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Una ricerca in corso: punti di riferimento Paolo Alte. Roma (1) P. Aite, «La tecnica della sabbia nella psicologia di C.G. Jung», in Rivista di Psicologia Analitica, voi. 1/2, 1970. Premessa II «Gioco della sabbia» da molti anni ormai è sulla scena della Scuola Junghiana (1). Gli analisti lo hanno conside- rato con curiosità, interesse, ma anche con un certo sospetto. Il discorso non può essere limitato alla semplice curiosità, ma va affrontato con passione ed onestà di pensiero, mirando ad un approfondimento dialettico dei problemi sollevati da questo modo di porsi nel campo analitico. Il primo tema da affrontare riguarda le potenzialità del «Gioco della sabbia» come mezzo di ricerca e come prospettiva aperta sul mondo psichico. Solo dopo ci si potrà chiedere se quanto accade con l'uso di un gioco concreto modifichi sostanzialmente quell'atteggiamento del terapeuta che definiamo «analitico». Per rispondere a questa seconda domanda mi sembra necessario riflettere sulla trama teorica di riferimento del terapeuta e sull'atteggiamento conseguente adottato nella pratica clinica. Cominciamo il percorso con una notazione. È la prima volta nella storia della ricerca analitica, che un gioco concreto viene applicato all'adulto. Il gioco con l'oggetto è stato usato finora solo nell'infanzia per necessità. La mancanza o la supposta inadeguatezza di una capacità verbale sufficiente nel bambino, ha 13

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Una ricerca in corso:punti di riferimentoPaolo Alte. Roma

(1) P. Aite, «La tecnica dellasabbia nella psicologia diC.G. Jung», in Rivista diPsicologia Analitica, voi. 1/2,1970.

Premessa

II «Gioco della sabbia» da molti anni ormai è sulla scenadella Scuola Junghiana (1). Gli analisti lo hanno conside-rato con curiosità, interesse, ma anche con un certosospetto.Il discorso non può essere limitato alla semplice curiosità,ma va affrontato con passione ed onestà di pensiero,mirando ad un approfondimento dialettico dei problemisollevati da questo modo di porsi nel campo analitico. Ilprimo tema da affrontare riguarda le potenzialità del«Gioco della sabbia» come mezzo di ricerca e comeprospettiva aperta sul mondo psichico. Solo dopo ci sipotrà chiedere se quanto accade con l'uso di un giococoncreto modifichi sostanzialmente quell'atteggiamentodel terapeuta che definiamo «analitico». Per rispondere aquesta seconda domanda mi sembra necessario rifletteresulla trama teorica di riferimento del terapeuta esull'atteggiamento conseguente adottato nella praticaclinica.Cominciamo il percorso con una notazione. È la primavolta nella storia della ricerca analitica, che un giococoncreto viene applicato all'adulto. Il gioco con l'oggetto èstato usato finora solo nell'infanzia per necessità. Lamancanza o la supposta inadeguatezza di una capacitàverbale sufficiente nel bambino, ha

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determinato la necessità di creare un canale comunicati-vo preverbale.Nella ricerca che propongo paradossalmente questa viacomunicativa viene riattivata nell'adulto che già possiedeed in genere domina il linguaggio condiviso. Anzichéaffidarsi solo alla parola che nella struttura, ritmo, colore,riverbera la trama emotiva sottostante da conoscere, sivuole in questa ricerca destare anche l'antica esperienzadel gioco.Si attiva così un'isola di silenzio nel fluire del dialogo trapaziente ed analista che provoca un contemplare il pre-sente, desta l'attenzione a livello percettivo corporeo conun riverbero psichico nuovo ed inabituale. L'esserepresente che la manipolazione della materia edell'oggetto seguiti dallo sguardo provocano, fa emergereun livello comunicativo nuovo. L'impostazione descrittaattiva una prima domanda. Perché tornare indietroall'esperienza della gestualità, perché abbandonare,anche se solo per il momento del gioco, il vettoreprincipale ed abituale che è il linguaggio in cui ciriconosciamo?Può nascere il sospetto, ed in alcune condizioni di campociò può accadere, che l'azione di gioco sia solo occasionedi regressione e di scarico di pulsioni. La prima tesi chesostengo è che i due livelli di comunicazione e diesperienza, tramite il linguaggio ed il gioco, s'integrino inuna visione più completa del fenomeno interattivopresente nella relazione. Questa possibilità si determinain condizioni di campo emotivo ove si avvertel'insufficienza del linguaggio e la necessità diun'espressione che sia altra rispetto al modo dominanteed in uso di raccontarsi il vissuto. La ricerca di nuovi modidi dire, tramite il gesto, fa riavvicinare di tanto in tanto ilgiocatore al campo di gioco con ritmi assolutamente liberied individuali. La trama complessa di identificazioniempatiche, di proiezioni reciproche che si attivano tra idue partecipanti, trovano così una possibilità di aggancioe d'inquadramento maggiori che non quando la parola siail solo vettore della comunicazione. Il gioco con l'oggettoe la materia, nel campo delimitato

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del vassoio a disposizione, mette in primo piano l'espe-rienza soggettiva dello spazio e del tempo. La coscienzadi essere individuo è indissolubilmente legata a questecategorie.Siamo un corpo che si percepisce nello spazio, looccupa e lo colora delle proprie emozioni. Ladepressione tende a chiudere, a volte ad immobilizzare,quell'essere nello spazio in cui ci si riconosce.La gioia fino all'euforia all'opposto lo allarga, lo illumina.Lo spazio del gioco, il vassoio nella sua delimitazioneche orienta, permette di guardare in questa strutturaarchetipica dell'essere umano.Si provoca l'esperienza arcaica del gioco con la materiae l'oggetto che è il primo livello d'immaginazione cono-sciuto durante lo sviluppo.Nel dialogo silenzioso con la sabbia e con le miniatureche riproducono il nostro mondo, nella scelta della lorocollocazione fino alla forma conclusa, si entra a contattocon la «memoria corporea» dei nostri nuclei vitali ideoaf-fettivi che Jung definiva complessi. La depressionelascerà nel campo il segno della sua coartazione dispazi, così come la dissociazione della psicosi porteràl'impronta della sua frammentazione insieme ai suoimostri.Si sostiene che il mezzo proposto dia delle indicazionipreziose sull'esperienza di sé in rapporto alle proprieemozioni invadenti. Non solo, ma il ritmo e le scelte chesi succedono nel tempo della messa in scena portanol'impressione evidente di quel centro coordinatore chedefiniamo «Sé».La costruzione dell'esperienza di sé, come del centrovitale, il «Sé» appena proposto, trova espressione neltempo e spazio della messa in scena. La percezionespazio-temporale del gioco riporta in superficie conevidenza la memoria corporea del nostro vissuto passatoe presente che difficilmente il linguaggio sa contenere, emette a contatto con quel processo spontaneo dellapsiche che Jung definiva processo d'individuazione. Il«G.d.s.» nella terapia analitica dell'adulto è, a mio pa-rere, solo un'espressione, un modo di porre in esserel'assetto mentale che caratterizza l'analista junghiano.

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L'uso del gioco, nella ricerca come nella terapia, emergeda questa impostazione mentale presente anche in ope-ratori che non usano la concreta applicazione del «G.d.s.»percorrendo altre strade.Di questo atteggiamento per me è fondante il concettostesso di immagine mentale che qui mi limito ad accen-nare.Col termine immagine o rappresentazione mentale ci siriferisce a quel momento misterioso e centrale in cuisensazioni, affetti, intuizioni, ancora sparsi, si strutturanoin una forma distinta nel nostro teatro interno. Laprospettiva aperta da C.G. Jung su questo tema va rivistae ripensata per le implicazioni pratiche e teoriche checomporta.Fin dal 1912 Jung ha inquadrato questo atto psichico delrappresentare nella categoria del «pensiero» (2). Unaforma di pensiero «fantastico», come egli diceva, damettere in rapporto col pensiero verbale o diretto, lo stru-mento acquisito dalla coscienza nel suo adattamento allarealtà.Il percorso che dalle percezioni immediate, dalle emozioniancora indistinte e spesso invasive, porta alla possibilità dirappresentare va quindi inteso come un processointegrativo che modifica le nostre risposte. Da un livelloimmediato e d'impulso, si può così instaurare unatteggiamento nuovo più adeguato allo stimolo. Nelpassaggio da un'emozione solo vissuta, alla possibilitàdella sua rappresentazione mentale che la trasforma inaffetto, e infine alla capacità di dire, di comunicare inparole la propria esperienza, tipica del pensiero verbale,c'è la continuità evolutiva di un unico processo integrativoche trasforma il rapporto col mondo. Decisivo per questatrasformazione è il momento in cui si stabilisce un rapportotra le due forme di pensiero notate. Nel processo diadattamento al mondo che ci circonda la sofferenzapsichica può essere vista come una crisi di equilibrio traqueste due forme di pensiero. Esse tendono a scindersi,ad autonomizzarsi percorrendo vie separate. Il pensieroverbale può ad esempio chiudersi in circuiti concettualiripetitivi e sterili distanziandosi dal sottofondo del pensierofantastico che normalmente e

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(2) C.G. Jung, Simboli dellatrasformazione (1912/52),Opere, voi. 5, Torino, Borin-ghieri, 1979.

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con costanza lo nutre. Viceversa può accadere chequello fantastico si chiuda in un immaginario solopassivo teso alla soddisfazione immediata del desiderio,perdendo così la capacità di incidere, modificare,progettare la vita. Le interrelazioni tra «pensare indirettoo fantastico» e «pensare discorsivo diretto o verbale»,tra immagine e parola, delimitano un campo di ricerca dasviluppare per il futuro. Jung proprio nella sua lungaricerca sui testi degli antichi alchimisti ha trovato latestimonianza storica del processo che si attivanell'incontro tra queste due forme del pensare.Ciò che noi quotidianamente osserviamo ascoltando la«prima materia» dell'incontro col paziente, percorre mo-menti, supera difficoltà simili e descrive forme analoghea quelle riportate in quei testi antichi. Jung ha studiato illinguaggio oscuro ed immaginifico dell'alchimista intesocome testimonianza storica preziosa dell'esperienza diconfronto con gli strati più profondi del mondo psichico.L'alchimista, con il livello di coscienza che gli era proprio,descriveva l'incontro tra il proprio pensiero diretto e quel-lo fantastico proiettato sulla materia. Il segreto che eglitentava di estrarre ed i modi per raggiungerlo possonooffrirci delle utili indicazioni per il difficile compito delconfronto con la patologia mentale. L'«oro» che oggi nelcontatto con il paziente tentiamo di estrarre, è quellaforma di rappresentazione che chiamiamo «simbolo» perla particolare attività trasformativa che determina sullapsiche.

L'esperienza di AnnaPer awicinare dal vivo di un'esperienza cllnica quantodelineato a livello teorico, vi propongo la scena di unadonna di trent'anni che soffriva di crisi d'ansia e fobie. Ilsuo pensiero era spesso dominato dall'idea di un tumoreal seno e si sottoponeva a frequenti controlli. Anzichéosservare solo la scena compiuta, come appare dalfotogramma, vorrei proporvi i tempi della sua costru-zione. È un modo per descrivervi la dinamica psichicache ha portato alla configurazione finale.

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È la via migliore non solo per capire il mondo di Anna, maper intenderci sul termine immagine o rappresentazione.Esso infatti non solo indica la cosa vista, qui la scena digioco già formata, ma anche il suo divenire visibile.L'immagine va inquadrata non solo come una forma di-stinta ma anche come un processo dinamico che portaalla visibilità emozioni fino a quel momento senza forma.A. nel toccare la sabbia già umida arrivò subito al fondoceleste del vassoio. La prima associazione spontaneache fece, dopo un lungo silenzio, fu quella di un fiumeche scorre dall'alto al basso. Seguì un lavoro per realiz-zare un secondo fiume che si univa al precedente delimi-tando tré parti di terra (fig. 1 in Appendice). Mi basta perora farvi notare che la prima sequenza di gesti seguivauna linea associativa molto corrispondente al materialereale (sabbia-terra, celeste-acqua) e alla vita concreta ditutti i giorni. La sabbia accanto ad A. divenne infatti unprato verde e sullo sfondo venne realizzato un piccolobosco con una fonte e un gruppo di persone in gita (nellafoto finale che voi osservate le persone sono scomparse).La percezione del materiale sembra attivare subito unasequenza coerente. Gli oggetti scelti (verde, alberi, fonte)infatti sono legati da una stessa idea dominante, corri-spondente alle percezioni suscitate dal materiale. Fino aquesto punto è il pensiero diretto-verbale a condurre lamessa in scena.All'improvviso un fatto illogico, una immagine sisovrappose al materiale, imponendosi.A. cominciò ad usare del colore: un blu-notte a sinistrasull'altra sponda del fiume che attivò una sequenza nuo-va, diversa dalla precedente. Seguì infatti un giallo da leidefinito «luna», ma poi ancora spruzzate di rosso.Rispetto alla logica precedente un salto improwiso, unaspinta in una dirczione diversa accompagnata dal biso-gno di toccare la superficie del campo sporcandosi lemani.Dopo i colori un uomo sullo sfondo che A. definì unastatua.Era l'unica figura, tra quelle disponibili, con le gamberotte.

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Questo secondo atto del gioco mette in scena l'irruzionedel pensiero fantastico ma anche l'incontro e la collabo-razione col pensiero diretto.All'improvviso con la comparsa del blu e della luna siattivò una catena associativa che univa il rosso, iltoccare e la figura dell'uomo menomato. Non entro oranei particolari della storia di A. ma colgo l'occasione perindicare come i suoi gesti mettessero in scena ilconfronto che stava accadendo tra un suo mondonotturno e drammatico ancora inconscio, portato dalpensiero fantastico, ed il pensiero diretto che metteva inscena e localizzava in quello spazio di gioco contenutisofferti mai detti in parole fino a quel momento. Chequanto era apparso sulla scena fosse scottante lodimostrò l'ultimo atto di gioco. A. con polvere celestecercò di confondere e seppellire quel blu-notte insiemeall'uomo seduto (fig. 2 in Appendice). Alla fine non solotolse dalla scena i gitanti che avevano animato il bosco,ma spruzzò con polvere nera quel mondo gioioso da cuiera partita. Sono gesti che indicano una presa didistanza da qualcosa di troppo invadente ma che, altempo stesso, lasciano trasparire ciò che nascondono,analogamente ai sintomi.

Ridestare le potenzialità del bambino: la definizione dellaforma come primo livello della capacità d'immaginareIn questa esperienza si tratta di realizzare la nascita diuna scena tramite la sabbia e gli oggetti a disposizione.Per quanto precaria e casuale appaia alla coscienza delgiocatore adulto la scelta e la collocazione nel vassoio diogni singola forma realizzata con sabbia od oggetti, inquel momento si provoca la definizione di una immagineche nasce da questo confronto. Le componenti del giocolavorano sinergicamente alla definizione di una formaproprio perché offrono una gamma espressiva che vadalla condizione amorfa ma anche plastica della sabbia,all'oggetto ben definito e specifico sia esso naturale oriprodotto in miniatura. Rispetto al solo disegno o all'usodi materiali plastici il «G.d.S.» unisce tra loro capacitàespressive diverse.

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Proprio questa particolarità sembra facilitare l'affiorare diemozioni profonde. Un gesto appena accennato come unacarezza mossa da un affetto irrazionale del momento, puòlasciare segno di sé sulla sabbia, attivando nel giocatoreuna catena associativa sia di immagini che di parole. C'èun momento della vita in cui per attivare la nostradisposizione a rappresentare gli affetti che ci coinvolgono,abbiamo bisogno del contatto corporeo, della materia edell'oggetto. Si ritorna ad un livello di esperienza antico perla nostra storia quello in cui il contatto col corpo e l'usodell'oggetto, come accade nel gioco infantile, sono i tramitiindispensabili al poter dare forma alle emozioni. Da adultipossiamo emanciparci dalla necessità dell'oggettoconcreto per immaginare, per attivare il «pensierofantastico» anche se, nei momenti di coinvolgimento piùprofondo, ritorniamo spontaneamente all'esperienza cor-porea, alla necessità del contatto fisico per esprimerci.Quando il corpo è vettore dell'esperienza possono riat-tivarsi particolari possibilità espressive. Jung sottolineaquesta condizione psichica affermando che è un ritorno almotivo archetipico del fanciullo. Si ridesta così un livello diesperienza dotato di proprie modalità di percepire, sentire,pensare. Egli così si esprimeva: «II motivo del fanciullonon soltanto rappresenta qualcosa che è stato e che èpassato da molto tempo, ma anche qualcosa di attuale;vale a dire esso non è soltanto un-resfcluo, ma anche unsistema che funziona nel presente ed è destinato acompensare e rispettivamente rettificare le inevitabiliunilateralità e stravaganze della coscienza» (3). In ognunodi noi c'è la potenzialità di un bambino. Essa va ridestata.Si tenta così di aprire una via nuova per entrare inrapporto con le determinanti inconsce dei conflitti profondi.

La «messa in scena» rivela il rapporto con l'emozioneII pensiero verbale è patrimonio di cui il complessodell'Eoo può disporre, soprattutto nell'adulto. Il pensierofantastico invece porta l'impronta dell'accadere psichicopiù profondo. La messa in scena del gioco rivela ciò chesta accadendo

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(3) C.G. Jung, «Psicologiadell'archetipo del fanciullo»(1940), in G//' archetipi e in-conscio collettivo, Opere, voi.9, tomo I, Torino, Boringhieri,1980, 157.

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tra questi due modi di pensare. Può accadere che ilpensare fantastico prenda la mano al giocatore oviceversa che l'impatto con gli affetti irrigidisca in difesa ilcomplesso dell'Ego.Il gesto porta con evidenza queste relazioni soprattuttoponendo attenzione all'uso che il giocatore fa del mate-riale, dello spazio a disposizione e del tempo. Nella miaesperienza rivelatore di un rapporto trasformativo tra ledue forme di pensiero è anzitutto il tempo.La costruzione in questa situazione trasformativa apparelenta, mediata; ogni gesto soppesato con pause seguiteda rapide soluzioni. È in atto una riflessione che il gestocol suo ritmo lento e rapido mette in scena.La discriminazione e l'uso di tutte le qualità del materiale,dalla possibilità plastica della sabbia alla scelta meditatadi ogni singolo oggetto, rivelano il momento in cui sistabilisce un vero confronto tra complesso dell'EGO efantasia emergente.Tutto ciò, oltre che tempo per accadere, comporta fatica.Il giocatore avverte il peso dello sforzo sostenuto. È undato che testimonia l'impegno psichico avvenuto nel con-fronto tra le due forme del pensare di cui la coscienzadel giocatore solo in parte è consapevole.Il punto di vista offerto dal «G.d.S.» apre una possibilitàdi studio nuova sul lavoro psichico in atto nell'apparire diuna rappresentazione. Credo sia importante imparare adistinguere l'aspetto difensivo da quello innovatore dellarappresentazione mentale.In campo junghiano c'è spesso la tendenza ad idealizza-re la nascita dell'immagine come fosse un atto sempretrasformativo. Il compito è arrivare a delimitare lecondizioni di campo psichico che aprono alla possibilitàdi un'immagine che liberi l'energia di un simbolotrasformatore.

La scena come racconto per immagini: la dimensione mitica delpensiero.Le scelte che strutturano man mano la configurazionepossono essere viste come un racconto per immagini.Nel colore blu che apre la porta al pensiero fantastico diA. si succedono il giallo-luna, il rosso che sembra spin-

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gere a toccare con mano quella superficie, ed infine l'uo-mo statua.A. ha sofferto alla nascita di una vera menomazionefisica di cui a lungo non ha parlato in analisi. Era unalussazione congenita dell'anca. Solo dopo ho capitocome la scena, realizzata all'inizio del nostro lavoro,portasse nella statua di uomo menomato questocontenuto sofferto. Un altro dato storico: nell'adolescenzada brunetta casalinga, brava a scuola si trasformòall'improvviso in donna vestita in modo eccentrico,attraente, bionda.Quella luce lunare gialla che esplode nel blu richiamaquel suo periodo violento che la spinse a cercare unanuova identità nel «biondo». Anche questo dato emersesolo col tempo insieme al dolore conseguente ad unasessualità caotica che la lasciò ferita (rosso) e poi dinuovo irrigidita nel fallimento (la statua col danno allegambe).La scelta in rapida successione propria di queste meta-fore porta ad espressione qualcosa che la parola ancoranon sapeva dire.Il passaggio dalla parola condivisa alla comunicazioneper immagini del gioco aprì una prospettiva su una tramaemotiva ancora non detta e forse in quel momento nondicibile.

Strategie del comunicareNel mio lavoro con adulti offro al primo incontro la pos-sibilità del «gioco». Invito il paziente a provare lasciando-lo libero di ritornarci o meno. Tutti hanno sempre aderitoandando al gioco secondo un proprio ritmo o a periodi.Credo sia molto utile creare un doppio registro di comu-nicazione adatto alle due forme del pensiero. Lapossibilità di passare dalla parola condivisa all'azione digioco amplia la capacità di ascolto del terapeuta. È unmodo di portare alla visibilità della scena una comu-nicazione sottesa alla parola che in genere è veicolatadalla mimica e dal gesto. Gli affetti non dicibili, ancoraliberi nel campo, possono trovare un livello espressivopiù corrispondente prima di poter diventare parola. Ilpassaggio da una forma di comunicazione all'altra indicasempre un momento importante nella relazione. La sceltadel gioco, quando si tratta di vero contatto col

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(4) C.G. Jung, Ricordi sogni eriflessioni di C.G. Jung,Milano, Saggiatore, 1965,p.205.

pensiero fantastico, indica sempre l'inizio di un confrontonuovo con quanto sta accadendo nel processo. È unuscire dalle difese abituali e un cercare di dare forma adun'emozione ancora confusa, non dicibile. La Jaffè citaJung quando, a questo proposito, dice: «Finché riuscivo atradurre le emozioni in immagini e cioè a trovare leimmagini che in esse si nascondevano, mi sentivo calmoe rassicurato. Se mi fossi fermato alle emozioni, alloraforse sarei stato distrutto dai contenuti dell'inconscio (4)».È molto importante nella relazione il momento in cui ciòche era espresso in immagine diventa parola. Questo è ilcompito del terapeuta che per primo è chiamato ad usarele metafore che il paziente gli ha fornito nel suo confrontocon l'inconscio.In questo passaggio alla parola di ciò che era contenutonella scena di gioco sta la sostanza dell'interpretazione. Èuna parola non solo descrittiva o esplicativa ma radicatanell'affetto stesso che ha prodotto l'immagine. Quando ilpaziente sa pronunciare lui spontaneamente questaparola nuova si è concluso il processo integrativo e si èraggiunta la trasformazione possibile. Azione di gioco elinguaggio condiviso indicano due modalità dicomunicazione in relazione tra loro. Il confronto tra questedue strategie del racconto di sé apre la capacità d'ascoltodell'analista.

Relazione transferale e gioco: l'esempio di AnnaCol tempo ho compreso che la sequenza del primo giocodi A. esprimeva in modo preciso gli affetti che si attiva-vano tra noi. Direi che le metafore usate nella scena misono parse via via sempre più precise ed aderenti aquanto ho vissuto nel corso di anni di analisi con lei. Quelprimo gioco già allora conteneva nella sua trama ecomunicava ciò che ho capito solo dopo. Era tipica delladifesa di A. una specie di euforia manierata. Si ponevasempre come fosse interessata ed entusiasta a tuttoquanto andavo dicendo. A volte si toccavano emozioniprofonde ma la volta successiva tutto spariva nel nulla.L'esperienza anche se intensa era allontanata, comericoperta dall'oblio.

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L'analogia con la polvere nera che toglieva colore allascena mi appare evidente.Nel rapporto accadeva anche a me di oscillare tral'euforia di certi momenti di comunicazione e lasensazione di non poter procedere perché tutto eraannullato. La condivisione anche intensa di un momentopoco dopo era pietrificata come quella statua enigmaticadi uomo con le gambe rotte sullo sfondo della scena. Fuun sogno immediatamente successivo al gioco a farmicapire come quella metafora scelta nel gioco fosse attivatra noi. «Aite ha un tumore alle gambe e si deveoperare». Un sogno che riconduceva alla relazione tranoi la necessità di congelare gli affetti trasformandoli inmalattìa. Se spesso ero io ridotto a statua ciò accadevaanche per i desideri ed i progetti di A. Nel rapporto con sestessa infatti si difendeva dalle proprie emozioninegandole. Era il modo di sfuggire ciò che riapparivasotto forma di ipocondria: l'angoscia di poter avere untumore al seno o all'utero. Il sintomo rivelava il gelo dellavita affettiva e la possibilità di una rottura catastrofica.Questi brevi cenni per indicare il rapporto per me eviden-te tra trama della scena e trama emotiva della relazione.La rappresentazione mentale, diceva Jung, descrive ilrapporto con la situazione profonda. Nella suaconfigurazione è presente non sola la X inconscia maanche la relazione in atto, in un momento dato, tracomplesso dell'Ego e conflitto. La messa in scena di A.sembra confermare questo modo di vedere. Si può direche le metafore scelte indicano questo rapporto ma altempo stesso sono l'interpretazio-ne che la protagonistastessa da della sua situazione conflittuale. Questemetafore sono la via migliore per prendere contatto conquel mondo. Le trame emozionali attive nella relazionetrovano nella scena di gioco un'espressione metaforicautile alla loro comprensione.

// «processo» nei giochi dì AnnaAbbiamo assistito al lavoro psichico che si attiva quandos'incontrano le due forme del «pensare».

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Le scelte di Anna nell'attuare il suo gioco ci pongono acontatto con un «fare» spontaneo che porta alla nascitadella rappresentazione.È un'attività che anzitutto distingue delle parti. Da unacondizione d'animo ancora indefinita via via si estraggo-no alcune componenti.La percezione del materiale, la sua scelta e collocazionenel campo, ha reso visibile un processo di definizione distati emotivi profondi.Ora questo «fare della psiche» lo vorrei descrivere se-guendo l'evoluzione di alcuni giochi nel tempo. Nelprocesso di più scene le parti vengono sempre piùdistinte e man mano associate a nuovi elementi che nespecificano sempre più l'intima struttura. In quattro annidi analisi A. ha fatto venti giochi della sabbia. In questoprocesso vorrei farvi notare solo l'evoluzione di alcuniaspetti già apparsi nella prima scena. Ogni elementonotato è ritornato nel tempo acquisendo ogni volta,tramite nuove associazioni, un approfondimento disenso.Il «giallo» il primo protagonista emerso nel blu della sce-na iniziale fu anche il primo a riapparire un mese dopo.Assunse la forma di un corpo rigido, quasi meccanicoche venne toccato ripetutamente dalla giocatrice quasi ameglio conoscerlo (fig. 3 in Appendice). Non ci fu alcuncommento diretto di questa immagine anche se dopo diessa il nostro dialogo si approfondì. Venne condiviso tranoi il vissuto estraniante da lei provato alle sue primeesperienze sessuali. Nel suo periodo «biondo» infatti siera buttata in una pratica sessuale caotica. Una sorta dicompulsività onnipotente, quasi meccanica, ovesembrava non sentire più ne il proprio corpo ne il dolorepsichico.Dopo una lunga pausa riapparve il «rosso» (fig. 4 inAppendice).La scena in quel momento elaborava il rosso iniziale efaceva vedere nuovi elementi. Metteva in luce un anticaferita infantile, violenta come un vulcano. Dal rossopoteva venire fuori una parte bambina portata su per lascala proprio da una scheletro (fig. 5 in Appendice). Erala metafora di una esperienza difficilmente dicibile,

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legata anche alla lussazione congenita dell'anca e alleoperazioni subite.Passò altro tempo prima che ricomparisse quel «blu»esploso d'impulso nella prima scena di gioco e poi imme-diatamente occultato, quasi annullato dalla polvere cele-ste che aveva ricoperto anche l'uomo statua. Èsignificativo che comparissero in quel momento e per laprima volta figure di donna.La personificazione del femminile, proprio in quella fasedel processo, esprimeva un nuovo livello raggiunto checorrispondeva ad una esperienza diversa di sé, del pro-prio sentirsi donna (fig. 6 in Appendice). Significativa è lacomparsa contemporanea del cristallo e delle uova.Queste forme archetipiche aggiunte alla scena, alludonoad un'organizzazione più complessa carica di potenzialeespressivo che trascende la dimensione egoica.È questa un'espressione del Sé o del centro della perso-nalità totale come affermavano Jung e la Kalff? Venivaforse individuato un nuovo centro, e potevano emergeredelle potenzialità (le uova) come un progetto possibile?Nello stesso periodo in cui venne fatta quest'ultima scenanotai un cambiamento nella vita della protagonista. A.riuscì a sposare una persona con cui conviveva datempo. Cambiava il suo rapporto con se stessa e colmondo. È significativo notare che quando appaiono que-ste forme archetipiche che alludono all'integrazione di unnuovo centro della personalità, si nota spesso un cambia-mento emotivo sia nella vita del giocatore che nella rela-zione analitica.La sequenza delle rappresentazioni, tramite il G.d.S.,mette a contatto con un «fare» della psiche che tende adindividuare la forma più corrispondente e precisa di unvissuto, ma determina anche una variazione emotiva nelcampo.

