite reduplicazione, nelle
diverse forme che il Turco ammette5. Si noti comunque che, dei
quattro modelli di reduplicazione citati, tre sono usati per intensi-
ficare il significato, quindi in modo iconico6 (la reduplicazione
5 Chi scrive è consapevole che molti studiosi includerebbero la reduplicazione
nella derivazione considerandola come un caso di morfologia affissale in cui gli af-fissi sono fonologicamente sottospecificati e ricevono la loro forma fonetica co-piando segmenti adiacenti (cfr. Broselow & Mc Carthy, 1983; Marantz, 1982). Se-condo la definizione di Scalise la reduplicazione sarebbe “un processo di affissa-zione realizzato con materiale fonologico che varia a seconda della base” (1994: 297). In questo lavoro si manterrà però un approccio genuinamente sapiriano, che distingue la reduplicazione dalla affissazione considerandoli due processi gramma-ticali diversi, nel rispetto dello Sprachgefühl del Turco. Secondo Sapir “le lingue mostrano uno strano istinto diretto a sviluppare uno o più processi grammaticali particolari a spese degli altri” (Sapir, 1921: 61) e, nel caso del Turco, il processo grammaticale più sviluppato è senza dubbio la affissazione (nella fattispecie la suf-fissazione), ma ad esso si affianca come processo secondario di formazione del les-sico proprio la reduplicazione che, pur avendo una produttività minore della suf-fissazione, mostra di seguire regole morfologiche sue proprie e di non confondersi mai con la suffissazione. Le parole formate tramite reduplicazione, ad esempio, vengono modificate tramite aggiunta di suffissi solo in pochissimi casi, nonostante le catene suffissali siano tipiche di una lingua a vocazione strettamente agglutinan-te come è il Turco.
6 La iconicità della reduplicazione è sempre da intendersi in modo diagramma-tico, secondo la nota definizione di Peirce: “il diagramma rappresenta le relazioni (principalmente diadiche, o considerate tali) delle parti di una cosa per mezzo di relazioni analoghe fra le sue proprie parti […] fra diagramma ed oggetto non vi è nessuna rassomiglianza sensoriale, ma solo una analogia tra le relazioni delle loro parti (1980: 156-157). O più banalmente, alla Lakoff & Johnson, (1980, trad. it. 1998:
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proposta in güpgüzel, definita come C-type da Stachowski, 2013;
la reduplicazione tramite particella interrogativa mi in güzel mi
güzel; la reduplicazione totale güzel güzel) mentre il tipo di redu-
plicazione che Müller (2003, 50) chiama “m-Reduplikation” (güzel
müzel) ha il valore anti-iconico di somiglianza e attenuazione.
Lo stesso tipo di processo linguistico può dunque servire ad
intensificare o a diminuire in turco come in lingue del mondo an-
che molto diverse tra loro, e ciò non accade soltanto con la redu-
plicazione, ma anche attraverso l’affissazione: per esempio, il suf-
fisso latino –(i)ō/–(i)ōnis, ascrivibile alle forme indoeuropee in *-
e/on- (Grandi, 2002; 266), ha all’origine solo una funzione generica
di caratterizzazione (e quindi può formare ad es. nomi di mestie-
re, come nel caso di centŭrĭō, “centurione”, colui che ha a che fare
con una centuria). Sicuramente è più facile notare qualcuno per-
ché presenta una caratteristica in modo eccessivo rispetto allo
standard atteso, per cui non meraviglia se già in latino sia stato
chiamato căpĭtō chi ha la testa grossa (per Gaide7 căpĭt-ō è “celui
qui est caractérisé par une grosse tête, disgracieuse”), e spesso il
riferimento ad una caratteristica eccessiva acquista un valore
peggiorativo (es. lat. mand(ĕre)-ō, “mangione”8), ma è possibile
anche essere caratterizzati dal possesso di una qualità in misura
molto minore a quella considerata normale; il cognomen latino
Nāsō, ad esempio, può di fatto riferirsi a chiunque si faccia notare
per il suo naso particolare, che più facilmente sarà un nasone, ma
potrebbe anche trattarsi di un nasino piccolissimo. Ecco perché lo
stesso suffisso, a cavallo delle diverse lingue romanze, finisce per
specializzarsi nella designazione sia di qualcosa di particolarmen-
te grande (come in italiano gatt-one) che di qualcosa di piccolo,
162-163): “MORE OF FORMS STANDS FOR MORE OF MEANING / PIÙ FORMA VUOL DIRE PIÙ CONTENUTO” (maiuscolo nel testo originale).
7 Gaide 1988: 120. 8 cfr. Grandi 2002: 267. Il valore peggiorativo del resto è per molti aspetti un
sottotipo di diminuzione (cfr. ad es. il modello radiale della categoria del diminu-tivo in Prieto 2005).
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come nel caso del francese viol-on, “violino”9. E anche all’interno
di una stessa lingua romanza come l’italiano, -one può indicare
non solo accrescimento ma anche, proprio nel caso dei colori, di-
minuzione, attenuazione e similarità: un oggetto arancione ha un
colore “simile” a quello dell’arancia, non “più intenso” di esso, ed
il verdone non è un verde più intenso o prototipico (nonostante
sia proprio questa la definizione offerta dalle enciclopedie Trec-
cani e Garzanti10), ma è un tipo di colore tra il verde e l’azzurro 11,
cioè un colore simile al verde, che in parte si discosta dalla signi-
ficazione prototipica di questo colore. Altrimenti non si capirebbe
perché verdone sia anche il nome di un fringuello con un piumag-
gio “pressoché verde, con poche macchie gialle”, e dello squalo
azzurro, pesce della famiglia dei carcarinidi di colore “verde-
azzurro sul dorso, bianco di sotto” (Rodríguez de la Fuente, 1974:
294)12.
Tanto nel caso della reduplicazione che in morfologia derivati-
va, dunque, lo stesso processo linguistico può servire ad intensifi-
care o a diminuire. I nomi dei colori non fanno eccezione, e spesso
vengono usati tipi di reduplicazione in funzione diminutiva (cfr.
nota 29). La reduplicazione infatti, come faceva notare Berlin (1963:
218) può indicare iconicamente una intensificazione, ma anche
qualsiasi altro spostamento da un centro semantico. Anche il Turco
non fa eccezione, usando sia la reduplicazione che la derivazione
9 Possiamo riscontrare un valore diminutivo per nomi derivati tramite il suffis-
so –(i)ō/–(i)ōnis anche in siciliano (es. sajuni “piccolo canale”, derivato da saja) e nei dialetti piemontesi: secondo Rohlfs (1969: 417) si tratterebbe di un influsso dal francese (cfr. Grandi 2002: 269, nota 10).
10 Più precisamente, la prima definizione di verdone offerta dall’Enciclopedia Treccani (1981) è: “agg. e s.m. [der., propr. accr., di verde] di color verde carico” (la stessa definizione è presente sul dizionario Treccani on-line al sito www.treccani.it/vocabolario/verdone [ultimo accesso: 1 ott. 2016]); la definizione di verdone dell’enciclopedia Garzanti on-line è molto simile: “(aggettivo, nome) ac-crescitivo di verde, di colore verde intenso” (www.garzantilingui-stica.it/ricerca/?q=verdone [ultimo accesso: 1 ott. 2016]).
11 cfr. la definizione di verdone proposta dal dizionario Zingarelli; 2007: “colore verde intenso: tinta intermedia tra il verde e il blu”.
12 Sul valore di similarità del suffisso –one cfr. Castagneto (2004: 81).
Quaranta sfumature di grigio, di rosso, di nero 83
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tanto in funzione di aumento che di diminuzione, soprattutto per
quanto riguarda i nomi dei colori.
3. Modelli di reduplicazione con valore iconico negli aggettivi
di colore del Turco
Nei prossimi paragrafi saranno illustrati tre tipi di reduplica-
zione usati nel Turco, tutti con valore intensificativo. Si cercherà di
scoprire se si tratta di tre tipi di intensificazione diversi, verifican-
do se in Turco il processo di reduplicazione costituisca un piccolo
sotto-sistema linguistico anche sul piano semantico.
3.1 C-type reduplication
Questa etichetta di Stachowski (2013) corrisponde ad un tipo di
reduplicazione parziale in cui viene anteposta alla radice lessicale
una sillaba chiusa, portatrice di accento, di tipo C1VC2, in cui la
prima consonante C1 e la vocale V sono “copiate” dalla prima con-
sonante e dalla prima vocale della radice, e la seconda consonante,
C2, corrisponde ad –m, -p, -r, oppure -s, es.:
kara “nero” -> kap-kara “molto nero, nerissimo” beyaz “bianco” -> bem-beyaz “molto bianco, bianchissimo”13
Trovare una regola che consenta di predire quale consonante
apparirà come coda sillabica nella sillaba reduplicativa è
un’impresa assai difficile, e non senza eccezioni, al punto tale che,
secondo Raimy (2000: 155): “it becomes apparent that a template
under any interpretation provides very little information about a
reduplication pattern. Since only a small amount of information is
provided by a template, only a vague generalization can be made
by this device”. Lewis (2000: 52) aggiunge soltanto che –p sembre-
13 I due termini sono tradotti da Müller (2003: 83-84) come rabenschwarz e sch-
neeweiss.
84 Marina Castagneto
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rebbe più diffusa con vocali posteriori14. Viene formato attraverso
questo tipo di reduplicazione un numero piuttosto limitato di pa-
role (Godel, 1941: 11-14, parlava di non più di 40 aggettivi; il più
recente lavoro di Müller, 2003, che si basa soprattutto sugli esempi
di Steuerwald, 1972 e 1974, presenta un corpus di 100 aggettivi che
vengono così intensificati).
Per Stachowski (2013: 218) questi aggettivi apparterrebbero a 14
domini solo in parte coincidenti con le classi semantiche di aggetti-
vi suggerite in Dixon (1982, citato in Enfield, 2004), organizzate su
quattro livelli di generalizzazione:
Physical: -external: COLOUR (e.g. black), SIZE (e.g. big,
low), SHAPE (e.g. sloping, squat) -internal: NATURE (e.g. elastic, liquid) -other: STATE (e.g. ripe, still, young); Physic: CHARACTER (e.g. angry, friendly), PERCEPTION
(e.g. emotional, unpleasant), QUALITY (subjective evaluation: e.g. bad, master)
Senses: APPEARANCE (e.g. clean, shiny), TASTE (includ-ing smell, e.g. juicy, sweet), TOUCH (e.g. dry)
Other: LOCATION (in time and space), QUANTITY (e.g. all, few), OTHER (e.g. deletion, together)
Quindi gli aggettivi interessati da questo tipo di reduplicazione non
riguardano solo il colore, ma va detto che tutte le grammatiche esempli-
ficano questo modello di intensificazione degli aggettivi proprio attra-
verso gli aggettivi di colore, che, qui come altrove, mostrano un com-
portamento paradigmaticamente compatto: tutti i “basic color terms”,
ridotti dagli undici del lavoro di Berlin & Kay (1969) a sei nelle revisioni
successive (anche ad opera degli stessi autori dal 1985 in poi, a seguito
14 Göksel & Kerslake (2005: 99-100) fanno altresì notare che se la parola redupli-
cata comincia per vocale la consonante in coda sillabica della sillaba reduplicativa sarà –p (ad ulteriore conferma della ipotesi che si sostiene in questo lavoro per cui la consonante originaria in coda sillabica potrebbe essere stata proprio –p - cfr. in-fra), e fanno notare che, quando la parola comincia per consonante, la consonante in coda sillabica potrà essere –m, -p, -r, oppure –s, ma mai la stessa consonante del-la prima o della seconda consonante della parola reduplicata.
Quaranta sfumature di grigio, di rosso, di nero 85
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della pubblicazione del Word Color Survey), possono venire intensificati
in Turco seguendo questo modello di reduplicazione (BLACK: kara ->
kap-kara; siyah -> sim-siyah; WHITE: ak -> ap-ak; beyaz -> bem-beyaz; RED:
kızıl -> kıp- kızıl; kırmızı -> kıp- kırmızı15; YELLOW: sarı -> sap-sarı;
GREEN: yeşil -> yem- yeşil; BLUE: mavi -> mas-mavi16). I termini di base
per i nomi di colore intensificati secondo questo modello, inoltre, esi-
stono già nelle più antiche attestazioni, tutte post-runiche, del I secolo
del II millennio, tratte da diversi dialetti. Si tratta di un gruppo compat-
to di otto aggettivi (ak, (j)ürüŋ “bianco”, kara “nero”, kyrmyzy, kyzyl
“rosso”, saryg “giallo”, jašyl “verde”, kök “blu”) sui 26 aggettivi com-
plessivi la cui sillaba reduplicativa termina in –p17.
Seguono inoltre questo pattern reduplicativo anche gli aggettivi di
colore che non sono più tra gli aggettivi “di base”: pembe “rosa” (-> pes-
pembe) e mor “viola” ( -> mos-mor) ma, stranamente e forse significati-
vamente, la consonante che chiude la sillaba reduplicativa in questi due
15 Come è evidente, sono presenti due aggettivi che designano il nero, due per il
bianco, due per il rosso. Tutti e sei i termini sono molto frequenti, monolessemici, il loro significato non può essere incluso in nessun altro termine di colore, la loro appli-cabilità non può essere limitata ad una ristretta classe di oggetti, sono salienti per gli informanti, ricorrono negli idioletti di tutti gli informanti ed hanno una stabilità di referenza: sono cioè propriamente “basic color terms” secondo le caratteristiche indi-cate da Berlin & Kay (1969: 6). Va comunque chiarito che siyah è un prestito dal per-siano e beyaz e kırmızı sono prestiti dall’arabo, ma non si tratta di prestiti recenti, e quindi, secondo le stesse indicazioni di Berlin & Kay, sono accoglibili tra i “basic co-lor terms”. Parlanti madrelingua interrogati da chi scrive su eventuali differenze se-mantiche all’interno delle due coppie di colori hanno dichiarato di non avvertire al-cuna differenza tra ak e beyaz, o kızıl e kırmızı, mentre kara potrebbe indicare un nero un po’ più intenso di siyah (si ringrazia la dott.ssa Gül İnce per la collaborazione). Una spiegazione possibile, come si vedrà, risiede nella circostanza che questo pattern di reduplicazione con valore intensificativo potrebbe essersi originato proprio da ka-ra, ed essersi esteso agli altri aggettivi di colore per analogia.
16 Anche mavi è un antico prestito dall’arabo, e si riferisce ad una sfumatura cromatica tra l’azzurro ed il blu, in parte sovrapponibile al colore gōk, parola origi-nariamente turca riferita al cielo, intensificabile come gōm-gōk.
17 Esistono solo altri quattro aggettivi attestati alla stessa quota cronologica, non attinenti a nomi di colore, con sillabe reduplicative che terminano in –m e in –s. Özer (2008: 29) attribuisce anche all’antico Osmanlı (XIII-XV sec.) la possibilità di esprimere un significato elativo attraverso questo tipo di “Teilreduplikation” con coda sillabica in -b o in –p.
86 Marina Castagneto
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soli casi è –s. Si tratta di una scelta consonantica più marcata, possibile
per questo tipo di reduplicazione solo in alcune lingue turche del sud-
ovest, relativamente vicine tra loro sul piano genealogico ed areale
(Azero, Gagauzo, Karaim, Turco, Turkmeno e Uzbeco)18, ma di antica
attestazione per il mondo turco19. La reduplicazione sillabica in –s è pe-
rò assente dal Mongolo di fase comune, dove la consonante in coda sil-
labica è –b, o più raramente –p o -w20.
L’aggettivo che designa il grigio, boz, reduplica invece come bom-boz,
attraverso la selezione di una consonante labiale, più frequente nelle
lingue altaiche, dimostrandosi meno periferico sul piano formale del ro-
sa e del viola. Ma il caso del grigio è sempre stato interessante e pro-
blematico e infatti gli stessi Berlin & Kay (1969), anche se avevano collo-
cato il grigio all’ultimo stadio dello schema da loro proposto (lo stadio
VII), si erano già accorti che l’etichetta per designare il grigio poteva
emergere già in stadi precedenti21, e successivamente Kay & McDaniel
(1975: 33) hanno considerato l’emergenza della etichetta per “grigio”
una specie di jolly che può emergere in qualsiasi momento tra lo stadio
III e lo stadio VII22. il colore grigio, inoltre, è sempre stato percepito e ca-
tegorizzato diversamente dai singoli parlanti, anche di una stessa lin-
gua, ed in Turco il valore di boz sembrerebbe oscillare tra il grigio ed il
marrone, riferendosi grosso modo al colore di una landa desolata.
Chi scrive tiene comunque a precisare che le osservazioni appena
condotte non devono fare ipotizzare una proiezione genealogica di que-
18 -s é accettabile, anche se non predominante, anche nello Yakut, lingua a nord
e a ovest dei monti Altai, con una storia linguistica a sé. 19 Già nella primissima attestazione, il Compendium di Mahmūd al-Kāšγari, si
dice che la regola che riguarda i colori e la esagerazione nella descrizione delle cose consiste nel prendere la prima lettera della parola ed aggiungervi –bā nella mag-gioranza dei dialetti turchi, e mīm in Oγuz. Non vi sarebbe però alcuna regola pos-sibile per cambiare –bā in –sīn (cfr. Dankoff & Kelly, 1982: 261).
20 E talvolta anche nessuna consonante, come in Monguor e in Santa. Su questo tipo di reduplicazione in Mongolo cfr. Janhunen (2003: 12).
21 Con le parole degli autori: “the only systematic error, then, is the premature appearance of grey. If additional cases of this type are found the theory might have to be revised” (Berlin & Kay, 1969: 45).
22 Sulla questione del grigio cfr. Biggam, 2012: 76-77.
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sto modello di formazione degli intensivi su un tradizionale albero co-
struito su modello comparativo-ricostruttivo: le lingue altaiche sono co-
dici di comunicazione tra popoli nomadici che si spostano e si incrociano
spesso tra le steppe dell’Asia centrale scambiandosi informazioni neces-
sarie per la sopravvivenza, e pertanto proiettano in preistoria delle con-
dizioni diverse dalle lingue indoeuropee. Dunque è spesso molto diffici-
le, se non impossibile, distinguere tra forme di prestito e forme genui-
namente ereditarie. Il processo della reduplicazione, inoltre, per il suo
iconismo e la sua facile disambiguazione, è ancora più difficile da attri-
buire esclusivamente ad una comunanza genealogica, anche e soprattut-
to per la sua connotazione intensiva ed emotiva. Pure attenendoci ad
una ipotesi prudenziale, potremmo però sostenere (con Stachowski,
2013: 261) che questo tipo di reduplicazione probabilmente si fosse for-
mato già nell’altaico comune, e potrebbe essere stato quindi ereditato
dalle lingue mongole e turche (il caso delle lingue tunguse è più contro-
verso, visto che per alcuni studiosi le molte reduplicazioni di questo tipo
nelle lingue tunguse potrebbero essere prestiti da lingue mongoliche23),
ma potrebbe essersi esteso successivamente per un meccanismo analogi-
co in modo indipendente nelle singole lingue, che inoltre possono essersi
influenzate reciprocamente in modo non omogeneo per contatto.
Resta la peculiarità di una reduplicazione che sembra prefissante
in lingue quasi esclusivamente suffissanti (contro l’universale impli-
cazionale 4 di Greenberg) il che, guardando la distribuzione del feno-
meno, gli aggettivi coinvolti e il tipo di consonanti in coda alla sillaba
reduplicativa, può fare propendere per una formazione antica, prece-
dente alla disgregazione della unità altaica. Considerando la distribu-
zione areale di questo fenomeno, la prima consonante in coda della
sillaba reduplicativa potrebbe essere stata –p, la prima classe di agget-
tivi così intensificati potrebbe essere quella degli aggettivi di colore, e
probabilmente il primo aggettivo di colore così intensificato è stato ka-
23 Questo pattern di reduplicazione riguarderebbe infatti soprattutto il Kilen, lo
Orochen, il Sibo ed il Solon, che non formano un gruppo geneticamente uni tario ma sono a contatto con lingue mongoliche come il Khalkha ed il Dagur (cfr.Li & Whaley, 2000).
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ra, “nero”, presente in quasi ogni lingua. Alcuni studiosi hanno ipo-
tizzato che questo modello di reduplicazione emergesse da una con-
trazione di altre forme di reduplicazione: Kim (2009) segnala una pos-
sibile filiera *kara kara -> *karåkara -> *karkara -> kapkara24; Menges
(1959: 116) ipotizza invece un punto di partenza in *kara mu kara (at-
traverso la filiera *karamkara -> *kamkara -> kapkara), e kapkara sarebbe
diventato il modello di riferimento per l’estensione analogica ad altri
aggettivi25.
3.2 Reduplicazione tramite la particella interrogativa mI26
Un altro modo per intensificare gli aggettivi è frapporre la par-
ticella interrogativa mI tra due aggettivi uguali27 Questa procedura
24 Kim considera questo tipo di reduplicazione come “reduction of fully reduplica-
ted compounds” (2009: 124). La filiera proposta per questa reduplicazione parziale negli aggettivi enfatici in Turco viene ben esemplificata dalla autrice proprio attraverso il ca-so di un aggettivo enfatico di colore, sapsarı, “bright yellow” (ib.: 136): 1) sarí-p-sarí > 2) sar-p-sarí > 3) sár-p-sarí > 4) sapsarı. All’origine (fase 1) ci sarebbe dunque un composto reduplicativo con una “linking consonant”, in questo caso –p-, che sarebbe inserita lessi-calmente; la fase 2 consisterebbe in una riduzione del composto in cui il primo membro acquisirebbe uno skeleton di tipo CVC-; la terza fase mostra lo spostamento dell’accento sulla prima sillaba, secondo il modello accentuale regolarmente previsto per i composti. La fase 4, infine, mostra la sostituzione/elisione della seconda consonante del primo elemento del composto con la “linking consonant”.
25 Entrambe le proposte però non sono scevre da difficoltà relative ai mutamen-ti fonologici all’interno delle filiere (cfr. Stachowski, 2013: 235-236).
26 Si ricorda che, seguendo la armonia vocalica tipica del Turco di Turchia, le vocali dei suffissi si adattano alla vocale dell’ultima sillaba che li precede. Alcuni suffissi presentano una “mutazione semplice”, cioè la vocale e se la vocale prece-dente è anteriore oppure la vocale a se è posteriore (ad es. il suffisso di plurale –ler/-lar, come in ev-ler “le case” o in kitap-lar “i libri”). Altri suffissi o particelle, come l’appena citato mi, seguono invece una “mutazione doppia”, ovvero si al-ternano quattro forme, tutte con vocali alte (mi, mü, mı, mu) che seguono rispetti-vamente una vocale identica o la corrispettiva vocale bassa. La forma sarà dun-que mi se l’ultima vocale che precede la particella interrogativa è i o e; mü se la vocale precedente è ü oppure ö; mı se la vocale precedente è ı oppure a, mu se la vocale precedente è u oppure o. Così, ad esempio, il suffisso –di del passato può presentarsi con i seguenti allomorfi in dipendenza dalla vocale che precede, appartenente alla radice verbale i: bil-di “seppe”, gel-di “venne”; gül-dü “rise”; gör-dü “vide”; kır-dı “ruppe”, al-dı “prese”; bul-du”trovò”, ol-du “fu”.
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sarebbe produttiva anche per gli aggettivi di colore come in yeşil mi
yeşil “molto verde”.
Si può forse ipotizzare una struttura tema-rema, in cui il tema
sarebbe costruito sulla base di una falsa domanda (yeşil mi? “è ver-
de”?) ed il rema consisterebbe in una conferma della prototipicità
delle qualità semantiche dell’aggettivo posto a rema. Si tratterebbe
di una procedura simile, mutatis mutandis, a quella della reduplica-
zione delle basi nominali descritta in Grandi (2002: 253-256) per
l’italiano: per questo autore un caffè caffè altro non sarebbe che un
caffè che realizza “le qualità ideali ed autentiche associate allo
standard corrispondente” relativamente alla entità designata dalla
base. Anche in questo caso, a parere di chi scrive, la prima parola
corrisponderebbe al tema (stiamo parlando di un caffè), di cui si
predica, attraverso la espansione reduplicativa, che si tratterebbe
di un vero e proprio caffè. Questo tipo di reduplicazione potrebbe
dunque identificare e, in un certo senso, certificare le qualità di au-
tenticità della base.
3.3 Reduplicazione totale
La reduplicazione totale di una parola è il modo più direttamen-
te iconico per rafforzarne il contenuto, poiché l’aumento nella for-
ma corrisponderebbe diagrammaticamente all’aumento del conte-
nuto (cfr. nota 5). In quanto tale, questo tipo di reduplicazione, con
questa funzione, è diffusissima tra varie lingue del mondo anche
lontane arealmente, genealogicamente e tipologicamente28, e può
ricorrere virtualmente con ogni categoria lessicale. Anche la redu-
plicazione totale degli aggettivi designa spesso aumento o intensi-
ficazione, e ciò spesso accade anche per gli aggettivi di colore29.
27 Si veda, ad es., Göksel & Kerslake (2005: 100-101). Secondo questo lavoro le
forme di reduplicazione così formate avrebbero un carattere colloquiale. 28 Si confrontino, tra i moltissimi lavori dedicati a questo argomento, almeno
Key 1965 e Moravcsik 1978. 29 Molti studi segnalano però come la reduplicazione totale (oltre ad altri tipi di
reduplicazione) possa invece assumere il significato contrario, ovvero di diminu-
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Anche il Turco non fa eccezione, e reduplicazioni come kara ka-
ra, o kırmızı kırmızı possono denotare rispettivamente qualcosa di
molto nero o di molto rosso, così come güzel güzel può connotare
qualcosa o qualcuno che sia molto bello.
Bisogna però fare attenzione: alcuni studiosi madrelingua turca,
tra cui Asli Göksel & Belma Haznedar (2007: 10) segnalano che la
reduplicazione totale serve anche a creare “individuating adjecti-
ves”, e glossano ad esempio kırmızı kırmızı come “(individuated in-
stantiations of ) red”. Questo tipo di significazione non è di per sé
né iconico né anti-iconico, e si basa di fatto sulla molteplicità. Po-
trebbe trattarsi di una reduplicazione con significato cumulativo,
come nel caso descritto da Charles Lam (2013) per le reduplicazioni
di verbi atelici in processi durativi e per gli aggettivi in Cantonese.
Kırmızı kırmızı sarebbe cioè un tipo di rosso che è “cumulativamen-
te” rosso, perché lo sono tutte le sue parti costituenti, rosse ognuna
di loro singolarmente e come somma. Ogni parte condividerebbe
cioè cumulativamente le proprietà del tutto. Seguendo Krifka
(2001) Lam ci dice che un predicato è cumulativo se i) sommando
due unità x ed y le due unità hanno ancora la stessa denotazione, e
se ii) le due entità x ed y sono due elementi distinti. In Turco,
quindi, abbiamo una doppia opzione per interpretare la semantica
di espressioni come kırmızı kırmızı: 1) laddove la formula reduplica-
ta denota intensificazione, l’aggettivo di base era da intendersi co-
zione o di attenuazione (cfr. Moravcsik, 1978 e Kiyomi, 1995), e ciò accadrebbe an-cora più frequentemente proprio nel caso degli aggettivi di colore. Questo fenome-no è stato studiato nella lingua tzeltal (Berlin, 1963), nello Tzotzil (Collier, 1960), e, cambiando continente, in Malay (Kusma, 2004: 33), dove emerge il valore di “simi-larità”, in Vietnamita e in Koromfe (Kusma, 2004: 39), come diminuzione della qua-lità cromatica. In alcune lingue nigeriane la reduplicazione totale può esprimere sia il concetto di “lightness” (in Egbira, Haussa, Tiv) che “being like some other co-lour” (ad es. in Bassa-Nge), o persino “variegation”, come in Haussa ed in Igala (Ibrahim, 2009: 25-28). In Haussa, in particolare, la reduplicazione totale per i nomi di colore veicola similarità, attenuazione, mentre la intensificazione è espressa tra-mite ideofoni, ad es. da faRii “bianco” si formano faRi-faRi “biancastro”, e faRii fat “bianchissimo” (Gouffé, 1975). Sul problema del valore di d iminuzione della redu-plicazione, cfr. Castagneto (2004: 72-83).
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me marcato per gradualità, e quindi quantizzato; 2) altrimenti la
forma reduplicata può essere letta in modo cumulativo, come
somma di proprietà comuni alle sue parti costituenti. E’ solo in
questo modo che possiamo capire bene frasi come kırmızı kırmızı le-
ke var, “ci sono macchie rosse” (lett. “rosso rosso macchia c’è”).
4. Reduplicazione con valore attenuativo negli aggettivi di co-
lore del Turco
Un ultimo tipo di reduplicazione nel Turco che riguarda gli ag-
gettivi di colore sono le echo-words (secondo la definizione di
Mayerthaler, 1977), in cui la prima parola viene reduplicata sosti-
tuendo alla sua prima consonante una m-30. Il sintagma reduplica-
tivo assume nel suo complesso la significazione di “X e cose simili
a X”, es. kitap mitap “un libro e simili”, e va da sé che la echo-word
non ha nessuna esistenza autonoma rispetto alla parola di cui fun-
ge da eco. Lewis (2000: 236) ci informa che si tratta di un fenomeno
essenzialmente colloquiale e molto produttivo, che coinvolge non
solo gli aggettivi e più specificamente gli aggettivi di colore, ma
virtualmente tutte le categorie lessicali31, anche le più refrattarie ai
processi di derivazione e di flessione, come i prestiti anche recenti
(es. in partiler martiler hep reform meform diye bağırıp çağırıyorlar “the
political parties and suchlike are always shouting and screaming
about the reform and all that”, cfr. Lewis 2000: 235), i nomi propri
(Attila Mattila pikniğe gitti “Attila und seine Freunde gingen zum
Picknick”, cfr. Müller 2003: 53), i cognomi32, e persino le formule
30 Nel caso dei colori la prima consonante della echo-word è sempre una m-; nel
caso di altri lemmi a volte la consonante iniziale viene sostituita con b-, p-, s-. 31 Il fenomeno si presenta nei nomi, come nel caso di kitap mitap, negli aggettivi,
ad es. in kutlu mutlu “fortunato, o qualcosa di simile”, e nei verbi, dove però è con-siderato un tratto sociolinguisticamente basso.
32 Come riporta Lewis, 2000: 236, così reagì verbalmente il primo ministro Menderes all’annuncio che l’allora amministratore per gli aiuti esteri degli Stati Uniti Harold Stassen avrebbe ritirato gli aiuti ai paesi esteri: Stassen giderse, yerine Mtassen gelir. Yardımı ondan alırız. “If Stassen goes, one close fac-simile of Stassen will take his place. We’ll get the aid from him”).
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(Affedersiniz Maffedersiniz yok, “There is no ‘thank you’ or any such
expression”, cfr. Swift, 1963: 121).
Secondo Brinzeu (1947) si tratta di una costruzione molto co-
mune tra le lingue orientali, estesa a tutte le lingue che furono sot-
tomesse all’impero ottomano, anche genealogicamente e tipologi-
camente molto diverse dal Turco, come il Persiano, il Greco e
l’Armeno. Le echo-words in m- però si riscontrano anche al di fuori
della sfera di influenza dell’area ottomana, come nel Russo (Plähn,
1987: 37-41), nel Bengali e nelle lingue dravidiche, come il Kannada
(Brdar, 2014), sempre veicolando lo stesso significato di “X e cose
simili a X”. Neppure il Tedesco è estraneo a questo fenomeno, an-
che se esso è presente solo in forme cristallizzate (Heckmeck, Kud-
delmuddel, Schickimicki, Schorlemorle, Techtemechtel, im Dunkeln ist
gut munkeln), né lo è l’Italiano colloquiale basso o paragergale, do-
ve troviamo un espressione come cazzi e mazzi, e la stessa costru-
zione si può registrare anche nello Jiddish, dove la prima conso-
nante è però modificata in šm- (Cardona, 2001: 86)33. Forse ha ra-
gione Mayerthaler (1977: 42) quando sostiene che dopo tutto la re-
duplicazione è un processo di tipo elementare, molto frequente nel-
lo sviluppo del lessico e della grammatica nei bambini, e che l’atto
di sostituire una consonante foneticamente più complessa con una
labiale in una echo-word è una procedura in fondo naturale. Solo
una interpretazione di questo genere, intesa su un piano quasi co-
gnitivo, può spiegare la distribuzione di questo fenomeno tra lin-
gue così diverse, e solo l’iconismo può spiegarne in parte la seman-
tica: viene ripetuta una parola che denota uno specifico referente in
modo quasi uguale, quindi il significato sarà di similitudine.
33 Grohmann & Nevins (2004) fanno notare che le forme reduplicate in schm-
non possono mai apparire in posizione argomentale, ma solo in posizione topicale quando si tratta di un topic saliente per il parlante “and the speakers whishes to re-flect a dismissive attitude toward that topic” (ivi: 147), es. Money, schmoney, who needs that stuff (anyway)? (ivi:158). Si conferma così ancora una volta lo stretto rap-porto che la reduplicazione può intrattenere con l’istanza di tematizzazione sul piano pragmatico.
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In Turco questo tipo di reduplicazione può essere applicato agli
aggettivi di colore (kara mara, beyaz meyaz, kırmızı mırmızı, sarı marı,
yeşil meşil), e, secondo Schroeder (1989), il significato complessivo
sarebbe di “vaghezza” (es. yeşil meşil, “grün oder so”, vd. Müller,
2003: 52). Alcune interviste a parlanti madrelingua turchi, però,
hanno dato a chi scrive una indicazione importante: queste formule
con gli aggettivi di colore sarebbero utilizzate solo in negativo (es.
kırmızı mırmızı değil, “non è kırmızı mırmızı”) e mai in positivo
(*kırmızı mırmızı dir). E’ come se i parlanti turchi dicessero che un
oggetto non è rosso, né niente di simile al rosso.
La predicazione relativa al colore non sarebbe dunque applica-
bile, né come estensione del prototipo verso l’inclusione di tratti
più periferici, né come allargamento della classe dei referenti.
5. Strategie di diminuzione dei nomi di colore in Turco trami-
te derivazione
Il problema della diminuzione nella designazione dei colori è in
realtà molto più complesso e sfumato che nel caso della intensifica-
zione. Ci si può allontanare da un colore prototipico in molti modi,
anche oltre la diversità o gradazione dei parametri che vengono
spesso citati nella bibliografia di settore (tonalità, brillantezza, sa-
turazione cromatica, dipendenza contestuale dal tipo di supporto),
e un colore può essere percepito come “diminuito” perché meno
intenso, ma anche perché si avvicina ad esso (in modo oggettivo), o
gli somiglia (ed allora il centro della valutazione è nel giudizio del
parlante), per il suo grado di minore compattezza o omogeneità,
oppure, su di un piano più stilistico e pragmatico, può trattarsi di
una diminuzione di tipo giocoso, emotivo o espressivo (nel senso
del tipo di funzione che Bühler chiamava “Ausdruck”). In questo
lavoro si tenterà di mostrare che ognuna di queste “diminuzioni”
corrisponde in Turco ad uno specifico suffisso.
Nei paragrafi che seguono verrà dato maggiore spazio espositi-
vo ad un suffisso di antica presenza nella lingua turca, –CA (par.
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5.1) e ai tre suffissi maggiormente produttivi, –(I)msI / –(I)mtrak
(par. 5.2) e –lI (par. 5.5).
5.1 Suffisso –CA
Questo suffisso, che per Rossi (1964: 4) possiede un significato
correttivo, modifica gli aggettivi di colore aggiungendo alla base la
significazione “che si avvicina al colore X”, “circa il colore X”: fa
insomma riferimento ad una tonalità non focale di uno specifico
colore. Nel dizionario Turco-Italiano di Angelico da Smirne (1955)
questo suffisso è spesso tradotto attraverso il suffisso italiano –
astro, es. in kara-ca “nerastro” (a volte specificando meglio il tipo di
tonalità cromatica aggiungendo il riferimento ad altri colori, es.
boz-ca “grigiastro”, ma anche “brunello”, “terreno incolto”) oppure
attraverso il ricorso alla applicazione allo stesso termine di colore
di più suffissi dell’italiano, tutti con la denotazione di allontana-
mento dal prototipo (es. kizil-ca, tradotto in Angelico da Smirne
come “rossastro, rossiccio, rossigno”) o ancora con modificatori
dell’aggettivo (es. sarı-ca, “un po’ giallo, alquanto giallo”). Nei di-
zionari Turco-Inglese (Redhouse 1968, 2004) –CA è spesso tradotto
tramite –ish oppure come “somewhat X”34.
Il suffisso –CA è un suffisso di antica presenza nel Turco, tanto è
vero che alcuni studiosi lo hanno considerato come un vero e pro-
prio suffisso di declinazione, quindi addirittura appartenente alla
flessione nominale, ancora più integrato nel sistema linguistico. Se-
condo l’autorevole parere di von Gabain (1941, par. 185) il suffisso
–CA, da includersi tra i suffissi di declinazione nominale, sarebbe
un “suffisso di equazione”.
Forse non è un caso che questo suffisso sembrerebbe rifiutare basi
con particolari tratti di strato, cioè parole non native della lingua tur-
34 Da questo momento in poi si avverte che, dove non è diversamente specifica-
to, i significati in Italiano delle parole turche sono tratte dal dizionario di Angelico da Smirne (1955), mentre i significati riportati in inglese sono tratti da Redhouse (1968, 2004).
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ca35 (come è il caso dei tre antichi prestiti dall’arabo beyaz “bianco”,
kırmızı “rosso”, mavi “azzurro/blu” e del prestito dal persiano siyah
“nero”36), e che selezioni specificamente solo aggettivi autenticamente
turchi. Nel caso degli aggettivi di colore –CA si combina con ak “bian-
co”, kara “nero”, kızıl “rosso”37, sarı “giallo”; come si può notare, -CA
seleziona solo i termini che appartengono agli stadi più bassi della
scala di Berlin & Kay (1969), cioè i termini “più basici” di tutti: il bian-
co, il nero, il rosso e il giallo, quindi termini inclusi entro il III stadio,
in cui viene incluso o il giallo (come nel nostro caso) o il verde. Solo al
IV stadio compariranno termini differenziati per questi due colori38.
Questo suffisso modifica anche altri tipi di aggettivi, apportan-
do un significato analogo (es. uzun-ca, alquanto lungo)39 e forma
nomi di etnici e lingue (es. italyan-ca “la lingua italiana”).
35 Si tratterebbe dunque di una restrizione di tipo morfologico, nei termini di
Aronoff (1976: 51-52) e Booij (1977: 131-139). 36 Come è già stato spiegato alla nota 15, la peculiare storia linguistica del
Turco, con interferenze plurisecolari dall’arabo e dal persiano, ha fatto sì che la lista dei sei “basic color terms” in Turco per indicare bianco, nero, rosso, giallo, verde, blu (nei lavori posteriori all’edizione del Word Color Survey, 1985) consista in realtà in una lista di nove aggettivi, visto che il bianco, il nero e il rosso pre-sentano due sinonimi per ognuno dei referenti di colore, uno originariamente turco ed un antico termine di prestito, tutti attualmente ascrivibili ai termini di colore di base.
37 Va detto, per inciso, che –ca è l’unico suffisso che si combina con l’aggettivo kızıl, che per il resto sembrerebbe manifestare una allergia per il processo di deri-vazione, anche se sono attestate alcune forme arcaiche derivate con valore di somi-glianza e di approssimazione (kızılsağı “reddish” e kızımtul “rufous, somewhat reddy”), e anche se il solo dizionario on-line Lingea (www.dict.com/Turco-italiano) lemmatizza il termine kızılımsı con il significato di “rubicondo”, applicabile solo ad uno specifico referente: il viso.
38 Seguendo invece l’impostazione dei lavori più recenti, come Kay & Maffi 1999, potremmo invece dire che –ce seleziona “basic colr terms” inclusi entro il IV stadio, escludendo però la macro-categoria GRUE (“green” + “blue”). Oltre che con gli agget-tivi di colore indicati, questo suffisso si combina anche con boz, “grigio”, formando boz-ca, “grigiastro”. Ma, come abbiamo visto al paragrafo 3.1, il termine che designa il grigio è un po’ un jolly che può apparire i qualsiasi momento tra lo stadio III e lo sta-dio VII, quindi non costituisce una eccezione a quanto è stato detto.
39 Göksel & Kerslake segnalano per questo suffisso anche la possibilità di creare aggettivi “from the pluralized form of a ‘round’ numeral, expressing a large num-ber in an imprecise fashion: binlerce “thousands of”, kilolarca “kilograms of” (2005:
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5.2 Suffissi –(I)msI e –(I)mtrak40
Il significato di entrambi i suffissi è di approssimazione o somi-
glianza41, e di nuovo tendono ad essere tradotti dai dizionari Tur-
co-Inglese con il suffisso –ish, e dai dizionari Turco-Italiano con il
suffisso –astro (ad esempio in Angelico da Smirne, 1955, e nel Fono
Modern Sözlük Türkçe-Italyanca, 2008) Quindi, ad es., kırmızı-msı e
kırmızı-mtrak tendono entrambi ad essere tradotti in Italiano come
“rossastro” ed in Inglese come “reddish, somewhat red”.
Questi suffissi si possono applicare a sette dei nove nomi di
colore di base presenti nella scala dei lavori successivi al 1985 (ka-
ra-msı, kara-mtırak e siyahımsı, siyahımtırak ”nerastro”, beyazımsı,
beyazımtırak “biancastro”, kırmızımsı, kırmızımtırak “rossastro”,
yeşillimsi, yeşillimtrak “greenish” [cit. in Lewis 2000: 55] sarı-msı,
sarı-mtırak “giallastro”, mavimsi, mavimtrak “bluish”), ed anche al-
cuni aggettivi di colore inclusi nella scala dei termini di base del
1969, cioè bozumsu, bozumturak “graysh, somewhat gray”, morum-
su, morumtrak “purplish”, pembemsi “rosaceo”, tutti termini che
per la loro forma monolessemica e per la loro applicabilità non ri-
stretta ad una classe di referenti potrebbero essere considerati
“basic color terms”. Viceversa questi due suffissi non si applicano
a turuncu, “arancione”, derivato dal sostantivo turunç “agrume”,
termine che per la sua origine metaforica non ha i requisiti per
potere essere considerato un termine di base. I suffissi -(I)msI e –
59-60). Questi esempi dimostrano bene come il suffisso rimandi ad un semema di indefinitezza, di approssimazione, presente anche nei nomi di colore modificati at-traverso tale suffisso. Lo stesso valore di approssimazione e di somiglianza può es-sere evinto da alcuni esempi tratti dallo stesso volume per esemplificare il signifi-cato modale del suffisso, es. in Osman çolukca davranıyor “Osman is behaving chil-dish” (ib.: 215).
40 Il suffisso –(I)mtrak si presenta a volte con una vocale epentetica come –(I)mtırak, che per Lewis (2000: 55) potrebbe essere la sopravvivenza di una forma più antica. Per entrambi i suffissi la prima vocale è tra parentesi perché viene omessa su morfemi lessicali terminanti per vocale.
41 Cfr. Lewis (2000: 55) “These suffixes in some context have diminutive effect, but essentially they mean resembling”.
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(I)mtrak costituiscono probabilmente il modo più diffuso per indi-
care una non prototipicità del colore designato dal morfema lessi-
cale.
A mio avviso, c’è una piccola sfumatura semantica di diffe-
renza tra il suffisso –CA, descritto nel paragrafo precedente, e
questi due suffissi: qui il giudizio di somiglianza potrebbe ap-
partenere al parlante, non ad una caratteristica dell’oggetto, e
potrebbe quindi dovere essere inteso in modo più soggettivo che
oggettivo.
Il suffisso –(I)mtrak, più specificamente, modifica aggettivi di
colore e gusto, esprimendo approssimazione es. mavi-mtrak
“bluish”; ekşimtrak “sourish” (cfr. Göksel & Kerslake 2005: 62). Si
tratta di una condizione che sembrerebbe mettere in crisi la con-
vinzione comune secondo la quale le parole che esprimono i sensi
che impiegano un contatto tra lo stimolo e il corpo che li percepisce
(gusto, tatto, odorato) sarebbero poche e dispiegherebbero un
comportamento linguistico diverso rispetto al lessico dei sensi “di-
stali”, come l’udito e la vista (e quindi rispetto ai lemmi che indi-
cano colori). Ma una vicinanza nel comportamento morfologico tra
gli aggettivi di colore e quelli legati al gusto è stata già notata in
almeno un’altra lingua, lo Tzeltal, da Penelope Brown (in un lavoro
del 2011 dal titolo significativo “Color me bitter”): in questa lingua
uno speciale tipo di composizione (formato attraverso un aggettivo
di colore/di gusto + una seconda radice lessicale, reduplicata, tratta
da un dominio non sensoriale) è possibile solo per il lessico appar-
tenente a queste due sfere sensoriali42. Si potrebbe trattare quindi
di un suffisso che descrive una esperienza sensoriale cross-modale,
anche se nel caso del Turco non possiamo rimandare a mo’ di spie-
gazione alla dicotomia caldo/freddo che sussume anche colori e
gusti, molto nota e studiata dagli antropologi per la America latina
(cfr. Foster, 1994, citato in Brown, 2011).
42 es. sak-pak-pak “white” + “stick on” (x2), con il significato complessivo di
“face of an ill person”, o chi’-pik-pik “sweet/salty” + “touch” (x2), che designa “a slightly prickly salty taste” (Brown, 2011: 107).
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5.3 Il suffisso –rAk
Si tratta di un antico suffisso comparativo ed elativo, decisa-
mente non più produttivo43, che sopravvive oggi in poche parole
con significato correttivo o vezzeggiativo. Tra di esse vi sono due
nomi di colori: ak-rak “biancastro”, e boz-rak “grigiastro, tendente al
grigio” (Rossi, 1964: 12). Redhouse (1968, 2004) traduce invece boz-
rak come “light grey”.
5.4 Il suffisso –cIl /-cIn
Un altro suffisso interessante è –cIl. Si tratta di un suffisso che,
secondo Özer, (2008: 49) era già presente (ancorché raro) in antico
Osmanlı nella formazione di aggettivi deaggettivali, e che veicola
una leggera diminuzione rispetto al significato del lessema di ba-
se44. il suffisso -çIl è tuttora produttivo nei neologismi (ma non più
produttivo per quanto riguarda i nomi di colore), è –cil. Questo
suffisso forma alcuni nomi di colore, ed è stato formativo del nome
di alcuni uccelli, quando, con ogni evidenza, il nome degli uccelli
interessati dipende da un tabù.
43 Özer (2008: 22) riconosce il suffisso –rAk, con i medesimi valori, già
nell’antico Osmanlı e Erdal (1991: 65; ripetuto in 2004: 150) attribuisce lo stesso suf-fisso già all’antico Turco, ma entrambi gli autori ci dicono che –rAk non si applica ai nomi di colori. Per Erdal –rAk intensifica solo “in terms of grade and degree”, cosa che non farebbe la reduplicazione, processo che non può quindi mai esprimere comparazione. I colori invece verrebbero intensificati tramite reduplicazione (Erdal 1991: 65); il tipo di reduplicazione cui Erdal rimanda è quello che abbiamo definito C-type reduplication (cfr. par. 3.1).
44 Nel corpus alla base del lavoro di Özer, che consiste in un testo del XIV seco-lo tradotto dall’Arabo in antico Osmanlı, il Qișaș al-Anbiyā (“Storie dei Profeti”), troviamo anche un esempio che riguarda i colori: īsa bir kizġu beŋizlü akçıl eridi (811/14) tradotto nel testo come “Jesus war ein Mann mit rötlichem Gesicht und weisslicher Haut”. Come si può notare, il contenuto semantico di –çıl trasforma l’aggettivo weiss “bianco” in weisslich “biancastro”, attenuando il nome di colore cui si applica.
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Così in tavşan-cıl “aquila”45, il suffisso –cıl si unisce a tavşan “le-
pre”, ed in balık-çıl46, “airone”, la parola balık vuol dire “pesce”, il
che fece ipotizzare ad Abdürahman Şeref (in un libretto del 1929,
Mikyasüllisan, citato in Rossi, 1964: 6) che queste parole fossero in
realtà dei composti dove –cIl sarebbe derivato dal persiano –čīn
“che prende”. Questa ipotesi non sembrerebbe molto plausibile,
anche perché altri nomi di uccelli come bıldır-cın, “quaglia”, forma-
ti con lo stesso suffisso, presenterebbero un morfema lessicale non
legato alla catena alimentare: bıldır, infatti, significa “l’anno scor-
so”, e quindi il nome derivato, nel suo complesso, è evidentemente
un nome tabuizzato per un uccello di passo, una preda, non un
predatore.
Che il nome degli uccelli possa essere tabuizzato in Turco non
sorprende, perché nella mitologia altaica l’anima umana è ornito-
morfa, i morti volano via trasformandosi in uccelli (o mosche), e gli
uccelli risiedono sui rami più bassi “dell’albero cosmico” (asse del
mondo, sorgente della vita e pilastro del cielo) e fanno da tramite
tra i vivi ed i morti. Non a caso lo sciamano è spesso vestito di
piume e molte tribù turche e mongole hanno adottato come totem
un uccello (Roux, 1990: 188).
Se ora consideriamo che lo stesso suffisso –cIl contribuisce an-
che a creare alcuni nomi di colore, capiamo perché il significato di
gök-çül per Redhouse sia “bluish, tinged [quindi sfumato, colorato
leggermente, mischiato]47 with blue” e, allo stesso tempo, kır-cıl
viene tradotto da Redhouse (1968) come “mixed or sprinkled with
grey, e come “grizzled” in Lewis (2000: 62): in questo caso il colore
“brizzolato”, che ben si addice ai capelli , è lo stesso del piumaggio
di alcuni uccelli: grigio dunque, e di un colore omogeneo tra le va-
45 Il nome dell’aquila più frequentemente usato in Turco è però kartal. 46 In questo caso il suffisso –cil [dʒil ]si presenta attraverso l’allomorfo –çıl , con
un affricata sorda, perché, oltre alla consueta armonia vocalica a mutazione doppia è in gioco una assimilazione progressiva di sordità tra l’ultima consonante del nu-cleo lessicale ed il suffisso.
47 I significati qui proposti tra parentesi quadre per l’entrata dizionariale to tin-ge sono tratti dal Dizionario Ragazzini Inglese-Italiano,1995, Zanichelli.
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rie parti del corpo, ma di una omogeneità dovuta alla compresenza
di più colori che coesistono senza fondersi.
5.5 Il suffisso –lI
Questo suffisso, molto frequente e produttivo, forma aggettivi
denominali che denotano il possesso di una qualità indicata nel
morfema lessicale (es. akıl “intelligenza” -> akıl-lı “intelligente”), o
l’appartenenza ad un posto o ad una istituzione (es. İstanbul-lu,
“cittadino di Istanbul”). Questo suffisso, molto frequente anche per
i nomi di colore, seleziona sei “basic color terms” su nove (karalı,
siyahlı, aklı, kırmızlı, sarılı, yeşilli). Per Lewis (2000: 58), quando que-
sto suffisso si aggiunge a nomi di colore, assume la significazione
di “vestito in quel colore”. Così kırmızı-lı significherebbe “vestito di
rosso”48. Ma dai testi e dai dizionari, compreso Redhouse (1968),
emerge anche una significazione diversa per cui kırmızı-lı signifi-
cherebbe “partially red, which has red in its parts” e kara-lı indi-
cherebbe “having black spots, mixed or spotted with black”, aklı
“spotted with white”, yeşilli “mixed with green”. In modo signifi-
cativo, Angelico da Smirne (1955) traduce yeşilli come “che contie-
ne figure, linee, punti, etc., dipinti in verde”.
Quindi “dolce” è “qualcosa con zucchero” (şeker-li), chi è intelli-
gente è “con intelligenza”, e chi è “con rosso” potrebbe essere ve-
stito di rosso, ma potrebbe anche trattarsi di un oggetto il cui colo-
re è discontinuo, con macchie evidenti disomogenee e diffuse ri-
spetto al resto del colore della superficie. Anche questo è in fondo
un modo per diminuire, o attenuare, un colore, e non sorprende se
questo tipo di attenuazione dispersiva in altre lingue può essere
veicolato da una reduplicazione: nel creolo giamaicano, ad esem-
pio, yelo-yelo significa “yellow spotted” (Kouwenberg & Le Charité,
2005).
48 Cfr. anche l’esempio di frase aggettivale mavi elbiseli “in a blue dress”citato
da Göksel & Kerslake (2005: 64).
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6. Conclusioni
In questo articolo abbiamo visto come in Turco gli aggettivi che in-
dicano colori possono essere intensificati od attenuati soprattutto attra-
verso due processi morfologici: la reduplicazione (par. 3 e 4) e la deri-
vazione (par.5). Al contrario di quanto si potrebbe credere intuitiva-
mente, la reduplicazione può servire iconicamente ad intensificare (co-
me è il caso della reduplicazione sillabica sul modello di kap-kara, par.
3.1, della reduplicazione con particella interrogativa, sul modello di kara
mu kara, par 3.2, e nella maggioranza dei casi di reduplicazione totale,
es. kara kara, par. 3.3), ma a volte può veicolare anche un significato op-
posto. Quando segue il pattern delle echo-words, sul modello di kara
mara, il significato del sintagma reduplicativo risulta attenuato, di so-
miglianza ma di non coincidenza con il colore di riferimento (par 4).
I diversi tipi di attenuazione e diminuzione si riflettono però
soprattutto nella derivazione tramite differenti suffissi che possono
rimandare ad una tonalità che si distacca dal colore focale, in modo
oggettivo (par 5.1) o in dipendenza dal giudizio soggettivo (par
5.2), possono rimandare ad a una diminuzione di tipo comparativo
(par 5.3), o ad una maggiore o minore omogeneità di distribuzione
del colore sulla superficie (par 5.4 e 5.5).
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PAOLO D’ACHILLE, MARIA GROSSMANN
I TERMINI DI COLORE NELL'AREA AZZURRO-BLU IN ITALIANO:
SINCRONIA E DIACRONIA1
Abstract Il tentativo di dare una risposta alla domanda se il numero dei termini basici
possa superare il numero di undici è stato uno degli argomenti ricorrenti negli studi specifici sul lessico cromatico di singole lingue, successivi alla pubblica-zione del volume Basic color terms: Their universality and evolution di Berlin e Kay nel 1969. Lo status controverso dei due termini russi sinij e goluboj ha suscitato un interessante dibattito tra linguisti, psicologi e antropologi e ha dato impulso a numerose ricerche specifiche sull’area BLUE anche in altre lingue, tra le quali l’italiano. Lo studio della distribuzione dei termini corrispondenti a sinij e golu-boj nelle diverse fasi storiche dell’italiano, cioè azzurro, blu, celeste e turchino, può essere oggi ulteriormente approfondito, sia in sincronia sia in diacronia, grazie alla disponibilità di ampi corpora elettronici. La nostra ricerca è dedicata allo studio dei rapporti semantici che intercorrono tra questi termini nei diversi stadi della storia dell’italiano per arrivare all’italiano contemporaneo. Ci soffermiamo anche sui loro significati figurati e sulle loro possibilità di costituire basi per termini di colore derivati e composti.
Parole chiave: Semantica; Morfologia derivazionale; Termini di colore; Area
AZZURRO-BLU; Italiano After the publication in 1969 of Berlin and Kay’s Basic color terms: Their
universality and evolution, trying to answer the question whether the number of basic terms could be higher than eleven has been a frequent challenge for studies on colour vocabulary in individual languages. The debated status of the Russian terms sinij and goluboj ignited an interesting discussion among linguists, psychologists and anthropologists and stimulated a vast number of specific studies focused on the BLUE area also in other languages, among which
Maria Grossmann, Università degli Studi dell’Aquila, Paolo D’Achille, Università degli
Studi di Roma Tre; [email protected], [email protected] 1 Una versione in inglese di questo contributo è stata presentata al congresso inter-
nazionale Colour and colour naming: Crosslinguistic approaches (Università di Lisbona, 2-3 luglio 2015), v. Grossmann & D’Achille, 2016.
110 Paolo D’Achille, Maria Grossmann
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Italian. The availability of large and searchable corpora now makes it possible to deepen the study of the distribution of the nearest counterparts of sinij and goluboj in Italian (i.e. azzurro, blu, celeste and turchino), from both a diachronic and a synchronic perspective. Our study focuses on the semantic relations between these terms at different stages of the development of the Italian language, straight up to Present-day Italian. We also dwell on their figurative meanings and their eligibility as bases for derived and compound colour terms.
Keywords: Semantics; Derivational morphology; Colour terms; BLUE area;
Italian
1. Stato degli studi
L’aspetto linguistico del colore – vale a dire l’esistenza di un conti-
nuum che ogni lingua divide in modo arbitrario in segmenti discreti e
l’evoluzione verso sistemi di denominazione sempre più complessi e
differenziati – è tema privilegiato dell’etnolinguistica e della psicolin-
guistica; anche la semantica per illustrare problemi teorici ricorre spesso a termini di colore, che naturalmente sono inoltre oggetto di ri-
cerche specifiche. Il problema della denominazione dei colori nei suoi
vari aspetti (linguistici, percettivi, cognitivi, culturali) costituisce già a
partire dall’Ottocento un campo di osservazione privilegiato per lin-
guisti, psicologi e antropologi. In Grossmann (1988), dedicato alla se-
mantica dei termini di colore in catalano, spagnolo, italiano, romeno, latino e ungherese, si può consultare una breve storia degli studi e
una bibliografia interdisciplinare di circa 1300 lavori sui nomi di colo-
re in varie lingue, pubblicati tra il 1814 e il 1987. Il numero degli studi
pubblicati successivamente a questa data è molto elevato e in questa
sede ne potremo menzionare solo alcuni.
Lo “spazio” dei nomi di colore, il cui referente è lo spazio del co-lore, è costituito dalla struttura semantica di un insieme di lessemi.
Mediante la codificazione linguistica della sostanza percettiva e fisi-
ca dei colori si realizza una certa generalizzazione: ogni nome si rife-
risce a un gruppo di sfumature, a prescindere dalle differenze esi-
stenti tra esse. Lingue diverse segmentano lo spazio del colore in
modi diversi: i confini delle categorie possono cadere in punti diver-si; da una lingua all’altra possono differire il numero dei termini a
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disposizione, la base per operare le distinzioni e il peso dato alle tre
variabili psicosensoriali del colore (cioè tonalità, luminosità, satura-
zione). La valutazione delle divergenze tra lingue diverse deve tener
conto anche di altri fattori: ad es., in alcune lingue i termini di colo-
re, oltre che riferirsi alle tre variabili menzionate sopra, possono con-tenere anche informazioni di altro tipo (succulenza vs. secchezza,
tratti del tessuto della superficie, tratti di forma e consistenza, ecc.);
spesso, oltre a designare una determinata sfumatura, i nomi di colo-
re servono a esprimere simbolicamente contenuti sociali, religiosi,
morali, più o meno complessi. Si possono constatare differenze an-
che tra parlanti della stessa lingua; le variabili più rilevanti sono: l’età, il sesso, l’istruzione e lo status sociale.
Gli studi più moderni sui nomi di colore si collocano nella più
generale problematica del relativismo vs. universalismo linguistico
e hanno come punto di riferimento più noto il libro di Brent Berlin
e Paul Kay, pubblicato nel 1969. Scopo della loro ricerca era di di-
mostrare l’esistenza, da un lato, di universali nel dominio del lessi-
co dei colori e, dall’altro, di un legame di natura evoluzionistica tra
questi universali e lo sviluppo storico delle lingue. Secondo i due
studiosi esiste un inventario universale di undici categorie percet-
tive fondamentali che servono come referenti psicofisici ai termini
di colore basici (da due a undici) di ogni lingua. Si tratta di termini
che presentano determinate caratteristiche: dal punto di vista mor-
fologico non sono complessi; dal punto di vista semantico non sono
trasparenti, non costituiscono iponimi di altri termini e il loro uso
non è ristretto a certe classi di entità; dal punto di vista psicologico
sono rilevanti per i parlanti. I termini di colore non basici, invece,
sono analizzabili dal punto di vista morfologico, trasparenti se-
manticamente e, in genere, anche più recenti rispetto a quelli basi-
ci. Nel caso che una lingua codifichi meno di undici categorie, se-
condo Berlin e Kay, esistono delle restrizioni circa le categorie che
sono codificate. Per quanto riguarda lo sviluppo storico del lessico
dei colori, si ipotizza che le undici categorie percettive universali
vengano codificate in un ordine cronologico parzialmente fisso di
sette stadi di evoluzione (Fig. 1):
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Fig. 1: Categorie percettive universali e stadi di evoluzione (Berlin & Kay, 1969: 4)
Il libro di Berlin e Kay ha avuto l’effetto di una “rivoluzione” negli studi sulle denominazioni dei colori. Esso è stato oggetto di molti con-
sensi, ma anche di tanti dissensi, e ha dato impulso a numerose ricer-
che che si sono proposte di dimostrare la validità o meno della teoria
dei due studiosi. Tra le diverse revisioni parziali ed elaborazioni suc-
cessive delle loro tesi, ne ricordiamo qui solo alcune. Lo stesso Kay
(1975) ha rielaborato la sequenza temporale della codifica dei punti focali introducendo la categoria GRUE ‘blerde’ (cfr. Cardona, 1985:
168 n. 12) e ha stabilito delle correlazioni tra l’evoluzione dei sistemi
dei termini di colore e l’eterogeneità sincronica di una comunità lin-
guistica. Sempre a Kay, in collaborazione con McDaniel (Kay &
McDaniel, 1978), si deve da una parte la distinzione, basata sulla neu-
rofisiologia della visione del colore, tra categorie di colore “primarie” (le prime 6 nella gerarchia di Berlin e Kay, che sono dei primitivi per-
cettivi), “composite” (unioni di due o più categorie primarie) e “deri-
vate” (intersezioni di due categorie primarie), e, dall’altra, la reinter-
pretazione della sequenza evolutiva, vista non più come una codifica
successiva di nuovi punti focali, ma come una differenziazione delle
categorie di colore primarie previamente esistenti. I due studiosi ri-tengono che il numero di termini basici in una lingua possa superare
gli undici ipotizzati da Berlin e Kay e che possa variare anche
all’interno della stessa comunità linguistica (Kay & McDaniel, 1978:
640-641). Ulteriori contributi importanti si devono, tra gli altri, a Kay
et al. (1997), Kay & Maffi (1999, 2013) e ad altri studiosi che hanno la-
vorato sui dati raccolti per il World Color Survey (Kay et al., 2009; v. http://www1.icsi.berkeley.edu/wcs/) e il Mesoamerican Color Survey
(MacLaury, 1997 e altri lavori nel modello della “Vantage theory”).
Una diversa interpretazione della sequenza evolutiva è stata proposta
da Wierzbicka (1990), che considera la nascita di nuovi termini di co-
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lore basici come conseguenza di una differenziazione di concetti com-
plessi e non come l’emergere di nuovi punti focali.
Il tentativo di dare una risposta alla domanda se il numero dei
termini basici possa superare 11 è stato uno degli argomenti ricorrenti
negli studi specifici sul lessico cromatico di singole lingue, successivi a
Berlin & Kay (1969). In realtà, i due studiosi non escludono la possibi-
lità dell’esistenza di 12 termini basici e, con riferimento a sinij ‘blu’ e
goluboj ‘azzurro’ in russo e a piros ‘rosso1’ e vörös ‘rosso2’ in ungherese,
lasciano aperta la questione del loro status: da un lato ipotizzano che
tutti possano essere basici (il che porterebbe a 12 il numero di termini
di colore basici in queste due lingue), dall’altro prendono in esame
anche la possibilità di considerare goluboj e vörös termini secondari che
designano delle sfumature rispettivamente di sinij e di piros, termini
basici (Berlin & Kay, 1969: 35-36, 95, 99).
La dicotomia tra i termini ungheresi piros e vörös ha poi suscitato
l’interesse di diversi studiosi (v. MacLaury et al., 1997, Grossmann,
2006, 2016, Uusküla, 2011, Benczes & Tóth-Czifra, 2014, e i riferimenti
bibliografici citati in questi lavori). Sempre per quanto riguarda l’area
ROSSO, sono stati studiati problemi analoghi con riferimento alla di-
stribuzione di vermell e roig in catalano (Grossmann, 1988), di rojo, co-
lorado e encarnado in spagnolo (Grossmann, 1988), di vermelho, encarna-
do e roxo nel portoghese europeo (Correia, 2006, Schäfer-Priess, 2010,
Silvestre et al., 2014) e di červený e rudý in ceco (Uusküla 2011). Per la
dicotomia tra brun e marron in francese, nell’area BRUNO-
MARRONE, ricordiamo gli studi di Forbes (1979, 1986, 2006), Schäfer
(1987) e Spence (1989). Alla stessa area è dedicato l’articolo di
D’Achille & Grossmann, 2017, che hanno studiato i termini bruno,
marrone, castano e moro nei diversi stadi della storia dell’italiano dal-
le Origini all’italiano contemporaneo.
Lo status controverso dei due termini russi sinij e goluboj ha su-
scitato un dibattito ancora più ampio tra linguisti, psicologi e an-
tropologi. Nella ricca bibliografia si hanno, tra gli altri, lavori di un
gruppo di ricercatori dell’Università di Surrey (Corbett & Morgan,
1988, Morgan & Corbett, 1989, Moss et al., 1990, Davies & Corbett,
1994, 1997, Laws et al., 1995, Davies et al., 1998, ecc.) e di diversi
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studiosi russi (discussi in Paramei, 2005, 2007). Si tratta di ricerche
basate su esperimenti condotti con informanti (mediante compiti
come denominazione di tasselli colorati standardizzati, localizza-
zione dei punti focali e dei confini di riferimento dei termini utiliz-
zati, elicitazione di elenchi di termini, ecc.), in alcuni casi in combi-
nazione con l’analisi della frequenza di occorrenze in testi, del po-
tenziale derivativo e delle preferenze collocazionali dei termini.
Pur concordando sul fatto che entrambi i termini sono basici e si
distinguono sull’asse della luminosità (goluboj, chiaro vs. sinij, scu-
ro), negli studi più recenti sono state messe in evidenza delle diffe-
renze anche per quanto riguarda le loro possibilità combinatorie e i
loro significati figurati, connotativi e simbolici. Una prospettiva di
studio interessante è rappresentata dal contributo di Taylor et al.,
1997, elaborato nel quadro della “Vantage theory” di MacLaury,
che sottolinea la parziale sovrapposizione nella distribuzione dei
due lessemi e attribuisce a sinij un ruolo “dominante” da termine
basico in opposizione a goluboj, non basico con status “recessivo”.
Il libro di Berlin e Kay e, in particolare, il dibattito sullo status di
sinij e goluboj hanno dato impulso a numerose ricerche specifiche
sull’area AZZURRO-BLU anche in altre lingue: ucraino e bielorusso
(Hippisley, 2001, Starko, 2013), polacco (Stanulewicz, 2010, Skuza,
2014), inglese antico (Biggam, 1997), francese antico (Schäfer-Priess,
2011), catalano (Davies et al., 1995), greco moderno (Androulaki et al.,
2006, Athanasopoulos, 2009), nepalese (Bolton et al., 1980), turco
(Özgen & Davies, 1998, Rätsep, 2011), maltese (Borg, 2011), udmurto
(Ryabina, 2011), ecc.
Sui termini di colore in italiano si dispone di una bibliografia piut-
tosto consistente. La maggioranza degli studi, sia generali su tutto il
lessico cromatico, sia specifici sui termini corrispondenti a sinij e golu-
boj, sono posteriori a Berlin & Kay (1969). Prima di quella data vanno
segnalate due ricerche realizzate da una prospettiva romanza: la dis-
sertazione di Martius (1947) sulle denominazioni nell’area AZZUR-
RO-BLU e l’ampio saggio di Giacalone Ramat (1967) sui termini di co-
lore di origine germanica. Tracciando la storia di blu, Giacalone Ramat
si sofferma anche sui rapporti semantici che intercorrono nell’italiano
I termini di colore nell'area AZZURRO-BLU in italiano: sincronia e diacronia 115
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contemporaneo tra azzurro, blu, celeste e turchino e constata che blu ha
sostituito azzurro per indicare tutte le sfumature dell’area.
Si iscrivono sempre nell’ambito della linguistica romanza, e dal pun-
to di vista metodologico nel quadro della semantica lessicale, i lavori di
Kristol e di Grossmann dedicati all’analisi dei termini di colore in italia-
no. Mentre nel libro di Kristol (1978) la problematica è studiata sotto il
profilo sia sincronico che diacronico con riferimento anche all’italiano,
nella monografia di Grossmann (1988, v. anche Grossmann & Mazzoni,
1972, 1976) l’inquadramento tipologico dei diversi sistemi di denomina-
zione è fatto principalmente dal punto di vista sincronico e la descrizio-
ne dell’evoluzione storica della terminologia è limitata al catalano. Per
quanto riguarda l’area AZZURRO-BLU, Kristol giunge alla conclusione
che azzurro, il termine dominante dell’area, presente storicamente solo
nella lingua scritta e assente nei dialetti, si è diffuso nel parlato solo do-
po l’unificazione politica. Sempre nella lingua scritta, celeste da una par-
te e turchino e blu dall’altra indicherebbero le sfumature rispettivamente
chiare e scure dell’area (il dualismo tra turchino e blu è spiegato con la
preferenza puristica nel XIX secolo per turchino a scapito di blu di origi-
ne francese). Secondo Kristol nei dialetti sono diffusi sia celeste che blu e
turchino, ma con un ruolo preponderante di blu. Grossmann (1988: 170),
a sua volta, basandosi sui dati ricavati da fonti lessicografiche e da in-
terviste con informanti, mette in evidenza che per alcuni parlanti azzur-
ro denomina una sfumatura intermedia tra celeste e blu, che indicano ri-
spettivamente delle sfumature chiare e scure, ma per diversi altri il suo
significato si avvicina a quello di celeste e ambedue si oppongono a blu.
Il carattere estensivo di uno dei due, azzurro o blu, o di tutti e due, non-
ché il loro grado di diffusione sono inoltre soggetti a variazione diatopi-
ca, diastratica e diafasica.
Alle aree ROSSO, GIALLO e BLU è dedicata l’ampia monografia di
Skuza (2014) che, partendo da precedenti ricerche sincroniche e dia-
croniche sul lessico dei colori in italiano e in polacco, allarga il campo
d’indagine a diversi aspetti etnolinguistici e culturali. Ricordiamo an-
cora il saggio di Ronga (2009) che esamina, da una prospettiva storica,
i fattori linguistici e culturali che hanno portato all’“eccezione
dell’azzurro” in italiano in confronto ad altre lingue europee.
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Numerose ricerche recenti sull’area AZZURRO-BLU in italiano,
condotte in ambito psicolinguistico, si avvalgono di metodologie simili
a quelle che abbiamo menzionato per quanto riguarda gli studi sul rus-
so e altre lingue: ricorrono cioè a esperimenti basati su compiti di de-
nominazione, di identificazione del miglior esempio per i termini elici-
tati e, in alcuni casi, di individuazione delle preferenze collocazionali.
Segnaliamo qui: Paggetti et al. (2011), Valdegamberi et al. (2011),
Sandford (2012), Paggetti & Menegaz (2012, 2013), Paramei & Menegaz
(2013), Bimler & Uusküla (2014), Paramei et al. (2014), Uusküla (2014),
Paggetti et al. (2015). I risultati ottenuti confermano l’ipotesi che per de-
nominare l’area in questione in italiano sono necessari almeno due ter-
mini basici, da una parte blu e dall’altra azzurro e/o celeste, e mostrano
che i prototipi di questi ultimi due nonché la relazione tra loro sono de-
terminati da fattori diatopici. Si evince anche che blu, oltre a designare
le sfumature scure, può funzionare pure come iperonimo degli altri due
termini. Sono significative in tal senso le risposte a un compito relativo
ai rapporti di iponimia riportate da Sandford (2012: 287): “‘Kind of
BLUE’ task responses show that 93% of Italian informants responded
affirmatively to azzurro as a kind of blu, and 100% affirmed that celeste is
a type of blu, but blu is not a type of azzurro nor celeste. Only 10% of in-
formants claimed that celeste was a type of azzurro.” L’autrice ritiene
che, sebbene sia blu che azzurro continuino ad avere lo status di termine
basico nell’italiano d’oggi, si osserva una graduale regressione di azzur-
ro.
La strutturazione delle denominazioni che qui ci interessano è sta-
ta studiata anche in altre lingue romanze e dialetti italoromanzi parla-
ti in Italia. Kristol (1979, 1980) ha dedicato due contributi specifici alla
storia e alla diffusione di azzurro, blu, celeste e turchino nei dialetti italo-
romanzi. In base ai dati ricavati dal materiale raccolto tra il 1919 e il
1927 per la redazione dell’AIS (K. Jaberg e J. Jud, Sprach- und Sachatlas
Italiens und der Südschweiz, Zofingen, Ringier, 1928-1940), egli osserva
dei fenomeni di regressione, cioè un sistema più povero rispetto a
quello del latino, e ritiene che i dialetti italiani siano dei veri e propri
“musei” per quanto riguarda i diversi stadi evolutivi del lessico dei
colori. I dati confermerebbero inoltre le conclusioni sullo status di az-
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zurro di Kristol (1978). Vincent (1986, v. anche 1987) segnala
un’interessante coesistenza a Napoli di tre forme, blé, bleu [blø] e blu.
Si tratta di adattamenti diversi e tra loro indipendenti del francese
bleu, l’uso dei quali è determinato da fattori diastratici e diafasici. Di
terminologia dei colori in sardo si sono occupati Giacalone Ramat
(1978) e Wolf (1985). Giacalone Ramat (1978) segnala una differenzia-
zione dialettale per quanto riguarda i termini centrali dell’area AZ-
ZURRO-BLU: il termine centrale nei dialetti meridionali è l’ispanismo
aṡúlu (< sp. azul ‘azzurro-blu’), mentre in quelli settentrionali è diffuso
l’italianismo biaíttu (< it. biadetto ‘azzurrognolo’ o lat. medievale bladic-
tus). Ricordiamo anche il saggio di Zörner (2005) sul lessico dei colori
in alcuni dialetti piemontesi e francoprovenzali delle valli dell'Alto
Canavese.
Diversi aspetti morfologici dei termini di colore in italiano, cioè i
processi di formazione dei derivati e dei composti, sono stati studiati
da Grossmann & Mazzoni (1972), Grossmann (1988), Elwert (1989),
Koura (1992), Timmermann (2002) e D’Achille & Grossmann (2013).
Disponiamo, infine, di alcuni studi specifici dedicati ai significati
figurati, idiomatici e simbolici dei termini di colore in italiano, tra i
quali segnaliamo, con particolare riguardo ai neologismi, Fresu (2006)
e, in chiave contrastiva, Arcaini (1993, 1996) su italiano e francese, Phi-
lip (2003, 2006) su italiano e inglese, Bronowski (1998) e Skuza (2010,
2014) su italiano e polacco, Ross (1989) su italiano e neerlandese, Bocz
(2012) su italiano e ungherese. Ulteriori ricerche riguardano aspetti
traduttologici (Pierini, 2000) e acquisizionali (Mecacci & Serafini, 1987)
del lessico dei colori.
2. I termini di colore latini nell’area AZZURRO-BLU
Il termine con significato più ampio tra le denominazioni dell’area
AZZURRO-BLU in latino, di numero abbastanza ridotto rispetto alle
denominazioni di altre aree dello spazio cromatico come ROSSO o
GIALLO, era caerul(e)us (v. André, 1949: 162-183, Giacalone Ramat,
1967: 184-187, Kristol, 1978: 220-228, Grossmann, 1988: 111-112). Si
tratta di un derivato da caelu(m) ‘cielo’, ma probabilmente non più tra-
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sparente come tale per i parlanti, che designava soprattutto delle sfu-
mature blu piuttosto scure e, in alcuni contesti, tendenti al nero o al
verde. Era usato per qualificare il colore del cielo, del mare, la banda
blu dell’arcobaleno e per indicare una materia colorante. Anche cy-
aneus e lividus designavano delle sfumature scure: il primo, di origine
greca, occorreva come colore del cielo, dello zaffiro, di uccelli, ecc.,
mentre il secondo si riferiva soprattutto al colore blu violaceo della
pelle in conseguenza di un trauma. Per quanto riguarda le sfumature
chiare, con riferimento soprattutto agli occhi, si usava caesius, che in-
dicava quelle tendenti al grigio, mentre un altro grecismo, glaucus, si
riferiva a sfumature verdastre. L’aggettivo venetus, che designava in
particolare uno dei colori degli aurighi del circo, trae probabilmente
origine dall’etnico Venetus, nome degli abitanti della zona da dove
proveniva una corporazione di cocchieri. André (1949: 224-229) segna-
la anche alcuni derivati dai termini menzionati sopra: subcaerul(e)us e
sublividus, per le sfumature che si approssimano, rispettivamente, a
caerul(e)us e a lividus, nonché livens, un deverbale che designa la mani-
festazione del colore lividus come processo in corso.
Il lessico dei colori dell’area AZZURRO-BLU nelle lingue romanze
riflette un profondo rinnovamento rispetto al latino. Nessuno dei ter-
mini latini ha continuatori romanzi diretti con l’eccezione di venetus,
conservato in romeno (vânăt ‘blu scuro violaceo, livido’; vânătă, per el-
lissi dal sintagma pătlăgea vânătă, è il nome della melanzana) e in alcu-
ni dialetti italiani meridionali (cfr. Schweickard, 2013, che peraltro ri-
tiene improbabile la derivazione del termine di colore dall'etnico). I
termini basici della maggioranza delle lingue romanze sono di origine
persiana con mediazione araba (sp. e port. azul, it. azzurro) o germani-
ca (fr. bleu, cat. e occ. blau, it. blu attraverso il francese) e solo il romeno
dispone di un termine di origine latina, albastru, il cui etimo è un deri-
vato da albus ‘bianco’, cioè *albaster. In italiano ritroviamo tuttavia al-
cuni dei termini latini menzionati sopra, cioè ceruleo o cerulo ‘azzurro
chiaro’, cesio ‘azzurro chiaro’, glauco ‘azzurro tendente al verde’, livido
‘blu violaceo, plumbeo’. Si tratta però di parole prese in prestito e non
ereditate, in genere specifiche del registro letterario, attestate fin dai
primi secoli della storia dell’italiano e tuttora in uso.
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3. I termini di colore italiani nell’area AZZURRO-BLU
Lo studio della distribuzione dei termini italiani dell’area AZ-
ZURRO-BLU può essere oggi ulteriormente approfondito, sia in sin-
cronia che in diacronia, grazie alla disponibilità di ampi corpora con-
sultabili elettronicamente. In questa sede studieremo i rapporti se-
mantici che intercorrono tra questi termini nei diversi stadi della sto-
ria dell’italiano per arrivare all’italiano contemporaneo. Ci sofferme-
remo anche sui loro significati figurati e sulle loro possibilità di costi-
tuire basi per termini di colore derivati e composti.
I dati che discuteremo sono stati estratti dai seguenti corpora:
la Repubblica (testi del quotidiano dal 1985 al 2000, circa 380 milioni di tokens),
http://sslmitdevonline.sslmit.unibo.it/corpora/corpus.php?path=&name=Repub-
blica
DiaCORIS (testi in prosa di diversi tipi dal 1861 al 2001, circa 25 milioni
di tokens), http://corpora.ficlit.unibo.it/DiaCORIS/
PTLLIN (testi letterari in prosa dal 1947 al 2006), DVD-ROM
OVI (testi italiani antichi anteriori al 1375, circa 23 milioni di tokens, cor-
pus di riferimento del TLIO), http://gattoweb.ovi.cnr.it/
MIDIA (testi di diversi tipi dall’inizio del XIII secolo al 1947, circa 7,5 mi-
lioni di tokens), http://www.corpusmidia.unito.it/
BIZ (testi letterari dal Duecento ai primi decenni del XX secolo), DVD-
ROM
BADIP – Corpus LIP (testi di diversi tipi di parlato raccolti tra 1990-1992
a Milano, Firenze, Roma e Napoli, circa 500.000 di tokens),
http://badip.uni-graz.at/it/.
3.1. Azzurro, blu, celeste e turchino dall’italiano antico all’Ottocento
Ricostruiamo anzitutto la storia dei termini centrali, cioè azzurro,
blu, celeste e turchino.
Azzurro, come si è detto, è parola di origine persiana (lāžward), entra-
ta in italiano attraverso l’arabo. È documentata in latino già nel sec. IX
come lazurus e in italiano antico dal sec. XIII con numerose varianti
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formali (v. in TLIO aççurro, açuro, açurro, agiur, agiurro, arzuro, azule,
azur, azurlo, azuro, azurro, azzuro, laçur, lagiuro, lazuro). Indicava in origi-
ne il lapislazzuli. Il passaggio semantico a nome di sostanze coloranti e
a vero e proprio termine di colore si ha già in italiano antico, dove az-
zurro si riferisce al colore di stoffe, indumenti, elementi araldici e anche
del cielo (“lo die …. lo cielo azzurro chiaro, e la notte … quello azzurro
più oscuro”, Restoro d’Arezzo, La composizione del mondo colle sue cascio-
ni, 1282). Azzurro ha 2 occorrenze nell’Inferno dantesco e 3 nelle opere di
Boccaccio. A proposito di Dante, secondo Perrone (2001), i termini ri-
conducibili all’area AZZURRO-BLU sono pari solo al 2% del totale del
lessico cromatico dantesco (le altre denominazioni sarebbero suddivise
tra le seguenti aree: BIANCO 31%, NERO 26%, ROSSO 19%, VERDE
14%, GIALLO 8%). In tutti i corpora diacronici azzurro ha un gran nu-
mero di occorrenze. Si trova prevalentemente (ma non esclusivamente)
nei testi letterari, per qualificare il colore di diverse entità (cielo, mare,
laghi, monti, fiori, uccelli; occhi; pietre preziose; drappi, stoffe, indu-
menti, stemmi, ecc.). Il termine compare molto spesso anche come no-
me e, specie nei trattati di pittura, fa parte di sintagmi che indicano so-
stanze coloranti (azzurro della Magna / d’Alemagna, azzurro oltramarino,
ecc.). Che nell’italiano scritto antico e moderno azzurro sia stato il termi-
ne basico dell’area AZZURRO-BLU pare confermato dal fatto che è
quello che compare più spesso – e fin dalle epoche più antiche – in elen-
chi di colori, come ad es.: “Che son queste? son elle rosse? son elle az-
zurre? son elle nere? non son elle bianche?” (Franco Sacchetti, Trecento-
novelle, fine sec. XIV [si tratta di lenzuola]); “Altri sono stati di parere
che i principali [colori] sieno sette, cioè il bianco, il nero, il giallo, il ros-
so, il verde, la porpora, e l’azzurro” (Filippo Baldinucci, Vocabolario to-
scano dell’arte del disegno, 1681).
Blu è un germanismo entrato in italiano per influsso del francese
bleu a partire dalla fine del sec. XVII. È usato inizialmente (anche nelle
varianti blo, blé o nella forma non adattata bleu) per qualificare il colore
di stoffe, uniformi o vessilli militari (Dardi, 1990). Nei corpora diacro-
nici ha un numero non elevato di attestazioni ed è documentato anche
come nome (accolto, dopo qualche iniziale resistenza, anche nella
terminologia dei tintori fiorentini, v. Gargiolli, 1868). Indica sfumature
I termini di colore nell'area AZZURRO-BLU in italiano: sincronia e diacronia 121
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scure per lo più riferite a indumenti, talvolta a oggetti, a occhi, al ma-
re, al cielo. La forma non adattata bleu è ampiamente documentata
nell’Ottocento2; occorre, ad es., in moltissimi composti diffusi nel lin-
guaggio della moda, come bleu sultano (Sergio, 2010). La fortuna di
bleu dura fino agli anni Quaranta del Novecento anche se suscita resi-
stenze puristiche e c’è chi propone di sostituirlo con turchino (cfr. Kri-
stol, 1978, 1979). Quando bleu viene inserito negli elenchi delle parole
straniere che il fascismo intendeva eliminare, il sostituto indicato è blu
(Raffaelli, 2010) ed è sempre blu, al posto di bleu, che viene riproposto
successivamente dal purismo del secondo dopoguerra (Messina,
1965). Legato alla fortuna di blu nel linguaggio della moda è lo pseu-
dofrancesismo bluette (bluet in francese è il nome del fiordaliso), che
indica, sempre con riferimento a indumenti, una sfumatura più tenue.
In italiano antico troviamo già dei termini di colore riconducibili al
lat. tardo blavus (documentato nel sec. VII, cfr. Pfister, 1999) che ha la
stessa base germanica del francese bleu (*blēwa-). Si tratta di bioio (o
biodo, bloio, broio) e biavo (o biado, blavo), usati quasi esclusivamente per
designare il colore di tessuti (v. TLIO). Lo stesso vale per il derivato
biavetto (o biaveto, blaveto, biadetto, biadeto) e altri termini in relazione
con biavo (sbiavo, sbiavato, sbiadato, sbiadito, ecc.). Tutti sembrano indi-
care, diversamente dal moderno blu, una sfumatura chiara. Nella lin-
gua letteraria basata sul toscano, tra questi termini e blu c’è soluzione
di continuità. Nei testi posteriori al Trecento biavo, biado, biadetto han-
no solo isolate attestazioni: l’azzurro di biadetto è una sostanza coloran-
te citata nel Vocabolario (1681) del Baldinucci; nel Novecento Pirandel-
2 Un’interessante testimonianza della fortuna di bleu la troviamo nel libretto della Bohème
di Ruggero Leoncavallo, del 1897 (consultabile online all’indirizzo http://www.librettidope-ra.it/boheme_l/boheme_l.html). Nel II atto, nel corso di una festa, il musicista Schaunard propone agli invitati una sua inedita cantata in sol maggiore che esegue lui stesso accompa-gnandosi al pianoforte. La cantata è intitolata “L’influenza del bleu sulle arti” e nei versi tro-viamo un’ampia varietà di denominazioni di diverse sfumature: “SCHAUNARD: ‘Alza l’occhio celeste / la bella al ciel turchino; / e l’azzurra sua veste / specchia nel cilestrino / lago, che le sussurra / mestamente, vicin / è la montagna...’ PARTE DEGLI INVITATI (interrompendo): ‘Azzur-ra!’ / SCHAUNARD (continua): ‘Bacia il cielo...’ ALTRI INVITATI (come i primi): ‘Turchin!’ / SCHAUNARD (continua): ‘Ed in quel pio sussurro / l’azzurra onda parlò... / TUTTI (urlando): ‘Ahimè! Non c’è più azzurro! / Schaunard tutto il comprò!’”.
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lo parla di occhi biavi e Montale di tinte ora scarlatte ora biade. Molte del-
le forme dialettali moderne di blu registrate da Pfister (1999) potrebbe-
ro costituire anch’esse dei continuatori del lat. tardo blavus. Altre, in-
vece, derivano direttamente dal francese bleu e sono entrate nei dialet-
ti in momenti diversi (dal Medioevo in poi), a seconda dell’epoca di
maggiore contatto con la cultura francese.
Celeste è un termine di derivazione latina sul piano formale, ma
l’aggettivo caelestis non aveva nel latino classico significato cromatico. Si
tratta di uno sviluppo semantico che risale già all’italiano antico. Le
prime attestazioni del termine con questo significato si datano al sec.
XIII e sono sostanzialmente coeve a quelle in cui celeste significa ‘del cie-
lo’, ‘divino’. In certi contesti il significato dell’aggettivo risulta ambiguo
(in particolare quando qualifica nomi come luce, lume, raggio, ecc.). Il
termine compare in italiano antico in numerose altre forme (v. in TLIO
çeleste, celesto, celestro, celleste, cielesstre, cieleste, cielesto, cielestre, cielestro,
cileste, cilesto, cilestre, cilestro, zeleste, zelestro, zileste). Tra queste, cilestro
(formato per analogia con terrestre e poi inserito nella classe degli agget-
tivi in -o) assume presto un significato solo cromatico, documentato in
Dante e in Boccaccio, ma oggi è in disuso. Invece il derivato cilestrino
non è ancora sparito del tutto dall’uso letterario. Nei corpora diacronici
celeste occorre molto più raramente come nome rispetto ad azzurro. In
italiano antico è riferito in genere al colore di stoffe e indumenti, ma an-
che di pietre preziose, e indica una sfumatura più chiara rispetto ad az-
zurro. Nella lingua letteraria posteriore si definiscono come celesti anche
gli occhi, l’acqua, l’aria, vari oggetti e talvolta, per estensione metonimi-
ca, anche le persone che indossano abiti di questo colore.
Turchino deriva da turco. È documentato già nel Trecento e qualifi-
ca per lo più stoffe, indumenti, vessilli: probabilmente in origine indi-
cava la provenienza dei tessuti e poi il loro colore. Il termine si usava
anche per indicare la pietra preziosa più nota come turchese. Se pure
meno spesso rispetto ad azzurro, turchino compare in elenchi di colori,
in particolare nelle descrizioni dell’arcobaleno (“si distinguono sette
colori, che possono considerarsi come primitivi, e sono il rosso,
l’arancio, il giallo, il verde, il turchino, l’indaco e il violetto”, Leopardi,
Storia dell’astronomia, 1813). Ben diffuso nei dialetti, come documenta
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anche Schweickard (2013), turchino non è dunque esclusivo della lin-
gua letteraria. Nei corpora diacronici indica una sfumatura non sem-
pre ben identificabile soprattutto di stoffe, indumenti e oggetti vari,
ma spesso, anche di occhi, ombre, cielo, mare, monti, aria. Il termine è
usato anche come nome (occorre, ad es., accanto a blu, celeste e azzurro,
nella terminologia dei tintori fiorentini, v. Gargiolli, 1868). Il suo uso si
espande per indicare le sfumature scure soprattutto tra Ottocento e
Novecento, proprio quando è ormai forte la concorrenza di blu. Oggi
turchino è un termine desueto che occorre, come vedremo, quasi solo
in alcune espressioni idiomatiche. Soltanto in area toscana si ha qual-
che indizio di sopravvivenza del termine, che convive tuttora con blu,
azzurro e celeste tra i nomi dei colori delle insegne delle contrade sene-
si.
3.2. Azzurro, blu, celeste e turchino dalla fine dell’Ottocento ad oggi
Per uno studio più approfondito dell’uso di azzurro, blu, celeste e tur-
chino in testi degli ultimi decenni del XIX, del XX e dell’inizio del XXI
secolo, abbiamo fatto ricorso soprattutto a due corpora: DiaCORIS e la
Repubblica. Prima di addentrarci nell’analisi delle collocazioni indichia-
mo alcuni dati numerici. La Tab. 1 riporta il numero complessivo delle
occorrenze delle varie forme dei quattro termini nei due corpora:
azzurro blu celeste turchino
DiaCORIS 1729 446 861 389
la Repubblica 18555 16938 2965 275
Tab. 1: Numero complessivo delle occorrenze nei due corpora
L’analisi dei contesti ci mostra però che una parte delle collocazio-
ni è riconducibile a significati figurati, a fraseologismi e a nomi propri
(nel caso di celeste, soprattutto agli altri significati del termine, cioè
‘del cielo’, ‘divino’), con frequenti calchi su altre lingue. Per renderci
conto del peso numerico di questo tipo di contesti, la cui varietà per
azzurro e blu è notevolmente aumentata nella seconda parte del Nove-
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cento, abbiamo fatto un calcolo approssimativo delle occorrenze nel
corpus la Repubblica, che contiene testi più recenti e più numerosi. Da
questo calcolo si può desumere che si tratta di circa il 50% delle collo-
cazioni di blu, il 60% di turchino, il 65% di azzurro e il 75% di celeste. Per
quanto riguarda azzurro, la frequenza di questo tipo di collocazioni si
deve in primo luogo al fatto che è considerato il colore nazionale della
Repubblica Italiana. L’origine risale alla presenza del colore nei vessil-
li, bandiere, sciarpe dei militari, ecc. della casa reale dei Savoia ed è
diventato il colore ufficiale delle squadre sportive nazionali italiane.
La divisa sportiva nazionale è la maglia azzurra, anche se la sua tonali-
tà può variare dal più chiaro al più scuro, e azzurro è usato, per esten-
sione metonimica, per qualificare o denominare gli sportivi che rap-
presentano l’Italia, gli allenatori, i luoghi, i concetti astratti, in sostan-
za tutto ciò che ruota attorno alle squadre nazionali. Con un meccani-
smo simile, uno o più colori (i “colori sociali”) possono identificare
una società sportiva. I termini azzuro, blu, celeste, usati per indicare i
colori delle maglie, bandiere, ecc., occorrono anche per denominare gli
sportivi, i tifosi, ecc. delle società rispettive (v. anche sotto 3.4.).
L’assenza di turchino in questo tipo di contesti si deve probabilmente
al legame con il nome e l’aggettivo etnico turco, che lo rende inutiliz-
zabile come “colore sociale” di società sportive italiane o straniere che
non siano della Turchia, la cui maglia della nazionale, peraltro, è ros-
sonera.
DiaCORIS ci consente di indicare altri dati numerici rilevanti per
quanto riguarda l’andamento della numerosità delle occorrenze nei 5
sottoperiodi cronologici ai quali appartengono i testi del corpus (Tab. 2):
DiaCORIS azzurro blu celeste turchino
1861-1900 305 27 314 121
1901-1922 286 10 90 122
1923-1945 464 32 143 74
1946-1967 429 185 145 54
1968-2001 245 192 169 18
Tab. 2: Numerosità delle occorrenze nei 5 sottoperiodi cronologici di DiaCORIS
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I dati numerici ricavabili dai due corpora confermano l’ipotesi,
formulata in studi precedenti, che in italiano nel XX secolo, e in parti-
colare negli ultimi decenni, è in corso una ristrutturazione dell’area
AZZURRO-BLU: blu si diffonde sempre di più anche a scapito di az-
zurro e di celeste, mentre l’uso di turchino è in fortissimo declino.
I quattro aggettivi qualificano dei nomi che appartengono grosso
modo alle stesse aree semantiche ma occorrono con frequenza diversa
in funzione di esse. Vediamo più dettagliatamente le collocazioni dei
tre termini tuttora frequenti, cioè azzurro, celeste e blu.
Tutti e tre, e in particolare blu, qualificano in primo luogo nomi di
tessuti, di indumenti e di accessori che completano l’abbigliamento.
Azzurro e celeste designano le sfumature più chiare e blu quelle più
scure: la camicia azzurra o celeste con la giacca, il maglione, i pantaloni,
la cravatta blu costituiscono alcune delle collocazioni più frequenti.
Nello stesso indumento possono essere presenti delle sfumature più
chiare e più scure come, ad es., un vestito o una camicia a righine blu e
azzurre.
Con riferimento al colore di parti del corpo umano, gli occhi sono
per eccellenza azzurri, molto più raramente celesti o blu, mentre sono
qualificate prevalentemente come blu le macchie sulla pelle originate
da ematomi o da cianosi oppure le labbra che diventano di questo co-
lore per azione del freddo. Azzurro e blu sono usati anche con riferi-
mento alle vene e alle sfumature ottenute mediante tintura come nel
caso di capelli, unghie e pelle tatuata. Gli uomini blu sono i tuareg, il
cui mantello tradizionale di questo colore talvolta tinge la pelle.
Sia azzurro che blu, raramente celeste, occorrono per descrivere il co-
lore o uno dei colori di diversi uccelli, farfalle, pesci e fanno parte di de-
nominazioni di categorie tassonomiche (ad es. sula dai piedi azzur-
ri/piediazzurri, volpe azzurra, varietà della volpe artica, tonno pinna blu, or-
so azzurro/blu tibetano). Da notare che è definita come pesce azzurro una
classe di varietà ittiche di piccola pezzatura anche se di vari colori.
Il colore o i colori di diversi fiori come, ad es. l’iris e l’anemone, so-
no designati sia da azzurro che da blu; per qualificare le ortensie, le
campanule e le genziane è usato anche celeste. Con riferimento ad al-
cuni frutti e piante, come i mirtilli, le prugne e le melanzane, troviamo
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blu, ma possono essere qualificati come blu anche altri frutti e prodotti
alimentari se deteriorati o contaminati (ad es. mozzarella blu).
Il colore del cielo, e in particolare del cielo diurno sereno, è indica-
to prevalentemente come azzurro, mentre blu lo troviamo con riferi-
mento soprattutto al colore che esso assume dopo il calar del sole. Tut-
ti e due qualificano il colore del mare, dei fiumi, dei laghi, ecc. Per de-
scrivere i colori di pietre preziose come ad es. diamanti, zaffiri, oltre a
azzurro e blu, si ricorre anche a celeste, che è usato invece molto rara-
mente per indicare il colore del cielo, del mare, ecc.
La luce artificiale, emanata da mezzi di illuminazione, può essere
sia azzurra che blu, ma con una netta preferenza per blu quando si trat-
ta di quella emessa dai lampeggianti a scopo di segnalazione.
Per quanto riguarda altri contesti in cui i tre aggettivi qualificano
nomi di entità inanimate, oltre agli indumenti che abbiamo menziona-
to sopra, si hanno numerosi riferimenti al colore di arredi, mobili e
suppellettili nonché di edifici e di materiali usati in edilizia.
Per indicare il colore della carta e dei prodotti cartacei, di rivesti-
menti di libri, di segni grafici nonché di strumenti per scrivere o per
disegnare, troviamo sia blu, prevalente, sia azzurro e celeste; dalla con-
suetudine, in ambiente scolastico, di sottolineare con la matita blu gli
errori più gravi nasce l’espressione idiomatica errore blu (in opposizio-
ne a errore rosso, che indica un errore meno grave). Con i nomi delle
sostanze coloranti e per descrivere i colori presenti nei quadri occor-
rono tutti e tre gli aggettivi.
Si osserva una certa prevalenza di blu su azzurro, e soprattutto su
celeste, per designare i colori presenti nelle bandiere, stendardi, stri-
scioni, ecc. In particolare è blu la bandiera internazionale assegnata al-
le località turistiche balneari che rispettano criteri relativi alla gestione
sostenibile del territorio. Al colore della bandiera delle Nazioni Unite
e dell’elmetto in dotazione alle truppe è collegato casco blu, nome usa-
to metonimicamente per riferirsi ai soldati delle forze internazionali.
Blu prevale su azzurro, e tutti e due su celeste, anche per indicare il co-
lore di diversi mezzi di locomozione, in particolare di automobili, ma an-
che di aeromobili, imbarcazioni, ecc. Gli automezzi a disposizione di poli-
tici o alti funzionari dello Stato o della pubblica amministrazione sono
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denominati auto blu e, per analogia, si hanno anche gli elicotteri, le bici-
clette blu (e anche i telefonini blu, cioè i cellulari di servizio).
Il numero più ridotto di occorrenze di turchino nei corpora la Re-
pubblica e DiaCORIS rende più difficile fare un’analisi più dettagliata
delle preferenze collocazionali del termine. Esso indica sfumature più
scure e qualifica soprattutto indumenti, ma talvolta anche il cielo, il
mare, gli occhi, ecc.
Legami di natura metonimica e associazioni semantiche derivate
da valori simbolici spiegano la presenza dei quattro aggettivi, in parti-
colare di azzurro e blu, in diversi altri contesti fin qui non menzionati.
Diamo solo alcuni esempi di collocazioni stabili che occorrono fre-
quentemente nei nostri corpora.
Sia azzurro che blu sono anche “colori politici”, si usano, cioè, per
rappresentare simbolicamente un partito politico, i suoi membri e so-
stenitori, ecc. Negli ultimi decenni, ad es., azzurro è stato associato al
partito Forza Italia. Sempre azzurro è associato ai neonati di sesso ma-
schile nell’espressione fiocco azzurro (in opposizione a fiocco rosa) e in
generale alla tutela dei minori in telefono azzurro. Principe azzurro3, no-
me di un personaggio tipo che appare in numerose fiabe, di probabile
origine francese (D’Achille, 2011), designa per antonomasia un ideale
romantico di compagno o marito. Antonomastiche sono anche le
espressioni fata turchina o fata dai capelli turchini, relative al personag-
gio del Pinocchio di Collodi, usate, talvolta ironicamente, con riferi-
mento alla benefattrice, protettrice o consigliera di qualcuno.
Sono motivate metonimicamente denominazioni classificanti di per-
sone: ad es., le tute blu o i colletti blu (in contrapposizione ai colletti bian-
chi) sono coloro che svolgono lavori manuali; una cintura blu è colui che
ha raggiunto un determinato grado nel karate (in opposizione a cintura
bianca, cintura gialla, ecc.). Le strisce blu e la zona blu sono espressioni
usate nella regolamentazione delle aree di circolazione e di parcheggio
3 Da notare però che il prince Bleu ne Les Idées de Madame Aubray di Alexandre Du-
mas fils, rappresentata per la prima volta il 16 marzo 1867 (cfr. Théatre complet , vol. IV, Paris, Calmann-Lévy, 1870, p. 230), nelle due versioni italiane coeve è tradotto come il principe Bleu in una (Le idee della signora Aubray, Milano, Barbini, 1868, p. 15), e come il principe turchino nell’altra (Le idee di madama Aubray, Milano, Bettoni, 1868, p. 13).
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delle automobili, mentre bollino blu riguarda la certificazione di buon
funzionamento di auto, di apparecchi, ecc. Sempre metonimica è
l’origine di espressioni come paura blu o fifa blu, con riferimento a un
grande spavento che rende lividi in volto, oppure sangue blu che indica
discendenza aristocratica. La motivazione di quest’ultima sembra risali-
re al fatto che una pelle molto chiara con le vene dei polsi bluastri ben
visibili costituiva segno di nobiltà.
Azzurro e blu e, in misura molto minore, celeste e turchino occorrono
anche in diversi tipi di nomi propri: di luoghi (Costa Azzurra, Grotta
Azzurra, Monte Turchino), di persone (femminile: Azzurra, sia femmini-
le sia maschile: Celeste), di istituzioni (Arma azzurra è il nome
dell’aeronautica militare), di imprese (Blu era una società di teleco-
municazioni), di locali pubblici (Bar Trattoria Blu a Milano, Hotel Resi-
dence Azzurro all’Aquila, Hotel Celeste a Procida, Sassi Turchini - ostello
all’Isola d’Elba), di prodotti (la birra Nastro Azzurro, il detersivo ACE
Denso Blu, il gasolio Blu Diesel), di mezzi di trasporto (i treni Freccia az-
zurra), di opere letterarie, musicali e d’arte (Celeste, azzurro e blu – al-
bum di canzoni di Gianni Morandi; Nel blu dipinto di blu (Volare) – can-
zone di Domenico Modugno; in alcuni casi di traduzioni si hanno va-
rianti sia con azzurro sia con blu: ad es., Bluebird di Bukowski tradotto
come Uccellino azzurro o Uccellino blu, Der Blaue Reiter di Kandinsky
come Il cavaliere azzurro o Il cavaliere blu), ecc.
Altri termini dell’area AZZURRO-BLU sono formati ricorrendo a
diverse strategie morfologiche. In 3.3.–3.5. illustreremo brevemente le
principali modalità di formazione senza soffermarci sulle eventuali
differenze che riguardano le loro possibilità combinatorie.
3.3. Azzurro, blu, celeste e turchino come basi di derivazione
I quattro termini che abbiamo esaminato possono costituire basi
per la derivazione di altri aggettivi di colore (Grossmann & Mazzoni,
1972, Grossmann, 1988, Merlini Barbaresi, 2004). La maggioranza dei
derivati aggettivali appartiene al primo dei due tipi seguenti:
1) derivati formati mediante suffissazione che indicano approssi-
mazione, dal punto di vista della tonalità, della luminosità e della sa-
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turazione, al punto focale del colore designato dalla base. Le fonti les-
sicografiche registrano diversi aggettivi che designano una sfumatura
approssimativamente azzurra (azzurrino e azzurrigno, attestati già, ri-
spettivamente, nei secc. XIII e XIV, azzurrognolo, azzurrastro, azzurretto,
azzurriccio), blu (bluastro), celeste (celestino) e turchina (turchinetto, tur-
chiniccio, turchinaccio, turchinuccio, turchinastro). Si tratta di termini che,
con l’eccezione di azzurrino e, in misura minore, di azzurrognolo e di
bluastro, sono piuttosto rari, se non assenti, nel corpus la Repubblica e
in DiaCORIS. Azzurrino designa anche, per metonimia, gli sportivi
giovani che rappresentano l’Italia. Va ricordato che in italiano la scelta
di uno specifico suffisso con valore approssimativo / valutativo, come
accade anche con altri tipi di basi aggettivali, può dipendere da fattori
di carattere diatopico e diafasico;
2) derivati con il suffisso -issimo che indicano il grado massimo di
luminosità e saturazione rispetto a una norma implicita. Nei corpora
testuali troviamo azzurrissimo, con riferimento in particolare agli occhi,
al cielo e al mare; celestissimo e turchinissimo sono rari, ed esempi di
bluissimo si hanno solo interrogando la rete (tramite Google, il
10.04.2015). Da notare che in italiano si ha la possibilità di esprimere
l’intensificazione di una qualità anche con il prefisso stra-, che però
modifica molto raramente termini di colore. Straazzurro è presente so-
lo in Internet, mentre strablu è una forma lessicalizzata che designa un
tipo di formaggio.
Azzurro, blu, celeste e turchino possono costituire basi anche per la
derivazione di nomi e di verbi. Derivati verbali (cfr. Timmermann,
2002), formati mediante suffissazione, parasintesi o conversione, si
hanno soprattutto da azzurro. Si tratta di (in)azzurrare, usato anche nel-
la forma pronominale (in)azzurrarsi, e azzurreggiare. Nelle fonti lessi-
cografiche sono registrati anche verbi di uso piuttosto raro come in-
turchinire, inturchinarsi, turchineggiare, mentre solo nella rete troviamo
blueggiare. La rete ci fornisce anche esempi di aggettivi a loro volta de-
rivati dai verbi in -eggiare, cioè azzurreggiante, blueggiante, turchineg-
giante, che designano la manifestazione approssimativa di un colore in
quanto processo in corso. Per quanto riguarda i derivati nominali, nei
corpora sono frequenti i nomi di qualità formati mediante conversione
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(l’azzurro dei suoi occhi, il blu del cielo, il turchino del mare, ecc.) e, più ra-
ramente, mediante suffissazione (azzurrità). Dal verbo azzurrare, men-
zionato sopra, derivano altri nomi come azzurramento, nonché azzur-
raggio e azzurrante, termini tecnici relativi a coloranti e procedimenti
connessi al loro uso.
3.4. Azzurro, blu, celeste e turchino come costituenti di composti
Una strategia alla quale si ricorre frequentemente per arricchire
l’inventario dei termini di colore consiste nella formazione di compo-
sti costituiti da due aggettivi o da un aggettivo e un nome. Queste co-
struzioni, spesso occasionalismi, sia letterari sia giornalistici, pongono
a chi intende analizzarle gli stessi problemi (grafia, allomorfia, caratte-
ristiche flessive, ecc.) di tutti i composti aggettivali in italiano (cfr.
D’Achille & Grossmann, 2009, 2010, Grossmann & Rainer, 2009, e, con
particolare riguardo ai termini di colore composti, Grossmann, 1988,
D’Achille & Grossmann, 2013). Per quanto riguarda il rapporto tra i
costituenti, si hanno due tipi: composti coordinativi e composti su-
bordinativi.
Nel gruppo dei composti coordinativi possiamo identificare tre
sottotipi, diffusi soprattutto a partire dal XVIII secolo, ma di cui si
hanno anche isolati esempi anteriori:
1) costruzioni che qualificano delle entità bi- o multicolori come
bandiere, vestiario, ecc. (tipo drappi blu bianchi, bandiere blu-bianco-
rosse), oppure designano i colori delle maglie (i cosiddetti “colori so-
ciali”) delle squadre sportive, in particolare calcistiche, e, per metoni-
mia, i giocatori, i tifosi, gli allenatori, i dirigenti, ecc. Dall’indagine di
D’Achille (2014) su questo tipo di termini, tratti dalla documentazione
novecentesca del CONI (http://dlib.coninet.it/), si possono citare i
biancazzurri (successivamente chiamati biancocelesti) della Lazio, i ros-
soblù del Genoa, del Cagliari e del Bologna, i gialloblù del Verona, del
Chievo e del Parma. Da notare l’assenza di turchino anche in questo
tipo di denominazioni;
2) costruzioni, che indicano una tonalità intermedia tra i due colori
designati dai costituenti (tipo occhi azzurro-grigi, capelli blu-neri);
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3) formazioni reduplicative (di natura più sintattica), del tipo occhi
azzurri azzurri, che indicano, come i derivati in -issimo menzionati so-
pra, la presenza del colore al grado massimo di luminosità e satura-
zione (cfr. Rainer, 1983).
La maggioranza dei composti nei corpora è costituita da costruzio-
ni subordinative con la testa a sinistra. Salvo quelle appartenenti al
sottotipo 1), presenti già nell’italiano antico, esse sono documentate
dal secolo XVIII. Il primo costituente è l’iperonimo della costruzione
mentre il secondo funge da modificatore. I composti di questo tipo in-
dicano una sfumatura particolare del colore designato dalla testa. Il
modificatore può essere:
1) un aggettivo che si riferisce ai gradi di luminosità e di saturazio-
ne del colore (tipo azzurro-chiaro, blu intenso). Questo tipo di costru-
zioni è molto frequente nei corpora la Repubblica e DiaCORIS e si ha
una notevole varietà di modificatori aggettivali. Troviamo sia azzurro
sia blu in combinazione con aggettivi come, ad es., acceso, brillante,
chiaro, cupo, elettrico, intenso, pallido, profondo, sbiadito, scuro, vivo. Altri
ancora, come forte, spento, tenue, modificano azzurro ma non blu, men-
tre fiammante, opaco, slavato, squillante, occorrono con blu e non con az-
zurro. Alcuni di questi modificatori occorrono anche con celeste e con
turchino;
2) un derivato da un altro aggettivo di colore che indica una tonali-
tà alla quale si avvicina il colore designato dalla testa (ad es., azzurro
grigiastro, azzurro verdognolo, azzurro violaceo; blu verdastro, blu violaceo;
celeste biancastro);
3) un nome (tipo blu notte), oppure un aggettivo denominale (tipo az-
zurro-smeraldino), che specifica la sfumatura mediante una comparazione
con il colore attribuito per eccellenza al suo referente. Esaminando i com-
posti formati da azzurro o blu + N nei corpora la Repubblica e DiaCORIS,
troviamo una grande varietà di nomi che possono fungere come modifi-
catori dei due aggettivi (cfr. Kristol, 1978, Grossmann, 1988: 182-199). Si
hanno nomi di metalli/minerali, pietre/gioielli, materie coloranti, fiori,
frutta/verdure, relativi al mondo animale e vari altri. Nomi come, ad es.,
acciaio, carta da zucchero, cielo, cobalto, ghiaccio, indaco, mare, notte, pervinca,
petrolio, occorrono in composti sia con azzurro sia con blu ma con frequen-
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za diversa. Il modificatore più frequente di azzurro è cielo, mentre blu oc-
corre molto spesso con notte. Altri nomi, come acqua, fiordaliso, glicine, la-
vanda, polvere, ecc., occorrono solo con azzurro; altri ancora, come asfalto,
inchiostro, lavagna, melanzana, mirtillo, zaffiro, ecc., solo con blu. Per quanto
riguarda gli altri due termini studiati, cioè celeste e turchino, anch’essi pos-
sono costituire costituenti di composti A+N ma il numero dei tipi e della
loro frequenza è più ridotto. Come modificatori di celeste si hanno, ad es.,
acqua, ortensia, polvere. Turchino, invece, lo troviamo in combinazione solo
con pavone. Mentre questo tipo di composti indica una sfumatura di az-
zurro, blu, celeste, turchino che è tipica per il referente del nome, in altri casi
si tratta del colore di un oggetto tipico o strettamente legato al referente
(ad es., azzurro forzista, blu aviazione). Il costituente nominale è in genere
un nome comune; non mancano tuttavia esempi di nomi propri di perso-
ne (azzurro Tiepolo, blu Savoia) e di istituzioni (azzurro Europa, blu Nazioni
Unite). Semanticamente sono analoghi alcuni composti costituiti da azzur-
ro o blu e un aggettivo denominale come, ad es., azzurro ministeriale, blu
berlusconiano. La proliferazione dei termini di colore composti del tipo
A+N nel Novecento si deve in particolare all’industria collegata alla mo-
da e ad alcuni mestieri e attività merceologiche che immettono sul merca-
to tonalità sempre nuove spesso indicate con nomi coniati appositamente
e diffusi poi dai mass-media. Un caso interessante è costituito, ad es., dai
nomi dei colori delle automobili (Caffarelli, 2014). La scelta dei modifica-
tori nominali, apparentemente arbitraria, è spesso motivata dalla rilevan-
za culturale di certi referenti nella comunità linguistica italiana, e in alcu-
ni casi è influenzata da modelli stranieri.
3.5. Nomi usati come termini di colore
L’ultima strategia per creare termini di colore, che qui menzionia-
mo solo brevemente perché meno rilevante per l’argomento trattato,
consiste nel ricorso a nomi di entità aventi come tipico un determinato
colore per designare metonimicamente il colore stesso (v. Thornton,
2004: 529-530 per le caratteristiche morfologiche di questo tipo di les-
semi, interpretabili come risultati di un processo di conversione). Si
tratta sia di alcuni dei costituenti nominali dei composti esemplificati
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nel paragrafo precedente che possono occorrere anche autonomamen-
te per indicare una determinata sfumatura (tipo abito acquamarina, stof-
fa indaco), sia di altri nomi che si usano normalmente senza la copre-
senza di azzurro o blu (ad es., lago turchese). All’origine di questo tipo
di denominazioni c’è probabilmente l’ellissi da sintagmi, come ad es.:
un brillante colore di acquamarina, brillante color acquamarina, brillante az-
zurro / blu acquamarina, occhi di acquamarina.
4. Conclusioni
Rispetto alle fonti disponibili all’epoca degli studi sui termini di co-
lore in italiano di Grossmann (Grossmann, 1988, Grossmann & Mazzo-
ni, 1972, 1976), i risultati delle numerose ricerche pubblicate successi-
vamente e l’esistenza di ampi corpora testuali consultabili elettronica-
mente consentono ora un affinamento e un completamento, anche in
prospettiva diacronica, delle osservazioni abbozzate più di 25 anni fa.
Dalla nostra analisi dell’evoluzione storica e dell’uso contempora-
neo di azzurro, celeste, blu e turchino nell’italiano scritto, si evince che:
1) azzurro e blu, oggi termini dominanti dell’area, corrispondono ai cri-
teri abitualmente indicati per essere considerati termini di colore basici;
2) celeste, analizzabile dal punto di vista morfologico e trasparente
semanticamente, non può essere considerato termine di colore basico
ed è periferico rispetto ad azzurro e blu;
3) turchino, anch’esso analizzabile dal punto di vista morfologico
ma sempre meno trasparente semanticamente, da termine periferico
in fasi storiche precedenti oggi è diventato un termine desueto;
4) nella storia delle relazioni tra i quattro termini si possono identi-
ficare grosso modo tre periodi: un primo periodo (dal Trecento al Sei-
cento) nel quale azzurro è il termine centrale mentre celeste e turchino
designano delle sfumature rispettivamente chiare e più o meno scure;
un secondo periodo (dal Settecento alla prima metà del Novecento)
nel quale azzurro è ancora il termine centrale, celeste designa delle
sfumature chiare mentre turchino e blu delle sfumature scure; un terzo
periodo (seconda metà del Novecento e inizio del XXI secolo) nel qua-
le azzurro può ancora denominare una sfumatura intermedia tra cele-
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ste, chiaro, e blu, scuro, ma cede sempre di più il ruolo di termine cen-
trale a blu e si avvicina a celeste per indicare delle sfumature più chia-
re, mentre turchino è ormai del tutto marginale;
5) la notevole diffusione di blu nel XX secolo si spiega certamente
anche con l’elevato numero di calchi (sono tali vari esempi sopra citati
come caschi blu (cfr. ingl. Blue Berets o Blue Helmets), colletti blu (cfr.
ingl. blue-collars), ecc.) e di prestiti (v. blue-jeans, blue chip, ecc.) dovuti a
contatti con la cultura francese, tedesca e soprattutto inglese che han-
no un termine centrale simile (fr. bleu, ted. blau, ingl. blue);
6) il potenziale derivativo di blu e di celeste è più ridotto rispetto a
quello di azzurro e turchino; nella composizione invece prevalgono net-
tamente azzurro e blu;
7) l’uso con significati figurati e la presenza in espressioni idioma-
tiche caratterizza quasi esclusivamente azzurro e blu; il numero di que-
sto tipo di contesti con blu, anche per effetto di calchi da altre lingue, è
in continua crescita.
Ulteriori spunti per lo studio della storia delle relazioni semantiche
tra i quattro termini potrebbero essere offerti da ricerche su testi tecni-
ci specializzati (pittorici, mineralogici, gemmologici, ecc.) prodotti in
diversi periodi storici e su testi dialettali antichi e moderni.
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FILOMENA DIODATO *
IL LESSICO DEL COLORE:
BASIC COLOR TERMS O PROTOTIPI OTTIMALI?
Abstract Nella seconda metà del Novecento, nel campo della semantica del colore
si è combattuta un’ardua crociata tra i sostenitori del relativismo e quelli dell’universalismo linguistico, che hanno utilizzato l’ancoraggio alla perce-zione e la presunta stabilità denotativa delle categorie del colore a favore dell’una o dell’altra posizione teorica. Attualmente, invece, la diatriba tra l’ipotesi dei basic color concept/term tendenzialmente universali e quella dei concetti/nomi di colore del tutto o in parte linguisticamente determinati sem-bra essersi attenuata grazie alla maturazione, anche in ambito cognitivo, di un rinnovato interesse per la dimensione storico-antropologica e semiotica del linguaggio e delle lingue. Si riapre, così, una stagione in cui appare possibile contemperare relativismo e universalismo in una prospettiva unificata che consideri la natura multidimensionale dei processi di categorizzazione.
Parole chiave: semantica lessicale, linguistica cognitiva, lessico del co-
lore, categorizzazione, relativismo linguistico In the second half of the 19th century supporters of linguistic relativism and of
universalism fought a challenging crusade on the field of semantics of color. That color terms are grounded in perception and have referential stability across languages was an argument for both the theoretical positions. Nowadays, on the contrary, the dispute between the hypothesis of universal basic color concepts/terms and that of color classes as fully or partially determined by language appears strongly mitigated because of a renewed interest, even in the paradigm of cognitive science, for historical-anthropological and semiotic dimensions of language and languages. This interaction gave rise to a new season in which universalism and relativism are combined in a unified perspective which pays more attention to the multidimensional nature of categorization processes.
Keywords: lexical semantics, cognitive linguistics, color terms, categorization,
linguistic relativism
Filomena Diodato, Università degli studi di Roma “La Sapienza", [email protected]
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1. Colori, percezione e linguaggio
Il fenomeno ‘colore’ deriva dall’interazione di fattori di diversa
natura (fisica della luce, fisiologia dell’occhio, condizioni ambien-
tali momentanee, proprietà fisiche degli oggetti, modo in cui il cer-
vello riceve e interpreta le informazioni). Questa congerie di ele-
menti sembra, tuttavia, produrre un sistema lessicale stabile sul
piano crosslinguistico, al punto da far supporre che, nonostante le
talvolta evidentissime differenze interlinguistiche, vi siano elemen-
ti universali che guiderebbero o addirittura vincolerebbero i pro-
cessi di concettualizzazione/denominazione del colore nelle comu-
nità linguistiche.
Gli studi hanno mostrato, in maniera quasi incontrovertibile,
che alcuni elementi percettivi del concetto di ‘colore’ sono più sa-
lienti tra quelli disponibili per la concettualizzazione e per la libera
scelta delle comunità linguistiche ai fini della lessicalizzazione1. Per
questo, nonostante la complessità, forse soprattutto sul piano della
fisiologia della visione, il campo semantico-lessicale del colore è
stato considerato uno di quelli più semplici da indagare, sulla base
del presupposto che abbia, appunto, denotata facilmente identifica-
bili o suscettibili di verificazione percettiva2.
Nondimeno, malgrado l’apparente stabilità denotativa, la catego-
ria del colore – come tutte le altre – non è monodimensionale. Aven-
do, però, essa una solida base percettiva, l’indagine sulla categoriz-
zazione e la lessicalizzazione del colore è divenuta banco di prova
1 I colori sono concettualizzati/lessicalizzati in base alla tinta (hue, aspetto ‘croma-
tico’, che si riferisce allo spettro di luce visibile, alcune parti del quale, per lunghezza d’onda o frequenza, sono percepite come diverse l’una dall’altra), alla saturazione (la ‘purezza’ cromatica di una tinta in relazione alla quantità di grigio che contiene, dal grado più pulito a quello più sporco); al tono (la quantità di bianco/nero che una tinta contiene, dal grado più chiaro al più scuro); alla luminosità (quantità di luce che rag-giunge l’occhio, che dipende da vari fattori ambientali).
2 «Nel caso dei termini dei colori, ciascun colore riconosciuto da una lingua partico-lare può essere associato con un’area del continuum psicofisico del colore (il suo denota-tum); e i limiti di quest’area possono essere stabiliti, in modo approssimativo, ma abba-stanza valido ai nostri fini, in una metalingua neutra» (Lyons, 1977 trad. it. 1980:280).