// «fare» dell'attività simbolica nel giocoLa percezione del materiale di gioco sembra legare (s/'m-balleirì) un'emozione ancora inespressa.

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È un legame che trasforma un movimento ancora confu-so {emotio} in una forma, in un affetto. Questo legametra emozione e percezione, questa forma, rimane neltempo e viene memorizzata come fosse una parolanuova, un significante acquisito. Non si capirebbealtrimenti il ritorno nel tempo delle metafore iniziali.Nel processo si assiste alla precisazione progressiva diqueste parti come una sorta di distillazione. Si mette inevidenza così un primo aspetto dell'attività simbolica.Analogamente ad un metabolismo, la sequenza delleforme nel singolo gioco, come nel processo di più scenesuccessive, sembra sciogliere in nuove metafore e cosìassimilare nuclei profondi di sofferenza mentale maiespressi in parole.Il legame tra percezione attivata dal materiale di gioco edemozione profonda rimane come un pensiero acquisito.È un affetto e ad un tempo una nuova possibilità dirisposta. Va differenziato un secondo aspetto dell'azionesimbolica. Mentre il primo tende a sciogliere edistinguere le componenti di nuclei di sofferenza, questosecondo invece realizza nuove unità.Una forma nuova, mai apparsa prima, come le figurefemminili dell'ultima scena di Anna, sembra organizzaread un altro livello le parti precedenti. Le donne comepersonaggi che appaiono nel blu sembrano condensarela sequenza ancora informale dei colori giallo-rosso-statua apparsi nel primo gioco. Quando questo evento simanifesta nella scena si notano variazioni emotive dirilievo sia nella relazione che nella vita del giocatore.Il «G.d.S.» mette in evidenza il fare simbolico dellapsiche. Si evidenzia un doppio aspetto: una tendenza adistinguere e poi ad unire in forme nuove («Solve etCoagula» dell'Alchimia?)È un attività spontanea autonoma della coscienza tesaad individuare l'espressione più corrispondente al vissu-to. Le forme nuove apparse sulla scena sembrano corri-spondere alla modifica delle dinamiche emotive neltransfert con nuove possibilità di verbalizzazione. Ècome se l'integrazione del pensiero fantastico aprisse

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canali espressivi diversi anche alla parola. Si esce dalleripetizioni verbali, si attivano ricordi e si arricchisce il tonodel dialogo.

Racconto per immagini e interpretazioneLivello della comunicazione verbale e comunicazione perimmagini, viste parallelamente, hanno percorsi propri chesolo in momenti significativi coincidono nei contenuti. Sipuò affermare che l'incontro tra pensiero fantastico everbale all'inizio awiene solo a livello dell'azione di gioco.Già a questo livello avvengono variazioni emotive signi-ficative nella relazione senza che venga pronunciata al-cuna interpretazione verbale.Mentre il percorso avviene è necessario a mio parerenon collegare ancora con la parola i due livelli comuni-cativi.L'integrazione possibile tra le due forme del pensarenella costruzione del gioco, va rispettata in questa faseproprio per salvaguardare il processo simbolico nel suoprimo livello espressivo. È il momento in cui il processoavviene ad un livello di coscienza non ancora integrata.La parola che interpreta può riportare singoli aspetti dellescene di gioco come la miglior espressione di emozionivissute nella relazione.Sono «parole immagini» tratte dalle scene di gioco cheesercitano un'azione nel campo più incisiva delle abusateinterpretazioni che seguono la più nota via del pensierologico in genere espresse per cause e meccanismi diformazione.Rispettare questa fase d'integrazione a livello del pensie-ro fantastico, non significa affatto rinunciare ad una rico-struzione anche concettuale del vissuto relazionale masolo saperne aspettare il momento opportuno. Quandoesso si verifica l'apporto del pensiero verbale econcettuale al pensiero fantastico è di grande valore perl'integrazione.Quando i due modi ma anche i due livelli del pensare siintegrano nello stabilire un nuovo punto di vista ed unracconto nuovo di sé, avviene un vero e proprio muta-mento della situazione emotiva.

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(5)C.G. Jung, «Gli aspettipsicologici dell'archetipo dellamadre», in Gli archetipi el'inconscio collettivo, op. cit.

Di questo momento sono state per me espressione leesperienze recenti di revisione dei giochi.

Revisioni dei giochiImportante è stato rivedere con alcuni pazienti il decorsodel processo a distanza di anni. Ripresentando lasequenza delle scene si determina un'esperienza emotivaintensa nella relazione. Quanto mi preme ora sottolineareè l'efficacia trasformativa di questo nuovo livello d'incontrotra pensiero fantastico e verbale.L'impatto tra il paziente e le immagini proiettate dallediapositive dei suoi giochi, non solo libera ricordi mascatena sogni significativi, fantasie attive e affetti maiprovati.Si può raccontare il percorso fatto insieme in modo nuo-vo. Si rivisitano certi punti nodali dell'esperienza condivisae si colgono i segni anticipatori che le scene esprimevanomolto prima di quanto entrambi sapessimo riconoscere.Ciò apre un livello nuovo di consapevolezza del processovissuto e determina un cambiamento dell'atteggiamentoconscio dominante. Collegando in una visione unitariatutta la sequenza dei giochi il paziente per la prima voltasi rende conto della realtà transpersonale del processoawenuto. Senza che se ne accorgesse è stato l'attore diuna spinta organizzativa inconscia che è divenuta formatramite lui.Credo questa sia una vera esperienza simbolica. Jungosservava a questo proposito: «è un impulso oscuroquello che alla fine decide della configurazione, un a prioriinconscio preme verso il divenire forma, e noi ignoriamoche la coscienza di un altro è messa in moto dagli stessimotivi, pur avendo la sensazione d'essere in preda a unaillimitata casualità soggettiva (5).

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Spazio, fórmae creatività nel «gioco

della sabbia»

Elena Liotta, Roma

(1)Le Corbusier, «Architec-ture and thè MathematicalSpirit» (1946), in Great Cor-rente of Mathematical Thou-ght, New York, Dover, 1971,p.90.

Spazio e Sé

«Prendere possesso dello spazio è il primo atto di ogni cosa vivente, siaessa uomo o animale, pianta o nuvola: è la manifestazione fonda-mentale di equilibrio e di durata. La prima prova dell'esistenza è l'oc-cupazione dello spazio. Il fiore, la pianta, l'albero, la montagna stannodritti, vivi nell'ambiente. Se a un certo punto essi attraggono l'attenzioneper via della loro presenza rassicurante e sovrana, ciò accade perchéessi appaiono limitati dalla loro forma pur inducendo una risonanzatutt'intorno...» (1).

Le Corbusier, maestro dell'organizzazione dello spazio,parla di miracolo dello spazio ineffabile, del fenomenodella concordanza (l'azione dell'opera d'arte e la reazionedell'ambiente), della quarta dimensione (come momentoprodotto da una intensa armonia, la vittoria dellaproporzione tra i mezzi plastici adoperati) e dell'/nteresseper lo spazio come chiave del sentimento estetico.Il suo scopo, in queste osservazioni datate 1946, cioèappena dopo la guerra, è di far riemergere creativamentela profonda armonia universale radicata nella natura stes-sa, rivalutando una matematica e un ordine naturali difronte alla geometria classica e ai sistemi tradizionali dimisurazione responsabili della 'macchina civilizzatrice' eanche del suo potenziale distruttivo.Dobbiamo arrivare però agli anni '70 per vedere più chia-ramente estesa e formalizzata questa visione nelle mo-derne teorie del Caos e della Complessità che tentano

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una definizione dei campi, delle dinamiche, delle misurecosiddette non-linearì, e una composizione della vecchiae ingenua dicotomia tra Caos, Disordine, Irrazionalità(Dio-niso) da una parte e Ordine, Legge, Razionalità(Apollo) dall'altra.Nel campo della psicologia del profondo a questadicotomia si sovrappone una polarizzazione tra due tipi dicoscienza entrambe necessarie: quella definita in sensolato come solare, logico-deduttiva, differenziante, orienta-ta alla meta, verbale, paterna e quella lunare, non verba-le o preverbale, intuitiva, distica, emotiva, materna. Comea dire che esiste un asse coscienza/incoscienzaapollineo tanto quanto dionisiaco. Anche il profano ne facomunque esperienza: non solo la coscienza del sogno,caotica e lunare, differisce evidentemente da quella diveglia, ma anche i sintomi, fisici o meno, irrompono nellacoscienza individuale scuotendo qualsiasi ordine econtrollo volontario al pari di eventi inaspettati, naturali osociali, che sorprendono la coscienza collettiva. Ilcontatto con la dimensione del caos e (Iell'infinitocostituiscono per l'essere umano una minaccia spessoinsopportabile e i normali meccanismi di difesa, nonchéle sindromi ossessivo-compulsive in particolare,rappresentano la reazione più comune della psiche alpericolo di perdita di controllo. Il fatto che le Teorie delCaos nascano nel chiaro e definito ambito scientifico enon in quello sdrucciolevole e ambiguo dellaspeculazione filosofico/psicologica è forse parte delfascino che esercitano. Come se questo le rendesse piùaffidabili già all'origine. Anche gli psicoanalisti, a modoloro teorici del caos, frequentano le zone oscure ecaotiche della mente umana da quasi un secolo,cercando di convivere con l'incertezza e il paradosso mala loro chiusura alla verifica esterna, l'organizzazioneelitaria e l'inaccessibilità del gergo hanno fatto sì che lospazio originariamente aperto sull'ignoto sia diventatosempre più chiuso, irrigidito e controllato, perdendo invitalità.Prendere possesso dello spazio come atto di esistenzasignifica anche trovare la propria posizione, il propriocentro, la distanza e i limiti in relazione a ciò che è altroda sé, stabilendo un punto di vista, una prospettiva da cui

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(2) B.B. Mandeibrot, in unarecente conferenza all'Acca-demia dei Lincei ha impostatotutto il suo discorso suiFrattali a partire dal rapportotra arte e geometria. Storica-mente, la rivoluzione inne-scata dalla scoperta e appli-cazione della prospettiva nel-l'arte occidentale avrebbecreato a sua volta un terrenoculturale favorevole alla suc-cessiva nascita del metodoscientifico.

guardare all'infinito e al caos (2). Così si può cominciare apoterli almeno concepire. Penso aWhorror vacui e alprimo punto segnato dalla penna sul foglio bianco, all'im-pronta della mano nell'argilla e nella pietra della sculturaarcaica, alle effimere esistenze hollywoodiane la cui mas-sima fama è sancita dall'imprimere mani e piedi nel ce-mento.Nell'investigare l'uso dello spazio nel gioco della sabbianon mi stupisce di aver trovato stimoli nuovi nei campidell'arte e della scienza piuttosto che nell'ambito stessodella psicoanalisi. Penso infatti che quest'ultima per trop-po tempo abbia tenuto il corpo e tutte le questioni legateallo spazio, alla forma e alla materia ai margini di uninteresse primario che andava in direziono più del chi eche cosa, del quando e dell'a causa di che non del come.Il come implica una compresenza di livelli e una con-temporaneità di aspetti nell'osservazione del materiale delpaziente da parte dell'analista che rendono assai piùcomplessa l'elaborazione analitica. Solo più recentemen-te, grazie anche alla psicoanalisi infantile, tutto questoversante è diventato oggetto di interesse e diformulazione teorica.Per il bambino il rapporto con lo spazio, l'evolversi del-l'orientamento e dell'esplorazione, il piacere dell'espres-sione di sé e la spinta creativa manifestata nel gioco sonotutte questioni di vitale importanza.Tanto quanto lo sono per tutti gli artisti, pittori, scultori,architetti e musicisti. Tanto quanto lo sono per tutti gliesseri viventi, come osserva Le Corbusier. Tanto quanto10 diventano, più o meno consapevolmente, per coloroche fanno un'esperienza di gioco della sabbia.11 gioco della sabbia è, tra le tecniche usate in campopsicoterapico, quella più chiaramente radicata nella di-mensione spaziale, poiché offre letteralmente uno spazio,concreto, limitato, protetto e al tempo stesso libero, in cuiil mondo interno del paziente, in un determinato momentodella sua esistenza, può essere espresso, esplorato,restaurato o ricreato. Questa centralità dello spazio, cosìcome appare nelle scene costruite poi riprodotte indiapositive e fotografie, la si può riconoscere nei seguentiaspetti:

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1. generale uso dello spazio, per esempio l'organizzazio-ne di ogni sabbia, lo stile globale, la qualità, l'emergere dipattern idiosincratici (simile ad altre esperienze di orga-nizzazione spaziale come la scrittura - pensiamo allafirma che per la sua individualità assurge a prova insin-dacabile di identità - oppure il disegno e altre espressioniartistiche, incluso il gesto danzante, o la stessa posturacorporea. Sarebbero interessanti ricerche comparate checercassero affinità tra queste modalità diverse di occupa-re lo spazio);2. l'evoluzione di pattern e strutture lungo una serie disabbie (aperture, chiusure, azzeramenti, esplosioni, as-sestamenti, ecc. Penso ad alcuni pazienti che fanno nu-merosissime sabbie la cui sequenza mostra un ripetersidi schemi che diventano apprezzabili solo dopo lungotempo, come se, attraverso minime differenze, la stessamateria venisse manipolata finché non compare unanovità formale, per poi ricominciare riconfondendo tuttofino alla prossima forma, e così via. Oppure pattern piùchiari che seguono schemi compensatori: se si parte dauna forma chiusa essa si apre gradualmente, se lapartenza è sparpagliata piano piano si compone unaforma meglio delineata, se tutti gli oggetti si trovano inuna parte della sabbiera in seguito si distribuiranno piùuniformemente, ecc.);3. possibili forme di base nella materia sabbia e lororelazioni con gli oggetti deposti nella sabbiera; uso dellacomposizione figura-sfondo in termini di superficie dellasabbia e fondo della sabbiera (a volte i pazienti prepara-no la sabbiera lavorando sulla sabbia con acqua o altrimateriali, solcando la sabbia con forme disegnate, oppu-re scavano, affondano gli oggetti, li nascondono, scopro-no il fondo azzurro per metterci qualcosa di specifico olasciarlo vuoto. Come se oltre allo sfondo/sabbiera comeprimo limite organizzatore fosse necessario creare un'ul-teriore struttura di contenimento/organizzazione per glioggetti, che spesso finisce per attrarre l'attenzione piùdegli oggetti stessi. Con una specie di attenzione flut-tuante visiva si possono cogliere in queste gestalt figura-sfondo informazioni inaspettate sul livello corporeo incon-scio dell'esperienza del paziente);4. livello di complessità, organizzazione, differenziazione

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nel rapporto tra figure e parti della scena (la mia impres-sione è quella di un passaggio dalla complicazione allacomplessità, cioè verso forme più compatte, essenzialima anche più significative e identificabili, vale a direriorganizzate. Penso a una paziente che gradualmenteha aperto gli scompartimenti numerosi in cui dividevaossessivamente la sabbiera facendo circolare emescolare i contenuti per poi risistemarli in forme piùelastiche e armoniche);5. uso dimensionale (bi- o tri-) dello spazio (vedo lesabbie piatte di una paziente, costruite a mo' di disegniutilizzando oggettini oppure tessere di mosaico, che a uncerto punto si sono gonfiate, hanno cioè preso formatridimensionale, diventando addirittura costruzionielevate oltre la forma propria dell'oggetto);6. valore simbolico della localizzazione spaziale (in alto/in basso, vicino/lontano, destra/sinistra, sopra/sotto,ecc.). Ora, che fare di queste osservazioni sul come ipazienti strutturano spazio e forme quando viene dataloro l'opportunità di farlo concretamente? In ambitoanalitico l'intuizione cllnica e l'esperienza direttasensoriale dell'analista gli permettono di cogliere edelaborare informazioni sul piano non-verbale forseinaccessibili altrimenti. Ma se volessimo andare al di làdell'evento unico e dell'incontro tra due soggettività,cercando anche di condividere e rendere accessibileall'esterno questa esperienza?

Spazio, psicoanalisi e scienzaNello sforzo, sempre relativo e per tentativi, di obiettivaree predire qualsiasi fenomeno utilizzando misurazioni, èoggi quasi impossibile fare a meno dei computerà che,oltre a essere addirittura penetrati fino nel mondo dell'ar-te proprio per la loro capacità di visualizzare, è proprionell'ambito delle dinamiche spaziali e delle geometrienonlineari che ci permettono di accedere a nuovevalutazioni e a vere e proprie scoperte. Ad esempiol'interazione tra caos e ordine nel corpo umano vieneanalizzata attraverso programmi ispirati alla GeometriaFrattale - che tratta appunto di spazi e formegeometriche complesse - dimostrando che una formaparadossale di caos deterministico, e non l'omeostasi ela regolarità, è la vera saggezza del

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corpo. La malattia non viene dalla perdita di regolaritàma, anzi, è proprio la diminuzione di una flessibilità cao-tica ad associarsi alle perturbazioni della salute e all'in-vecchiamento.Mi viene da pensare, per associazione e in un quadro diinterpretazione psicosomatica della malattia, all'idea dellanevrosi come modello di salute proposta da C.Modigliani, o alla concezione junghiana dell'ombra e dellasua necessaria integrazione nella totalità del Sé.È evidente quanto si tratti soprattutto di una questione dimisura: sul piano fisiologico risulta vitale per l'organismoumano la presenza di una certa irregolarità, discontinuità,caoticità flessibile nei vari ritmi che regolano il suo funzio-namento. Sappiamo già, anche dagli studi della psicolo-gia sperimentale, come una giusta dose di stress stimolilo sviluppo dell'intelligenza e le difese sane dell'individuo,migliorando la risposta adattativa all'ambiente. In camposcientifico il caos non è più evitato ma anzi viene utiliz-zato sul piano applicativo in situazioni che necessitano diun aumento di potenza, sincronizzazione, stabilizzazioneecc., dal laser al battito cardiaco. Molti sono gli spunti e leconferme che la pratica psicoterapica, soprattutto quelladella psicologia del profondo, potrebbe offrire in direzionodi questa nuova valutazione e utilizzazione delladimensione di ombra, caoticità, rottura di equilibri, siariguardo alle modalità di funzionamento psichico, sia nelledinamiche di relazione (per esempio l'uso stesso delcontrotransfert - fenomeno inizialmente considerato comeun disturbo, l'accettazione del vuoto e dell'ignoto, il cam-biamento catastrofico, ecc.).La mia ricerca, sul piano sperimentale, si concentra sullestrutture formali presenti nelle immagini del gioco dellasabbia create dai pazienti in analisi. Cioè sul loro usodello spazio nel setti ng-sabb'\a del seff/'ng-analitico.Tuttavia, pur partendo da questo luogo clinico, l'aspettoimmediatamente clinico e diagnostico, la dimensionedella relazione terapeutica, la metapsicologiapsicoanalitica e anche alcune metafore intermedie,peraltro utilissime nel momento di riflessione einterpretazione, vengono lasciate sullo sfondo, facendobalzare in primo piano l'organizzazione dello spazio e lanotazione di pattern ricorrenti in

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(3) La ricerca che sto condu-cendo si awale per la partetecnica della collaborazionedei dott. Patrizia Tosi eValerio De Rubeis, dell'Isti-tuto Nazionale di Geofisica, edel Dott. Bruno Liotta, tisicoed esperto in computers. Stosottoponendo all'elabo-razione da parte di program-mi appositi le riproduzionidelle sabbie di pazienti ana-litici, cercando di definire al-cuni parametri (per esempiol'indice trattale), da poterusare come elemento di con-fronto tra varie sabbie. Leprime difficoltà sono quelledella scelta di cosa misurare,di come farlo con precisionenonché, per ora, l'im-possibilità di una vera e pro-pria sperimentazione dato ilcarattere unico, episodico, diogni costruzione di scena. Lasperimentazione è comunquemanipolazione, e in analisiogni forma di manipolazioneva evitata. Ciò non toglie cheaccostando risultati prove-nienti da ambiti diversi, peresempio di psicologia speri-mentale e di gioco della sab-bia in analisi, si potrebberoforse proporre ipotesi e trarreconclusioni più fondate.

un determinato individuo (come una sua 'grafia'), o in unadeterminata fase di un processo, o in una determinatapatologia, o altro. Il tutto affrontato sul piano della misu-rabilità e della quantificazione. Si potrebbe concludere,quindi, che l'ottica sia quella della psicologia sperimenta-le. Ma in realtà non sarebbe esatto perché l'esperienzadel gioco della sabbia non è, owero non viene utilizzatacome un test, non ha luogo in un laboratorio con sogget-ti-campione e non segue le leggi dell'esperimento (mani-polazione, ripetibilità, condizioni costanti). D'altro cantopossiamo anche dire che si tratta di un'esperienza umanaal pari di un'altra, di un comportamento con valenzepsicologiche che produce un oggetto materiale e quindimisurabile. L'atteggiamento iniziale di ricerca (3), in que-sto ambito, non può che essere quello descrittivo, dell'os-servazione e della raccolta di dati. Solo più avanti posso-no affacciarsi segnali, punti nevralgici, infrazioni, cifre,eventuali scoperte da interpretare, e solo alla fine, forse,qualche tentativo di predizione. Nel frattempo, molte leperplessità, i problemi metodologici, gli improvvisi oscu-ramenti, il vacillare dell'oggetto di studio. Incombente ilperiodico ritorno del vecchio dilemma psicoanalisi: arte oscienza^ Dopo essermi a lungo arrovellata sentendo chec'era del vero in entrambe le posizioni, mi sono ritrovata aformulare una possibile risposta: senz'altro la psicoanalisiè un arte nel suo aspetto terapeutico, in quanto arte dellacura basata sull'intuizione del terapeuta e sull'uso 'tecni-co' della sua soggettività, strumento prezioso ed efficace.Credo sia inutile e illusorio cercare di fare scienza suquesti aspetti, almeno per ora. Mentre la psicoanalisi inquanto strumento di conoscenza e studio della mente, deisuoi contenuti e del suo funzionamento, così come sipresentano nella situazione e nel setting clinico o nellacrisi di un disturbo mentale, potrebbe, forse, un giorno,entrare a far parte delle scienze naturali, utilizzandometodologie esatte e oggettive in occasioni solo inapparenza sfuggenti e caotiche. Ciò che importa è nonconfondere i piani. L'analista può e dovrebbe saperessere, secondo i momenti, un terapeuta/osservatorepartecipe che usa la propria soggettività oppure unoscienziato che osserva il suo oggetto, non freddamente,ma da una distanza e con

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un assetto mentale libero che gli permettano di coglierecose diverse da quelle richieste dall'intervento clinico. Nonsi può neanche dire che questa differenza di funzioni siagià adombrata nell'altro ormai trito dilemma: psicoanalisi opsicoterapia? poiché, se nella funzione psicoterapica ildistacco necessario allo scienziato è impensabile, in quellaanalitica esso è offuscato da troppe idee preconcette cheaffollano la mente dell'analista: dalla metapsicologia allateoria analitica, alla teoria della tecnica, ad altre teorieparticolari. Il vero scienziato è innanzitutto un osservatoreprowisto di metodo che proprio perché non sa di precisoche cosa aspettarsi è in grado di scoprire (quante scopertesono awenute per caso, mentre la mente si ostinava sualtri oggetti?), mentre l'analista spesso cerca solo con-ferme di ciò che sa già perché la sua teoria = metodo glidice di aspettarselo: le difese, le identificazioni, le resisten-ze, l'Edipo, ecc. La verìfica empirica in psicoanalisi (4) èormai una questione aperta e attraversata da consistentidilemmi epistemologici, metapsicologici e psicologico-spe-rimentali. Sulla scia delle critiche di A. Grunbaùm, per ilquale l'unica validazione empirica delle tesi psicoanalitichedovrebbe essere 'esterna', proveniente cioè da ricercheextra-cliniche, N. Dazzi e M. Conte, curatori del volumecitato, scorgono l'awicinarsi di un possibile ricongiungi-mento tra le parti della teoria psicoanalitica che soprawi-veranno alle trasformazioni e correzioni imposte dal tempoe dalle nuove esperienze, e il vasto ambito della psicologiaevolutiva e della psicologia generale.Il problema dell'attendibilità scientifica nella psicoanalisi potrebbe cosìrisolversi nel problema dello status scientifico della psicologia tout court,con conseguenze e sviluppi ancora oggi inadeguatamente prevedibili,forse anche nel senso di una più o meno ampia trasformazione dellapsicoanalisi che permetta di ricollegare la teoria al corpus della psicologiascientifica (5).

Credo che con uno strumento di misura appropriato,rispettoso del suo oggetto, sarebbe possibile gettar luceanche su zone, per ora inaccessibili, della mente umana edei suoi rapporti con l'organismo umano in genere. Un po'come dire che una malattia è incurabile solo finché non sitrova la giusta medicina, e che la definizione di incurabilitànon dovrebbe, comunque, far cessare la ricerca.

(4) La verìfica empirica inPsicoanalisi. Itinerari teorici eparadigmi di ricerca, a cura diM. Conte e N. Dazzi, Bo-logna, II Mulino, 1988.

(5) Ibidem, p. 24.

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Già ora le moderne tecniche di indagine del cervello cipermettono di capire meglio il funzionamento delle suearee in concomitanza con esperienze quali il sogno, illinguaggio, la memoria, gli stati di coscienza in genere ele loro alterazioni, e di confutare e superare teorieobsolete nate agli albori della ricerca psicofisiologica.Ricordiamo che la psicologia scientifica ha appena unsecolo e che a Lipsia si catalogavano migliala disensazioni (la coscienza, il corpo) usando strumenti dimisurazione mentre Freud passava dall'ipnosi al metodopsicoanalitico per indagare l'inconscio. Una divaricazionedifficile da concepire: come occuparsi in fondo dellostesso oggetto, la mente umana, in modi così diversi etanto a lungo lontani fra loro da sembrare inconciliabili.Tornando all'uso dello spazio - detto che lo considerocentrale nell'esperienza di gioco della sabbia e cheattraverso le tecniche moderne di indagine lo ritengoanche studiabile e misurabile, con tutto ciò che ne puòderivare - ne propongo ora l'aspetto più prettamentepsicologico, legato a quella parte del Sé inferiore,profondo e autentico che cerca di esprimersispontaneamente e pienamente, mostrandosiall'ambiente che lo circonda. Userò in questo scritto iltermine Sé in un senso molto generico che accomunadefinizioni junghiane e freudiane, distinguendolo soltantoda ciò che viene inteso come lo. Spesso i pazienti inpsicoterapia sono mortificati proprio in questa attivitàsemplice e naturale di essere e occupare un propriospazio e, a mio awiso, l'esperienza con il gioco dellasabbia permette loro di superare questo blocco offrendoinizialmente e molto concretamente uno spazio per ilcorpo e per la mente, per iniziare ad esistere, muoversiintorno, esporsi gradualmente, creare qualcosa di sentitocome personale. Come l'architetto che nel modello delsuo progetto vede già crescere l'edificio, o il bambinoche giocando con le costruzioni creacontemporaneamente lo spazio interno ed esterno.

Spazio e FormaQuale può essere la chiave che ci permette di collegareil vissuto inferiore di paziente e analista alla produzioneche osserviamo nel gioco della sabbia?

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Mi ha incuriosito fin dall'inizio, lavorando con questa tec-nica, la sensazione che ci fosse dell'in-formazione conte-nuta nelle creazioni dei pazienti.Il neuropsicologo K. Pribram (6) sostiene l'esistenza di unaessenza che rimane identica nelle trasformazioni in genereo nelle relazioni tra processi del cervello ed esperienzaumana, qualcosa di simile alla vecchia idea platonica, e lachiama appunto in-formazione, nel senso di formadall'interno. Egli ridefinisce il problema dell'isomortismo intermini di dialettica tra la rappresentazione e lacomputazione (il cervello opera per il tramite di rap-presen-tazioni o computazioni?) e alla luce dellapercezione dell'osservatore (che è fondamentale per laricostruzione dell'immagine e la decodificazionedell'informazione).In altre parole, la programmazione di i/n computer e laproduzione di un'esecuzione musicale - utilizzate comeanalogia del funzionamento mente/cervello - sono dellecomputazioni nel senso che l'operatore si serve di unospartito o di un programma per operare sul substratomeccanico, e non è necessario che tra i due livelli ci siaisomortismo. È in azione un codice. È anche vero, tuttavia,che in qualche modo la tastiera di un pianoforte'rappresenta' posizioni delle dita umane, oppure che l'ap-parato sensorio-motorio è rappresentato dall'homunculusdel cervello. Insomma entrambi i modi sono presenti nelrapporto tra cervello ed esperienza. Pribram riprendeanche la ormai banalizzata differenziazione degli emisfericerebrali citando J. Bogen e la sua definizione di propo-sizionale (orientato alla comunicazione, al pensiero logico,al linguaggio), per l'emisfero sinistro e apposizionale(configurativo, ragionante per strutture, creatore di musicae matematica) per quello destro. Sicuramente, dalladescrizione che ne viene data, entrambi agiscono insintonia nel gioco della sabbia, anche quello proposi-zionale, che sembrerebbe a un primo sguardo oscuratodall'aspetto rappresentativo e strutturante. Oltre infattiall'elemento comunicativo, imprescindibile nel contestoanalitico, c'è anche il procedere dall'essere al divenire,dall'olofrase in cui è tutto condensato allo sviluppo di unafinalità, nonché l'aspetto interpretativo vero e proprio.Osserva Pribram che le tras-formazioni che mantengono

(6) K. Pribram, «Contributisulla complessità: le scienzeneurologiche e le scienze delcomportamento», in M. Ce-ruti e G. Bocchi, La Sfida del-la Complessità, Milano,Feltri-nelli, 1992 (7 ed.).