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delle ricerche sui rapporti tra cervello, linguaggio, percezione e abili-
tà cognitive in senso ampio. Proprio l’ipotesi di una maggiore inter-
relazione tra questi elementi ha recentemente condotto a una ricon-
siderazione della letteratura tradizionale sulla categorizzazione dei
colori, articolatasi su due tesi contrapposte: quella dell’arbitrarietà
radicale, quindi del relativismo linguistico, e quella di un suo sup-
posto ancoraggio a vincoli percettivi e cognitivi specie-specifici uni-
versali.
1.1 La querelle natura/cultura tra Ottocento e Novecento
Nell’Ottocento, il dibattito sui rapporti tra percezione e linguag-
gio nel campo del colore parte da un monumentale studio di Glad-
stone (1858), che evidenzia l’assenza di alcuni colori nei poemi ome-
rici, là dove prevarrebbe la sfera del rosso, mentre sarebbe assente
quella del blu. La tesi è che il riconoscimento dei colori procede evo-
lutivamente da quelli di maggiore intensità (rosso) a quelli di minore
intensità (blu, viola): il vocabolario del colore della poesia antica ma-
nifesterebbe, dunque, l’immaturità della capacità di percepire il co-
lore al tempo in cui le opere furono composte.
Allen (1879) avanza, invece, una proposta più innovativa e vicina
alle tesi contemporanee: la percezione dei colori è il risultato dello
sviluppo neuropsicologico comune a tutta la specie, ma non c’è un
legame diretto tra percezione e lessicalizzazione dei colori. Secondo
lo studioso, il lessico poetico-letterario è naturalmente orientato a
privilegiare alcuni colori (rosso); di conseguenza, l’analisi della lin-
gua letteraria non prova nulla in merito né allo sviluppo delle facol-
tà percettive, né alle modalità di lessicalizzazione dei colori.
Successivamente, Magnus (1880) rivede una sua ipotesi iniziale a
sostegno di Gladstone per concludere, in accordo con Allen, che per-
cezione e denominazione dei colori sono processi distinti: la mancan-
za di termini di colore in una lingua non indica un’incapacità di per-
cepirli o riconoscerli3.
3 Sull’attualità del pensiero di Magnus, cfr. Schöntagand & Schäfer-Prieß (2007).
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Il dibattito ottocentesco conduce, mutatis mutandis, alle medesime que-
stioni sollevate da Berlin & Kay (1969) contro il relativismo dominante
nella prima metà del Novecento. Per Deutscher (2010, trad. it. pp. 67-8), la
discussione sul libro di Magnus segnò l’inizio della guerra campale in-
gaggiata dalla natura e dalla cultura per riaffermare la propria podestà
sui concetti del linguaggio. Allora come oggi la domanda è se i concetti di
colore siano determinati dalla nostra anatomia, ovvero dal modo in cui li
percepiamo, o siano convenzioni (linguistico)culturali.
Agli inizi del Novecento il dibattito ereditato dall’Ottocento si inscrive
in quello più ampio sui rapporti tra pensiero, linguaggio e realtà.
In chiave relativistica «debole» – asse Humboldt-Boas-Sapir – la lin-
gua influenza le categorie concettuali: lo sviluppo di un concetto è favori-
to dall’esistenza di un termine che lo denoti (così, la lingua che nomina il
blu favorisce lo sviluppo del concetto di blu). Invece, in chiave determini-
stica «forte» – derive neohumboldtiane e strutturaliste europee, teoria
whorfiana – i parlanti di lingue che non hanno un termine per un colore,
pur percependolo, non ne hanno il concetto, che in qualche modo «esiste
solo nella parola»4.
Seppur con le note differenze tra gli orientamenti strutturalisti eu-
ropei e statunitensi, su entrambe le sponde dell’Atlantico si giunge al-
la conclusione che il lessico del colore è frutto di un procedimento lin-
guistico arbitrario. Così, sia per Bloomfield (1933) sia per Hjelmslev
(1943) le classi del colore hanno natura linguistica.
Per il linguista danese, anche due lingue geograficamente coesi-
stenti (come inglese e gallese) possono rivelare differenze sia sul piano
dell’espressione sia sul piano del contenuto, ovvero nel modo in cui
tracciano i confini tra le diverse classi di colore5. Sempre a partire dai
4 La tesi relativistica neohumboldtiana, legata alla teoria dei campi lessicali, si fonda
sull’idea che la parola «soltanto come parte di una totalità (…) avrà senso, poiché solo nel campo c’è il significare» (Trier, 1931:6, trad. mia). Il pensiero dipende non solo dalla facoltà del linguaggio e dalla sua relazione con le altre capacità cognitive, bensì dal pro-cesso di formazione della singola lingua.
5 «Lo spettro dei colori, che noi conosciamo tramite l’arcobaleno, è costituito da una molteplice quantità di individui-colori e non vi è in nessun punto dello spettro un limite preciso, è tutto una sfumatura graduale che va da un’estremità all’altra. Ma la lingua, con i suoi nomi di colori, pone dei limiti precisi all’interno dello spettro. E, cosa piuttosto inte-
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nomi dei colori, Hjelmslev (1936, trad. it. 2004), citando il noto esem-
pio di anomia cromatica riportato in Weisgerber (1929), desume che i
processi di categorizzazione sono determinati non solo dal fatto che la
nostra è una specie simbolica (relativismo semiotico), ma anche dalla
struttura di una particolare lingua (relativismo linguistico).
In questo clima, che caratterizza la linguistica e le discipline socio-
antropologiche in senso ampio, il lessico del colore diviene il vessillo
con cui i sostenitori del relativismo semiotico e linguistico combattono
la battaglia contro l’universalismo (MacLaury, 1997:20).
Non a caso, uno dei maggiori contributi alla semantica dei colori, il
volume Basic Color Terms, ha come obiettivo proprio la confutazione
dell’Ipotesi Sapir-Whorf, che secondo gli autori «is a gross
overstatement» (Berlin & Kay, 1969:2).
Secondo Berlin & Kay, la traducibilità dei termini di colore smenti-
rebbe l’ipotesi del relativismo linguistico, facendo supporre
(chomskianamente) l’esistenza di una struttura profonda universale6.
Per provare l’esistenza di un numero chiuso e universale di concetti di
colori di base e di rispettivi nomi basici, essi ottengono, direttamente e
indirettamente, dati da 98 lingue7, la cui analisi conduce non solo
all’ipotesi che i parlanti, indipendentemente dalla lingua materna, sele-
zionano i colori da una lista di 11 colori di base percettivamente più sa-
lienti (bianco, nero, rosso, giallo, verde, blu, marrone, grigio, arancione, viola, ro-
sa), ma anche che le lingue selezionano i termini di colore dalla lista degli
11 colori focali secondo un preciso ordine gerarchico8.
ressante, ogni lingua pone dei propri limiti, a cui le abitudini mentali di una determinata nazione si adeguano senza riuscire a cambiarli» (Hjelmslev, 1936, trad. it. 2004:19).
6 «B&K were preoccupied by a 'deeper level' of linguistic behaviour, a level that re-vealed 'building blocks' or 'atoms' or 'tokens' in the brain. When linguistically activated, these tokens, structuring the 'colour space', became a mandatory 'code' of semantic uni-versals (later to be called 'categories'). It is to this 'code' that the original expression 'Basic Color Terms' refers» (Saunders, 2000:82).
7 Dopo il 1969 la raccolta dati è proseguita, alimentando il World Color Survey (Kay, Berlin, Maffi, Merrifield, Cook, 2009).
8 La sequenza di Berlin & Kay sarebbe una “riscoperta”: una molto simile era stata individuata nel 1867 dal filologo tedesco L. Geiger sulla base dell’analisi dei testi antichi e dei lavori omerici di Gladstone. Secondo Geiger, nelle diverse culture la percezione del colore si sviluppa seguendo lo spettro visibile, dal rosso, al giallo, al verde, al blu, al
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Le lingue che hanno due termini di colore li designeranno con
bianco e nero; se a questi si aggiunge un terzo, sarà rosso; il quarto sarà
verde o giallo; il quinto, verde o giallo (a seconda della scelta preceden-
te); il sesto, blu; il settimo, marrone; i rimanenti non seguono, invece,
un ordine particolare. In più, ogni termine implica tutti quelli alla sua
sinistra (se una lingua possiede il blu avrà anche il verde, il giallo, il ros-
so, il nero e il bianco), ma non vale l’inverso: se una lingua possiede il
verde è impossibile prevedere se abbia o meno il blu o il marrone.
A livello linguistico i BCT mostrano caratteristiche peculiari: sono
morfologicamente semplici; brevi; non subordinati ad altri termini di
colore; non soggetti a restrizioni contestuali o di collocazione; psicolo-
gicamente, culturalmente e socialmente salienti per i parlanti; più fre-
quenti nei testi, nel parlato e nelle espressioni idiomatiche.
In sostanza, i BCT sono etichette linguistiche convenzionalmente as-
sociate ai BCC (basic color concept). A loro volta, i BCC denotano non
l’intera classe, ma solo il nucleo della categoria (focus) poiché i confini ca-
tegoriali sono sensibili ai contesti, variabili tra i parlanti di una stessa lin-
gua e comunque non equivalenti nelle lingue (Berlin & Kay, 1969: 13).
A sostegno della teoria dei BCT, gli studi sulla categorizzazione dei
colori nella lingua Dani di Rosch (1972) sembrano suggerire che, effet-
tivamente, i colori di base si riferiscono a macro-categorie. In questa
lingua della famiglia trans-Nuova Guinea esistono, infatti, solo due
termini di colore mili (scuro/freddo, con focus nell’area del verde/blu
scuro) e mola (chiaro/caldo, con focus nell’area del rosso/rosa) non ri-
ducibili nell’opposizione bianco/nero.
Dal punto di vista evolutivo, le macro-categorie comprenderebbero
un’area concettuale ampia che negli stadi successivi può essere suddi-
visa in categorie attorno ai singoli foci. Ciò presuppone, però, una dis-
continuità tra abilità percettive, categorie concettuali e lessicali poiché
non «not all societies feel a need to increase the number of their cate-
gories, and they may be content to use a small number of them until
violetto. Dopo aver alimentato un fertile dibattito al suo tempo, la teoria (migliorata dal-le formulazioni di Magnus, vero antecedente dell’ipotesi di Berlin & Kay; cfr. Schönta-gand & Schäfer-Prieß, 2007) sarebbe stata accantonata a vantaggio della tesi dell’arbitrarietà/relativismo (Deutscher, 2010, trad. it. p. 101).
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(and if) the motivation arises to acquire more» (Biggam, 2012: 76). Pe-
raltro, le differenze anche individuali nel riconoscimento del focus
fanno supporre che i BCT riflettano «constellations of similar color ca-
tegories» (Webster & Kay, 2007).
Le ipotesi di Berlin & Kay sembrano essere confermate – con
qualche aggiustamento (Kay & McDaniel, 1978) – da diverse ricer-
che successive. I colori primari di Hering (nero, bianco, rosso, giallo,
verde e blu) resterebbero punti di riferimento percettivi stabili, per
questo hanno un ruolo centrale nel sistema cromatico della mag-
gior parte delle società; le comunità acquisirebbero, inoltre, le cate-
gorie dei colori di base in un ordine relativamente fisso (Kay &
Maffi, 1999).
Il filone inaugurato da Berlin & Kay resta, così, fortemente
orientato in senso universalistico in base al presupposto che «the
semantic of basic color terms in all languages reflects the exsistence
of these pan-human neural response categories» (Kay & Mc Daniel,
1978: 621).
2. Dopo Berlin & Kay: la categorizzazione dei colori, il lin-
guaggio e le lingue
Alcune critiche ai BCT spingono gradualmente verso posizioni
che evidenziano la dinamicità dei processi di categorizzazione an-
che per categorie percettivamente ancorate9.
Secondo i critici, Berlin & Kay non considererebbero tutte le di-
mensioni pertinentizzabili del colore. Un primo limite sarebbe, in-
fatti, da ascrivere alla raccolta dati realizzata tramite l’uso del si-
stema Munsell. Visto che la percezione, la memorizzazione e
l’apprendimento del colore avvengono in contesto, l’uso di una
scala cromatica astratta (che contiene, peraltro, già una modalità di
categorizzazione del colore) causa disorientamento negli informa-
tori non abituati a pensare al colore nella sua generalità (rossità, ne-
9 Proprio in relazione agli studi sulla dinamicità delle categorie del colore, MacLaury
(2002) elabora una teoria della categorizzazione nota come Vantage Theory, che considera non solo la dimensione percettiva, ma anche quella linguistico-semiotica in senso più ampio.
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rità ecc.)10. Là dove si riscontrano termini di colore non riconducibi-
li allo schema gerarchico-evolutivo dei BCT, il problema non deve
essere farli rientrare in quell’ordine aggiungendo sotto-regole o ec-
cezioni, ma occorre riconoscere che quei concetti/nomi sono rita-
gliati in base a tratti distintivi altri rispetto a quelli del mondo an-
glofono/eurofono.
Le smentite più efficaci alla tesi dei BCT si rintracciano negli studi su
lingue il cui concetto di colore non è qualitativamente comparabile con
quello eurocentrico11. Per esempio, Levinson (2000) mostra che nella
lingua Yélî Dnye (Papua New Guinea) vi sono termini di colore che non
si riferiscono a un particolare colore, bensì solo all’essere colorato, come
espressioni che includono caratteristiche cromatiche con forme redupli-
cate (nottenotte = nero), nonché espressioni che funzionano come BCT.
Il corrispondente al black nella sequenza di Berlin & Kay non è una ma-
cro-categoria, poiché comprende almeno tre foci (nero, blu e verde). Lo
stesso vale per altre macro-categorie che evidenziano ulteriori anomalie,
mostrando una parte dello spazio cromatico amorfa o comunque non
coperta da nessun concetto/termine.
Il valore degli studi antropologi e sociolinguistici, al di là della
puntualità delle singole indagini, sta nel mostrare i limiti di un ap-
proccio cognitivo al linguaggio che ipotizza, nelle sue forme più
estreme, una sorta di causazione percettiva delle strutture concettuali
e linguistiche12.
10 Secondo Saunders (2000), l’individuazione dei BCT è metodologicamente sba-
gliata anche sul piano empirico. La studiosa riproduce gli esperimenti di Berlin & Kay con una popolazione di lingua Kwak’wala nella British Columbia, mostrando i colori su oggetti familiari, quindi facilmente riconoscibili (frutta, piante ecc.), otte-nendo risultati diversi. Su un altro fronte, nell’ambito della ricerca dei primitivi se-mantici, Wierzbicka (2006:2) ammette che il concetto di ‘colore’ come ‘tinta’ non è un primitivo semantico.
11 Un ottimo compendio è il citato MacLaury, Paramei, Dedrick (2007). 12 La teoria dei BCT è stata aspramente criticata anche sul piano teorico-filosofico:
«In this system, both Munsell and the sensings of sense contents are given as Cartesian epistemological foundations and as empiricist appeals to the preconceptual. Both fail. Cartesianism presupposes inferential use of concepts; empiricism cannot account for noticings, because to have the ability to notice a thing is to have the concept of it. B&K's dubious achievement is to have merged Cartesianism and empiricism, to have hard-
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Nel quadro del dibattito relativismo/universalismo, il contributo
proveniente dal campo largo delle discipline linguistiche, al di fuori
dello stretto ambito delle scienze cognitive, comporta la graduale ma-
turazione di prospettive che, cogliendo la complessità del linguaggio e
dei nessi tra percezione, linguaggio e cognizione, ipotizzano posizioni
intermedie, compatibili anche con l’acquisizione di nuovi dati relativi
al funzionamento del cervello.
Tra gli anni Ottanta e Novanta del Novecento si avverte, infatti, un
riorientamento delle discipline psicologiche, linguistiche e socio-
antropologiche, spesso schiacciate dal chomskismo dominante, «to-
ward an intermediate position in which more attention is paid to lin-
guistic and cultural differences, such diversity being viewed within
the context of what we have learned about universals» (Gumperz &
Levinson, 1996:3).
Il clima corrisponde, più in generale, alla svolta semantica e poi
pragmatica che ha attraversato la linguistica cognitiva di prima gene-
razione, universalista e sintatticista per definizione, e che trova riscon-
to, in forme diverse, anche in sociolinguistica, in antropologia e in et-
nolinguistica, discipline via via sempre più interessate alle dinamiche
del discorso e delle pratiche comunicative13.
In uno scenario di rivalutazione della dimensione storico-antro-
pologica e semiotica del linguaggio, il relativismo linguistico non è
più banalmente riducibile all’Ipotesi Sapir-Whorf come vulgata dal-
la maggior parte della letteratura cognitivista. Riconoscere un ruo-
lo cognitivo al linguaggio e alle lingue non è più un tabù, o peggio un
rifiuto aprioristico delle scienze cognitive, come mostrano i tentativi di
dialogo tra i due paradigmi su vari fronti.
La semantica del colore occupa, dunque, un posto di rilievo nel dibat-
tito più ampio sulla categorizzazione. In generale, gli esiti delle ricerche
wired the result (guaranteeing givenness), and to have invoked their deus ex machina of evolution to account for ineradicable difference» (Saunders, 2000:92).
13 Nonostante soffra di un certo riduzionismo, l’approccio cognitivo presenta una nuova frontiera per gli studiosi del linguaggio poiché favorisce l’incontro tra la ricerca empirica e la speculazione filosofica. Per un’introduzione alla semantica cognitiva e al passaggio dalla semantica alla pragmatica, Diodato (2013).
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sociolinguistiche, più propriamente filosofiche e psicologiche, sembrano
convergere per affermare la natura non discreta delle categorie concettua-
li (e linguistiche).
Come sul versante linguistico-filosofico (basti pensare alle somiglianze
di famiglia di Wittgenstein, 1953), anche in psicologia ferve la critica al
modello classico o aristotelico14, ovvero alla teoria secondo la quale il pro-
cesso di categorizzazione si fonda sui princìpi dell’arbitrarietà e
dell’oggettività: la costruzione della categoria non dipende né dalla natu-
ra dell’essere umano (corporeità, percezione, capacità cognitive) né dal
suo stare al mondo (esperienza, cultura, società), ma è definita sulla base
degli attributi degli oggetti. Per rientrare in una categoria, un’entità deve
presentare tutte le proprietà definitorie in quanto condizioni necessarie e
sufficienti. Le categorie sono, perciò, clear-cut e consentono di esprimere
giudizi di appartenenza certi e univoci15.
Parallelamente al tentativo di Berlin e Kay di provare l’inadeguatezza
del modello arbitrarista-relativista, sul piano psicologico si contesta la de-
finizione stessa di categoria come struttura definita in base a tratti intesi
come condizioni necessarie e sufficienti. In sostanza, i BCC corrispondo-
no a prototipi (Rosch, 1978), ovvero a categorie strutturate attorno a un
nucleo di attributi essenziali o, nel caso del colore, a un focus percettiva-
mente individuato.
Non possiamo ripercorrere i dibattiti sull’utilità e sui limiti della no-
zione di prototipo16. Basti, però, considerare un punto nevralgico di qual-
siasi orientamento teorico alla categorizzazione: sostenere che una catego-
ria ha confini fluidi e sfumati non significa affermare che gli individui non
siano in grado di distinguere, in contesti dati, una categoria da un’altra. Al
contrario, avere confini è una proprietà essenziale della categoria.
Pur riconoscendo che le categorie hanno confini sfumati e una
struttura dinamica adattabile ai contesti, la categorizzazione funziona
14 Tra gli altri, Formigari (2007:75) dubita che questo modello possa ricondursi alla
tradizione arbitrarista aristotelica e successivamente lockiana. Per un approfondimento del modello classico, si veda Diodato, 2015.
15 Per una descrizione del modello classico e dei modelli a esso alternativi cfr. Dio-dato, 2015.
16 Per la ricostruzione delle linee essenziali del dibattito, cfr. Diodato, 2015: 34.
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sempre e necessariamente isolando tratti che permettono di opera-
re la distinzione tra un’entità e un’altra. Il punto è, semmai, stabili-
re come si selezionano i tratti.
Sotto questo aspetto, la teoria dei prototipi vive lo stesso disagio
del modello classico. Gli esiti delle ricerche di Rosch sono, peraltro,
equivoci, poiché confondono – almeno nella prima fase – l’effetto
prototipico (la rappresentatività) con l’appartenenza di un membro
alla categoria. Infatti, se la rappresentatività è labile,
l’appartenenza segue un andamento diverso: i soggetti cambiano
idea sui casi intermedi o dubbi, ma non su quelli più e meno tipici.
Allora, a parte i casi limite, i giudizi di appartenenza presentano
una maggiore stabilità anche a distanza di tempo e al variare dei
contesti (Barsalou, 2005).
Per questa ragione Eco (1997:170) ribalta provocatoriamente il
ragionamento di Rosch sostenendo che il prototipo dovrebbe essere
l’elemento meno rappresentativo, ovvero quello che contiene le
proprietà essenziali (core attributes) della categoria: il prototipo po-
trebbe definire i bordi della categoria, ovvero le proprietà che i
suoi membri devono necessariamente possedere, ma non ha senso
definirlo in positivo. I giudizi di prototipicità possono, così, valere
per le ricerche antropologiche, ma non per le indagini sui meccani-
smi cognitivi.
Sul finire del Novecento, la rivoluzione semantica che ha carat-
terizzato le scienze cognitive del linguaggio a partire dai tardi anni
Settanta si avvia a divenire pragmatica: l’interesse è rivolto non più
all’indagine sulle categorie come strutture concettuali permanenti
quanto al loro farsi in contesto.
Smith e Samuelson (1997) ritengono, infatti, che la concezione
della categoria come rappresentazione permanente – fondativa del
modello classico quanto delle teorie dei prototipi – sia un mito.
Smentendo la metafora del sistema concettuale come database essi
affermano che le categorie non sono strutture concettuali cristalliz-
zate nella mente, ma sono costruite online e occasionalmente in re-
lazione alle esigenze cognitive e comunicative dei parlanti. Sulla
stessa scia, nel prezioso lavoro antropologico sui colori, MacLaury
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(1997) conferma un approccio «non metafisico», evidenziando
l’intervento di una molteplicità di fattori nel processo, sempre dina-
mico, di costruzione delle categorie17.
Concetti e categorie sono creati ad hoc, a partire dalle esperienze,
anche biologicamente e fisicamente fondate (come gli schemi-
immagine), dalle conoscenze generali (strutturate in forma di frame),
dalle informazioni circa i contesti culturali, sociali e comunicativi e
dagli input presenti nel contesto. Il sistema concettuale è attivo nello
svolgimento di tutte le attività cognitive, non solo offline: interviene
quando le persone cercano di raggiungere obiettivi nell’ambiente;
contribuisce alla percezione; predice il modo in cui entità ed eventi
devono essere percepiti, velocizzandone l’elaborazione; supporta la
categorizzazione, assegnando a categorie le entità e gli eventi percepi-
ti; infine, rende possibili le inferenze (Barsalou, 2005).
Gli esseri umani, lungi dall’applicare al mondo categorie perma-
nenti salvate in una sorta di hard disk, formano continuamente nuove
categorie che hanno le stesse proprietà di quelle che appaiono più sta-
bili. Tutte le categorie sono, infatti, costituite a partire da una lista di
proprietà e da una lista di esemplari e hanno effetti prototipici.
Contrariamente a quanto accade nel modello classico e in quello
prototipico, una concezione dinamica riconosce, dunque, che una ca-
tegoria ha confini netti per contesti dati (frame), ma ammette la varia-
bilità necessaria per consentire la categorizzazione di oggetti ignoti o
oggetti noti in contesti non convenzionali18.
17 Una categoria «is not a metaphysical container, nor is it a neural reflex that de-
serves a name; it has no existence apart from the person who produces it on the basis of an edited selection of external reality. The selections are not taken from a boundless store of equally related possibilities; rather, they are limited by the organs of perception and motivated by social and physical environments, such as those that are easy to live in versus others that demand close attention to difficulties and unpredictable events» (MacLaury 1997:393).
18 Per esempio, alla domanda «Un cagnolino elettronico è un vero animale dome-stico?» la maggior parte degli interpellati tenderà a rispondere negativamente per la presenza dell’aggettivo “vero”. Il confine della categoria è netto: dentro vi sono tutti gli animali domestici “veri”, fuori tutte le entità che non lo sono. Tuttavia, alla do-manda «Un cagnolino elettronico è un animale domestico?» la risposta sarà diversa. Se la domanda non contiene l’aggettivo “vero” i confini possono essere individuati in
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3. Conclusioni
Tornando alla semantica del colore, che vi sia un’influenza o co-
munque un’interferenza del linguaggio nella percezione dei colori
non è da escludere a priori, a maggior ragione se consideriamo che la
percezione visiva non avviene nell’occhio, bensì attraverso complesse
operazioni di rielaborazione, normalizzazione e aggiustamento da
parte del cervello, livello nel quale si può ipotizzare un’influenza an-
che delle aree cerebrali più propriamente linguistiche19.
Nel campo del colore – il discorso vale, però, per quasi tutte le aree
concettuali – esistono vincoli naturali alla concettualizzazione e alla
denominazione. Tuttavia, i limiti imposti dalla «arbitrarietà materiale»
(come siamo fatti e com’è fatto il mondo) all’arbitrarietà radicale del
linguaggio20 non fanno presagire una costrizione che induce le lingue
a compiere necessariamente certe scelte. Così, in uno studio sulla per-
cezione della tinta, Bornstein (2007) evidenzia l’insufficienza di un
approccio fondato solo sulla fisiologia, riconoscendo che nella catego-
rizzazione del colore universalismo e relativismo devono trovare
nuove modalità di dialogo21.
base ad altre variabili, ma essere sempre percepiti come netti, caso per caso (Croft & Cruse, 2004: 93-95).
19 A questo proposito, il test di Tan et al. (2008) sembra porre fine alla querelle relati-vismo/universalismo, mostrando l’attivazione di due piccole aree specifiche della cor-teccia cerebrale dell’emisfero sinistro, normalmente coinvolte nell’attività linguistica, quando i soggetti sono impegnati in un compito di riconoscimento di un colore che pos-siede un nome nella loro lingua. Le aree rimangono, invece, inattive quando i colori da riconoscere non possiedono nomi semplici e comuni.
20 Arbitrarietà materiale e radicale sono complementari. Nelle attività di categoriz-zazione «la libertà e l’arbitrio non sono assoluti, bensì soggiacciono a condizioni» (De Mauro, 1982:11) che dipendono dalla natura delle entità in gioco come segnali o sensi e dal rapporto tra tali entità e la natura degli utenti.
21 «Hue is a model domain for how categorical perception, linguistic relativity, and perceptual learning relate to one another. The existence in infancy of basic hue catego-ries that appear to be firmly rooted in physiology strongly favors the primacy of per-ception. In color, however, relativism can overlay and modulate this universalist foun-dation. Languages exploit hard-wired perceptual discontinuities in forming color cate-gories and other, presumably social, forces drive how many and (to some degree) which categories are formed» (Bornestein, 2007:21).
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Se vale il vecchio slogan strutturalista secondo cui «le lingue differi-
scono essenzialmente per ciò che devono esprimere, non per ciò che posso-
no esprimere», è possibile sostenere che per i colori e per i generi naturali
la natura suggerisca dei prototipi ottimali che le lingue non sono ob-
bligate a seguire, potendo la cultura integrare, scavalcare e talvolta
sovvertire le indicazioni naturali (Deutscher, 2010, trad. it. 2012, p.
106).
In questo senso, i BCC, lungi dal denotare macro-categorie uni-
versali, sarebbero, prototipi ottimali, ovvero punti di riferimento
percettivamente salienti che le lingue sono libere di lessicalizzare o
meno, essendo la lessicalizzazione non una mera operazione di eti-
chettatura di un concetto preesistente in un presunto linguaggio
della mente, bensì una complessa operazione cognitiva, che tiene
conto delle indicazioni naturali, ma le intreccia anche con la di-
mensione antropologica, culturale e sociale.
In più, un concetto lessicalizzato si riverbera sulle successive
operazioni categoriali, essendo l’uso dei nomi «una forma primaria
di appropriazione e controllo dell’esperienza» (Formigari, 2007:68);
non a caso, una volta lessicalizzati, i BCT sono difficilmente cancel-
labili (Kay & Maffi, 1999).
Il dibattito si sposta, allora, sul terreno del rapporto tra nomi e
concetti, ovvero tra linguaggio e pensiero, ambito nel quale non si
può negare, seppur entro i limiti fisici e biocognitivi di cui si è det-
to, una certa formatività del linguaggio, senza però giungere alla te-
si della sovrapposizione tra concetto e significato linguistico.
Le parole non sono etichette per concetti preformati e neppure
si limitano a selezionare i contesti da attivare; al contrario, talvolta
giungono a progettare e definire il contesto in cui devono essere in-
terpretate, mettendo in gioco – wittgensteinianamente – complessi
processi culturalmente specifici appresi dentro la rete sociolingui-
stica di appartenenza (Gumperz e Levinson, 1996: 8-9).
Il linguaggio, in quanto strumento simbolico, una volta consolida-
tosi nella forma di una lingua storico-naturale, mette in circolazione,
attraverso i suoi segni, le rappresentazioni acquisite dalla comunità di
parlanti. In questo senso, i nomi sono codificazioni dell’esperienza che
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consentono di parlare allo stesso modo di entità concrete e percetti-
vamente verificabili, ma anche sfuggenti, effimere o fittizie. Tali codi-
ficazioni costituiscono i punti fissi rispetto ai quali si apre lo spazio
della variabilità e dell’indeterminatezza, caratteristica essenziale del
funzionamento in contesto delle strutture concettuali, del linguaggio e
delle lingue (De Mauro, 1965; Formigari, 2007).
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MARIA ELENA FAVILLA*
COLORI, LINGUAGGIO E CERVELLO1
Abstract
Questo articolo discute alcuni dati sull’elaborazione neurale dei colori e dei
termini di colore con l’obiettivo di contribuire alla riflessione sull’interazione fra colori e linguaggio e sul ruolo di questa interazione nella discussione sul rapporto tra natura, cultura e linguaggio, assumendo come oggetto di osservazione il cer-vello e l’elaborazione neurale dei colori e dei termini di colore. Dopo una presentazione delle principali componenti coinvolte nell’elaborazione visiva e lin-guistica dei colori, sono discussi due fenomeni che evidenziano particolari inter-ferenze tra l’elaborazione linguistica e l’elaborazione visiva dei colori: l’effetto Stroop, un interessante effetto di interferenza cognitiva tra lettura di parole e de-nominazione dei colori, e la sinestesia “grafema-colore”, un fenomeno che porta alcune persone ad associare in modo sistematico ciascuna lettera ad un determina-to colore. Anche se i metodi di indagine della neuropsicologia cognitiva, le neuro-immagini e le altre tecniche utilizzate per lo studio delle attivazioni neurali for-niscono molte indicazioni sulle componenti coinvolte nell’elaborazione visiva e linguistica dei colori, neppure questi dati consentono di dare una risposta defini-tiva alla questione sul ruolo di natura e cultura nella percezione e nell’elaborazione dei colori, dei termini di colore e del linguaggio in generale. Quello che questi dati confermano e mostrano più in dettaglio è che il linguaggio e la percezione interagiscono in modi complessi, ma non forniscono informazioni su quello che è effettivamente percepito ed elaborato nel cervello. La conclusione, dunque, resta che “sia la cultura sia la natura avanzano pretese legittime sui con-cetti di colore, e né l’una né l’altra si trova in posizione di completa egemonia” (Deutscher, 2010).
Parole chiave: elaborazione dei colori e termini di colore, effetto Stroop, si-
nestesia “grafema-colore”
Maria Elena Favilla, Università di Modena e Reggio Emilia, [email protected]
1 Ringrazio Emilia Calaresu per i suoi commenti alla prima stesura di questo artico-lo. Ringrazio inoltre Lucia Ferroni e Stefania Tocchini per i suggerimenti e le indicazioni sugli aspetti neurologici e neuropsicologici, che sono risultati preziosi e indispensabili per questa ricerca e che lo sono sempre nella ricerca interdisciplinare sul funzionamento del linguaggio nella prospettiva neurolinguistica.
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This paper discusses some data on the neural processing of colors and color terms with the objective of contributing to the reflection on the interaction between color perception and language, as well as on the role of this interaction in the discussion on the relations between nature, culture and language. After a presentation of the main components involved in the visual and linguistic processing of colors, two phenomena highlighting peculiar types of interference between the visual and the linguistic processing of colors will be discussed: the Stroop effect, an interesting effect of cognitive interference between language and vision in color terms reading and color naming; and “grapheme-color” synesthesia, a phenomenon which takes some people to systematically associate each letter to a specific color. Even if cognitive neuropsychology research methods, neuroimaging and the other techniques used to study neural activations provide many data on the components involved in visual and linguistic processing of colors, not even these data allow a definite answer to the issue of the role of nature and culture in the perception and processing of colors, color terms and language in general. What these data confirm and show more in detail is that language and perception interact in various complicated ways, but they still do not tell us what is exactly perceived and processed by the brain. The conclusion is therefore once again that “both culture and nature have legitimate claims on the concepts of color, and neither side enjoys complete hegemony” (Deutscher, 2010).
Keywords: colors and color terms processing, Stroop effect, “grapheme-
color” synesthesia
1. I colori e i termini di colore nella prospettiva neurolinguistica
I termini di colore costituiscono da lungo tempo, a partire almeno
dalle ricerche di Sapir e Whorf, uno degli ambiti privilegiati delle ricer-
che dedicate allo studio dei rapporti fra linguaggio, pensiero e realtà e
rappresentano un capitolo importante dello studio della rappresenta-
zione e categorizzazione linguistica della realtà e del ruolo che la natura
e la cultura hanno nell’organizzazione del linguaggio e delle lingue.
L’importanza dei termini di colore in questo tipo di ricerche si de-
ve alla discrepanza tra l’oggettività almeno apparente della percezio-
ne dei colori e la soggettività del modo in cui le lingue li definiscono.
Da un lato, infatti, gli studi sulla visione hanno permesso di indivi-
Colori, linguaggio e cervello 165
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duare i parametri e i meccanismi oggettivi che consentono
all’apparato visivo umano di percepire e discriminare le differenze di
colore. Dall’altro, le diverse lingue (e culture) del mondo mostrano
una grande varietà nei modi in cui gli esseri umani rappresentano lin-
guisticamente queste differenze, non solo nel numero dei termini uti-
lizzati, ma anche nel modo in cui questi termini suddividono lo spet-
tro dei colori e definiscono i confini tra un colore e l’altro.
Nel suo brillante e ricco volume Through the Language Glass. Why
the World Looks Different in Other Languages (2010), Guy Deutscher mo-
stra come le numerose ricerche condotte almeno a partire da un secolo
prima della celebre pubblicazione di Berlin e Kay del 1969 non siano
riuscite a dare piena soddisfazione né ai naturalisti né ai convenziona-
listi. L’unica certezza alla quale sono pervenute è l’impossibilità di so-
stenere le posizioni estreme verso ciascuno dei due poli: “sia la cultu-
ra sia la natura avanzano pretese legittime sui concetti di colore, e né
l’una né l’altra si trova in posizione di completa egemonia” (Deu-
tscher, 2010 [2013]: 106).
L’impossibilità di trovare risposte certe e univoche sul ruolo di natura
e cultura nel linguaggio dei colori e nel linguaggio in genere non rende il
tema meno interessante e importante. Cercare di chiarire i modi in cui “la
lingua colora il mondo” e di ricostruire “i bilanciamenti tra i vincoli natu-
rali e i fattori culturali” (Deutscher, cit.: 106-107) significa raccogliere e
mettere insieme tasselli sempre più dettagliati sul funzionamento del lin-
guaggio, che continua a costituire l’obiettivo principale della ricerca lin-
guistica. Il progredire delle ricerche sul linguaggio, reso possibile anche
da una crescente interazione fra discipline e ambiti di osservazione diver-
si, oltre che dalla sempre maggiore sofisticatezza dei metodi e delle tecni-
che di indagine, fornisce dati e informazioni che ci allontanano sempre
più dall’ideale di una spiegazione del funzionamento del linguaggio at-
traverso griglie e modelli semplici e matematicamente certi. Tuttavia,
questa complessità non può scoraggiare. L’aumento delle conoscenze sul-
la molteplicità delle componenti coinvolte e sulla complessità delle rela-
zioni e interazioni tra queste componenti consente di migliorare la com-
prensione di ciò che succede quando gli esseri umani utilizzano il lin-
guaggio nelle reali situazioni comunicative.
166 Maria Elena Favilla
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In questo tipo di studio, che accetta la complicazione piuttosto che
procedere per semplificazioni, un contributo essenziale è dato dalle
conoscenze sul funzionamento del cervello e sull’elaborazione neurale
delle informazioni visive e linguistiche legate alla percezione, al rico-
noscimento, alla classificazione e alla denominazione dei colori. Lo
stesso Paul Kay, che ha continuato a dedicarsi allo studio dei termini
di colore per indagare i rapporti tra linguaggio, pensiero e percezione
nel corso di tutta la sua carriera2, da circa una decina di anni ha co-
minciato ad includere nelle sue ricerche il cervello e le moderne tecni-
che di indagine volte a gettare luce sul suo funzionamento (ad es.,
come si vedrà più avanti, Franklin et al., 2008a e b; Kay et al., 2009;
Ting Siok et al., 2009).
Il presente lavoro condivide questa prospettiva generale. Si propo-
ne di contribuire alla riflessione sull’interazione fra colori e linguaggio
e sul ruolo di questa interazione nella discussione sul rapporto tra na-
tura, cultura e linguaggio, assumendo come oggetto di osservazione il
cervello e l’elaborazione neurale dei colori e dei termini di colore. Do-
po una presentazione sulle principali componenti coinvolte
nell’elaborazione visiva e linguistica dei colori, individuate soprattut-
to a partire dai diversi modi in cui possono essere danneggiate da una
lesione cerebrale, verranno discussi due fenomeni che evidenziano
particolari interferenze tra l’elaborazione linguistica e l’elaborazione
visiva dei colori: l’effetto Stroop, un interessante effetto di interferenza
cognitiva tra lettura di parole e denominazione dei colori, e la sineste-
sia “grafema-colore”, che porta alcune persone ad associare un deter-
minato colore a lettere e numeri. Naturalmente, la scelta di impostare
l'indagine a partire dai disturbi determinati da lesioni cerebrali e da
fenomeni osservati in soggetti adulti è solo una tra le molte possibili
(si pensi, ad esempio, agli studi che partono invece dall'acquisizione
del linguaggio). Si tratta in ogni caso della prospettiva più coerente
con l'impostazione neurolinguistica e neuropsicologica qui proposta,
capace di rendere conto dell'elaborazione nel cervello adulto sano.
2 La home page di Paul Kay, http://www1.icsi.berkeley.edu/~kay/ contiene
un’aggiornata presentazione delle sue ricerche e mette a disposizione una serie di saggi sui termini di colore scritti dalla metà degli anni Settanta ad oggi.
Colori, linguaggio e cervello 167
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Come si vedrà, lo studio delle attivazioni neurali e dei diversi mo-
di in cui una lesione cerebrale può danneggiare l’elaborazione dei co-
lori fornisce una ricca serie di dati oggettivi ed evidenzia una rete
complessa di attivazioni neurali nei vari tipi di operazioni che coin-
volgono la percezione e l’elaborazione dei colori. Questi dati oggettivi,
tuttavia, non consentono di rispondere in maniera definitiva alla do-
manda sul ruolo di natura e cultura nella percezione ed elaborazione
dei colori, dei termini di colore e del linguaggio in generale. Piuttosto,
evidenziano ulteriormente la complessità delle operazioni implicate
nell’elaborazione visiva e linguistica dei colori e, di conseguenza, la
complessità delle interazioni tra le possibilità e i vincoli dati dalla na-
tura e dalla fisiologia, da un lato, e le scelte e i condizionamenti cultu-
rali, dall’altro. Ciò che si cercherà di mettere in evidenza, in definitiva,
è che neppure la certezza oggettiva sulle attivazioni neurali corri-
sponde alla certezza su quello che effettivamente viene percepito ed
elaborato dal cervello.
2. Percezione, riconoscimento e denominazione dei colori: i dati
ricavabili dai diversi tipi di lesioni cerebrali
La raccolta di informazioni sui processi mentali coinvolti nelle
diverse abilità cognitive attraverso lo studio di persone con lesioni
cerebrali costituisce il principale metodo di indagine della neuropsi-
cologia cognitiva (ad esempio, Coltheart, 2001). Come evidenzia Col-
theart, questo tipo di studio è sintetizzabile in base ai quattro assunti
di modularità funzionale, modularità anatomica, uniformità, sottrat-
tività: qualsiasi abilità cognitiva è il risultato dell’interazione coordi-
nata di una serie di componenti separate; alla modularità funzionale
corrisponde anche una modularità anatomica; al di là di differenze
puramente quantitative da individuo a individuo, la modularità
funzionale e quella anatomica sono uniformi in tutti i cervelli umani ;
un danno cerebrale non può aggiungere moduli o connessioni fra
moduli, così che la prestazione di un paziente cerebroleso rispecchia
l’attività derivata dall’interazione delle diverse componenti del suo
sistema cognitivo meno le componenti e/o le vie di connessione
168 Maria Elena Favilla
AIΩN-Linguistica n.6 n.s. DOI: 10.4410/AIONL.6.2017.006
danneggiate dalla lesione cerebrale (Coltheart, 2001, pp. 9-11). A
partire dai diversi modi in cui una lesione cerebrale può colpire de-
terminate abilità cognitive e lasciarne illese altre, la neuropsicologia
cognitiva formula le sue teorie sulla normale elaborazione nei diver-
si tipi di abilità cognitive, sulle diverse componenti coinvolte in que-
ste abilità e sulla loro interazione.
Quanto alla percezione e all’elaborazione dei colori, questo metodo
di indagine ha permesso anzitutto di considerare funzionalmente di-
stinte le operazioni coinvolte nella percezione, nel riconoscimento e
nell’elaborazione linguistica dei colori, che sono selettivamente dan-
neggiate in tre diversi tipi di deficit cognitivi: l’acromatopsia cerebra-
le, l’agnosia per i colori e l’anomia per i colori (Bartolomeo et al., 1997
e 1998; Shuren et al., 1996; Miceli et al., 2001).
L’acromatopsia cerebrale determina una visione in sfumature di
grigio o, in caso di danno parziale, in colori “slavati” e l’incapacità di
ordinare oggetti colorati in tonalità differenti, di discriminare oggetti
in base ai colori e di accoppiare oggetti dello stesso colore. È causata
da lesioni che interessano l’area visiva del lobo occipitale denominata
V4, identificata nella scimmia e la cui collocazione nel cervello umano
non è ancora del tutto certa, che disconnettono quest’area dall’area
V1, la cosiddetta corteccia visiva primaria del lobo occipitale.
L’agnosia per i colori, invece, danneggia le conoscenze riguardanti
i colori e non la loro percezione: pur rimanendo integra la capacità
percettiva di accoppiare oggetti dello stesso colore e distinguere og-
getti di colore diverso, nell’agnosia per i colori viene danneggiata la
capacità di riconoscere il colore di un oggetto in compiti quali la scelta
della matita del colore adeguato per colorare un oggetto, la denomi-
nazione dei colori, sia “puri”, come nel caso di macchie di vernice o di
matite colorate, sia su oggetti, nonché l’indicazione del colore tipico di
determinati oggetti. L’agnosia per i colori è causata da lesioni che la-
sciano integra l’area V4 e riguardano invece le aree infero-mediali dei
lobi occipitale e temporale del solo emisfero sinistro.
Infine, l’anomia per i colori, conseguente a lesioni ai lobi temporale
e occipitale dell’emisfero sinistro, determina disturbi di natura più
specificamente linguistica, consistenti nell’incapacità di produrre e
Colori, linguaggio e cervello 169
AIΩN-Linguistica n.6 n.s. DOI: 10.4410/AIONL.6.2017.006
comprendere i termini di colore, che si ritiene siano riconducibili ad
una disconnessione tra l’elaborazione visiva e quella linguistica. Que-
sta disconnessione fa sì che chi soffre di anomia per i colori abbia dif-
ficoltà di elaborazione linguistica dei colori, mentre rimangono con-
servate la loro percezione e conoscenza, che permettono ad esempio
di scegliere la matita del colore adeguato per colorare un oggetto, or-
dinare oggetti colorati in tonalità differenti, discriminare oggetti in ba-
se ai colori e accoppiare oggetti dello stesso colore (Bartolomeo e Mi-
gliaccio, 2011, pp. 235-237).
Oltre a distinguere tra percezione, riconoscimento e denominazio-
ne, il metodo di indagine della neuropsicologia cognitiva ha permesso
di raccogliere informazioni anche sul ruolo del colore nella conoscen-
za e nel riconoscimento degli oggetti e sul rapporto tra le informazioni
sul colore e gli altri tipi di informazioni relative alle caratteristiche de-
gli oggetti, come la forma.
Come efficacemente ricordano Miceli e collaboratori (2001), non vi
è alcun dubbio che il colore e le nostre conoscenze sui colori degli og-
getti condizionino quotidianamente le nostre scelte e i nostri compor-
tamenti, così che non mangiamo una fragola se è verde, beviamo
l’acqua solo se non è colorata e ci fermiamo se la luce di un semaforo è
rossa. I dati ricavati dalle lesioni neurali suggeriscono che l’elabo-
razione delle informazioni relative al colore dipendano da circuiti di-
stinti da quelli implicati nell’elaborazione delle informazioni relative
alla forma. Da un lato, infatti, sono stati descritti soggetti nei quali una
lesione cerebrale ha determinato difficoltà nella percezione dei colori,
lasciando intatte le abilità di percezione della forma (ad es., Mme D
descritta da Bartolomeo et al., 1998), dall’altro, sono stati descritti sog-
getti con un grave danno alla percezione visiva e una percezione del
colore relativamente integra (come il paziente P.B. descritto da Zeki et
al., 1999). Se, come evidenziato sopra, la percezione del colore può es-
sere colpita selettivamente rispetto alle conoscenze sul colore, la pa-
ziente I.O.C. descritta da Miceli et al. (2001) precisa ulteriormente il
quadro anche rispetto al rapporto tra colore e forma, evidenziando la
possibilità che una lesione danneggi le conoscenze relative al colore di
un oggetto, lasciando integre le conoscenze sulla sua forma.
170 Maria Elena Favilla
AIΩN-Linguistica n.6 n.s. DOI: 10.4410/AIONL.6.2017.006
Riassumendo, i diversi modi in cui una lesione cerebrale può dan-
neggiare le capacità di elaborazione dei colori mostrano che le infor-
mazioni sul colore che dalla retina arrivano al cervello attivano una
complessa serie di reti neurali distinte. Queste coinvolgono: la perce-
zione del colore (distinta non solo dalla capacità di vedere e riconosce-
re altre caratteristiche degli oggetti, come la forma e la funzione, ma
anche dalla capacità di localizzare gli oggetti nello spazio, così da po-
ter ad esempio programmare i movimenti di una mano per raggiun-
gerli); il riconoscimento di quel colore e degli oggetti ad esso associati,
recuperando nella memoria informazioni già immagazzinate; e
l’elaborazione linguistica dei termini relativi a quel colore.
Per quanto distinti, nei soggetti sani normodotati questi circuiti si
attivano e interagiscono tra loro in vari modi, dei quali abbiamo anco-
ra una conoscenza incompleta.
Nei soggetti con cerebrolesioni, il funzionamento di questa com-
plessa articolazione può essere valutato attraverso il confronto dei di-
versi tipi di compiti che coinvolgono, in modi e gradi diversi, la per-
cezione, il riconoscimento e l’elaborazione linguistica dei colori:
l’ordinamento di colori per tonalità, l’accoppiamento di colori identici,
l’individuazione di colori diversi in gruppi di colori con un colore
prevalente, l’ordinamento per luminosità o calore/freddezza, giudizi
sull’adeguatezza dei colori di oggetti disegnati, la denominazione di
colori visti, di colori di oggetti e di oggetti di un determinato colore
(mostrati e nominati), l’indicazione di colori nominati e del colore di
oggetti nominati.
3. Alcune conferme dalle neuroimmagini e le ricerche su “Whorf
lateralizzato”
Le informazioni ricavate dai diversi tipi di lesioni cerebrali sono con-
fermate anche da vari studi basati sulle indagini condotte attraverso le
neuroimmagini in soggetti sani normodotati. Questi studi mostrano che
quanto individuato nei soggetti con cerebrolesioni vale anche per
l’elaborazione “normale” nei soggetti sani. Ad esempio, utilizzando la
PET per studiare le attivazioni neurali nella percezione, denominazione e
Colori, linguaggio e cervello 171
AIΩN-Linguistica n.6 n.s. DOI: 10.4410/AIONL.6.2017.006
conoscenza del colore, Chao e Martin (1999) hanno rilevato che anche nel
cervello sano le aree corticali implicate nel riconoscimento dei colori sono
distinte da quelle implicate nella percezione del colore. Inoltre, mentre il
recupero di informazioni precedentemente acquisite sul colore tipico di
un oggetto non richiede una riattivazione delle aree coinvolte nella per-
cezione del colore, la denominazione del colore di oggetti colorati attiva,
oltre alle aree coinvolte nella percezione, anche quelle coinvolte
nell’immagazzinamento delle informazioni sul colore.
In un’indagine basata sulla risonanza magnetica funzionale, Bramão
e collaboratori (2010) hanno indagato il ruolo dell’informazione sul co-
lore nel riconoscimento di immagini, confrontando, da un lato, il rico-
noscimento di oggetti naturali (frutta e animali) e artefatti (attrezzi e
mezzi di trasporto), dall’altro, quello di oggetti esistenti e inesistenti.
L’informazione sul colore sembra essere importante nel riconoscimento
degli oggetti noti, rendendolo più rapido del riconoscimento di oggetti
in bianco e nero e implicando l’attivazione di una rete semantica ulte-
riore rispetto a quella che si attiva per gli oggetti in bianco e nero. Con
gli oggetti inesistenti, invece, il colore non sembra attivare aree coinvol-
te nel processo di riconoscimento e gli autori ipotizzano che in questi
casi il ruolo dell’informazione sul colore sia quello di favorire operazio-
ni volte ad associare lo stimolo alle conoscenze su oggetti noti.
Infine, la risonanza magnetica funzionale è stata utilizzata, insieme
ad altre tecniche psicolinguistiche, anche nelle già anticipate ricerche
di Paul Kay e collaboratori alla ricerca di effetti “whorfiani” nel ruolo
delle differenze nei termini di colore delle varie lingue sulla percezio-
ne e sul riconoscimento dei colori (Franklin et al., 2008a e b; Kay et al.,
2009; Ting Siok et al., 2009).
Questi effetti sono stati trovati, ma soltanto nel caso di stimoli pre-
sentati nel campo visivo destro, ossia il campo direttamente collegato
all’emisfero sinistro. Pertanto, il condizionamento linguistico vale per
uno soltanto dei due campi visivi e non per le informazioni prove-
nienti dall’emicampo sinistro:
“human beings are at the mercy of the particular language which has become the medium of expression for their society”
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(Sapir 1949: 69) as regards half of their visual experience (Kay et al., 2009, p. 211).
Gli effetti “whorfiani” limitati agli stimoli presentati nel campo vi-
sivo destro sono confermati anche in soggetti con lesione al corpo cal-
loso (nei quali i due emisferi non sono connessi), così come in parlanti
coreani, greci e di varie lingue africane. Valgono non solo limitata-
mente alla categorizzazione dei colori, ma anche per altri tipi di cate-
gorizzazione, come dimostrano esperimenti analoghi a quelli sui colo-
ri condotti con silhouette di cani e gatti (Kay et al., 2009).
Lo studio dei movimenti oculari di bambini con età media di 20
settimane confrontati con quelli degli adulti ha confermato che la late-
ralizzazione dei condizionamenti linguistici nella percezione catego-
riale è direttamente riconducibile all’elaborazione linguistica, mentre
la percezione categoriale prelinguistica dei bambini che ancora non
parlano è lateralizzata nell’emisfero destro (Franklin et al., 2008a). La
lateralizzazione della percezione categoriale si modifica con
l’acquisizione dei termini di colore, come emerge dallo stesso tipo di
studio condotto con bambini più grandi, di età compresa fra i 2 e i 5
anni (Franklin et al., 2008b).
Paluy e collaboratori (2011) hanno riscontrato effetti opposti in
soggetti afasici (che, per definizione, hanno una lesione cerebrale
nell’emisfero sinistro), per i quali il vantaggio linguistico è emerso per
gli stimoli presentati nel campo visivo sinistro anziché destro. Questi
risultati sono compatibili sia con il fatto che la lesione a sinistra dan-
neggia l’attivazione delle aree linguistiche dell’emisfero sinistro, sia
con le ipotesi per le quali il recupero linguistico avviene, almeno in al-
cuni casi, grazie ad una riorganizzazione cerebrale nelle aree corri-
spondenti dell’emisfero destro, non danneggiate dalla lesione.
Dunque, anche le più moderne tecnologie e metodologie di inda-
gine contribuiscono a fornire indicazioni sulla complessità e ricchezza
delle operazioni coinvolte nell’elaborazione neurale dei colori e dei
termini di colore. Non riescono però a dare indicazioni definitive per
chiarire i modi in cui “la lingua colora il mondo” e ricostruire il più
possibile “i bilanciamenti tra i vincoli naturali e i fattori culturali”.
Colori, linguaggio e cervello 173
AIΩN-Linguistica n.6 n.s. DOI: 10.4410/AIONL.6.2017.006
4. L’effetto Stroop
Questa prospettiva complessiva - l’impossibilità di trovare risposte
certe sul funzionamento e sull’interazione dei diversi meccanismi coin-
volti nell’elaborazione dei colori e dei termini di colore - è confermata
da alcuni fenomeni specifici. Un caso interessante è il cosiddetto effetto
Stroop, un effetto di interferenza tra elaborazione visiva ed elaborazio-
ne linguistica che si verifica quando si deve leggere il nome di un colore
scritto in un colore diverso da quello denotato dalla parola scritta o
quando si deve denominare il colore in cui è scritto il nome del colore
(Cacciari, 2001, p. 100). Questo effetto risulta dall’attivazione contempo-
ranea di circuiti implicati in operazioni distinte relative all’elaborazione
dei colori. È utilizzato nella neuropsicologia nel Test di Stroop o Color
Word Test, che prevede che al soggetto venga richiesto di denominare il
più velocemente possibile il colore in cui sono scritti i nomi dei colori
(ad esempio, se la parola rosso è scritta in verde la risposta attesa è ver-
de). Nel test sono previste varie condizioni di presentazione degli stimo-
li e la condizione critica è quella nella quale il colore in cui sono scritte
le parole non corrisponde al nome del colore.
Questo test è solitamente utilizzato per la valutazione dei disturbi
dell’attenzione (Daini, 2011, p. 219-220) e della capacità di inibire ripo-
ste automatiche o impulsive nei disturbi frontali (Grossi e Trojano,
2011, p. 318), ma è interessante perché nella condizione critica anche i
soggetti normali hanno difficoltà, sono lenti e commettono errori.
Queste difficoltà, che evidenziano come anche le persone normali
fatichino a sopprimere una risposta di tipo automatico e inibire la let-
tura delle parole, risultano unidirezionali, perché si presentano solo
nella denominazione del colore in cui è scritta la parola corrisponden-
te ad un colore diverso, ma non nella lettura di termini di colore pre-
sentati con inchiostro diverso dal colore a cui corrispondono. Così, ad
esempio, nel caso della parola rosso scritta in verde, le difficoltà emer-
gono nella denominazione del colore verde, ma non nella lettura della
parola rosso.
Nella prospettiva linguistica l’effetto Stroop sembra, dunque, sug-
gerire anzitutto che la lettura sia un tipo di elaborazione automatica:
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richiede cioè risorse attentive minime, è obbligatoria e non può essere
interrotta una volta iniziata. Inoltre, mostra che le parole sono lette
più velocemente del tempo necessario ad individuare il colore in cui
sono state scritte, anche quando si cerca di non farlo (Labuschagne e
Besner, 2015).
Rispetto alla prospettiva qui adottata, l’effetto Stroop consente di
sviluppare l’osservazione secondo la quale la percezione e
l’elaborazione dei colori e dei termini di colore coinvolgono operazio-
ni distinte. Le diverse attivazioni neurali implicate in queste opera-
zioni, infatti, possono interferire tra loro e operano in modo automati-
co e involontario, al punto che in determinate condizioni è necessario
forzarsi per cercare di inibirle. Le dinamiche precise del funzionamen-
to dei diversi meccanismi coinvolti nell’elaborazione dei colori e dei
termini di colore restano difficilmente esplorabili e ricostruibili utiliz-
zando le conoscenze al momento disponibili.
5. Vedere lettere e parole a colori: la sinestesia “grafema-colore”
La complessità delle operazioni coinvolte nella percezione ed ela-
borazione dei colori è dimostrata anche dalla sinestesia, una condizio-
ne che porta alcune persone a provare sensazioni in una modalità sen-
soriale ulteriore rispetto a quella stimolata.
Può riguardare i vari sensi, anche se la ricerca si è per lo più con-
centrata sulle varianti più comuni, nelle quali suoni, lettere e numeri
vengono associati in modo sistematico a dei colori. Queste varianti
della sinestesia vengono solitamente generalizzate con l’etichetta
“grafema-colore”. I colori evocati sono involontari, automatici e stabili
nel tempo per ciascun individuo, ma non sono gli stessi in soggetti di-
versi (Ramachandran e Hubbard, 2001; Brang e Ramachnadran, 2011;
Watson et al., 2014).
Nonostante la difficoltà di definirne la prevalenza (secondo Baron-
Cohen et al., 1996, sarebbe presente in una persona su 2.000, mentre se-
condo Ramachandran e Hubbard, 2001, sarebbe presente in una perso-
na ogni 200), vi è accordo sulla familiarità della sinestesia (il 40% dei si-
nestesici ha un parente di primo grado sinestesico, anche se con manife-
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AIΩN-Linguistica n.6 n.s. DOI: 10.4410/AIONL.6.2017.006
stazioni diverse) e sulla sua maggiore presenza nelle donne, che porta-
no a supporre una base genetica riconducibile al cromosoma x.
Documentata fin dalla fine dell’Ottocento, la sinestesia è stata consi-
derata soprattutto una curiosità, mentre è stata per lo più ignorata dalla
ricerca psicologica e neuroscientifica, fino a una ventina di anni fa,
quando Baron-Cohen e Ramachandran, insieme ai rispettivi gruppi di
collaboratori, l’hanno riportata all’attenzione della comunità scientifica
con una serie di esperimenti e ricerche che ne evidenziano alcune inte-
ressanti implicazioni. In particolare, Ramachandran e i suoi collaborato-
ri hanno raccolto vari dati volti a dimostrare l’importanza della sineste-
sia nella riflessione sui rapporti tra percezione, pensiero e linguaggio.
Tra gli aspetti rilevati, quelli che risultano qui più interessanti ri-
guardano la discussione sulla natura e le cause ipotizzate per questo fe-
nomeno. Secondo gli autori, la sinestesia è legata alla percezione ed è
un effetto sensoriale, piuttosto che un effetto cognitivo basato su asso-
ciazioni mnemoniche, le cui cause sembrano riconducibili ad una muta-
zione genetica che determina un eccesso di interazioni fra attivazioni
neurali normalmente distinte, dovuto ad una mancata “potatura” (pru-
ning) di connessioni che solitamente dovrebbe avvenire nei primi mesi
di vita. Nella sinestesia grafema-colore, ad esempio, è stato osservato, a
partire da dati raccolti sia con esperimenti psicofisici sia con immagini
funzionali, che l’elaborazione di grafemi semplici e acromatici attiva, ol-
tre alle aree linguistiche normalmente coinvolte, anche l’area V4, che,
come abbiamo visto, si attiva nella percezione del colore. Il fatto che ve-
dere un grafema scritto in bianco e nero attivi le aree visive che nor-
malmente si attivano nell’elaborazione di uno stimolo colorato e che
questa attivazione avvenga per gli stimoli acromatici negli stessi tempi
in cui avviene per i colori evocati dalla retina induce Ramachandran e i
suoi collaboratori a ritenere che la sinestesia abbia natura sensoriale e
non derivi da associazioni cognitive di alto livello.
Secondo Watson et al. (2014), invece, per quanto possa avere una base
di ereditarietà genetica e richiedere una predisposizione neurologica, la
sinestesia ha una forte componente cognitiva e le associazioni sinestetiche
sono non semplicemente apprese, ma apprese per obiettivi strategici, vale
a dire per facilitare la memorizzazione e l’apprendimento.
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AIΩN-Linguistica n.6 n.s. DOI: 10.4410/AIONL.6.2017.006
Anche nel caso della sinestesia, dunque, le tecniche di indagine
sempre più sofisticate per lo studio del funzionamento dei meccani-
smi coinvolti nell’elaborazione cognitiva forniscono un nuovo tassello
nel complesso quadro delle interazioni fra elaborazione sensoriale,
cognitiva e linguistica del colore. Neanche questo tassello, tuttavia,
riesce a farci capire con chiarezza che cosa avviene nel cervello, né
quanto natura e cultura incidano su questa elaborazione.
6. Conclusione
Nelle pagine precedenti, si è visto come i metodi di indagine della
neuropsicologia cognitiva, le neuroimmagini e le tecniche utilizzate
per lo studio delle attivazioni neurali abbiano fornito indicazioni sulle
principali componenti coinvolte nell’elaborazione visiva e linguistica
dei colori e su come le diverse operazioni relative alla percezione e
all’elaborazione dei colori e dei termini di colore possono coinvolgere
in modo diverso queste componenti. La percezione, il riconoscimento
e la denominazione dei colori implicano circuiti neurali distinti. La
percezione dei colori attiva circuiti diversi da quelli coinvolti nella
percezione di altre caratteristiche degli oggetti, come la forma e la lo-
calizzazione nello spazio. Analogamente, il riconoscimento del colore
di un oggetto attiva circuiti diversi da quelli propri del riconoscimen-
to di altre caratteristiche. Il riconoscimento del colore richiede, inoltre,
il recupero di informazioni già immagazzinate nella memoria e nel si-
stema semantico, e l’informazione sul colore sembra avere un ruolo
importante nel riconoscimento degli oggetti. La denominazione e
comprensione dei termini di colore coinvolge l’emisfero sinistro, ma
anche le aree che si attivano per l’elaborazione visiva. Ancora, vari
esperimenti mostrano che la percezione dei colori è influenzata dalle
differenze linguistiche, ma solo per gli stimoli presentati nel campo
visivo destro, che arrivano più velocemente all’emisfero sinistro. In al-
cuni casi, come nell’effetto Stroop, l’interazione fra i diversi circuiti
coinvolti si attiva involontariamente e in modo automatico. In altri ca-
si, come nella sinestesia, le aree coinvolte nella percezione del colore si
attivano anche nell’elaborazione di stimoli privi di colore.
Colori, linguaggio e cervello 177
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Queste indicazioni non ricostruiscono un quadro completo. Piutto-
sto rappresentano delle linee di ricerca ancora aperte, destinate a mo-
dificarsi con il progredire delle metodologie e delle tecniche di inda-
gine, oltre che con l’avanzamento delle conoscenze sulle conseguenze
delle lesioni cerebrali. In ogni caso, il quadro che si è riassunto sugge-
risce che l’elaborazione dei colori dipende da interazioni che non sono
il frutto esclusivamente di percezioni sensoriali oggettive. Piuttosto,
dipende da interazioni che si svolgono all’interno di un sistema di co-
noscenze e di riferimenti acquisiti attraverso le precedenti esperienze
del soggetto. È impossibile distinguere nettamente, in queste intera-
zioni, la dimensione puramente sensoriale da quella culturale. Le due
dimensioni sono sempre intrecciate. Si tratta di una conclusione che
conferma, dunque, quanto evidenziato in apertura: adattando la frase
di Deutscher, si può dire che tanto la cultura quanto la natura avan-
zano pretese legittime sull’elaborazione neurale del colore, ma né
l’una né l’altra si trova in posizione di completa egemonia.
Più in generale, il quadro qui presentato conferma che l’analisi
neurolinguistica aggiunge nuovi livelli di complessità, capaci di met-
tere in dubbio alcuni punti di vista consolidati, ma ancora insufficienti
a definire un vero e proprio nuovo quadro di riferimento. Nonostante
tutti gli avanzamenti e i risultati conseguiti in questi anni dalle neuro-
scienze, il cervello costituisce ancora un ambito di ricerca largamente
inesplorato e, forse, inesplorabile. La situazione attuale può non essere
particolarmente felice per gli studiosi interessati ad avere risposte
immediate sul funzionamento del linguaggio. Essa rappresenta però il
passaggio inevitabile di un più lungo processo di ricerca, da percorre-
re con pazienza, combinando realismo e fiducia nella possibilità di
una progressiva comprensione della realtà.
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ALBERTO GUALANDI *
ΣΩΖΕΙΝ ΤΑ ΚΡΩΜΑΤΑ.
COLORE E LINGUAGGIO TRA ONTOLOGIA ED ESTESIOLOGIA
Abstract Esistono ragioni filosofiche responsabili dell’opinione secondo cui i colori non
sono altro che proprietà superficiali e illusorie della realtà? Esistono ragioni filosofiche
responsabili della convinzione secondo cui il linguaggio è incapace di “dire” il colore?
Ed esiste un nesso tra la prima concezione, secondo cui il colore non veicola alcu-
na verità oggettiva, ma unicamente valori estetici soggettivi, e la seconda, secondo
cui linguaggio e colore sono separati da una “differenza” irriducibile e incom-
mensurabile? Rintracciandone l’origine antica, il nostro percorso tenta
d’identificare gli effetti di tali concezioni fin dentro la scienza moderna, per poi
imboccare la via, inaugurata da Aristotele e riattualizzata dall’estesiologia nove-
centesca, che conduce verso un superamento della scissione tra logica ed esperi-
enza che le fonda entrambe. L’“enigma del colore” fornisce infine l’occasione per
una riflessione sull’essere e la verità più in accordo con l’ontologia quantistica del-
la scienza contemporanea, secondo cui “il colore è la manifestazione visibile delle
leggi profonde che determinano la struttura della materia” (Nassau).
Parole chiave: Ontologia, estetica, quantum, Aristotele, logica e esperienza
Are there philosophical reasons responsible of the view that colours aren’t
other than surface properties and illusory reality? Are there philosophical
reasons responsible of the belief according to which language is incapable of
saying the colour? And is there a link between the first conception, according
to which colour conveys no objective truth, but only aesthetic and subjective
values, and the second, according to which language and colour are separated
by an irreducible and immeasurable “difference”? Tracking down their
ancient origin, our path attempts to identify the effects of such conceptions
right inside modern science, taking then the way, inaugurated by Aristotle
Alberto Gualandi, Liceo Classico “Leonardo da Vinci”, Casalecchio di Reno (Bo), [email protected]
182 Alberto Gualandi
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and reactivated by the twentieth-century aesthesiology, which leads toward
an overrun of the cleavage between logic and experience founding them both.
The “riddle of colour” finally provides the opportunity for a reflection on
existence and truth more in agreement with the quantum ontology of
contemporary science, according to which "the colour is the visible
manifestation of deep laws that determine the structure of matter" (Nassau). Keywords: ontology, aesthesiology, quantum, Aristotle, logic & experience
1. Il colore: un fantasma in esilio
Con la progressiva industrializzazione, tecnicizzazione e meccanizza-
zione dei mondi della vita, il colore sembra condannato a vivere
un’esistenza fantomatica, in una terra di nessuno priva di senso e funzio-
ne. Non giocando un ruolo nella tessitura causale dei fatti, e nella trama
logica di un linguaggio sempre più intellettualizzato e astratto, esso sem-
bra trovare rifugio nella dimensione della soggettività, come idiosincrasia
estetica, o come “quale” vissuto, ineffabile e inesprimibile. Da tale condi-
zione di esilio esso sembra talvolta riemergere con l’energia perturbante e
terapeutica di un affetto rimosso che l’industria culturale si affretta a
sfruttare, manipolandolo digitalmente e rendendolo infinitamente ripro-
ducibile, al fine di stimolare la nostra illimitata propensione al consumo.
Questo esilio rappresenta un destino ineluttabile o esistono vie per tenta-
re una liberazione e redenzione ontologica del colore?
Situata dialetticamente ai margini del mondo tecnicizzato e astrat-
to della scienza, dal post-impressionismo fino a Rothko, l’arte con-
temporanea si è opposta a tale destino elaborando una pluralità di
estetiche della sensazione che hanno tentato di liberare il colore da
ogni sudditanza alla forma, alla rappresentazione, alla struttura se-
miotica dei rimandi in cui è irretito quotidianamente, restituendolo al-
la sua più assoluta autoreferenzialità , dischiudendovi una dimensio-
ne simbolica e trascendente1. Eterogeneo e tormentato, tale processo
1 La sensazione di colore diviene così luogo d’espressione dell’interiorità dell’artista,
luogo d’apparizione e rivelazione dell’essere impersonale e preindividuale, accesso privi-legiato a un mondo precategoriale e prelinguistico in cui reale e immaginario non si di-
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di redenzione del colore è stato però pagato, da un lato, con l’esilio e
la solitudine radicale dell’artista, testimoniata da numerose biografie
di “eroi eponimi” del colore, d’altro lato, con la ricaduta in tecniche di
trattamento numerico e digitale del colore, da parte di tendenze arti-
stiche postmoderniste che non oppongono alcuna resistenza alla sua
riproducibilità e utilizzabilità commerciale. Ciò che può essere manca-
to a tale tentativo di salvazione è forse il contributo di una filosofia
impegnata non solo a simpatizzare con i maestri del colore, ma a mo-
strare che il suo esilio ha anche ragioni filosofiche antiche che il pen-
siero non si è ancora impegnato fino in fondo a riconoscere.
2. La messa al bando originaria: Democrito e Gorgia
Secondo la testimonianza di Teofrasto (DK: B, 68, 135), Democrito
avrebbe elaborato un complesso sistema dei colori, fondato su quattro
colori semplici: bianco, nero, rosso, verde, e colori derivati, come il
purpureo e blu di guado. Semplici o derivati, i colori sono sempre ri-
conducibili a figure atomiche primarie, o a loro combinazioni: il bian-
co a atomi rotondi e lisci come quelli della madreperla delle conchi-
glie, il nero ad atomi porosi e smussati, come quelli del carbone. In
ogni caso, per Democrito, gli atomi sono incolori, poiché il colore non
stinguono ancora. Essa può godere di una perfetta astrazione e atemporalità, come per i paesaggi e le case di Morandi, le cui superfici rosa e verdi s’animano di una pallida incor-poreità in cui risuona il mistero del loro apparire, della loro manifestazione contingente sottratta dall’artista alla fugacità dell’esistenza e del divenire. I gialli di Van Gogh vibrano di una tensione psichica che brucia gli oggetti e i paesaggi d’un fuoco interiore e sovranna-turale; le finestre di Matisse si aprono su dei blu che, come brandelli d’infinito, illuminano interni borghesi di una pace senza tempo e senza luogo; le pennellate ocra, malva, smeral-do che sembrano ritrarre le infinite sfumature della Sainte-Victoire nelle diverse condizio-ni di luce sono in realtà altrettante risposte che Cézanne indirizza a un interlocutore nou-menico che comunica tramite un codice che nessun’altro conosce. Attraverso il colore si accede anche a un’investigazione estetica della materia, còlta nei suoi vuoti e nei suoi pie-ni, nelle sue ripetizioni infinitamente differenzianti: ritmi e stasi, arresti e movimenti, ten-sioni e decontrazioni, incroci, segmentazioni, linee di fuga, in Pollock, Burri, Agnès Mar-tin. O ancora nelle tele di Joan Mitchell in cui il colore, completamente liberato dalla for-ma, acquisisce una funzione terapeutica e catartica, iniezione esplosiva di gioia negli occhi di uno spettatore malato di concetti in bianco e nero.
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è che epifenomeno: una “fluorescenza” accidentale prodotta nell’antro
oscuro della coscienza dallo scontro tra effluvi sottili, provenienti dal
mondo esterno, e le forme atomiche costituenti i nostri organi di sen-
so. Il colore è quindi illusione, apparenza, opinione. Come recita la ce-
lebre testimonianza di Galeno, “opinione è il colore, opinione il dolce,
opinione l’amaro, verità gli atomi e il vuoto” (DK: B, 68, 125): decisio-
ne ontologica antica che pregiudicherà le sorti del colore durante tutta
la modernità filosofica e scientifica.
Relegato nella dimensione della soggettività e dell’apparenza, qua-
si contemporaneamente il colore sembra però ottenere una rivincita
singolare, estorcendo lo statuto ambiguo e seducente di un non-essere
ineffabile, sottratto alla presa del pensiero e della comunicazione. Se –
ci spiega infatti Gorgia argomentando la terza tesi del Trattato sul non
essere (DK: B, 82, 3; DK: B, 82, 3a) – ogni senso ha un suo contenuto
specifico, e solo la vista può percepire colori, l’udito percepire suoni,
come può il mio linguaggio, che è fatto di suoni, veicolare i “miei” co-
lori ad altri orecchi? Ogni sfera sensoriale è isolata dall’altra da un
abisso analogo a quello che separa la coscienza di un individuo da
quella di un altro: l’incommensurabilità si paga con la solitudine, cui
solo un linguaggio volto all’inganno e alla seduzione può per un
istante “rimediare”. Una “verità” che la filosofia del ’900 sembra ri-
scoprire.
3. Scissione tra logica ed esperienza
Ciò su cui è necessario soffermare l’attenzione, è il séguito, meno noto,
della testimonianza di Galeno. Evidenziando le difficoltà che tale decisio-
ne ontologica produce, alle parole sopracitate segue, in forma di dialogo
tra i sensi e la ragione, l’autocritica che Democrito avrebbe rivolto a se
stesso: “ O misera ragione, tu che attingi da noi [i sensi] tutte le tue prove,
tenti di abbattere noi? Il tuo successo significherebbe la tua rovina” (DK:
B, 125). Democrito avrebbe in sostanza realizzato uno straordinario insi-
ght sull’accecamento teorico prodotto dalla propria decisione, ma anche
sul rovesciamento di rapporto tra reale e immaginario di cui sarà vittima
la filosofia e la scienza moderna da Galileo fino a Einstein. Se gli atomi
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non sono infatti percepibili con i sensi che cosa assicura la loro realtà og-
gettiva, se non un puro atto dell’immaginazione? E se i colori sono espe-
ribili con i sensi che cosa decreta la loro irrealtà se non la funzione logica
della negazione incarnata in un linguaggio che ha il potere di separarsi,
astrarsi e opporsi violentemente al corpo e alla sensazione?
È sulla base di tale scissione tra logica ed esperienza che Galileo, nel
Saggiatore decide l’esclusione del colore dalla realtà. Dopo aver osser-
vato che i colori sono puri nomi che non risiedono nella realtà più di
quanto non dimori nella piuma il solletico che percepiamo sulla nostra
pelle, Galileo argomenta questa esclusione per mezzo di uno dei suoi
celebri esperimenti mentali. Tramite una sorta di variazione eidetica che
spoglia una sostanza corporea del suo essere “bianca o rossa, amara o
dolce, sonora o muta, di grato o di ingrato odore”, e lascia invece im-
mutato il suo spazio, tempo, movimento, figura e dimensione,
“l’immaginazione” gioca ancora una volta il ruolo di protagonista di-
scriminando il soggettivo dal reale, il necessario dall’accidentale (Gali-
leo, 1623: 334, 336). Scienza e filosofia successive non faranno altro che
rincarare la dose. Grazie alla digitalizzazione della res extensa messa in
atto dalla geometria analitica, nella seconda e sesta meditazione, Carte-
sio porta alle estreme conseguenze tale processo di spogliazione della
realtà sensibile riducendo ad apparenza non solo il bianco della cera o
il rosso del cinabro, ma anche le figure tattili-visive della geometria eu-
clidea. Indugiando sulla stessa via, l’empirista Locke finisce per tradire
la sua impostazione anti-metafisica e anti-sostanzialista, ipostatizzando
la distinzione tra qualità primarie e secondarie in una realtà supposta
precedere e causare ogni dato sensoriale (Locke, 1689: II. VIII, 14, 15,
19) . È soltanto con Kant che il colore e le altre qualità secondarie sem-
brano riacquisire per un istante la loro “funzione reale”: in quanto
grandezze intensive, esse, e soltanto esse, segnalano inequivocabilmen-
te l’alterità del mondo, l’esistenza di una realtà esterna irriducibile alla
nostra coscienza e immaginazione (Kant, 1781/87: B 211). Il rovescia-
mento kantiano di prospettiva è però tardivo e non compreso fino in
fondo: i colori sono ormai una stringa di punti all’interno di una matri-
ce cartesiana di coordinate algebriche. La maîtrise numerica del colore
realizzata dal cyberspace digitale è ormai alle porte.
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4. Linguaggio e colore nel ’900
Per reazione a questa messa al bando del colore operata dalla mo-
dernità scientifica, il ’900 sembra dar voce a ciò che il linguaggio non
può dire, ma solo “indicare”. In realtà, da Heidegger fino a Lyotard, la
filosofia continentale s’imbatte nuovamente nello scarto tra logica ed
esperienza identificato per la prima volta da Gorgia: “Si può dire che
l’albero è verde, ma non si è con ciò messo il colore nella frase”. “Il ri-
sultato dell’attività sensibile è un Dasein, non un Sinn. […] Il sensibile
è in un scarto insopprimibile con il sensato”, (Lyotard, 1971: 52, 41).
Lo stesso scarto irriducibile è anche evidenziabile nel percorso del pa-
dre fondatore della filosofia analitica, Ludwig Wittgenstein. Se nel
Tractatus e negli scritti coevi il colore sembra assurgere a paradigma
del mistico, nelle opere del secondo periodo il problema del colore si
stempera in un insieme di pratiche linguistiche che determinano di
volta in volta che cosa dobbiamo intendere come “semplice”, “puro”,
“saturo”, “trasparente” etc., e relativizzano ogni approccio pseudo-
scientifico, fenomenologico o essenzialista tradizionale. In realtà, tra
un gioco linguistico e l’altro, l’ossessione wittgensteiniana per il colore
risorge e, incapaci “di mettere un qualsiasi ordine nei concetti [di co-
lore], stiamo lì, come il bue di fronte alla porta della stalla che sia stata
dipinta con un nuovo colore”. Se ci chiedessero infatti: “Che cosa si-
gnificano le parole rosso, blu, nero, bianco? potremmo di certo indica-
re immediatamente certe cose che hanno quei colori, ma la nostra ca-
pacità di spiegare i significati di queste parole non va più oltre!”
(Wittgenstein, 1997: §12, §68).
5. Funzione cognitiva del colore
Al fine di superare la scissione tra logica ed esperienza che sta alla
base di quest’ossessione novecentesca per il colore2, ci pare necessario,
da un lato, riscoprire il valore cognitivo del colore, la sua capacità di
2 In un’opera capitale, Emile Meyerson (1908: 332-336) ha pienamente esplicitato ta-
le ossessione prima di ogni altro teorico dei qualia “irrazionali” di sensazione.
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apportare informazioni sulla realtà; dall’altro, mostrare che la logica
del linguaggio non è separata dai sensi e dal corpo poiché affonda le
sue radici nella struttura sinestetica e metaforica dell’esperienza che
Wittgenstein pretendeva neutralizzare.
Se per la scienza e la filosofia moderne il colore è soltanto un epi-
fenomeno soggettivo, illusorio e superficiale, il suo valore cognitivo è
rivendicato da argomenti attinenti a vari ambiti della scienza contem-
poranea. Studi psicologici sui colori illusori e la percezione della pro-
fondità e delle superfici hanno evidenziato che il cervello non separa
la percezione del colore da quella della forma e della profondità (“ef-
fetto acquerello”), e che le immagini a colori forniscono una ricchezza
di informazioni che scompare quasi del tutto nella versione in bianco
e nero della medesima scena (Werner, Pinna & Spillman, 2007). Con-
fermando argomenti fenomenologici tratti dalla pratica degli artisti e
degli artigiani (cui già faceva riferimento Goethe nella sua Teoria dei
colori), studi sulla percezione del colore delle superfici hanno inoltre
mostrato che la definizione dei colori mediante composizione spettra-
le e luminosità non è sufficiente a descrivere tutte le sfumature perce-
pite dall’occhio umano. Benché colori superficiali e non superficiali
siano analogamente rappresentabili nelle loro possibilità di variazione
grazie a un “doppio cono” – in cui la brillanza (o la luminosità) del co-
lore varia lungo l’asse, la saturazione muta lungo il raggio e la croma-
ticità intorno alla circonferenza – la percezione della cromaticità dei
colori superficiali appare diversa su legno, tessuto, plastica o altre su-
perfici. Nel suo modo di riflettere, la cromaticità interagisce inoltre
con la composizione metallica (riflessione speculare) od opaca (rifles-
sione diffusa) della superficie, oppure col suo carattere trasparente o
fluorescente. La cosiddetta “profondità di finitura” di un corpo mo-
stra per esempio che il colore fornisce informazioni (essenziali per un
liutaio o un costruttore di barche) sulla struttura materiale di un og-
getto permettendoci di separare la luce bianca, riflessa dalla vernice lu-
cida della superficie, dalla luce colorata diffusa dallo strato interno del
materiale (Beck, 1975). Oltre a permetterci di sormontare la secolare
diatriba tra newtoniani e goethiani concernente il carattere “additivo”
o “sottrattivo” del colore – per gli uni le commistioni di colore tende-
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rebbero al bianco, per gli altri al nero (Schopenhauer, 1854) – la distin-
zione tra colori superficiali e non superficiali evidenzia la parzialità di
ogni indagine tesa a ricondurre i concetti di colore a una tassonomia
“semantica” universale centrata sulla “tinta”, ad esclusione di altre
componenti cromatiche valorizzate nelle diverse pratiche culturali del
colore (Diodato, 2016). Poiché, nei colori superficiali, la cromaticità è
prodotta dall'interazione tra la struttura più o meno profonda del ma-
teriale e la struttura della luce e della visione, tale distinzione ci per-
mette inoltre di introdurre un’altra caratteristica ontologica del colore
ben evidenziata dalla fisica contemporanea: la relazionalità.
6. Ontologia quantistica del colore
Per la fisica contemporanea, il colore è un fenomeno riconducibile
a circa 15 categorie di cause fisiche diverse. Questi diversi meccanismi
possiedono tuttavia “un elemento in comune: la causa fisica che pro-
duce alla fine la sensazione del colore è l'interazione della radiazione
con gli elettroni”. Poiché tale interazione chiama in causa leggi quan-
tistiche oggetto di studio di teorie fisiche fondamentali, è possibile
concludere che il colore, ben lungi dall’apparire come un fenomeno il-
lusorio e superficiale “è la manifestazione visibile delle leggi profonde
che determinano la struttura della materia” (Nassau, 1980: 41).
Tutte le interazioni tra la radiazione elettromagnetica e la materia
sono regolate dalla legge fondamentale della meccanica quantistica
secondo la quale “gli atomi possono esistere solo in stati discreti,
ognuno caratterizzato da un ben definito livello di energia”. La luce
può venire assorbita da un corpo “solo se possiede l’energia necessa-
ria per trasferire l’atomo da un livello a un altro superiore”, mentre un
atomo che decade da uno stato eccitato a uno più basso emette una
quantità di energia che “si manifesta come fotone o quanto di luce”,
caratterizzato da una frequenza o lunghezza d’onda corrispondente
alla differenza energetica esistente tra i due livelli (ibid.). Poiché
l’energia necessaria per far saltare uno degli elettroni accoppiati ap-
partenenti a uno stato completo su un livello libero sovrastante neces-
sita di un’energia considerevole, fornita solo dalla radiazione ultravio-
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letta o dalla zona X dello spettro, ne consegue che solo gli elettroni
spaiati e più esterni (elettroni di valenza responsabili dei legami chi-
mici) sono coinvolti nel fenomeno del colore. Ne deriva una conclu-
sione molto importante. Se si prendono infatti in esame i cinque tipi
fondamentali di meccanismi che presiedono alla produzione del colo-
re (eccitazioni di atomi o ioni liberi e vibrazioni di molecole, effetti del
campo cristallino, transizioni di orbitali molecolari, transizioni nelle
bande di solidi ed effetti interpretabili mediante l’ottica fisica), “può
sembrare una coincidenza straordinaria che tanti fenomeni così diver-
si avvengano in una banda di lunghezze d’onda con un’ampiezza di
meno di un’ottava. E può sembrare ancora più incredibile che tale
banda ristretta coincida con quella cui è sensibile l’occhio umano. In
realtà questa può benissimo non essere una coincidenza. L’interesse di
questa piccola regione dello spettro è dovuto semplicemente al fatto
che queste sono le lunghezze d’onda in corrispondenza delle quali
cominciano a diventare importanti le interazioni fra gli elettroni e la
luce. Radiazioni di minore energia possono influenzare il movimento
di atomi e di molecole e vengono quindi percepite come calore. Ra-
diazioni di energia maggiore possono ionizzare gli atomi e danneg-
giare permanentemente le molecole, cosicché i loro effetti sono per lo
più distruttivi. Solo in questa piccola zona di transizione fra i due
estremi si osserva una buona sintonia fra le energie della radiazione
visibile e quelle della struttura elettronica della materia” (ivi: 54).
In altre parole: poiché radiazioni di minore energia potrebbero
danneggiare gli organi sensoriali che le percepiscono come calore, e
radiazioni di energia maggiore potrebbero alterare in modo perma-
nente gli oggetti che assorbono la luce, solo in quella zona di frequenza
intermedia corrispondente allo spettro visibile della radiazione luminosa si
produce quell’evento relazionale che chiamiamo colore.
7. La visione negli uccelli e nei rettili
L’importanza filosofica di tale ontologia relazionale del colore può
essere evidenziata anche per un’altra via che ci riconduce al problema
del rapporto tra linguaggio e colore. Dalla fine degli anni ’70 ricerche
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evoluzionistiche, etologiche e genetiche hanno mostrato che numerose
specie animali, rettili e uccelli in particolare, possiedono una visione
tetracromatica che consente di percepire colori nella banda di fre-
quenza dell’ultravioletto, grazie a quattro tipi di coni e pigmenti che i
mammiferi hanno ridotto a due nelle prime fasi, “notturne”, della loro
evoluzione. Benché i primati abbiano riacquisito in seguito un terzo
cono grazie alla duplicazione e mutazione del gene che codifica per
uno dei due pigmenti superstiti, è per noi impossibile immaginare un
mondo dotato di una quarta dimensione del colore. A confronto con
gli uccelli, soffriamo di una deprivazione sensoriale più grave di quel-
la che affligge la neuroscienziata Mary3, poiché ci manca un’intera
dimensione dello spettro visibile. Rappresentabile attraverso un te-
traedro di cui lo spettro umano dei colori costituisce solo la base bi-
dimensionale, tale dimensione fornisce agli uccelli numerose informa-
zioni aggiuntive sull’ambiente circostante, di cui non possiamo avere
che un’idea “in bianco e nero”, tramite tecniche fotografiche ultravio-
lette (Goldsmith, 2006).
Il caso dei boidi e dei viperidi è ancora più interessante poiché la
percezione visive delle forme e del colore si avvale in loro del suppor-
to transmodale fornito da segnali infrarossi forniti dagli organi a fosset-
te (appartenenti al sistema sensoriale somatico). Integrandosi intersen-
sorialmente nel tetto ottico del mesencefalo con gli stimoli visivi, tali
stimoli somatici permettono a boa e serpenti a sonagli di ampliare (la-
teralmente e verticalmente) il loro angolo di visione e di vedere di not-
te. “L'integrazione delle informazioni visive e infrarosse nel tetto for-
nisce ai viperidi e ai boidi una visione unica del mondo, in cui le im-
magini visive e infrarosse vengono paragonate e contrapposte”
(Newman & Hartline, 1982: 113). Ma che cosa accadrebbe alla nostra
concezione dell’irrealtà e soggettività del colore se la nostra visione
dei colori fosse transmodalmente supportata da un altro canale senso-
riale? Se potessimo avvalerci di paragoni e contrapposizioni transmo-
dali, colore e linguaggio ci apparirebbero ancora incommensurabili?
3 Neuroscienziata del colore immaginata da Frank Jackson (1986) in un saggio polemico,
avverso al cognitivismo, a sostegno dell’argomento dei qualia proposto da Thomas Nagel.
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8. Il “senso comune”, l’analogia, l’estesiologia
È tramite ragionamenti analoghi che Aristotele controbatte
l’argomento gorgiano della differenza sensoriale. Se infatti è vero che,
come sosteneva Gorgia, ogni senso ha il suo “sensibile proprio”, e che
solo la vista può percepire i colori e l’udito i suoni, è anche vero che
esistono dei “sensibili comuni”, come “il movimento, la quiete, il nu-
mero, la figura, la grandezza”, che sono percepibili tramite più sensi
capaci di confrontare reciprocamente i propri dati (Aristotele, De Ani-
ma, B5 418a, 11-18, 17-21). Ora, è straordinario osservare che sono
proprio tali sensibili comuni che Democrito ha proiettato nella realtà
ultraoggettiva degli atomi incolori e che la tradizione di Galileo, De-
scartes e Locke continua a ipostatizzare come proprietà oggettive e
primarie della realtà. Ma cosa accadrebbe se il nostro sistema sensoria-
le fosse organizzato diversamente, e se colori e suoni si percepissero
all’incrocio di più canali sensoriali? Un tale esperimento mentale ci
permetterebbe di comprendere che l’ontologia postulata da un’intera
tradizione di pensiero è in realtà condizionata da un’estesiologia impli-
cita, che deve essere tematizzata esplicitamente nei suoi limiti di inva-
riabilità biologica e variazione storico-culturale. Compito di quella di-
sciplina che, in polemica con la concezione atomizzata e puntuale de-
gli stimoli sensoriali ancora presente nell’estetica kantiana, è stata
chiamata estesiologia (Straus 1958), è di distinguere infatti tra le legalità
(“a priori” rispetto ogni singolo contenuto percepito) incorporate nella
struttura sensoriale umana, e i montaggi intersensoriali – gerarchizza-
zioni, sinestesie, metafore, istituzionalizzazioni del corpo e dei sensi in
funzione di determinati scopi pratici e comunicativi – imposti da ogni
cultura nel corso della storia al plastico e prematuro cervello umano.
Benché tale tematizzazione acquisisca realtà nel corso del Nove-
cento solo con Plessner, Straus, Gehlen, in Aristotele troviamo intui-
zioni che segnano la via. Oltre a ricorrere all’esperimento mentale di
cui sopra4, Aristotele identifica nell’analogia la via maestra che dal
4 «Si potrebbe chiedersi a qual fine siamo provvisti di più sensi e non di uno solo. For-
se perché siano meno inavvertiti i sensibili concomitanti e comuni, ad esempio il movi-
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AIΩN-Linguistica n.6 n.s. DOI: 10.4410/AIONL.6.2017.007
corpo conduce al linguaggio attraverso l’immaginazione. Al di là delle
loro differenze di struttura e “legalità” specifiche, i sensi condividono
infatti una struttura “attiva-passiva” che permette loro di superare
scarti e differenze e comunicare reciprocamente tramite analogie, me-
tafore e sinestesie5. È interessante notare che, al di là di ogni teoria,
sono tali metafore e analogie che Helen Keller – cieca e sorda dall’età
di 19 mesi – ha utilizzato per costruire un “ponte” congiungente i sen-
si col linguaggio e superare la solitudine che separava la sua coscienza
da quella di ogni altro uomo6. È del resto a tali istanze che ricorrono
alcune teorie neurobiologiche e linguistiche contemporanee per chia-
rire la struttura sensorimotoria in cui il linguaggio affonda le proprie
radici, filogenetiche e ontogenetiche (Ramachandran, 2003; Lakoff &
Johnson, 1999). Limitiamoci qui ad applicare al problema del colore
analisi e ricostruzioni che abbiamo attuato altrove: lo scarto incom-
mensurabile che sembra separare il linguaggio dalla sensazione del
mento, la grandezza e il numero? Se infatti possedessimo soltanto la vista, e questa perce-
pisse il bianco, i sensibili comuni ci sfuggirebbero maggiormente, e crederemmo che tutti i
sensibili fossero la stessa cosa, per il fatto che colore e grandezza s’accompagnano sempre
tra loro. Ora, poiché i sensibili comuni ineriscono anche in un altro sensibile, tale fatto
rende manifesta la diversità di ciascuno di essi» (Aristotele, De Anima: Γ 1, 425b5-10). 5 “Come infatti senza la luce non si vedono i colori, così senza il suono non si di-
stinguono l’acuto e il grave. Questi due termini sono assunti per metafora dagli oggetti
del tatto, giacché l’acuto muove il senso molto in poco tempo, mentre il grave poco in
molto tempo […]. Tali qualità del suono sembrano avere un’analogia con l’acuto e
l’ottuso percepiti dal tatto”. (Aristotele, De Anima: B8 420a 25-30, 420b1-5). 6 «Io capisco come lo scarlatto differisca dal cremisi, perché so che l’odore di
un’arancia non’è l’odore dell’uva. Posso anche concepire che i colori abbiano sfumature.
Negli odori e nei sapori vi sono delle varietà non abbastanza distinte per essere fonda-
mentali; però le chiamo sfumature. Vi è una mezza dozzina di rose vicino a me. Tutte
hanno lo stesso odore generico; pure l’olfatto mi dice che non sono tutte uguali […] Gli
odori in certe erbe si attenuano per i miei sensi, così di fatto come ai vostri occhi svani-
scono certi colori al sole. La freschezza di un fiore che ho in mano, è analoga alla fre-
schezza che gusto in una mela appena colta. Mi servo di analogie simili a queste per ac-
crescere le mie concezioni dei colori. Certe analogie che io rilevo tra le qualità di super-
ficie e le vibrazioni, tra l’odore e il sapore, sono come quelle che sono rilevate da altri fra
la vista, l’udito ed il tatto. Questo fatto m’incoraggia a perseverare ed a provarmi di get-
tare un ponte sull’abisso che separa l’occhio dalla mano». (Keller, 1920: 74).
ΣΩΖΕΙΝ ΤΑ ΚΡΩΜΑΤΑ. Colore e linguaggio tra ontologia ed estesiologia 193
AIΩN-Linguistica n.6 n.s. DOI: 10.4410/AIONL.6.2017.007
colore si riduce nel momento in cui, contrariamente a Wittgenstein,
comprendiamo che la struttura “logica” profonda del linguaggio è in-
trisa di metafore, analogie e sinestesie. Se la funzione denotativa del
nome nasce infatti da un “metaforizzazione” del gesto ostensivo (atti-
vo) della mano, la funzione caratterizzante del predicato deriva dalla
funzione recettiva (passiva) dell’occhio, ovvero da rifunzionalizzazio-
ni (exaptations) ed esoneri sensorimotori operati dalla voce e dall’udito
nei confronti dell’occhio e della mano. “Ogni enunciato può dunque
essere considerato come una risposta a una domanda – una domanda
silenziosa e implicita” (Straus, 1953: 317), indirizzata (attivamente) dal
nostro corpo e una risposta inviata ai nostri sensi (passivi) dal mondo.
In tale contesto comunicativo originario, “semplicità”, “purezza”,
“trasparenza”, “saturazione”, “tonalità” del colore appaiono non co-
me residui di un linguaggio metafisico, ma come segni di una metafo-
ricità intrinseca che riemerge a ogni tentativo di ricreare un accordo
tra corpo, sensi e mondo nell’evento di verità veicolato intersoggetti-
vamente dal nostro linguaggio. È tale evento che vorremmo chiarire
con l’esempio del blu del cielo.
9. Conclusioni
Nel corso della storia, l’enigmatica proposizione che sta al centro
della Metafisica, “l’essere si dice in molti modi” ha ricevuto due inter-
pretazioni opposte (Aubenque, 1962: 134, 168). Per la prima interpre-
tazione, riconducibile a Brentano, l’essere è detto in molti modi dal lin-
guaggio umano e dalla sua pluralità di categorie storico-culturali. Per
la seconda interpretazione, riconducibile a Heidegger, è l’essere che dice
se stesso in molti modi tramite un linguaggio impersonale e anonimo
che trova nella sensazione (di colore) il modello di verità più autentico
e inconfutabile (Heidegger, 1927: 93). In altri termini: per la prima in-
terpretazione, siamo noi che diciamo il blu del cielo, per la seconda, è il
cielo che dice se stesso tramite il blu. Benché entrambe legittime, le due
interpretazioni ci appaiono parziali non solo rispetto ad Aristotele,
per il quale l’essenza della verità sta nel rapporto equilibrato tra essere
e pensiero, ovvero nel “giusto mezzo”, ma anche per il fatto di evitare
194 Alberto Gualandi
AIΩN-Linguistica n.6 n.s. DOI: 10.4410/AIONL.6.2017.007
il problema seguente: è legittimo negare al blu quell’essere che confe-
riamo invece al cielo? Se il cielo è per noi irriducibile a un ammasso di
pulviscolo atmosferico e sostanze gassose, per quali ragioni dovrem-
mo continuare a considerare il cielo “sostanziale”, mentre il blu sog-
gettivo e accidentale? Se lo statuto di realtà di entrambe le “entità” è
egualmente relazionale per quali ragioni dovrebbe apparire più reali-
stico affermare “il cielo blueggia” piuttosto che "il blu cieleggia" (pre-
scindendo da più "duratura stabilità" o variazione dell'uno rispetto
all'altro)? Sia il blu che il cielo esistono per un occhio che vede e per
un organismo che “li” interroga a partire da domande culturalmente
valorizzate e da una “differenza” che segna il nostro corpo fin nella
sua struttura sensoriale. La ragione ultima per cui l’essere si dice in
molti modi è che i sensi parlano linguaggi irriducibili gli uni agli altri
e traducibili solo tramite metafore che, nell’ambito della civiltà occi-
dentale, hanno esiliato con ogni mezzo il colore. Ciò che emerge dal
nostro percorso è tuttavia che l’essere del colore non differisce in al-
cun modo da quello di altre entità relazionali come il cielo o come
l’orizzonte. Se l’orizzonte può infatti essere definito come quel luogo –
reale benché immaginario, immaginario benché reale – in cui lo
sguardo incontra la luce e il mare abbraccia il cielo, coerentemente con
l’ontologia quantistica che abbiamo tentato di evidenziare, lo statuto
ontologico del colore potrebbe essere equiparato a quello di un evento
di verità, non violento e democratico, accomunante ogni vedente
(Straus, 1963), che non modifica la realtà in modo irreversibile, e che si
manifesta là dove la struttura profonda della materia incontra la luce e
l’occhio che vede.
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MARIA EUGENIA MANGIALAVORI RASIA*
COLORS IN THE LEXICON-SYNTAX-SEMANTICS INTERFACE.
CHANGE-OF-COLOR VERBS, LEXICAL ASPECTUAL CLASSES
AND MEASURING-OUT MACHINERY
Abstract
Questo articolo combina dati analitici e di corpora al fine di esplorare le
estensioni di una conosciuta correlazione positiva tra le strutture scalari aperte/chiuse (ad esempio, Hay et al. 1999) e la delimitazione aspettuale in aggettivi e verbi nella lingua italiana. In particolare, analizzeremo la rappresentazione linguistica dei colori in italiano secondo parametri lessicali e grammaticali. Si osservano due fatti principali. In primo luogo, la evidenza empirica indica che l’aspetto lessico (Aktionsart) di questi verbi e aggettivi—telicità, congiuntamente a altre proprietà eventive e il conseguente comportamento: resultatività, possibilità di doppia portata [double scope] per operatori negativi/parziali, ambiguità fra letture ripetitivi/restitutive—possono essere previsti per i verbi italiani su questa base. Questo comportamento è in contrasto con altri verbi, apparentemente simili, associati invece a scale aperte, dove un omomorfismo Grado/Evento determina un evento di cambio di stato omogeneo e atelico. In conseguenza, i verbi di colore possono essere proposti come esempio di proprietà consistentemente (lessicalmente) associata a una scala delimitata in Italiano. In secondo luogo, una alternativa chiave contribuita per i colori, la scelta tra una percezione olistica/non-olistica dell'oggetto affettato per il cambio descritto dal verbo, spiega occorrenze altrimenti inaspettati e mostra il ruolo cruciale de diverse relazione semantiche relative a la grammatica (struttura argomentale) nella applicazione della correlazione osservata.
Parole chiave: colore, scala, verbi deaggettivali, telicità, cambio di stato,
oggetto affettato. This work combines corpus and analytic data with a view to explore the
extensions of a well-known positive correlation between open/closed scalar structures associated to properties (e.g. Hay et al. 1999) and aspectual
Maria Eugenia Mangialavori Rasia, Universidad Nacional de Rosario - CONICET (Consejo Nacional de Investigaciones Cientificas y Técnicas), Argentina, [email protected]
198 Maria Eugenia Mangialavori Rasia
AIΩN-Linguistica n.6 n.s. DOI: 10.4410/AIONL.6.2017.008
boundedness in Italian adjectives and deadjectival verbs. On these grounds, we aim at gaining better understanding of grammatical and lexical facts bearing on the linguistic representation of colors in this language. Two major facts are observed. First, corpus and analytic evidence shows that color verbs and adjectives can be argued to be lexically associated to bounded scalar structures in Italian. Telicity and further aspectual properties (along with the consequent behavior: resultativity, double scope for negative/partial adjuncts, relevant ambiguity between repetitive/ restitutive readings) are correctly predicted on this basis. This behavior contrasts with the patterns shown by semantically similar verbs associated, instead, to open scales, where a Degree-Event Homomorphism models a homogeneous, atelic change-of-state [COS] event. Second, a specific alternative allowed by color introduces an important variable. In particular, the choice between a holistic and a non-holistic representation of the affected object undergoing the change of state denoted by the verb accommodates otherwise unexpected occurrences and uncovers the crucial role of grammar (argument structure relations) in the application of the observed correlation.
Keywords: color, scale, deadjectival verbs, telicity, change-of-state, affected
object.
1. General Introduction. Color and grammar
In principle, it is true that there are many, many ways to be red, white
or yellow and that the subject is still open to debate. The general issue is
not uncontroversial, especially when wider semantic problems like possible interpretations (cf. Kennedy & McNally 20101), vagueness (e.g.
Kennedy 2007), truth-conditional variation (e.g. Hansen 2011),
subjectivity (Hansen & Chemla 2015), possible ways of fixing a standard
(e.g. McNally 2011), context sensitivity (e.g. Kennedy & McNally 2005,
1 In very broad terms, these authors propose that color adjectives are ambi-
guous between a gradable and non-gradable interpretation, which would in turn make their scalar specification less than clear. However, this does not undermine a considerable body of literature and tests indicating that this is not necessarily so. Just to give one example, Husband (2010) tests disambiguation by overt degree modifiers (acceptable with gradable adjectives and degraded with non-gradable predicates) and shows that color adjectives behave as expected (i.e., even when di-sambiguated with a degree morpheme, they do not license an existential interpre-tation of its subject).
Colors in the lexicon-syntax-semantics interface 199
AIΩN-Linguistica n.6 n.s. DOI: 10.4410/AIONL.6.2017.008
Hansen & Chemla 2013), intervention of conceptual semantics and
extralinguistic context (e.g. Kearns 2007 i.a.) etc. take part in the debate.
With this myriad of factors bearing on the proper linguistic
classification of color—especially, regarding the main factor at stake:
that is, the type of property scale concerned—, one might perhaps expect inaccurate results, granularity or variability in experimental
and/or analytical studies, even in a same subject’s judgments. However,
in the practice, the situation may prove to be pretty much the opposite.
In fact, clearer pictures are possible, for instance, if we circumscribe the
analysis to those factors proving relevant to the lexicon-semantics-
syntax interface; but also, and especially, as long as we focus our study in those parameters that prove empirically and systematically decisive
in predicting the behavior of color-based predicates, especially in verbs
which, in contrast to adjectives, have received considerably less
attention in the literature. On these grounds, color-denoting vocabulary
items can eventually be argued to represent one of the clearest cases of
association to a type of scale structure—one of the most prominent variables behind aspectual verb classes identified so far—as long as the
right parameters are singled out.
So, even if discussion on the semantic implications of color is far
from being settled, there are grammatical facets of the problem that can
be reliably deployed in predicting verbal behavior, more importantly,
taken as probes into wider lexical-syntactic phenomena affecting the relation between property-denoting elements—of which color-denoting
roots are very special members—and the formal properties of the
words (verbs, adjectives) containing them. More importantly, these
phenomena can shed light on major empirical patterns shared by
different languages and can be properly constrained into relevant
generalizations about how an event is construed—i.e., into the relation between properties like colors and predicates built from them.
Scale structure, in particular, has been proved a key factor in
ascertaining the formal implications of property-denoting roots2 and
2 Given that the scale structure involved is presumably part of the semantic burden
of the root—or else of the property denoted by it, according to the view taken on the
200 Maria Eugenia Mangialavori Rasia
AIΩN-Linguistica n.6 n.s. DOI: 10.4410/AIONL.6.2017.008
predicates. In this light, a central goal of this paper is to establish which
variables in scale structure, among those available for color, are
significant to those aspects of meaning having a direct correlation in the
behavior of the verb; especially regarding possible occurrences,
combinations and affinities with different (aspectually relevant)
constituents of the clause, including arguments as well as adjuncts and
modifiers. In particular, our focus in this paper is on working out, first,
whether the scale structure of color predicates involves (or not)
specifications about widely studied parameters such as absolute standard
values and minimal/maximal/medium scalar thresholds supplying
relevant event endpoints; second, if different measurement parameters
for the event can be established; and, third, if factors other than scale
structure can intervene in the aspectual setup of a deadjectival verb—and,
more specifically, what that tells us about the general aspectual properties
and behavior of adjectives and verbs involving color.
To this aim, we will proceed to an empirically-grounded analysis of
the Aktionsart properties of color verbs and adjectives. To that end, we
will conduct a careful examination of analytic tests on corpus data3.
First, we will deal with an essential division that has been extensively
involved in the study of color adjectives in the literature. We refer to the
semantics-lexicon interface—, at least to the extent that it is derivable from the possible values of the measure function that the adjective denotes.
In our case, ascription of the divergence to the lexical root [√] is encouraged by the re-levant consistencies but also to important discrepancies between adjectival and verbal predicates building on a same property-denoting root. In concrete, there are strong techni-cal and empirical reasons not to pursue an analysis of verbs such as those involving colors as derivates from adjectives. In the specific case of verbs, four specific facts support our ta-ke on the matter: (i) the verbs to be analyzed (the verbal correlates of ((2)a-b)) share the same derivational constituents; (ii) the selection of alternating affixes (-in/–a/ø) is not rele-vant; (iii) neither is categorial type whreby the root is regularly realized (actually, the split is also reflected by denominal verbs, cf. Hale & Keyser 2002, Harley 2005); (iv) argument structure realization patterns do not correlate with the division either: both (2)a and (2)b comprise verbs entering the causative alternation, as well as (only) transitive and (only) ergative verbs. For a detailed exposition, cf. Author (2013, 2014, 2015).
3 All throughout the paper specific tests indicated in the literature for the particular aspectual/eventive parameters at stake will be performed on data extracted from pos-tagged corpus databases like CORIS/CODIS (www.corpora.ficlit.unibo.it), CLIPS (www.clips.unina.it), CoLFIS (Corpus e Lessico di Frequenza dell'Italiano Scritto).
Colors in the lexicon-syntax-semantics interface 201
AIΩN-Linguistica n.6 n.s. DOI: 10.4410/AIONL.6.2017.008
distinction between open vs. closed scales (that is, scale boundedness),
along with certain connections that can be established with relativity of
the standard (absolute vs. relative) ((based on patterns that go back to
Bolinger 1972 i.a.; cf. also Kennedy & McNally 2007 on deverbal
adjectives). On this basis, we will argue that, at least as far as verbal
behavior is concerned, color can be seen to conform to those proposals
where color is classified by featuring an absolute standard fixing a
default scale boundary (i.e., a closed-scaled property).
Next, we will turn to quirky occurrences apparently challenging
the proposed relation and introduce a further variable that eventually
helps accommodating these unexpected cases. Sporadic constructions
apparently involving no natural threshold (i.e. not behaving as
expected for closed scales) as well as others involving (unexpected)
boundaries (i.e. telic predicates out of open-scaled properties) can be
provided with a natural explanation as soon as two different
representations of property scale are considered. In particular, the
division between a quantitative and a qualitative representation of the
color scale can prove extremely useful in handling otherwise
unexpected behaviors, but especially if combined with a finer analysis
of closed-scales types and the postulation of a medium-degree
standard. Besides, these variables will be seen to uncover connections
with two central patterns to be analyzed in this paper drawn from
argumental relations and, in the long run, reveal interesting
extensions and alternatives in the ways in which lexicon, semantics
and, syntax interact in the determination of aspect.
In particular, this will allow us to establish a parallel with the way
in which different arguments determine the aspectual contour the
(event yielded by the) verb hosting them. In concrete, we will propose
that this should not be seen as an indication of a variable typology
(i.e., that color may be eventually associated either with closed or
open scales) but rather of the fact that semantics does not exhaust the
problem and that syntax participates and in different ways—both
configurationally and compositionally.
Now, in order to get started, we must provide a general backdrop.
Therefore, a few general considerations about color, its formal
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AIΩN-Linguistica n.6 n.s. DOI: 10.4410/AIONL.6.2017.008
implications and its place among comparable property-denoting
elements are in order.
2. Color and scales. Two main types drawn by boundedness.
In theory, several different structural characteristics of a property
scale could be important, including whether the scale structure
associated with a given property is finite (i.e., has boundaries drawn by
minimal or maximal elements) or not, and in case it does, whether those
boundaries can be surpassed, or not. We may also consider whether
proper ascription of the property at stake corresponds to the
achievement of a lowest, medium or maximal degree in the scale, and if
the standard rests on a comparison class (i.e., a relative standard) or is
rather an absolute value, either set by default on lexically-encoded
information or fixed by a conventional rule (McNally 2011). By the
same token, we may wonder whether gradability is possible or not. Or
if the standard shows significant context sensitivity or not, and so forth.
In any event, it is also clear that elucidating the full range of structural
variation in scales that natural languages are sensitive to would require
an empirical investigation that goes beyond the scope of a single paper.
So, with a view to narrowing down alternatives and loose ends, we
will delimit our study by focusing on two variables among those
available in dealing with the topic of color. In particular, we will focus on
two parameters that have been widely studied before in the classification
of adjectives (cf. Hay et al. 1999, Kennedy & McNally 2005 i.a.), under the
assumption that relevant connections can be established between verbal
and adjectival predicates formed on the basis of color-denoting roots.
First, we will address the parameter whereby a scale is either open
or closed and the that this may have on the behavior of the predicates
derived. This choice is not arbitrary; rather, it relies on a significant
body of literature (see Cruse 1986, Hay 1998, Hay, Kennedy & Levin
1999, Kennedy & McNally 1999, Paradis 2001 i.a.) acknowledging its
direct participation in the problem at stake. As a second step, we will
consider two different dimensions according to which the standard or
threshold is established.
Colors in the lexicon-syntax-semantics interface 203
AIΩN-Linguistica n.6 n.s. DOI: 10.4410/AIONL.6.2017.008
2.1. First step: scale boundedness, adjectives, and verbs.
In particular, there is by now a considerable body of literature
arguing that various linguistic phenomena are sensitive to whether
the scale associated with the adjective is either open or closed—i.e.
whether it comprises maximal and minimal values in the domain of
the corresponding measure function, or whether it lack such values
altogether. More specifically, the distinction between open and closed
scales—i.e., working under the simplest assumption about possible
scale structures according to boundedness4—has been widely pointed
out as the source of the difference between different types of
predicates building on property-denoting roots, colors included
(Cruse 1980, 1986, Bierwisch 1989, Paradis 1997, Rotstein & Winter
2004, Kennedy & McNally 2005 i.a.).
Interestingly, on these grounds two adjectives semantically similar
like bianco [white] and chiaro [light]
(1)—at least in the sense that they both convey properties related to pigmentation, color shades, etc.—can be shown to involve important differences. (1) a. In certi momenti della giornata il puntino diventa maggiormente
rosso/#brillante in certain moments of-the day the dot-DIM becomes mostly red bright ‘In certain moments of the day the dot becomes mostly red/#bright’ b. Questo residuo insolubile è pressoché bianco/#chiaro. this residue insoluble is quite white light ‘This insoluble residue is almost white/#light’
4 Of course, scale boundedness involves finer-grained distinctions. Basically, a scale
may have neither a minimal nor maximal element, but if it does comprise boundaries, the scenario is not unanimous, for presence of one scale boundary does not necessarily involve presence of the other. In other words, a bounded scale may have maximal and minimal elements, but it may also minimal but no maximal element, or it may have a maximal but no minimal element. Nevertheless, these further alternatives are not rele-vant to the property under scrutiny here. Hence, we will continue under the simplest distinction, which is the contrast drawn between predicates built on open property sca-les and those comprising bounded intervals, as seems to be the case for color. Eventual-ly, we will introduce a finer distinction (minimum/medium/maximal standard) that seems to fare better in accommodating the aspectual behavior of the verbs under study and drawing clearer differences between bounded scales.
204 Maria Eugenia Mangialavori Rasia
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c. Vero è che questa sorte di formaggio resta alquanto bianco/chiaro true is that this sort of cheese remains rath white light ‘It is true that this kind of cheese remains rather white/#light’ d. Tutte le pagine di wikia risultano con sfondo totalmente nero/#scuro. all the pages of wikia result.PL with background totally black dark ‘All wikia pages come up with a totally black/#dark background’. e. Un hamburger completamente rosso/#multicolore. a burguer completely red multicolor ‘A completely red/#multicolor burger’ f. Un limone perfettamente giallo/#colorito a lemon perfectly yellow colorful ‘A perfectly yellow/#colorful lemon’
Notably, they display important differences in how they accommodate
aspectually relevant adjuncts. This type of distributional pattern lends
further empirical support to the differentiation of two natural classes of
adjectives determined by how they accommodate degree modifiers (Hay
et al. 1999 i.m.a). Specifically, as a natural consequence of scale
boundedness, adjectives involving properties with maximal and/or
minimal values (2b) are expected to pick out proportional and
maximality modifiers (cf. 3b). In turn (contextual sensitivity aside),
adjectives associated to scales with open intervals (i.e. that do not feature
maximal/minimal values) like those in (2a) are normally out—or, at least,
odd—in these contexts, as (3b) shows. In the same manner, gradability (4)
can be alternatively related to the use of scale openness/closedness in
expanding relevant contrasts within these two predicate classes (cf.
Paradis 2001 i.a.)
(2) a. grosso, alto, lungo, largo, dolce, chiaro, scuro, colorito, brillante, oleoso thick, tall, long, wide, sweet, light, dark, colourful, bright, oily b. aperto, chiuso, pieno, macchiato, rosso, giallo, nero, bianco, verde,
grigio open, closed, full, spotted, red, yellow, black, white, green,
gray (3) a. #perfettamente/#completamente/#quasi/ #pressoché chiaro, scuro,
brillante, colorito, molticolore perfectly completely almost nearly light, dark
bright, colorful, multicolor
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b. a metà/ perfettamente /completamente/quasi/pressoché bianco, rosso, nero, giallo
halfway perfectly completely almost nearly white, red, black, yellow
(4) molto/troppo/abbastanza/un po’ scuro, chiaro, brillante, #bianco, #nero, #verde, #rosso, #grigio.
Very too enough a little dark light bright white black green red gray
Interestingly enough, note that color adjectives pattern rather
differently from other hue-denoting adjectives, like chiaro [light], scuro
[dark], brillante [bright] across all these alternatives. In this sense, the
specific case of the Italian root √scur[o] shows a much clearer situation
that its English counterpart, dark, at least according to some considerations raised in the literature (cf. Kearns 2007)5.
Now, in explaining these patterns—and especially with (1) in
mind—, a logical connection with the way motion and space figure in
natural languages arises, and one that will make particular sense at
the end of the paper.
In principle, the reason why the adjectives in 0b —among which we find color—can be argued to involve closed scales follows from essential
requirements for calculating total and intermediate degrees on a measure
function, which, in principle, is supplied by the property scale. If the scale
associated with adjectives that accept modifiers of the kind of pressoché
[almost], alquanto [quite] or quasi [almost]6 lacked salient scalar
boundaries, it would be impossible to calculate the difference between
5 Specifically, Kearns (2007(52)) addresses divergent patterns shown by dark to argue
that its shifting classification (as a closed scale in some cases, and as an open scale in orders) is indicative of a scalar boundary encoded in the root and not picked up by the derived (ad-jectival) form. Accordingly, the verb dark alternates between telic and atelic readings. Yet, the patterns addressed also involve factors which need to be strictly separated from lexi-cal/syntactic encoding and which, in our view, expose a telicity that is clearly determined outside grammar and the lexicon. As here we are concerned with the grammatical/lexical problem, we will consider those cases unaffected by external or subsequent determinations.
6 It is true that ‘a metà’ is not so easily accommodated by color adjectives, at least without forcing a specific quantitative reading. We will address this specific circum-stance next, along with the fact that verbs derived from colors find no problem in ac-commodating this adverb either.
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the situation expressed and the relevant value on the interval that needs
to be reached for proper ascription of the property. Accordingly, we
assume that only colors, hue or shades associated with bounded ranges
make it possible to calculate distance with respect to a salient point in the
scale, and thus identify the point targeted by adverbs of this sort. Similarly, maximality modifiers such as perfettamente [perfectly] and
completamente [completely]—which are to be logically related to event
boundedness and telicity afterwards—can be handled as long as the
property scale involved comprises a closed interval; that is, a quantized
(i.e., a finite) scalar extent that needs to be covered in order to deliver
completion or totality. Hence, the property standard sets a value that serves as natural event endpoint; that is, the terminus that needs to be
reached for the event to count as completed. Even if the association of
closed scales to a maximal degree or standard is a complex issue
demanding clarifications—to be presented next—, it can still be noted
that this situation draws a visible contrast with the properties denoted by
adjectives of the type represented in 0a, such as dark. Arguably, the fact that they fail to accommodate adjuncts targeting either a medial or a
maximal degree is seen as an indication of these adjectives involving
properties associated with open scales7. Conversely, we can build on
empirical evidence contributed by affinity with adjuncts like
perfettamente, pressoché, alquanto, to assume that color adjectives 0 are
associated with closed intervals or bounded scales.8 Now, the logical question to ask is whether these well-known
differences in adjectival predication are also relevant to other
morphosyntactic realizations of the same lexical root. In other words,
whether those aspects of meaning drawing two natural classes of
adjectives also affect other categories and are actually cross-categorial.
In a nutshell, the expectation goes as follows: if color adjectives involve maximum/minimum values ([+m]scales, in our terms) and
7 Leaving aside the potential ascription of a maximal degree to some originally
open-scaled properties due to contextual factors (cf. Kearns 2007 on adjectives like cold). 8 This characterization agrees, in general terms, with semantic studies (see McNally
2011, Kennedy & McNally 2005) and experimental studies (Clapp 2012, Hansen & Chemla 2015) on color adjectives.
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absolute standards (Clapp 2012, McNally 2011 i.a.), then the verbs
derived—in the classical sense of ‘deadjectival verb’—shall denote
properties with corresponding aspectual characteristics. More precisely,
given the behavior exposed above, it is not unreasonable to expect verbs
to feature this scalar upper boundary which, consequently, allows completion (and, hence, telicity) under the relevant conditions. This
relation is expected to hold at least according to the widely-studied
correlation between scale boundedness (+[max] scales) and absolute
standards, and, in turn, with event boundedness (Hay et al. 1999). In fact,
even if we refused to accept the relation between absolute standards and
scale closedness (Kennedy 2007 i.a. for analytic data, Syrett et al. 2010 for an experimental argumentation), the same results should follow.
Two main observations converge here. On the one hand, if the
distribution conforms a long-defended (cor)relation between the
aspectual implications of the property-denoting root and those of the
designated event. Specifically, as the property-denoting root supplies
a scale along which the progression of the event can be estimated, and scale structure positively correlates with the aspectual setup of the
event, a root-to-event homomorphic relation obtains9. As a natural
consequence of this relation, predicates building on closed-scaled
properties (i.e. involving [+m]√) shall show a visible affinity with
adjuncts targeting either a partial or a total completion of the
designated event (made available, precisely, by the bounded scale), which, in turn, should not be so easily accommodated by events
rendered by verbs involving open property scales (correspondingly
mapped by the [-m]√ lying at their heart). On the other hand, if the
inverse relation holds, it is another long-held insight—the analysis of
color as a paradigmatic case of closed scales—that would find
additional support. As a matter of fact, both predictions are born out, as verbs in 0b are
typically expected to handle adjuncts like a metá or totalmente 0b, due
9 A similar (root/event) homomorphic relation is analyzed in works from the syntac-
tic (constructional) camp (e.g. Harley 2005) and from semantic works on different con-structions (see Wechsler 2005). From this point, we will refer to this homomorphism as Root-Event Homomorphism [REH].