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invariante l'informazione sono il punto chiave per com-prendere alcuni ordini che appaiono caotici e che il con-cetto di in-formazione è essenziale per comprendere irapporti tra cervello e mente, paragonabili a quelli tragenoma e fenotipo. Come la genetica studia le operazio-ni di decodificazione che dispiegano l'informazione con-tenuta nel gene, così le scienze neurologiche e le scien-ze del comportamento studiano le operazioni di deco-dificazione che dispiegano l'informazione contenuta nelcervello. È esperienza comune per chi lavora con il giocodella sabbia assistere a volte a estreme somatizzazionida parte dei pazienti e a volte anche dell'analista. Essepossono andare da sensazioni corporee improwise, spe-rimentate durante la creazione della scena, a sintomifisici espressi raffigurando gli organi colpiti o le parti delcorpo sensibilizzate da conflitti. La rappresentazione av-viene quasi sempre in modo inconscio. Le mani si muo-vono, catturate da un oggetto o da una idea generica diarmonia estetica con cui lo spazio viene lavorato, eintanto veicolano l'in-formazione, la forma dall'interno.Oppure, al di là della corporeità più immediata siriconoscono forme ripetute e configurazioni dinamicheche diventano una specie di indice di riconoscimento diquel paziente specifico, il cui modo di affrontare lo spazioe muoversi in esso, attraverso la postura, la grafìa e altriparametri, descrive se stesso. Un gesto, dunquealtamente individualizzato, il come lo spazio vieneoccupato.Lavorare sull'isomortismo - potremmo anche dire sulleanalogie di forma, e non solo in senso metaforico - è unmodo per cogliere l'espressione del Sé nucleare e pro-fondo a vari livelli, da quello prettamente psichico al suopolo corporeo, o, se vogliamo dirlo in termini junghiani, lastruttura psicoide dell'individuo.Esistono strutture di naturale armonia che il processo diautoguarigione innescato dalla terapia può ripristinare.La rappresentazione concreta nello spazio dellasabbiera, con la sensorialità implicata, può essere sial'espressione del problema sia la via alla guarigione, inun processo costante di feed-back psico-fisico. Nellamorfogenesi il fenotipo interagendo con il suo ambientespecifico, porta a compimento l'informazione delgenoma, non un pro-

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gramma genetico astratto, che è solo una metaforacompu-teristica rispetto a una più ampia dinamica dellosviluppo molto più vicina alla fisica di base (7).

Spazio e creativitàA parte Winnicott (8), in ambito psicoanalitico si parla piùspesso e volentieri di spazio in termini di spazio interno espazio mentale. In questa occasione vorrei soltantoribadire la necessità di uno spazio concreto per il Sé che ilgioco della sabbia ci permette di offrire al paziente comebase primaria per qualunque altra e successivaescursione in spazi diversi (mentali, relazionali, fantastici,virtuali, passati e futuri, ignoti...).Oltre allo spazio del e dentro il corpo, cui ho accennato disfuggita, mi interessa lo stare primario nello spazio vitale ela sua successiva organizzazione da parte del paziente.Credo che questa sia la premessa essenziale di qualun-que attività creativa, laddove la prima creazione assoluta èil proprio esistere. Poi si può anche far esistere qualcosad'altro, da un bambino concreto a quelli simbolici, dalleopere d'arte alle intuizioni scientifiche, dal gestoimpermanente di una danza alla staticità della pietra scol-pita, dall'utensile di uso quotidiano alle grandi filosofie. Lesabbie costruite dai pazienti sono creazioni di universitemporanei, di mondi paralleli, scenari di grandi epopeequanto di piccole vicende quotidiane, e la sorpresa delpaziente stesso di fronte alla sua creazione è la prova piùchiara che creare coincide con rendere visibile e condivi-sibile ciò che stava comunque dentro - un ritrovamento,quindi - ma che in tale condizione, implicita e inconscia,era come inesistente, un universo invisibile, fantasmatico.La stessa fissazione sulla pellicola fotografica di quellacreazione agisce come ulteriore conferma del suo valoredi esistenza. Ormai c'è stata, è uscita, è stata vista. Il«sogno con le mani» (9) si vede e si tocca con un corpoche respira ed esiste.Quanto all'eventuale valore estetico, artistico in sensostretto, di queste creazioni, posso solo affermare, e molticolleghi sabbiologi lo confermano, che in molte sabbie

(7) B.C. Goodwin, «La tradu-zione della complessità bio-logica in una sonile semplici-tà», in M. Ceruti e G. Bocchi,La Sfida della complessità,op. cit.(8) D.W. Winnicott, Gioco erealtà (1971), Roma, Arman-do, 1974 e Dal luogo delleorigini, Milano, Cortina, 1990;M. Davis e D. Walibridge,Introduzione all'opera di Do-na/et W. Winnicott - Spazio econfine (1981), Firenze, Mar-tinetti, 1984.

(9) P. Alte, «Sognando conle mani», in Rivista di Psico-logia Analitica, 1990, n. 41.

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esso emerge con chiarezza, non tanto nel senso di sab-bie 'belle' o armoniose, ma in quanto sabbie significative,pregnanti, che emanano quella atmosfera - o potremmodire risonanza con Le Corbusier - la stessa che hanno lecose vive e collocate nel loro spazio, lo spazio 'giusto'.

Vorrei riassumere, dal punto di vista del Sé e alla manie-ra di Winnicott, il processo che conduce alla creativitàattraverso lo spazio. lo sono,io sono in uno spazio, io mimuovo in questo,io me lo strutturo dinamicamente intorno, attraverso og-getti, percorsi, pieni e vuoti, profondità e superfici;io dialogo con lo spazio,io cambio lo spazio e,le forme cercando una corrispon-denza che non so ma sento,io metto qualcosa di nuovo, di mio in questo spazio, iocreo una forma nuova, la mia forma, io incontro le formedegli altri in uno spazio vivo e popolato.

È in quel 'cercando una corrispondenza che non so masento' che mi appare più vivo il mistero del gioco dellasabbia.

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Kairòs: costruzioni dellamemoria

Elisabetta Traverso, Roma/Genova

«L'effetto al quale io miro è di produrre unostato psichico nel quale il paziente cominci asperimentare con la sua natura uno stato difluidità, mutamento e divenire, in cui nulla èeternamente fissato e pietrificato senzasperanza» (C.G. Jung, «Scopi della psico-terapia»).

Noi «sabbiologi» affermiamo che il «Gioco della sabbia»ricollega l'esperienza sensoriale alla traccia inconscia edapre una via più diretta alle determinanti affettive, piùdiretta di quanto faccia una seduta solo verbale, dove sicerca di limitare al massimo la percezione di stimoliesterni. La pluralità degli oggetti stimolo, in unasituazione codificata, in uno spazio definito, aiuta aritrovare in modo più immediato la traccia emotiva,stimolando la memoria del paziente, aprendo al suosguardo lo spazio al di là del limite del progetto razionalee rendendo palesemente inadeguate alla diversità dellasituazione emozionale presente le parole usuali edabusate.Un ricorso più immediato alla sensazione, consideratacome prima modalità di funzionamento, favorisce il ritro-vamento di quegli affetti che sono entrati ed entrano nelnostro approccio alla vita, nella nostra comprensione delmondo.Un bambino di due mesi che sorride o piange usa esat-tamente gli stessi muscoli di un adulto. Di conseguenza

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l'effetto di feedback propriocettivo indotto dal sorriso o dalpianto rimane inalterato dalla nascita alla morte. Per questomotivo il nostro nucleo affettivo garantisce la continuitàdella nostra esperienza durante lo sviluppo, nonostante inostri molteplici cambiamenti (1). Dei resto, Jung scrivevain Tipi psicologici: «La sensazione è perdo in primo luogouna percezione sensoriale... Essa è da un lato un elementodella rappresentazione, dall'altro un elemento delsentimento, in quanto conferisce al sentimento stesso ilcarattere di affetto mediante la percezione delle alterazionisomatiche» (2). In quest'ottica, la memoria, sia neììe suebasi fisioìogico-affettive che nelle sue rappresentazioneesteriori, può essere considerata una costante della nostraesperienza di noi stessi.Le nuove teorie neuropsicologiche, ma anche psicoa-nalitiche sulla memoria, non la considerano più come unaregistrazione permanente strutturalmente simile alla pas-sata esperienza, ma come una trascrizione legata ad uncontesto, come un potenziale a disposizione per l'evoca-zione di categorie di affetti. La concezione della memoria èdiventata oggi quella di una traccia dinamica che verràritrovata ogni volta in modo non identico, ma legato alladiversità del campo in cui viene richiamata e che è so-prattutto potentemente legata alle emozioni. Gli affettievocati che si manifestano nel nostro lavoro nel transfert/controtransfert, agiscono insieme alla percezione, sono daessa attivati e la influenzano, al fine di ritestare l'ambienteche ci circonda. In tal modo si verifica una continuaricategorizzazione, che è poi la memoria stessa. Unamemoria che viene considerata immaginativa, inventiva epersonale (3).La vecchia, ma attualissima questione del problema men-te/corpo viene conciliata dall'accento posto sull'incontroselettivo fra le potenzialità biologiche del soggetto e lecaratteristiche dell'altro, sia nell'incontro interpersonale,umano, che in quello con l'ambiente in cui egli si imbattedagli inizi della vita biologica. Una visione di questo tipo misembra non essere affatto in contraddizione con quella cheM.L. Von Franz da dell'inconscio per Jung: «Un campo incui si costellano per-

(1) R.M. Emde citato da D.N.Stern in // mondo inter-personale del bambino, Tori-no, Boringhieri, 1987, p. 105.

(2) C.G. Jung, Tipi psicologici,Opere, voi. VI, Torino,Boringhieri, 1969, p. 478.

(3) G. Edelman, Neura/ Dar-winism, New York, BasicBooks, 1987; A.H. Modell,Other Times, Other Realities,Harvard University Press,Cambridge, Massachusset -London, England, 1990.

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(4) M.L. von Franz, Psiche emateria, Torino, Boringhieri, 1992,p. 3.

(5)C.G. Jung, «Psicologiadell'archetipo del Fanciullo»(1940), in Gli archetipi e l'in-conscio collettivo, Opere,voi. IX, tomo I, Torino,Boringhieri, 1980, p. 156.

(6) C. G. Jung, Aion. ricerche sulsimbolismo del Sé (1951 ), Opere,voi. IX, tomo II, Torino, Boringhieri,1982.

cezioni oscillanti, anticipazioni di processi psichici evolu-tivi, precursori cioè di ulteriori processi coscienti e, ingenerale, di tutti i contenuti creativi» (4).Queste asserzioni ci portano a considerare ciò che acca-de in analisi come qualcosa che necessariamente appar-tiene a diversi livelli di realtà perché presentifica il passa-to, ma viene stimolato dal presente e contiene in nuce ilfuturo; esso appartiene all'interiorità, ma anche all'ester-no, questione oggi ampiamente dibattuta anche dalla psi-coanalisi post-freudiana.Jung, in «Psicologia dell'archetipico del fanciullo», scrive-va: «II motivo del fanciullo non soltanto rappresenta qual-cosa che è stato e che è passato da molto tempo, maanche qualcosa di attuale... un sistema che funziona nelpresente ed è destinato a compensare e rispettivamentea rettificare in maniera significativa le inevitabili unilatera-lità e stravaganze della coscienza» (5).L'immagine del fanciullo intento al gioco mi sembra rap-presentare bene quello stato di fluidità psichica, di ricercadella propria autenticità che cerchiamo di favorire, sia conla disponibilità al rapporto che offrendo un mediatorepercettivo particolare come il «Gioco della sabbia».Nella nostra modalità di lavoro il paziente è dunque spro-nato, ma anche facilitato ad un compito difficile: riper-correre in modo diverso le tappe che hanno segnato eguidano il suo percorso verso un uso più maturo delsimbolo.Attraverso il gioco, che è lo spazio del paradosso, l'lo, chesi percepisce in una situazione in cui si possa fidare,lascia accadere, si confronta con gli affetti configuratidalle immagini costruite, riattualizza simbolicamente ilpassato per ricategorizzarlo e, nel presente, progetta ilfuturo. Ciò avviene utilizzando mezzi più antichi, il gesto,lo sguardo, il tatto, a differenza che nel gioco solo parlatodella situazione analitica classica.Entro il dispositivo della stanza/tempo della seduta, nelladelimitazione del setting, nel limite del vassoio, nellatridimensionalità degli oggetti, si attiva il criterio ordinatoreper eccellenza, il quaternio spazio/tempo.Dal punto di vista della tridimensionalità dello spazio, diceJung in Aion (6), come quarta dimensione possiamo

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assumere il tempo. Dal punto di vista delle tré qualità deltempo (passato, presente, futuro) vi si può aggiungerecome quarto lo spazio dei cambiamenti di stato. Nell'ordinedel setting viene accettato il tempo lineare, quello che puòessere «numerato» dalla coscienza: Kronos/ Senex, leggepaterna e finitezza, ma anche punto d'appoggio e dicontenimento. È questa presenza delimitante a permetterel'apparire del tempo ciclico come Kairòs, la «miscelapropizia» (7), il tempo del fanciullo, del Puer, e non delCaos, ad offrire cioè l'opportunità di riattualizzare erielaborare un'esperienza rimasta fino ad allora potenzialenell'inconscio.Tale esperienza può venire compresa totalmente o sola-mente in parte in quel momento, o, forse per la caratte-ristica ciclicità del tempo psicologico che ritorna sulle suetematiche principali svolgendole con modalità mai identi-che, solo molto più tardi, quando altre immagini e altreesperienze ne avranno ripercorso la spirale.Jung, in Aion, ha tentato di unire le due forme del temponell'immagine della spirale alludendo al modo in cui unlivello superiore sia raggiungibile attraverso il processo ditrasformazione e d'integrazione.Nella composizione eseguita nel vassoio dovremmo dun-que ritrovare un qualche modalità di espressione del tem-po. Questo pensiero mi ha ricordato una «sabbia» che èstata eseguita molti anni fa, nella quale il tempo mi sembraaddirittura uno dei protagonisti: «/ picchi e la ballerina» (IItitolo è stato dato alla scena dalla paziente dopo lacostruzione) (fig. 7 in Appendice).Il primo oggetto posto dalla paziente nella sabbiera sonostati i picchi, di solida roccia, uniti fra loro, situati in alto asinistra. Questi saranno visti dalla giocatrice, già subitodopo la costruzione, come i genitori, come i rappresentantidi un passato culturale, antichissimo, dal quale, nellarielaborazione del gioco, scaturisce la ballerina.Noto che il ritmo del movimento della costruttrice è, cosacapitata poche altre volte, fluido e sicuro, come se lapaziente sapesse, ma in modo non intenzionale, cosa fare.La ritmicità, la scansione del tempo, intesa come organiz-zazione della durata, di un movimento, di un suono, a

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(7) G. Marramao, Kairòs.Apologià del tempo debito,Bari, Laterza, 1993.

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(8) Klages citato da M.Schneider, // significato dellamusica, Milano, Rusconi,1970, p. 149.

(9) Ibidem.

sua volta connessa ad altre caratteristiche come l'inten-sità e la frequenza, è, stando alle ricerche di D. Stern,una delle qualità che contribuiscono alla coesione del Sénucleare che, in una visione lineare e psicoanalitica dellosviluppo, è uno dei momenti che portano alla percezionedella propria identità; una delle tappe nella formazione delSé che comprende i fenomeni che sono indicati conl'espressione «lo corporeo» e che non è solo uno schemasensomotorio, in quanto comprende anche elementiaffettivi.Non si tratta, nel nostro caso, di un ritmo simmetrico, maasimmetrico, conformemente al ritmo naturale, ad esem-pio del respiro, che segna una progressione fluida econtinua di diversa durata, dove il momento del cambiodall'ispirazione all'espirazione potrebbe essere reso mu-sicalmente con una pausa; un'articolazione qualitativa deltempo e dello spazio.Il ritmo, oscillando nella ripetizione continua, gira intornoad un centro inafferrabile che è il punto focale dellarelazione che si stabilisce fra due qualità o due individui,quando ciascuna qualità è chiaramente caratterizzata e diconseguenza permette all'altra di esprimersi. Il ritmo dellacostruzione nella sabbiera ci comunica allora il tipo direlazione attiva in quel momento fra la paziente e il suocentro, il suo Sé, la sua autenticità, che può affacciarsialla rappresentazione nell'esperienza del «tempo debito»(Kairòs) fatta in quel momento e nella relazione fra di noi.Il ritmo è la ripetizione dell'analogo, in quanto non vieneripetuta con precisione la stessa cosa, ma ritorna ciò cheè fondamentale con forme sempre nuove (8).Il ritmo naturale non si svolge in cerchi della medesimaampiezza, perché i cerchi si saldano insieme formandouna spirale. È la spirale della crescita, la cui formazione èdovuta al progressivo avvolgimento intorno ad un centroinvisibile, così da introdurci nel centro stesso della nostravita (9).Di nuovo, anche nel caso del tempo ritmico ritorna dun-que la stessa immagine, quella della spirale. La ballerina,che più direttamene personifica la dinamicità, ilcambiamento dalla passività all'attività, è un movimento dilibertà, abbiamo detto allora, della presa di coscienza

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del corpo che sono e che ho, messa in moto dalle moltesabbie che questa paziente aveva realizzato.I due aspetti del tempo sono anche il nero e il rosso dellepolveri sparse sulla sabbia, Tanathos e Eros, due modi divivere affettivamente il tempo. Insieme ci sono il verdedell'erba che nasce, la tranquillità e la sicurezza che unrapporto intenso ma rispettoso dell'individualità dell'altropermette di esperire collegando la paziente al suo essereautentico, e il giallo stimolante e solare dei fiori sbocciati.Il movimento della ballerina, che ruota su se stessa, ma siinnalza anche verticalmente sulle punte, ripete sia la formacircolare che quella lineare, muovendosi da sinistra, ilpassato, a destra, il futuro, attraverso il presente. Il tempolineare si manifesta quindi nella sequenza dellacostruzione: picchi rocciosi, ballerina, polveri, laghetto,diorite. Il tempo ciclico nella scelta degli oggetti e nelrapporto fra di essi che rappresentano un ritorno sul temaa vari livelli di profondità, in una ricostruzione concreta edemozionale dei vissuti della paziente. I picchi rocciosi sonosì, per esempio, la severità e la pesantezza, l'immutabilitàdi una tradizione e del passato, ma una volta visti eaccettati posandoli con calma sulla sabbia, generano laballerina.Questa possiamo vederla, conformemente al vissuto dellapaziente, come una personificazione del movimento, delsalire e scendere che collega fra loro tempi e livelli. Ilmovimento è stato, a detta della paziente quando dopomolti anni ha rivisto la diapositiva di questa «sabbia» (10),verso il laghetto a destra, nel quale si rispecchia unadiorite, verso le acque placide che riflettono il divino chec'è nell'uomo.

(10) Questa paziente che la-vorava come psicoioga in unservizio pubblico, desideran-do usare il «Gioco della sab-bia» nel suo lavoro, ha chie-sto dopo qualche anno dipoter rivedere le immaginidelle scene da lei costruitedurante l'analisi.

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rpo e cose me segni della

psiche

reietta Dorefrarecesco, Roma

Le immagini che ho costruito sulla sabbia come pa-itesono rimaste nella mia memoria: ogni tanto ri-ipaiono,

ora l'una ora l'altra, gonfie ancora di sfuma-isignificative, connettendo la mia coscienza con pos-lità

o aspetti che sembrano continuamente rinnovarsi.carica espressiva delle immagini non si è esaurita nel

ipo, e la vitalità con la quale appaiono riesce a spiaz-ela mia attenzione che sorpresa, ne è catturata. Questa

;hezza inesauribile ha vinto il mio atteggiamento restio asuo tempo, mi ha fatto considerare la possibilità di

"odurre il «gioco della sabbia» nel mio studio; ma perivare a questo ho dovuto comprendere di nuovo certi

petti della mia esperienza personale.' immagini che avevo tracciato come paziente rappre-

•ntavano un linguaggio troppo intimo, ed era questo cheìnava ogni mia decisione. Ogni «sabbia» impressa nella

ia memoria rappresentava un rivelare o svelare, ancheme stessa, qualcosa che situavo «nel mondo interio-ì»,

un luogo profondamente nascosto e oscuro. Il tera-euta,anche soltanto mettendomi a disposizione gli stru-ìenticoncreti per poterlo fare, mi aveva già dato la icurezza

di «prendere con sé» ciò che, sconosciuto, eniva fuori eaveva bisogno di essere riconosciuto e iccolto.

Inconsapevolmente allora, consapevolmente oggi,>ercepivo la sabbiera e gli oggetti connessi come lamessa n comune di un aspetto intimo del terapeuta.

Solo co-

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gliendo intuitivamente questo come valore si può a pocoa poco, come paziente, aprirsi alla propria intimità permetterla in comune, timidamente guardarla e farla guar-dare da un altro. La sabbiera, quindi, è una possibilità diincontro, di condivisione con il terapeuta a un livello ca-ratterizzato visibilmente dall'intimità, in quanto nessunparticolare può essere nascosto. Accettare, nel ruolo diterapeuta, questo medium comunicativo ha significatomostrare realmente qualcosa a cui davo valore indiscu-tibile, ma che mi ero allenata a mettere in comune solotramite l'intuizione o il sentimento. Scegliere gli oggetti,preparare le sabbiere, creare gli spazi concreti all'internodel mio studio, è stato un lento staccarmi da quell'intimitàsoggettiva che mi dava l'impressione intollerabile di «met-termi a nudo», per aprirmi a una possibilità di oggetti-vazione. Sono passata dal linguaggio assolutamentepersonale della mia esperienza come paziente, a unapossibilità più vasta di scrittura. Quanto esponevo e pro-ponevo alla intimità dello spazio terapeutico era l'imma-gine di me aperta all'analogico, all'irrazionale, all'impre-vedibile.Questo può avvenire in qualsiasi spazio analitico; tuttaviala mia sensazione era che l'uso della sola parola mimantenesse dietro a un velo protettivo, mentre gli acces-sori del gioco della sabbia, esposti così concretamentealla scelta libera e alla manipolazione del significato, mifacevano rendere conto improwisamente quanto di mepartecipasse e si esponesse realmente in quello spazio. Ilsentimento indefinibile che mi accompagnava, nelladecisione di fare entrare il gioco della sabbia nello studio,era molto forte e spesso mi costringeva a fermarmi perriflettere, per rivedere il senso di ciò che stava avvenen-do. A un certo punto ho creduto di capire che questosenso di «svelamento» si riferisse alla problematica del-l'esser donna. Infatti la mia esperienza di donna e quelladi terapeuta facevano sì che il sentimento di intimità nerichiamasse un altro: una sorta di forte pudore e ritrosia.Questi stati d'animo hanno sempre caratterizzato il tenta-tivo, in certi tipi di donna, di esporre il proprio pensiero ouna presa di posizione, per il timore di essere svalutate.Troppo abituata a una cultura che svaluta determinati

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linguaggi espressivi attribuiti al femminile, sono stata for-temente influenzata da quella logica, e del resto, in que-sto senso, il gioco della sabbia è un linguaggio altrettantosvalutabile. Ritrovandomi a parlare con altre donne dicosa provavamo quando volevamo esprimere il nostromondo inferiore e le nostre riflessioni e quali contributicreativi potevamo dare rispetto alla realtà, spesso lasensazione più evidentemente condivisa era lapercezione di un forte sentimento di impossibilità o didifficoltà insormontabili. In effetti, era comunel'impressione, dopo una ricerca di cosa potesse andarbene o potesse essere importante in quel momento, chenulla fosse dawero interessante, che ogni cosa avesse ilcolore dell'inefficacia.Questo modo di sentire rivela, senza ombra di dubbio, uncomplesso paterno che si erge potente e schiacciante difronte a personalità femminili che vivono se stesse comeeterne figlie desiderose di conquistare il Padre (inteso insenso archetipico), di essere come pensano che lui levoglia. Secondo questa ottica nessuna cosa ha sufficien-te dignità per essere proposta: così i paesaggi inferiorifemminili diventano sempre più splendidi e vividi, masoffocanti nella loro urgenza frustrata di essere conosciu-ti da altri, nel loro bisogno di narrarsi. Sembra di chiuderenel petto e nella pancia tesori inenarrabili, che non pos-sono essere contenuti in semplici parole, ne conosciutitramite lo snocciolarsi delle frasi dette. Più il desiderio diesprimersi con parole e pensieri si fa urgente, più sipalesa il senso di impotenza, e più il paesaggio interiorediventa «troppo» ricco. Nel desiderio di diventare e diesprimersi come vuole «lui», il «Padre», si arriva adimenticare di ascoltarsi, fino a divenire sorde, pocoespressive, rigide, separate dalla propria specificità. Ciòche viene interiorizzato è un codice paterno rigido che,soprattutto nel campo della conoscenza, ammette soloun modo di esprimersi o mostrarsi del pensiero; e daquesto punto di osservazione tutto ciò che non si adeguaappare inadatto, handicappato, diverso in sensodispregiativo e va cambiato, riadattato. Nello stessomodo la fantasia e le immagini che ne derivano sonoguardate con sufficienza o appena tollerate. Lottarecontro quel Padre sembra un'impresa impossibile.

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Mentre facevo questa malinconica riflessione, dal buiodella memoria si è affacciato uno dei sogni di Anna, unagiovane terapista della riabilitazione:

Un padre va da Anna per consultarla professionalmente, e porta con sédue bambini: uno è bravo e buono, gli da soddisfazione, l'altro invece èhandicappato e non gli piace. È per quest'ultimo che la interpella. Mentrele sta parlando, il bambino buono sparisce. Il padre, appena se neaccorge, subito si preoccupa, ma il bambino problematico si trasforma inun enorme uccello bellissimo. Le sue piume sono soffici e voluminose,come quelle di struzzo, di un colore giallo-oro, e splende a tal punto chesembra illuminare ciò che gli sta intorno. Sul corpo, sparse, ci sonopiume di color rosso oppure blu, molto rare. Emana simpatia e calore.L'uccello invita il padre a salirgli in groppa: insieme, volando, cercherannoil figlio scomparso. È come se Anna fosse parte dell'uccello, si sentepiccola e sprofondata nella morbidezza delle sue piume. Sa che è amicodei bambini; infatti scende sempre sulla terra, li prende fra le sue piume,insegna loro come muoversi sul suo corpo, poi li porta in alto volando, equindi li rinconduce felici a terra. Il padre, invece, è diffidente e ha paura;Anna sente che è piccolo e meschino. Lui si muove sul corpo dell'uccellorischiando continuamente di cadere, e fra i denti, sprezzante, mormorache non riesce a capire come si possa stare lì. L'uccello ride gioioso edivertito, quindi con voce tagliente afferma che solo lui può sapere comeci si muove e solo lui può insegnarlo. Anna prova una sensazione dirispetto e deferenza. Ha capito cosa voleva dire.

Il Padre vuole che Anna cambi, riabiliti quel piccolo han-dicappato; ma esponendo la sua pretesa perde di vista ilfiglio che lo soddisfa. Al disorientamento del Padre ri-sponde il figlio problematico, capace con le sue qualità diportare Anna sulle ali della fantasia e di farle percepire ilPadre e se stessa da un punto di vista nuovo che sembrarovesciare ogni valore: non è il caso per Anna di obbedirealle pretese del Padre. Un'altra è la sua strada, e in questomodo niente verrà perso. Seguire l'handicappato inferiore,la dimensione negata e disprezzata, può essere il modo discoprire un altro ordine ugualmente vivo e importante.Hillman ci invita a considerare come non ci possa esserecoscienza senza percezione delle differenze, unapercezione che può derivare dalla delicatezza delle dita,dalla sensibilità dell'orecchio, del gusto, dal sentire pervalori, toni e immagini, insomma, utilizzando un talentoartigianale (1).Ritornando alla mia decisione di fare entrare il gioco dellasabbia nel mio studio, comprendevo che era un mezzo

54 (1)J. Hillman, Saggi sul Puer,Milano, Cortina, 1985.