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to the presence of a salient degree or standard against which both an
intermediate stage in the process and completion can be calculated. In
turn, verbs that might seem similar in the denotation of a COS related
with shades and tonalities, though crucially diverging by featuring an
open scale, like schiarire [lighten], scurire [darken] or impallidire [pale] 0a, do not. Interestingly enough, the fact that color verbs allow degree
modifier like pressoché [nearly] 0 is particularly compelling, inasmuch
as the modifier makes the salient scale boundary stand out. Besides,
compatibility with non-completion adverbs in general, but especially
quasi [almost], is particularly relevant in this respect, given the finer
distinctions that it allows for. More precisely, compatibility with almost-type adjuncts can be expected not only as long as a closed
interval is involved, but also as long as a non-minimal boundary
degree in the scale can be identified and, hence, surpassing of zero-
degree along with non-completion can be estimated. This draws a
relevant difference with predicates like chiaro/schiarito which, under
normal conditions10, do not involve a reference point (interval boundary) against which partial completion could be estimated11. A
10 From now on, this expression is referred to the fact that the behavior of this type
of predicates can eventually vary as the result of context sensitivity and the possibility of scale delimitation by (either linguistic or non-linguistic) context (cf. Kearns 2007). He-re we leave this matter and related non-grammatical issues (e.g. coercion) aside and ra-ther focus on the core problem at stake.
11 Indeed, the distribution and interpretive effects of almost has been extensively used in developing adjectival typologies. For instance, Cruse (1986), Yoon (1996) and Rotstein & Winter (2004) offer a classification that differentiates between total-partial (dry-moist, clean-dirty, straight-bent/curved, smooth-rough, complete-incomplete) and relative scales, which reject almost (long, short, expensive, cheap). Yet, this does not predict the behavior of the second member of the total/partial pair (almost dry/*moist). Instead, Kennedy (2007) proposes a three-fold classification to accommodate partial scales, under the claim that almost is allowed if a standard is drawn by context (see also Kennedy and McNally 1999, Hay et al. 1999, Kennedy 2005), thus drawing the following typology:
1. Total scales: standard value is fixed on zero degree on a closed interval. 2. Partial scales: standard value's default is zero degree on an open interval
(ultimately overridden by context, thus giving a closed interval). 3. Relative scales: lacks a default standard (open interval).
However, in our view, scale boundedness and relativity of the standard can be rela-ted thought they should remain logically separated. Quite apart from that, the termino-logy is not convenient, given that ‘total scales’ can sporadically allow surpassing of the
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second important observation allowed by these adjuncts will be
presented in the next (sub)section.
(5) a. ingrossare, allungare, allargare, addolcire, schiarire, scurire, imbellire,
impallidire thicken, lengthen, widen, sweeten, lighten, darken, embellish, pale b. aprire, chiudere, pienare, macchiare, arrossire, ingiallire, annerire,
sbiancare, inverdire, ingrigire open, close, fill, spot, redden, turn yellow, blacken,
whiten, turn green, turn grey (6) a. schiarire, scurire, impallidire #ametà/ #maggiormente/
#completamente/ #perfettamente lighten, darken, pale halfway mostly completely
perfectly b. sbiancare, arrossire, annerire ametà/ maggiormente/ completamente/
perfettamente. whiten, redden, blacken halfway mostly completely
perfectly (7) Pressoché / quasi sbiancato/#schiarito.
Nearly almost whitened lightened ‘Nearly/almost whitened/#lightened’
Moreover, the presence of a scale boundary and its correlation
with telicity defended here also matches the fact that neither sbiancare
nor annerire tolerate progression beyond a point in the scale; in
principle, the color standard sets an event endpoint that can be met
but not surprassed. By contrast, scurire and schiarire turn out natural
under the same conditions 0 presumably out of involving scale
structures with open (property degree) intervals and, hence, further
progression (and a higher degree of the property) is always possible.
Finally, the standard test used in the literature in the diagnosis of
verbal telicity shows a distribution which nicely dovetails with the
maximal standard and comparison (x is cleaner than Y). Instead, we will offer another scalar typology, using boundedness as single parameter. This three-folded typology goes beyond previous (binary) accounts of bounded scales (cf. Kennedy & McNally 2005) by building on the identification of a non-minimal, non-maximal value setting the relevant scalar threshold.
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patterns obtained so far. Note that the open-scaled COS verb (e.g.
schiarire) are natural with framing adverbials (0b), which is normally
considered an indication of verbal12 atelicity, whereas the closed-scaled
COS (e.g. sbianchire) correctly handles the endpoint adverbial (0a).
(8) Si #anneriva / #sbiancava / scuriva / schiariva sempre di più SI blacken.PIMP whiten.PIMP darken.PIMP lighten.PIMP always of
more ‘It always turned too #black/#white/dark/light’ (9) a. La candeggina sbianca i tessuti *?per ore/in una ora the bleach whitens the fabrics for hours in an hour ‘The bleach makes the fabrics lighters (*?for hours/in an hour)’ b. La candeggina schiarisce i tessuti per ore/#in una ora13 the bleach lightens the fabrics (for hours/#in an hour) ‘The bleach lightens the fabrics (for hours/#in an hour)’
Additional aspectual parameters and precisions are still to be drawn.
For the moment, we can close this (sub)section by observing that, overall,
data consistently suggests that the correlation between scale boundedness
and aspectual closure, widely pointed out in the literature, can be easily
extended to Italian verbs building on color roots with the expected results.
In particular, distribution of totality and maximality modifiers serves as an
excellent introduction into the correlation at stake, since verbs like those
comprised in 0—which can be presented as the verbal alternatives to the
adjectives in 0—show cross-cut behavior patterns, just as adjectives
showed contrasting patterns also following from the distinction between
scales comprising or lacking scale boundaries. In this sense, aspectual
patterns contributed by verbs denoting (change of) color 0 can be arguably
connected with the patterns seen in adjectival predicates regarding
12 In truth, as noted since Dowty (1991), these adverbials are extensively used for te-
licity distinctions, though they can also blur these contrasts if lexical and compositional aspect are not carefully differentiated—which is the reason why we emphasize the ver-bal (or, lexical, in the sense of lexical aspect or Aktionsart) nature of the telicity at issue. Nevertheless, we will not limit ourselves to this diagnostic; rather, we will provide fur-ther analytic evidence (e.g. imperfective entailments, Subinterval property) reaffirming the (cor)relation proposed.
13 Leaving contextually-bounded readings of the chiaro/schiarire scale aside. See n. 10.
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aspectual closure and its correspondence with scale closeness (recall 0-0)14.
From here, their aspectual classification as inherently telic verbs follows
naturally. In turn, the distribution of proportional and non-completion
modifiers like pressochè suggests a specific type of scale boundedness with
special implications to be elaborated further.
However, before we turn to that matter, there are other
consequences of scale closure deserving attention. As just anticipated, aspectual/eventive consequences of scale boundedness do not end in
mere aspectual endpointedness (telicity, so to speak), as classically
assumed in the literature. Further specific tests for telicity not only
provide results nicely dovetailing with these observations but also
point out more relevant ways in which verbs building on different
property-scale structures differ.
2.2. When scale boundedness results in something else: Resultativity and DEH
Further empirical evidence in support of the linguistic relevance of scale
boundedness comes from entailment patterns observed in adjectives.
Leaving truth condition evaluations aside, it has been often noted that adjectival predicates bear different entailment patterns according
to the association of an absolute vs. a relative standard (cf. Cruse 1980,
Rotstein & Winter 2004, Demonte 2012; Kennedy & McNally 2005;
Kennedy 2007, i.a.). Yet, what is less often noted is that they also differ
as to the entailment patterns that can eventually be related to event
boundaries—which can be subsequently connected to important eventive differences displayed by the verbs at the table. One such
possible pattern is the one sketchily phrased in 0.
(10)a. Token1 is (more) P(+), though Token1 is not necessarily included in the
set of tokens defined by P(+). b. Token1 is P(+), then Token1 is necessarily a member of the P(+) class.
14 However, a proviso is in order here, for property scales involve variables (e.g.
contextual fixation of standard as maximal vs. minimal value) making this test not as reliable as desired. In fact, this is precisely the main impetus behind the further tests and analysis to be presented next.
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This kind of distinction figures in various argumentations and
analysis in the literature in relation to how standards for each
property are fixed. Here, we will make use of this particular
distinction to explain empirical differences between scalar types. In
particular, we want to entertain the idea that the basic opposition
represented by 0 can be analyzed in terms of boundedness,
independent of relative fixation of standards, and be deployed as a
formalization of eventive differences between verbs featuring
diverse scale types. On these grounds, the circumstance
represented by 0b would be interpreted in relation to those cases
where a scalar value or interval is identified as the relevant cut-off
point for proper ascription. Put simply, the idea is that certain
property scales comprise, in their semantic specification, a value
that ‘stands out’ by functioning as a standard of membership, such
that entities whose property degree meet the standard fall within
the set of entities truthfully designated by that property;
conversely, entities not meeting this requirement fall in the
negative region of the scale. By contrast, other property scales—
arguably, open-range properties—do not allow for proper
identification of a default salient degree or cut-off point, as natural
consequence of the structural properties of the scale. As a result,
some entities exist for which we cannot say whether they feature
the property or not in terms of set-classification given by a
systematic cut-off point; instead, a mere non-zero requirement—
that is, bearing a minimum degree of the designated property—
suffices. Moreover, lack of an identifiable (relevant) point in the
scale often determines that there are no clear boundaries between
the positive and negative regions of the scale; in consequence, a
change along this property may occur, without this implying that
the object lands, as a result, on the positive region of the scale. In
other words, by implying this non-zero requirement, any increase
in the property scale suffices for the change (designated by the
verb) to count as occurred; however, this does not necessarily
mean that the object is now a proper representative of a clear-cut
class, but rather that it has changed in any degree along the scale.
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For instance, scuro [dark] involves, as a consequence of its scalar
openness, not a default standard that needs to be met or surpassed,
but rather a non-zero property degree for a positive ascription. This
means that for proper or truthful ascription, any degree of scurità
[dark]ness, even the most minimal one, will do and no set-membership is required or expected as a result (0a). Accordingly, the process
designated by scurire counts as completed even if the increase was the
minimum possible (let us say, just a centesimal degree along the scale
of darkness), and it as a result the object is only required to bear a
higher degree of darkness, as (0b) shows. Thereby, denying that the
adjective applies is compatible with a successful completion of the event (0b) and the situation is thus properly defined by (0a).
(11)a. Il cielo è scuro [ma non è propriamente scuro] ‘The sky is dark [but it is not really dark though]. b. Il cielo si è scurito [ma non è propriamente scuro] (cf. ==>Il cielo è più scuro) ‘The sky darkened’ [but it is not dark though] (The sky is darker [than it was an hour ago])
Anyhow, this comes out as a significant difference with color
adjectives. For instance, in the case of nero [black], the degree of property
involved for a truthful ascription of the positive form of the adjective
determines set-classification (i.e., the circumstance depicted by 0b). In
consequence, truthful ascription of the property involves an extent that
forbids the negative implication (0a) and raises a visible polarity as a
consequence of the resulting set-membership 0. Notably, as noted above, a
negative form of the scuro [dark] type of property involves zero degree of
that property—i.e., if the sky is not scuro [dark], it has zero scuro [dark]ness
in it. This is in stark contrast with color scales, inasmuch as the negative
form of a color adjectival predicate involves not a zero degree but rather
an insufficient one for set-classification: a same sky can bear a little
amount of gray (imagine a gray, cloudy area on a black sky) without that
making it a gray sky. In order to be truthfully described as gray instead, a
required degree of grayness is necessary, which, in turn, would determine
its classification in a different set—the universe of gray items—; otherwise
the object keeps being defined as black and thus belonging to the set of
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items properly defined as black. Further, set-classification or membership
determines a polarity 0 not quite paralleled by open-scaled properties; yet,
it is also true that contrasts of this sort are not that robust and might be
subject to debate. Yet, important insights can still be derived regarding the
eventive characteristics of the COS event yielded in each case, to be
presented next. For the moment, these considerations allow us to
introduce a finer-grained distinction among the different ways in which a
scale can be bounded.
(12)a. Il cielo è nero #[ma non è propriamente nero] ‘The sky is black #[but it is not really black though]’ b. Il cielo si è annerito #[ma non è propriamente nero] (cf. =/=> Il cielo è più nero) ‘The sky blackened #[but it is not really black though]’ ‘The sky is more black’ (13)a. Il cielo non è scuro #[ma piuttosto fosco] ‘The sky is not dark #[but rather dull]’ b. Il cielo non è nero [ma piuttosto grigio scuro] ‘The sky is not black [but rather dark grey]’
To be more specific, bounded scales are normally classified on a
binary basis determined by either minimal or maximal values on the
scale. That is, a scale can be bounded at a lower point in the scale
(lower closed scales) or at the upper point (upper closed scales, cf.
Kennedy & McNally 2005).
Now, the indication about color requiring a significant degree to be reached, and consequent set-membership this is important
because it reveals a crucial structural difference with a minimum-
standard, which some closed (i.e., lower closed scales) share with
open scales (cf. Wechsler 2005, Kennedy & McNally 2005). Take,
for instance a lower closed scale representative, such as sporco
[dirty]. Since this property is normally related to a scale with a salient threshold set at a minimum degree, any degree of dirtiness
will do for truthful ascription—for instance, a drop of spilled
coffee on a blanket counts for the blanket be regarded as sporca
[dirty]. In general terms, this matches the requirement posed by
open scales and translates in a capacity to accommodate degree
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modifiers targeting this minimum requirement (0a). By contrast,
the amount of blackness involved in cielo nero [black sky] must be
far more than non-zero—recall the example of the slightly clouded
black sky—; otherwise, that is, if the amount of black is just the
minimum (over zero), the object would be designated by another color, normally the one that predominates (cf. McNally 2011). This
requirement explains the felicity of modifiers that pick out the non-
minimal point in the scale needing to be reached (0b). Besides, if
only a minimum degree standard were required for colors, then we
would be left with no logical or principled way to explain the
contradiction noticed in (0b), which, we argue, follows from set-membership drawn by this non-minimum requirement.
(14)a. Il cielo è appena/leggermente sporco/#nero ‘The sky is slightly/slightly dirty/#black’ b. Il cielo è esattamente #sporco/nero ‘The sky is fairly #dirty/black’ (15)a. Il cielo è scuro [ma anche fosco] ‘The sky is dark [but it is turbid]’ b. Il cielo è blu #[ma è anche grigio] ‘The sky is blue [#but it is also gray]’
On the other hand, the type of scale boundary seen in colors is
visibly different from the case of maximal standard (upper closed)
scales like the one involved in trasparente [transparent, see-through], where a non-maximal positive degree is not enough for proper
ascription of the property, as with sporco [dirty]; but, in addition, only a
maximal degree suffices for truthful ascription and/or satisfactory
change along the scale. This means that, for upper closed scales,
property ascription is incompatible with partial change (0c). In contrast,
color verbs allow truthful ascription of the property and deliver complete changes without requiring that a maximal value or extent is
reached, a property shared with both open scales (0b) and minimally-
bounded (lower closed) scales (0b). Of course, this does not mean that
colors can be classified along with properties with a scale boundary set
at a minimum-degree, especially in light of the relevant differences
illustrated in 0-0; and, in turn, the non-zero requirement shared by
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minimally-bonded and open scales does not mean that they fall in the
same class either, among other things because the scale boundary keeps
being crucial, notably, to deliver telic events and allow completion (0b),
which is not possible on open scales by default (0a).
(16)a. Il cielo è scuro [ma non è (#completamente) scuro] OPEN SCALE ‘The sky is dark [but it is not (#completely) dark]’ b. Il cielo è sporco [ma non è completamente sporco] BOUNDARY AT MINIMUM DEG. ‘The sky is dirty [but it not completely dirty]’ c. Il cielo è blu [ma non è completamente blu] BOUNDARY AT MEDIAL DEG. ‘The sky is blue [but it not completely blue]’ d. Il cielo è trasparente #[ma non è completamente trasparente BOUNDARY AT MAXIMUM DEG. ‘The sky is transparent #[but it is not completely transparent]’
These essential differences can be also tracked in verbs and, in
fact, explain important eventive contrasts. On the one hand, for
verbs of the type we are concerned with here, color verbs, scale
boundedness reflects in the fact that undergoing the event
involves ascription of the corresponding property. As a
consequence, negation of the designated state (if the event has
been completed) delivers a contradiction (0b). On the face of it,
this circumstance is shared by bounded scales in general,
including lower closed (0b) and upper closed scales (0b); and, in
turn, draws an important difference with hue-denoting roots
featuring open scales (0b).
On the other hand, the medial boundary featured by color
forms determines that the change count as completed, even if a
non-maximal degree or completion have been achieved (0a). This
circumstance is shared with lower closed scales (0a), thus
reflecting the similarity shown by the corresponding adjectives
(recall 0b-c); and, at the same time, marks an important
differences with upper closed scales, in which case the natural
endpoint of the event necessarily coincides with saturation (0a).
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(17)a. La candeggina ha schiarito i tessuti #[ma non completamente] OPEN SCALE ‘The bleach has made the fabrics lighter #[but not completely] (cf. Hay et
al 1999) b. La candeggina ha schiarito i tessuti [ma non sono chiari] ‘The bleach has made the fabrics lighter [but they are not light
(though)] (cf. Kearns 2007) (18)a. La candeggina ha sporcato i tessuti [ma non completamente]
BOUNDARY AT MINIMUM DEG. ‘The bleach has made the fabrics dirty(#er) [but not completely] b. La candeggina ha sporcato i tessuti #[ma non sono sporchi] ‘The bleach has turned the fabrics white #[but they are not white
(though)] (19)a. La candeggina ha sbiancato i tessuti [ma non completamente]
BOUNDARY AT MEDIAL DEG. ‘The bleach has made the fabrics lighter [but not completely] b. La candeggina ha sbiancato i tessuti #[ma non sono bianchi] ‘The bleach has turned the fabrics white #[but they are not white
(though)] (20)a. La candeggina ha pulito i tessuti [ma non completamente] BOUNDARY AT MAXIMUM DEG. ‘The bleach has made the fabrics clean(#er) [but not completely] b. La candeggina ha sbiancato i tessuti #[ma non sono bianchi] ‘The bleach has turned the fabrics white #[but they are not white
(though)] To recap, the special type of scale structure displayed by color
forms reflects in property ascription (and consequent set-
classification) but at the same time with a crucial difference between
event endpoint and maximality. In this light, the entailments
proposed in 0, which might seem debatable at some point, pin down
the eventive consequences of a medial scale closure in colors at the
same time that they illustrate the major contrast with verbs and
adjectives on hue-denoting roots associated to an open scale. Thus, the
essential circumstance depicted by (0a) defines a distinctive
entailment delivered by verbs building on open-scaled hue roots
across its different occurrences 0. In turn, the circumstance
represented by (0b) reflects in a general pattern seen in colors, as can
be seen in corpus data like 0.
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(21)a. La camomilla mi ha schiarito i capelli [ma non sono ancora chiari]. The chamomile I.DAT has lighten the hair.PL but not are yet clear ‘Chamomile has made my hair fairer, but it is not fair though’ b. Grosse nubi avevano scurito il cielo [ma non era scuro] great clouds had.PL darkened the sky but it is not dark ‘Great clouds darkened the sky, but it wasn’t dark though’ (22)a. I capelli si sono sbiancati [#ma non sono bianchi] the.PL hair.PL SI are whitened but not are white ‘The hair turned white, [#but it is not white]’ b. L’oro si è annerito (affatto) [#ma non è nero] the-gold SI is blackened at all but not is black ‘The gold is (completely) blackened #but it’s not black]’ c. Improvvisamente, i semafori arrossirono [#ma non erano rossi] unexpectedly the.PL light turn-red-PST but not were red ‘Suddenly, the traffic lights turned red [#but they weren’t red]‘
These differences cutting across hue-denoting verbs leads us to at
least two different and valuable analytic observations.
For one thing, a crucial difference would be that transition from
zero-degree of the property to a standard degree (or, rather, to either
medium or near-maximal) in color predicates constitutes an
identifiable shift logically involving some kind of threshold (i.e. a
standard). This is in contrast with the type of (undistinguishable)
transition between degrees in an open scale (i.e., with no such
thresholds) such as the one involved in scurire or schiarire. In
consequence, the mapping of these two different (scale) structures
reflects into different temporal structures for the corresponding
transition (i.e. the verbal predicate rendered on such basis). Informally
speaking, by implying this identifiable shift (i.e., involving a cut-off
point), the verb is associated with a transitional structure that
describes both progress (interval of duration of the event) and a
culmination (at the end of each such interval, the degree attained is
within the set of degrees associated with the positive form of the
corresponding adjective). Then, if a given standard value specifies
such a set, culmination equals to landing in the positive area of the
property scale. By contrast, scales lacking such thresholds—we used
the case of dark and light for the ease of exposition—reflect into an
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AIΩN-Linguistica n.6 n.s. DOI: 10.4410/AIONL.6.2017.008
unthresholded transition, where the interval rendered by event
progression extends along a homogeneous, positive area of the scale—
which, in addition, may have already begun in the positive area of the
scale. We will focus on the specific implications of non-homogeneity
next (Section 0); for the moment, what is important is that no natural
‘transition’ or cut-off point are involved and ascription of the property
denoted by the adjectival predicate is not dependent on completion.
This basic difference, which can be regarded as a resultative
entailment—arguably holding only for color and bounded roots—is
exemplified in (23).
(23)a. La candeggina ha schiarito i tessuti =/=> I tessuti sono chiari OPEN SCALE ‘The bleach has made the fabrics turn lighter’ =/=> ‘The fabrics are lighter’ b. La candeggina ha sbiancato i tessuti ==> I tessuti sono bianchi
BOUNDED SCALE ‘The bleach has made the fabrics turn white’ ==> ‘The fabrics are white’
On the other hand, this resultative entailment marks another important difference in eventive terms. Interestingly enough, negative
operators (not) and partial modifiers (prototypically, almost), long used in
the diagnosis of telicity (since Dowty 1979), make such contrasts visible.
According to the general wisdom, for certain verbs
(paradigmatically, telic complex events [accomplishments]) negative
and partial operators are ambiguous between a counterfactual interpretation (i.e. a case where somebody had the intention to start the
event, but the event never begun) and a scalar or incompletive
interpretation (i.e., a case where the event began but the natural
endpoint was not reached). Instead, in other verbs (atelic transitional
events [activities] and also simple (punctual) telic events
[achievements]), the second alternative is not available: the only interpretation possible is the counterfactual reading.
Interestingly enough, for COS verbs involving color, double scope
seems to be enabled, indicating a complex telic structure. This means
that operators like no [not] or quasi/pressoché [almost] have a choice:
they can scope either over the event per se (i.e., the transition towards
the required standard of color or cut-off point); alternatively, they can
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also scope over the natural endpoint of the event, which coincides
with set-classification; that is, over the result of the completed event
which, as seen above, involves property ascription. As a consequence,
two readings are allowed by color verbs (0b): one in which somebody
had the intention to start the event, and didn't, thus the object experiences no change at all; and one where the event begun but the
natural endpoint was not reached, although some change might be
involved. In general, this eventive complexity marks a further
difference with other COS verbs featuring hue-denoting roots. More
specifically, verbs of the type of schiarire [lighten] or scurire [darken]—
that is, those associated to open scalar ranges—only seem to have one reading under negation: the one in which the event was about to
begin but never did. Now, given the non-zero requirement holding
for open scales, according to which the most minimal change counts
(over-zero), a counterfactual reading implies that the object
experiences no change at all (0a).
OPEN SCALE 0a. Non (si) schiarì / scurì / impallidì Not (SI) lightened darkened paled ‘It didn’t get lighter/darker/paler’ [Counterfactual interpretation] b. Non (si) sbiancò / arrosì / annerì / inverdì BOUNDARY
AT MEDIAL DEG. Not (SI) whitened reddened blackened turn.green. PST ‘It didn’t turn white/red/black/green’ [Counterfactual interpretation] ‘It didn’t get [any] whiter/redder/blacker/greener’ [Scalar/Incompletive Interpretation]
What is important here is that resultativity is not just a problem of
meaning, but rather a structural problem for the grammatical
representation of eventivity, either semantically or syntactically speaking. In other words, double scope can only be possible as long as there are
two candidates for the operator to scope on, and this can only be
explained in structural terms. From a semantic perspective, the structural
ambiguity seen above—i.e., between an incompletive and a
counterfactual reading—requires two different eventive components or
subevents: the process and the result. If pushed further, the resultative
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entailment delivered by color verbs can be argued to involve a richer
descriptive content in its semantic representation, as it would include
both the path traversed as the COS event progresses but also a final
location, the expected resulting state, which is allegedly represented by
the natural endpoint set in the scale determining property ascription. In turn, if represented (or encoded) in the syntax of the VP, this relative
complexity would involve two different projections, regardless of the
specific way in which the relation between eventive structure (semantics)
and (lexical) syntax is seen (see Ramchand 2008, Borer 2005, Ritter &
Rosen 1998 for different views on the matter; see Wechsler 2005 for a
specific discussion on complex resultatives).
Anyway, as we are mainly concerned with semantics here, we
want to close the section by pointing out three major consequences
that follow.
First, according to these results, we will interpret the capacity of
delivering structural ambiguity (i.e., operator double scope) as an
indication of a relative structural complexity in color verbs. The idea
about an event structure being relatively complex is in contrast to the
simpler structure assumed for other COS verbs building on hue
roots—specifically, those associated to open scalar structures—, which
do not allow for such an ambiguity and are constrained to a single
(counterfactual) reading under negation.
Second, the case presented by COS verbs on open-scaled hue roots
lends further support to the claim that COS is not necessarily telic; but
rather, is compatible with lack of default temporal bound. In principle,
this creates a problem for the uniform classification of COS verbs,
especially deadjectivals, as accomplishment verbs, requiring a careful
revision. Given the specific approach taken here, the inherent atelicity
of some hue verbs is a non-configurational result; that is, a mere
consequence of (the semantic specification supplied by the) lexical root.
As the hue-denoting root, as supplier of the relevant scalar structure,
contributes an open-range scale, then the COS progressing along such
an open range is consequently atelic—that is, its progress does not
involve a natural endpoint—and, hence, does not involve a proper
accomplishment event, but rather a non-finite progression which can be
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measured along the scale supplied by the root. This specific situation
will be fleshed out next. Third, this structural difference between verbs featuring open and
bounded hue scales has cross-categorial significance, as it also shows up
in the corresponding adjectival predicates(cf. 0 and 0 above)15.
Finally, (fuorth), the patterns introduced in this specific subsection
are of interest regarding the predictive power of PsEH. To be more
specific, analytic and corpus data indicates that not only telicity but
also resultativity can be predicted by the recruitment a bounded scalar
structure (i.e., scale boundedness) by the hue-denoting lexical root.
Notably, verbs with color roots display not only telic but also
15 Alternatively, the ambiguity allowed by color can be argued to stem from the availabi-
lity of two distinct scales that can be targeted by the adjunct. On one reading, not/almost are targeting the property scale that is (lexically) encoded in the lexical root (i.e., the red/black/white-ness scale). On this reading, a predication like (0b) is true as long as the de-gree to which the object is white, red, black is not the required (according to the designated threshold). There is also a second reading, where half is targeting a quantity-based scale that is provided by the path described by the COS verb; in other words, it scopes over the pro-gression rendered by the root when derived as (conflated into) a verbal predicate involving a transitional event. In the case of schiarire and scurire, the root cannot be scoped because it en-codes an open scale. Crucially, this does not invalidate the asymmetry just postulated, since scalar open/closedness is not necessarily exhausted by a featural difference, but actually in-volves a structural one as well (cf. Terminal coincidence, in a Hale & Keyserian sense, or even a Path+Place structure for configurations involving a terminal ground).
If we keep the parallel with motion that initially supported these considerations (cf. §0), then counterfactual interpretation—shared by both telic and atelic DVs—is about ne-gation scoping over the transitional component of the COS (i.e., fictive or abstract motion of the Figure along the scale provided by the root, which in turn explains the fact that event progression can be measured by degree of the relevant property in gradable scales; i.e. the EDH to be presented next). By contrast, scalar or incompletive interpretation is gi-ven by the operator having scope over the implied resulting state. In such case, the proper-ty associated to the lexical root is necessarily interpreted as Terminal Ground.
Bottom line, atelic, non-resultative COS would presumably involve a structure like ((i)a) whereas telic, resultative (and hence, more complex) COS events would be structurally more li-ke ((i)b). For a detailed and principled exposition of these proposed structures, cf. Author (2015).
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resultative entailments. This creates a key difference with
morphosyntactically identical verbs built on comparable hue-denoting
roots like schiarire or scurire, which deliver atelic, non-resultative
behavior. Empirically, the use of negative and partiality modifiers
supports this relation, allows relevant connections with adjectival
predicates and, moreover, provides important insights into the type of
threshold involved in colors (medium standard) on which we will
elaborate further on later.
2.3. Two different homomorphisms and Subinterval Property.
So, as we anticipated, resultativity lines up with telicity regarding
eventive properties following from scale boundedness. Fortunately,
another relevant relation is still to be drawn, which concerns the
possibility of delivering atelic and telic COS verbs with different
semantic implications. On these grounds, two different measure
relations determined by the root-to-event homomorphism can be
distinguished. More importantly, these two relations can be easily
derived from the patterns just observed.
As we exposed above, DVs of the lighten/darken type do not bear a
result implication (recall 0a). This is important because, structurally,
there is admittedly a single component (the progress/process
component). As the natural event endpoint, consequently overlapping
with the result state, is not included in the default semantic
representation, progression is therefore not measured by (distance
from) an expected endstate. In consequence, scale openness translates
in these verbs into a never-ending progression, involving a type of
Degree-to-Event Homomorphism [DEH]. More specifically, as the
measuring function cannot be established in relation (i.e., by distance
or proximity) to a default endpoint set by the property scale, and, at
the same time, in contrast to bounded-scaled COS, any (non-zero)
increase counts as a proper COS, these verbs can be thus argued to
involve a correlation or homomorphism—that is, an ordering-
preserving function—between the ordered set of degrees comprised
in the property scale and the unfolding of the event along this axis.
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This means that homomorphism models the progress of an atelic,
non-resultative and homogeneous event which can be consequently
measured by the increasing or decreasing degree or extent to which
some property truthfully applies to the object by undergoing the
designated COS (0a). As the event advances, so does the amount of
the property (expressed by the root) which is ascribed to the affected
entity. In practical terms, given the example in (0a), the more
lightening process is involved, the lighter the fabrics will be. Needless
to say, DEH is logically facilitated by gradability, a property which is
in principle not shown by colors (recall 0, but with some exceptions,
see Mangialavori 2015 but also McNally 2011). Anyhow, this suggest a
link between gradability and scalar unboundedness deserving further
exploration. For present purposes, it suffices to say that DEH crucially
concurs with two properties diagnosed in this paper by PsEH: (non)
resultativity and homogeneity. Note that, on the one hand, for verbs
allowing DEH transition does not necessarily involve the attainment
of the property denoted by the root (0a) and, secondly, a degree-to-
event homomorphism is possible inasmuch as any subpart of the
event is properly defined by the event (i.e., any tiny segment of scurire
[darken] represents a proper scurire [darkening] event).
This introduces an important difference with color verbs concerning
the way in which the scale-toevent relation is modeled. In principle, the
difference at stake is that COS on bounded (hue) scales involves proper
ascription of the corresponding state only as a result of event
completion—that is, resultativity—and an event that only applies to the
final point of the progression—i.e., a non-homogeneous event. Therefore,
instead of a DEH, the relevant measure function involved in verbs like
sbiancare, annerire, arrossire, inverdire, etc. is rather held between the
unfolding of the event and its natural endpoint, which coincides with the
achievement of a state. To this result, an identifiable cut-off point in the
relevant scale, allegedly lacking in hue-denoting roots like scuro [dark], is
crucially required. Put differently, proper COS along a bounded hue scale
is only achieved at the end of the transition, at the point where
progression meets the salient threshold in the property scale. As a
consequence, the default scalar boundary serves as the reference location
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(e.g., a terminal ground) against which the event is measured.
Consequently, degree modifiers are accommodated in terms of distance
to or coincidence with this relevant scalar threshold instead of measuring
positive degrees on an incremental scale. In the practice, this explains the
contrast in the type of non-completion adverb tolerated, as consequence
of the variables presented above. So, on the one hand, the two different
situations described here account for a major and long-studied empirical
pattern, corroborated above for Italian verbs.
On the other hand, the distinction is important because presents a
valuable connection with a much more reliable property related to verbal
telicity, also known as the Subinterval Property (since Bennet & Partee
1972).
According to this variable, only atelic events apply to all the
subparts of the interval along which the event holds; by contrast, telic
verbs only hold to the final subinterval (the endpoint) or, better, to the
point that overlaps with the end of the interval. Just to give one
example, according to our prediction, open-scaled properties like
chiaro or scuro shall deliver atelic verbs and, hence, any subinterval of
the lightening or darkening processes would be properly described by
the events denoted by ‘schiarire’ and ‘scurire’, respectively. By contrast,
for color COS verbs, the event has been successfully undergone (only)
if the designated state is achieved; hence, it is only the last step in the
whitening or blackening process that would be properly described as
sbiancare and annerire. Informally, this entails that, for example, if
somebody is darkening something, or that something is undergoing a
darkening process for a time interval, then at each subinterval of this
time there was a darkening event. In turn, if somebody is whitening
something, or that something is undergoing a whitening process for a
certain time, then no subinterval of this temporal span defines a
whitening event, except for the last one (i.e., that where the whiten[ed]
state is attained), as (25) illustrates. 25) a. La camomilla schiarì i capelli. the chamomile lightened the.PL hair.PL ‘Chamomile made the hair lighter’ ==> For every subinterval of schiarì
[lightened], the event denoted by schiarire [lighten] applies.
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b. La camomilla sbiancò i capelli. the chamomile whitened the.PL hair.PL ‘Chamomile turned the hair white’ =/=> The event denoted by sbiancare
[whiten] applies only to the final step
For practical purposes, this main difference between telic and
non-telic verbs is some times more easily pin down by the imperfective paradox. Summarizing greatly, what is assumed here is
that the progressive (imperfective) form of a verb, if atelic, implies
the event; by contrast, the progressive (imperfective) form of a telic
verb does not imply that the event took place—only completion
counts for the event to be properly regarded as having taken place
0. In the case of deadjectival verbs 0, it has been widely pointed out that open scaled-verbs, there is an imperfective paradox going
on (Declerck 1979, Bertinetto and Squartini 1995, Hay 1998, Hay et
al. 1999, Kearns 2007 i.a.). Thus, if the analogy holds, then color
verbs 0 keep patterning with prototypical closed-scaled DVs 0 and,
hence, keep being associated to telic, resultative events also
according to both the Subinterval Property and imperfective implications.
(26) a. Mary was running ==> Mary run b. Mary was running a mile =/=> Mary run a mile (27) a. John was dirtying the room ==> John dirtied the room b. John was cleaning the room =/=> John cleaned the room16 (28) a. I capelli si stavano schiarendo ==> I capelli schiarirono (sono ancora chiari)
b. I capelli si stavano sbiancando =/=> I capelli sbiancarono (=/=> sono ancora bianchi)
As summarized by the DEH, in the COS type of event involved by scurire or schiarire the object (i.e., the Figure or theme argument) changes
by degrees along a scale that is homomorphic to the event. As minimal
degrees of change (increasing or decreasing) along the scale count as the
event having taken place, then the property scale correlates with each
16 Cf. Winter (2006) for ways in which contextual information can interfere the ateli-
city of open scales.
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subpart of the event. Therefore, a basic property of the paths onto which
open scales are mapped when delivered as COS predicates is that they
are coextensive with the event: the property can be measured along all
the path, even in the first tiniest fragment of transition. By contrast, for
color COS, the property is mapped as Terminal Ground: only total transition lands the figure in the area of the scale associated with the
positive form of the property. Progress is thus not calculated by property
degree but by distance with respect to the corresponding endstate (i.e.,
the area in the scale associated with the positive form of the adjective); in
consequence, lack of Subinterval property follows (and nicely dovetails
with the lack of DEH suggested above).17 Finally, another subtle but relevant difference—which can also
be derived from the asymmetry in structural complexity just
pointed out—is contributed by adverbs of repetition. Note that
verbs of the type of schiarire—hence, according to our hypothesis,
open-scaled verbs—allow a repetitive reading when combined
with adverbs like nuovamente [again], as expected for atelic verbs. This contrasts with the ambiguity between a repetitive and a
restitutive reading allowed by sbiancare, which is, in turn, another
traditional indicator of telicity (cf. e.g. von Stechow 1996, Beavers
2011:209 i.a.) 0. Technical controversy aside, what is clear is that a
restitutive reading can only be rendered as long as a natural
threshold is comprised in the scale.
17 From here, different observations could follow. For instance, if we abide by the
widely suggested analysis of COS in terms of (abstract/fictive) motion, then in one case the property scale is mapped onto a path that is coextensive with the event and also in-herently unbounded—though potentially boundable by different mechanisms, to which we will briefly turn later. In the other, the property is rather mapped as Terminal Ground; accordingly, no EDH nor Subinterval property arise.
(1) a. x+ + + + + + + + + + + + + + + + + + + + + + + + + + + + + ++ + x (Route) event starts event ends ‖______________(positive region of the scale)_____‖ b. x- - - - - - - - - - - - - - - -
- - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - + (Source/Goal) event starts event ends ‖______________(negative region of the scale)____‖ (positive region of the
scale)
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(29) a. La candeggina schiarì i tessuti nuovamente. the bleach lightened the.PL tissue.PL again ‘The bleach made the fabrics lighter once more’ [Repetitive reading] b. La candeggina sbiancò i tessuti nuovamente. the bleach whitened the.PL fabric.PL again ‘The bleach turned the fabrics white once more’ [Repetitive reading] ‘The bleach turned the fabrics (back to) white (again)’ [Restitutive reading]
2.4. Partial summary: eventive differences following from scale structure
in DVs.
A brief overview of main aspectual diagnostics indicates that the
long defended (and also debated) relation between scale structure and
aspectual closure finds a key parameter in boundedness. But also, and
more importantly, that color presents surprisingly reliable patterns in
this respect.
Basically, color roots consistently pattern with closed scales in the
delivery of telic verbs, as expected according to REH. However,
further analytic evidence shows that the aspectual properties that can
be derived from scale boundedness do not end in mere telicity, so to
speak. Among other things, verbs involving color-denoting roots
show a resultative semantics, a double scope for negation and a
resistance to negative implications not necessarily allowed by verbs
involving an open-scaled change of nuance/pigmentation—a
difference that can be presented as a cross-categorial cross-cut if
related to entailment patterns originally analyzed in adjectival
predicates. This coincides with a relevant ambiguity between a
repetitive and a restitutive reading, typically expected from telic
verbs. Accordingly, color COS DVs also seem to lack Subinterval
Property and render non-homogeneous events. In short, according to
our results what differentiates color-based DVs from verbs of the type
of scurire or schiarire is that the property is only but necessarily
ascribed to the object as a result of event completion. Finally, they
involve a correlation between the unfolding of the event and the
attainment of a result state which contrasts sharply with the DEH seen
in open-scaled COS (e.g. schiarire un po’ [lighten a little]).
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All in all, this type of analytical data can be deployed as favorable
evidence linking colors to closed (property) scales, thus contributing
to settle down the debate about the semantic ontology of color, at least
according to the typologies that prove grammatically/lexically
relevant.
3. Unexpected cases and an alternative: quantitative vs.
qualitative representation of color.
According to what has been exposed in the previous section, REH
holds for color DVs judging from the variable contributed by scale boundedness. Summarizing greatly, as expected for closed-scaled
properties, color DVs like sbianchire, arrossire, etc. easily accommodate
maximality modifiers and give resultative, non-homogeneous
predicates lacking Subinterval Property. By contrast, otherwise similar
verbs like scurire or schiarire give atelic, homogeneous predicates and
consequently fail to accommodate totality modifiers, logically associated with closed intervals.
Now, with this in mind, let us turn to 0-0.
30) a. Tonno, se è troppo rosso non mangiarlo. tuna if is too red not eat-it.ACC ‘Tuna, do not consume if it is too red’ b. Vittima di razzismo perché troppo bianco victim of racism because too white ‘Victim of racism for being too white’ c. Il sale rameico è appena verde the salt cupric is barely green ‘Cupric salt is slightly green’ (31) a. Lo vidi sbiancare appena. it.ACC saw whiten barely ‘I saw it turn slightly white’ b. L'unico problema potrebbe essere non avere annerito abbastanza the-only problem could be not have blackened enough ‘The only problem could be not having blackened enough’ c. Questa arrossì eccessivamente. This.FEM reddened excessively ‘This one became excessively red’
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d. Il maledetto canale annerì ancor più e si arricchì di pestilenze the cursed canal blackened even more and SI enriched of pestilences ‘The damned canal turned even blacker and got full of pestilent stuff’ e. È sbiancato, ma non mai tanto. is whitened but not ever much ‘It has whitened, but not that much’ (32) a. L'unico suggerimento che posso darti è di schiarire totalmente tutta la
peluria. the-only advise that I-can give-you is of lighten totally all the
peach fuzz ‘The only piece of advice I can give you is to totally lighten all the
peach fuzz’ b. Schiarire totalmente i capelli, dalle punte alle radici. lighten totally the.PL hair, from-the tips to-the roots ‘To lighten totally the hair, from the end to the root’. c. Il cartoncino è perfettamente piano e completamente scurito in
tutto lo spessore. the cardboard.DIM is perfectly flat and completely
darkened in all the width ‘The carboard is perfectly even and completely darkened in all its width’ d. Tutto il vetro pian pianino si è completamente scurito fino ad arrivare
quasi alla fine. all the glass little little-DIM SI is completely darkened until to arrive
almost to-the end ‘The whole glass turned dark little by little, until reaching the border of
the glass’
Of course, if we already consented to accommodate color predicates
as closed scales—especially ones allowing maximal/partial adjuncts
(recall 0b) and rejecting overcompletion 0—then occurrences like 0 and 0
may come as an unwelcome surprise. Actually, we have to admit that,
conceptually, the combination with intensive modifiers like troppo [too],
appena [barely] 0 with color adjectives somehow makes sense and,
although not frequent, seems ultimately possible. In any event, this
circumstance calls for a stark differentiation between what is
conceptually perceived and what is linguistically (lexical/grammatically)
relevant. Conceptually speaking, colors (specifically in the case of white) are actually perceved as gradable properties: experimental data shows
that magnesium oxide is commonly taken as a standard white,
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"whiteness" is measured by the degree of approach to this standard (cf.
Brewster & Mc Adam 1979 i.a.). However, none of this is linguistically
relevant. But other differences are. In the specific case of verbs, for one thing, adjuncts like appena
and abbastanza [enough] (0c, 0a-b) should not be allowed, at least
according to either non-gradability or to the lack of Subevent
property displayed above and the existence of a cut-off point in the
scale. More importantly, adverbs like eccessivamente [excessively] or ancor(a) più [even more] (0c-d) are clearly not expected on a closed-
scale basis on two grounds. First, because colors proved to handle
maximality/completion modifiers in relation to resultativity, hence
suggesting that a cut-off point is met in ascription of the property
(see 0b); secondly, because the event should be concluded as soon
as the required degree (maximal) is achieved and progression beyond that point should not be possible—rather, the only
threshold that can be surpassed is the medium one thus allowing
non-maximal degree to concur with resultativity (0a)18. In this
sense, 0e suggests that in certain circumstances an object can have
undergone the color-change process without this resulting in
proper ascription of the designated color (i.e. apparently, something can whiten without necessarily becoming white) and
that, moreover, the resulting property is graded (tanto [that much])
in the way typically expected for open (gradable) scales giving
homogeneous events (recall 0 above). On the other hand, and
oddly enough, verbs involving an open scale apparently succeed in
accommodating totality modifiers 0, which logically undermines the difference defended so far.
So, the logical question we may ask is if REH fails here of it is some
other variable involved.
Now, if we want to defend the claim that scale structure (and, more
specifically, scale boundedness) is a reliable parameter in predicting the
aspectual behavior of property-denoting predicates, then we need to introduce a concomitant parameter, logically separable from boundedness.
18 This, in fact, being one of the most relevant differences between sheer bounded-
ness and telicity (cf. Author 2015).
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AIΩN-Linguistica n.6 n.s. DOI: 10.4410/AIONL.6.2017.008
In particular, we need to acknowledge that two distinct scalar readings are
possible with property scales like the one introduced by color. What is
interesting is not only that, if correct, we would be providing evidence in
favor of the linguistic (grammatical) relevance of this distinction; more
importantly, this difference would readily handle the problematic data like 0-0, thus dispensing us with the need to abandon the REH.
3.1. Essential description
Informally speaking, this variable can be summarized under the
claim that a quantitative reading of property extent corresponds to those cases where the color is measured against a scale of how much
of an object is of a particular color. Is such case, the specific nuance of
the designated color is irrelevant; what matters is that the color at
stake can be identified as predominant in the object—by way of
example, recall the observations about cielo blu [blue sky] offered above
(cf. 00). In turn, in the qualitative reading the scale measures not a part/whole relation, as the quantitative scale does, but rather how
closely the object’s color approximates or diverges from a standard or
prototype (Kennedy & McNally, 2010:91 i.a.).
Crucially, the contrasts rendered by these two variables are not
only about possible interpretations, but also (lexico)grammatically
visible and involve interesting effects as a result of interaction with other constituents19. Just to give one example, the typology of adjuncts
appearing with the corresponding verbs ca be quite telling. For
instance, adverbs most frequently combined with color DVs 0—
according to corpus queries in Romance languages like Italian and
Spanish, as well as non-Romance such as English—may endorse one
reading, the other or both. More specifically, adverbs like debolmente [weakly] (and probably also a sufficenza [enough]) endorse a
qualitative reading—being not that close yet or having just reached
the required level of color according to the standard, respectively. In
turn, adjuncts like gradualmente normally favor a quantitative reading,
19 And, hence, the problem is not just about possible readings but about the interac-
tion between semantics and syntax (i.e. constructional semantics).
Colors in the lexicon-syntax-semantics interface 233
AIΩN-Linguistica n.6 n.s. DOI: 10.4410/AIONL.6.2017.008
as long as gradual progression is measured by focusing on the
part/whole relation of object surface being covered by or turned to the
designated color. Others, like facilmente and improvvisamente do not
help to disambiguate between the quantitative and the qualitative
scale—yet, they are not trivial, since the first can be deployed in the analysis of the internal structure of the VP (more on this later)
whereas the second indicates an aspectual contour (natural endpoint)
to be logically connected with telicity.
(33) ennegrecer/blanquear/enrojecer fácilmente, súbitamente, débilmente,
gradualmente, suficientemente annerire/sbiancare/arrossire facilmente, improvvisamente,
debolmente, gradualmente, a sufficienza blacken/whiten/redden easily, suddenly, weakly,
gradually, sufficiently
So, how is this implemented in our data? Let’s deal first with the
quantitative view.
3.2. Quantitative representation of color and medium-threshold.
Taking the description just introduced to the domain of color, this
parameter would essentially be about proportions of pigmented
surface in the extent of a given object: for something to count as being
of a certain color, that color has to quantitatively predominate in the
object. Accordingly, a physically measurable ‘cut-off’ point that
distinguishes blue, red, white or black objects from non-blue, non-red
etc. is established by predominance according to a part/whole relation
in the (extension of the) object.
However, the implementation of this parameter involves certain
theoretical discrepancies. The dispute is not about relativity of the
standard, nor boundedness itself; in fact, most works on color scalar
structure concur in putting quantitative reading of color on a par with
(absolute) closed scales (cf. Clapp 2012, McNally 2011). Rather, what is
not completely settled is the type of closed interval—minimum, medium,
or maximal standard—that this prevalence requirement involves.
234 Maria Eugenia Mangialavori Rasia
AIΩN-Linguistica n.6 n.s. DOI: 10.4410/AIONL.6.2017.008
Although some experimental data might have been used to put forward
minimum absolute standards (Clapp 2012), (cf. Hansen & Chemla 2015),
other works show diverging results indicating that color may fall in any
of these three patterns (absolute+low, absolute+high or absolute+medium
threshold) and even support the findings contributed by analytic work
(e.g. McNally 2011) in favor of a medium-degree threshold. Let’s deal with the minimum-standard hypothesis first. If color
adjectives squared with absolute, minimum standard (as Clapp 2012
suggests), then they should behave as (minimum20) standard absolute
properties like spotted, bent, dirty, sick visible, wet. Now, we may want to
bear in mind that for paradigmatic absolute minimum-degree properties a minimum amount (of, say, spots on the object’s surface for
the typical case of spotted) suffices for the latter to be properly regarded
as positively involving this property. Truthful predication only requires
having the property in question to the smallest possible degree (only
one spot will do), and denying that the adjective applies is incompatible
with having any degree of the property in question. However, as we suggested above, this is not precisely the type of implication involved
in either adjectival or verbal color predication, and a quantitative
representation of the scale helps making this clearer.
At least according to the data introduced so far, an object can bear
a (minimal) amount of blue without that being enough to be properly
classified as a blue token. In practical terms, there can be blue areas in the sky—remember the gapped cloudy sky—without that making it a
blue sky. As McNally (2011) among others suggests, a certain amount,
at least, higher that the amount of surface covered by another color,
must be affected. This is precisely what, theoretically speaking,
20 Leaving aside eventual interpersonal variability regarding the area of the scale
where the standard is located, and other non-linguistically relevant variables (e.g. optics and the way color is perceived by each eye, etc.), eventual variations are not as signifi-cant for verbal behavior as one might expect. Overall, experimental (e.g. Hansen & Chemla 2015) and analytic studies indicate that the quantitative reading of color even-tually falls into three patterns, determined by the corresponding combination of absolu-te property (as opposed to relative properties) with either low, high or medium values in the scale. Even if results are not consistent, a noticeable preference for the first option (i.e., absolute property with a minimal value) is usually reported.
Colors in the lexicon-syntax-semantics interface 235
AIΩN-Linguistica n.6 n.s. DOI: 10.4410/AIONL.6.2017.008
predominance is about and what, empirically speaking, data like 0 can
be deployed to corroborate—and, in turn, what further experimental
results also suggest21. The difference with minimum-standard
property scales stems precisely from the predominance requirement:
in practical terms, for something to count as having a certain color, a non-zero amount is not sufficient (i.e., predominance involves a
requirement over the 50%). In this light, the exclusion noted in 0 is
naturally accommodated: the object is properly designated by the
predominant color; hence, designation via another (non-predominant)
hue necessarily fails for object identification or set-classification.
In either case, what is relevant is that color is undisputedly placed as the counterpart of other prototypical cases of absolute
closed-scaled properties: those requiring the crossing of a maximal
degree threshold overlapping with the positive area of the scale. One
paradigmatic example of this class is full, in which case it is the level
determined by a maximum degree (the upper boundary of the extent
scale) that must be achieved (cf. Kennedy & McNally 2005, Syrett 2007 for analytic and experimental evidence respectively). Here,
truthful application of the adjectival predicate entails having the
property in question to a maximal degree (cf. McNally 2011:4). In
consequence, whereas something needs to have at least some spot to
be spotted (minimum-standard), or needs to have a predominance of
any shade of red to be properly identified as a red thing (medium-standard), the glass needs to be completely filled to be properly
regarded as a full glass (maximal-standard). Even if hard to pin
down empirically, note that the lack of a maximal boundary in
colors draws a difference with maximal-extent adjectives like pieno
[full] in accommodating adverbs that stress this completive reading
0. Actually, a better proof of this non-maximal standard was already suggested by data like 0, where non-maximality does not hinder
resultativity (for which predominance is required), in sheer contrast
to 0. In any event, and more importantly, the standard does not need
to be fixed by or in relation to the context; so, once this necessary
21 Experimental work currently in progress on native Italian speakers especially focu-
sing on identifying the quantitative threshold associated to predominance in each subject.
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AIΩN-Linguistica n.6 n.s. DOI: 10.4410/AIONL.6.2017.008
(medium) amount of color is met, then the color adjective behaves
like an absolute adjective22
(34) a. Il bicchiere è perfettamente pieno/chiuso/asciutto/#grigio/#blu/#rosso ‘The glass is perfectly full/closed/dry/#grey/#blue/#red’ b. Il cielo è perfettamente limpido/scoperto/#blu/#nero/#grigio ‘The sky is perfectly clear/unclouded/#blue/#black/#grey’
To recap, even if there ultimately are different shades and degrees of
red, white or black; nevertheless, for practical purposes what counts is the
fact that a given threshold (i.e. a point in a scale) must be crossed (most
predominantly, a medium one) in order for the color to be quantitatively
ascribed to an object. And, anyhow, this normally leads to a telic event. Quite apart from this, another prominent fact at sight is that a
quantitative reading endorses a telic sense by providing a delimited
extension to be affected by the designated event. Apparently this
holds even for open-scaled DVs (recall 0); accordingly, quantitative
representation can be ultimately involved in a telic use of originally
atelic verbs. Note that in these apparently offending cases adjuncts are recruited in order to guarantee an interpretation whereby the COS
predicate is affecting a delimited surface. In other words, quantitative
reading seems to be involved in these cases apparently escaping REH.
We will elaborate on this next. Yet, there are other facts we need to
highlight first, basically related to frequency and productivity. On the
one hand, a closer look on corpus data shows that occurrences such as those represented in 0-0 above are existent, though surprisingly scarce.
And, in fact, combinations of verbs like scurire and schiarire with partial
adjuncts (e.g. pressochè, quasi) even if conceptually possible, show no
results in corpus search. On the other hand, quantitative representation
of color can be safely related to telicity, regardless of not involving a
qualitative cut-off point. Even a feeble shade of the color at stake is satisfactory, as long as the object is only required to meet (equal or
22 In truth, the postulation of a medium standard is not part of a general consensus.
Just to give one example, Kennedy and McNally (2005) work under the classical view, assuming that there are only two possible standards: either the maximal or the minimal non-zero value on the scale.
Colors in the lexicon-syntax-semantics interface 237
AIΩN-Linguistica n.6 n.s. DOI: 10.4410/AIONL.6.2017.008
exceed) more-than-a minimum amount of red(ish)—or white(ish), or
black(ish)—area to be admitted in the already populated—and not
necessarily homogeneous—set of things or entities that can be properly
regarded as white, red or black (correspondingly). In other words,
achievement of the standard is drawn regardless of how (on which level of the qualitative property scale) the relevant threshold is drawn.
It is precisely that loose end—the discussion about the potential
heterogeneity of the set of things that can be quantitatively regarded
as red, white or black—that leads us to the second variable involved.
3.3. Qualitative representation of color
If analyzed qualitatively, a color scale is precisely about proximity
to the prototypical tint/tone of red, yellow, etc.; no difference being
made as to the amount of surface affected.
Yet, this does not necessarily involve a different type of standard.
A medium-degree threshold is also what counts here; what changes,
though, is the parameter whereby this medium degree is measured.
The qualitative medium-standard for color corresponds to proximity
to a ‘center’ in the color scale picked out by the standard or prototype
(Kennedy & McNally, 2010:91)23. As a matter of fact, experimental
tests using extreme white in assessing whiteness grading also favor a
medium-standard. In particular, contrary to the other observed
arrangements, experiments show that better correlation is obtained
with an "intermediate" whiteness standard than with magnesium
oxide (i.e., what they consider a 'white' object), thus suggesting that
23 On an experimental account, finer-grained precisions are not usually achieved.
Practically speaking, the “qualitative” reading of color adjectives has been convincingly shown to differ from both minimum degree and relative standard property scales, but finer-grained patterns beyond that point are far from clear. In our interest, what is rele-vant is that, as far as aspectual/eventive behavior is concerned, is that a threshold is still drawn and needs to be crossed for the predicate to properly apply to the object, and property ascription is not relative either. On the other hand, it is interesting to note that corpus data suggests that the qualitative scalar view of color, is context dependent (be it grammatical, be it conceptual), whereas absolute adjectives have standards that are en-coded in the lexical unit (i.e., P√) (either at the maximal or minimal degree threshold).
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the observers were accustomed to grade on the basis of a more
yellowish standard such as "intermediate" or even "natural paper
white." (cf. Brewster & Mc Adam 1979).
In the practice, this second measurement variable allowed by color
seems particularly convenient to accommodate cases flying in the face
of the REH such as those in 0.
Even if colors have been regarded as solid prototypes of absolute
scales in the literature (cf. Clapp 2010)—which is somehow convenient,
given the strong relation between closed scales and absolute
standards—, other studies point that involvement of a qualitative scale
leads the property to behave more like relative properties, in the sense
that there are variations introduced by differences in comparison class
to which measurement can be sensitive to (see Kennedy & McNally
2010:92). For instance, a relative standard might be claimed to be
involved in cases like (0a), where troppo rosso [too red] can be explained
as exceeding the standard red hue for tuna fish; or even in the case of
(0b) where the person being described as too white may involve an
excessive degree in comparison with other representatives of how white
is understood when applied to a given human group/class. However,
things are less clear for (0c) where no comparison is necessarily
involved—in any case, the only comparison at stake is the expected: the
one between the shade of green noted in the salt and the prototype
standard of green. That is, an absolute standard.
Therefore, on closer examination, we should better assume that
color can ultimately be understood as a relative standard if subject
to certain conditions (e.g. if coerced); otherwise, certain gradability
is triggered though independent from (linguistic) context, in
relation to the specific hue conceived as standard for that color.
That is, we may link the color standard to a certain comparison
class; yet we do not necessarily need this comparison in order to
describe an object as too red, as 0 shows—not at least in the way we
need it for too tall, long, wide, etc. In any event, eventual gradability
(not to be confused with relativity) is not a lexical, grammatical nor
even linguistic fact, but rather a conceptual circumstance (i.e., color
involves gradable shades, tones, and tints according to word
Colors in the lexicon-syntax-semantics interface 239
AIΩN-Linguistica n.6 n.s. DOI: 10.4410/AIONL.6.2017.008
knowledge or encyclopedic/conceptual knowledge). Empirically,
the linguistically-relevant fact is that the standard does not depend
contextual determinations (although it might be affected by it) —at
least, as prototypical relative properties are—and the absolute
standard will be preferred over a standard which is determined
contextually. (35) a. Il mare sembra appena bianco sotto i colpi de' remi. the sea seems almost white under the strokes of oars ‘The sea looks slightly white under the strokes of the oars‘ b. Nerastro: alquanto nero. blackish almost black ‘Nerastro [blackish]: almost black’ c. Quel cielo assai blu, assai rosso di tramonto. that sky very blue very red of sunset ‘That sky highly blue, highly red with the sunset’ d. Vetro trasparente, leggermente verde ‘Clear glass, slightly green’
On the other hand, the location in the scale (i.e. property degree)
continues to be measured in relation to a (medium) standard.
Therefore, the medium standard can be barely met (appena, abbastanza)
or even surpassed (eccessivamente, troppo) without this being a
problem. In consequence, a qualitative representation of the color scale can handle the quirky behavior of color predicates in 0 and 0
above, no recourse to context sensitivity being made.
In this respect, even works taking different views on the relativity of
the standard in the qualitative use admit that judgments are
significantly consistent as to the quantitative reading. Specifically, what
these works suggest (cf. McNally 2011) is that a fixed standard for the
quantitative reading makes it sound like an absolute adjective, albeit
one where the standard is not anchored by the minimum or maximum
degree on the scale and, at the same time, does not display the context
sensitivity necessarily involved in relative standard scales and
entailment patterns. In this sense, even if postulation of a medium-
degree standard is not a typical choice in the literature, it proves
particularly important in accommodating cases like 0-0. In particular,
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the well-known relation between absolute standards and closed scales
(formulated as the Interpretive Economy account in Kennedy 2007), as
developed, does not predict the existence of adjectives whose standards
behave as if they were absolute without being endpoints on a scale—
and, hence, allowing the standard to be surpassed. Therefore, the
clarification that would be needed is related to the observation that
degree thresholds (standards) are fundamentally different from degrees
which are not at the endpoints of scales.
Yet, medium standards continue to be as crucial in delimiting the
aspectual contour of the predicate as minimal or maximal ones. In
fact, association with a medium standard, regardless of this threshold
being drawn on a quantitative or qualitative scale, consistently reflects
in unanimous behavior for the major part of the corpus data. In fact,
note that explicitly-induced qualitative reading of the scale associated
with color consistently show compatibility with totality modifiers 0—
even for adjectives— and a repetitive vs. restitutive ambiguity 0;
which add up to the compatibility with endpoint adverbials (for X
time) and consequent incompatibility (or, at least, oddity) with
framing adverbials (for X time) 0, as expected for telic.
(36)a. Questo colore non è propriamente/completamente/totalmente/*abbastanza
rosso, ma arancio. this color not is properly completely totally enough red but orange ‘This color is not completely red/totally red/*red properly/*red
enough, but orange’ b. Il lavaggio con il limone e sale fino sbianca completamente/perfettamente
il bucato, rimovendo l’antiestetico alone grigio. the washing with the lemon and salt fine whitens completely perfectly
the laundry, removing the-un-aesthetic hue grey ‘Washing with lemon and salt whitens the laundry, removing the
unattractive grey shade’ (37)a. Così lo si reimmerge nei carboni ardenti, fino a farlo diventare
nuovamente rosso So lo SI re-immerge in-the.PL coals burning until to make-it become
again red ‘This way it is (re)submerged in burning coal, until ii gets red again’
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AIΩN-Linguistica n.6 n.s. DOI: 10.4410/AIONL.6.2017.008
b. La candeggina sbiancò nuovamente i sanitari di porcellana, portandoli al colore originale.
the bleach whitened again the sanitary.PL of porcelain, taking-them to-the color original ‘The bleach whitened the sanitary, taking it back to its original color’ (38) La candeggina sbianca i tessuti *per ore / in una ora [portandoli al
colore originale] the bleach whitens the fabric.PL for hours in an hour taking-them to-
the color original ‘The bleach whitens the fabrics (*for/in) an hour, taking them back to
their original color’
Therefore, these examples should not necessarily be understood as an
indication about the qualitative representation being less prominent or
not defective—i.e., assuming that this variant must be somehow
(contextually) induced. Rather, the generalization that can be safely
drawn is about scale closedness: in the practice, and even if eventually a
gradable-like behavior is consented, a qualitative reading of the scale onto which the event is mapped also reflects in a telic predication. This is
exactly what keeps differentiating colors from open scales, even in its
qualitative use. In fact, the absence of such thresholds in the open scale
explains the fact that a standard must be contextually (semantically and
syntactically) provided for an open-scaled DV in order to eventually
allow a telic construction somehow paralleling the case made by the qualitative threshold involved in color—and, interestingly enough, color
(i.e. a color-denoting noun) is usually recruited to that end 0.
(39) a. Il legno si è scurito fino a diventare di un plumbeo color prugna. the wood SI is darkened until to become of a leaden color plum ‘The wood has darkened until reaching a leaden plum color’ b. I capelli sono castani scuri (diciamo biondo scurito fino quasi al nero). the hair.PL are fair dark say.1PL blonde darkened until almost to-the black ‘The hair is dark brown (we say [it is] blonde [which has been]
darkened almost into black)’ c. Ma dopo un po' si è scurito fino ad assumere una colorazione
verdognola. but after a little SI is darkened until to assume a coloring green-ish ‘But after a while it darkened until taking on a greenish color’
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In sum, even if both readings can be applied to a color adjective or
verb, any of them suffices to render aspectual boundedness independent
of the other. Specifically, a determined tone of white can predominate in
the object (i.e., it can be properly regarded as white on a quantitative
basis), thus meeting the required (over-medium) quantitative standard;
yet, and at the same time, it is possible that this quantitatively
predominant tone does not meet the qualitative standard. Hence, the
object whitened—it has successfully undergone a whitening process
whereby the majority of its surface shows a white(ish) shade—, and, at
the same time, it did not— qualitatively, it is not white enough. In turn, the
object might render a telic sense given by achievement of the medium
threshold in color quality, and yet not be a proper representative of the
class of objects bearing that color if analyzed quantitatively—which is
precisely what is going on in (0e). In consequence, the coexistence of
these two alternative representations of the color scale would provide
interesting insights in dealing with color-denoting verbs and some quirky
occurrences contributed by this variable.
3.4. Event-Object Homomorphism [EOH]
Finally, let us go back to the apparent challenge raised by 0. In our
view, these cases receive a natural explanation building on a
quantitative representation of the color scale. Moreover, they also
point to another relevant relation at the syntax-semantics interface
and allow an interesting extension.
In fact, by highlighting the fact that on a quantitative basis COS
telicity is bout covering a determined surface, with clearly identifiable
boundaries, then the logical question to be asked is if event
completion can be delivered compositionally.
If quantitative boundedness is about predominance in the object, then
predominance is necessarily about the object being bounded—i.e., having a bounded extension. Otherwise, just as happened with open scaled COS
not being able to accommodate maximality modifiers, the COS event has
no identifiable boundary and, therefore, total/partial progression cannot
be calculated. And here is where syntax is involved: since a (delimited)
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AIΩN-Linguistica n.6 n.s. DOI: 10.4410/AIONL.6.2017.008
quantity-based scale is based on a (quantizable) part structure of the
nominal argument (cf. Winter 2006), object boundedness becomes crucial.
In fact, if we reformulate the same examples highlighting the role of the
DO in aspectually bounding the event in 0, interesting results obtain.24
(40) a. L'unico suggerimento che posso darti è di schiarire totalmente *?(tutta la) peluria.
the-only advise that I-can give-you is of lighten totally peach fuzz ?*‘The only piece of advice I can give you is to totally lighten peach
fuzz’ b. Schiarire totalmente *?(i) capelli. lighten totally the.PL hair ?*‘To lighten totally hair’. c. *?(Il) cartoncino è perfettamente piano e completamente scurito (in
tutto lo spessore). the cardboard.DIM is perfectly flat and completely darkened in all the
width *?‘Cardboard is perfectly even and completely darkened in all its
width’ d. *?(Tutto il) vetro pian pianino si è completamente scurito (fino ad
arrivare quasi alla fine). all the glass little little-DIM SI is completely darkened until to arrive
almost to-the end ‘The whole glass turned dark little by little until reaching the border of
the glass’
Accordingly, if the object is not (mopho)syntactically bounded, the
telic use of open-scaled DVs fails (cf 0 vs. 0). In other words, any
eventual boundedness contributed by a quantitative scale introduced
by the object is crucial, insofar as the scale provided by the lexical root
features no boundaries and, hence, cannot impose an aspectual
boundary to the event. A cursory survey on modifiers concurs with this insight.
Interestingly, adverbs combined with past perfect forms of originally
atelic (i.e., open-scaled) DVs like scurire and schiarire 0, respectively
(ordered by higher to lower frequency), endorse a quantitative
24 Note that the same holds for the apparently gradable use of these verbs (e.g. ‘Ha
schiarito gradualmente *(i) capelli [It has gradually darkened *(the) hair]).
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reading. If this were all that needs to be said, one would be left to
assume that as soon as the quantitative reading in guaranteed, then
scale boundedness would not be that relevant to render a telic
predicate. However, according to corpus data from Spanish and
Italian, adverbs normally encouraging a qualitative reading like ligeramente [leggeramente/slightly] are heavily used as well in telic
predicates. What is relevant is that in any event additional
reinforcement is still necessary in order to license a telic sense in open-
scaled DVs.
(41) a. lentamente, totalmente, completamente, ligeramente, súbitamente,
parcialmente b. parcialmente, rápidamente, instantáneamente, gradualmente,
completamente, lentamente, débilmente, suficientemente, perfectamente a’. lentamente, totalmente, completamente, leggeramente,
improvvisamente, parzialmente b’. parzialmente, prestamente, subito, progressivamente, completamente,
lentamente, debolmente, a sufficienza, perfettamente a”. slowly, totally, completely, slightly suddenly partially b”. partially quickly, instantly, gradually completely, slowly, faintly
enough, perfectly
3.5. Partial summary
So, a bird’s eye view on two different representations of the scale
associated to colors shows three different senses of completion and,
hence, three different homomorphisms. On one (quantitative) view, the
object can have less than a medium or medium degree on the scale of
redness, yellowness or whiteness; what matters is that the object is
completely or at least predominantly red, yellow or white in
pigmentation. In this sense, behavior is better predicted on the basis of
an absolute property with a medium-degree scale boundary that needs
to be surpassed. On the other hand, the object can meet the necessary
value on the scale of qualitative redness, yellowness or whiteness but that
is not relevant if what is being estimated whether the object meets the
standard (medium) degree on the scale of redness, yellowness or whiteness
(i.e., if the medium threshold in the scale is being estimated
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AIΩN-Linguistica n.6 n.s. DOI: 10.4410/AIONL.6.2017.008
qualitatively). Even so, in both cases—quantitatively or qualitatively
speaking—color predominantly behaves like absolute, closed-scaled
property involving a medium degree requirement. On a third view, the
quantity-based scale is crucially related to the part structure of the
nominal argument. In particular, as the event is measured in relation to
the extent of the object, then a bounded object (grammatically realized
by a delimited/definite nominal argument) contributes a bounded, fully
closed scale. This circumstance eventually allows even open-scaled DVs
to render telic constructions via EOH; yet, a key difference arises from
the fact that in this case telicity is a property of constructions, whereas
in color DVs telicity is a property of the verb, which comprises a natural
boundary provided by the scale.
4. Final remarks.
So far, we have been struggling to defend a crucial correlation
between two variables involved in predicates rendered by property-
denoting roots like those encoding colors: scale structure (specifically,
scale boundedness) on the one hand, and aspectual structure (telicity)
on the other. In particular, scale boundedness has been shown to
reflect in a richer descriptive content and eventive structure (telicity,
resultativity, homogeneity) for COS verbs involving color roots,
which have been analyzed as scales featuring a relevant (medium)
cut-off point ([+m]), according to a number of factors presented along
the preceding sections. Following Harley (2005) and Folli & Harley
(2006) i.a., we have alluded to this relation in terms of REH—
although we could have dubbed it as an Event-Scale Homomorphism
in order to leave aside the debate on the morpho-syntactic
instantiation of the scale boundaries involved.
Anyhow, on closer look the scenario proves more complex, other
syntactic and semantic relations being able to intervene in the
aspectual determination of the event, to the point of constraining and
even overriding the REH. One of these additional mechanisms is
introduced by part/whole relation in the affected object (e.g. EOH).
This not a surprise, but rather an expected circumstance according to
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the considerable body of literature claiming telicity to be a property of
constructions (particularly, verb + object) rather than of verbs
themselves.
Of course, these observations are relevant in many levels which,
for reasons of space, we cannot elaborate on further and will be left
for a subsequent paper. For the moment, we want to focus on the fact
that the cross-cut shown by argument structure—at least according to
the criteria and tests recruited above—leads to two crucial
connections between REH and EOH.
On the one hand, scale boundedness proves to be relevant for
verbs in a way that is comparable to unincorporated measuring-out
arguments like Goals. That is, as long as the scale is mapped onto a
path, then the semantic role of the color-denoting component (the
lexical root, we argue) is to establish the temporal/aspectual endpoint
of the event. Of course, this depends directly on the type of scale
involved: if the (deadjectival) verb builds on a property-denoting root
associated to an unthresholded scale, then this element will not be
able to delimit the transition and thus measure out the event (and,
accordingly, render resultativity, non-homogeneity and the
subsequent aspectual and eventive properties that we have shown
follow from scale boundedness in these cases). This draws a crucial
difference between change-of-tonality predicates such as
scurire/schiarire and the specific case of color, arguably associated to
thresholded scales—with a cut-off point set at a medium or over-
minimum standard—in which case then scale boundedness
straightforwardly reflects in event boundedness.
On the other hand, in a quantitative representation of color (hue,
tone, shade) scales, the event can get measured by delimiting the
affected object. Hence, another semantic and syntactic schema (EOH)
comes up, eventually also allowing telic predications out of open-
scaled DVs.
These divergences are especially relevant regarding the possibility to
argue in favor of the relation we proposed in the beginning of the paper
(Section 2) between aspect boundedness in predicates built on property-
denoting roots, measurement and motion/space. In this light, the
Colors in the lexicon-syntax-semantics interface 247
AIΩN-Linguistica n.6 n.s. DOI: 10.4410/AIONL.6.2017.008
correlation at stake and the crucial distinction bought about by COS verbs
involving color/tonalities could be placed within an ampler frame,
connected to the way telicity is determined in events involving directed
paths. Mutatis mutandis—if we consent to analyze COS as (abstract)
motion (i.e., as involving a transition and, hence, a directed path)—then
we can present these facts as expected, according to the observations
presented in the first section about how completion/partiality is
measured. To be more specific, the case made by change-of-color verbs
would involve a semantic and syntactic schema paralleling the case of
unincorporated measure-out arguments in motion verbs—i.e., in those
cases where it is the Goal rather than the Object the one imputing a
boundary to the event (e.g. roll *(to the park) in X time). In turn, change-of-
tonality verbs, building on open scales, can eventually render telic
predicates by means of a further machinery, contributed by a different
argumental (i.e., syntactic and semantic) relation. In this case, a
quantitative representation of the property scale is crucial, precisely by
allowing a relevant homomorphism between the unfolding of the event
and the part structure of the affected object. Therefore, the predicate
rendered is telic regardless of involving an open-scaled property-
denoting root, simply because there is another relation involved and the
element measuring-out the event, in this case, is the internal object (i.e.
the theme).
In this sense, an ultimate observation that could be derived is that
only REH can be properly regarded as a case of measure-out internal
to the structure of the verb, even if a compositional (l-syntactic) view
is adopted, inasmuch as the element exerting this (bounding) effect is
the lexical root. On the contrary, the case of telic predicates rendered
via EOH not only represents an indisputable instance of
compositional aspect, but actually involves no crucial differences
between color and other (transitive/ergative) verbs and the massive
amount of work developed since Tenny (1985, 1992, 1994, 1995, 2000)
and many others25.
25 In essence, we refer the widely-known claims, bearing not on a specific grammar
but on universal relations, about the direct internal argument of a verb being the only
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In summary, our results reinforce, in part, the larger claim held by
previous work on deadjectival verbs by showing that the scalar
structure of property-denoting roots is largely relevant to the semantic
structure of the predicative lexical element (V, A) containing it. Yet,
we also add empirical evidence suggesting that this is not a defective or general phenomenon, but rather one possible scenario and that
finer considerations, like the involvement of a medium-threshold,
crucially combined with the availability of a two-folded interpretation
of the property scale (quantitative/qualitative representations) in color
predicates also determines relevant patterns. In this respect,
additional data showed that there is a bigger picture, which is more complex but, nonetheless, reliably predictable as long as the adequate
parameters and variables are considered.
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DOMENICO SILVESTRI
NOMI E COLORI DEL MARE IN OMERO.
A PROPOSITO DI ALCUNI “PUNTI DI VISTA” CROMONIMICI
NEL MONDO GRECO ANTICO1
Abstract The ancient Greek, and especially that of Homeric texts, has four different
names of the ‘sea’ (, , , The exact reference condi-tions are investigated here with particular attention to the cromonimic attri-butes employed in the texts.
Key Words: ancient Greek, names of the ‘sea’, cromonimic attributes Il greco antico e specialmente quello dei testi omerici ha quattro diversi
nomi del ‘mare’ (, , , Le esatte condizioni di rife-rimento sono indagate qui con particolare attenzione agli attributi cromoni-mici impiegati nei testi.
Parole chiave: greco antico, nomi del ‘mare’, attributi cromonimici
Bisogna qualche volta ricordarsi (soprattutto quelli che sono af-flitti da pregiudizi metalinguistici: medice, cura te ipsum!) che noi
estraiamo e immettiamo parole nei testi e che queste non vivono di
vita propria, ma sono il frutto di incontri e di confronti testuali reite-
rati e impredicibili prima di diventare (e pretendere di essere) icone
lemmatiche nel grande “magazzino” del dizionario. Provo ad appli-
care questo assunto a nomi e colori del mare nel greco antico, omeri-co in particolare.
Domenico Silvestri, Università degli studi di Napoli ”L’Orientale”, Professore Emerito, [email protected]
1 Questo lavoro costituisce la rivisitazione e la rielaborazione (in certi casi particolar-mente profonda) di un mio precedente contributo, Il colore del mare: nomi greci (e rotte gre-che) nel Mediterraneo antico, “Plurilinguismo 14”, 2007, Numero monografico “Il Mediter-raneo plurilingue”, Atti del Convegno di Studi, Genova, 13-15 Maggio 2004, a cura di Vin-cenzo Orioles e Fiorenzo Toso, pp. 273-286 (st. anche in “” 29, 2007, pp. 11-34).
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Per far questo propongo la testimonianza di :
Iliade (tr. di Rosa Calzecchi Onesti)2
4,422-426
Come contro la riva echeggiante il flutto del mare si scaglia senza sosta sotto l'impulso di Zefiro;
prima si gonfia nel mare ma ecco frangendosi contro la terra urla roco, e intorno alle punte s'alza in volute, sputa la schiuma del mare
Questo è uno dei tanti, stupendi paragoni omerici, che bisogna ovvia-
mente apprezzare, ma senza distrarsi. Infatti è facile (se si vuole!) notare
che la traduttrice non è in alcun modo responsabile di ciò che (parafrasan-
do in negativo Dante) non può “la lingua nostra”, quando è costretta a di-
re per tre volte “mare” per rendere tre diversi (e, come vedremo, assai di-
versi!) nomi del mare nel greco omerico. Per altro nel brano in esame
manca pour cause solo , il quarto nome greco del mare, proprio in
quanto esso designa, come vedremo, il “mare” nella sua “distesa ampiez-
za”, mentre –come ugualmente vedremo- è la “massa d’acqua”,
è il mare in quanto “rotta, percorso “ marino (in buona sostanza il
“mare aperto” alle navigazioni), infine è il mare “sotto costa” che si in-
frange sulla riva palesando con i suoi residui la propria salinità (con il
2 Cfr. Calzecchi Onesti (Omero, Iliade, Torino 1950, poi 1963, Einaudi Editore; Odis-
sea, Torino 1963, Einaudi Editore). Questa traduzione benemerita, che comprende tutti e due i poemi omerici, costituisce il mio punto di partenza onde facilitare la compren-sione delle mie analisi testuali, per cui segnalerò di volta in volta i punti in cui la mia interpretazione se ne discosta. In questa prospettiva terrò eventualmente conto di altre traduzioni dell’ Iliade (Cerri, Milano 2006, RCS Libri S.p.A.) e dell’Odissea (Privitera, Mi-lano 1981-1986, Fondazione Lorenzo Valla, Arnoldo Mondadori Editore), qui citati semplicemente come Cerri e Privitera con implicito riferimento ai luoghi omerici.
Nomi e colori del mare in Omero 255
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connesso biancore della schiuma prima, del sale dopo). Proviamo a guar-
dare le immagini e ad ascoltare i suoni che le parole omeriche ci conse-
gnano: innanzi tutto “la riva echeggiante” (che è
l’inquadratura di apertura con l’istanza ossessiva e pervasiva del rumore e
il primo piano della costa; subito dopo (ma solo per ragioni di linearità
linguistica, di fatto in simultaneità testuale!) l’enorme “massa d’acqua”
mossa dall’onda (), a sua volta mossa senza sosta dal ven-
to. Ma questo moto ondoso dove comincia? Omero è preciso: “prima si
gonfia nel mare ()”, cioè nel “mare aperto” alle navigazioni, il
appunto (e qui ancora valgono le premesse etimologiche con i
valori di “rotta, percorso”), viene insomma –come un partito italiano
ormai “storicizzato”- “da lontano”. Segue subito dopo un altro primo
piano: prima c’è nuovamente una dominanza acustica (“frangendosi
contro la terra urla roco”) e con lo stesso effetto di simultaneità
un’assoluta salienza visiva: “intorno alle punte s'alza in volute, sputa
la schiuma del mare ()”. In questo caso e con ogni evidenza
testuale troviamo il terzo valore designativo, appunto, o il mare
“sotto costa” con il suo frastuono e il suo (come vedremo) “biancore”
carducciano (“urla e biancheggia il mar”), ma anche con una potente
immagine antropica (che equivale ad uno sputo mostruoso
in cui si svela (come vedremo) il “biancore” di ciò che potremmo
chiamare la saliva o addirittura il catarro del mare (questo è il valore
implicito nel sintagma ).
Dobbiamo allora viaggiare nel testo omerico secondo le prospetti-
ve e gli universi cognitivi delle parole, autentiche “finestre” su un
modo peculiare e raffinato di rappresentazione del mondo. La nostra
prospettiva metalinguistica è in ogni caso cromonimica. Cominciamo
allora da , cioè il “il mare, soprattutto quello contiguo alle rive, a cui si oppongono il mare alto e la terra”, ed è nome di genere femmi-
nile (è maschile, invece, quando ha il valore di “sale”). A questo pro-
posito forse non è inopportuno far notare che nell’opzione di genere
femminile si cela forse un’istanza di animatezza, legata appunto al
battere continuo dell’onda sulla costa. Viceversa il “sale” è di genere
maschile e inanimato anche in quanto esclusivamente risultativo. In
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questa sede intendo esaminare in primo luogo gli attributi di non
cromatici, ma in ogni caso coerenti con le condizioni referenziali del
termine e con le sue eventuali pertinenze cromonimiche.
”infecondo, instancabile, mai stanco”
Iliade
1,315-316
e offrivano ad Apollo ecatombi perfette di tori e di capre, sul lido del mare infecondo3
1,327
mossero i due a malincuore sul lido del mare infecondo
24,752
vendette (sc. Achille), come li prese, di là dal mare mai stanco
L’epiteto (gen.) riferito al mare in quanto non è se-
manticamente perspicuo: il valore “infecondo” dipende innanzi tutto
negli scolii omerici da una sua presunta, ma non dimostrata connessio-
ne con “vendemmio, raccolgo”(con - privativa). L’atteso (e
morfologicamente corretto) * sarebbe stato convertito in
per ragioni metriche. Diversi e non più convincenti equilibri-smi etimologici richiede per altro l’altra ipotesi semantica (“instancabi-
le, mai stanco”).A noi qui interessa nei primi due passi, in ogni caso, la
costanza del riferimento costiero, cioè del già evocato punto di contigui-
3 Per Cerri “irrequieto” anche in 1,327 e in 24,752 con lodevole coerenza rispetto alle
immotivate oscillazioni traduttive della Calzecchi Onesti (due volte “infecondo”, una volta “mai stanco”!)
Nomi e colori del mare in Omero 257
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tà tra mare e terraferma, espresso dal sintagma adposizionale
”sul lido” che da solo ci dice di quale condizione del mare si
tratti. Anche se nel caso di 24,752, l’atto compiuto da Achille è conte-
stualizzato “di là del mare” (), quello che a noi qui interessa
è che esso avvenga in altrettanti punti di approdo (cfr. 24,753 “a Samo, a Imbro, a Lemno fumante”). Infine non possiamo fare a meno di notare
che la traduzione “mai stanco” appare qui inaspettata e ingiustificata (e
questa opzione traduttiva si trasferirà con analoga assenza di motiva-
zione anche nei passi che ci accingiamo a esaminare dell’Odissea).
Odissea
1,72
figlia di Forchis, signore del mare instancabile
5,52
che (sc. il gabbiano) negli abissi paurosi del mare instancabile
6,226
e dalla testa toglieva lo sporco del mare instancabile
8,49
(andarono) a eseguir gli ordini in riva al mare mai stanco
10,179
dei panni si liberarono, sul lido del mare mai stanco
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La prima osservazione da fare è che nel passaggio dall’Iliade
all’Odissea il nostro almeno in tre occorrenze testuali (6,226; 8,49;
10,179) è in piena coerenza intertestuale di impiego, per cui mi sembra
alquanto sconcertante che esso si converta nella prassi dell’egregia
traduttrice da “infecondo” in “instancabile, mai stanco” (per Iliade
24,752 rinvio all’osservazione già fatta).4 A parte 8,49 e 10,179 che sono
evidenti, 6,226 si riferisce a Ulisse che è appena approdato all’isola dei
Feaci ed è non lontano dalla costa. Ma a ben guardare anche gli altri
due passi confermano, se si è prescinde come è opportuno dal contro-
verso valore semantico dell’aggettivo, le condizioni referenziali di
in quanto “mare sotto costa”. Infatti in 1,72 si parla di Tòosa, figlia
di Forchis, in quanto madre di Polifemo, che è un’entità del tutto ter-
restre, ma allo stesso tempo decisamente costiera, mentre in 5,52 il
protagonista è il gabbiano che per quanto si allontani dalla costa in
questa trova pur sempre il suo riferimento abitativo. A ciò si aggiunga
il fatto che la traduzione di con “negli abissi
paurosi” è fuorviante sia perché non rende il moto dall’alto verso il
basso (!)compiuto dal gabbiano che si immerge (cfr.
l’immediatamente successivo v.53 “i pesci cacciando, fitte l’ali bagna
nell’acqua salata”) sia perché gr. designa in prima istanza non
l’ “abisso”, ma proprio il tratto di mare che rientra nella costa, in piena
coerenza con la condizione referenziale di !5
”profondo”
Iliade
1,532
saltò nel mare profondo dall'Olimpo radioso
4 Meglio Privitera che in tutti i luoghi traduce “infecondo” (ma le riserve
sull’effettivo valore semantico dell’epiteto restano, v. anche più avanti). 5 Giustamente Privitera rende il sintagma in questione con “nei seni paurosi”.
Nomi e colori del mare in Omero 259
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Qui l’occorrenza strettamente testuale sembrerebbe non soccorrere
per l’esatta intelligenza del termine, ma l’evidenza cotestuale è indi-
scutibile: infatti in questo luogo si parla della dea Teti, la celebre ma-
dre di Achille, il cui epiteto omerico è ”dai piedi
d’argento” con evidente allusione all’ipostasi divina dello splendore
della spuma marina nella sua contiguità costiera (e del resto le nozze
della dea con Peleo implicano una sua contiguità con la terra!).
”ricco d'abissi”
Odissea
4,406
l'acuto odore del mare ricco d'abissi emanando
In questo l’evidenza cotestuale sopra evocata è ancora più forte,
giacché qui si parla di foche che fanno corteggio a Proteo “il Vecchio
verace del mare” e lo si fa in versi che per il nostro assunto sono di
lampante evidenza (4,400-405 “Quando il sole raggiungerà il mezzo
del cielo / allora esce dal mare il Vecchio marino verace, / nascosto nel
brivido bruno, sotto il soffio di Zefiro, / e uscito dorme nelle cave spe-
lonche; / intorno a lui le foche piedi natanti () della bella Figlia
del mare ( / dormono strette, uscite dal mare schiu-
moso ()”, tr. di Rosa Calzecchi Onesti). A sa-
per leggere questo passo non possono sussistere dubbi sulla referen-
zialità “mare-terra” di : innanzi tutto il riferimento all’uscita dal
mare da parte di Proteo; poi l’icastica rappresentazione dei “piedi na-
tanti”, cioè delle pinne-piedi delle foche, animali di acqua e di terra;
subito dopo, in rapporto sintagmatico di dipendenza, il riferimento
(–quasi in forma di Kenning- forse ad Anfitrite o -
per noi non sorprendente, v. sopra!-alla stessa Teti, di cui è epiteto in
Iliade 20,207; infine l’aggancio cromonimico (v. sotto) dell’attributo
per Calzecchi Onesti “schiumoso”, per me innanzi tutto e so-
prattutto “canuto” (v. sotto). Gli interpreti a vario titolo di Omero in-
260 Domenico Silvestri
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tendono di Odissea 4,404 e di Iliade 20,207 come “figlia del
mare”,6 ma molto opportunamente Stephanie West nel suo commento
al luogo dell’Odissea7 fa notare che “il suo significato e l’etimologia
molto probabilmente erano oscuri al poeta come lo sono a noi, ma
senza dubbio egli lo associava ad ”. A parer mio è più che
probabile una connessione etimologica assai antica e poi cancellata
proprio con l’acqua del mare in quanto , più esattamente con il nu-
cleo designativo di base di i.e. *wed-/wod-/ud- che indica l’ “acqua di-
namica” ed è in greco con una “dérivation à nasale attendue” (Chan-
traine, s.v.).8 Per parte mia vorrei far notare che * con il suo grado
apofonico “ingressivo”9 designa ciò che è analogamente espresso da
lat. unda (in questo caso con infisso nasale che marca una temporalità
di presente), per cui la traduzione coerente è corretta di
dovrebbe per me essere “della bella onda del mare”,
in piena coerenza con ciò che di questa particolare “declinazione” del
mare abbiamo finora già visto.
Ma più spesso il mare in quanto è significativamente definito
con adeguata pertinentizzazione cromonimica.
”divino”, o -meglio- “di un colore splendente”
Il valore semantico “di un colore splendente” qui proposto è sicu-
ramente quello più antico e trova ben note conferme a quota indoeu-
ropea in nomi sintomatici come quelli indiano e greco del cielo lumi-
noso (e divinizzato) o in quello latino del giorno che è tutto splendore
6 Per Cerri il termine designa appunto una “fanciulla marina”, per la Calzecchi
Onesti e per Privitera si tratta di una “figlia del mare”. 7 Cfr. Omero, Odissea, Volume I, Libri I-IV, Milano 1981, Fondazione Lorenzo Valla,
Arnoldo Mondadori Editore, p.370-371. 8 Cfr. Pierre Chantraine, Dictionnaire étymologique de la langue grecque. Histoire des
mots, . 9 Per questa interpretazione dell’apofonia indoeuropea in termini di Aktionsart rin-
vio al mio Apofonie indeuropee e altre apofonie in “Studi linguistici in onore di Roberto Gu-smani”, a cura di Raffaella Bombi, Guido Cifoletti, Fabiana Fusco, Lucia Innocente, Vin-cenzo Orioles, Alessandria 2006: Edizioni dell’Orso, pp.1621-1640.
Nomi e colori del mare in Omero 261
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di luce. Sarà bene a questo punto ricordarsi che con questa accezione
cromonimica l’aggettivo è riferito a Calipso come “splendente fra le
dee”, Odissea 5,242 e 276 (), che sarebbe del tutto insensato
rendere con “divina tra le dee”. Si noti inoltre che questo aggettivo si
associa al mare (), quando è in gioco un movimento soprattutto di
imbarcazioni- trascinate da terra verso il mare o, più esattamente, da
terra verso la costa del mare. Esaminiamo i luoghi seguenti:
Iliade
1,141
ora, presto, una nave nera spingiamo nel mare divino
2,152
a toccare le navi, a tirarle nel mare divino
14,76
tiriamole (sc. le navi), spingiamole tutte nel mare divino
21,219
non posso ormai più versar l'acque nel mare divino
Odissea
3,153
all'alba le navi tirammo nel mare divino
262 Domenico Silvestri
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4,577
prima di tutto spingemmo le navi nel mare divino
5,261
e con argani trasse nel mare divino la zattera
8,34
dunque una nave nera spingiamo nel mare divino
11,2
la nave, prima, spingemmo nel mare divino10
Tutti i passi qui riportati convergono nel dirci che il mare di cui si par-
la () è quello costiero, in otto casi su nove associato a natanti che sono
navi (e in un solo, ma emblematico caso, una zattera, quella che avvicine-
rà Ulisse a Itaca). L’unico caso che diverge e allo stesso tempo conferma
riguarda lo sfociare delle acque di un fiume nel mare. Ma perché questo
mare, in versione per intenderci, è costantemente definito ? A
mio parere qui non è in gioco una opinabile divinizzazione del mare11 e
tra l’altro non si vede perché sarebbe in tal senso soltanto e non
le altre epifanie (e )del più ragguardevole tra i
liquidi elementi, che non vengono mai qualificate con questo aggettivo.
10 Dal momento che 11,2 è identico (tranne che per il dettaglio trascurabile del nu-
mero diverso del complemento oggetto) a 4,577 non si capisce perché la traduzione sia diversa. Quella rispettosa della struttura formulare dei due passi dovrebbe essere “pri-ma di tutto spingemmo la nave nel mare divino”.
11 Le traduzioni con “divino” di Calzecchi Onesti e Cerri sono in tal senso veri e propri… “atti di fede”, mentre coglie nel segno Privitera che opta per “lucente”.
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Ma allora: perché in Omero è definito per ben nove volte ? La ri-
sposta è semplice: perché in questi nove casi esso è visto da terra e la luce
del giorno riflessa dalla sua superficie liquida contrasta splendidamente
(appunto!) con il nero implicito della terra e con il nero esplicito delle na-
vi! I cromonimi sono finestre cognitive e tutto dipende da quale finestra ci
si affaccia per guardare qualcosa.
”splendente”
Iliade
14,273
con l'altra (sc. mano) il mare splendente, in modo che tutti L’impiego di questo aggettivo è una conferma e in più aggiunge
un’ulteriore informazione cotestuale. Infatti il dio Sonno in questo
luogo chiede a Era di giurare toccando con una mano la terra e “con
l’altra il mare splendente”, quest’ultimo visto appunto in immediata
contiguità con la terra e con lo stesso contrasto cromatico espresso
da .12
“canuto, schiumoso” Con questo cromonimo con significativa divergenza referenziale
rispetto ai precedenti e “scintillante, splendente” viene
marcato un movimento dal mare verso la costa. Dal punto di vista
semantico “canuto, schiumoso” è praticamente un antonimo
dei due aggettivi già visti, in quanto esprime un “biancore non splen-
dente”, che è la condizione appunto dell’acqua schiumosa.13 In ogni
caso si conferma la già esplorata condizione di contiguità del mare in
quanto rispetto alla costa. Ma guardiamo ora più da vicino.
12 La resa di Cerri con “scintillante” va nella stessa direzione. 13 Si tratta dello stesso contrasto semantico che è espresso dalle coppie cromonimi-
che latine albus vs candidus e, mutatis mutandibus, ater vs niger!
264 Domenico Silvestri
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Iliade
1,350
in riva al mare canuto, guardando l'interminata distesa (!)
Mi chiedo perchè “distesa” e non “percorso, rotta, cammino”? In
effetti in Odissea 5,335 la ben diversa espressione
è correttamente resa dalla Calzecchi Onesti “nella
distesa del mare”!14 Ma cerchiamo di capire: Achille, disperato per-
ché gli è stata sottratta Briseide, siede solitario “in riva al mare canu-
to”. A lui che contempla il mare (!), che è orizzonte e
scena di un viaggio infinito e impossibile, vengono quasi a lambire i
piedi senza sosta le onde del “mare canuto” (). Si tratta
di una inquadratura cinematografica perfetta, in cui potentemente
contrastano lo sguardo di Achille per un’evasione impossibile verso
l’orizzonte marino (!) e l’incalzare verso di lui delle
onde del mare canuto () quasi in forma di pensieri in-
coercibili. La coesistenza pour cause di e nello stesso verso
non potrebbe essere più perfetta!
1,359
subito emerse dal mare canuto, come nebbia (sc. Teti)
L’epifania di Teti (qui non !)è immediatamente con-
seguente alla “scena” precedente del desolato e sconfinato dolore
di Achille e si tratta di un evidente (e maternamente affettuoso!)
movimento del mare verso la costa di cui il “canuto” biancore della
schiuma è marca cromonimica altrettanto evidente.
14 Ancora meglio sarebbe stato “nelle distese del mare”…
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12,284
perfino in riva del mare canuto cadon le falde (sc. di neve), sui golfi e le punte Qui il movimento delle onde verso terra e la neve che cade sono
non solo in sincronia ma anche in sintopia perfette in una sorta di
quasi indistinto biancore, ma il mare ha in qualche modo il soprav-
vento (cfr. v.285 “e l’onda dove lambisce le ferma”).
13,682
in secco sulla spiaggia del mare canuto, e di fronte
Qui si parla di navi “tratte (non è tradotto in quanto im-
plicito, ma sarebbe stato meglio tradurlo!)15 “in secco sulla spiaggia” e
il movimento è chiaramente verso terra!
14,31
sopra la ghiaia (!) del mare canuto; fino alla piana le prime
In questo caso (e a ulteriore conferma) basta leggere questo verso
insieme al precedente e al seguente (cfr. vv.30-32: “Molto lontano dal-
la battaglia erano in secco le loro navi, / sopra la ghiaia del mare canu-
to; fino alla spiaggia le prime / avevano tratto (!), e alzato il
muro davanti alle poppe”) per capire così il detto di Hobbes “La lo-
canda dell’evidenza non ha insegna”…
15,190
a me (sc. Poseidone) toccò di vivere sempre nel mare canuto
15 Cerri correttamente rende “tirate in secco le navi”.
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sia pure in contiguità con la terra e l’Olimpo dove egli assai spesso
si reca.
15,619
(uno scoglio) dirupato, grande, posto in riva al mare canuto
E qui sembra quasi di vedere e di sentire l’onda che si muove e bat-
te contro di esso!
20,229
correvano (sc. le puledre) sopra la cima dell'onde del mare canuto
Se si legge tutto il passo si ha di nuovo uno straordinario e coerente ef-
fetto cinematografico. In esso si parla di Dardano e di suo figlio Erittonio
(vv.220-229) “che fu il più ricco degli uomini mortali. / A lui tremila caval-
le pascevano presso il padule, / femmine, fiere dei loro vivaci puledri; /
d’esse s’innamorò Borea, mentre pascevano, / e giacque con loro sem-
brando un cavallo criniera azzurra; / esse rimasero pregne, e fecero dodici
puledre. / Queste, quando saltavano per la pianura dono di biade, / corre-
vano sopra la cima delle spighe e non le rompevano; / e quando saltavano
sul dorso largo del mare (!), / correvano sopra la
cima dell’onde del mare canuto”. Sembra quasi di vedere (o di sognare?)
queste puledre leggere come il vento che si muovono sulla cima delle spi-
ghe e delle onde e che dal mare senza sosta si muovono verso la terra!
21,59
la vastità del mare schiumoso che molti a forza trattiene
Qui la Calzecchi Onesti rende con “vastità”, mentre altrove
(1,350) sceglie “distesa”: secondo me è meglio rendere con “percorso,
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rotta, viaggio”. Qui è come se Omero volesse mostrarci prima il per-
corso marino, poi il supposto approdo... (ma v. avanti).
23,374
tornando (sc. i cavalli) al bianco mare, allora l'arte d'ognuno Il contesto è dato dai giochi funebri per Patroclo e in particolare
dalla corsa dei carri, che muove dalle navi e alle navi ritorna: l’acqua
del mare a sua volta muove verso la riva e sulla riva biancheggia.
Odissea
2,261
lavate nel bianco mare le mani, Atena invocava La Calzecchi Onesti traduce il verso precedente (v.260) “Telemaco,
andando lontano per la riva del mare ()”, ma è evi-
dente che qui sono in gioco due “primi piani” e due designazioni di-
verse. Prima Omero ci inquadra l’enorme scenario marino, poi l’atto
di lavarsi le mani sulla riva bianca di schiuma…
5,410
uscita (sc. “la terra insperata”) però non si vede dal mare schiumoso
Qui la vista negata è proprio quella che si vorrebbe avere se come
il naufrago Ulisse si guarda dal mare verso la terra!
9,132
vi son prati, del mare schiumoso lungo le rive
268 Domenico Silvestri
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In questo caso dobbiamo intendere, in coerenza con tutto il resto,
che quando ci si avvicina alla riva si scorgono oltre essa i prati di cui si
discorre.
12,180
Quindi, seduti, battevano il mare schiumoso coi remi
Il mare appunto si muove verso la costa dell’isola delle Sirene e i
compagni di Ulisse non accompagnano, anzi contrastano il suo mo-
vimento proprio nel momento in cui la schiuma dice che la riva è pe-
ricolosamente vicina!
23,236
pochi si salvano dal bianco mare sopra la spiaggia
Qui è evidente che lo stesso movimento fanno le onde e gli scam-
pati che raggiungono la spiaggia.16
”agitato, livido” (o “purpureo”?)
Iliade
16,391
gemono (sc. i torrenti) forte, correndo verso il livido mare
16 Si noti che in situazioni testuali identiche e in presenza dello stesso aggettivo
omerico la Calzecchi Onesti propone tre rese diverse: “canuto” (8 casi), “schiumoso” (4 casi), “bianco” (3 casi). C’è da chiedersi: ma come la pensava Omero? In compenso Cerri rende sempre con “spumoso”, Privitera sempre con “canuto” e così le cose vanno senz’altro meglio!
Nomi e colori del mare in Omero 269
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L’ambiguità cromatica di questo riferimento si può, credo, supera-
re se ci si rifà all’interezza del passo (vv.384-393) che descrive, in chia-
ve di paragone, un giorno d’autunno “in cui pioggia violenta rovescia
/ Zeus…e molte pendici i torrenti dilavano” e l’acqua del mare costie-
ro che, come tutto il mare del resto, è in perenne dialogo cromatico
con il cielo, non può non essere come questo livida e cupa.17
Se dovessimo ora indicare in sintesi estrema il “punto di vista”
da cui si genera la nozione omerica di e da cui dipendono i
connessi cromonimi, potremmo ricorrere –forti di una ormai esplo-
rata evidenza testuale- all’etichetta della salienza della pertinenza an-
tropica. Questa etichetta, che allude ad una sorta di protagonismo
dell’uomo rispetto al mare, è a fortiori applicabile a , ma
mentre è con ogni evidenza il mare visto da terra o da cui si va
a terra (v. dietro), è il mare che si attraversa per svolgervi
attività di pesca o di colonizzazione (v. avanti). Le altre due forme
omeriche del mare (e ) sono invece passibili, co-
me vedremo, dell’etichetta della salienza della pertinenza non antropi-
ca, da intendersi nel senso che l’uomo nel loro caso non è protago-
nista attivo e percettivo.
Parliamo ora di . Con questo termine Omero designa “il
mare come massa d'acqua indivisa” con precipuo riferimento a “onde,
abissi” e simili, intesi sia come dimensione ottica sia come dimensione
acustica. Per una contrapposizione con cfr. Iliade 2,209-210, da
cui si evince che . è la massa d'acqua marina che “mugge per l'ampia
riva”, mentre con . si indica il mare (solcato da navi, v.avanti) che al
largo “rimbomba”.
Esso può essere non cromaticamente definito:
”profondo”
17 Cerri preferisce “spumeggiante”, ma qui non è in gioco ”spumoso” (v. so-
pra, alla nota precedente) ma che è cromonicamente diverso!
270 Domenico Silvestri
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Odissea
5,413
e profondo è là il mare, non posso sui piedi (star ritto)
Per capire la salienza dell’impiego di e la pregnanza
dell’aggettivo attributivo bisogna ricondursi a qualche verso prece-
dente (per l’esattezza al v.410, già esaminato) in cui c’è un’evidente
negazione di un non ancora raggiunto (v. sopra). Qui domina in-
vece il mare nella sua acquatica imponenza, il mare in cui “non si toc-
ca” (…e forse proprio qui è il caso di ricordare un punto di una can-
zone famosa che dice “come è profondo il mare!”).
“orrendo”
Odissea
7,273
sollevò un mare orrendo, mai l'onda lasciava (di trascinarmi)
Si tratta della vendetta di Poseidone e non ci potrebbe essere mai
mare (appunto!) più estraneo e ostile all’uomo, in una parola
più “orrendo”, in cui le onde non si accostano a terra (!), non si di-
stendono senza fine (!), non si lasciano attraversare (!),
ma solo su tutto e tutti sovrastano.
”inseminato”
Iliade
14,204
(Crono) cacciò sotto la terra e il mare inseminato
Nomi e colori del mare in Omero 271
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Sulla semantica piuttosto sfuggente di questo aggettivo (a cui nulla
aggiunge l’opzione traduttiva “inseminato”, che in ogni caso non si
legittima in quanto qui l’evidente condizione stereotipica impone una
sola opzione traduttiva) ci siamo già soffermati. Tuttavia, siccome qui
è in gioco la cacciata di Crono da parte di Zeus è appena il caso di far
notare che Omero tra quattro modulazioni designative del mare sce-
glie proprio .
secondo Calzecchi Onesti “ampia distesa”, per me meglio
“ampio percorso” (con ovvio riferimento alle navi che lo attraversano)
Iliade
15,381
come una grossa ondata del mare ampia distesa
Renderei l'aggettivo con “dall'ampio percorso”18 (cfr. per la stessa
giuntura genitivale Odissea 4,432), ma soprattutto lo accorderei (anche!)
con v(gen.) del verso successivo. Tutto il passo (vv. 381-384) nella
traduzione di Calzecchi Onesti suona così: “Come una grossa ondata del
mare ampia distesa / s’abbatte sulle murate di una nave, quando la spin-
ge / la violenza del vento, che gonfia flutti enormi; / così con alto grido i
Teucri s’abbatterono sul muro”. Per me i primi due versi andrebbero in-
tesi così: “Come una grossa ondata del mare, sulle murate s’abbatte /, di
una nave dall’ampio percorso quando la spinge / …etc.”. In questo luogo
coesistono nella sintetica forza del discorso poetico il mare non antropico
della “grossa ondata” e quello compiutamente antropico della nave che
sulla sua ampiezza si avventura in viaggio.
18 Non mi sembra condivisibile la traduzione di Cerri “sconfinato”, che si adatta inve-
ce all’epiteto di in Iliade 1,350 (), do-ve Cerri rende “sulla riva del mare spumoso, guardando la distesa infinita” con scelta condivisibile per la resa dell’aggettivo () ma non altrettanto condivisibile per la resa del sostantivo ().
272 Domenico Silvestri
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Odissea
4,432
allora lungo la riva del mare ampie vie In questo caso la nave è solo evocata e buona è la traduzione “am-
pie vie” (con felice incoerenza rispetto alla traduzione di Iliade 15,381),
ma –se si riflette un attimo- è evocato anche grazie al sintagma
, che è testa reggente di , che a sua
volta nell’aggettivo evoca . Ma anche questo è, nella sua polifo-
nia referenziale, la Poesia e quella omerica in particolare!
”sonante”
Iliade
1,157
ci sono monti ombrosi e il mare sonante Qui è il mare (insieme alle montagne) che con la sua imponenza si
interpone tra la terra dei Troiani e Ftia, la terra di Achille, creando una
separazione teoricamente invalicabile.
”sconvolto”
Iliade
2,294
(le procelle) dell'inverno lo fermino e il mare sconvolto Anche in questo caso il mare (insieme alle tempeste invernali) co-
stituisce per lo stesso motivo appena detto ostacolo alla navigazione.
Nomi e colori del mare in Omero 273
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”urlante, fragoroso”
Iliade
1,34
e si avviò in silenzio lungo la riva del mare urlante
Bellissimo è il contrasto tra il silenzio di Crise e il fragore
dell’immensa massa d’acqua che sembra quasi dare una voce al suo
dolore infinito!
6,347
sopra un monte o tra il flutto del fragoroso mare
Torna di nuovo (nel discorso di Elena) il riferimento alla montagna
e al mare (a questo aspetto del mare!) intesi come luoghi di estrania-
zione e di separazione (cfr. sopra a proposito di Iliade 1,157).
9,182
mossero dunque lungo la riva del mare urlante
Si tratta dell’ambasceria (in tutto cinque persone!) inviata per
placare l’ira di Achille, anche se il riferimento più diretto (duale!) è
ai due personaggi più ragguardevoli, Aiace e Ulisse e sebbene ne
sia stato messo a capo Fenice (v.168). Per una situazione analoga in
cui il duale marca probabilmente la salienza di due personaggi ri-
spetto a un numero complessivo (cinquantadue!) v. sopra a propo-
sito di Odissea 8,49. Qui il “mare urlante” sembra quasi far da cor-
nice o addirittura configurarsi icona dell’enorme difficoltà
dell’impresa.
274 Domenico Silvestri
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13,798
(molte) le onde che bollono nel mare urlante
Sono solo quattro ma ben estese parole secondo un’arcatura
sillabica che culmina nell’epiteto del mare che stiamo esaminando
e con una strutturazione sintattica che comincia con la testa reg-
gente e la messa in evidenza delle onde () e si chiude con
la dipendenza genitivale di questa specifica epifania del mare
(). La “sceneggiatura” della grande battaglia presso le
navi non potrebbe essere più perfetta!
23,59
ma sulla spiaggia del mare urlante il Pelide
Nell’imminenza dei giochi funebri per la morte di Patroclo qui
è descritto nel suo immenso dolore Achille che (vv. 61-61) “si ste-
se , con grevi singhiozzi, in mezzo ai molti Mirmidoni, / allo sco-
perto, dove la spiaggia sciacquavano l’onde”. Il mare in quanto
esprime perfettamente il suo urlante dolore interiore.
Odissea
13,85
del mare urlante spumeggiava (sc. l'onda) sconvolta
La nave dei Feaci riporta Ulisse ad Itaca: il mare, quello che
qui abbiamo imparato a (ri)conoscere, è ancora minaccioso, ostile,
ma la nave e il destino dell’eroe sono ormai sul giusto cammino.
Nomi e colori del mare in Omero 275
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13,220
trascinandosi lungo la riva del mare urlante
Ulisse è giunto a Itaca, ma non riconosce i luoghi. Lo assalgono
dubbi, si aggira incerto sulla riva e su lui incombe ancora col suo
enorme rimbombo il mare…
Ma può essere anche cromaticamente definito:
”glauco”
Iliade
16,34
non madre Teti: il glauco mare t'ha partorito Patroclo rimprovera Achille per la sua intransigenza e ne discono-
sce a fini persuasivi paternità e maternità (vv. 33-35: “Spietato, a te
non fu padre Peleo cavaliere, / non madre Teti: il glauco mare t’ha
partorito / o i dirupi rocciosi, tanto è duro il tuo animo”). Si noti che ancora una volta sono associati per la loro natura ostile (e “non antro-
pica”!) il mare in quanto e le montagne insormontabili. Ma
questa volta il mare ha un colore, sia pure assai difficile da definire,
tra il verde e l’azzurro, che è tuttavia una sua pertinenza cromatica
specifica e non si associa alle altre sue epifanie acquatiche.
“canuto, schiumoso”
Iliade
4,248
solide prue stanno a secco, sul lido del mare schiumoso
276 Domenico Silvestri
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Qui il cromonimo, di cui ci siamo ampiamente occupati a proposi-
to di , allude alla contiguità di con la riva, che per altro è
esplicitamente rammentata (). In ogni caso non bisogna dimen-
ticare che i quattro nomi omerici del mare introducono pertinenze
percettive in una continuità referenziale che a volte può causare corti
circuiti designativi.
Odissea
6,272
con esse (sc. le navi) superbi (sc. i Feaci) traversano il mare schiumoso
In questo caso è innegabile che e abbiano una condi-
visione cromonimica nel quadro della sopra accennata continuità refe-
renziale a cui si aggiunge contrastivamente rispetto alla non antropici-
tà di l’orgoglio tutto antropico dei Feaci di essere grandi na-
vigatori.
11,75
e un tumulo alzami in riva al mare schiumoso
22,385
in un seno del lido, fuori dal mare canuto
Per questi due passi valga il già detto a proposito di Iliade 4,248. In
particolare nel caso del secondo il riferimento è a pesci pescati al largo
(!) e poi portati a riva, dove l’onda del mare si caratterizza
per la sua spuma canuta…
Nomi e colori del mare in Omero 277
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Quanto a ci sentiamo di dire che con questo termine Ome-
ro designa il mare “alto e ampio”, che “si estende ampiamente” e si
costituisce, in qualche modo, in una immagine in(de)finita. In Odissea
5,335 notevole in tal senso è l'espressione ”nelle di-
stese del mare”, che in qualche modo sottolinea un movimento dal
mare costiero verso il mare più aperto. Non ci sorprenderà che esso è
sempre non cromaticamente definito e che i due aggettivi che (si fa
per dire!) lo caratterizzano siano solo genericamente allusivi:
”grande, vasto”
Iliade
14,16
Come quando si gonfia di onde mute il gran mare
Confesso che questo è per me un verso intrigante: innanzi tutto per
l’impiego del verbo () che vale, sì, “si agita, si gonfia”, ma che
ha anche implicazioni cromonimiche sia pure in modo cangiante (dal
rosso scuro al nero); poi per l’uso efficacemente allusivo dell’aggettivo
in rapporto alla vasta indeterminatezza di ; infine e so-
prattutto con il richiamo alle “onde mute”, più esattamente all’”onda
muta” ()19 che in modo sorprendente esalta solo l’aspetto
visivo di questa dimensione del mare.
Odissea
3,179
molte cosce (di toro) offrimmo (a Poseidone), traversato il gran mare
19 Bella è la resa altrettanto evocativa di Cerri con “sordo gonfiore”…
278 Domenico Silvestri
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Qui Nestore racconta a Telemaco il ritorno dei Greci in patria e sot-
tolinea la vastità del mare che hanno attraversato.
3,321-322
in mare tanto vasto, dove neppure gli uccelli lo stesso anno ripassano, perché è vasto e terribile
La vastità del (iterata nei due versi) lo rende per ciò stesso
“terribile”, ma nelle parole di Nestore che conclude il racconto l’enfasi
è data dal particolare degli uccelli migratori che su di esso osano pas-
sare una sola volta nel corso dell’anno.
”nel mezzo”
Odissea
3,174
e ce lo (sc. un prodigio) mostrò, ci spinse (a fendere) il mare nel mezzo verso l'Eubea
Non è una “rotta” come è quella espressa dalla quarta epifania del
mare che ci accingiamo ad esplorare, ma è un viaggio guidato da un
prodigio divino, che si svolge “in mezzo” a un mare di cui abbiamo
imparato a riconoscere la sterminata ampiezza…
In questo nostro viaggio testuale siamo infine a arrivati alla parola più
importante fra quante designano vari aspetti del mare in Omero. In effetti
è comunemente inteso come “mare profondo, mare alto”, ma -a
parer mio- questo è significato secondario, rispetto al valore etimologico e
primario di “rotta, cammino”,20 che le navi esercitano appunto in acque
20 Sono ben noti i confronti con ant. ind. pánthāh ‘cammino’ e connesse forme iraniche,
dove andrebbe approfondito il problema del valore designativo delle forme a grado ridotto
Nomi e colori del mare in Omero 279
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profonde e con precisi obbiettivi. Inoltre va notato che è la forma più atte-
stata e con un maggior numero di aggettivi cromatici e non cromatici, nel
quadro di una prospettiva che ho già definito pour cause “antropica” e che
qui ridefinirei “antropocentrica”. Un’ulteriore annotazione: questa moda-
lità del mare è pour cause decisamente più odissiaca che iliadica. Di gran-
de rilevanza proprio in questa prospettiva è la presenza del verbo
(var. ) “navigo nel mare, lo attraverso” (ad es.
Odissea 5,277 e 278), a cui si affianca l'aggettivo , che si applica
a navi adatte a rotte d'altura (ad es. Iliade 2,771 e 3,283), senza dimenticare
quello che abbiamo detto a proposito di (v.sopra a proposito
di e di Iliade 15,381 e Odissea 4,432).
Esso può essere non cromaticamente definito “senza confine, interminato”
Iliade
1,350
in riva al mare canuto, guardando l'interminata distesa
Abbiamo già ampiamente commentato questo verso denso di im-
plicazioni comunicative (v. sopra). Qui di nuovo mi chiedo: perché
nella scelta traduttiva “distesa” e non “percorso, rotta, cammino”
(quello che in effetti è negato al disperato Achille)? In effetti in Odissea
5,335 l'espressione alternativa è correttamente resa
dalla Calzecchi Onesti “nella distesa del mare”, in pratica un mare che
si protende ben oltre la costa!
(pat-), ma più importante per il nostro procedimento agnitivo è quanto dice Chantraine, DELG s.v.: “Toutefois c’est n’est pas en védique un chemin, mais un voie que l’on s’ouvre ou que l’on vous ouvre, un chemin où il y a des obstacles, un franchissement (corsivo nostro!)”, perché questo è il valore più profondo di gr. e questo è parimenti espresso da lat. pons e ponti-fex, che non è secondo la facilior spiegazione varroniana “quello che fa i ponti” bensì “quello che traccia il cammino”.
280 Domenico Silvestri
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Odissea
4,510
e lo travolse con sé nel mare ondoso, infinito
La superbia di Aiace Oileo è qui punita: Poseidone spacca con il
tridente la rupe su cui si è temporaneamente salvato e lo precipita
(!) nelle onde di un viaggio marino senza ritorno
(!). Si noti come con l’attributo in questione, che nega
di fatto un percorso (-!) si consumi un paradosso sintagmatico ri-
spetto alla sua testa reggente (!).
”infecondo, instancabile, mai stanco” Qui osservo ancora una volta (v. sopra) che le due diverse e incon-
ciliabili opzioni traduttive discendono da due diverse e ugualmente
opinabili spiegazioni etimologiche dell’aggettivo.
Iliade
15,27
spingesti per l’inseminabile mare, meditando rovina
Nel discorso di Zeus, adirato con Era, si ricorda che questa ha so-
spinto Eracle su una rotta marina da lui non scelta fino all’isola di Cos
“meditando rovina”…
Odissea
2,370
che tu sul mare instancabile soffra pene e ti perda!
Nomi e colori del mare in Omero 281
AIΩN-Linguistica n.6 n.s. DOI: 10.4410/AIONL.6.2017.009
5,84
e al mare mai stanco guardava, lasciando scorrere lacrime
5,140
sul mare instancabile: scorta non potrò dargliene certo
5,158
al mare mai stanco guardava, lasciando scorrere lacrime
7,79
sopra il mare mai stanco, lasciò la Schería amabile,
13,419
sul mare instancabile; e altri intanto gli mangiano i beni
17,289
sul mare mai stanco, a portare mali ai nemici
A ben guardare c’è qualcosa che accomuna questi sette passi odissiaci
in cui è protagonista negativo e “instancabile” il : in
2,370 Euriclea teme mali (, cfr. Iliade 15,27) per Telemaco a seguito di
un suo viaggio rischioso; in 5,84 Ulisse seduto al riva al mare per una sta-
si forzata piange in vista di un mare che stasi non conosce e lo invita al
viaggio in ogni caso pericoloso; in 5,140 Calipso per questo difficile viag-
gio dichiara di non poter dare a Ulisse una scorta; in 5,158 si ripete verbum
282 Domenico Silvestri
AIΩN-Linguistica n.6 n.s. DOI: 10.4410/AIONL.6.2017.009
de verbo la situazione già vista in 5,84; in 7,79 è Atena “occhio azzurro”
che trasvola senza problemi su un percorso marino pur sempre insidioso
per i mortali; in 13,419 Ulisse così si esprime a proposito di Telemaco che
soffre viaggiando sul mare; in 17,289 nel dialogo tra Ulisse ed Eumeo c’è
quest’ultimo accenno negativo al viaggio per mare. In ogni caso si noti il
carattere stereotipico del sintagma che ricorre in tut-
ti e sette i passi. Tanto più sorprende che per la Calzecchi Onesti il mare
così concepito sia una volta (15,27) “inseminabile” e tutte le altre “instan-
cabile, mai stanco”! 21 “vasto, largo”
Odissea
1,197
ma ancora vivo nel vasto mare è impedito
2,295
l'attrezzeremo (sc. la nave) in fretta e andremo22 pel vasto mare
4,498
uno ancor vivo nel largo mare è impedito
4,552
che ancora vivo nel vasto mare è impedito
21 La scelta traduttiva “infecondo” di Privitera è invece costante in tutti i luoghi qui
esaminati! 22 Qui sarebbe preferibile tradurre con esattezza “(la, sc. la nave) spingeremo”, co-
me del resto fa la Calzecchi Onesti nel caso di 12,293.
Nomi e colori del mare in Omero 283
AIΩN-Linguistica n.6 n.s. DOI: 10.4410/AIONL.6.2017.009
12,293
all'alba imbarcati la spingeremo pel vasto mare
12,401
e noi sulla nave in fretta salendo, navigavamo pel mare infinito Innanzi tutto faccio notare che di tre versi identici (1,197; 4,498; 4,552) so-
no date tre traduzioni leggermente diverse, in particolare è due volte
“vasto” e una volta “largo” e a questo proposito sarà bene notare che la resa
dell’attributo negli altri passi è sempre “vasto”, ma una volta (12,401) in mo-
do del tutto inaspettato “infinito”. Nel caso dei tre versi identici si parla sem-
pre di Ulisse, che assume in tal modo una condizione stereotipica di viaggia-
tore che sull’ampia strada del mare trova ostacoli apparentemente insormon-
tabili. In 2,295 in ogni caso è in gioco, sulla bocca di Atena, il viaggio di Tele-
maco alla ricerca di Ulisse e la stessa situazione è descritta, sulla bocca di Eu-
riloco, in 12,293 con un emistichio identico () che immo-
tivatamente è tradotto in modo diverso. Stesso discorso vale infine per
12,401, che riprende 2,295 e 12,293 quasi per intero nel secondo emistichio
con la sola importante variante di ”spingemmo”.23 “pescoso”
Iliade
9,4
Come due venti sollevano il mare pescoso
23 In realtà in 2,295 e in 12,293 è espressa una previsione di imbarco, mentre in 12,401 c’è il
racconto di un imbarco. Come si regola Privitera in queste tre circostanze? Egli rende di 2,295 e 12,293 con “la (sc. la nave) spingeremo nel vasto mare” e rende con perfetta coerenza di 12,401 con “spingemmo la nave nel vasto mare”.