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per facilitare l'uso di questo talento artigianale, radicato inuna sfera fino allora ritenuta privata e segreta. In qualitàdi donna, sentivo di non avere abbastanza utilizzato certecapacità soggettive per entrare in relazione con il pazien-te. La fatica, nell'accettare una tale decisione, stava pro-prio nel rendermi conto di quanto avrei cambiato il miopunto di vista, rispetto sia al modo di presentarmi che almodo di rendere evidente e valido ciò che fino ad alloraavevo tenuto per me e sperimentato nascostamentecome vitale. In definitiva, si trattava di rendere palese ecostruttiva una modalità che generalmente viene vistacon diffidenza, e, soprattutto, di divenire trasgressivarispetto a un certo orientamento teorico.Ho pensato a lungo a questa conclusione, non mi convin-ceva fino in fondo, mi rimaneva sempre un senso di nonrisolto: c'era altro in quella sensazione di «svelamento» edi messa in comune di intimità.Non molto tempo fa, in una seduta molto intensa con unpaziente per lungo tempo difeso rispetto alla propria sfe-ra di sentimento, ho assistito con stupore a un movimen-to della psiche che mi ha rivelato una tenera, pudicafanciulla. Davanti a me non avevo più un uomo, un pro-fessionista serio e sicuro, ma l'eterna fanciulla fuggitiva,una delle molteplici sembianze tramite le quali l'Anima sifa riconoscere. Questa esperienza è stata molto profondae intima. Il sentimento forte di intimità ha richiamato inprimo piano ciò che io erroneamente avevo attribuito almio femminile reale.Il contenuto psichico, che si era mescolato alla difficoltàdi rendere palese quello che io come donna custodivo«dentro», era proprio ciò che della psiche ama la dimen-sione più intima: un'espressione che privilegia la «profon-dità», il «nascondimento», la «solitudine», la«fuggevolezza» ed altro ancora. Senza dubbio unaspetto Anima legato all'essenza di ogni essere, aprescindere se uomo o donna. Sono stata spinta quindidall'incaJzare di quei sentimenti a riconoscere che leimmagini formate sulla sabbia e anche ogni componentenecessario per eseguirle, può partecipare della psiche edesserne un frammento afferrabile.Il gioco della sabbia in uno spazio analitico esprime aper-

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tamente l'accettazione della fisicità come elemento im-portante per attivare un dialogo con la psiche. Potremmoconsiderarlo un tentativo di ascolto e comunicazione glo-bale che possa coinvolgere anche il corpo e la sua con-cretezza. È questo l'aspetto che finora, nel campo dellaconoscenza analitica, è stato negato, svalutato e resoinattivo.Senza dubbio la cura nella scelta degli oggetti e dei lorospazi, da parte dell'analista, comunica una personale di-mensione intima in modo tangibile, ma potremmo dire chequesto facilita quell'atmosfera di continuità fra i duepartecipanti alla relazione analitica, tale da permettere alladimensione più intima della psiche di poter timidamentescivolare in primo piano per farsi riconoscere. Ho osservatola difficoltà della donna odierna di entrare in contatto con lapropria specificità come metafora di un certo movimentodella psiche, così da poter intuire come alcune dimensioniteoriche, che codificano la «lettura» analitica, trascurano esottovalutano aspetti e stile di pensiero che oggi possonoessere la via per guardare la psiche anche da un'otticadiversa, tale da non tralasciare alcun aspetto espressivo ecomunicativo dell'essere umano nella sua complessità.

2. Non è semplice parlare dell'importanza del corpo nellospazio analitico: infatti, la concezione di Jung, secondo cuipensiero e azione sono in pari misura sintomo dell'af-fettività (2), ha generato un diverso atteggiamento neiriguardi di queste due funzioni della coscienza. Se nellateoria pensiero e azione sono messi sullo stesso piano inqualità di sintomo, nella realtà del lavoro analitico il sintomopensiero cura omeopaticamente se stesso con la parola; ilcorpo, che si esprime nell'azione, è invece rimastocongelato nella sua accezione di sintomo. Questa differen-za stimola a domandarsi se sia possibile riferirsi al corpo inmodo da superarne la visione statica di mero sintomo. Ilproblema è in effetti se la parola, espressione del pensieroe della affettività, possa essere affiancata da una fisicitàche sia riconosciuta, grazie alla sua attitudine recettiva edespressiva, come un tramite alla psiche.

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(2)C.G. Jung, «Psicologiadella demenza precox»(1907), in Psicogenesi dellemalattie mentali. Opere, voi.Ili, Torino, Boringhieri, 1971.

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Per iniziare, conviene considerare innanzitutto il concettodi complesso dell'Io, perché troviamo che questo sia labase di ogni considerazione sul ruolo del corpo nel rap-porto con la psiche. Se immaginiamo il complesso dell'locome un cristallo dalle molte sfaccettature, possiamo in-tuire come ognuna delle facce possa rappresentare unaspetto di quella complessità e il corpo ogni volta parte-cipi in modo diverso, in quanto espressione di stati d'ani-mo e di emozioni peculiari. Secondo la metafora delcristallo, la luce illuminerà ora una sfaccettatura ora un'al-tra, mettendo in risalto aspetti diversi, che sfumano viaappena la luce passa oltre o emerge improwisa a illumi-nare altre facce. In effetti, situazioni sociali del quotidianosollecitano e provocano risposte diverse, o emozioni im-provvise scaturiscono dal mondo interiore: questi sono glieventi che mettono in risalto ora un aspetto dell'lo oraun'altro. Il corpo, che partecipa di ogni sfaccettatura, èl'aspetto visibile dello stato del complesso dell'Io. Uncorpo sofferente, teso e chiuso, è il segno espressivo diun'incapacità di tale complesso a trovare un equilibriorinnovato intorno a richieste improwise e nuove (3).La coscienza d'altra parte può arrivare a privilegiare unasola immagine di sé, o poco più, dimenticando o addirit-tura negando la varietà possibile di cui può disporre:questo accade perché la forza del complesso dell'lo simanifesta con una sensazione di compattezza e integritàche può essere facilmente percepita nel privilegiare soloun aspetto di sé. È come pensare che il cristallo, di cuiprima parlavamo, sia composto da una sola faccia e chesempre e solo quella possa essere colpita dalla luce,messa in risalto: lo squilibrio che scaturisce da una simileillusione avrà come segno espressivo il corpo, che allorarisulterà imprigionato in una gabbia di tensioni muscolari,derivate da atteggiamenti stereotipati.Inoltre, osserviamo che la richiesta di analisi viene fattada chi è tormentato da una sofferenza che umilia il pro-prio desiderio di vita; tale grado di dolore porta con sél'alienazione dal proprio corpo perché ad esso viene at-tribuita facilmente la colpa del limite e del peso di unavita: sul corpo può essere scaricata la responsabilità del-l'impotenza, fino al punto di viverlo come ostacolo verso

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(3) Ibidem.

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il mondo (4). Proprio in questo stato di dolore si speri-menta, quindi, quale possa essere la differenza tra lo emondo, owero lo scarto fra l'intenzione e l'azione; è perquesto motivo che vengono favoriti sogni di libertà senzacondizione e la realtà del corpo viene vissuta come unostacolo insormontabile (5).Il corpo diviene oggetto, altro da sé, e su di lui si riversanosentimenti ostili che lo feriscono, fino a rendere la vitaquotidiana realmente molto difficile. Il corpo alienato è ilcanale espressivo tramite il quale si rende visibile quantouna complessità negata possa ferire e indebolire l'Io. Inquesto caso il corpo diviene compartecipe della patologia,e ostentazione di una maschera che, essendo scissa dalreale stato d'animo, diviene l'espressione di una ostinatadifesa tramite atteggiamenti stereotipati ma rassicuranti.Nello spazio analitico, quindi, si potrebbe iniziare a osser-vare il corpo nella sua funzione di tramite espressivo diuna sofferenza del complesso dell'Io. In questo senso, ciincontreremo certamente con aspetti attivi della funzionecorporea, che renderanno palese il fatto che la fisicità èuna roccaforte di atteggiamenti difensivi e di resistenza alcambiamento. Tuttavia, il corpo sofferente, negato, seconsiderato come soggetto attivo compartecipe di unacomplessità di funzioni, diviene, per l'individuo, la rappre-sentazione visibile dell'immagine imperfetta di sé. È notoquanto tale immagine sia soggetta a una negazioneostinata, oppure quanto sia tenuta lontano dalla coscienza,in quanto fonte spontanea di sofferenza e disagio per lesue caratteristiche di ambiguità. Ma è proprio questaimperfezione che ci radica nella nostra realtà e ci permet-te, per la sua provocazione intrinseca, un'apertura versociò che non si conosce della psiche, fornendoci cautela ecoscienza del limite.Il corpo reale, preso per se stesso nella sua naturaleimperfezione, è in contrasto con la sua idealizzazione, cosìricercata dall'attuale civiltà telematica; non è infattiqualcosa che tende alla perfezione, ma piuttosto versoun'immagine fluida di sé, armoniosa e caratterizzata. Inquesto senso c'è spazio per l'imperfezione, che diviene lostimolo per elaborare un nuovo movimento e un nuovoequilibrio. Il corpo così concepito conduce verso la rottu-

(4) S. Natoli, L'esperienza deldolore, Milano, Feltrinelli,1986.

(5) Ibidem.

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(6)C.G. Jung, «Considera-zioni generali sulla teoria deicomplessi» (1934), in La di-namica dell'inconscio, Ope-re, voi. Vili, Torino, Borin-ghieri, 1976.(7)C.G.Jung, Tipi psicologici(1921), Opere, voi. VI,Torino, Boringhieri, 1981.(8)J, Hillman, Emotion,Evanston, Northestern Uni-versity Press, 1992.(9)J. Weir Perry, «Emotionand object relations», in ThèJournal of Analitical Psicho-logy, 1/1970, pp. 1-12.

(10)C.G. Jung, «Psicologiadella demenza praecox»(1907), in Psicogenesi dellemalattie mentali, op. cit.;«Considerazioni generali sul-la teoria dei complessi»(1934), in La dinamica del-l'incoscio, op. cit.

ra di canoni abituali di giudizio e di scelta: il desideriocosciente che si attiva in un corpo lasciato libero in unospazio è quello di scoprire, attraverso le possibilità dimovimento, le proprie capacità espressive. In questa ri-cerca ai confini del proprio equilibrio, il corpo potrebbetrovare consapevolmente quel modo di essere fuggevole,che è un'esperienza di bellezza.La fisicità ci porta quindi a guardare la psiche dal punto divista del limite, rompendo uno stereotipo di perfezione esanità, per accogliere ciò che può emergere, siano essebrutture o energie costruttive: le une non possono esseresenza le altre. Il fine di questo ascolto sarà, meta-foricamente, la ricerca delle molteplici forme possibili diuno stesso equilibrio.Vorrei ora ricordare che Jung collega in maniera inscin-dibile le tonalità affettive all'apparato muscolare eviscerale:l'«affetto» è per lui il nucleo energetico di ciascun com-plesso inconscio, e può palesarsi attraverso varie tonalità.Queste sono sue dirette espressioni e agiscono im-mediatamente sulle innervazioni muscolari e viscerali delcorpo (6), per cui l'lo può subito coglierle e entrare così incontatto con un contenuto imprevedibile.L'affetto, termine che viene utilizzato da Jung come sino-nimo di emozione (7), è quindi un elemento potenzial-mente afferrabile dall'lo, ma non sotto il suo controllo (8).Il suo soggetto è un contenuto inconscio, partecipe di uncomplesso, che si può affacciare o erompere nella co-scienza (9). Certamente non si sa se quel contenutoabbia un aspetto positivo o negativo, e se l'Io abbia laforza di contenerlo, comprenderlo e come minimo memo-rizzarlo, oppure ne possa essere invaso o schiacciato. Lapotenza di quel contenuto può essere violenta o modera-ta, ma a determinarne la possibilità di contenimento èsempre la condizione attivata di più aspetti del complessodell'Io (10).In questo senso il corpo, come parte integrante del com-plesso dell'Io, può essere vissuto come aspetto attivo e dicontenimento nel rapporto con la psiche. D'altra parte,non possiamo ignorare che proprio l'emozione ci fa spe-rimentare una primordiale unità fra mente e corpo, inquanto quest'ultimo partecipa fisiologicamente con le pro-

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prie innervazioni muscolari e viscerali, mentre nello stessotempo la coscienza viene disorientata da quelle sen-sazioni, e finalmente può essere attenta nel suo ricono-scersi confusa. L'emozione parla tramite il corpo, e il corpocontiene l'emozione. Tale binomio è prezioso perché, daquesto punto di vista, il corpo può divenire il campo diconoscenza intuitiva: un orecchio continuamente apertoall'inconscio.Se consideriamo l'emozione come energia che riversaimprevedibilità nello spazio della coscienza, le riconoscia-mo il potere di rendere attiva l'unione mente-corpo, impe-gnandola in una relazione molto efficace. Nessuna fun-zione sotto il controllo dell'Io può tanto, proprio perchéciascuna può essere scissa dal corpo. Osserviamo peresempio il sentimento, che pure spesso viviamo comequalcosa che anima il corpo. Siamo allenati a riconoscereche tra espressione corporea e sentimento sussiste unrapporto essenziale e significativo, ma questo rapportonon è causale: vivendo una gioia, viene vissuta contem-poraneamente anche la sua espressione corporea, ma laconcomitante percezione del corpo non è necessaria-mente consapevole. Se invece dirigo la mia attenzione sulmutamento percepito dal mio corpo, solo allora talemutamento mi appare determinato dal sentimento. Dun-que, in quell'attimo di attenzione vive una unità di signi-ficato, e io mi rendo conto del rapporto causale tra sen-timento ed espressione. Detto questo, si può comprenderecome, nella percezione del corpo, possa venire scom-posta l'unità fra sentimento vissuto e la sua espressionecorporea. L'espressione quindi può essere isolata comefenomeno relativamente autonomo (11). Da ciò consegueche l'espressione può essere riproducibile di per sé, comein senso positivo può fare coscientemente l'attore; o comefacciamo anche noi, quando immaginiamo il nostro corpoche, partecipe di un certo sentimento, lo esprime. Anchel'analista ha la possibilità di vivere, nel transfert analitico,un sentimento non suo, separato nettamente dalla conti-nuità del proprio vissuto. L'aspetto negativo della possi-bilità di separazione è rappresentato dal formarsi di unamaschera espressiva scissa dal vissuto di sentimento, cherimane del tutto inconscio.

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(11) E. Stein, II problemadell'empatia, Roma, Studium1985.

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L'emozione, che emerge in un campo dove la coscienzapuò afferrarla, permette invece alilo di fare un'esperienzaprimordiale di unità fra mente e corpo. L'emozioneinchioda l'individuo a quel momento, alle associazioni cheawengono, all'immagine che appare; ed è proprio il corpo,con le sue tensioni e il suo sciogliersi, che può contenere eguidare la coscienza a una comprensione intuitiva di unnuovo che appare dietro la rottura di uno stereotipo dipercezioni.Si può parlare ora dell'ascolto corporeo dell'analista, chepuò attivarsi in questo senso proprio dove il paziente è piùsordo a tale richiamo. In una situazione di transfert eglipotrà vivere sul suo corpo sentimenti che il paziente nega:si attiverà così un campo psichico in cui, a diversi livelli,potrebbe essere intuita quella separazione, e forse, in certicasi, recuperata da parte del paziente la qualità disentimento di quel vissuto. Inoltre, l'ascolto corporeo èanche un ottimo strumento per aiutare l'analista a distin-guere, in una situazione dinamica di transfert, tra unapropria risposta corretta e un proprio coinvolgimento ne-gativo. L'attivazione di un certo livello di emozione perso-nale sarà infatti il segnale che qualcosa di appartenente alproprio inconscio, o al proprio vissuto, si è intromesso e hainterrotto l'attenzione conoscitiva che serve al paziente.Naturalmente, prestare quell'attenzione al corpo significatrovarsi nella situazione di essere un corpo cosciente disé, cioè aver sperimentato positivamente quell'unioneinscindibile di cui parlavamo prima. In tal modo la co-scienza e il corpo possono muoversi in modo sintonico, eal secondo può essere riconosciuto il suo ruolo di lo e diessere parte integrante di una complessità espressiva cheinternamente è in costante relazione con se stessa. Inquesto caso l'emozione può essere accolta come pro-veniente dall'inconscio, immaginato a questo propositocome un campo di significazioni, di rappresentazioni, dienergia, potenzialmente presenti alla coscienza dell'Io, manon sotto il suo controllo (12).Uno spazio analitico che dia importanza all'emozionecome espressione afferabile dell'inconscio non può cheaprirsi al coinvolgimento della complessità dell'Io e, incoerenza

61(12) J. Hillman, Emotion, op.cit.

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con ciò che abbiamo detto, anche del corpo. Questamolteplicità attivata e riconosciuta può essere il luogodove il contenuto inconscio può venire accolto senzadevastazioni e con uno scopo di relazione. Potremmoanche parlare di un modo indiretto di provocare l'eventoemozionale come incontro con l'inconscio.Il gioco della sabbia è appunto una possibilità di coinvol-gere attivamente il corpo nel setting analitico. Gli oggettie la materia da plasmare richiamano in primo piano ilcorpo con la sua gestualità e le sue risposte sensoriali:l'azione che si svolge intorno e nella sabbiera viene final-mente riconosciuta come linguaggio nel suo rappresen-tarsi. In questo senso il corpo diviene parte integrantenell'ascolto della psiche. Gli oggetti concreti sono pensaticome elementi che possono attivare percezioni inferioriche si coagulano intorno a una forma. Per questa loropotenzialità, l'immagine che viene costruita sulla sabbia èpensata come una possibilità di rappresentare, tramiteuna primordiale struttura, un contenuto psichico, che inquel momento è reso afferabile dalla coscienza, graziealle svariate e plurime associazioni. In questo caso ilcorpo e la materia divengono i contenitori entro cui lapsiche può prendere forma ed essere così accolta ericonosciuta. Il lavoro con la sabbia può essere intesoanche come un lento avvicinamento a quella sensazionedi unità e interezza di cui parlavamo prima, come un darevalore e attivare la propria complessità, anche negliaspetti meno comprensibili e che sono distanti dastereotipi di comportamento fonti di sicurezza. Unallenamento ad accettare l'imprevedibilità di ciò che nonsi conosce.

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A contatto con la materia

Livia Crozzoli, Roma

«Per sognare profondamente bisogna so-gnare con la materia»

G. Bachelard

Per sottolineare alcune caratteristiche e potenzialità dellametodica espressiva del «gioco della sabbia», cominceròcol presentare due immagini, realizzate durante la stessaseduta, da una giovane studentessa di psicologia di 23anni al suo primo «contatto» con la sabbia. Eravamoall'inizio del secondo anno del lavoro analitico, che ha laparticolarità di essersi svolto presso il servizio pubblicodella USL RM 3.

// gioco della sabbia come novità nel setting analiticoQuesto metodo di lavoro venne ad inserirsi come unelemento di notevole cambiamento nella relazione anali-tica. La paziente ne conosceva l'esistenza attraversoun'amica che l'aveva utilizzato nella sua analisi persona-le e attraverso di me che fin dall'inizio le avevo prospet-tato la possibilità di poterla sperimentare, non appena ilmateriale e la sabbiera fossero state a disposizione.Voglio ricordare comunque che il gioco della sabbia an-che per chi lo utilizza fin dall'inizio dell'analisi, imponesempre al paziente un compito nuovo, un'apertura chegenera instabilità ed incertezza. Pur «alla presenza» del

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terapeuta, il paziente è solo di fronte al vuoto della sab-biera, in uno stato di necessità, di ricezione ed ascoltodel proprio mondo interno, in un'atmosfera piena di si-lenzio.Questo gioco obbliga ed insieme facilita il superamentodelle barriere emotive, delle riserve e resistenze mentali,presenti nelle nostre comunicazioni verbali, maggiormen-te legate alle difese e alle ripetizioni stereotipe di noistessi e dei nostri grovigli emotivi, affettivi e mentali.Nel gioco non è possibile ripetere le strade già percorsee già note, bisogna sceglierne di nuove e come mi disseuna giovane adolescente «è più difficile che con leparole». Rispetto alla situazione terapeutica, ero moltointeressata a come la paziente, che chiameremo Paola,si sarebbe espressa, se si sarebbe lasciata penetraredalla corporeità, dalla fisicità del contatto con la materia,come avrebbe accolto il valore dell'esperienza, qualiemozioni ed affetti sarebbero stati suscitati nel campo.Certamente questa «presenza» nuova nel setting intro-dusse tra noi un elemento di maggiore vicinanza ed inti-mità, legato non solo all'utilizzazione di una stanza diver-sa, che al servizio 'era considerata la mia stanza, maproprio all'accostarsi della paziente al gioco della sabbia,a qualcosa che sentivo profondamente mio, come unbene ed uno spazio personale a cui le concedevo conpiacere l'accesso.Per la paziente che nell'adolescenza aveva subito unricovero ospedaliere per anoressia e all'inizio del lavoroanalitico presentava una chiusura e una difficoltà, quasiun blocco sul piano delle relazioni, dello studio e delloscambio con l'altro, questa variazione ebbe un forte im-patto emotivo.La novità provocò naturalmente titubanze, perplessità,dubbi: «sarò capace? sarò brava? farò cose belle comela mia amica?». Ma contemporaneamente ai timoriespresse il suo desiderio di cambiamento: «però sentogiusto il nuovo, non so come sarà, che porterà, devosuperare la diffidenza».Queste sue difficoltà mi resero più chiaramente consape-vole delle mie aspettative e dei miei desideri; ricordo chepensai che probabilmente ci voleva molto tempo prima

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che Paola ponesse mano al gioco e che forse non sisarebbe mai accostata a questa metodica espressiva.

Prima seduta con il gioco della sabbiaEravamo ormai da alcuni incontri nella nuova stanza.Paola aveva scelto come suo posto una sedia vicino almuro, come disse successivamente «per sentirsi protettae poter controllare tutto lo spazio della stanza e special-mente una porta chiusa, di fronte a lei». In questaparticolare seduta, appena entrata, la paziente si mise aguardare silenziosamente con molta attenzione indireziono della sabbiera.Mi apparve come una bambina che osserva, che nonosa avanzare e toccare ciò che desidera ed insiemeteme. Glielo sottolineai, dicendole che quando avrebbevoluto, tutto era a sua disposizione.Certamente muoversi, alzarsi verso una novità scono-sciuta o quasi, avrebbe sottolineato la possibilità dellapaziente di aprirsi al nuovo, allo sperimentare, al fareconcreto e creativo, proprio del gioco. Era un rischio, mainsieme un atto di differenzazione e di apertura a nuovesignificazioni di sé.

Fase inizialeCon apparente calma, ma con determinazione Paola sialzò e si avvicinò alla sabbiera. Guardò attentamente edin silenzio, poi si diresse alle scansie. Prese solamenteun piccolo cavallo nero disteso a terra, che depose vicinoal vassoio. Quindi iniziò a far scorrere ambedue le mani,sopra la sabbia, commentando «è bella, è tiepida».Lavorava corposamente ed anche abbastanzavelocemente, formando e riformando le dune di undeserto.Nel suo lavoro, Paola mi apparve seguire una linea as-sociativa legata alla percezione reale del materiale. Co-munque mi colpì il suo modo di lavorare la sabbia, que-sto giocare con la materia, a piene mani, che denotavauna tensione dinamica all'espansione corporea, versouno spazio non ridotto, non coartato. Il suo operare miappariva da un lato teso alla realizzazione di questodesiderio

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di movimento e dall'altro volto a rappresentare un'imma-gine legata esclusivamente alla corrispondenza con que-sto materiale sabbioso a sua disposizione: creare duneche si ripetevano sempre uguali e non si definivano mai.Sul momento controtransferalmente pensai che la sceltadi un deserto poteva rappresentare la sua situazionepsichica interna ed esterna, sentita come un'esperienzadi solitudine desertica, arida, senza vegetazione, da cui ilcavallino che pur aveva scelto in precedenza, era deltutto escluso.

Seconda faseImprowisamente una domanda da parte di Paola «sesoffio, è possibile?» ed insieme uno spostamento dall'al-tro lato del vassoio.La paziente soffiò con energia sopra le dune, modifican-dole, nel senso di rendere più morbidi e più sfumati icontorni.È come se Paola, che ha sentito alitare il soffio del vento,inteso come rappresentante dinamico di un cambiamen-to, di uno slancio vitale, fosse diventata lei stessa vento,andando a soffiare dalla direziono da cui il vento prove-niva.Incominciai a sentire la paziente più viva. La vedevooccupare uno spazio ed avere un corpo mobile, sciolto,che in genere non rivelava, non solo nel suo camminaree procedere silenzioso e trattenuto, ma anche nel suostare seduta, composta, quasi per mantenere il propriocorpo in una posizione di immobilità, come quando na-scondeva le mani sotto le cosce. Questo atto del soffiaremi apparve quasi una carezza ariosa ma consistente chesfiorava la sabbia, muovendola e rendendo armoniosa edelicata la superficie ed insieme un atto di accostamentocreativo e di contatto penetrativo con la materia. Lospostamento della sabbia attraverso il soffiare e paral-lelamente lo spostamento corporeo mi sembrarono indi-care un cambiamento reale di prospettiva e di partecipa-zione emotiva all'evento. Questi atti indussero in Paola ildesiderio di una nuova

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(1) La distinzione delle «dueforme del pensare» costitui-sce un tema di fondo delpensiero junghiano. L'imma-gine che appare nella pro-spettiva dello scontro tradesiderio e realtà e mira almantenimento dellacondizione già esistente, èconsiderata una «fantasiapassiva», mentre «lafantasia attiva», che èprovocata da un atteg-giamento della coscienzateso alla percezione dei con-tenuti inconsci, è considera-ta lo stimolo per superare ledifese.

rappresentazione, diversa dalla precedente, ma che daquesta prende inizio e ne diviene la continuazione.Potremmo considerare che il soffio creatore di formenuove, di dune morbide e sinuose, ha costituito un mo-mento molto importante, che sottolinea l'irruzione nel gio-co del «pensiero fantastico», che si incontra e collaboracon il «pensiero diretto» definendo insieme un nuovoprogetto (1).È come se questo pneuma vitale avesse trasportato lapaziente lontano dalla percezione reale del materiale,propria del pensiero diretto, per dirigerla verso esperien-ze, sensazioni, emozioni, sentimenti più profondi. Questoevento dinamico, emerso attraverso la fisicità, lasensorialità e la corporeità del contatto diretto con lamateria, che il gioco della sabbia consente, aprì allapaziente una possibilità concreta di approfondimentochiaramente visibile nell'immagine (fig. 8 in Appendice).Se della prima rappresentazione ho sottolineato soprat-tutto l'aspetto difensivo, di questa seconda vorrei indicarel'aspetto innovativo, che consente a Paola di mettersi incontatto, in ascolto e di fronte alle immagini ed alle vicen-de del proprio mondo interno.La partecipazione emotiva all'evento che Paola andavarappresentando, fu scandita dalla accuratezza e dallaponderazione di ogni gesto, di ogni scelta. In genere ilcambiamento è riconoscibile seguendo la scansionetemporale e spaziale della messa in scena. Il tempoacquistò infatti per Paola un ritmo diverso e lo spazio,conquistato e riconquistato, rifletteva un approfondimentosempre più puntuale del tema. Quando i ritmi del lavorodei pazienti mutano, rivelano un aspetto riflessivo propriodell'agire psichico e denotano il confronto in atto tra ilcomplesso dell'io e la fantasia che emerge.Paola cominciò a lavorare sul lato sinistro del vassoio, inbasso, vicino a sé, scavando la sabbia e versandocisopra dell'acqua, a goccia a goccia. «È pioggia», com-mentò.Il vento, quale aspetto spirituale, ha portato con sé lapioggia, l'acqua che nutre la terra e può vanificare ildeserto arido.

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Sempre lentamente e con pause riflessive, Paola conti-nuò ad avanzare con il suo discorso per immagini. Inserìdella vegetazione, inizialmente utilizzando il lichene,elemento vegetale povero, parassita delle piante. Voglioriferire come associazione alla storia della paziente, cheun parassita intestinale era stato considerato inizial-mente, durante il ricovero ospedaliere, l'elemento fisicoscatenante della sua anoressia, all'età di quattordici anni.Paola dispose questo materiale secco e consistente altatto, nell'angolo in alto a destra, poi lo divise in due partidistinte, separando e distinguendo i colori diversi.Aggiunse a questi la vegetazione verde ed arancione,costituita da un materiale differente, morbido, che Paoladefinì «più fresco», più vivo.A questo punto con una rapida decisione ed un gestoveloce inserì, come un po' di nascosto, una pietra diforma triangolare proprio nel centro del vassoio, con lapunta all'ingiù.Successivamente riprese il contatto con la materia inmaniera lenta e meditata, dispose una valva di unaconchiglia nella parte destra in basso, ricoprendola condella sabbia, modificandone più volte la visibilitàall'esterno, quasi a farla appena intravedere.Scelse quindi tré animali preistorici, commentando «sonobruttissimi».Mise il primo, in piedi, seminascosto, davanti al mucchiodei vegetali più vicino a sé. «Questo animale sta osser-vando la conchiglia, che è come un artiglio, le ossa di unpiede di un animale preistorico». Sembra che Paola sipossa accostare ad «osservare» una parte di sé, cheinizia a dissotterarsi ed intravedersi. L'artiglio scheletricomi pare fare un chiaro riferimento alle sue tematicheanoressiche. È una parte di sé fossile, non vitale,scarnificata, sentita pericolosa e distruttiva. È «unartiglio» che successivamente nelle sue sabbie diventeràla rappresentazione di una mano, quella parte del propriocorpo con cui si viene a contatto con se stessi e conl'altro.Aggiunse poi altri due animali preistorici, ben piantati aterra, affrontati, «stanno lottando per il territorio, per lefemmine».

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Quindi dispose con cura e lentamente un'altra valva diconchiglia in alto a sinistra, sollevata e ben visibile. Lapaziente commentò, versando dell'acqua, che «dallaconchiglia nasce una sorgente che arriva fino al mare».Successivamente ci fu una lunga pausa prima di conti-nuare il lavoro.Paola osservò l'insieme già realizzato nel campo, che lastimolò all'ascolto di una nuova percezione interna. Infattiriprese il lavoro versando dell'acqua nell'angolo in cuiaveva iniziato lo scavo.Questa successione temporale ci testimonia l'espandersidi un pensiero per immagini che si sviluppa attraverso ilcompletamento e l'approfondimento dell'idea iniziale.L'acqua, prima pioggia che bagna solo la superfice, poisorgente che nasce dalla terra ed arriva fino al mare,sembrò consentirle un'ulteriore possibilità di contatto conla «materia» reale della sabbia e con i propri contenutiinterni.Quando un paziente nel gioco della sabbia non utilizzasoltanto gli oggetti a disposizione, ma mette «mano allamateria» primordiale, è da considerarsi un momento moltosignificativo della dinamica psichica, in quanto esprime laricerca di un contatto con emozioni profonde che nonhanno ancora una forma oggettivabile e riconoscibile.Paola iniziò a mescolare l'acqua alla sabbia e con questasostanza impastata dalle sue mani, lavorò a costruire lacosta, con movimenti lenti, lunghi e delicati. Nell'impastocon la materia, come scrive Bachelard (2):«anche la mano ha i suoi sogni, le sue ipotesi. Aiuta aconoscere la materia nella sua intimità. Questa réverieche nasce dall'impasto è una réverie intima... con un ritmoche prende tutto il corpo. La mano prende direttamentecoscienza del successo progressivo dell'unione tra terraed acqua».Con l'impronta delle sue dita Paola formò e definì alcunestratificazioni della costa, ai piedi della quale si andavaampliando e delineando con più nettezza uno spazioazzurro di approfondimento, che acquistava una propriaforma, raccolta, conclusa in sé.Questo lavoro costruttivo della costa che, come Paoladisse, recava «l'impronta e la narrazione della sua storia

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(2) G. Bachelard, Psicanalisidelle acque, Como, Red,1987.

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passata», le consentì di aggiungere un altro animale prei-storico vicino alla sorgente, sottolineando «che è in alto eche guarda spaziando verso il mare». Ci fu di nuovo unasosta e poi come atto finale la paziente fece cadere dellegocce d'acqua sopra il lichene verde e sulla sabbia tra idue animali preistorici in lotta e quello isolato sulla destra,sottolineando di percepire «con piacere, attraverso lasabbia bagnata, l'odore stesso della pioggia». Aconclusione del lavoro mi disse che la costa «è una terraemersa dal mare. È la parte che mi piace di più, mostranella successione degli strati i segni del tempo, i segniche la terra lascia del passato, le varie fasi dell'emersionedella terra» (fig. 8 in Appendice). Come solitamentefaccio con i miei pazienti, chiesi a Paola come potevaintitolare questo quadro; lo chiamò «i tesori nascosti».Sul momento non ci furono altre domande o commenti,ne suoi, ne miei.Successivamente nel tempo Paola mi riferirà come asso-ciazione ad una tematica emersa in seduta, che i «duedinosauri in lotta tra loro, agivano e reagivano all'istintodel momento, mentre quello in alto a sinistra guardava aldi là della lotta, al senso della vita, al di là degli eventiquotidiani, al tutto che si trasforma e pensa per capire inun senso più vasto».Questa distinzione e questo valore poterono essereespressi solo nove mesi più* tardi, quando, attraverso illavoro analitico, le tematiche persecutorie e tirannicheavevano incominciato a cedere: «i dinosauri sono ormaiscomparsi» mi esplicito infatti la paziente. Durante questimesi di «gestazione» l'immagine degli animali preistoriciè stata da me spesso richiamata nel lavoro analitico perrappresentare le sue difficoltà di rapporto, il terrore dellapropria ed altrui violenza, il timore della propriasessualità.Le sue immagini costituivano tra noi un gergo simbolico,corrispondente alle valenze interpretative della paziente epotevano quindi facilmente essere accolte, sollecitando inlei il senso della loro ineludibile appartenenza. Paola, colpassare dei mesi, iniziò ad utilizzare lei stessa questesue metafore.

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Facendo sempre riferimento al tema dei dinosauri unavolta nel sottolineare la sua tendenza all'isolamento, midisse: «Ho un tiranno dentro, una presenza oscura, mi-nacciosa che può fare del male, come gli animali preisto-rici in lotta per la soprawivenza. È una lotta di forzecontrapposte: tra gioia, tenerezza ed insieme violenza».Alla fine del processo analitico espresse che «questianimali preistorici si erano sciolti nella sabbia, come seormai potessero salire dalla sabbia e divenire parola».Attraverso il percorso verbale di Paola si può osservarecome la scelta iniziale degli oggetti costituisca il preludiodella nascita e dell'integrazione di parole nuove, che purci appartengono.

Caratteristiche e potenzialità del gioco della sabbiaDurante la seduta che ho descritto la paziente mi indicòvisibile nella sabbiera, la traccia di un cammino da rea-lizzare, che partendo dal primo animale preistorico, pro-cedeva attraverso la zona della lotta per arrivare in altoalla sorgente: «è la meta da raggiungere». Questaindicazione mi sembra simboleggiare il processo ditrasformazione ed il cammino che la paziente dovevaintraprendere. Era un'anticipazione per immagini del pro-prio processo di crescita, come si è rivelato durante illavoro analitico successivo.Come abbiamo potuto osservare attraverso la descrizio-ne del lavoro, la paziente avanzando nel gioco, costrui-sce e svolge pian piano un racconto. Lo conclude nelmomento in cui sente una piena corrispondenza econsonanza tra la rappresentazione e la propriainteriorità. Sempre Paola così ha commentatol'esperienza: «i quadri della sabbia danno un senso dicompletezza e li si vive con profonda intensità». Ilgiocatore sperimenta profondamente il senso dell'ap-partenenza di ciò che ha rappresentato, anche se non necomprende il significato.Le scene del proprio gioco, essendo legate ad emozionie sentimenti profondi, sembrano imporsi al paziente evengono a costituire un discorso nuovo di sé attraversole immagini.

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I pazienti essendo impegnati nel gioco, non esprimono onon avvertono sul momento la fatica del lavoro dellapsiche!Potrei dire che secondo la mia esperienza quanto maggiorisono l'intensità e la fatica tanto più emergono contenutiprofondi.Come suggeriscono Aite-Crozzoli (3), «Poter attivare ri-sposte trasformative dipende dall'attitudine della coscienzae dalla sua capacità di confronto con l'inconscio emer-gente».Paola ad esempio commentò successivamente: «C'è unagrande pesantezza, non nel farlo, ma come se dopo nonpotessi reggere quello che ho fatto, quello che ho detto,quello che ho provato tisicamente». La rappresentazionefinale è qualcosa che pur apparendo talvolta del tuttoinaspettata ed indecifrabile sul momento, appartieneinteramente al giocatore «l'ho fatto io con le mie mani», piùdel sogno che sembra capitare durante la notte quasicasualmente. Come Jung stesso osservava (4): «è unimpulso oscuro, quello che alla fine decide dellaconfigurazione, un "a priori" inconscio preme verso ildivenire della forma». L'immagine realizzata sembracorrispondere ad una parte di sé che nasce dall'interno,che non si sapeva se non oscuramente che c'era e che siimpone profondamente, consentendo un processo didefinizione dei propri stati emotivi profondi e disturbanti edun processo di percezione di sé nuovo.Ritornando all'immagine di questa paziente, possiamosottolineare che la sabbia rappresenta l'interpretazionepersonale della propria situazione psichica conflittuale,che, attraverso la vita ed il lavoro analitico, si deve sno-dare fino a raggiungere i tesori nascosti, gli elementi daestrarre e da scoprire.La rappresentazione costituisce una sintesi per immaginidel proprio mondo interno, in quel particolare momentodella vita, ma in essa naturalmente sono presenti elementidel passato ed anche del futuro. La rappresentazione nonè infatti da considerarsi solo un residuo del passato, anchese ne contiene degli elementi, ma rivela il mito personaledella paziente.

(3) P. Aite - L. Crozzoli, «IIgioco della sabbia», in Trat-tato di psicologia analitica,Torino, Utet, 1992, voi. Il,p.615.

(4)C.G. Jung, «Riflessioniteoriche sull'essenza dellapsiche» (1947/54), in La di-namica dell'inconscio, Ope-re, voi. Vili, Torino, Borin-ghieri, 1976, p. 221.

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(5)/dem.pp. 177-251; «Con-siderazioni sulla psicologia delsogno» (1916/18), in La dinamicadell'inconscio, op. cit., pp. 253-300.

In altre parole costituisce la strutturazione interna che haagito lungo tutta la sua storia, con un passato dianoressia, che ancora agisce nel presente.La arcaicità e la preistoricità della scena, che ci rivela lalontananza dalla coscienza degli stati emotividestrutturanti possono essere colti in alcuni elementiespressi nel quadro: quali ad esempio il tema dellafemminilità, della aggressività e della pietrificazione deitesori «nascosti» secondo le intenzioni verbali dellapaziente, ma in realtà in parte ormai affioranti, attraverso«il fare della psiche». Nella rappresentazione di Paola èanche possibile cogliere elementi del futuro, contenuti cherivelano, come un'anticipazione, le possibilità evolutive etrasformative del conflitto.Sembra essere presente nel giocatore una consapevo-lezza inconscia della propria conflittualità ed una proget-tualità, quasi un presagio del cambiamento e del propriopossibile sviluppo (5).Quando le emozioni disturbanti ed i nuclei conflittuali, acontatto con la materia, prendono corpo e forma e diven-gono visibili, sembrano far emergere una prospettiva euna via da seguire.Paola ha indicato con il gesto della mano e con le paroleil percorso e la meta da raggiungere. Il cambiamentosembra awenire nel giocatore attraverso un'opera diapprofondimento e di scavo: nel passaggio dall'insabbiarei propri tesori al coraggio di osservare cartiglio fossile», dilottare per il recupero della propria femminilità e diprocedere verso la conquista del proprio corpo e delproprio spazio vitale. Mi sembra che Paola abbiaprecisato anche la sua meta:la capacità di «osservare gli eventi ed il senso della vita»,beneficiando dei doni non più nascosti della feconditàdella terra e della femminilità, metaforicamente riconosci-bili ed indicati nella sorgente d'acqua proveniente dallaconchiglia e nello spazio che si apre. Questa possibilità ditrasformazione del nucleo conflittuale comporta per lapaziente un innalzamento del livello di coscienza, che mipare indicato dalla posizione elevata della sorgente edell'animale preistorico. Il quadro diventa una sintesinuova e non ripetitiva della

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propria situazione psichica, che permane a lungo neltempo e si radica in maniera incisiva all'interno del giocato-re, ed anche nel terapeuta, che ne condivide l'esperienza.Già nel cogliere le diverse sfaccettature di questa solarappresentazione, ed ancor più se si potesse seguirel'intero processo terapeutico, attraverso le immagini, di-venterebbe chiaramente visibile quell'operare simbolicodella psiche, che tende all'integrazione ed all'unità armo-nica tra coscienza ed inconscio.Come sottolinea Paolo Aite (6): «La raggiunta visibilitàimmaginativa di un vissuto, indica una nuova possibilitàoperativa acquisita dall'individuo e quindi un progetto rea-lizzato ed aperto ad un possibile ulteriore cambiamento.La configurazione dell'immagine in rappresentazione èl'espressione più adeguata e precisa di un nuovo rapportodi forze tra coscienza ed inconscio. Essa se mette inscena un vissuto, organizza anche l'esperienza stessa e lamodifica».Nella rappresentazione vengono espresse le parti violente,pericolose, disturbanti, ma anche le speranze costruttive,l'emergere di una forza propulsiva, quella della speranza diun cammino, che in termini junghiani chiamerei la forza delSé.

Campo dinamico interpersonale

Passarono nove mesi precisi, proprio il tempo naturaledella gestazione, e la paziente riuscì a dirmi che «usarela sabbia era stato come aprire le porte del proprio corpo,come se mi si aprisse tutto. Mi ha spaventato. C'era unacorporeità spaventosa come se si stesse lavorando lapropria carne, il proprio corpo».Essendosi attivato un contatto profondo con la «materia»corporea, la paziente aveva provato il bisogno di taceree di accostarsi pian piano e con prudenza al mondo cheaveva osato rappresentare.Questi commenti sono stati taciuti per nove mesi durantei quali non riprese il lavoro con la sabbia, sentito troppocoinvolgente.Attraverso l'operare della psiche e la collaborazione trapensiero diretto e pensiero fantastico, Paola aveva potuto

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(6) P. Aite, G. Gabriellini,«Contributo allapsicoterapia analitica deglistati psicotici», (conferenzatenuta in occasione delConvegno Italiano diPsichiatria del 1991, pressoSalsomaggiore).

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superare le barriere presenti nella verbalizzazione emettersi in contatto con temi già in parte divenuti ac-costabili attraverso il lavoro analitico precedente e conquei tesori ancora nascosti del proprio mondo interno. Ingenerale il terapeuta nell'accostarsi alle immagini rap-presentate nella sabbiera tiene conto in primo luogo del-l'analisi strutturale della scena, legata alla sequenza tem-porale, all'utilizzazione ed alla disposizione nello spazio,alla scelta degli oggetti, al ritmo del lavoro del paziente.Questi elementi offrono una cornice sintattica dell'espe-rienza ludica, a cui ancorare le altre valenze psichiche:quali le percezioni, le associazioni, le emozioni, gli affettied in particolar modo le istanze transferali e controtran-sferali presenti nel campo ed agenti nel contesto diquella particolare seduta ed in quel momento specificodel processo terapeutico.Proprio per queste considerazioni ho scelto una partico-lare lettura interpretativa del quadro della paziente, colle-gata alla dimensione corporea reale e simbolica attivatanel campo della sabbiera ed in quello della nostra rela-zione.L'uso di questa metodica espressiva che comporta per ilpaziente l'esperienza della corporeità, della fisicità, dellasensorialità, del movimento, a mio parere, richiede allostesso modo la presenza corporea del terapeuta. Il giocodella sabbia diviene il corpo dell'ascolto analitico ed amio parere attiva la capacità di ascolto, di partecipazionee di restituzione del terapeuta. In questa situazione adesempio, mentre Paola strutturava la costa, percorrendocon le dita la sabbia bagnata, quasi carezzandola, misono identificata in quella sabbia accarezzata ed hosentito nel mio corpo la sensazione fisica di calore che sipercepisce al passaggio del liquido amniotico, chefuoriesce insieme al figlio, al momento del parto.Naturalmente è molto significativo per il terapeuta quan-do entra in scena il proprio controtransfert corporeo. Siawia la necessità di comprendere la comunicazione inatto e la trama della relazione. L'analista si deveinterrogare su ciò che sta awenendo, .con unaelaborazione silenziosa, senza spaventarsi, di-

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fendersi o rifugiarsi in interpretazioni verbali, fino a dive-nire consapevole di come questa percezione «giochi» nelcampo della relazione.Mi chiesi infatti cosa stava nascendo in me terapeuta,cosa stava nascendo nella nostra relazione ed in primoluogo cosa stava nascendo in Paola.Forse quella costa antica, costruita dalle sue mani conl'impasto della sabbia e dell'acqua, nato dall'incontro ferti-lizzante e creativo dell'acqua e della terra, rappresentavala nascita del suo corpo, una presa di contatto con il suoio corporeo.Questa esperienza della paziente, che nel mio vissuto hopercepito come un parto, è certamente un atto creativoche, come disse nove mesi più tardi «sconquassa, aprele porte del proprio corpo», ma permette la nascita diqualcosa di nuovo e vitale, che rompe gli stereotipi pre-cedenti.Potremmo dire che io, facendomi sabbia, sono statamolto aperta e disponibile a concedere la mia presenzacorporea, creativa come di una madre che partorisce edinsieme che la paziente ha richiesto questo tipo dipresenza all'evento, alla nascita della terra-corpo, checostituisce il preludio alla scoperta di sé e del senso dellavita.Sappiamo quanto è difficile e faticoso per qualsiasi pa-ziente con esperienza di patologia anoressica, prenderecontatto con la propria corporeità e lavorare con la «pro-pria carne».Con il «mio» silenzio, pregno della percezione della na-scita del corpo all'interno della nostra relazione, e con il«suo» silenzio prudente sulle profonde emozioni corpo-ree che la spaventavano, abbiamo permesso che solosuccessivamente, al momento giusto per la paziente,potesse divenire parola da condividere con il terapeuta.Ho accolto e riconosciuto dentro di me il desiderio dellapaziente di prendere contatto con la propria corporeità.Sicuramente la mia esperienza corporea trasformata inimmagini e parola silenziosa ha rappresentato una primametabolizzazione dell'evento con una funzione antici-patrice e strutturante, anche se nessuna interpretazionedel mio vissuto e della nostra relazione è stata alloraesplicitata.

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Il mio silenzio analitico e la mia partecipazione all'eventohanno permesso a questa nuova dimensione di crescerenel rispetto dei tempi fisiologici necessari, rappresentan-do per Paola la possibilità che il terapeuta potesse con-tenere il nuovo che irrompeva in lei: la nascita del con-tatto con il proprio corpo.Nove mesi più tardi infatti la paziente ha potuto esprime-re questo segreto «nascosto», non più travolgente, fa-cendolo divenire parola condivisa col terapeuta.Quando i contenuti possono essere rivelati all'altro,denotano un'assunzione responsabile interioredell'esperienza e l'indicazione di un rapporto reale con ilproprio corpo. Il contatto con la propria corporeità el'evento della nascita comporta per Paola anche un'altraesperienza, sempre difficile, la separazione dalla madre,il muoversi nello spazio verso l'esistenza, l'autonomia ela propria individuazione.Mi sembra che la pietra seminascosta nel centro delvassoio costituisca non solo l'ombelico del quadro, maanche l'indicazione di un cordone ombelicale con il pas-sato, con la propria storia, con la madre e con l'analista.Questo elemento centrale non era stato minimamentesottolineato dalla paziente nel suo commento verbale,quasi le fosse «scappato dalle mani», rilevando un temanon ancora accostabile.

Sogno della nascita e della relazioneInteressante sempre per cogliere il flusso e la corrispon-denza dei vissuti non espressi ne mediati dalle parole,tra i due partecipanti alla relazione analitica, è il sognodella paziente, la notte successiva.In genere quando «scatta» un sogno, collegato alle im-magini attivate nel contatto con la materia, significa chesi è toccato e si è messo in moto un nucleo profondo,problematico, ma strutturante dell'individuo. Dalle paroledi Paola: «mi trovavo dentro una piccola scatola di legnochiaro, non molto spesso. Dovevo esercitarmi per girareed arrivare alla luce. Era presente il maestro di nuoto,una persona giovane, scherzosa, verso cui provo unasimpatia ricambiata, che

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nel sogno come nella realtà, mi insegna come devomuovermi.Ho iniziato a fare questo esercizio e mi rendevo contodelle difficoltà, che incontravo.Era infatti un'esperienza forte, provavo una sensazione diisolamento e di sentirmi chiusa dentro uno spaziolimitato. Il maestro di nuoto mi indicava che bisognavaessere seguita da uno psicoanalista per completarel'esercizio della scatola ed uscire fuori nello spazio».Nella seduta collegammo questa posizione a quellafetale e Paola esclamò subito dopo «ora mi viene inmente, era come un esercitarsi per reggere la gravita.C'era un timore di non potercela fare da sola, quandofinirò qui l'analisi con lei».Era la prima volta che la paziente faceva in prima perso-na riferimento al tema della conclusione dell'analisi. La«gestazione» presente nel sogno indicava non solo ilbisogno del contenitore uterino, sabbioso ed analitico,ma anche la necessità di esercitarsi per nascere edandare nello spazio, reggendo il peso del corpo, allapresenza di un maestro di «attività corporea», un Animusscherzoso e facilitante, con il sostegno psichicodell'analista. Mi sembra che il sogno metta in evidenzaalla paziente l'importanza del suo impegno attivo econsapevole, come aveva sperimentato lavorandoattivamente a contatto con la materia.Il sogno notturno, che ripropone il tema della nascita dame sperimentata durante la seduta, mi definì e confermòl'ipotesi interpretativa della lettura del quadro come na-scita del corpo, da integrare nello spazio dell'io e quindidella coscienza di sé.Nel sogno della paziente c'è da notare un passaggiomolto importante. Dalla utilizzazione di elementi naturali,come sabbia e pioggia, e di oggetti quali conchiglie edanimali preistorici, lontani nel tempo e quindi lontani dallacoscienza, si passa alla personificazione, che ci mostrala metabolizzazione dei contenuti emersi attraverso il la-voro con la sabbia: la nascita della terra, la nascita delcorpo ed ora la nascita di Paola. Il sogno ci accosta aduno dei temi di fondo presenti nel quadro, quellooriginario, primario della propria nascita e

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del riconoscimento della propria storia e l'indicazionedelle problematiche da affrontare: come l'incontro con ilmaschile e la separazione dall'analista.L'esperienza del gioco della sabbia, che ha provocatol'apertura delle porte del proprio corpo, ha facilitato perPaola fin dalla seduta successiva, attraverso il contenutodel sogno ed altri eventi significativi della realtà, la pos-sibilità di comunicare tematiche mai espresse in prece-denza, legate al tema della sessualità ed a quello dellanostra relazione.La nascita del corpo comporta l'impossibilità di negare lapropria sessualità e la necessità di confrontarsi con ilrifiuto e la paura di affrontare la propria maturazionesessuale e relazionale, fino ad allora in Paola quasi bloc-cate totalmente.Rispetto alla definizione della nostra relazione, la miacomprensione è stata arricchita dalla connessione dellivello transferale e controtransferale con quello onirico equello offerto dall'immagine del gioco della sabbia.Si è manifestato con evidenza nel campo della nostrarelazione il tema della vicinanza e della separazione trame e la paziente, costituendo l'inizio di un tempo nuovodell'analisi, verbalizzato e definito da una meta: laconclusione del lavoro analitico.Mi sembra che una caratteristica dell'uso del gioco dellasabbia sia quello di far sperimentare attivamente sia alpaziente che al terapeuta uno spazio intermedio, di con-divisione ed insieme di distinzione, tangibilmente visibilee vivibile, attraverso il campo dinamico della sabbiera,che diviene uno spazio aperto alla relazione tra dueesseri distinti, che condividono una parte del camminodella vita.

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Elogio della concretezza:una possibile metafora delvedere analitico

Lidia Tarantini, Roma

«...la materia è l'inconscio della forma... solouna materia può sostenere il peso delleimpressioni e dei sentimenti muti. Essa è un"bene" sentimentale...»

G. Bachelard, Psicanalisi delle acque

Quando, nella stanza analitica, si entra in contatto con ilGioco della Sabbia, si entra in un mondo di oggetti con-creti. Oggetto-sabbia, oggetto-sabbiera, oggetti di tutti itipi nello scaffale. Da questa immersione nel mondo con-creto delle cose scaturisce una esperienza psichica par-ticolare, che ha appunto nel rapporto con la concretezzail suo punto nodale.L'opacità dell'oggetto dato, nella sua totale esposizionealla vista ed al tatto, è come se attivasse un bisognoopposto di sottrarlo a questa «cosità triste» attribuendogliun senso ed una espressività simbolica. Dal visibile aquell'invisibile che il gesto stesso di scegliere e di porrel'oggetto nella sabbiera cerca di decifrare e di portare allacomprensibilità. Mondo percettivo amorfo, si potrebbechiamare il mondo degli oggetti esposti nello scaffaleche, nel momento in cui incontra uno sguardo e unamano che lo tocca, mette in moto uno specularemovimento percettivo in chi agisce tale processo.L'inerire del corpo sensiente all'essere sensibile grezzo,infatti, così come la possibile incorporazione del vedenteal visibile, configura la forma della loro relazione in una

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sorta di nastro di Moebius in cui vedente e visibile, per-cepiente e percepito, toccante e toccato, rappresentano ildiritto e il rovescio di quel fenomeno che chiamiamo con-sapevolezza. Un polo di questo fenomeno si configuracome attivo auto-riflessivo, mentre l'oggetto, che potrem-mo chiamare passivo, si lascia cogliere sempre solo con-servando uno scarto, un ancora-da-vedere, in cui consi-ste appunto quell'invisibile di cui dicevo prima e che nerappresenta lo spessore.Il mediatore di questa relazione attivo-passiva non puòessere rappresentato che dal corpo proprio, in quantopartecipe di entrambe le modalità, trattandosi, nello stes-so tempo, di un percepiente e di un percepito, contenentecioè in sé il suo contrario, l'altro da sé; proprio il fatto cheil corpo è anche, ma non solo, oggetto tra gli oggetti,fornisce ad esso questa facoltà conoscitiva.L'attribuzione di senso e la possibilità che una esperienzatattile e visiva possa divenire una esperienzatrasformativa e non ripetitivo-adesiva, si radicano nellanon coincidenza tra quelli che chiamavo polo attivo e polopassivo, ma, d'altro canto, utilizzano la loro relativasovrapponibilità, come quell'elemento che lasciaemergere lo scarto del-l'ancora-da-vedere necessario perla comprensione e l'in-terpretazione del fenomeno:interpretare, infatti, è sempre un relativo de-collare dauna posizione di in-collante identità.Cogliere un oggetto nella sua concretezza significa per-mettere che esso si dia a noi in quella dimensione didistanza, di incompletezza e relativa invisibilità in cui con-siste peraltro la sua prossimità alla nostra capacità per-cepiente; prossimità, appunto, e non identità, che rende-rebbe impossibile la conoscenza. In Le visible et l'invisi-ble Merleau-Ponty sintetizza questo rapporto tra cosiladel mondo e coscienza percepiente in modo mirabile. Egliparla di una «cecità della coscienza» o meglio di un suo«punctum caecum» che è quello che permette la visionee la comprensione del mondo: «Ciò che essa (lacoscienza) non vede, è per delle ragioni di principio cheessa non lo vede, è perché è coscienza, che non lo vede.Ciò che essa non vede, è ciò che in essa permette lavisione del resto. Come la retina è cieca nel punto in cui

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(1)M. Merleau-Ponty, Le vi-sible et l'invisible, Paris,Galli-mard, 1964, p. 301.