284 Domenico Silvestri
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16,746
ma se venisse anche sul mare pescoso
19,378
li portan sul mare pescoso, lontano dagli amici
Odissea
4,381
(e dimmi) il ritorno, come potrò navigare sul mare pescoso
4,390
e il ritorno, come potrai navigare sul mare pescoso
4,424
(chiedi) il ritorno, come potrai navigare sul mare pescoso
4,470
(e dimmi) il ritorno, come potrò navigare sul mare pescoso
4,516
lo trascinò sul mare pescoso, che grave gemeva
Nomi e colori del mare in Omero 285
AIΩN-Linguistica n.6 n.s. DOI: 10.4410/AIONL.6.2017.009
5,420
e mi trascini pel mare pescoso, a urlare di pena
9,83
sul mare pescoso: al decimo giorno arrivammo
10,458
quanti dolori patiste sul mare pescoso
10,540
e il ritorno, come potrai tornare sul mare pescoso
23,317
per il mare pescoso lo trascinava, con grave suo gemito” In tutti casi qui riportati è evidente che il riferimento alla pesca non
riguarda il mare costiero, ma quello aperto che si raggiunge seguendo
una “rotta” specifica, cioè percorrendo un ben determinato. In
più si noterà che con questo attributo si esalta, nell’Odissea in partico-
lare, la condizione stereotipica dell’enunciazione, fatte salve certe ne-
cessarie variazioni nella predicazione verbale. I moduli sono due:
quello del “ritorno” in 4,381, 4,390, 4,424, 4,470, 10,540 e quello del
“tormento” in 4,516, 5,420 e 23,317. Fuori di queste iterazioni stereoti-
piche restano solo 9,83 e 10,458.
“ondoso”
286 Domenico Silvestri
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Iliade
14,229
Dall'Atos si buttò verso l'ondoso mare
Odissea
4,425
Così dicendo, sotto l’ondoso mare s’immerse
4,510
E lo travolse con sé nel mare ondoso, infinito
4,570
Così dicendo sotto l’ondoso mare s’immerse
11,253
Detto così, sotto il mare spumeggiante s’immerse Sorprendente e immotivata è la variazione traduttiva “spumeg-
giante” di quest’ultimo verso soprattutto perché siamo in presenza
della già ricordata e odissiaca iterazione stereotipica (in questo caso
nei versi 4,425, 4,470 e 11,253). L’aggettivo, apparentemente generico,
è invece evocativo delle difficoltà che si incontrano viaggiando per
mare…
“grande cetaceo = immenso”
Nomi e colori del mare in Omero 287
AIΩN-Linguistica n.6 n.s. DOI: 10.4410/AIONL.6.2017.009
Odissea
3,158
correvano; un dio il mare immenso appianava
Con questo aggettivo si realizza un’immagine di straordinaria evi-
denza plastica: la superficie del mare, solcata dalle navi in rapido
viaggio, appare come la schiena enorme e mostruosa di un grande ce-
taceo!24
“flutti infiniti”
Odissea
4,354
Un’isola c’è nel mare flutti infiniti
6,204
Viviamo in disparte, nel mare flutti infiniti
19,277
Essi, così, tutti quanti morirono nel mare flutti infiniti Il carattere stereotipico ed odissiaco, già da noi rilevato, si con-
ferma nei secondi emistichi di questi versi sia che si parli di
24 La traduzione della Calzecchi Onesti non rende giustizia e non è migliore quella
di Privitera (“dai grandi abissi”) che è anzi decisamente fuorviante. A questo proposito voglio ricordare che Omero altrove (ad es. Odissea 3,142) parla del “ritorno sul dorso va-sto del mare” ().
288 Domenico Silvestri
AIΩN-Linguistica n.6 n.s. DOI: 10.4410/AIONL.6.2017.009
un’isola remota davanti all’Egitto sia che Nausicaa descriva la
condizione dei Feaci sia che ineluttabili compagni di viaggio ven-
gano in primo piano i “flutti infiniti” che assediano lo sguardo di
chi va per mare…
Ma è soprattutto cromaticamente ben definito con tre agget-
tivi che non potrebbero essere più eloquenti nella designazione poeti-
ca di altrettante “rotte” specifiche:
”nebbioso” (?) ma molto meglio “scuro (-) allo sguardo (-)”
Secondo l’interpretazione vulgata “nebbioso”, in realtà il suo signi-
ficato più preciso è “scuro (-) allo sguardo (-)”, quale è
appunto il colore dell’orizzonte marino (in quanto parte essenzia-
le per un corretto orientamento nel !) verso sera sulla rotta
“orientale”, quando gli antichi navigatori greci vanno nella dire-
zione opposta a quella del sole. D’altra parte la rotta antitetica è
quella “occidentale”, che è espressa mediante il cromonimo
“lett. che ha l'aspetto (-)del vino (-)”, con allusione al colore
del mare verso sera quando si naviga verso occidente e l’acqua ri-
specchia il colore vinoso del cielo al tramonto. Giova insistere, in
via preliminare, su questa nostra interpretazione che si fonda sul-
la evidente “dialogicità” tra mare e cielo. Infatti l’orientamento
degli antichi navigatori greci, quando abbandonano la navigazio-
ne costiera o “paralica”25, è istintivamente acquisito mediante la
constatazione della diversa colorazione dell’orizzonte marino so-
prattutto quando si avvicina il momento critico del tramonto.
Nella mia visione e sono in quanto riferiti alle
rotte marine in Omero veri e propri antonimi così come (e sempre
con riferimento al sole!) sono tali per noi gli aggettivi “orientale”
e “occidentale”.
25 Dopo quanto abbiamo appurato a proposito di (v. sopra, nel testo) si può ben
capire che una navigazione “paralica” (cfr. gr. ’situato sul mare, costiero’) non abbia niente a che fare con il di cui ci stiamo occupando.
Nomi e colori del mare in Omero 289
AIΩN-Linguistica n.6 n.s. DOI: 10.4410/AIONL.6.2017.009
Iliade
23,744
genti fenice l'avevan portato (sc. un cratere d'argento sbalzato) sul mare nebbioso Non casualmente si tratta dell’unica occorrenza del cromonimo in
questo poema e per me non vale banalmente “sul mare nebbioso” (e
per qualcuno illusoriamente… “nordico”! V. avanti) ma “sulla rotta
orientale”, quella appunto che gli antichi Greci percorrono per andare
verso i Fenici.
Odissea
2,263
e per nave ordinasti (sc. Atena) che sul mare nebbioso Qui è Telemaco che parla, rivolto ad Atena, ed allude al suo viaggio
per mare verso Pilo per incontrare Nestore. Ma prima solcherà le acque
intorno a Itaca “sulla rotta occidentale” e solo poi “sul mare nebbioso” o
–se è consentita una “modesta proposta” “sul mare che è scuro allo
sguardo” (cfr. più avanti e in senso opposto 2,421: che
si potrebbe rendere “sul mare che ha aspetto del vino”…).
3,105
e quanto (lottammo) per nave sul mare nebbioso Qui invece è Nestore che parla ed allude alle scorrerie guidate da
Achille sul mare antistante Troia, non “sul mare nebbioso” come si
potrebbe credere, ma “sulla rotta orientale” appunto e proprio in
quanto la Troade è a oriente della Grecia e se si va in direzione di essa
diventa progressivamente “scuro allo sguardo” l’orizzonte marino.
290 Domenico Silvestri
AIΩN-Linguistica n.6 n.s. DOI: 10.4410/AIONL.6.2017.009
3,294
all'entrata del porto di Gòrtina (sc. a Creta), nel mare nebbioso In realtà non “sul mare nebbioso” ma “sulla rotta orientale”,
quella che Menelao percorrerà giungendo infine in Egitto. Si badi al
fatto che Menelao stava prima (cfr. 3,286!) andando
, cioè “sulla rotta occidentale” e viene appunto de-
viato da Zeus all'altezza del capo Malea, estrema punta sud-
orientale del Peloponneso (quella sud-occidentale è il Tenaro!), che è
il discrimine tra le due rotte.
4,482
perché m'obbligava (sc. il Vecchio del mare) di nuovo sul mare nebbioso Parla Menelao e l'obbligo è (v.483) “a tornare in Egitto, via lunga
e difficile”, non “sul mare nebbioso” secondo un’evidente distorsio-
ne traduttiva ma “sulla rotta orientale” appunto… Faccio notare che
anche in questo caso la “buona rotta” su cui doveva andare Menelao
era (come dire e come è detto da Omero!) “sulla rotta occidentale”,
cioè secondo l’espressione stereotipica (cfr.
v.474!).
5,164
alto (il castello sulla zattera), che possa portarti sul mare nebbioso
Parla Calipso e dice rivolta ad Ulisse (vv.162-163): “Suvvia, grossi
tronchi col bronzo tagliando, connèttili / in zattera larga; poi saldo ca-
stello disponivi”, alludendo al suo viaggio dall'estremo occidente
(Ogigia) verso Itaca non “sul mare nebbioso” ma in questo caso, più
che mai necessariamente, “sulla rotta orientale”.
Nomi e colori del mare in Omero 291
AIΩN-Linguistica n.6 n.s. DOI: 10.4410/AIONL.6.2017.009
5,281
sembrava (sc. l'isola dei Feaci) come uno scudo, là nel mare nebbioso
Così appare ad Ulisse, dopo diciotto giorni di viaggio dall'estremo
occidente, dove è l'isola di Calipso, la terra dei Feaci, che è (quasi) po-
larmente opposta non “sul mare nebbioso” ma “sulla rotta orientale”!
8,568
tornante (sc. una nave dei Feaci) da un accompagno sul mare nebbioso
Parla Alcinoo, re dei Feaci, alludendo all’attività di traghettatori
della sua gente non “sul mare nebbioso” ma “sulla rotta orientale” e
subito dopo fa riferimento alla fine della loro isola “coperta da un
gran monte” (un’eruzione vulcanica, forse una memoria poetica della
vicenda dell’isola di Tera?) per opera di Poseidone e in punizione
dell’aiuto da loro fornito ad Ulisse.
12,285
deviando dall'isola per il mare nebbioso”
Parla Euríloco, che reagisce negativamente all'invito di Ulisse di
evitare la Sicilia, in virtù di un'inversione di rotta, in quel momento
necessariamente occidentale, che di fatto ricondurrebbe la loro nave
non “sul mare nebbioso” ma “sulla rotta orientale”!
13,150
che torna dall'accompagno sul mare nebbioso
292 Domenico Silvestri
AIΩN-Linguistica n.6 n.s. DOI: 10.4410/AIONL.6.2017.009
Parla Poseidone e dice (vv.149 e 151-152): “Ora però la bella nave
feacia… distruggerò, perché si fermino e smettano / d'accompagnare i
mortali; poi coprirò la città d'un gran monte)”, secondo una formula
stereotipica (cfr. 8,568 e v. sopra) che è ulteriore conferma dell'esistenza
non dell’improbabile “mare nebbioso” ma della “rotta orientale”, una
rotta che è pertinenza marittima di Fenici (Iliade 23,744 e v. sopra), Egi-
ziani (Odissea 4,482-483 e v. sopra) e qui in particolare Feaci, traghettato-
ri orientali rispetto al baricentro occidentale costituito da Itaca.
13,176
rientrante (sc. la nave dei Feaci) da un accompagno sul mare nebbioso Stessa situazione e stesso verso rispetto a 8,568 e 13,150. In ogni ca-
so va anche verificata la situazione espressa nell'Inno omerico ad
Apollo (v.493), dove ricompare questa espressione e si parla di un
Apollo-delfino che balza su una nave cretese, che subisce una devia-
zione di rotta...In conclusione non si può fare a meno di notare che
nell’Odissea, in cui la salienza delle rotte marine è incontestabile, le oc-
correnze del cromonimo in esame salgono a ben dieci rispetto
all’unica dell’Iliade! Quanto a noi, ci auguriamo di aver tolto un po’
di… nebbia da questa particolarissima epifania omerica del mare!
“colore di viola”, meno bene “livido”.
Con questo aggettivo di estrema finezza cromatica si allude al co-
lore violaceo dell’acqua del mare quando la rotta raggiunge l’estremo
occidente, oltre il tramonto del sole, alle soglie della notte…
Iliade
11,298
(come raffica impetuosa) che s'abbatte e sconvolge il mare colore di viola
Nomi e colori del mare in Omero 293
AIΩN-Linguistica n.6 n.s. DOI: 10.4410/AIONL.6.2017.009
Così è paragonato Ettore e il paragone, di chiara natura elativa,
non è in contraddizione con una rotta “estremo-occidentale”, dove
avverrà l'estremo naufragio della nave di Odisseo (v avanti)...
Odissea
5,56
allora dal livido mare balzato sul lido
L'isola è Ogigia, l'estremo approdo di Odisseo (cfr. 5,55 “ma
quando arrivò all’isola lontana”) sulla rotta che potremmo definire
“estremo-occidentale”: qui il mare assume in un momento avanzato
del tramonto lo stesso colore violaceo del cielo che in esso si rispec-
chia...
11,107
(quando avvicinerai la solida nave)/all'isola Trinachía, scampato dal mare viola”
Qui l’anima di Tiresia evocata da Ulisse gli predice un difficile
viaggio di ritorno in cui per me si allude alla rotta “estremo-
occidentale” con necessaria tappa in Sicilia come uno spazio di mare
da cui è bene che egli si salvi () proprio perché è intrinseca-
mente pericoloso…
“cupo, livido, schiumoso”, in realtà “di aspetto rossastro” o “colore del vino”
Secondo l’interpretazione vulgata “cupo, livido, schiumoso”, in
realtà “di aspetto rossastro” o “colore del vino”, che è appunto il colo-
re “vinoso” del mare verso sera sulla rotta occidentale, quando
l’acqua riflette i colori rossastri del cielo al tramonto.
294 Domenico Silvestri
AIΩN-Linguistica n.6 n.s. DOI: 10.4410/AIONL.6.2017.009
Iliade
2,613
le navi buoni scalmi, da andar sul cupo mare”
Si parla delle navi che Agamennone dona agli Arcadi, che “non
sanno di cose marine” (v.614), ma che tuttavia possono muoversi in
prima istanza non “sul cupo mare” ma “sulla rotta occidentale”, cioè
sulla rotta canonica. In più si noti che con non si intende un
movimento generico, come si potrebbe evincere dalla traduzione “an-
dar(e)”, ma un percorso, un attraversamento che è tipico di quella che
abbiamo imparato a riconoscere come condizione “pontica”…26 A li-
vello cromonimico la resa “cupo” del tutto immotivata ne anticipa al-
tre analoghe (il pervasivo “livido”, l’ancora più immotivato “schiu-
moso”!).27
5,771
assiso (sc. un uomo) sopra una cima, guardando al livido mare
Qui il contesto di orientamento è vago, giacché immediatamente
prima (v.770) si parla di un uomo che scorge qualcosa di “bruno per
la distanza” (!),28 che in noi suscita una reminiscenza dante-
sca che si colloca proprio in un contesto odissiaco. In ogni caso
quest’uomo sta guardando non necessariamente “al livido mare” ma
verso occidente o, se si preferisce, verso la canonica rotta occidenta-
le...
26 Traduce bene Cerri con “passare”. 27 Questa è l’opzione traduttiva di Cerri, che così azzera la valenza cromonimica.
Privitera invece la salva ma la risolve nella formula “scuro come vino”, che è una con-cessione al …veder nero dellaCalzecchi Onesti!
28 Trovo sconcertante la resa “distesa d’aria” della Calzecchi Onesti.
Nomi e colori del mare in Omero 295
AIΩN-Linguistica n.6 n.s. DOI: 10.4410/AIONL.6.2017.009
7,88
navigando con nave ricca di remi il livido mare L'ambientazione è “in riva al largo Ellesponto” (v.87), la direzione
della navigazione potrebbe essere pertanto “occidentale” (ma non è
affatto necessaria l’evocazione di un “livido mare”).
23,143
e disse (sc. Achille) gemendo, rivolto al livido mare In questo caso Achille si rivolge al fiume Spercheo, che, rispetto al
suo luogo di allocuzione, sta decisamente ad occidente nella sua terra
natia...L’evocazione, quindi, riguarda la “rotta occidentale” con ben
altro colore topico del mare.
23,316
con l'arte il pilota (eccelle) sul livido mare Il riferimento alla “rotta occidentale” e al colore “vinoso” (e non
“livido”!) si potrebbe giustificare in quanto “rotta” per eccellenza, do-
ve la perizia del pilota vale di più!
Odissea
1,183
andando sul mare schiumoso verso genti straniere Parla Atena, nelle vesti di Mentes, signore dei Tafi “amanti del re-
mo” e dichiara pour cause (v.184) di andare “sulla rotta occidentale” (e
296 Domenico Silvestri
AIΩN-Linguistica n.6 n.s. DOI: 10.4410/AIONL.6.2017.009
non su un generico “mare schiumoso”) verso Temése “per bronzo”,
cioè verso il Bruttium, la Calabria attuale!
2,421
Zefiro acuto stridendo, urlante sul livido mare
È l'inizio del viaggio di Telemaco e il buon vento è mandato da
Atena nel braccio di mare che è un importante segmento della “rotta
occidentale” (e non un banale e immotivato “livido mare”).
3,286
Ma quando lui (sc. Menelao) pure, andando sul livido mare
Lui è Menelao, che tornando da Troia va verso Occidente, sulla
“rotta occidentale” appunto, che rispetto alla su riportata opzione tra-
duttiva ha una sua ben diversa pertinenza cromatica.
4,474
(per giungere)/(velocissimo) in patria sul livido mare
Qui si parla ancora di Menelao, a cui non è consentito un assai sol-
lecito ritorno “sulla rotta occidentale” (a prescindere dal preteso… li-
vore del mare), bensì è costretto (v.482) “di nuovo sulla rotta orienta-
le”, in direzione dell'Egitto e del “fiume caduto dal cielo”...
5,132
Zeus gli (sc. a Odisseo) aveva colpita (sc. la nave) e infranta nel livido mare
Nomi e colori del mare in Omero 297
AIΩN-Linguistica n.6 n.s. DOI: 10.4410/AIONL.6.2017.009
Parla Calipso con chiaro riferimento alla “rotta occidentale” ( e non
al “livido mare”) e poi aggiunge (v.134): “lui il vento e l'onda , spin-
gendolo, gettarono qui”, cioè ancora più oltre “sulla rotta estremo-
occidentale” del mare “color di viola” (v. sopra)
5,221
Se ancora qualcuno dei numi vorrà tormentarmi sul livido mare
Parla Odisseo e si riferisce alla “rotta occidentale” ( e non al “livido
mare”), quella al cui termine si trova l'isola di Ogigia (al polo opposto,
sulla “rotta orientale”, c'è l'isola dei Feaci)
5,349
scioglilo (sc. il velo che Ino dà a Odisseo) e scaglialo ancora nel livido mare
Cioè in direzione opposta a quella dell'approdo di Odisseo, quindi
verso la rotta occidentale (che non è necessariamente un “livido ma-
re”)...
6,170
Ieri scampai (sc. Odisseo) dopo venti giornate dal livido mare
Cioè dal mare della “rotta occidentale” (che non è necessariamente
un “livido mare”), al cui estremo sta l'isola di Ogigia
7,250
Zeus mi colpì, me l'infranse (sc. la nave) in mezzo al livido mare
298 Domenico Silvestri
AIΩN-Linguistica n.6 n.s. DOI: 10.4410/AIONL.6.2017.009
Parla Odisseo, narrando (con le stessa formula di 5,132) il naufragio e
la morte di tutti i suoi compagni sulla “rotta occidentale” (che non è ne-
cessariamente un “livido mare”): dopo nove giorni approderà all'isola di
Ogigia, che è ancora più a occidente sulla rotta marina “color di viola”...
12,388
sfiorandola appena, avrò infranta in mezzo al livido mare” È Zeus che parla al Sole e promette vendetta per l'uccisione delle
vacche sacre colpendo (cfr. v.387) “presto l'agile loro nave col fulmine
abbagliante” dove appunto si trova, cioè sulla “rotta occidentale” (che
non è necessariamente un “livido mare”).
19,172
C'è un'isola, Creta, in mezzo al livido mare Per la sua ubicazione Creta è metà strada tra Troia e Itaca, sulla
“rotta occidentale” (e lasciamo stare l’ossessivo e immotivato “livido
mare”!) che Odisseo segue per tornare a Penelope (alla quale, in que-
sto momento, si sta rivolgendo)
19,274
ho perduto (sc. i fedeli compagni) nel livido mare e la concava nave Odisseo parla ancora a Penelope e racconta il suo estremo naufra-
gio sulla “rotta occidentale” (il cui colore è quello emblematico,
tutt’altro che “livido”!)
In conclusione possiamo dire che il mare Mediterraneo non è
“nebbioso” o “livido” come le interpretazioni vulgate dei cromonimi
Nomi e colori del mare in Omero 299
AIΩN-Linguistica n.6 n.s. DOI: 10.4410/AIONL.6.2017.009
omerici vorrebbero far credere (con il rischio, puntualmente verifica-
tosi, di un suo indebito trasferimento a nord ed una sua identificazio-
ne con il mar Baltico),29 anzi c’è da sperare a questo proposito di aver
tolto un po’ di indebito… livore (per me solo traduttivo) a questo
splendido mare! Il Mediterraneo omerico è semmai, con ogni eviden-
za, la riproposizione poetica dei seminali viaggi verso occidente della
precolonizzazione micenea in cerca di terre da coltivare e di miniere
di rame da sfruttare.30 Se si va in direzione opposta esso nel corso del-
la giornata assume, a partire dall’orizzonte, un colore sempre più scu-
ro; ma se si va nella direzione canonica verso occidente i suoi colori
verso sera sono gli stessi del tramonto ed evocano quelli del vino. An-
cora più a occidente, intorno alla grande isola siciliana e soprattutto
all’emblematica Ogigia, oltre –nel tempo e in qualche modo nello spa-
zio- il tramonto del sole, il mare assume un colore violaceo. Ma il bru-
no, il rossastro, il violaceo –come abbiamo visto- più che colori del
mare sono eloquenti (e poetici) emblemi cromatici di peculiari rotte
marine e non casualmente appaiono in coerente giuntura sintagmatica
con il nome “antropico” del mare, cioè con , che è il mare strada
e percorso dell’uomo, che è insomma non casuale rotta marina.
Gli altri tre nomi greci (e, in particolare, omerici) del mare ne carat-
terizzano tre diverse epifanie (v. sopra) ed ancora una volta ci inse-
gnano che, quando ci misuriamo con una lingua antica, dobbiamo dif-
fidare di fronte alla comoda ipotesi di sinonimi tanto perfetti quanto
29 Mi riferisco al lavoro di Felice Vinci, Omero nel Baltico, Roma 2002, Palombi Edito-
re, Terza edizione aggiornata, con una “compiacente” (e non sorprendente…) “Presen-tazione” della Calzecchi Onesti che, in armonia con alcuni miraggi traduttivi di quest’ultima, costituisce un colossale abbaglio interpretativo del poema omerico.
30 Questi viaggi sono tra l’altro la premessa protostorica delle origini greche del nome Italia, per le quali rinvio ai miei contributi Per un'etimologia del nome Italia, "" 22, 2000, pp.215-254 (ristampa in "Il mondo enotrio tra VI e V secolo a.C.", Atti dei se-minari napoletani (1996-1998) a cura di Maurizio Bugno e Concetta Masseria, Napoli 2001: Loffredo Editore, pp.207-238 e, con il titolo L’origine greca del nome Italia, in “Rivista di cultura greco-moderna” 9-10, 2008, pp185-221). Per un completamento dell’argomentazione si veda anche L’Italia prima e oltre Roma. Premesse, storia e destino di un nome in “150 anni. L’identità linguistica italiana”. Atti del XXXVI Convegno della Società Italiana di Glottologia. Testi raccolti a cura di Raffaella Bombi e Vincenzo Orioles. Udine, 27-29 ottobre 2011, Roma 2012: Il Calamo, pp.29-73.
300 Domenico Silvestri
AIΩN-Linguistica n.6 n.s. DOI: 10.4410/AIONL.6.2017.009
palesemente poco credibili e dobbiamo imparare (o tornare ad impa-
rare) che gli occhi della nostra mente non vedono cose che ben scor-
gevano gli occhi della mente degli Antichi e che ai testi, solo ai testi (e
non agli ascoliani “fantasmi del raziocinio indagante”) bisogna torna-
re a chiedere, con tenace e consapevole umiltà, quel “poco lume” che
ci permetta di guardare dentro “al gran cerchio d’ombra”.
Riferimenti Bibliografici essenziali
Rosa Calzecchi Onesti, Omero, Iliade, Torino 1950, poi 1963, Einaudi
Editore.
Rosa Calzecchi Onesti, Omero, Odissea, Torino 1963, Einaudi Editore.
Giovanni Cerri, Omero, Iliade, Milano 2006, RCS Libri S.p.A.
Pierre Chantraine, Dictionnaire étymologique de la langue grecque. Histoi-
re des mots, Paris 1984 e 1990, Éditions Klincksieck (= DELG).
G. Aurelio Privitera, Omero, Odissea, Milano 1981-1986, Fondazione
Lorenzo Valla, Arnoldo Mondadori Editore.
Domenico Silvestri, Per un'etimologia del nome Italia, “AIΩN” 22, 2000,
pp.215-254 (ristampa in Il mondo enotrio tra VI e V secolo a.C., Atti
dei seminari napoletani (1996-1998) a cura di Maurizio Bugno e
Concetta Masseria, Napoli 2001: Loffredo Editore, pp.207-238 e,
con il titolo L’origine greca del nome Italia, in “ITALOELLENIKA.
Rivista di cultura greco-moderna” 9-10, 2008, pp. 185-221).
Domenico Silvestri, Apofonie indeuropee e altre apofonie in Studi linguisti-
ci in onore di Roberto Gusmani, a cura di Raffaella Bombi, Guido Ci-
foletti, Fabiana Fusco, Lucia Innocente, Vincenzo Orioles, Ales-
sandria 2006: Edizioni dell’Orso, pp.1621-1640.
Domenico Silvestri, Il colore del mare: nomi greci (e rotte greche) nel Medi-
terraneo antico, “Plurilinguismo 14”, 2007, Numero monografico “Il
Mediterraneo plurilingue”, Atti del Convegno di Studi, Genova,
13-15 Maggio 2004, a cura di Vincenzo Orioles e Fiorenzo Toso,
pp.273-286 (st. anche in “AIΩN” 29, 2007, 11-34).
Domenico Silvestri, L’Italia prima e oltre Roma. Premesse, storia e destino
di un nome in 150 anni. L’identità linguistica italiana, Atti del XXXVI
Convegno della Società Italiana di Glottologia. Testi raccolti a cura
Nomi e colori del mare in Omero 301
AIΩN-Linguistica n.6 n.s. DOI: 10.4410/AIONL.6.2017.009
di Raffaella Bombi e Vincenzo Orioles. Udine, 27-29 ottobre 2011,
Roma 2012: Il Calamo, pp.29-73.
Felice Vinci, Omero nel Baltico, Roma 2002, Palombi Editore, Terza edi-
zione aggiornata
Stephanie West, Commento a Omero, Odissea, Volume I, Libri I-IV, Mi-
lano 1981, Fondazione Lorenzo Valla, Arnoldo Mondadori Editore,
pp.370-371.
302 Domenico Silvestri
AIΩN-Linguistica n.6 n.s. DOI: 10.4410/AIONL.6.2017.009
BIBLIOGRAFIE, RECENSIONI, RASSEGNE
326 Maria Carmela Benvenuto e Flavia Pompeo
AIΩN-Linguistica n.6 n.s.
NICOLA GRANDI AND LÍVIA KÖRTVÉLYESSY (EDS.), EDINBURGH
HANDBOOK OF EVALUATIVE MORPHOLOGY, EDINBURGH,
EDINBURGH UNIVERSITY PRESS, 2015, 724 PP.
Si deve al ‘coraggio’ – non so trovare altro termine – di Nicola
Grandi e di Lívia Körtvélyessy, due giovani, valenti studiosi
interessati a descrivere fatti connessi con la cosiddetta ‘morfologia
valutativa’, interessantissimo segmento della più ampia e generale
‘morfologia’, l’avere pensato a un volume interamente dedicato, in
prospettiva interlinguistica, a tale tema: il lavoro, imponente per
dimensioni (pp. 724) e pubblicato quale ‘Edinburgh Handbook’ per i
tipi della Edinburgh University Press, si apre con il dovuto
riconoscimento del contributo che, a tale innovativo campo di ricerca,
ha dato Sergio Scalise il grande morfologo bolognese: fu infatti
proprio Sergio Scalise, in alcuni suoi scritti seminali dedicati alla
complessa morfologia dell’italiano colui che per primo individuò tale
ambito di ricerca da lui definito come ‘terza morfologia’: un terzo
livello di analisi da porre accanto ai due livelli morfologici tradizionali
(morfologia derivazionale e morfologia flessiva). E, osservano i due
curatori del volume: “Even though Scalise’s criteria were set
specifically for Italian, they drew the attention of morphologists. From
then on in almost all handbooks of morphology at least a few lines
have been devoted to the formation of diminutives, augmentatives,
etc. And evaluative morphology has become a more and more central
issue in morphological investigations” (p. 4).
Il volume si articola su due parti ben distinte: ad una prima (pp. 3-
186), di taglio essenzialmente teorico, segue una seconda (pp. 187-650)
caratterizzata da un impianto essenzialmente descrittivo.
Nella prima parte, grazie a tredici saggi redatti da una squadra di
noti, affermati morfologi, vengono affrontati e discussi alcuni
argomenti ‘fondativi’ del campo di ricerca: a Nicola Grandi e a Lívia
Körtvélyessy si deve il lucido capitolo introduttivo (pp. 4-20) nel quale
vengono esplicitati i criteri teoricamente salienti che hanno guidato la
redazione del volume e, insieme, viene utilmente sintetizzato il
dibattito scientifico intorno alla morfologia valutativa, dibattito sorto
306 Bibliografie, recensioni, rassegne
Quaderni di AIΩN n.5 n.s. DOI: 10.4410/ AIΩNL.5.2016.011
AIΩN-Linguistica n.6 n.s.
grazie alla ricordata inventio scalisiana; Victor M. Prieto tratta (pp. 22-
31) dell’interessante rapporto tra strategie della morfologia valutativa
e questioni d’ordine semantico con opportuni riferimenti al noto
‘modello radiale’ dei diminutivi proposto da Dan Jurafsky; Lavinia
Merlini Barbaresi discute (pp. 32-42) il rapporto tra morfologia
valutativa e pragmatica con particolare riferimento all’espressione di
categorie emozionali (dalla tenerezza al sarcasmo); Pavol Štekauer
affronta (pp. 43-60) l’importante nodo teorico sotteso a ogni
ragionamento d’ordine morfologico e cioè il ruolo della formazione
delle parole visto, nello specifico, nella formazione di parole che
prevedano tratti analizzabili secondo i principi della morfologia
valutativa; Lívia Körtvélyessey presenta (pp. 61-73) la questione,
teoricamente molto importante, della morfologia valutativa in
relazione ai cosiddetti ‘universali linguistici’ con particolare
riferimento al loro emergere nelle strategie morfologiche; Nicola
Grandi discute, in due saggi distinti (pp. 74-90 e pp. 91-107), che si
segnalano per l’acribia dell’analisi, la posizione della morfologia
valutativa all’interno delle più generali strategie d’ordine morfologico
e il rapporto tra strategia valutativa e le nozioni di numero e genere;
Lucia M. Tovena tratta (pp. 108-120) della relazione tra le categorie
‘aspetto’ e ‘azionalità’ e le strategie della morfologia valutativa; Livio
Gaeta, in un contributo (pp. 121-133) che si segnala per la solidità
dell’impianto metodologico e per la chiarezza espositiva, affronta uno
dei nodi centrali della ‘terza morfologia’, ossia la sua posizione
all’interno dello spazio linguistico inteso in termini sociolinguistici;
Wolfgang U. Dressler e Katharina Korecky-Kröll discutono in un
saggio magistrale (pp. 134-141) un tema di grandissima rilevanza
teorica, ossia l’emergere di strategie di morfologia valutativa nel
processo acquisizionale di un sistema linguistico; Katrin Mutz tratta,
in un denso saggio (pp. 142-154) nel quale sono prese in
considerazione exempla tratti da lingue classiche (ma non solo), uno
dei temi più interessanti del dibattito morfologico, ossia il ruolo della
dimensione diacronica nella formazione dei morfi: particolarmente
intessanti sono, a mio vedere, le osservazioni della Mutz sull’origine e
sul semantismo di diminutivi, accrescitivi, peggiorativi visti nel loro
N. Grandi & L. Körtvélyessy (eds.), Edinburgh Handbook of Evaluative Morphology 307
AIΩN-Linguistica n.6 n.s.
farsi in percorsi diacronici di lingue diverse; a Giulia Petitta, Alessio
Di Renzo e Isabella Chiari si deve un’interessante analisi (pp. 155-169)
del come, nelle lingue segnate in generale e, più nello specifico, nella
Lingua Italiana dei Segni (LIS), vengono indicati i corrispondenti
‘visivi’ di ciò che, nelle normali interazioni linguistiche di lingue
affidate alla catena fonico-acustica, è reso mediante il gioco dei morfi;
Barbara Turchetta, infine, sulla base di una ricchissima selezione di
dati tratti da pidgin e creoli, descrive (pp. 170-183) come, in tali
varietà linguistiche, si realizzano fenomeni propri d’ordine
morfologico-valutativo e, nel far ciò, mostra l’interesse dell’analisi di
tali strutture in prospettiva sia diacronica che acquisizionale.
Nella seconda parte, sulla base dell’analisi di strategie di
morfologia valutativa attestate in un ampio numero di lingue e di
dialetti – tutti opportunamente registrati o nel noto WALS o
nell’Ethnologue –, vengono portati all’attenzione del lettore esempi,
sempre opportunamente commentati, di come tali processi
morfologici vengono realizzati in sistemi linguistici diversi quanto a
distribuzione geografica e per tipi linguistici. I materiali oggetto
d’analisi sono, a dir poco, impressionanti per numerosità e per
ampiezza del quadro tipologico che li distingue: si tratta infatti di
sistemi linguistici normalmente poco considerati in termini d’analisi
morfologica rispetto alle ‘grandi’ lingue, dotate generalmente di
importanti e spesso eccellenti descrizioni. La trattazione è preceduta
da un saggio di grande interesse teorico-metodologico (pp. 187-193),
affidato a Lívia Körtvélyessey e dedicato all’importanza insita
nell’analisi di fenomeni della morfologia valutativa in prospettiva
strettamente interlinguistica. Al saggio della Körtvélyessey seguono
contributi dedicati a singole lingue e ad alcuni dialetti selezionati in
base a criteri geo-linguistici, secondo macro-aree territoriali:
dall’Eurasia all’Asia del Sud-Est e all’Oceania; dall’Australia e Nuova
Guinea all’Africa e all’ambiente amerindiano, distinto tra l’America
settentrionale e quella meridionale. Impossibile, in questa sede, il dare
conto puntualmente dei singoli contributi: mi limito a segnalare, tra i
saggi descriventi fatti di morfologia valutativa in lingue euroasitiche, i
lavori di Xabier Artiagoitia sul basco (pp. 195-204 ), quello sull’ivrit di
308 Bibliografie, recensioni, rassegne
Quaderni di AIΩN n.5 n.s. DOI: 10.4410/ AIΩNL.5.2016.011
AIΩN-Linguistica n.6 n.s.
Noam Faust (pp. 238-245), quello sul neogreco di Dimitra
Melissaropoulou (pp. 269-277), quello sul telegu di Pingali Sailaja (pp.
321-332). Per quanto riguarda l’area delle lingue dell’Asia Sud-
Orientale e dell’Oceania, particolarmente ricchi di dati commentati
tutti con ammirevole precisione, sono il saggio di Giorgio Francesco
Arcodia (pp. 352-360) dedicato all’ampio spazio cinese e quello
incentrato sul tibetano redatto da Camille Simon e Nathan W. Hill
(pp. 381-388). Tra i contributi dedicati alle lingue australiane e della
Nuova Guinea segnalo quello curato da Margit Bowler (pp. 438-447)
per descrivere i fenomeni di morfologia valutativa del Warlpiri
mentre, per lo spazio delle lingue africane, notevoli sono il saggio di
Nicola Grandi (pp. 453-460) dedicato al berbero, quello di Nora
Arbaoui (pp. 461-471) incentrato sull’arabo classico e sulla varietà
dell’arabo del Marocco e il contributo di Nicola Lampitelli (pp. 507-
514) dedicato al somali. Per quanto riguarda le varietà amerindiane,
tutte estremamente interessanti oltre che in sé anche per i problemi
storico-linguistici sottesi alla loro origine e ai conseguenti rapporti con
l’ambiente asiatico, si deve a Maurizio Gnerre, uno dei massimi
esperti in tale campo di studi, un mirabile contributo (pp. 550-558)
dedicato allo Huave, lingua isolata parlata dalla etnia Huave nel sud-
est dello stato messicano di Oaxaca e si deve a Richard Compton un
interessante saggio (pp. 559-567) dedicato allo Inuktitut, lingua
eskimo-aleutina parlata dal popolo Inuit in Canada; a Hein van der
Voort si deve invece un chiaro schizzo (pp. 606-615) sulla morfologia
valutativa del Kwaza, lingua brasiliana, e a Rik van Gijn un
ugualmente interessante contributo (pp. 643-650) dedicato allo
Yurakaré, lingua isolata parlata nella Bolivia centrale nei dipartimenti
di Cochabamba e Beni.
Il denso volume edinburghese, dovuto – ripeto – al ‘coraggio’ dei
due valorosi curatori, si chiude con un’amplissima bibliografia (pp.
650-700) che dà conto di tutti i lavori citati nell’insieme dei saggi, con
un indice accuratissimo (pp. 701-705) di tutte le lingue e i dialetti dei
quali si fa menzione nei singoli contributi. Oltre ai due repertori testé
ricordati, il volume prevede anche un indice dei nomi degli studiosi
via via citati (pp. 716-724), e, infine, anche un utilissimo indice degli
N. Grandi & L. Körtvélyessy (eds.), Edinburgh Handbook of Evaluative Morphology 309
AIΩN-Linguistica n.6 n.s.
argomenti (pp. 706-715): quest’ultimo è – a mio vedere – un vero e
proprio ‘regalo’ che i due curatori hanno voluto offrire all’intera
comunità scientifica poiché, proprio grazie alla ricchezza dei temi che
vi sono puntigliosamente e utilmente repertoriati/registrati, gli
studiosi che avranno tra le mani il volume potranno costruire veri e
propri itinerari di ricerca ‘personalizzati’ trasvolando, una volta
selezionati alcuni temi, tra diverse lingue; e con la possibilità di avere
a disposizione, tra l’altro, materiali linguistici altrimenti difficili da
reperire in così grande numero e tratti da lingue diverse, spesso
lontane e nel tempo e nello spazio.
Da ultimo vanno senz’altro lodate la cura redazionale del volume e
la nitida riproduzione di immagini e di schemi, utilissimi strumenti
questi ultimi che permettono di felicemente ‘visualizzare’ percorsi
semantici complessi e che, proprio per questo, suggeriscono ulteriori,
nuove piste di ricerca ad ampio raggio: dalla morfologia alla
linguistica storica e, più specificamente, dalla linguistica generale alla
linguistica cognitiva.
(Emanuele Banfi)
310 Bibliografie, recensioni, rassegne
Quaderni di AIΩN n.5 n.s. DOI: 10.4410/ AIΩNL.5.2016.011
AIΩN-Linguistica n.6 n.s.
AIΩN-Linguistica n.6 n.s.
GIULIO SORAVIA, L’ALBA DELLE PAROLE. STORIA DI UNA SCO-
PERTA: PARLARE, PÀTRON, BOLOGNA, 2016, 276 PP.
Il volume affronta con originalità e spessore teorico un problema
sul quale ci si interroga fin dall’antichità: l’origine del linguaggio. La
riflessione si snoda attraverso sette capitoli dal carattere interdiscipli-
nare, il cui trait d’union appare evidente nella conclusione che funge
da raccordo degli argomenti trattati e fa sì che il discorso risulti coe-
rente e conseguente. Tenendosi distante da tentazioni metafisiche e da
statuti epistemologi assunti tout court, Giulio Soravia fonda la sua trat-
tazione sul presupposto che le tappe dell’acquisizione filogenetica del
linguaggio possano essere uno specchio dei meccanismi sincronici del
suo funzionamento e possano contribuire a facilitare il processo di di-
screzione degli elementi formalizzabili dai dati non segmentabili. In
tal modo appaiono ridotte le distanze tra categorie apparentemente
distanti: tra ontogenesi e filogenesi, tra diacronia e sincronia.
Il linguaggio appare come il risultato di una scelta evolutiva. Il bi-
sogno di comunicazione, intrinsecamente presente negli animali e nel-
la scala zoologica superiore, ha determinato modifiche negli organi fo-
natori che si sono affinati fino alla formazione di lingue dotate di un
proprio sistema fonetico. Il mondo animale sviluppa la socialità e av-
verte i vantaggi della comunicazione: la selezione naturale va a favori-
re gli individui più forti e predisposti all’atto comunicativo. Il risultato
dell’azione di tale selezione è l’uomo primitivo che produce suoni strut-
turati paradigmaticamente e sintagmaticamente in embrioni di lingua. Infat-
ti, già nel genere Homo, come osserva l’autore nel Capitolo 1, oltre alle
amigdale acheuleane, si presentano più accentuati i centri di Broca e
Vernike, ciò che induce a pensare che le capacità linguistiche, poten-
zialmente presenti anche in Australopithecus, vengano attualizzate. Di
generazione in generazione si verificano microvariazioni che nel sin-
golo individuo non hanno alcun potere, ma, se accettate socialmente,
trasformano la lingua la quale diviene portatrice di una nuova Weltan-
schauung. Come già Sapir (1921) e Whorf (1956) avevano osservato,
nella coscienza dei parlanti si crea una visione del mondo sub specie
linguae; dall’altro canto, popoli che sviluppano sistemi sociali, psicolo-
312 Bibliografie, recensioni, rassegne
Quaderni di AIΩN n.5 n.s. DOI: 10.4410/ AIΩNL.5.2016.011
AIΩN-Linguistica n.6 n.s.
gici e culturali diversi, danno luogo a lingue diverse con specifiche
peculiarità. A tal proposito, l’autore nel quinto Capitolo affronta il
problema della definizione della cultura rom e dell’identificazione di
questo popolo in rapporto a tratti differenziali rispetto alle altre cultu-
re. I Rom presentano un duplice atteggiamento nei confronti della lin-
gua: da un lato essa veicola un diffuso sentimento di auto-
identificazione e per questo viene gelosamente custodita all’interno
della comunità dei parlanti, senza esser insegnata agli estranei. Di
converso, talvolta basta conoscere solo poche parole all’interno della
lingua per ricevere accoglienza e apertura.
Distaccandosi dal modello chomskiano e in linea con la teoria del
protolinguaggio bickertoniana, Soravia sostiene che il vero thesaurus
della lingua sia il lessico e che originariamente i parlanti abbiano co-
municato non esprimendosi attraverso frasi ben formate bensì attra-
verso sintagmi olofrastici. Mutatis mutandis, questo tipo di linguaggio
olofrastico costituirebbe il primo stadio linguistico vero e proprio nel-
la storia degli sforzi comunicativi dell’umanità. Ciò risulta confermato
attraverso i punti di contatto esistenti anche da un punto di vista bio-
logico tra lo sviluppo ontogenico della specie e lo sviluppo filogeneti-
co. Nell’apprendimento della L1, il bambino prima di acquisire strut-
ture semplici e arrivare alla cosiddetta fase delle parole perno e della
classe aperta, che si verifica intorno ai diciotto mesi, attraversa una fase
olofrastica. Qualcosa di analogo avviene per quanto concerne i primati:
numerose ricerche hanno mostrato come gorilla e scimpanzé abbiano
sorprendenti capacità “linguistiche”, che si attualizzano prevalente-
mente attraverso strutture olofrastiche e linguaggi gestuali.
L’autore, riprendendo bene note questioni, ricorda che il bambino,
pur essendo incapace di fatto di parlare, ha in sé l’apprendibilità della
lingua poiché presenta organi fonatori e aree cerebrali specializzati in
senso linguistico. Tuttavia, se egli vive in ambienti in cui non vi è
esposizione a una qualche lingua, non impara a parlare. In sostanza
Soravia riprende il fatto per cui esiste una certa età-soglia oltre la qua-
le il linguaggio umano non è più apprendibile e le capacità linguisti-
che regrediscono irrevocabilmente atrofizzandosi. Un’esemplificazio-
ne diretta dei processi che hanno determinato la nascita e la scompar-
G. Soravia, L’alba delle parole. Storia di una scoperta: parlare. 313
AIΩN-Linguistica n.6 n.s.
sa delle lingue è rintracciabile nello studio dei pidgin e delle lingue
creole. Come già affermava Bickerton (1983), l’interesse nello studio
dei pidgin permette di percorrere a livello macrosociologico la storia
del sorgere di un codice linguistico fino alla sua totale affermazione in
un arco di anni ristretto e osservabile. Indipendentemente dal materia-
le di partenza, in zone lontane e prive di contatto, i meccanismi di
formazione delle strutture dei pidgin appaiono essere costantemente i
medesimi.
Nel quarto Capitolo, l’autore tratta dei processi di complessifica-
zione della lingua e osserva che il passaggio a strutture linguistiche
più articolate sarebbe avvenuto con l’avvento dell’Homo sapiens. Le
parole dell’uomo acheuleano non sono ricostruibili e non esistono hic
et nunc teorie che spieghino formalmente come si producono frasi a
partire da una certa complessità. Si può soltanto supporre che alcuni
lessemi si siano sviluppati proprio allora anche nella forma fonica che
ci è nota. Ne consegue l’impossibilità di riduzione delle lingue a
schemi logici o matematici formali se non come strutture di base. Da
ciò deriva anche la costatazione del ruolo di “supremazia” del lessico
rispetto alla grammatica. Sembra di rivedere in ciò le osservazioni di
Schuchardt in Sprachverwandtschaft (1917) a proposito delle categorie
humboltiane di innere Sprachform e di äußere Sprachform. Tale binomio
è utilizzato per distinguere la parentela genetica, comprovabile in ba-
se alla nozione di forma linguistica esterna (la Lautform della lingua) e
misurabile attraverso le leggi fonetiche, da un’altra forma di parentela
legata alla innere Sprachform. Quest’ultima sarebbe rinvenibile nel les-
sico e non nella grammatica, lessico che è metaforicamente paragona-
to al nocciolo rispetto alla buccia, allo scheletro rispetto alla carne in
quanto elemento fondamentale e stabile in una dicotomia in cui la
Lautform è la parte deperibile e fragile.
Nei processi di acquisizione della L1, il bambino tende a sbagliare
le forme irregolari per acquisire successivamente la norma attraverso
il discernimento delle eccezioni. È questo l’incipit della fase di memo-
rizzazione dei meccanismi complessi quali frasi idiomatiche, proverbi
e citazioni fino ad arrivare ai linguaggi creativi della metafora e della
poesia. In quest’ottica, occorre una ridefinizione del concetto di me-
314 Bibliografie, recensioni, rassegne
Quaderni di AIΩN n.5 n.s. DOI: 10.4410/ AIΩNL.5.2016.011
AIΩN-Linguistica n.6 n.s.
moria da intendere non come un teatro mnestico quanto come la capa-
cità di ricordare strutture complesse utilizzabili paradigmaticamente
allo stesso modo delle unità semplici. Attraverso le categorie gramma-
ticali si possono individuare classi di parole che a loro volta si struttu-
rano in articolazioni di rango superiore fino ad arrivare alla nozione
di testo. Appare evidente che l’esistenza di forme idiomatiche e/o al-
legoriche, che sfuggono a una rigida categorizzazione, non possono
essere ignorate né analizzabili secondo gli stessi criteri normativi.
Come l’autore esemplifica, ciò fa sì che l’espressione portare i pantaloni
debba essere considerata come un sintagma verbale dal contenuto
semantico corrispondente a “comandare in casa”.
In nuce, si possono evidenziare tre momenti fondamentali
nell’acquisizione del linguaggio: l’acquisizione delle strutture di base
è seguita ipso facto da quella del lessico a cui seguirebbe una terza fase
di apprendimento di strutture lessicali complesse non produttive sul
piano sintagmatico e che vanno memorizzate come un unico sintagma
lessicale e utilizzate «negli slots come fossero parole» (p. 247). Ne sca-
turisce una duplicità linguistica: esiste sia una base della lingua acqui-
sita prioritariamente che una lingua complessa appresa successiva-
mente e dalla crescita potenzialmente illimitata. La prima lingua si ba-
sa su un meccanismo acquisito di origine genetica; la seconda è invece
apprendimento puro e semplice, affidato alla memoria e alla trasmis-
sione culturale. Sulla base di tali osservazioni, appaiono due le tipolo-
gie di errori esistenti: da un lato, vi è l’errore di grammatica che pro-
duce frasi non coerenti e non comprensibili correttamente; dall’altro,
l’errore retorico che appare come un meccanismo riassorbito in grado
di essere creativo e di dare vita a nuove possibilità linguistiche. Anche
Il concetto di inopia linguistica può essere utilizzato in questa direzio-
ne, osservando la vasta capacità semantica dei lessemi, che compen-
sano la varietà raffinata dei sinonimi. In altri termini, il sinonimo ope-
ra a livello del significante, l’inopia a livello del significato.
Sulla base di tali osservazioni, l’autore conclude sottolineando la
necessità di operare una revisione del concetto di lessico e di riorga-
nizzare un modello linguistico complesso su tre livelli differenti. Il
primo livello è quello dell’acquisizione del linguaggio in chiave filo-
G. Soravia, L’alba delle parole. Storia di una scoperta: parlare. 315
AIΩN-Linguistica n.6 n.s.
genetica con l’osservazione della predisposizione del parlante a utiliz-
zare lingue che sono risultato di scelte evolutive del genere Homo. Il
secondo livello riguarda l’ontogenesi e, in particolare, l’apprendimen-
to delle strutture di base della L1 fino ad arrivare al terzo livello ine-
rente la memorizzazione di forme complesse e la loro inserzione nelle
strutture lessicali. Su ciò si innestano le dinamiche del riconoscimento
per somiglianza in cui anche frasi incomplete si riconoscono attraver-
so la condivisione di un sufficiente numero di tratti con elementi me-
morizzati sia strutturali che lessicali complessi. Soravia evidenzia, per-
tanto, la necessità di riflettere su come tali usi favoriscano l’economia
linguistica e il minimo sforzo anche in chiave retorico-persuasiva. Per
fare ciò, occorre in primo loco ricostruire il modello teorico della Lin-
gua Primitiva Semplice (LPS) e applicarvi i procedimenti di comples-
sificazione; successivamente, sarà necessario rivedere il concetto di
memoria in chiave non metafisica.
In conclusione, l’Alba delle parole si presenta come un testo la cui lettura è
consigliata. Oltre a realizzare una sintesi delle principali teorie sviluppatesi
intorno all’argomento trattato, Soravia con sottile spirito critico riprende la
tradizione attraverso un’originale chiave d’interpretazione. Pur essendo
consapevole di poter generare reazioni anticopernicane, come è affermato
provocatoriamente nell’Introduzione, l’autore, a conclusione di un’articolata
trattazione, ribadisce che la lingua è uno strumento di libertà e di unicità, la
cui straordinarietà si fonda proprio su tali caratteri. «Se crediamo alla liber-
tà dell’uomo, al diritto di esprimersi nella società, all’autoconsapevolezza,
ebbene solo attraverso la lingua che ci ha fornito gli strumenti per giungere
a ciò, essa stessa uno strumento, abbiamo speranza di ulteriori evoluzioni
verso confini ancor più ambiziosi» (p. 248).
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PARIS, ASSOCIATION POUR L’AVANCEMENT DES ÉTUDIES IRA-
NIENNES (STUDIA IRANICA. CAHIER 51), 2014, 429 PP.
A volte, nella storia della scienza o delle discipline scientifiche,
singole scoperte, o l’azione di un solo studioso, avviano cambiamenti
tali che l’orizzonte stesso di quel determinato campo di studi ne esce,
al dunque, trasformato ineluttabilmente. Senza scomodare Thomas
Kuhn e le sue rivoluzioni paradigmatiche, come peraltro qualcuno al
proposito ha fatto, questo saggio (su cui vd. Sommer, 2016; Peschl,
2016; Skjærvø, 2016), e il precedente volume miscellaneo del 2012 cu-
rato dallo stesso Autore (cfr. Cantera, 2012, e su di esso Piras, 2014; de
Vaan, 2014; Jügel, 2016; sugli studi recenti di iranistica, vd. Hintze,
2014), costituiscono senza dubbio un punto di svolta importante e di-
rimente per gli studi di filologia avestica, e non solo.
Per capirsi e rimanendo nell’ambito degli stessi studi d’indeuro-
peistica , è un po’ come quel che accadde giusto or sono cinquant’anni
fa con la pubblicazione di Dichtung und Dichtersprache in indogermani-
scher Zeit di Rüdiger Schmitt: un tema di ricerca poco noto o un pro-
blema noto ma irrisolto e latente esce, per così dire, allo scoperto gra-
zie alla messa in luce di un saggio utile e ben fatto e da allora diventa
fermamente parte dell’orizzonte di lavoro degli specialisti del campo
(vd. Costa, 1998, e Id., 2008). Non ho scelto l’esempio a caso: dopo
quel libro, che era la sua Habilitationsschrift, lo stesso R. Schmitt è di-
ventato infatti poi col tempo un autorevole specialista di linguistica
iranica; anche Alberto Cantera, che aveva esordito con un articolo nel
1993, ha pubblicato la sua prima monografia (cfr. Id., 2004, e su di essa
Mayrhofer, 2005; Josephson, 2005; de Vaan, 2007; Zeini, 2008; Skjærvø,
2008; Huyse, 2008; Shayegan, 2011) quale parte rielaborata
dell’introduzione alla sua ponderosa dissertazione di dottorato (721
pp.!), che è del 1998 (cfr. Cantera, 1998), ed è poi assurto ad un ruolo
di punta negli studi recenti di iranistica grazie ad un’instancabile atti-
vità di ricerca che gli ha consentito di dare vita, oltre che a una gran
messe di pubblicazioni, a una sua scuola, tra Salamanca e Berlino, che
318 Bibliografie, recensioni, rassegne
Quaderni di AIΩN n.5 n.s. DOI: 10.4410/ AIΩNL.5.2016.011
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comincia ora a mettere in pratica quanto fin qui teorizzato (cfr. ad es.
Andrés-Toledo, 2016), e al progetto dell’Avestan Digital Archive
(www.ada.usal.es), partito nel 2006:
The Avestan Digital Archive seeks to be a digital archive contai-ning all Avestan manuscripts spread all over the world. The Ave-sta […] was last edited at the end of the 90s of the 19th century by the German scholar K. F. Geldner [cfr. Geldner, 1886-1896]. We claim that presently a new edition is needed. The main reasons are: in the last decades some manuscripts Geldner did not have access to have become available; Geldner did not check by himself all the manuscripts used for his edition. For some of them he had access only to copies or collations by other colleagues. This was the source of several mistakes in his edition; the methods of textual criticism have strongly changed since Geldner and many methodological decisions of Geldner seem today unacceptable. The most important one is undoubtedly that he does not record systematically all the variae lectiones (or a selection according to well established crite-ria), but only the variants he considered important for the esta-blishment of a sure text even when he checked the manuscript by himself and recorded the variae lectiones, he made mistakes more often than expected. For all these reasons it has become a true need to provide the scholars with reasonably sure readings of the extant Avestan texts. But a new edition of the Avesta is a huge task: pro-bably more than two hundred manuscripts scattered all over the world have to be checked. Many of them are not available even as microfilms […] so it is easy to understand that yet nobody has se-riously tried to undertake a new edition of the Avesta […]. In order to solve this problem we have conceived the ADA project. This project seeks, on the one side, to find, to collect and to digitalize all the extant Avestan manuscripts. On the other hand, the ADA Pro-ject is developing a tool to provide all these manuscripts with in-dexes of the passages and to make them thus available on the web for researchers and for the general public […].
Nelle parole dell’introduzione al Progetto ADA, è puntualmente de-
scritto, nella sua ineludibilità e urgenza, il problema centrale: da lunga
pezza, non abbiamo più, o forse perfino non abbiamo mai avuto,
un’edizione filologicamente affidabile dell’Avesta, ma il tentarne una
nuova e modernamente accettabile è impresa assai ardua, stante la sco-
A. Cantera, Vers une édition de la liturgie lon-gue zoroastrienne 319
AIΩN-Linguistica n.6 n.s.
modità o la non reperibilità dei manoscritti e la tradizione complessa e
complicata che essi riflettono, un’impresa non più, semmai lo sia stata,
alla portata di un solo studioso e che richiede un lungo lavoro prepara-
torio, metodologico e fattuale, e a ciò è appunto è dedicato anche il vo-
lume qui in oggetto, che è la versione scritta e rialaborata delle Quatre
Conférences tenute dall’Autore al Collège de France nel giugno del 2013 e
di altri lavori e conferenze suoi e di suoi allievi, il tutto ricucito – in ma-
niera tuttavia un po’ abborracciata, con non poche ripetizioni e sbavatu-
re – in un libro di difficile lettura, come già lo era peraltro quello del
2004, e gli indici finali (delle parole, delle lettere e dei gruppi, dei passi e
dei manoscritti citati) non sono, da questo punto di vista, di grande aiu-
to, mentre lo sarebbero forse stati un indice degli argomenti e uno ter-
minologico; uno dei tratti positivi del volume è invece l’attenzione che
pone l’Autore nell’inquadramento delle sue nuove idee nell’ambito della
storia degli studi, ricostruita nel primo capitolo (pp.33-76).
A differenza dei Vorarbeiten à la Schlerath, sia detto pur col rispetto do-
vuto al maestro dei miei studi berlinesi, seguendo una strada che era stata
indicata dai lavori pioneristici di Skjærvø, 1994 (vd. anche Id., 1999) e so-
prattutto di Kellens, 1998 (vd. anche Kellens, Pirart, 1988-1991), e, per la
parte informatica, dalle ben note iniziative di Jost Gippert, legate al sito TI-
TUS (Thesaurus Indogermanischer Text- und Sprachmaterialien: http://titus.uni-
frankfurt.de/indexe.htm) e al Progetto AUREA (Überlegungen zur elektroni-
schen Abbildung lautgesetzlicher Entwicklungen), con la digitalizzazione anche
dei testi avestici, persiani antichi e medio-iranici, A. Cantera ha affrontato
subito, per così dire, il toro per le corna. Decretata come non più utlizzabile
l’edizione di Geldner – che era stata criticata da subito anche Ch. Bartolo-
mae (cfr. Id., 1892), il quale nel suo Wörterbuch aveva poi notato le diver-
genze di lettura rispetto appunto all’edizione Geldner con un segno sovra-
scritto + – ma considerati ancora attuali i Prolegomena, A. Cantera respinge
poi l’idea della scuola di Erlangen (cfr. Hoffmann, Narten, 1989; Humbach,
1991) dell’esistenza di un testo unificato collettore e modello fissato per
iscritto, mediante una scrittura inventata all’aupo in epoca sasanide, metà
del VII d.C. (?), il cosiddetto ‘archetipo sasanide’, e da questo la redazione
di un sub-archetipo, databile forse intorno al 1000 d.C., da cui deriverebbe-
ro tutti i manoscritti oggi esistenti:
320 Bibliografie, recensioni, rassegne
Quaderni di AIΩN n.5 n.s. DOI: 10.4410/ AIΩNL.5.2016.011
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contre la vision d'une transmission écrite qui ne fait que répéter (avec déformations et dégénérations) un texte canonique mis par écrit à l'époque sassanide, je vois à la base de la transmis-sion avestique une liturgie (toujours la même, mais en même temps toujours changeante). Les manuscrits s'adaptent à la li-turgie en même temps qu'ils contribuent à la préserver. On a produit des manuscrits sur la base de la liturgie à plusieurs moments historiques, ce qui est l'élément commun de toute la transmission plutôt qu'un supposé archétype sassanide. (p.9)
I punti propositivi salienti sono allora due: la prevalenza della prati-
ca rituale (vd. anche Skjærvø, 2007) e della recitazione orale e performa-
tiva dell’Avesta sul “testo” scritto, nella scia ovviamente della ’oral theo-
ry’, e l’importanza cruciale dei manoscritti e delle loro varianti, in parti-
colare di quelli iraniani, i cosiddetti ‘liturgici’ (testo avestico e rituale in
pahlavi e gujarati), fin qui in parte ignoti (cfr. Mazdāpur, 2008; Id., 2012;
Cantera, Mazdapour, 2015) o, se noti, spesso sottovalutati da Geldner
stesso rispetto ai più noti e più utilizzati manoscritti indiani (pahlavi e
sanscrito), quelli ‘esegetici’: “en effet, une analyse même superficielle
suffit pour montrer que manuscrits exégétiques (sauf peut-être pour le
Widēwdād) dérivent des manuscrits liturgiques”.(p.8)
Secondo A. Cantera,
l’arrangement des textes dans la liturgie n'est pas tardif et se-condaire, mais il est bien antérieur à l'époque sassanide. Le tex-te récité dans la liturgie longue est un amalgame des textes rédigés à des époques différentes et peut-être aussi dans des endroits différents, mais ils sont arrangés consciemment pour construire un «texte». (p.9)
Con ‘liturgia lunga’, A. Cantera intende lo Yasna assieme alle sue
varianti:
most of the Avestan manuscripts are complete guides for the celebration of the main Zoroastrian liturgy: the long liturgy, usually known in the West as Yasna. This ceremony is celebra-
A. Cantera, Vers une édition de la liturgie lon-gue zoroastrienne 321
AIΩN-Linguistica n.6 n.s.
ted in two main variants: the standard daily ceremony or Yasna; and a more solemn celebration called Yašt ī Wīsperad or (in the West) just Wīsperad. The latter is the basis for the cele-bration of other variants of the liturgy. One of them is the inter-calation ceremonies in which young Avestan dialogic texts are intercalated in the core of the long liturgy, the recitation of the Gāθās and the Yasna Haptaŋhāiti that comprises Y28 to Y54 of the 72 haiti or sections of the Yasna ceremony. The extant ma-nuscripts include guides for the celebration of two such cere-monies: the Yašt ī Wīsperad with the Wīdēwdād (or short Wi-dewdad ceremony) in which a text called Wīdēwdād – “the law for repelling the daēuua” – is intercalated and the Wištāsp Yašt in which the Wīstāsp Sāst or “the teaching of Wīstāsp” is inser-ted into the Old avestan texts. (Cantera, 2013)
Rifiutata l’idea che la liturgia lunga superstite sia il risultato di una
readazione post-sasanide sulla base del Grande Avesta descritto nel
Dēnkard di epoca medio-iranica, Cantera pensa invece a un Avesta ‘li-
turgico’ la cui ricchezza delle varianti, e la loro importanza a fini ese-
getici, è stata sottovalutata e financo quasi del tutto trascurata da
Geldner e dagli studi successivi; ricchezza, variabilità e importanza
oggi ancor più ribadita dal ritrovamento di nuovi (o non più reperibili
da decenni) manoscritti, ed è questo, la scoperta – e l’edizione e la di-
gitalizzazione nell’ambito del Progetto ADA – di nuovi manoscritti in
Iran, da parte di studiosi iraniani e di A. Cantera stesso, senza alcun
dubbio l’evento più importante nella storia della filologia avestica dai
tempi di Geldner, basti pensare che lo studioso a suo tempo ebbe a di-
sposizione solo 7 manoscritti liturgici di provenienza iraniana, mentre
noi oggi ne conosciamo 71, e il loro numero è in crescita, di cui uno di
undici anni più vecchio di quello più antico utilizzato da Geldner
stesso.