2) E. Grassi, Potenza del-"immagine, Milano, GueriniEditore, 1989, pp. 140 e seg.

si irradiano le fibre che permettono la visibilità. Ciò che lacoscienza non vede, è ciò che permette che essa veda:è la sua corporeità, è la carne dove nasce l'oggetto» (1).È proprio grazie a questa cecità della coscienza chel'oggetto concreto sfugge sempre alla possibilità di unadefinizione esaustiva da parte del pensiero razionale,perché ogni possibile definizione, visione, percezionedella cosa conterrà sempre inesauribilmente un ancorada dirsi, da vedere, da percepire. Lo scoprire, di volta involta, aspetti di questo invisibile-inesauribile, si trasformaper la coscienza in un sentimento di stupore etrasalimento, che credo appartenga ad ogni autentico attoconoscitivo-creativo.In questo gesto mentale dello stupore Plafone riconosce-va una delle caratteristiche distintive del pensiero filoso-fico. Nel Teeteto, Socrate dice al suo allievo: «Davvero,caro, non mi sembra che Teodoro giudichi male della tuanatura! Che è appunto proprio del filosofo questo che tusenti, cioè provar meraviglia. La filosofia non ha altroprincipio che questo. Sicché mi sembra non dia una cat-tiva genealogia chi disse Iride (simbolo della filosofia)figlia di Taumante (da taumazein, meravigliare)».E ancora Aristotele nella Metafica è dello stesso parere:«... Infatti gli uomini hanno cominciato a filosofare a causadella meraviglia. Chi prova un senso di dubbio e dimeraviglia, riconosce di non sapere, ed è per questo cheanche colui che ama il mito è in certo modo filosofo; ilmito, infatti, è costituito da un insieme di cose che desta-no meraviglia».Ma ancora più suggestiva è l'etimologia della parola gre-ca taumazein propostaci da E. Grassi nel suo libro Po-tenza dell'immagine. «La relazione etimologica stabilitanell'antichità, come nell'epoca moderna, tra taumazein eteastai, indica l'ambito in cui deve essere impostata l'in-terpretazione del termine taumazein: da un lato nel vede-re, dall'altro nell'ambito dell'immediatezza. In questo siottiene la relazione tra meraviglia e teoria come visionedell'originario. Questo legame tra meravigliarsi e guardareè già rilevabile nell'uso pre-filosofico del termine tau-mazein» (2).La meraviglia nasce, quindi, allorché nel quotidiano e nel

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già conosciuto irrompe qualcosa, come una presenzamisteriosa, da cui scaturisce una domanda. Dalla tensio-ne del non conosciuto, scaturisce la spinta alla conoscen-za. La meraviglia ad essa connessa esige che si trovi unarisposta, ma non una risposta esplicativa che, sciogliendolo stupore in certezza, annullerebbe tutto il processo.Se è vero che la riflessione tilosofica dell'ultimo cinquan-tennio ha, con sempre maggiore chiarezza, evidenziatol'inconsistenza della pretesa del pensiero razionale dicogliere la realtà che ci circonda nella sua pienezza e inmodo esaustivo, credo che il rapporto con la «cosila»opaca dell'oggetto renda palese e direi tangibile tale im-possibilità. Un medesimo oggetto, ad esempio, postonella sabbiera a distanza di tempo assume significati edesprime posizioni psichiche, per chi lo sceglie, a voltetotalmente diverse, ma in qualche modo sempre inerentialla sua cosila, la qual cosa permette adesso, grazieappunto alla sua «sporgenza» rispetto al già conosciuto,di farsi protagonista di percorsi conoscitivi nuovi chesorprendono e spiazzano l'aspettativa cosciente.Sorge a questo punto la domanda se la parola, mediatoredi elezione della psicoanalisi classica tra conscio ed in-conscio, potrebbe prestarsi ad un uso altrettanto creativoed innovativo. A me sembra che ciò avvenga a livello dilinguaggio ogni volta che usiamo una parola o un concet-to come se fosse una cosa, nella concretezza percettivadell'immagine che la parola è in grado di evocare. Lapolisemia e la metaforicità del linguaggio, da cui scaturi-sce l'immagine, sono quegli aspetti che più lo awicinanoall'infinita apertura espressiva che l'oggetto amorfo edopaco possiede nella sua nuda «cosità». Ci sono, credo,parole bi-dimensionali che si incollano al concetto chevogliono esprimere in modo piatto e ripetitivo, e ci sonoparole tri-dimensionali, simili ad oggetti, che lascianoaperto uno spazio, creano una distanza, un vuoto chepermette l'infinito articolarsi della fantasia e dellacreatività. La nozione Junghiana di archetipo potrebbeanche essere rivisitata ed utilizzata per esprimere lainesauribile ed invisibile riserva di sensi possibili e maitotalmente esplicitati che l'oggetto grezzo e talvolta laparola possie-

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dono, quale ricchezza originaria antecedente ad ogniatto definitorio e ad ogni concetto codificato nel registrodella «langue». Direi che questa vocazione archetipicainerisca più naturalmente all'oggetto, proprio in quantosiamo molto meno abituati a considerarlo portatore disignificati meta-forico-simbolici, perlomeno da quandosiamo usciti dall'infanzia. Questo modo dimenticato, equindi divenuto inconsueto, di considerare gli oggetti, nelmomento in cui si attiva a contatto con la sabbiera,sconcerta la razionalità adulta, cosa che rende possibileun uso poco codificato ed il più possibile aperto edinnovativo. Negli ogget-ti-archetipi è sedimentata ancheuna temporalità che non coincide con il tempo reale dellaloro utilizzazione, ma che è legata alla possibilità chel'oggetto possiede di accogliere memorie emotive esensazioni lontane, a volte mai divenute coscienti. Comein modo chiarissimo ci ha mostrato Proust, ogni oggettopuò divenire un luogo della memoria privilegiato, luogomitico di incontro e di scoperta di sé. Oggetti-affetti,dunque, oggetti-sensazioni, og-getti-ricordi, quelli checompaiono nella sabbiera, oggetti grazie ai quali ilmomento presente, in cui si attua la scelta, e il passato,in cui tale scelta si radica, si toccano e permettono chequell'oggetto concreto assuma un significatoassolutamente unico per quella persona. Si potrebbedire che ciò che gli da spessore e tridimensionalitàpsichica è proprio la sua latenza inesauribile di sensilegati ad un «altrove» che sorprende la coscienza e chel'oggetto concreto è particolarmente in grado di accoglie-re. Siamo infatti sicuramente più abituati a pensare chedi una situazione, anche emotiva, dobbiamo cercare leparole per dirla, piuttosto che gli oggetti. Sicuramente lasintassi costruttiva e la loro grammatica sono meno notealla coscienza, meno codificata e perciò stesso più natu-ralmente aperte e problematiche. Dire una emozione condegli oggetti concreti è un percorso sicuramente piùcomplesso e difficile, meno usuale, ma sicuramente piùricco di sorprese.lo credo che nella sabbiera, attraverso l'esperienza vis-suta della corporeità tattile e visiva, ci si possa accostareagli oggetti nel mistero della loro materialità, solidità,durezza, per riprodurre, grazie a questa concretezza,non

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il reale, ma la sua forma, il suo essere! per noi in quelmomento. Momento particolare in cui anche la memoriapassa attraverso il corpo grazie all'attivarsi di sensazionitattili, visive, olfattive, cinestetiche. Di qui lo stupore el'inquietante estraneità degli oggetti concreti, significantipersonificati che in quel momento trovano una signifi-catività nuova e quasi aurorale, pur restando assoluta-mente se stessi e assolutamente familiari. Ciò che con glioggetti viene detto nel contesto di una raffigurazione conla sabbia non appartiene all'ambito delle verità scientifi-che, ma a quello delle certezze, perché il significato chesi da a vedere non pre-esiste ne all'oggetto ne a chi lo hascelto, ma è venuto ad essere grazie a quel gesto corpo-reo, costruttivo ed espressivo allo stesso tempo.Il campo di presenza che la sabbiera rappresenta è per-ciò tutto giocato su una compresenza di visibile-invisibile,interno-esterno, presenza-assenza, binomi in cui ogni ter-mine rinvia all'altro non come suo contrario, ma come aduna sua possibilità di spessore. Quello che viene utilizza-to, attraverso le immagini concrete, è un pensiero senzaconcetti, più attento alla struttura compositiva, al «come»piuttosto che al «che», e la traducibilità in linguaggiocondiviso diventa possibile se concepiamo anche que-st'ultimo come un gesto concreto. La co-appartenenza siadel gesto verbale che del gesto corporeo al regnodell'invisibile, del semantico, e non solo del semiotico,permette una reciprocità ed una parziale reversibilità: ciòche il gesto corporeo crea, rendendolo visibile, non è soloquell'immagine che appare alla vista, ma anche un invi-sibile cui fa cenno. La parola può allora, a sua volta,cercare quel gesto verbale che tenti di esprimere e ren-dere cosciente quell'invisibile, quel suo rovescio, quel suospessore. Parola insatura che rimanda sempre aqualcosa ancora da dirsi ma che, in questo movimentoaporematico, segna ed apre un nuovo cammino per ilpensiero. È attraverso il sensibile e il corpo che lopsichico si mostra nell'immagine che appareconcretamente nella sabbiera, è attraverso il sensibile (ilsuono della voce) che restituiamo al paziente ciò chepercepiamo attraverso quell'immagine, cercandone unasua possibile re-in-scrizione carnale, con una parola chesia anche patema

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e non solo pensiero. Potremmo dire con Jung chel'archetipo ci parla, o meglio si parla, attraverso e con ilcorpo, attraverso e con gli oggetti, voci sensibili diognuno di noi, di tutti e di nessuno nello stesso tempo.Forse è la metafora quella modalità che più di ogni altraforma espressiva è in grado di cogliere quella trama di filisottili che collegano la concretezza con il pensiero ed èin grado di esprimere la loro affinità carnale in unmovimento che consiste sia nel rendere visibile l'idea,sia nel mettere in scacco l'onnipotenza della ragione.

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Interpretazione condivisa diimmagine e parola nel «giocodella sabbia»

Cecilia Codignola, Roma(1) La personalità di Bibi sarebbeclassificata all'interno dellecategorie strutturali ne-vrotiche.Cfr. J. Bergere!, La personalitànormale e patologica, Milano,Cortina, 1983.

Bibi professionista affermata, nevrotica (1), tutta pensieroe dovere, venne in analisi, nell'inverno di qualche annofa, in seguito ad una crisi depressiva: insoddisfatta delsuo rapporto coniugale, incapace di progredire nel lavoro,si sentiva fredda nella sessualità e negli affetti. Triste evecchia si chiedeva perché vivere. Bibi affrontò la suaprima sabbia disegnando un albero di Natale sullasabbiera e commentando la sua mancanza di creatività eoriginalità.Quella immagine dove Bibi non utilizzò gli oggetti nemanipolò la sabbia segnalò quindi anche a me una inibi-zione, un atteggiamento di difesa da contenuti internidirompenti, una stereotipata immagine di sé. Alla fine delprimo anno di analisi si separò da un marito con cuicondivideva ormai la professione più che il talamo;dopo la separazione prese slancio una relazione chedurava già da tempo con un giovane apprendista.Nel secondo anno del nostro lavoro Bibi, di ritorno da unavacanza in Africa, affrontò la sabbia per la seconda volta,riproducendo la savana. La sabbia fu l'occasione perparlare della sua voglia di fuga, della ricerca del paradisoperduto, di una ricerca di dimensioni più vicine alla natu-ra, alla vita.A me la seconda sabbia non disse granché, proprio comela prima. Se prevalse in me un sentimento fu sicuramentedi frustrazione, di rabbia per la mancanza di creatività

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di quei quadri, così discordanti dall'immagine che avevodi Bibi e dal calore affettivo della nostra relazione.Notai diligentemente la congruità delle scelte nel suoquadro, la riproduzione fedele di un ricordo: ma miapparve come una cartolina più che una immaginemetaforica, una elaborazione di contenuti fantastici. Notaiil fiume, insidioso e pieno di coccodrilli che si biforcasenza scoprire il fondo, l'altura dei leoni sonnolenti che miconfermavano un contenuto di aggressività controllata afatica e negata in parte. Tutto ciò rimase nella mia menteo meglio nel mio quaderno di appunti. Interpretai invecela sabbia nel suo significato transferale come unacartolina appunto, un tentativo riparatore dei sentimenti dicolpa relativi alla vacanza: interpretazione corretta chenasceva da un sentimento crescente nel camporelazionale ma che rimaneva alla superficie e io stessapercepivo come fredda, inadeguata e insoddisfacente.Dopo cinque mesi dalla seconda sabbia, Bibi entrando inseduta si domandò il perché di tutti quegli oggetti, chie-dendosi chi mai li potesse usare, sentendoli come estra-nei a sé, troppo regressivi.Quel suo domandarsi, dopo tanti mesi dal loro uso, sequegli oggetti erano lì per lei, mi sorprese costringendomiad un ripensamento: lo scarto tra la mia immagine e lesue parole si manifestò grazie a quel senso di sorpresache aveva invaso il campo. Mentre ascoltavo questedomande cercando di capire il senso profondo dellaprovocazione che coglievo nella sua comunicazione, mivennero in mente le sue sabbie e d'improwiso mi sembròdi capire qualcosa di diverso sulle modalità di relazione inatto tra noi.Con quelle parole Bibi mi stava chiedendo che cosa neavessi fatto io delle sue sabbie, dove erano finiti queglioggetti e quelle immagini, chi ne aveva fatto uso, se tra dinoi non sembravano essere presenti.L'accenno alla propria stereotipia che Bibi aveva fattodopo l'esecuzione della prima sabbia era entrato in me,l'avevo accettata, data per scontata, avevo colluso con lasua interpretazione e ad essa avevo risposto con unainterpretazione altrettanto stereotipata (cartolina).Avevo «dimenticato» che le immagini sulla sabbia e l'usostesso della sabbiera nascono e al contempo danno

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vita ad una fantasia inconscia che, per il fatto di nascerenel rapporto transferale, era percepita e condivisa ancheda me.L'intensità emotiva delle richieste di Bibi mi rimetteva ingioco, riattivando quell'esperienza che nella collusionecon la paziente, avevo giudicato superficiale a cui avevorisposto in modo superficiale.Le sue sabbie in cui avevo colto soprattutto l'inibizione,che avevo letto come sabbie difensive, si rivitalizzarono inseguito all'irrompere di questa dinamica transferalepermettendomi una interpretazione nuova che diventòuna immagine condivisa tra terapeuta e paziente dandonuovo senso alla nostra relazione.Si era affacciata inoltre, con quelle domande inattese,quasi senza senso, una curiosità che sottendeva unafantasia ambivalente che invitava non solo Bibi a giocare,a trasgredire: a riconoscere una comune inibizione alpensiero creativo, una comune difficoltà di trasgressione.Le immagini sulla sabbiera, in particolare la modalità diapproccio allo strumento, mi apparvero ora, improvvisa-mente come le forme in cui si manifestava il suo rapportocon l'oggetto e in particolare quello con i suoi due uomini:l'albero di Natale in cui la sabbia era stata appena toccata,sfiorata, sembrava il marito-padre che non è mai entrato inrelazione profonda con lei, se non come un matrimoniostatus-symboi, un rapporto ad una dimensione, come ildisegno sulla sabbia. La savana, invece, mi raccontavadell'amante-figlio, di quell'amore trasgressivo ma solo inapparenza, perché vissuto e voluto come un rapporto chedoveva rimanere clandestino, ignorato dal mondo, aimargini della civiltà: pura instintualità, pura fantasia, senzasviluppo della consapevolezza, senza limiti, senza storia.Questa interpretazione data a distanza dall'esecuzionedelle sabbie ma sollecitata da quell'intervento a primavista così incomprensibile («ma a che servono questioggetti») era lievitata in me mentre tentavo di capire leparole di Bibi e, come una nuova metafora, animò queicontenuti aprendo la strada ad una successiva elabora-zione del rapporto oggettuale e quindi del rapportotransferale dandomi, infine, la possibilità di riflettere ulte-

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riormente sul nostro rapporto troppo facile, troppo bello,troppo affettuoso, troppo ideale.Non è questa la sede per entrare nel merito della risposta,dei derivati, ne dell'ulteriore storia di Bibi e di verifi-carne,quindi, la fondatezza dell'interpretazione quanto, piuttosto,di coglierla nel suo farsi: nata in quello scarto, in quelsenso di fastidio che ha rotto una collusione, ha superatoquindi le difese inconsce del terapeuta ed ha funzionato dainsight. Qualcosa che prende vita, come dice Baranger,dall'integrazione di fantasie transferali e controtransferaliche il terapeuta riesce ad elaborare (2).

L'interpretazione dell'immagine prodotta nella sabbia nonha valore di spiegazione, ma di parola-immagine condivisache nasce e acquista senso in quella relazione, fornendo alpaziente e all'analista una ulteriore raffigurazione, un altrosignificato al sentimento, alla sensazione, all'affettoprovato.L'interpretazione sta all'analista come l'immagine sullasabbia sta al paziente: entrambe nascono e sviluppano larelazione, da essa traggono origine ma, esprimendosi, laformano e la trasformano: non appartengono ne soloall'uno ne solo all'altro ma interamente alla coppia e aquella relazione in quel momento. Il GdS (gioco dellasabbia) offre così un canale in più per la lettura, per lacomprensione, per l'interpretazione di ciò che avviene nellarelazione analitica e nella messa in gioco delle dinamicheprofonde che costellano il campo in quel momento.Come un sogno raccontato è una immagine condivisa chenasce nella relazione e parla della/alla relazione. L'analisidel GdS può quindi funzionare a più livelli, comeinterpretazione delle dinamiche profonde che trovano im-magini nella storia del paziente, come interpretazione delledinamiche transferali in atto in quella relazione, come sortadi autosupervisione per l'analista che può provare acogliere in quell'immagine i sentimenti relativi al suocontrotransfert.Del gesto interpretativo vorrei qui considerare solo alcunielementi:- l'essere legame, fantasia condivisa,

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(2) W. Baranger, La situazionepsicoanalitica come campobipersonale, Milano, Cortina,1990.

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(3) P. Aite, «Una prospettivasull'atto interpretativo inanalisi», in Rivista diPsicologia Analitica, 38,1988.

(4) V. Bonaminio, «Del noninterpretare», in Rivista diPsicanalisi, 3, 1993.

- Io svilupparsi in un ambiente di silenzioso accoglimento,- il nascere all'interno di una relazione collusiva comerottura della stessa.Alte così sintetizza: «L'atto interpretativo come eventopsichico corrisponde ad un gesto che indica, fa vedere.Esso porta un vissuto fino ad allora irrappresentabile allasua possibilità di raffigurazione in un certo contesto, inuna certa relazione analista-paziente e rende così pensa-bile, trattabile ciò che non lo era. È un far vedere chepermette di concepire, di dire in modo nuovo».«Nella parola che interpreta - continua Aite - si possonodescrivere due movimenti: il primo sembra aprire il cam-po, togliere ciò che chiude nella ripetizione e cogliere lesomiglianze e i contrasti prima non notati, per far vedere;il secondo compone, porta nella relazione delle nuovesomiglianze, delle somiglianze impossibili [...] che rom-pono i confini logici prima stabiliti e aprono la domanda. Ilprimo gesto è continuo, costruttivo, offre coerenza, sce-glie man mano i tasselli di una esperienza che si faformando; il secondo è discontinuo, rapido e corrispondeal momento in cui, all'improwiso si distingue una formacompleta dallo sfondo» (3).L'analisi è una relazione tra due persone che si fonda sultentativo di analisi delle dinamiche sottostanti la relazionestessa: interpretare rimanda etimologicamente alla vocelatina interprete («mediatore, sensale», colui che sta nelmezzo) che a sua volta è spiegata dalla composizionecon inter «fra, tra» e un derivato di pretium «prezzo» (4).La parola interpretante sta nel mezzo, ha lo statuto di unametafora. Integra nella relazione parti scisse di unaimmagine condivisa; si differenzia così dal non è nient'al-tro che, semplice sostituzione di un simbolo ad un altro,che si configura invece come una interpretazioneriduttiva, una metafora che muore, chiusa in un solosignificato. La metafora viva, strumentale,l'interpretazione appare un ponte verso un altrosignificato, rimanda ad altro, è qualcosa che lega ilprocesso associativo del paziente e dell'analista, che siproduce quando tra il paziente e l'analista si stabilisceuna dimensione empatica profonda. Il GdS, poiché daun'altra immagine al sentimento del legame transferale,offre all'emozione un ulteriore conte-

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nitore dove svolgersi, un ulteriore modo di prendere forma,di mostrarsi.«Quell'apparire - osserva ancora Aite - non nascondequalcosa, come non lo dice integralmente, ma è l'atto delcostituirsi del possibile senso, davanti ad un vissuto nonancora pensabile che cerchiamo di esprimere [...] Unadeterminata immagine, analogamente alla parola, porta ildoppio senso della relazione fra soggetto e l'altro da sé. Inquesto gioco espressivo a seconda dei momenti prevaleun segno sull'altro; il bisogno di ritrovarsi, di identificarsicon, di difendersi ma anche di affermarsi o di dare forma aciò che sfugge, di esprimerlo» (5).È esperienza comune tra i terapeuti che usano il GdScome l'immagine sulla sabbia provochi emozioni profonde,sia nel paziente che nel terapeuta, anticipando contenuti econflitti che la parola riuscirà ad esprimere solosuccessivamente.L'immagine sulla sabbia parla al paziente e all'analista diuna loro metafora, dove l'affetto vissuto provato in quellasituazione prende forma, appare e rimanda ad un sensoche include le immagini personali di ciascuno e quellecondivise nel transfert.In questo modo l'interpretazione non corrisponde alle soleparole dell'analista pur nascendo nel transfert, così come ilprocesso di individuazione non si compie obiettivamenteoltre la relazione: condivido invece il pensiero di Aite percui piuttosto tutto ciò che awiene nella stanza di analisi,ogni movimento di analista e paziente, è la sintesi prodottadalla fantasia inconscia che si esprime in quel momento(6).Non concordo completamente quindi con l'idea che l'in-terpretazione sia solo il prodotto di un tentativo dell'ana-lista, sollecitato dalle comunicazioni in codice del paziente,con il quale si identifica empaticamente, di esprimere inparole chiare problematiche di cui fino allora non v'eraconsapevolezza (7).Ne riesco a fare pienamente mie le parole di Jung quandoafferma che la terapia è un processo vitale, e che ilprocesso di individuazione si attua obiettivamente, es-sendo questa esperienza ciò che aiuta il paziente e non lapiù o meno competente o sciocca interpretazione del-

(5) P. Aite, «Unaprospettiva sull'attointerpretativo in analisi», op.cit.

(6) Cfr. P. Aite, L. Crozzoli,«II gioco della sabbia», inTrattato di psicologia analìti-ca, voi. Il, Torino, UTET,1992.

(7) Cfr. G. Nagliero, «IIgioco della sabbia el'interpretazione verbale», inRivista di PsicologiaAnalitica, 39, 1989.

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(8) Cfr. C.G. Jung, Letters,voi. 2, London, Routiedgeand Kegan, citato da G. Na-gliero, «II gioco della sabbiae l'interpretazione verbale»,

l'analista. Conseguentemente, non credo che il meglioche l'analista possa fare sia non disturbare la naturaleevoluzione di questo processo, che consiste nel diventareintero o integrato, e ciò non è mai prodotto dalle parole odalle interpretazioni ma interamente dalla natura dellapsiche stessa (8).Ma sono parole di cui troviamo il senso più vero se dellavoro analitico cogliamo la sua essenza, owero quelpercorso inferiore e profondo tra le pieghe delle emozioninostre e del paziente, per cui sempre di più siamo inte-ressati alle metafore che rimandano al senso.Immaginiamo così le regole che ci diamo, il setting checostruiamo, l'immaginazione attiva e il gioco della sabbia,l'interpretazione come strumenti che permettono al pa-ziente un luogo e una modalità di contatto intimo e pro-fondo con se stesso e danno a noi la facoltà di ascoltare ilpaziente in quello che si configura come profondo silenziopartecipe.Le nostre regole sono dimensioni fondanti ed essenzialiperché sono la cornice senza la quale questo rapportonon si può analizzare. Si evidenziano, appunto, comestrutture: contenitori che se usati male, tracimano, tra-boccano o al contrario arrestano, impediscono il fluire, loscorrere dell'energia, pur non racchiudendone tutto ilsenso. Nel corso dell'analisi si affermeranno poi strumentie stili comunicativi, qualità e modalità relazionali proprie diquel rapporto e non solo di quell'analista, che avrannouna storia raccontabile e riconoscibile perché parte inte-grante di essa.Si alternano e differenziano fasi di analisi da fasi di so-stegno psicoterapeutico dove il dolore lacerante, l'agitoimprowiso, il pianto angoscioso, l'ansia fobica, il ripetersiossessivo del pensiero impediscono al paziente di con-tattare la propria profonda e trasformante depressione etravolgono le nostre emozioni togliendoci lo spazio men-tale per accogliere, per compatire senza agire. Perché ildolore separa, allontana, nega, e spesso noi sentiamo difronte a tanta angoscia l'impellenza di interpretare, diconfrontare per sentirci vicini, utili, uniti.Ma, come diceva Balint, ogni intrusione attraverso inter-pretazioni che tendono a polarizzare l'attenzione distrug-

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gè inevitabilmente per il paziente la possibilità di crearequalcosa fuori di sé (9); o anche, come affermavaWinnicot, che l'analista è importante per il suo silenzio, perla sua capacità di ritirarsi sullo sfondo, di porsi al serviziodi un processo (10).L'interpretazione partecipante, infatti, si fa strada non soloin un silenzio di parole, una mancanza di parole che purene è una logica conseguenza, ma in un atteggiamento disilenziosa compartecipazione che, soprattutto, non tende asedurre, imporre, modificare, affermare o negare. Il sensopiù vero dell'analisi è il contatto profondo con le proprieemozioni e con le emozioni che nascono nella relazione,unica esperienza davvero trasformativa. Se analisi è perl'analista soprattutto una qualità di ascolto, oltre che unamodalità di ascolto e di interazione, credo che il gioco dellasabbia trovi, proprio in questo contesto, uno spazio.GdS come strumento diagnostico per chiarire al terapeutale dinamiche interne che prendono forma nella sabbiera;GdS come strumento per contattare immagini che ap-paiono al paziente e al terapeuta e nell'atto di apparireparlano; GdS come uno strumento per arrivare a contat-tare sensazioni, emozioni, percezioni profonde, vive edattive in quella relazione, in quel momento; GdS come unasorta di terzo nella relazione, un occhio in più adisposizione di analista e paziente per guardare la lororelazione, un altro punto di vista capace di aiutare arompere i veli della collusione e delle difese inconsce chesi annidano nella relazione.Così il quel luogo, in quella sabbiera, appaiono immagini,awengono cambiamenti, mutano punti di vista, si svelanosensazioni, si trasformano vissuti, compaiono percezioni,si intuiscono conoscenze e tutto questo acquista sensoperché diventa non tanto immagine interpretata, che sirivela e appartiene comunque alla mente dell'analista, maimmagine condivisa nel suo prendere forma, parolacondivisa che svela qualcosa sul paziente, sull'analista esulla relazione che fino ad allora era sconosciuto, oscuro,era rimasto nell'ombra.

(9) Cfr. M. Balint, «II difettofondamentale», in Laregressione, Milano,Cortina, 1983.

(10) Cfr. D.W. Winnicott,«La capacità di esseresolo», in Sviluppo affettivoe ambien te, Roma,Armando, 1979.

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Gioco della sabbia esetting analitico.Alcune riflessioni

Franco Castellana, Roma

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(1)P. Aite (1970): «11 giocodella sabbia nella psicologiadi C.G. Jung», in Rivista diPsicologia Analitica, 2, p.273; (1976)«Immaginazione ecomunicazione», in Rivistadi Psicologia Analitica, 7/1,p. 102; (1978) «Attività del-l'Io e immagine», in Rivistadi Psicologia Analitica, 17,p. 104; (1979) «Immagini eparole di un'esperienza: unconfronto», in Rivista diPsicologia Analitica, 20, p.163;(1983) «Al di là della paro-la», in Rivista di PsicologiaAnalitica, 28, p. 40; P. Aitee L Crozzoli, «II gioco dellasabbia», in Trattato diPsicologia Analitica, voi. Il,pp. 609-640, Torino, UTET,1992. (2)D. Kalff, // giocodella sato/a(1966), Firenze,O.S., 1974.

Il gioco della sabbia ha trovato sempre maggiore interes-se tra gli analisti junghiani. Inizialmente applicata princi-palmente nella terapia dei bambini e degli adolescenti, staattualmente diffondendosi anche nel lavoro con gli adulti,dove viene per lo più affiancata al setting classico usatodall'analista, secondo una modalità introdotta e più voltedescritta da P. Aite (1).Nonostante cominci ad essere disponibile una discretaletteratura in merito, il gioco della sabbia continua adessere una metodica di lavoro relativamente poco cono-sciuta.Va sottolineato come, al momento attuale, coesista unadiversità di stili in chi opera con il gioco della sabbia. Talidiversità vanno individuate fondamentalmente in chi pre-ferisce seguire la strada inaugurata da Dora Kalff (2), edaffidarsi così al potere risanatore della psiche attivato diper sé dal gioco della sabbia e in chi ha affiancato il giocodella sabbia all'usuale setting adottato e soprattutto nonrinunciando a mantenere un atteggiamento analitico. Perdi più, come accennavo poco sopra, va estendendosil'uso del gioco della sabbia anche nell'analisi di pazientiadulti.Relativamente a queste due ultime modalità di lavoro,l'atteggiamento della comunità junghiana sembra consi-stere in un misto di interesse, curiosità e perplessità.Nonostante venga riconosciuta l'onestà e lo sforzo di chi

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opera secondo questa modalità di lavoro, è pressochécostante che vengano sollevate alcune obiezioni che ten-terò sinteticamente di riassumere.In primo luogo, ci si chiede spesso di quale utilità possaessere l'introduzione della sabbiera all'interno di un rap-porto analitico e, soprattutto, cosa dia «in più» un lavorofatto con la sabbiera rispetto al lavoro svolto sui sogni osull'attività immaginativa.In secondo luogo, nella presentazione di sabbie fatte dapazienti durante il lavoro analitico, è pressoché costantela richiesta al relatore/relatrice di turno di chiarimentisull'hic et nunc e sui movimenti transfert-controtransferaliin atto. Elementi questi che, effettivamente, sono spessocarenti nell'esposizione dei lavori, a causa di una spiccatatendenza a dare spazio alla specificità del lavoro fatto dalpaziente nella cassetta.Infine, ci si chiede se, all'interno di un setting analitico, ilmovimento e il lavoro fatto dal paziente nella sabbieranon possano configurarsi come un agito, espressione diuna resistenza, a tutto scapito dell'auspicabile pensabilitàdelle dinamiche in atto.Per provare a rispondere a questi interrogativi, o sempliciperplessità, occorrerà cercare di individuare, per quantopossibile, la specificità della dimensione attivata dal giocodella sabbia, in modo da poter verificare la validità omeno di tali obiezioni.Sento il bisogno, a questo punto, di esporre brevementealcune mie personali convinzioni su taluni degli aspettiche contraddistinguono il lavoro fatto nella sabbiera.A mio avviso, le dimensioni psichiche che si attivano nelgioco della sabbia sono molteplici e lungi dall'essere statea tutt'oggi compiutamente ed esaurientemente descritte oaddirittura esplorate. Tale complessità va poi ulterior-mente problematizzandosi quando si mantenga un atteg-giamento analitico e quando si lavori con gli adulti. In unatale ottica, sono consapevole che questa breve relazionenon può certo essere esaustiva, ma spero che almenopossa contribuire ad arricchire un dibattito e una ricercasu alcuni aspetti prevalentemente tecnici e teorici.Nell'ambito della letteratura disponibile sul gioco dellasabbia, mi sembra doveroso riportare l'attenzione sul di-

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battito reperibile nel n. 39, 1989, della Rivista di Psicolo-gia Analitica, a cura di Aite P.: «Percorsi dell'immagine».Nonostante i richiami alla sabbiera come metafora corpo-rea siano pressoché costanti in tutti i lavori presentati,richiamerei l'attenzione sul lavoro di G. Gabriellini e S.Nissim.Le autrici, dichiarano «un interesse volto a cogliere leprimitive forme di funzionamento mentale che, prima del-l'immagine visiva, si esprimono ad un livello concreto,preverbale e presimbolico e la successiva genesi delprocesso immaginativo» e propongono che l'uso dellasabbia possa essere «uno degli strumenti atti a mettereappunto in luce il prendere forma di esperienze emotiveed istintive, veicolate dalla corporeità».(...) «Nella nostra esperienza cllnica con bambini autisticie psicotici, lo spazio della sabbiera si è andato gradual-mente configurando come luogo privilegiato, dove rico-struire o restaurare esperienze primarie corporee, emo-zioni-sensazioni, che la terapeuta percepisce nella lorofisicità e sensorialità e trasforma, nello spazio della rela-zione, attraverso la sua funzione di rèverìe, in immagini epensieri (3).Abbiamo ipotizzato (4) una equivalenza tra la materiasabbia e la materia corporea, basandoci sull'osservazioneche la manipolazione della sabbia, nella relazioneterapeutica, sembra riproporre primitive esperienze cene-stesiche del contatto corporeo madre-bambino» (5).Citando gli scritti di Sami Ali (6), Anzieu (7), Castoriadis-Aulagnier (8) e di Nicoiaìdis (9), che propongono che ilpensiero nasce dal corpo e dalla relazione madre-bambi-no, attraverso il fondamentale lavoro di Gaddini (10), leautrici cercano di sviluppare il «tema della corporeitàcome luogo di iscrizione di esperienze cenestesiche eproprio-cettive (...) che diverrebbero le tracce sulle qualisì radica il pensiero visivo e successivamente il pensieroverbale» (11).«Il corpo diviene allora un contenitore di immaginiradicate a livello arcaico sul «corpo-terra-madre» ecostituiscono quel «fondo originario - una specie di"scrittura potenziale ante litteram" sul quale si radicano leimmagini visive e successivamente il linguaggio verbale»(12).

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(3) Cors/vo mio.(4) Cfr.G. Gabriellini, S. Nis -sim, «Psicosi infantile e gio-co della sabbia» in La psico-terapia infantile junghiana,Roma, II Pensiero Scientifi-co, 1984, pp. 194-204.(5) G. Gabriellini, S. Nissim,«Spazio, corpo, immagini: ilgioco della sabbia nell'au-tismo e nella psicosi infanti -le», in Rivista di PsicologiaAnalitica, 39,1989, pp. 47-62.(6) A. Sami, L'éspace ima-gìnaire, Paris, Gallimard,1974.(7) D. Anzieu, L'Io-pelle, Ro-ma, Boria, 1987.(8) P. Castoriadis-Aulagnier,La violence de l'interpre-tation, Paris, PUF, 1975.(9)N. Nicolaidis, La rappre-sentazione, Torino, BollatiBoringhieri, 1988.(10) E. Gaddini, «Fantasiedifensive precoci e processopsicoanalitico», in Rivista diPsicoanalisi 28, 1982, p. 1.(11) G. Gabriellini, S.Nissim, «Spazio, corpo,immagini: il gioco dellasabbia nell'autismo e nellapsicosi infantile», op. cit.,pp. 48-49.(12) Ibidem, p. 50.

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Le mie personali esperienze e riflessioni mi portano aconcordare con gran parte del materiale proposto con-giuntamente dalla Gabriellini e dalla Nissim, che apre uncampo le cui potenzialità mi sembrano particolarmentedense di proposte e spunti di riflessione.Penso che sia proponibile che, nell'ambito di un insiemedi cui non conosciamo i limiti e le definizioni stesse e chedenominiamo «psiche», quelli che trovano un loro spaziodi rappresentazione all'interno della sabbiera siano nonsolo pensieri che ancora non riescono ad essere pensatima anche quelle aree psichiche che sono rimaste stret-tamente ancorate alla realtà corporea e che non riesconoa trovare una dimensione di simbolizzazione per poteressere integrate. L'uso della sabbiera all'interno di unsetting classico, per le sue caratteristiche di «fisicità» e diesasperazione della percettività nonché per le sue stessecaratteristiche (limiti fisici della cassetta - contenimento),si configura come un veicolo che oltre a mettere in scenail complesso rapporto tra l'lo e l'inconscio, nonché aspettispesso fondamentali delle dinamiche transfert-controtran-sferali, concorre anche ad attivare, in maniera particolar-mente efficace, la dimensione corporea all'interno dellospazio analitico.L'uso sia della sabbia che degli oggetti e dei diversimateriali a disposizione del paziente (e l'esperienza stes-sa del fare) offre una ulteriore possibilità, in aggiunta aquelle già a disposizione, perché ciò che è rimasto comeincistato nel corpo riesca ad esser visto, percepito, intui-to, verbalizzato e, attraverso tutto il lavoro che si svolgenella complessa relazione tra analista e paziente checaratterizza il processo analitico, pensato e integrato.Naturalmente, tale situazione apre a sua volta una granquantità di interrogativi tesi soprattutto a individuare qualisiano le strutture psichiche coinvolte in tale processo ecome esse vadano articolandosi tra di loro fino a produrrequel felice incontro tra percezione, immagine e parolache spiana la via alla possibilità di una profonda integra-zione tra diversi livelli della psiche.Ora, la mia esperienza con la sabbiera mi induce a pen-sare che uno dei campi che si attivano nel lavoro fattonella cassetta, sia quello della rappresentazione delle

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(13) F. Castellana, «L'Io»,in Trattato di PsicologiaAnalitica, voi. Il, Torino,UTET, 1992, pp. 113-133.(14) C.G. Jung, «Tipi psico-logici» (1921), Opere, voi.VI, Torino, Boringhieri,1969.

(15) C.G. Jung, «Psicologia delladementia praecox» (1907), inPsicogenesi delle malattie mentali,Opere, voi. Ili, Torino, Boringhieri,1971.

(16) C.G. Jung, (1957), Prefazionea J. Jacobi, Complesso, archetipo,simbolo nella psicologia di C.G.Jung, Torino, Boringhieri, 1971, p.7.

relazioni che legano il complesso dell'Io, non tanto e nonsolo al resto dei complessi che si muovono nella perso-nalità di un individuo, ma più ampiamente e problema-ticamente alle parti fonde dell'inconscio collettivo. L'esa-sperazione del carattere percettivo che si attua nel lavoronella sabbiera (fare, prendere, collocare, muovere, senti-re, vedere, toccare) fa sì che si produca una forte «ten-sione» tra l'Io e l'inconscio. Tale forte tensione, unitaall'esasperazione del carattere percettivo, fa sì che tuttociò abbia come effetto non solo la «produzione di meta-fore», quanto il percepire il carattere trasformatore delsimbolo nonché l'incontro con una processualità internache trascende l'Io.Può essere utile riprendere brevemente alcune lineeguida relative alla teorizzazione dell'Io nellametapsicologia jun-ghiana, delle quali mi sono occupatopiù estesamente altrove (13) e che qui sinteticamenteripropongo. In particolare, al di là delle coordinate forniteda Jung stesso in sede dì «Definizioni» in Tipi psicologici(14), mi sembra particolarmente utile soffermarsi sullatraccia fornita da Jung stesso in Psicologia della dementiapraecox dove, all'interno di un modello che prevede lascindibilità della psiche e il conseguente costituirsi deicomplessi a tonalità affettiva, modello in cui l'Io vienecompreso, l'Io viene definito come la «massa dellerappresentazioni» a sé relative «che noi immaginiamoaccompagnata dal potente e sempre vivo tono affettivodel proprio corpo. Il tono affettivo è uno stato affettivo cheè accompagnato da innervazioni somatiche. L'Io èl'espressione psicologica di tutte le sensazioni somatiche»(15).Dall'esame degli scritti di questo periodo è possibile indi-viduare un ruolo quanto meno determinante dell'affettivitànell'insieme del modello della psiche che Jung andavadelineando. Anni più tardi, egli ribadirà che «la relativaautonomia dei complessi è dovuta alla loro natura emo-tiva, le loro manifestazioni dipendono sempre da un gro-viglio di associazioni raggruppate intorno ad un puntocentrale con carica affettiva» (16).In un tale contesto, viene giustificato che un affetto, adesempio «lo spavento», possa alterare le innumerevolisensazioni somatiche, per cui la maggior parte delle sen-

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sazioni che costituiscono il fondamento dell'Io abitualecambia», risultandone un «lo affettivo», definito come «lamodificazione del complesso dell'Io prodotta dall'emergen-za di un complesso a forte tonalità affettiva», che non siinserisce più «nella gerarchla del complesso dell'Io» (17).In altra parte dello stesso testo, leggiamo inoltre che «larealtà fa in modo che il tranquillo circolare delle rappre-sentazioni egocentriche, venga spesso interrotto da rap-presentazioni a forte tono emotivo, i cosiddetti «affetti».Una situazione di pericolo spinge da parte il gioco tran-quillo di altre rappresentazioni a più forte tono affettivo [...]e [...] di tutte le rappresentazioni egocentriche esso lasciasussistere solo quelle che si adattano alla sua situazione,e talvolta può anche reprimere le più forti rappresentazionicontrarie fino alla completa (momentanea) incoscienza»(18).Il modello presentato sembra così ruotare di fatto intornoad una sorta di gradiente del tono affettivo: entro certi limitiesso è ben tollerato dal complesso dell'Io, oltre certi limitidetermina l'emergere di un complesso diverso da quellodell'Io, che entra in quella che Jung configurerà come unasorta di relazione specifica col complesso dell'Iocostituendo un modello che prevede implicitamente chel'affettività, attraverso le innumerevoli sensazioni so-matiche, sia il tramite tra rappresentazioni dell'Io e soma.Ritornando al gioco della sabbia, ritengo che sia utilesoffermarsi sulla successione degli eventi che si realizza-no nel campo.Quello che intendo sottolineare è che il giocatore, prima fa,e poi vede. In particolare, l'immagine - la rappresentazionerisultante, presa nella sua globalità - si pone comeelemento significativo solo in quanto non immaginecasuale, ma in quanto immagine che è strettamente an-corata alla realtà psichica del giocatore, in quanto prodottodel suo fare.Un fare che è sì un agire proiettivamente sul campo dellasabbiera di parte della sua realtà psichica, ma che con-temporaneamente attiva il canale percettivo sia nel suocostituirsi sia, attraverso la visione del prodotto finito,determinando una re-introiezione del materiale proiettato.Tale immagine, sarà particolarmente significativa in quanto

(17)C.G. Jung, «Psicologiadella dementia praecox»(1907), op. cit., p. 49, nota103.

(18) Ibidem, pp. 46-49.

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(19)C.G. Jung, Aion: ricer-che sul simbolismo del Sé(1951), Opere, voi. IX, tomoII, Torino, Boringhieri, 1976,p.32.

(20) M. Merieau-Ponty,Fenomenologia dellapercezione (1945), Milano,II Saggiatore, 1965.

veicolata da un fare corporeo e da un percepire corporeo.Riprendendo quanto esposto poco prima a proposito delcomplesso dell'lo, e in particolare di quell'entità che Jungdenominò «lo affettivo», delle sue intuizioni circa i rapportitra affettività, sensazioni somatiche e complesso dell'lo, ericorrendo alle coordinate saussuriane relative alcostituirsi dell'unità Significante/significato, mi sembra chepossa proporsi che alla fine il giocatore si trovi alle presecon un'immagine che è l'unico significato possibile di unsignificante percettivo-corporeo veicolante l'affettività. Untale coinvolgimento del canale percettivo determina cosìcontemporaneamente due eventi.Da una parte, una modificazione dell'lo in lo affettivo, valea dire la brusca irruzione di un elemento complessuale aforte tonalità affettiva che non s'inserisce più nella strut-tura gerarchica del complesso dell'lo, e che determinauna significativa mobilitazione tanto delle determinantiinconsce quanto dell'asse lo-coscienza - dice Jung inAion (19) che «ad ogni processo psichico è inerente laqualità del valore, cioè la «tonalità affettiva», che indica inquale misura il soggetto è stimolato dal processo e qualesignificato esso ha per lui (sempre che il processo giungaalla coscienza). È tramite l'affetto che il soggetto ècoinvolto, attratto, giungendo così a sentire l'intero pesodella realtà» -.Da un'altra parte, l'Io, già intensamente mobilitato, si trovaalle prese con un oggetto, l'immagine risultante dal suofare, che, proprio per la sua caratteristica di prodottofinale, è l'unico significato possibile di un significantepercettivo-motorio veicolante l'affettività.In altre parole, un affetto, oltre che a modificare l'Io in loaffettivo, si manifesta per di più attraverso un significantepercettivo-corporeo che, per il fatto di scompaginarel'usuale struttura di significati attraverso i quali ilcomplesso dell'lo si riconosce, apre come una brecciache mobilita l'intenzione significante a ricercare nuovisignificati verbali perché possa di nuovo conoscere sestessa.Nella linea di pensiero che sto seguendo ho molto inmente la lezione di Merieau-Ponty (20), secondo la qualeil gesto, la mimica, la postura sono la traduzione imme-

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diala ad opera del corpo, non solo delle emozioni, degliaffetti e dei sentimenti, ma del mio stesso essere-nel-mondo e del mio stesso agirmi nel mondo. Il pensiero,come intenzione significante, si ricopre di significati noti,non tanto per conoscersi, quanto per colmare il vuotocostituitosi dalla percezione della sua presenza, costi-tuendo la parola come elemento che riempie lo scarto trala pienezza del gesto corporeo e il vuoto dato dalla per-cezione stessa dell'intenzione significante. La parola, perMerleau-Ponty, è un autentico gesto e contiene il propriosenso nello stesso modo in cui il gesto contiene il suo, finoa considerare la parola come l'oggetto attraverso il qualel'intenzione significante si fa gesto.La differenza, fondamentale, è che mentre il gesto si limitaad indicare un certo rapporto tra l'uomo e il mondosensibile, la gesticolazione verbale ha di mira qualcosa dipiù complesso, quale è il paesaggio mentale.Se concordiamo con Merleau-Ponty che noi viviamo in unmondo in cui la parola è istituita e per tutte le parole banalipossediamo in noi stessi significati già formati che nonsuscitano in noi stessi che pensieri secondi (tanto che illinguaggio e la comprensione del linguaggio sembranoowietà, fino a perdere non il nostro patrimonio di parole,quanto un certo modo di farne uso) allora sarà utile che ilsenso delle parole si formi per prelevamento su unsignificato gestuale che è immanente alla parola «come, inun paese straniero, comincio a capire il senso delle paroledal loro posto in un contesto d'azione e partecipando allavita comune» (21).Così, nel gioco della sabbia, di fronte ad una situazionequale quella che ho cercato di delineare, non si tratta tantodi trovare parole nuove ma, proprio come se ci si trovassein un paese straniero (la rappresentazione prodotta dalpaziente nella sabbiera contenente strutturalmente in séuno o più elementi complessuali, spesso altamente carichienergeticamente, che rendono allo stesso tempo«familiare» e «straniero» ciò che si è fatto) di rinnovarequell'esperienza in cui il senso, il significato, la parola,sono come estratti e scoperti all'interno di un contesto chesi fa contesto d'azione attraverso il «gesto» interpretativodell'analista.

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(21) M. Merleau-Ponty, Feno-menologia della percezione(1945), in F. Fergnani (a cura di) //corpo vissuto, Milano, IISaggiatore, 1979, p. 147.

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Nel restituire nei modi e nei tempi opportuni - ora, doma-ni, tra un anno - parti della rappresentazione fatta dalpaziente nella sabbiera, quella scena, che a volte dacome l'impressione di essere scaturita direttamente dalcorpo, diventa gesto verbale che, coerentemente con laposizione espressa da Merleau-Ponty, non traduce unpensiero già fatto ma lo compie.Così, le parole note, le parole scontate, le parole sature,girano intorno, ma è come se slittassero sulla superficiedel significato immagine. Il giocatore può denominare glioggetti che ha usato, le sensazioni che può aver provato;può descrivere la rappresentazione che si è trovato acostruire, ma è come impossibilitato a trovare nel suorepertorio di significati noti una parola-frase che possasignificare sia quell'immagine sia quelle stesse parolenuove che si è trovato a pronunciare, fischiettare,canticchiare o mugugnare mentre costruiva larappresentazione e che finiscono per essere, alla fin fine,qualcosa di molto più simile agli oggetti, ai ritmi e aimovimenti che ha depositato nella sabbiera che alleimmagini verbali a lui note.L'effetto finale è che ciò che è scaturito può trovar postonell'asse lo-coscienza solo a condizione che si formulinonuovi gesti verbali.Nel momento in cui io collego un'emozione, un vissuto,un affetto del paziente ad uno o più elementi che il pa-ziente stesso ha depositato nella sabbiera, opero, di fat-to, un collegamento che, attingendo a quel significanteper immagini, introduce quel «gesto» che è il presuppo-sto indispensabile perché la parola possa generare non«pensieri secondi» ma quella certa essenza motoria chefa sì che io mi riporti alla parola come la mia mano sidirige verso un luogo del corpo, spianando la via allapensabilità e all'integrazione.Per completezza di esposizione, penso che vada anchedetto che se ciò è valido per quanto riguarda il lavoro chepuò essere fatto su singole parti della rappresentazionefatta dal paziente nella cassetta, lo è meno per quantoriguarda la globalità della scena stessa.In questa dimensione, si ha l'impressione che per quanto«nuova ed efficace» possa essere la parola e il significa-to di cui è portatrice, essa possa solo approssimarsi alla

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complessità di quell'immagine presa nella sua totalità,girando sempre più vicino ad un nucleo di significato chenel mantenere tutta la sua enigmaticità conserva con-temporaneamente tutta la sua vitalità, nel senso quindipiù junghiano del termine stesso di simbolo.Da qui, la mia personale impressione è che il gioco dellasabbia si costituisca come un oggetto complesso il cuiuso da parte dell'analista prevede un particolare settingmentale.Tale particolarità può consistere nel porre prevalente-mente l'accento, nel corso del lavoro analitico, qualsiasisia il materiale portato dal paziente, sulla sensorializza-zione del materiale stesso, ponendo costantemente l'ac-cento sul «come» piuttosto che sul «perché», elicitando,quando possibile, uno sforzo del paziente a «descriversi»piuttosto che a «raccontarsi» e dando particolare valorealle proprie percezioni e ai propri dati sensoriali emergen-ti e attivantesi in coincidenza o in risposta alle sollecita-zioni portate in seduta dal paziente.Piuttosto riduttivamente, ma con una buona approssima-zione, si può sostenere che il setting mentale dell'analistache affianca la sabbiera al suo lavoro analitico presuppo-ne un ascolto particolare della sensorialità facendone uncanale privilegiato attraverso cui ascoltare sia il pazienteche le proprie reazioni interne e attraverso cui veicolarele interpretazioni fornite in seduta.In altre parole, l'analista che usa anche la sabbiera damolto spazio a una dimensione in cui ascolta il pazientecon il proprio corpo e riconduce i propri interventi allacorporeità (e di conseguenza alla percezione) del pa-ziente, più di quanto accada usualmente in un settingclassico.Reputo che in ciò vada ricercata la peculiarità del lavorodell'analista che usa nel suo studio anche la cassettadella Lowenfeld.In altri termini, la presenza della cassetta di sabbia all'in-terno del mio studio è la conseguenza e non la causa diun mio particolare modo di relazionarmi all'inconscio. Ilfatto che ciò coesista anche con una mia particolarepropensione a lavorare con le immagini è un dato impor-tante ma non discriminante rispetto a molti colleghi che

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posseggono un'analoga propensione ma che non sento-no la necessità di usare la sabbiera.Di fatto, è proprio quell'attenzione continua alla sensoria-lizzazione, alla percezione, al linguaggio corporeo, allagestualità, che permette un processo in cui l'immagine,finalmente prodotta, rilancia al corporeo e al percettivo,facendo sì che il gesto interpretativo si configuri comeuno strumento che, attraverso la parola, riesca ad inte-grare, tra le tante e complesse aree della psiche, anchequella dimensione così arcaica e insieme così vitale,come quella corporea.

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Il gioco della sabbia eFesperienza psichica

Ana Antonieta Cervini, Roma

Quando la struttura del setting analitico include il giocodella sabbia, la sabbiera è generalmente collocata in unaparte specifica della stanza, in un'area diversa da quellautilizzata per il dialogo verbale; vicino ad essa si trovanoin uno scaffale tanti oggetti, figure di piccole proporzioni,nonché colori per colorare la sabbia ed acqua per model-larla: hanno una funzione di oggetti che saranno utilizzatiper esprimere mille cose diverse; e che, in quanto ogget-ti-giocattolo, impongono il «come».Quando il paziente utilizza la sabbiera avviene un cam-biamento fisico nello spazio determinato dalla coppiaanalista-paziente, sia che il setting sia strutturato vis-a-vis che con il lettino.Il paziente si alza per andare nell'area della stanza in cuisi trova la sabbiera. Il suo sguardo non è più in rapportocon quello dell'analista, se il setting è vis-a-vis, o non èpiù privo d'oggetto indeterminato se è disteso sul lettino.Passa ad essere concentrato su quel corpo-sabbiavuoto, con il quale entra in un rapporto privilegiato e puòessere attirato dalle figure giocattolo. L'analista rimaneseduto nel suo posto abituale ed ha una visione indirettadell'area. Nel rapporto analista-paziente awiene unadecentralizzazione. Questi tré elementi: 1) la presenzadell'analista come osservatore partecipante con unacentralità spostata; 2) l'ambiente del setting analitico cheoffre la sabbiera e gli oggetti; 3) la posizione privilegiatadel paziente davanti

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alla sabbiera; mi sembra che determinino e favoriscano untransfert caratteristico e specifico, quando si attiva il giocodella sabbia, nel quale il paziente vive un'esperienzapsichica assai complessa.L'analista acquista un ruolo protettivo d'osservatore-testi-mone del processo e crea la condizione necessaria, unambiente favorevole, perché il paziente possa prenderecontatto con il suo inconscio attraverso le immagini co-struite nella sabbia.La decentralizzazione dell'analista è leggibile nelle paginein cui Jung parla dell'autoconoscenza come di «unaawentura che conduce in spazi di ampiezza e profonditàinattese» analoga a quella dell'alchimista per il quale eradella «massima importanza avere uno "spirito familiare"benevolo che lo aiutasse nel suo lavoro, e al tempo stessodedicarsi all'esercizio spirituale della preghiera mentrelavorava» (1).Questo ruolo «non centrale» dell'analista è stato sottoli-neato da Winnicott nel 1955 e da Spitz nel 1956, quandohanno segnalato come divenga secondario il rapportointerpersonale con l'analista negli stadi regressivi di attivitàarcaica e di dipendenza con l'oggetto primario, mentreacquista importanza lo scenario analitico.Freud nel 1937, in «Costruzione nell'analisi», saggio degliultimi anni, breve, ma ricco di un'impostazione nuova,come rivisitata in un'altra ottica, sottolinea che «il rapportodi traslazione che si instaura verso l'analista è partico-larmente idoneo a promuovere il ritorno di relazioni affet-tive rimosse; si tratta di materiale onirico, libere associa-zioni, insight» che definisce «materiale grezzo».Si sottolinea così, nel rapporto di transfert, il contatto contutti quei materiali «grezzi», che fanno emergere il rimossopersonale. S'intravede anche una ulteriore complessità delrapporto: Freud sottolinea infatti come, in questo processodi costruzione, il lavoro del paziente sia caratterizzato daun dinamismo privilegiato, che gli appartiene. «Ciò cheinteressa è un quadro, una costruzione della vita delpaziente. A questo punto, però, veniamo ammoniti a nondimenticare che il lavoro analitico è costituito da dueelementi completamente diversi, che esso si svolge su duescenari separati, che coinvolge due persone, a

(1) C.G. Jung,MysterìumCo-niunctionis(1955/56), Opere, voi. XIV,tomo I, Torino, Bo-ringhieri,1989, p. 520.

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(2)S. Freud, «Costruzioninell'analisi» (1937), Opere,voi. XI, Torino Boringhieri,1979, p. 542.

(3) C.G. Jung, Myterìum Co-niunctionis, op. cit., p. 527.