Nel secondo capitolo del volume in oggetto (pp.77-185), l’Autore si
occupa dunque dei manoscritti della liturgia lunga, della storia loro e
dei loro scriba; nel terzo (pp.187-271), esamina dettagliatamente i dati
concernenti l’età dei testi della liturgia lunga, dei suoi rituali e dei cam-
biamenti intercorsi nei secoli della tradizione; nel quarto (273-260), i
principali aspetti linguistici connessi alla trasmissione dell’Avesta; il
322 Bibliografie, recensioni, rassegne
Quaderni di AIΩN n.5 n.s. DOI: 10.4410/ AIΩNL.5.2016.011
AIΩN-Linguistica n.6 n.s.
quinto e ultimo, assieme alla appendici (pp.361-424), fornisce un som-
mario, il materiale iconografico e le tabelle di supporto al volume.
Fatte salve le osservazioni filologico-testuali puntuali (particolarmente
utili a questo proposito le due recensioni di Skjærvø, 2008 e 2016), di cui
altri meglio di me hanno già detto o diranno, qui, da comparatista e non
da filologo, dirò che l’applicazione della teoria dell’oralità agli studi sulla
tradizione avestica (importante sulla tradizione metalinguistica e gram-
maticale orale iranica, Mancini, 2011, che Cantera sembra non conoscere;
vd. poi Skjærvø, 2012), seppur forse con qualche anno di ritardo rispetto
alle altre filologie, va salutata come benvenuta, ma resta pur vero in qual-
che misura che “Cantera’s approach is to some extent, at least, that of a li-
terate, not oral person […]” (Skjærvø, 2008: 16), e che è necessario guar-
dare oltre. Come hanno mostrato infatti ricerche come quelle di Carlo Se-
veri (a partire da Id. 2004, su cui vd. Costa, 2005) e altri (cfr. Costa, 2013)
sulla figura dell’enunciatore rituale, sulla sua particolare valenza pragma-
tica e la sua agentività codificata, e sul rito come terzo medium, tra oralità
e scrittura, come mezzo previlegiato di memorizzazione e trasmissione
testuale, nelle società tradizionali aurali – e tali certamente sono quella
iranica antica e media – né l’uso specifico della parola detta né il segno
grafematico della scrittura prevalgono; prevale piuttosto, in chiave mne-
monica, un’articolazione particolare del linguaggio, un’articolazione che
avviene tramite la focalizzazione dell’enunciazione rituale, che in queste
società è il vero ambito della memoria (culturale e testuale) e della tradi-
zione (mitopoietica e sapienziale): anche a queste ricerche occorrerà dun-
que prestare attenzione.
In aggiunta, gli studi recenti e metodologicamente aggiornati sulla
comparazione poetica e la sua compenetrazione col rito e col mito,
quelli appunto condotti nei cinquant’anni intercorsi da Schmitt, 1967,
in primis quella indeuropea (vd. tra gli altri Costa, 1998, 2008), ma an-
che, coi dovuti distinguo, quella di ambito sumero-semitico e di con-
fronto tra i due ambiti linguistico-culturali (vd. Costa, 2017, e Id., in
stampa), potrebbero essere utili, forse più di quanto A. Cantera pensi,
per il corretto inquadramento etnolinguistico e storico-letterario della
tradizione iranica e delle sue varie e complesse articolazioni diamesi-
che e diafasiche.
A. Cantera, Vers une édition de la liturgie lon-gue zoroastrienne 323
AIΩN-Linguistica n.6 n.s.
È stato poi osservato (cfr. Peschl, 2016: 195-196), con preoccupazio-
ne in parte non infondata visto che già oggi i filologi e i linguisti ave-
stici sono nel mondo una piccolissima comunità, che con le ricerche di
A. Cantera e le grandi nuove problematiche da lui palesate
nell’interpretare rettamente la tradizione, gli studi avestici e
l’iranistica diventeranno ancor più ‘esoterici’ e alla portata di pochis-
simi, sempre meno, specialisti, scoraggiando le giovani leve
dall’avviarsi a questi studi e turbando il lavoro quotidiano degli stu-
diosi cresciuti all’ombra rassicurante della prassi disciplinare prece-
dente; devo dire piuttosto che quel che davvero è preoccupante è
l’orientamento generale, europeo e non solo, a cassare vieppiù i fondi
e gli insegnamenti a disposizione della ricerca umanistica, chiudendo,
man mano che i vecchi docenti vanno in pensione, uno dopo l’altro le
cattedre e gli istituti, spezzando così irrimediabilmente una continuità
di tradizioni di studio e di raccolte bibliografiche oramai plurisecolari,
basti qui pensare ad esempio, nell’ambito dell’indeuropeistica, a Tu-
binga, a Graz, a Perugia, a Padova, alle enormi difficoltà avute da An-
na Morpurgo Davies per avere un successore sulla sua cattedra oxo-
niense, un insegnamento alla fine salvato da fondi privati. L’Avesta è
troppo importante per gli studi umanistici e per la cultura occidentale
perché resti nelle mani di pochi iniziati, per di più col rischio di rima-
nere a breve squattrinati e senza eredi: tutte le discipline contermini, a
cominciare dalla linguistica, dalla storia, dalla storia delle religioni,
devono poter concorrere ad una sua edizione finalmente – filologica-
mente, linguisticamente e culturalmente – attendibile, e fruibile poi in
digitale, e le istituzioni politico-culturali europee, e non solo, devono
auspicabilmente essere concretamente coinvolte economicamente in
tale impresa, in vista anche, quando sarà possibile, delle traduzioni
(commentate) nelle principali lingue moderne.
In conclusione, credo sia chiaro come molto resti ancora da fare
prima di poter sperare di avere un’edizione aggiornata e credibile
dell’Avesta, ma già ora si può altresì dire che molto sarà anche da ri-
fare, specie in ambito linguistico e tra gli strumenti di lavoro (voca-
bolari, lessici, grammatiche), una intera disciplina che, dopo aver
forse riposato per troppo tempo sugli allori di un passato glorioso e
324 Bibliografie, recensioni, rassegne
Quaderni di AIΩN n.5 n.s. DOI: 10.4410/ AIΩNL.5.2016.011
AIΩN-Linguistica n.6 n.s.
laborioso, è oggi se non da rifondare certo da riassestare su fonda-
menta diverse, e con lei in parte la stessa comparazione indeuropea:
gli studi e le ricerche di Alberto Cantera, ivi ben comprese quelle del
libro qui recensito, contribuiscono in maniera determinante a fonda-
re queste rinnovate e più solide basi e tracciano con nettezza e con-
vinzione la nuova, impervia, via da seguire per il prosieguo degli
studi.
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(Gabriele Costa)
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Quaderni di AIΩN n.5 n.s. DOI: 10.4410/ AIΩNL.5.2016.011
AIΩN-Linguistica n.6 n.s.
AIΩN-Linguistica n.6 n.s.
THOM SCOTT-PHILLIPS, DI’ QUELLO CHE HAI IN MENTE. LE ORI-
GINI DELLA COMUNICAZIONE UMANA, ROMA, CAROCCI, 2017,
242 PP.
È questa la traduzione italiana – ben curata da Alessandra Chiera, gio-
vane studiosa del settore a cui si deve tra l’altro un recente studio interes-
sante e aggiornato (cfr. Ead., 2015; in italiano, su quanto segue sono utili
anche Banfi, 2013; Ferretti, Adornetti (eds.), 2014) – di un volume apparso
a fine 2014 (cfr. Scott-Phillips, 2014; vd. anche Id., 2015 ) e che ha subito
conosciuto un buon successo di critica e di pubblico (se ne trova online,
nel sito de The International Cognition & Culture Institute, un sunto curato
dallo stesso Th. Scott-Phillips, http://cognitionandculture.net/webinars/-
speaking-our-minds-book-club/a-precis-of-speaking-our-minds, e una
raccolta delle principali recensioni in https://thomscottphillips.-
wordpress.com/book/). L’Autore è attualmente research fellow in Evolutio-
nary and Cognitive Anthropology presso la Durham University (UK) e senior
research Scientist presso il ‘Social Mind Center’ della Central European
University di Budapest; ha ricevuto diversi riconoscimenti e importanti
grants per la sua attività di ricerca e quella qui recensita è la sua prima
monografia:
ho cercato di ridurre all'essenziale la terminologia specialistica nel testo, e gli argomenti sono esposti in modo accessibile a un pubblico ampio. Intendo infatti promuovere il confronto tra i linguisti e gli argomenti propri della biologia evoluzionistica e tra i biologi evoluzionistici le tematiche proprie delle scienze cognitive. […] Per tale ragione, pur rivolgendosi principalmente ad accademici e studiosi del settore, il libro è concepito per es-sere accessibile a chiunque sia disposto a impegnarsi a com-prenderlo. (p.15)
A conferma dell’attenzione dell’A. per i suoi lettori, in fondo a ciascun
capitolo, e financo nella Prefazione, c’è un breve sunto del capitolo appena
scorso e una serie di domande cui quello che sta per iniziare tenterà di ri-
spondere. Il volume è così composto: Indice generale, pp.7-9; Ringrazia-
menti, pp.11-12; Prefazione, pp.13-17; 1. Due modelli della comunicazio-
330 Bibliografie, recensioni, rassegne
Quaderni di AIΩN n.5 n.s. DOI: 10.4410/ AIΩNL.5.2016.011
AIΩN-Linguistica n.6 n.s.
ne, pp.19-48; 2. La comparsa dei sistemi di comunicazione, pp.49-76; 3.
Cognizione e comunicazione, pp.77-106; 4. Le origini della comunicazio-
ne ostensiva, pp. 107-138; 7. Costruire una lingua, pp.139-166; L'adatta-
mento evolutivo, pp.167-195; Epilogo. Le risposte a grandi domande,
pp.197-199; Glossario, pp.201-204; Bibliografia, pp.205-230; Indice dei
nomi, pp.321-236; Indice analitico, pp.237-242.
Nel capitolo 1. si offre una spiegazione precisa di che cosa debba intendersi per comunicazione ostensiva e di come essa si distingua da altre forme di comunicazione. Nel capitolo 2 si sostiene che l'esi-stenza della comunicazione ostensiva è condizione necessaria per la comparsa di un qualunque sistema anche lontanamente simile al linguaggio. Da questa tesi segue che per comprendere le origini del linguaggio è necessario spiegare: 1. come funziona la comunica-zione ostensivo-inferenziale e quali capacità cognitive la rendono possibile; 2. come si sono evolute tali capacità cognitive; 3. in che modo, una volta comparsa la comunicazione ostensivo-inferenziale, possa aver avuto origine quel tipo di convenzioni co-municative (semantiche, sintattiche, fonologiche, ecc.) cui attri-buiamo il nome di linguaggio. I capitoli 3, 4 e 5 affrontano rispetti-vamente ognuna di tali questioni. Nel capitolo 6 si approfondisco-no le nozioni di adattamento, funzione e stabilità evolutiva nella comunicazione umana. Infine, nell’Epilogo, si riassumono le ragioni che permettono di considerare la tesi proposta come un modo di rispondere ad alcuni tra i maggiori interrogativi sull'origine e sull'evoluzione del linguaggio. (p. 16)
Rifacendosi al modello comunicativo di Sperber e Wilson (cfr. Iid.,
1986; 2002; 2012), a partire dalla messa a punto del campo di McMahon e
McMahon (cfr. Iid, 2013) e avendo saldamente al centro la pragmatica (“gli studiosi interessati all’evoluzione delle condizioni prebiologiche del
linguaggio hanno finora cercato nel posto sbagliato: invece di guardare
alla pragmatica […] dello scambio comunicativo, si sono incentrati sulla
sintassi e sulla combinatorietà”: Evans, Levinson, 2009, p.477, citato e tra-
dotto a p.14), tema del volume è dunque l’origine e l’evoluzione del lin-
guaggio. La tesi principale in esso sostenuta è che l’insorgere del linguag-gio sia legato allo sviluppo di una forma di comunicazione, caratterizzata
intrensicamente dalla sottodeterminazione (“il significato letterale di un
T. Scott-Phillips, Di’ quello che hai in mente. 331
AIΩN-Linguistica n.6 n.s.
enunciato sottodetermina il significato del parlante”: p.20, cfr. Carston,
2002; Atlas, 2005) e detta ostensivo-inferenziale, evolutivamente nuova e
speciespecifica perché dipendente da forme sofisticate e unicamente
umane di cognizione sociale. Al cosiddetto ‘modello del codice’ (cfr.
Blackburn, 2007), quello paradigmaticamente dominante secondo cui la comunicazione consiste in informazione codificata in un segnale
dall’emittente e decodificata dal ricevente mediante un processo governa-
to da algoritmi condivisi, Thom Scott-Phillips, osservando che “se
l’espressione di una intenzione informativa non si accompagna
all’espressione di un’intenzione comunicativa, la comunicazione stessa
fallisce“ (p.28), contrappone il ‘modello ostensivo-inferenziale’, quello se-condo il quale la comunicazione consiste nell’offrire e nell’interpretare
indizi, indizi che possono assumere svariate forme, indicazioni alzate di
spalle, vocalizzazioni, etc., “potenzialmente qualsiasi azione fisica che il
mittente possa compiere” (p.30):
il mittente fornisce indizi delle proprie intenzioni […], il rice-vente dovrà generare un'inferenza sulle intenzioni informative e comunicative del mittente e, dunque, sul significato che questi intende veicolare. Mittente e ricevente dunque hanno due com-piti distinti ma complementari per il successo della comunica-zione: il primo fornire indizi, il secondo interpretarli. [...] Esiste, pertanto, una netta differenza tra le capacità cognitive coinvolte nella comunicazione ostensivo-inferenziale e quelle richieste dal modello del codice. […] Quest’ultimo implica l’abilità di formare associazioni, […] ostensione e inferenza sono più com-plesse. […] Il successo della comunicazione ostensivo-inferenziale dipende dalla capacità di ragionare sugli stati men-tali, sulle credenze e sulle conoscenze degli altri. In breve, la comunicazione ostensiva è un'attività intrinsecamente metapsi-cologica: è possibile solamente tra individui capaci di riflettere sui rispettivi pensieri, di ragionare sulle rispettive ragioni. (pp.30-32, il corsivo è dell’A.)
Secondo l’A., ogni ipotesi che ponga il codice all’origine della co-
municazione linguistica e consideri i processi ostensivo-inferenziali
come il potenziamento di tale comunicazione è errata, perché
quest’ultimi hanno priorità logica sul codice linguistico e i due codici
332 Bibliografie, recensioni, rassegne
Quaderni di AIΩN n.5 n.s. DOI: 10.4410/ AIΩNL.5.2016.011
AIΩN-Linguistica n.6 n.s.
hanno status ontologici diversi; viceversa, saranno allora “i processi
ostensivi e inferenziali a rendere possibile la comunicazione, mentre
lo sviluppo di associazioni condivise segnale-significato rappresenta
un potenziamento espressivo di tale forma di comunicazione”. (p.36.)
Alla base della comunicazione ostensiva, secondo T. Scott-Phillips,
c’è la competenza pragmatica ed è l’origine di questa abilità che ha
consentito l’evoluzione del linguaggio; a partire dagli studi di P. Grice
(cfr. Id., 1989), la teoria della pertinenza (vd. Sperber, 1996, Id. (ed.),
2000; Wharton, 2009) ha fornito alla pragmatica un quadro teorico sta-
bile e efficace, compatibile con svariati ambiti disciplinari contermini,
e ha permesso numerose e produttive indagini empiriche e sperimen-
tali; assieme alla ‘teoria della mente’ (cfr. Fitch, 2010, Altenmüller,
Schmidt, Zimmermann (eds.), 2013), l’abilità cioè di autorappresentar-
si mentalmente gli stati mentali degli altri e di pensare su quelli che ri-
teniamo i loro pensieri, essa fornisce le basi della comunicazione
ostensiva:
l’atto ostensivo, tanto dal punto di vista della produzione quan-to dal punto di vista della comprensione, è un esercizio di lettu-ra della mente. A essere coinvolta non è solamente la rappre-sentazione degli stati mentali altrui, ma anche la rappresenta-zione delle rappresentazioni che gli altri hanno dei propri stati mentali, insieme a molti altri livelli rappresentazionali. Defi-niamo l’abilità di elaborare questi livelli multipli incassati lettu-ra ricorsiva della mente o metarappresentazione. (p.91, il corsivo è dell’A.)
Riguardo al carico psicologico del mindreading, diversamente da
quel che si potrebbe ritenere, gli studi recenti (cfr. Apperly, 2011) mo-
strano che non si tratta di un processo cognitivamente dispendioso e
che più che all’atto di pensiero, in realtà, la lettura della mente somi-
glia all’atto percettivo, a qualcosa, insomma, che facciamo per lo più
inconsciamente, uno di quei processi cognitivi (e neurofisiologici) di
fondo che controllano la gran parte delle nostre esperienze quotidia-
ne. Per Scott-Phillips, la lettura ricorsiva della mente è ciò che in linea
di principio rende possibile la comunicazione ostensiva: “senza que-
T. Scott-Phillips, Di’ quello che hai in mente. 333
AIΩN-Linguistica n.6 n.s.
sta, non si danno né intenzioni informative né intenzioni comunicati-
ve e, dunque, neppure comunicazione ostensiva. In altre parole, la let-
tura ricorsiva della mente fornisce le basi per comunicare”. (p.103)
Dal punto di vista evolutivo, se il comportamento di molte specie
viventi è collaborativo, solo negli esseri umani tale attitudine è im-
plementata cognitivamente: nel partecipare a questa attività noi rap-
presentiamo noi stessi come parte di un intero che è maggiore della
somma delle sue parti, la cosiddetta l’’intenzionalità congiunta’, e
questa, legata a ciò che da tempo si suole definire ‘cervello sociale’, è
solo umana (cfr. Tomasello, 2005; Id., 2008): allo stato attuale delle no-
stre conoscenze, è infatti più che probabile che gli scimpanzè e le altre
grandi scimmie a noi più vicine non abbiano una lettura psicologica
delle altre menti basata su credenze e desideri come avviene per gli
uomini; le forme più complesse di cognizione sociale si sono evolute
grazie alla costruzione di una nicchia sociocognitiva, il che significa,
tra l’altro, che per una comprensione esauriente della mente umana
l’apprendistato e la trasmissione culturale giocano un ruolo fonda-
mentale. I cambiamenti nelle dimensioni dei gruppi umani hanno por-
tato all'evoluzione di una cognizione sociale complessa che ha consen-
tito alla nostra specie di creare un sistema comunicativo fino ad allora
sconosciuto col quale esprimere e riconoscere gli stati mentali, appun-
to la comunicazione ostensiva; a questa si è legata poi come rafforza-
tivo e potenziamento della sua efficacia l’invenzione di convenzioni
comunicative condivise, cioè le lingue. La comunicazione ostensiva è
dunque emersa come adattamento secondario dell’intelligenza sociale
e questa ha poi portato – in seguito all’uso ripetuto, alla diffusione e
all’attrazione culturale – alla creazione delle prime lingue (cfr. pp.131-
137) I meccanismi cognitivi che rendono possibile la comunicazione
umana sarebbero dunque alla base anche della succesiva evoluzione
culturale delle lingue (cfr. Burling, 2005; Höfler, Smith, 2009); come
funzioni tuttavia un protolinguaggio o come abbia avuto origine la
grammatica di una lingua resta pur sempre un argomento aperto (cfr.
Hurford, 2007; Id., 2011), sebbene paia ora più plausibile che i processi
ostensivi e referenziali abbiano giocato un ruolo determinante
nell’origine della forma linguistica, e che la grammatica universale
334 Bibliografie, recensioni, rassegne
Quaderni di AIΩN n.5 n.s. DOI: 10.4410/ AIΩNL.5.2016.011
AIΩN-Linguistica n.6 n.s.
come meccanismo cognitivo innato sia, evolutivamente e non solo,
un’ipotesi piuttosto improbabile.
Che dire dopo questa sintesi necessariamente un po’ brutale? La
teoria, seppur non del tutto originale, sembra stare bene in piedi e
l’approccio appare consistente e promettente nell’integrare tra loro
le diverse prospettive della linguistica, della psicologia, della prima-
tologia e dell’antropologia evoluzionistica, un accostamento foriero
di ulteriori, necessarie, ricerche e di risultati auspicabili. Trovo poi
particolarmente felice l’insistere dell’A., metodologicamente e fatti-
vamente, nel respingere la contrapposizione tra evoluzione culturale
e selezione naturale, una falsa dicotomia che contrappone due livelli
di analisi distinti, le spiegazioni prossimali e quelle distali;
l’evoluzione culturale non è un’alternativa all’adattazionismo: “il
ruolo della selezione naturale e dell’attrazione culturale
nell’evoluzione del linguaggio sono questioni ortogonali e possono
variare in modo indipendente”. (p.174)
Si tratta dunque, in conclusione, di un libro dai molti pregi, la cui
lettura consiglio a chiunque voglia utilmente aggiornarsi sul dibatti-
to in corso e voglia riflettere, e magari lavorare, sulle origini del lin-
guaggio umano, un campo di studi questo oramai da tempo convin-
centemente nell’alveo della scienza e che non teme più scomuniche
come quelle ben note della Société de linguistique de Paris del 1866
(“Statuts approuvés par décision ministérielle du 8 mars 1866. Art. 2.
– La Société n’admet aucune communication concernant, soit
l’origine du langage soit la création d’une langue universelle”), e
della London Philological Society del 1873 (“But I conceive such que-
stions to be out of the field of philology proper”: Ellis, 1873-1874,
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(Gabriele Costa)
AIΩN-Linguistica n.6 n.s.
ALDO LUIGI PROSDOCIMI, LE TAVOLE IGUVINE. PRELIMINARI
ALL’INTERPRETAZIONE. LA TESTUALITÀ: FATTI E METODI. II, FI-
RENZE, LEO S. OLSCHKI, 2015, 1457 PP.
Le Tavole Iguvine. Preliminari all’interpretazione. La testualità: fatti e meto-
di. II di Aldo Luigi Prosdocimi è un’opera monumentale in tre tomi, inse-
rita nella collana “Lingue e iscrizioni dell’Italia antica” e pubblicata per i
tipi di Leo S. Olschki editore nel 2015, pochi mesi prima della morte
dell’indimenticato studioso. Il volume intende ricollegarsi idealmente al
volume Le Tavole Iguvine. I (1984) e a una serie di lavori pubblicati da Pro-
sdocimi a partire dalla fine degli anni sessanta, andando non solo a rac-
cogliere, ma a rivedere e ampliare parte di questa produzione coniugan-
dola con nuove ipotesi e recenti teorie. Il risultato è una sorta di «’recher-
che’ pluridecennale» legata dal «’filo’ iguvino», come l’autore stesso la
definisce nella Premessa. Data l'opera in questione, la presente recensione
non pretende di andare troppo oltre una enumerazione dei contenuti, già
di per sé difficile a farsi. Quanto all'andare in maniera soddisfacente a
fondo delle questioni, sarebbe una impresa improba: le Tavole sono un li-
bro di fatto “irrecensibile”, o quanto meno difficilmente comprimibile
nello spazio limitato delle normali recensioni.
Il primo capitolo (Stratificazione dei testi) analizza in maniera appro-
fondita la struttura redazionale andando «oltre la superficie» delle sette
Tavole Eugubine, che rappresentano il riflesso su bronzo di antichi testi
rituali, già su materiale deperibile. Secondo Prosdocimi è improbabile che
le Tavole esauriscano tutto il corpus rituale: mancano ad esempio riti di
passaggio (nascita, matrimonio, morte); inoltre la doppia redazione di al-
cune sezioni e le aggiunte in spazi liberi rivelano una «percentuale di ca-
sualità» di quanto ci è pervenuto. Tuttavia le circostanze del ritrovamento
mostrano che già in antico costituivano un corpus, quello dei fratelli Atie-
di, ed è ragionevole supporre che siano stati traposti su bronzo (con fu-
sione a cera persa) i testi ritenuti più importanti: piaculo e lustrazione,
presenti in due redazioni, sono infatti le cerimonie centrali della comuni-
tà. La tradizionale numerazione ottocentesca delle Tavole, attribuita dal
Lepsius, viene mantenuta da Prosdocimi per non creare confusioni, pur
essendo considerata una «matrice di deformazioni capitali».
338 Bibliografie, recensioni, rassegne
Quaderni di AIΩN n.5 n.s. DOI: 10.4410/ AIΩNL.5.2016.011
AIΩN-Linguistica n.6 n.s.
In base alla destinazione e ai moduli redazionali vengono individuate
tre tipologie di testi: i testi “atiedi” (II a 15ss, II b, III - IV) contenenti i sacrifi-
ci del collegio sacerdotale; i “decreti” (V a - V b 7, V b 8-18, VII b 1-4) relativi
a disposizioni pecuniarie o di altra natura interne alla confraternita; i testi
della “polis” (VI a-b, VII a, I a-b) riguardanti i riti rivolti alla comunità.
Questi ultimi contengono le due redazioni del testo della lustrazione, l’uno
in grafia umbro-etrusca e l’altro in grafia umbro-latina: da qui la necessità
di studiarne i rapporti a partire dall’ipotesi di un comune archetipo e la
creazione di uno stemma che vede nella redazione in grafia etrusca, più
breve, un’innovazione successiva rispetto a quella in grafia latina.
Fra gli aspetti trattati ci sono molte questioni aperte, come i rapporti tra
grafia umbro-etrusca e grafia umbro-latina: una rigorosa successione cro-
nologica (data per certa, come elemento “a priori” della trattazione, dallo
stesso Prosdocimi nel volume del 1984) viene esclusa alla luce di nuovi
studi, principalmente per il fatto che le scuole scrittorie che conoscevano la
grafia etrusca conoscevano anche quella latina, almeno dopo la battaglia
del Sentino (295 a.C.). Viene affrontato anche il nodo dell’affissione: come è
noto, le tavole I-V in grafia umbro-etrusca furono affisse “al contrario” in
un momento in cui non c’era più la conoscenza della scrittura sinistrorsa,
probabilmente in piena restaurazione augustea dopo la battaglia di Azio
(affissione “secondaria”) ma, almeno per la tavola I ci sarebbe, per Prosdo-
cimi, una soluzione per individuare una affissione “primaria” con dei perni
tali da permettere la rotazione a circa 2/5 della faccia. Segue una puntuale
disamina, con l’utilizzo anche di rappresentazioni grafiche, dei luoghi del
rito, delle discrepanze tra la sequenza scrittoria e la probabile sequenza rea-
le delle azioni e delle forme verbali: l’oscillazione tra 2a e 3a persona singo-
lare (in VII b 42-45 = I b 33-39) fa ipotizzare la presenza di almeno due “at-
tori” del rito, uno dei quali è sicuramente l’arsfertur.
Il secondo capitolo (Redazione: storia e ristrutturazione dai confronti ester-
ni) riprende e aggiorna l’articolo del 1978 Catone (a.c. 141) e le Tavole Iguvi-
ne, un raffronto sistematico delle parti relative a piaculo e lustrazione del
De agri cultura di Catone con le Tavole I a-b, VI a-b, VII a. È possibile una
sinossi quasi totale fra i due testi, anche in singole forme lessicali (ad
esempio lat. ob-movendo = umbro co-mohota) pur nella diversità del conte-
sto dei due riti: l’ambito privato/familiare per Catone e quello pubbli-
Aldo Luigi Prosdocimi, Le Tavole Iguvine. Preliminari all’interpretazione. 339
AIΩN-Linguistica n.6 n.s.
co/statale per le Tavole. La novità qui illustrata da Prosdocimi consiste
nell’ipotesi che la sovrapponibilità tra Catone e Tavole non sia dovuta
semplicemente a una generica koinè italica, ma a un determinato mo-
mento storico, ovvero la censura di Catone (184 a.C.). La teoria si fonda
su due elementi cardine: la censura di Catone come evento “epocale”, che
ha precedenti solo in quella di Appio Claudio (fine III secolo) e la presen-
za nel De agri cultura di capitoli relativamente lunghi dedicati a piaculum e
lustratio con una precisa valenza programmatica. Sarebbe stata dunque
operata una ristrutturazione focalizzata su materiali della tradizione igu-
vina in base a un modello ideologico-strutturale proveniente da Roma.
Nucleo centrale del terzo capitolo (Redazione, redazioni e ‘forme’ testuali)
con cui si apre il secondo tomo dell’opera è l’identificazione della temati-
ca “imperativo” nelle difficoltà insite nella mancanza di un quadro di ri-
ferimento rispetto alla «cattedrale nel deserto» costituita dalle Tavole Eu-
gubine. Si tratta di un capitolo considerato dallo stesso Prosdocimi inno-
vativo in «contenuti e compaginazioni retoriche», con una serie di spunti
di indagine da percorrere in studi futuri. Vengono prese in esame le for-
me della comunicazione in praesentia e in absentia, ovvero i contesti “del
fare” e del “dire il fare” o del “dire il dire”, e il rapporto tra de-scrizione e
pre-scrizione del rito, con il caso ibrido del raggiungimento di uno status,
quale è l’esempio di purtitu fust = “(il sacrificio) sarà stato oblato”, che
rappresenta peraltro una forma precoce del passivo romanzo del tipo
“sarà lodato”. Segue una serie di considerazioni generali sullo status e la
genesi dell’imperativo nelle lingue indoeuropee e sulle interferenze tra
imperativo e infinito che si ritrovano anche nelle lingue romanze. Si pro-
cede quindi a un’analisi delle dramatis personae e dell’utilizzo della 2a per-
sona singolare, definito «apersonale», cioè che esprime “esistenza di per-
sona” ma con disinteresse a esplicitarla. Alla base c’è la decontestualizza-
zione del rapporto ego-hic-nunc propria del testo scritto. Le Tavole sono
concepite in mano a chi legge: per questo motivo Prosdocimi stabilisce il
parallelismo fra l’umbro este e l’italiano-toscano “codesto”. Si giunge infi-
ne a quattro ordini di conclusioni sull’imperativo: esiste un imperativo
presente, attestato solo per la coniugazione in -ā: stiplo < *stiplā#, aserio <
*aseriā; la forma più diffusa è l’imperativo futuro in -tu, corrispondente al
latino -tod, come forma in absentia: aseriatu, stiplatu; è attestato un congiun-
340 Bibliografie, recensioni, rassegne
Quaderni di AIΩN n.5 n.s. DOI: 10.4410/ AIΩNL.5.2016.011
AIΩN-Linguistica n.6 n.s.
tivo libero senza negazione, mentre un congiuntivo libero con negazione
si riscontra con certezza una sola volta: ne iř habas; sono presenti infine
moduli prescrittivi quali futu (= lat. esto) e circonlocuzioni con la radice -
her come herter, herti, herte “si vuole = si deve”.
Il quarto capitolo (La preghiera) contiene un’analisi a tutto tondo di les-
sico, formule e strutture della preghiera. Si pongono in evidenza le diffe-
renze tra la formula piaculare, usata per la “espiazione da colpe”, e la
formula lustrale, considerata “benefacente in assoluto”: nel piaculum il sa-
crificio è il rito, mentre nella lustratio oltre al sacrificio c’è un rito specifico.
Si analizzano quindi le tre preghiere del piaculo, a Giove Grabovio, a Te-
fro Giovio e a Fisovio Sancio, e le preghiere della lustrazione (lustrazione
civica e lustrazione sacerdotale). L’elemento cardine a cui si tenta di dare
evidenza, anche linguistica, è la ristrutturazione, all’interno del sistema
poliadico, di piaculo e lustrazione, e il rifacimento del formulario piacula-
re “di Stato” su quello lustrale. L’obiettivo è ancora una volta dare pro-
fondità al testo nella sua storia precedente, studiando «scrittura e rito co-
me prodotti della storia sociopolitica». Il capitolo si conclude con un focus
lessicale sui modi del “dire” come “pregare” a Gubbio e a Roma.
Il capitolo quinto (Testualità fra redazione, stile e sintassi) ha come rife-
rimento l’articolo Redazione e struttura testuale nelle Tavole Iguvine, del 1972,
aggiornato con «materiale di lavoro, anche in frammenti». La prima parte
si concentra sull’analisi dei connettivi partendo dal tipo enom, eine e va-
rianti (“e allora”) definiti «connettivi deboli»; si precisa quindi la diffe-
renza tra pone, “quando” indicante «contemporaneità semantica e logica»
e ape, “quando” nel significato di “dopo che”. Lo studio del connettivo
piři/pirse e relative varianti conduce ad affermare che si tratti di forme del
tutto analoghe al latino giuridico quod < * kwid “nel caso che”: l’ipotesi di
Prosdocimi è che non si tratti di una semplice poligenesi o koinè italica,
ma di un modulo importato all’indomani della battaglia del Sentino,
all’epoca della riforma grafica del censore Appio Claudio per la promul-
gazione dello ius civile Flauianum (304 a.C.): «gli Umbri hanno scelto di
mantenere la loro forma alfabetica ma possono avere accettato le ‘forme’
romane nei moduli prescrittivi». Segue una trattazione ricca di esemplifi-
cazioni sui mezzi stilistici utilizzati nelle Tavole, dai più elementari come
simmetria e parallelismo a quelli più complessi come il chiasmo. Partico-
Aldo Luigi Prosdocimi, Le Tavole Iguvine. Preliminari all’interpretazione. 341
AIΩN-Linguistica n.6 n.s.
lare attenzione viene dedicata all’uso di anafora ed epifora con una du-
plice funzione: fàtica, «per evidenziare il focus della comunicazione, cioè
il nome divino», e sintattica, cioè di «allargare il giro sintattico» e con-
giungere a distanza elementi sequenziali riferiti a un unico verbo.
Il capitolo sesto (Sul ritmo italico) è la riproposizione, «con modificazioni
di dettaglio», dell’omonimo articolo pubblicato da Prosdocimi nel 1992.
Vengono qui analizzati con ampia esemplificazione, e posti a confronto con
il De agri cultura di Catone, gli elementi ritmici presenti nelle Tavole: cola
plurimembri e cola crescenti, parallelismi, allitterazioni, coppie polari, cop-
pie sinonimiche, climax e variazioni di formula «nel loro interagire».
Il terzo tomo si apre con il capitolo settimo (Etnici e ‘nome’), basato su
una relazione tenuta nel 2000 al VII Convegno di studi della Fondazione
Faina. In primo luogo si analizzano le differenze nell’uso di nomen come
“nome” (arsferturo nomine carsitu ”chiami l’arsfertur per nome”) e nomen
nel senso di “ethnos” (totar iiouinar nome “il nome della comunità iguvi-
na”) e tra nomi di carica e nomi di funzione: kvestur, uhtur sono classici
nomi di carica, mentre arsfertur indica la funzione ricoperta nel corso del-
la cerimonia. Notevole la frequenza di circonlocuzioni per nomi, cose,
luoghi, situazioni: addirittura nelle Tavole non sono attestate le forme per
piaculo e lustrazione, ma si utilizzano espressioni quali ocrer peihaner
“dell’ocar da piare”, popler aferener “del poplo da circondurre”. Per spie-
gare queste forme Prosdocimi abbandona l’ipotesi del tabù (già formulata
da Devoto) affermando che «la circonlocuzione è modo normale di lin-
gua per significare la realtà in alternativa ai ‘nomi’ che identificano in
modo diverso». Viene quindi proposta una nuova interpretazione della
“formula di allontanamento” degli stranieri (VI b 53-63 = I b 15-22), se-
condo la quale gli etnici selezionati risponderebbero a caratteristiche di
esemplarità e di prossimità. In questa cornice ermeneutica i Tadinati rap-
presentano un modello esemplare di stranieri e potenziali nemici Umbri,
gli Etruschi esemplificano i più vicini stranieri non Umbri e non Italici,
naharcom nome indica Italici non Umbri (da Nahar, a identificare i Safi-
ni/Sabini della Nera); iabuscom nome designa infine una adriaticità dell’Est
piuttosto che Celti. In quest’ultimo caso l’ipotesi più probabile resta quel-
la legata alla presenza del re illirico Genzio a Gubbio nel 167 a.C., testi-
moniata da un passo di Tito Livio.
342 Bibliografie, recensioni, rassegne
Quaderni di AIΩN n.5 n.s. DOI: 10.4410/ AIΩNL.5.2016.011
AIΩN-Linguistica n.6 n.s.
Il capitolo ottavo (Rito e sacrificio. Parte I. Antiquaria) ha avuto, insieme al
successivo, una stesura definita da Prosdocimi «tormentata» per una serie di
ripensamenti. I nuclei della prima sezione del capitolo sono rito e ritualità,
ritualità e pratiche alimentari, funzionalità alimentare e funzionalità rituale a
Gubbio e a Roma. L’analisi del cibo animale utilizzato nei riti descritti dalle
Tavole porta a osservare che a Gubbio non c’è corrispondenza di genere tra
gli animali sacrificati e le divinità, come avviene invece a Roma; il cibo non
animale assume una funzione complementare. Più incentrati sul latino e sul
mondo di Roma sono i paragrafi successivi, dedicati a ritualità e funzionali-
tà del farro, alle funzioni e all’etimologia di sacerdos e sacri-
fex/sacrificus/sacrificulus e al tema del sacrificare come “far crescere” gli dèi.
Il capitolo nono (Rito e sacrificio. Parte II. Terminologia e azioni) si apre
con un ampio esame del lessico del rito e della struttura tripartita del sa-
crificio: uccisione (ampenom), oblazione-consacrazione (purdoviom) e di-
struzione. Il sacrificio come offerta e nutrimento degli dèi viene analizza-
to in parallelo tra Gubbio e Roma nelle due diverse tipologie: il sacrificio
con consacrazione ma senza distruzione, che nelle Tavole viene descritto
con le forme purdoviom, uesticaom e a Roma con il verbo mactare (= magis
augere), e quello con distruzione, nelle Tavole erus doviom subra spahom
(“sul fuoco”) e a Roma adolere. Per l’umbro uestica- si propone il confronto
con la radice sanscrita vaks- “crescere”, che consente di chiudere il cerchio
e dare pieno significato alla forma. Altro parallelismo è istituito fra il lati-
no commolenda (< *co-mol e non < *com-ol) e l’umbro comoltu nel senso di
“macinazione rituale”, che si ricollega alla dibattuta interpretazione di
umbro poni come lat. mola, sostenuta da Prosdocimi.
Il capitolo conclusivo (Il testo fra interpretazione, grammatica ed etimolo-
gia) contiene «una selezione di argomenti con la presunzione di qualche
connessione». Prosdocimi presenta qui riflessioni di tipo teorico e meto-
dologico sull’interpretazione e la filologia dei testi epigrafici e sulla fun-
zione e l’applicazione dell’etimologia alle lingue di frammentaria attesta-
zione, portando una serie di esempi e di “casi” di errate valutazioni dalla
lunga storia degli studi sulle Tavole Eugubine.
(Marco Montedori)
AIΩN-Linguistica n.6 n.s.
A. CILIBERTI, LA GRAMMATICA: MODELLI PER L’INSEGNAMENTO,
CAROCCI EDITORE, ROMA 2015, 107 PP.
Il manuale scritto da Anna Ciliberti intende problematizzare il si-
gnificato attribuito normalmente alla grammatica, proporre alcune ri-
flessioni in merito al superamento dell’accezione tradizionale del ter-
mine e fornire indicazioni rispetto alle modalità di insegnamento.
Il volume è suddiviso in sei capitoli anticipati da un’Introduzione e
seguiti da una Conclusione. L’introduzione, oltre a delineare la struttura
dell’argomentazione, chiarisce le linee epistemologiche della trattazione e
l’organizzazione in capitoli.
Il primo capitolo introduce il concetto di grammatica sul piano for-
male per passare successivamente a quello interazionale; si analizzano
alcune definizioni tradizionali di grammatica, ricorrendo principalmen-
te ai fondamentali teorici proposti da De Mauro, Dardano, Trifone, Du-
bois e Vineis. Le fonti – principalmente definizioni utilizzate in modo
simmetrico per ogni studioso – mirano ad approfondire i due piani di
trattazione della grammatica arrivando a configurarne due modi di
rappresentazione etichettati come “grammatica della comunicazione” e
“grammatica per la comunicazione”. Si tratta di due posizioni apparen-
temente distanti se non addirittura contrapposte e l’autrice ne indaga
opportunamente i parallelismi e i punti di raccordo.
Nel secondo capitolo si affiancano alla grammatica tradizionale
alcuni elementi di linguistica interazionale; dapprima la studiosa
presenta in forma sintetica la tipologia delle regole formali e frasali
e, successivamente, tratta alcune regolarità tipiche delle strutture so-
ciali dell’interazione, presenti nelle strutture discorsive. L’obiettivo
del capitolo è riscrivere in struttura discorsiva gli elementi formali
della grammatica, adattandoli a un diverso modello di rappresenta-
zione che considera la lingua come risorsa possibile per l’interazione
sociale. La linguistica interazionale concepisce la grammatica secondo
una pluralità di esperienze, non tutte riferite al monitoraggio
dell’interazione e della comunicazione da parte degli attanti.
In primo luogo, secondo gli interazionalisti, la grammatica è un si-
stema che organizza l’interazione sociale: formalizza i turni di parola,
344 Bibliografie, recensioni, rassegne
Quaderni di AIΩN n.5 n.s. DOI: 10.4410/ AIΩNL.5.2016.011
AIΩN-Linguistica n.6 n.s.
gestisce i fenomeni di riparazione, di chiarificazione e di cambiamento
di pianificazione. La finalità della grammatica – sviluppata prima, du-
rante o dopo la socializzazione – sarebbe la socialità stessa.
All’interno del terzo capitolo, l’autrice evidenzia come le strutture
discorsive nascondano elementi culturali caratteristici delle comunità
e dei gruppi sociali. Le maglie della rete sociale possono essere più o
meno fitte: alcuni aspetti culturali appartengono a gruppi sociali ri-
stretti, mentre altri sono estesi a comunità molto ampie. Le regolarità
discorsive non presentano andamenti prescrittivi e non sono soggette
a formulazioni assolute, ma possiedono un carattere probabilistico e
contestuale basandosi in buona misura sulle conoscenze di natura ex-
tra-linguistica. Un altro fattore da considerare è l’alto tasso di viola-
zione da parte dei parlanti delle regolarità discorsive, fenomeno che si
presta maggiormente a una grammatica descrittiva – che indaga sulla
natura dei fenomeni, piuttosto che a una trattazione prescrittiva – vin-
colata ai margini della correttezza e dell’accettabilità sul piano forma-
le.
Il quarto capitolo insiste sull’estensione del campo di indagine del-
la grammatica: oltre alla “lingua di parole” esistono altri sistemi co-
municativi caratterizzati dai fenomeni di intonazione, dalla prosodia e
dai linguaggi corporei. La riflessione oscilla fra posizioni di ambito
psicolinguistico e linguistico-interazionale, non sottovalutando il pia-
no pragmatico della comunicazione. Secondo l’autrice occorrerebbe
definire alcuni parametri di convenzionalità anche per questi fattori e
inserirli a pieno titolo all’interno della ricerca grammaticale.
Gli ultimi due capitoli discutono sul ruolo della grammatica tradi-
zionale all’interno delle metodologie glottodidattiche comuni e su al-
cune criticità connesse con gli approcci comunicativi, molto utilizzati
rispetto all’insegnamento delle lingue straniere e seconde. Se la
grammatica tradizionale ha rappresentato per decenni il perno della
didattica delle lingue, nel corso del tempo il rifiuto per gli approcci
consolidati ha determinato alcuni cambiamenti; si è arrivati a privile-
giare la fluency alla correttezza formale, senza che il passaggio ad ap-
procci funzionalisti e interazionalisti determinasse un’effettiva presa
di coscienza delle dinamiche discorsive e culturali, evitando che ci
A. Ciliberti, La Grammatica: modelli per l’insegnamento 345
AIΩN-Linguistica n.6 n.s.
fosse una grammaticalizzazione di aspetti irrinunciabili sul piano
glottodidattico e linguistico-descrittivo.
Più in particolare, il sesto capitolo è dedicato al “fare grammatica”;
emergono alcuni spunti metodologico-operativi e delle indicazioni
sulle modalità glottodidattiche di insegnamento della grammatica. Le
principali tecniche induttive sono accostate a quelle deduttive, ponendo in
rilevo la necessità di superare i modelli tradizionali, nell’ottica di insegna-
re anche gli elementi conversazionali e culturali della lingua.
Oltre alle principali tecniche di insegnamento della grammatica,
l’autrice tratta anche alcuni metodi comparativi di stampo interlinguistico
e propone approcci ibridi che permettano di trasformare la lezione di lin-
gua in un laboratorio linguistico, dialogando e riflettendo con i discenti
della grammatica, mediante la ridiscussione delle grammatiche pedago-
giche e l’analisi conversazionale.
La trattazione grammaticale a partire dagli errori è una delle ultime
strategie delineate; gli studenti riflettono sulle strutture della lingua a par-
tire dall’analisi non giudicante e direttiva degli errori più o meno comuni.
Le indicazioni bibliografiche non sono inserite alla fine di ogni capito-
lo, ma, per esigenze di continuità argomentativa e di organizzazione
del testo, sono collocate al fondo del libro. La scelta di non disporre di
note a piè di pagina permette di tracciare immediatamente le fonti e
rende la lettura scorrevole.
Rispetto alla letteratura scientifica sui modelli di insegnamento
della grammatica, il manuale di Anna Ciliberti è innovativo perché la
critica della trattazione tradizionale della grammatica – sia sul piano
descrittivo sia su quello glottodidattico – occupa poco spazio ed è data
come una delle condizioni di partenza per l’argomentazione. Un altro
elemento di novità consiste nelle critiche rivolte all’approccio comunica-
tivo che ha dominato per molto tempo la scena delle lezioni di lingua e
che tuttora prevale rispetto agli altri impianti teorici. Secondo l’autrice,
l’approccio comunicativo poggia su premesse significative sul piano
scientifico: il fatto di voler trattare non la lingua come sistema astratto,
ma gli elementi comunicativi rispetto ai contesti applicativi e agli usi.
Se da un lato l’approccio comunicativo è attento al valore dei contri-
buti di stampo sociolinguistico, dall’altro l’attenzione nei confronti
346 Bibliografie, recensioni, rassegne
Quaderni di AIΩN n.5 n.s. DOI: 10.4410/ AIΩNL.5.2016.011
AIΩN-Linguistica n.6 n.s.
della pragmatica del linguaggio e della linguistica interazionale è la-
sciata troppo spesso alle intuizioni dei singoli docenti, e non si dispo-
ne di una grammatica degli usi culturali, pragmatici e interazionali
della lingua.
Il lavoro risulta innovativo in quanto l’autrice presenta un’esigenza
e auspica interventi possibili, grazie a un’impostazione teorica signifi-
cativa, partendo dalle premesse storiche e arrivando alle contestualiz-
zazioni più recenti.
L’ultimo capitolo può essere inteso come un prontuario per l’uso
della grammatica all’interno delle classi e si potrebbe configurare co-
me riassunto del manuale per fini applicativi in glottodidattica.
Se si discute di grammatica, sembra di trattare un ambito rigido,
statico, di avere una scarsa capacità di manipolazione della lingua e
questo atteggiamento porterebbe i parlanti ad allontanarsi dalla
grammatica vivendola come insieme di regole prescrittive improntate
essenzialmente alla correttezza. L’autrice invita invece a concepire la
grammatica come angolatura privilegiata e opinabile – discutibile –
per l’osservazione e lo studio della lingua; l’atteggiamento di coloro
che desiderano occuparsene dovrebbe essere aperto, eclettico e orien-
tato verso la comunicazione: la comunicazione è multimodale; per
comunicare cooccorrono differenti piani espressivi e interazionali e
ogni sistema possiede le proprie regole; la grammatica della lingua
dovrebbe divenire grammatica della comunicazione.
Il libro è scorrevole e può essere fruibile anche da parte di un
pubblico poco esperto di linguistica e di glottodidattica; si rivolge
in particolare agli insegnanti di lingua italiana e di lingue straniere,
ma può essere apprezzato anche da linguisti e pedagogisti.
(Paolo Nitti)
AIΩN-Linguistica n.6 n.s.
GIOVANNI GOBBER, MORENO MORANI, LINGUISTICA GENERA-
LE (II ED.), MCGRAW-HILL EDUCATION, MILANO 2014, 291 PP.
La seconda edizione di Linguistica generale è concepita per essere uno
strumento didattico per accompagnare gli insegnamenti introduttivi di lin-
guistica e di glottologia, all’interno dei corsi di laurea umanistici e linguisti-
ci. Il manuale presenta quattordici capitoli; i primi otto seguono un’impo-
stazione di tipo sincronico, mentre nei restanti prevale l’attenzione alla dia-
cronia, rispettando i profili scientifici dei due autori. Ciascun capitolo ri-
porta, dopo il titolo, un breve riassunto dei contenuti e, alla fine, alcune
domande di riepilogo seguite da titoli selezionati delle letture consigliate
per l’approfondimento. Accanto alla numerazione progressiva per l’orga-
nizzazione dei capitoli e dei paragrafi sono presenti talvolta, verso la con-
clusione dei capitoli, alcuni quadrati scuri che indicano approfondimenti e
appunti. Ogni capitolo è suddiviso in paragrafi e a margine sono riportati
brevi compendi per riassumere parti del testo o per chiarire la terminolo-
gia, e le parole chiave.
Il primo capitolo introduce la linguistica all’interno delle scienze umane e
si occupa di definire la lingua e le sue proprietà in rapporto alla comunicazio-
ne. Il secondo capitolo presenta alcune caratteristiche essenziali della lingua
intesa come sistema di segni; sono presi in esame la composizionalità, la dop-
pia articolazione, la categorizzazione, l’arbitrarietà, la ridondanza, la pertinen-
za semiotica e l’intersezione fra l’asse paradigmatico e quello sintagmatico. Gli
autori si occupano successivamente della distinzione fra il segno rispetto agli
elementi segnici appartenenti all’organizzazione delle strutture della lingua. È
presente come chiusura del capitolo un approfondimento sui deittici.
Nel terzo capitolo, gli autori si occupano di fonetica e di fonologia.
L’argomentazione è suddivisa in due parti: la prima privilegia la fonetica
distinguendo i punti di vista percettivo, acustico e articolatorio e propo-
nendo una classificazione delle lingue a seconda della loro articolazione,
mentre la seconda è dedicata alla fonologia e al ruolo dei foni rispetto alla
descrizione delle lingue.
La prospettiva adottata per la seconda parte è di tipo funzionalista
con particolare attenzione rispetto a quella binarista. Chiude il capito-
lo una nota sulla fonologia della parola e della sillaba.
348 Bibliografie, recensioni, rassegne
Quaderni di AIΩN n.5 n.s. DOI: 10.4410/ AIΩNL.5.2016.011
AIΩN-Linguistica n.6 n.s.
Il capitolo presenta schemi, illustrazioni e tabelle per rappresentare
il trapezio vocalico, l’apparato fonatorio, la rappresentazione dei prin-
cipali tratti consonantici secondo l’International Phonetic Alphabet, la
classificazione dei luoghi e un box di approfondimento sulle affricate.
Il quarto capitolo, intitolato “Unità e processi nella morfologia”, si oc-
cupa della costituzione di lessemi e di forme di parola. Dopo un’introdu-
zione al concetto di lessema e di classe lessicale, l’argomentazione procede
verso la definizione di morfema, considerando le prospettive formaliste e
privilegiando quelle funzionaliste. Gli autori distinguono i morfemi lessica-
li, flessionali e formativi lessicali. Successivamente si considera la flessione
delle parole, la formazione dei lessemi strutturati, delle strutture polilessi-
cali, approfondendo i sintemi e le funzioni lessicali. Conclude il capitolo la
tipologia essenziale dei prestiti e dei calchi.
Il quinto capitolo esamina i rapporti semantici che caratterizzano
gli elementi lessicali, considerando la polivalenza tendenziale del les-
sema ed esponendo i criteri generali per la costruzione dei dizionari.
Il capitolo è breve e si riscontra una predilezione per la lessicogra-
fia, con particolare riferimento alla distinzione dei dizionari e atten-
zione nei confronti dei dizionari dell’uso.
Il sesto capitolo affronta la sintassi; gli autori introducono il concet-
to di sintagma, le relazioni sintagmatiche e la struttura delle frasi, non
rinunciando a inserire alcuni elementi di grammatica valenziale
quando è presentato il sintagma verbale. Gli approfondimenti riguar-
dano la tipologia delle dipendenze, privilegiando le lingue caratteriz-
zate da una morfologia flessionale, e le modalità di manifestazione dei
nessi sintattici. Verso la fine del capitolo si trovano altri approfondi-
menti sulla tipologia di frase e sulla prospettiva generativista.
Il settimo capitolo concerne alcuni aspetti della comunicazione verba-
le, adottando alcuni modelli di riferimento della semantica e della lingui-
stica pragmatica. All’interno della sezione sono presenti due estensioni
che riguardano gli atti linguistici e i processi di testualizzazione.
La lettura del settimo capitolo, apparentemente molto estesa in termini di
densità informativa, è propedeutica per il capitolo successivo che tratta di
linguistica testuale. Gli autori precisano i criteri di testualità concentrandosi
sulla coerenza e proponendo alcune riflessioni relative alla stesura dei testi.
G. Gobber, M. Morani, Linguistica Generale 349
AIΩN-Linguistica n.6 n.s.
Il nono capitolo è relativo alla classificazione delle lingue; dopo un bre-
ve profilo storico delle linee di ricerca, gli studiosi si occupano dei criteri
classificatori, evidenziando principalmente la classificazione genealogica e
quella tipologica. Sono inseriti due approfondimenti; il primo sul trilitteri-
smo della radice - inteso come peculiarità delle lingue semitiche - e il se-
condo sulle critiche in merito alla classificazione morfologica delle lingue.
Il decimo capitolo prende in esame i sistemi scrittori, riflettendo
sul concetto di scrittura e considerando alcuni modelli di tipologia
delle scritture. All’interno del capitolo è presente un’estensione a pro-
posito del sistema di scrittura cuneiforme. L’undicesimo e il dodice-
simo capitolo si occupano di alcune dimensioni di variazione lingui-
stica, considerando nel primo le varietà legate all’asse sincronico e nel
secondo la trattazione delle variazioni sull’asse diacronico. Le diffe-
renze fra i due capitoli riguardano non solamente la divisione tipica-
mente saussuriana fra sincronia e diacronia, ma il piano espositivo.
L’argomentazione dell’undicesimo capitolo è generale, privilegiando
la concettualizzazione, mentre il dodicesimo, al di là di una premessa
iniziale, risulta immediatamente specifico, considerando le leggi fone-
tiche, la teoria delle onde e alcuni fenomeni di contatto e di cambia-
mento interno.
Il tredicesimo capitolo tratta i fondamentali della linguistica areale,
riprendendo alcuni concetti già esposti nei capitoli precedenti e con-
centrandosi sulla diffusione dei fenomeni linguistici sul territorio e sui
fenomeni di contatto. Gli autori si concentrano su alcuni elementi di
geografia linguistica e sui fenomeni di adstrato, sostrato e superstrato.
L’ultimo capitolo è dedicato essenzialmente all’italiano spiegando
come si colloca all’interno delle lingue romanze e analizzandone le pecu-
liarità sociolinguistiche e storiche, anche in relazione alle altre lingue di
minoranza praticate in Italia. Un aspetto interessante della trattazione ri-
guarda l’inserimento del “caso dell’italiano” alla fine del manuale, esa-
minando la lingua italiana alla luce delle riflessioni precedenti. I lettori
sono così indirizzati verso un’applicazione rivolta all’italiano di quanto
osservato nei capitoli precedenti.
Nell’ultima parte del libro è presente un indice analitico contenen-
te le parole chiave dei principali nuclei tematici trattati.
350 Bibliografie, recensioni, rassegne
Quaderni di AIΩN n.5 n.s. DOI: 10.4410/ AIΩNL.5.2016.011
AIΩN-Linguistica n.6 n.s.
Nel complesso il manuale è omogeneo e scorrevole; la struttura è
organizzata in modo da non far percepire al lettore l’orientamento
scientifico differente dei due autori, pur mantenendo le specificità dei
profili di ricerca. Nonostante l’organizzazione gerarchica dei contenuti,
il testo risulta unitario e uniforme agli occhi del lettore. L’edizione si
presta a tutti i corsi universitari e specialistici preparatori in linguistica e
può essere fruita anche da parte di lettori non competenti sul piano lin-
guistico e glottologico. La suddivisione in capitoli e in paragrafi corre-
dati di schemi, bibliografia, pannelli di approfondimento e domande fi-
nali permette di rinunciare alla globalità dell’argomentazione a favore
di una selezione mirata dei capitoli rispetto alle finalità dei corsi. Alcuni
riquadri contenenti gli approfondimenti risultano parecchio specialistici
e possono essere considerati come esempi della profondità di alcune ri-
cerche e dell’applicazione delle teorie linguistiche, consentendo di ap-
prezzare le specificità della linguistica come disciplina di studio.
Senza rinunciare alla presentazione del profilo storico della lingui-
stica, il manuale esplora molte frontiere di ricerca contemporanee (basti
pensare alla pragmatica della lingua, alla linguistica testuale, alle politi-
che di tutela delle minoranze linguistiche e al ripensamento dei modelli
tradizionali di classificazione della tipologia linguistica). Rispetto a mol-
ti altri manuali di linguistica generale, lo spazio dedicato alla linguistica
generativa appare più ridotto, vantando un’esposizione sintetica delle
principali linee di ricerca e dei modelli (sintattici).
Un’altra differenza relativa alla maggior parte dei testi di linguistica
generale in commercio è l’assenza di esercizi di trascrizione e di analisi; il
volume è utilmente descrittivo e privilegia l’esposizione dei contenuti
all’applicazione pratica da parte degli studenti dei modelli di analisi e di
segmentazione. Le domande finali rispetto a ogni capitolo possono sicu-
ramente aiutare i corsisti a delineare la struttura degli esami di linguistica
e a verificare in modo opportuno l’acquisizione delle competenze.
(Paolo Nitti)
G. Gobber, M. Morani, Linguistica Generale 351
AIΩN-Linguistica n.6 n.s.