(4) M.L. von Franz, Psiche eMateria, Torino, Boringhieri,1992, pp. 5-6.

ciascuna delle quali è assegnato un differente compito...Le condizioni dinamiche di questo processo (la costruzio-ne) sono talmente interessanti che in compenso l'altraparte del lavoro, la prestazione dell'analista, è stata spintain secondo piano» (2).Nella costruzione è come se i frammenti della vita delpaziente si organizzassero intorno ad un centro: divienepiù cosciente di sé, può accettare se stesso, riconciliarsicon le circostanze, gli eventi positivi e avversi della suaesistenza, con la sua totalità; la sua storia è una organiz-zazione creativa del suo vissuto. Per questo la costruzio-ne implica la non proiezione del suo materiale psichicosull'analista. Difatti la sua storia comporta la differenzia-zione dall'altro, egli comincia a conoscere se stesso, adivenire consapevole di sé.Si racconta, ma la narrazione dice di più di quello che inrealtà descrive, perché acquista un significato simbolico,che rivela il senso di quell'individuo e rimanda a un signifi-cato più ampio ed elevato della capacità di comprensione.Non sono forse queste le «condizioni dinamiche così in-teressanti» nel processo di costruzione, cui accennavaFreud?Jung specifica il ruolo dell'analista in questa decentra-lizzazione, dicendo che «è certo necessaria la guida delmedico, che può procurare al paziente l'intuizione neces-saria per capire le asserzioni del suo inconscio; ma èaltresì necessario avere l'esperienza concreta di questo.Egli si trova allora nella situazione dell'apprendista alchi-mista, il quale viene istruito dal maestro ed apprende dalui tutti i trucchi di laboratorio. Prima o poi però giungerà ilmomento in cui è necessario che si metta lui stessoall'opera, giacché - come ribadiscono gli alchimisti - nes-suno lo potrà fare al posto suo» (3).L'opera consiste nel confronto con l'inconscio, non solopersonale ma anche collettivo, il sistema psicoide, inten-dendo «l'assolutamente ignoto, quell'inconscio che nonha mai attinto la coscienza. Ma Jung usa l'espressione inun senso specifico... sarebbe quell'area della psiche incui la psiche stessa sembra mescolarsi con manifestazio-ni materiali» (4).Jung sostiene che quest'opera si compie attraverso una

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prima materia vile, costruita dalle immagini percepite, ed èopera dell'attività immaginativa.La coscienza prende forza dalle sue verità che poggianosu principi logici o categorici da cui origina la sua sicurez-za, la sua autosufficienza. La sabbia invita ad undecentramento dell'Io. Primo passo è avvicinare, affrontarequel corpo senza forma, che si presenta con tuttal'aggressività dell'indifferenziato, che annuncia la realtàdello sconosciuto, quello che l'Io generalmente limita, olascia avanzare, imponendogli le sue ragioni. Quando ilpaziente è davanti alla sabbia l'Io deve permettere che,alla sua presenza, la fantasia operi attraverso il corpo,costruisca l'immagine. L'Io non viene annullato: è privatodella sua egemonia. Il limite della sabbiera e la presenzadell'analista sostengono l'Io davanti all'inconscio; l'Iodiviene spettatore dell'immagine che l'inconscio costruisce,manifestandosi, senza travolgerlo. Jung varie voltesottolinea il pericolo che l'inconscio sopraffaccia l'Io. Credoche il limite della sabbiera e la presenza dell'analistaabbiano la funzione di proteggere l'Io da questo pericolo edi fare in modo che per il paziente sia possibile fareesperienza psichica dell'unità mentale, che è l'inizio delprocesso di individuazione. La sabbiera ha uno spaziolimitato, che contiene una materia informe e, nello stessotempo, plastica. Il paziente tocca, muove la sabbia cheacquista vita, confermando la tesi, già aristotelica, che ilmovimento è vita e la vita è movimento. La fantasia e ilcorpo imprimono movimento nello spazio esterno concretodella sabbiera. Inizia così una interazione tra il mondointerno e quello esterno. Questa relazione produce unacostruzione, un'architettura, più o meno comprensibile peril creatore, che ha vita propria e le cui caratteristiche sonouguali a quelle che Jung attribuisce all'immagine interna:«Un'entità complessa che si compone dei più vari materialidella più svariata provenienza. Essa non è, però, unconglomerato, ma un prodotto in sé unitario che ha un suoproprio significato autonomo» (5). La fantasia del pazientecostruisce con il reale esterno una immagine che porta loscarto tra interno ed esterno, ed apre ad una visioneestetica o di comprensione. Il risultato è complesso: è ilricordo del-

112 (5) C.G. Jung, TipiPsicologici, Opere, voi. VI,Torino, Boringhieri, 1969,p. 452.

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l'inizio, quando ogni pezzo veniva fatto, scelto, collocato,che convive, differenziato, con l'impressione dell'operafinita. La sua fisicità, il suo permanere «lì fuori» permettedi allargare il campo delle sensazioni e della comprensio-ne che in un primo momento era latente. Favorisce lapresa di coscienza, da parte del paziente, della sua indi-viduazione, collocandola nella totalità.L'immagine è costruita in uno spazio concreto esterno; avolte il paziente manipola la sabbia, altre volte la usasolo come sfondo su cui appoggiare le figure, come unospazio euclideo attraversato da oggetti. Ma, acostruzione completa, lo spazio è un tutt'uno con lacomposizione. C'è una sovrapposizione di spazio reale espazio concettuale che da quel momento si converte inspazio simbolico. Lo spazio limitato della sabbiera ha unruolo attivo, interagisce con le figure che si formano o sidepositano. È un contenitore ma, allo stesso tempo, ècontenuto nell'immagine. Contiene la fantasia delpaziente ma deve essere contenuto, introiettato dalpaziente, perché si crei l'immagine. Il limite spaziale dellasabbiera diventa costituente, fa da briglia alla fantasiaintroducendo un modello, un ordine. La costruzione nonavviene solo nello spazio della sabbiera, ma «con» il suospazio; perciò è uno spazio strutturante e allo stessotempo uno spazio intermedio, simbolico, tra il dentro ed ilfuori. Il limite dell'oggetto sabbiera determina l'interazionedel soggetto, ma questa sua azione modifica il limitedell'oggetto, perché non è più solo limite della sabbiera,ma è parte costitutiva dell'immagine. Perciò la primaalterazione provoca una interazione, alla quale segueun'altra interazione. Questa esperienza si facontinuamente nel gioco della sabbia, dal primoapproccio alla costruzione di ogni figura; si ripete anchenella successione delle sabbie, quando il pazienteintroduce un elemento nuovo, al primo sguardo «vile»,senza significato. Nelle sabbie successive troviamo peròla grande rivoluzione che ha portato.Credo che solo queste poche riflessioni ci autorizzano adire che «fare la sabbia» è fare «esperienza psichica», eallo stesso tempo è creare un simulatore delle leggi del-l'esperienza psichica che, come ogni simulatore, rimandaad altro, alla relazione tra coscienza ed inconscio, dove

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gli opposti interagiscono e si congiungono nel simbolo.Occorre però spogliare il simbolo delle funzioni di «sinte-si», nella accezione riduttiva portata dall'astrazione spe-culativa, ed imprimere ad essa il movimento del simbolicoche appunto, come un ponte, unisce ma non distrugge ledue rive, e il terzo aggiunge altra realtà, senza adombra-re le due funzioni antecedenti, anzi ampliandole. Allora ilsimbolo è lo sfondo, la base reale concreta delle future«incarnazioni».Accanto alla sabbiera si trovano degli scaffali con tantioggetti, una specie di «supermarket» dell'immaginario,come lo ha definito un bimbo.Sono oggetti i più vari, di piccole dimensioni, che giàimpongono il come e rimandano ad altro.Evidenziano un «oltre» il valore di uso, un «oltre» il valoredi scambio sociale, per lasciarsi impregnare del valoredel paziente. La concomitanza di questi «oltre» rimanda,però, al trascendente che, a sua volta, restituisce il valoredi uso, di scambio sociale ed individuale. L'oggettoacquista un riordinamento simbolico e pragmatico. Credoche questa operazione sia favorita anche dall'accumuloquantitativo, dell'essere oggetti ammassati gli uni accantoagli altri. Nel caos il paziente sceglie secondo il suodesiderio, ma anche per quanto l'oggetto mostra di sé.Questo ci colloca fuori del valore assoluto del soggetto,proprio del pensiero moderno, e fuori del valore assolutodell'oggetto, tipico del mondo antico. È concomitanza divalori individuali e sociali, del dentro e fuori del soggetto edell'oggetto. Anche qui appare l'ambivalenza delsimbolico che, pur unendo in un continuo, allo stessotempo definisce.Le figure sono scelte con lo sguardo e con il tatto; anchel'immagine della sabbia è costruita con lo sguardo ed iltatto: c'è una continuità tra il visivo ed il tattile. La perce-zione visiva è il senso che permette di conoscere attra-verso la distanza. L'esperienza tattile è un'organizzazionesensoriale, antecedente, che obbliga ad un avvicina-mento tra soggetto ed oggetto. Ma le ripercussionicineste-tiche operano modificazioni di struttura, bastipensare all'effetto farfalla di Lorenz; creano un continuo,un'interazione tra me e l'altro da me.

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Quando il paziente costruisce l'immagine modellando lasabbia o usando gli oggetti, rappresenta una scena in cuiè attore e spettatore. Crea quello che l'emozione vuole,ma anche quello che la sabbiera gli permette ed è spet-tatore dell'opera. La scena costruita è troppo sua per es-sere «falsa», è troppo «falsa» per avere l'intensità dram-matica della scena, permettendogli di fare un'esperienzadi distanza che apre alla visione estetica o di compren-sione.L'apprendista alchimista ha dominato la materia e conessa ha dato forma all'emozione; ha creato qualcosa chegli sfugge. Il soggetto vibra insieme con l'opera, la suapsiche si è materializzata; trascendenza e corpo sono untutt'uno nella visione estetica.Non è estetico in quanto bello o brutto, ma in quantoanimato: gli «dice» un oltre quello che voleva dire.Ricordo una paziente che aveva costruito una sabbia chenon «diceva» niente alla sua comprensione. La sedutasuccessiva inizia dicendo: «Ho dovuto fare il cambio distagione; per me è una fatica immensa, nella quale sem-pre mi sento persa, sopraffatta da tutto quel disordine chesi crea. Questa volta l'ho fatto come se facessi la sabbia enon ho perduto la pace; anzi sono stata contenta».L'estetica rende vivo l'oggetto, lo spiritualizza, c'è unacommozione tra oggetto e soggetto. Non lo proviamodavanti alla sedia di Van Gogh o alla candela di Picasso?Jung sostiene che non basta il rapporto estetico conl'immagine; è compito dell'analista favorire la compren-sione, il giudizio critico sulle immagini, un'apertura disenso, quindi, integrando nella coscienza quelle intuizioniche l'inconscio personale e collettivo hanno rivelato. Ilsetting terapeutico, la presenza dell'analista, il limite dellasabbiera racchiudono l'esperienza psichica e costellanoprevalentemente l'archetipo del Sé. Nel confronto conl'immagine costruita il paziente può entrare in rapportocon il fondo oscuro e numinoso del Sé, conquistando cosìil proprio Sé. Ciò lo rende più sicuro ed autonomo (6).

(6) C.G. Jung, MysterìumCo-niuctionis, op. cit., p. 530-531.

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Interpretare come giocodella fantasia

nella coppia analitica

Gabriella Casadonte, Roma

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(1) L'attività immaginativa èper Jung l'espressione del-l'energia psichica, ed ognicontenuto psichico, se con-siderato da un punto di vistaenergetico, è un sistema diforze, che appare alla co-scienza. (Cfr. C.G. Jung, Tipipsicologici (1921), Opere,voi. 6, Torino, Boringhieri,1969, p. 438). Arnheim af-ferma che pensiamomediante ciò che vediamo,ma per utilizzare il pensierovisuale è necessaria lacapacità di vedere le formevisive come immagini deipatterns di forze chesottendono resistenzaumana (cfr. R. Arnheim, //pensiero visivo, Torino, Ei-naudi, 1974, p. 369).(2)W. Baranger, M. Baran-ger, La situazione psicoana-litica come campo biperso-naie, Milano, Raffaello Corti-na, 1990.

L'attività fantastica si manifesta nel setting analitico comeun pensare per immagini, che è espressione dell'energiapsichica (1), presente tanto nel paziente quanto nelterapeuta. La rappresentazione costruita nella sabbierada una prima forma e porta a coscienza ciò che nelpaziente aveva fino ad allora agito a livello inconscio; ilterapeuta, invece, usa immaginativamente, per interpre-tare, ciò che ha visto nascere nel vassoio della sabbiaalla luce della dinamica transfert-controtransfert. Tuttoquesto appare nel rapporto terapeutico sotto l'aspetto diuna fantasia inconscia, che potremmo chiamare di cop-pia, la quale, prima a livello di raffigurazione e poi anchea livello verbale, da origine ad una metafora condivisa,che nasce nel campo bipersonale (2).Desidero cogliere questi fenomeni interattivi nel giocodella sabbia di una giovane e bella insegnante, con uncomplesso materno negativo, che era venuta in terapiadopo la fine di una relazione sentimentale che, come tuttequelle che l'avevano preceduta, non aveva lasciatoalcuna traccia in lei, ma da cui era stata sempre dipen-dente. Lamentava difficoltà nello svolgere la sua attivitàche, invece, era molto apprezzata all'esterno. Anna tornaad eseguire il gioco della sabbia per la terza volta, dopodue anni di terapia e, come l'anno precedente, proprioalla vigilia delle vacanze estive, in un periodo in cui si stanuovamente confrontando con il tema della solitudine

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che evoca in me immagini conosciute. Mi sono chiesta seil suo awicinarsi alla sabbiera non fosse indotto dal fioriredi intense emozioni condivise tra noi, relative allasolitudine e alla separazione, che si concretizzavanonell'uso di uno strumento a me caro, perché, attivandol'immaginazione, favorisce il contatto con le determinantiinconsce e permette l'elaborazione di emozioni profonde.Anna si era sempre servita di questo strumento con dif-ficoltà, anche se in modo significativo; in questo sensol'utilizzazione del gioco potrebbe rappresentare una ri-sposta inconscia della paziente alla mia partecipazioneemotiva al tema toccato. Anna inizia la seduta raccontan-do che ha acquistato oggetti di abbigliamento e truccoche difficilmente sa concedersi e manifesta l'intenzione diristrutturare la propria abitazione: mentre parla della quo-tidianità, a livello inconscio comunica un suo progettovitale.Subito dopo si awicina al vassoio e, accarezzando lasabbia da destra a sinistra, chiede se bisogna pensare ofare una cosa di pancia: questo interrogativo mostracome il solo contatto con la materia le stia facendosperimentare emozioni che si trasformeranno inimmagini. Profondamente assorta nel lavoro modellanella sabbia tante piccole dune, cura con moti sottili tuttoil bordo intorno, infine, spianando la parte centrale, ponein successione nel campo tré forme stilizzate di pesce,un lucente delfino, alcune palle di vetro trasparenti ebrillanti e biglie colorate; aggiunge infine, nei due angolisuperiori, due casette trasparenti piene d'acqua,contenenti una dei pesci, l'altra una forma rotonda, e,come ultimo gesto, pone nella sabbiera una pietra diametista (fig. 9 in Appendice). Tornata a sedersi, affermadi riconoscersi nel delfino lucente, gli altri pesci sonoqualcosa che accompagna; la raffigurazione rappresentaun percorso tra opacità e trasparenza.Nel mio ascolto questa rappresentazione appare unametafora viva del percorso analitico di Anna che, nelcalore del rapporto terapeutico, è potuta passare dallarappresentazione di un sole e di una luna immobili in unimmenso spazio sideralè della prima sabbia a questoquadro guizzante di vita sottomarina che rivela quanta

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(3) Per Meitzer le interpreta-zioni «sono soltanto un par-ticolare modo tra tanti di ve-dere il materiale, legato adun particolare modo di fareuna fantasia su una fanta-sia» (D. Meitzer, La com-prensione della bellezza ealtri saggi di psicoanalisi,Torino, Loescher, 1981, p.135). A suo giudizio il mododi pensare fondato sul prin-cipio di causalità non è ope-rativo nella attività interpre-tativa, che si avvale invecedelle fantasie inconsce, chesi manifestano attraverso lemanifestazioni della dinami-ca transfert-controtransferale. «Questifenomeni [...] ci divengonodisponibili o attraverso isensi, o attraverso unaqualche forma di comu-nicazione, o attraverso unmezzo un po' più misteriosocioè l'identificazione e il con-trotransfert. Uno di questimezzi, la comunicazione, eforse anche il terzo, l'identifi-cazione, permettono disuscitare nell'analista unafantasia basata su unavisione, che si speraaderisca un poco a unsogno osservato dalpaziente» {Ibidem, p. 141).

energia libidica essa ha potuto recuperare nella relazioneanalitica.La seduta successiva Anna, entrando, dice che ha fattodelle spese: «Mentre venivamo qui ho pensato...», poi,notando il lapsus, si corregge, «mentre venivo qui...». Edio, accogliendo la sua metafora, che era ancora vivaanche in me, intervengo dicendo: «Lei e il delfino».Anna sorride e dice che ha pensato molto al gioco dellasabbia costruito nella seduta precedente perché rappre-senta un suo desiderio: «II delfino è bello e argenteo; èassertivo», afferma; torna poi a parlare del tema dellatrasparenza e della opacità e dice che, a differenza dellegrandi sfere, le cui pagliuzze brillanti impediscono la vista,attraverso le casette si può vedere; esse sono come unrifugio o un luogo di riposo, le danno la sensazione cheha in seduta quando non porta sogni, ma l'incontro non èinutile: «È come quando uno è in viaggio, ma èconsapevole che ci sono alberghi o luoghi in cui sa dipoter andare a riposare ed è lui a scegliere di entrare ouscire». La mia interpretazione è nata da un vissutocontro-transferale che risponde alla fantasia di base dellapaziente, e, confermandola, struttura il significato stessodella seduta come percorso vitale verso una meta perso-nale, a cui si può accedere seguendo ritmi propri (3). Leparole di Anna, che, accettando la metafora del viaggio,la arricchiscono con l'immagine dell'albergo ospitale,confermano del contenimento connesso a questo stadiodella relazione analitica, e mostrano come l'interpretazio-ne sia stata da lei accolta e condivisa. Al momento dellapsus mi sono resa conto che ero stata profondamentepresa da ciò che accadeva nel campo e che durantel'esecuzione della sabbia la mia partecipazione affettivaera stata intensa. Ma la necessità di interpretare mi haportato a riflettere; infatti, pur essendo parzialmenteregredita, avevo conservato una parte dell'Io capace diosservare ed osservarmi e, attraverso l'empatia el'elaborazione del controtransfert (solitudini comuni epartecipazione intensa al viaggio) ho compreso lafantasia inconscia che dominava il campo ed ho fattol'interpretazione.Quando il paziente costruisce il gioco della sabbia daforma ad una fantasia inconscia che, per il fatto di nasce-

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rè nel rapporto duale, è percepita e condivisa anche dalterapeuta; mentre assistiamo all'esecuzione della sabbia«è in gioco il contatto profondo con un altro e la strutturaprofondamente diversa che si crea tra lui e noi» (4). Tuttoquesto risulta diverso da ciò che ognuno è indipendente-mente dall'altro; ciò che si sviluppa nel campo nasce da unsusseguirsi di identificazioni proiettive incrociate (5), chenon rendono l'uno complementare all'altro, ma, nellacondivisione dell'esperienza (6), portano alla comunica-zione e all'arricchimento reciproco.Il rapporto terapeutico ha un impulso quando è possibilefare una interpretazione che è mutativa (7), perché nasceda un insight che unisce comprensione intellettuale epartecipazione affettiva di ciò che accade nel campoanalitico; il terapeuta può fare questo soltanto se prende inconsiderazione il controtransfert; difatti, «l'insigni nascedall'integrazione di fantasie transferali e controtran-sferali»(8), che il terapeuta riesce ad elaborare attraverso glistrumenti che il training della sua formazione gli ha offerto(9).Potremmo dire che nel gioco della sabbia «spesso le manisoltanto sono capaci di fantasticare, di modellare otracciare forme completamente nuove per la coscienza»(10), attraverso questo lasciar fare (geschehenlassen)prima e il considerare (betrachten) poi, senza lasciarsiprendere dalle associazioni abituali (11), il paziente riescea portare alla coscienza e ad integrare le sue determinantiinconsce, mentre l'Io muta lentamente il suo rapporto conl'esperienza immaginativa in atto. Tutto questo è messo inrisalto dalla presenza e dall'attenzione dell'analista che, inuno stato sognante, segue anch'egli, in una sorta diimmaginazione attiva, il gioco mentre il suo lo non perdeconsapevolezza di ciò che accade. Il terapeuta, simile alcacciatore alla posta (betrachten = considerare, cacciare),sospesa la concatenazione dei significati al fine diconsiderarli, è in attesa di ciò che si presenta. «Laattenzione ingravida l'immagine (il significante), che nonappena acquista la sua autonomia mostra ciò che portavanel grembo» (12) e nasce l'interpre-tazione.«L'atto interpretativo come evento psichico - ci ricorda

(4) Ibidem, p. 42.(5) S. Manfredi Turillazzi,«L'unicorno. Saggio sulla fantasiae l'oggetto nel concetto diidentificazione proiettiva», inRivista di Psicoanalisi, XXI, 4,1985, p. 468.(6)W. Baranger, M. Baran-ger, Lasituazione psicoanalìtica comecampo bipersonale op. cit., p. 84.(7)J. Strachey, «La naturadell'azione terapeutica dellapsicoanalisi» (1934), in Rivista diPsicoanalisi, 1974.(8)W. Baranger, M. Baranger, Lasituazione psicoanalitica comecampo biper-sonale, op. cit., p.69.(9) Per Jung pensare con fantasienon è improduttivo, perché con iltempo il «gioco della fantasiafinisce [...] con il rivelare forze econtenuti creativi» (C.G. Jung,Simboli della trasformazione(1912-52), Opere, voi. 5, Torino,Boringhieri, 1970, p. 31). Infattiquesta forma di pensieropermette un collegamento tra ilpensiero indirizzato, che opera alivello cosciente, e ciò che agisceal di sotto della coscienza{Ibidem, p. 42). La psiche simanifesta attraverso la fantasiache, essendo in gran parte unprodotto dell'inconscio, è anche«la madre di tutte le sensibilità»(C.G. Jung, Tip» psicologici (1921), op. cit., p. 63) e ne rappresental'attività vitale. La fantasia creatri-ce collega intelletto e sentimento,ha un orientamento finalistico eda luogo alla funzionetrascendente. Mentre Freud vedenella fantasia un appagamento didesiderio istintuale, per Jung ilprincipio dinamico della fantasia èil fattore gioco, che aiuta asviluppare ciò che in essa c'è dipiù costruttivo {Ibidem, p. 67). Lafantasia è una funzioneirrazionale che permette allavolontà di unificare gli opposti,ma, affinchè il gioco diventicreativo è necessario che laragione si assoggetti agli interessidell'immaginazione {Ibidem, p.130). Le

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fantasie hanno un significatoed appaiono come simboliche cercano di delineare lafutura linea di sviluppo psi-cologico (Ibidem, p. 444).(10)C.G. Jung, «Commentoal 'Segreto del fiore d'oro'»(1929/57), in Studi sull'alchi-mia, Opere, voi. 13, Torino,Boringhieri, 1988.(11) E. Humbert, «I tré verbidell'immaginazione attiva»,in Rivista di PsicologiaAnalitica 17, 1978, p. 93.(12)/b/ofem.(13) P. Aite, «Una prospetti-va sull'atto interpretativo inanalisi», in L'atteggiamentointerpretante nel lavoro ana-litico, Relazione al 3° Semi-nario Residenziale A.I.P.A.,Forte dei Marmi, ottobre1987, p. 83.(14) Ibidem, p. 82.(15) D. Meitzer, La compren-sione della bellezza ed altrisaggi di psicoanalisi, op. cit.,p.163.(16)C.G. Jung, «La psicolo-gia della traslazione» (1946),in Pratica della psicoterapia,Opere, voi. 16, Torino,Boringhieri, 1981, p.190.

(17) N. Schwartz-Salant,«Fondamenti archetipici del-la identificazione proiettiva»,in Atti del 1CP Congressodella I.A.A.P., a cura di M.A.Mattoon, Berlin, DaimonVerlag.

(18)C.G. Jung, «La psicolo-gia della traslazione», op.cit, p.313.

Aite - corrisponde ad un gesto che indica, fa vedere» (13)e «la metafora emersa [...] nella fantasia del paziente,riportata nel campo, può permettere il passaggio dal solovissuto e solo visto al vissuto e visto» (14). Meitzer chia-ma interpretazione ispirata, quella che nasce da una al-leanza terapeutica improntata ad un cameratismo, che èfunzione della «capacità di ambo i partners d'abbando-narsi all'awentura, di spingersi oltre la terapia della psico-patologia del paziente ed entrare nel regno dell'ignoto,dello sviluppo del carattere di entrambi», che è in relazio-ne con la «ricchezza della unione della coppia dei genitorinella realtà psichica» (15).Jung non concepisce la libido come pulsione sessuale,ma la considera invece energia psichica ed interpreta lafantasia incestuosa come una riattivazione dell'archetipodell'incesto (16) che viene rivissuto da entrambi i mèmbridella coppia terapeutica. Le immagini dello scritto alche-mico Rosarium philosophorum, che Jung prende a mo-dello dei fenomeni che animano la relazione analitica,mostrano la trasformazione di una coppia, in cui le ener-gie dell'incesto iniziale, che ben rappresentano la identi-ficazione proiettiva nei suoi aspetti di fusione e confusio-ne reciproca, si trasformano nella unio mystica, in cui iprocessi spirituali sono collegati alla sessualità ctonia,fino a raggiungere nella figura del Rebis la rappresenta-zione di un «terzo corpo», struttura pneumatica, che portaalla saggezza consapevole e alla affinità reciproca della«terza area» dove è possibile cogliere nella sua mul-tiformità la natura mercuriale che Schwartz-Salant ricono-sce alla identificazione proiettiva (17), legata alla fantasiainconscia, la quale non riguarda più soltanto la psicheinconscia del paziente, ma si manifesta anche nel tera-peuta. Queste esperienze, se ben comprese ed utilizzate,possono condurre alla individuazione del Sé rappre-sentato dall'ermafrodito, segno di integrazione reciprocadi coscienza e inconscio (18).Nella nevrosi di traslazione prende forma la coniunctio,fenomeno psichico indispensabile per indagare il mondoinconscio. Il terapeuta prova interesse per il suo lavoroperché per induzione nel suo inconscio vengono costellatigli stessi complessi attivi in quel momento nel pazien-

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tè, che «come tentacoli di una piovra» (19) avvolgonoentrambi; «II contenuto evasivo, illusorio, cangiante, checome un demone possiede il paziente, aleggia ora frapaziente e terapeuta e prosegue in qualità di terzo il suogioco» (20), ma «l'inevitabile induzione psichica fa sì chemedico e paziente siano coinvolti e trasmutati entrambidalla trasmutazione del terzo» (21), mentre la sola con-sapevolezza dell'analista illumina «con luce fioca e tre-molante l'oscura profondità del processo» (22). L'aiuto cheil terapeuta può dare al proprio paziente muta da caso acaso ed è connesso alla particolarità delle rispettivepersonalità che, unendosi, formano una commistioneunica. Anche se il terapeuta non deve avere un atteggia-mento direttivo, poiché sceglie quando e che cosa inter-pretare secondo ciò che ha elaborato nel controtransfert,egli da una direzione al processo, perciò possiamo direche il punto di urgenza dell'interpretazione nasce da unafantasia inconscia di coppia che, in ogni momento, con-ferisce un significato al campo bipersonale (23). Ogniterapeuta giunge a questo attraverso un suo personalemodo di sentire, che trasforma in parole, i cui accentiassumono colori diversissimi da un paziente all'altro; «L'in-terpretazione dell'analista è simile agli incantesimi di unapprendista stregone che evoca spiriti in numero benmaggiore di quanto egli stesso desiderasse [...]. Noi tuttisappiamo per esperienza che molte volte la nostra inter-pretazione è stata ricca di significati in misura moltomaggiore di quanto consciamente intendevamo comuni-care e che qualcuno dei significati secondi è stato quelloeffettivamente operativo [...]. Ci può essere interpretazio-ne quando inventiamo qualcosa, quando il nostro lavoro siawicina a quello del poeta» (24).

(19) Ibidem, p. 191.

(20) Ibidem, p. 199.

(21) Ibidem, p. 209.

(22) Ibidem.

(23) W. Baranger, M. Baran-ger, La situazione psicoana-litica come campo biperso-nale, op. cit., p. 75.

(24) Ibidem, p. 143.

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Tra gioco e sofferenza

Marco Garzonio, Milano

È un paradosso esprimere con le parole alcuneriflessioni su un metodo di terapia non verbale. Ancorapiù imbarazzante può risultare il tentativo di cercareconcetti (cum-capio: prendere, raccogliere, contenere)capaci di dare l'idea di un procedere che, invece, risultaiscritto nell'orizzonte della libertà d'espressione,dell'invenzione, della creatività. Ma ogni Scilla contiene insé il suo Cariddi. E il rischio, o la paura, anche della solaattività descrittiva potrebbe condurre in quelle sabbiemobili degli «ismi», dove si fa incerto il confine fra praticaanalitica ispirata a salde radici teoriche e la suggestioneun po' esoterica di uno junghismo che, non si sa beneperché, dovrebbe considerare con insofferenza ognitentativo di dare sistemazione scientifica e cllnica aicontenuti della psicologia del profondo.Dora M. Kalff ha lasciato pochi contributi teorici sullaSandplay Therapy da lei fondata. Circostanza, questa,che ha indotto qualcuno a conclusioni un po' frettolose,quando non maligne, come se il metodo non possedessesufficienti basi teorico-cliniche, o fosse così intimamentelegato al carisma personale e terapeutico della suaideatrice da disperdere o annacquare le proprie poten-zialità di impiego e di cura con la scomparsa della stessasignora Kalff o, comunque, con il diffondersi e l'affermarsiin varie parti del mondo dei terapeuti che potremmo diredi seconda generazione, cioè di coloro che non hanno

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avuto la fortuna di apprendere il procedimento dalla rela-zione personale diretta e dal lavoro a Zollikon, nella quie-te di Hinter Zùnen, al numero 8.A parte molte, interessanti considerazioni sul post-Kalff,che potrebbero costituire tema di ulteriore approfondi-mento in altra occasione, credo che il numero limitato dicontributi teorico-clinici lasciati dalla fondatrice del meto-do possa indurre due ordini di riflessioni. La prima attienela gran quantità di spazi che si schiudono allo studio,proprio perché del Sandplay sono stati fissati i fondamen-ti clinici e la metodica e non quelle prescrizioni rigide chespesso portano un'intuizione teorico-terapeutica all'asfis-sia e alla sterilità, e quindi all'eclissi. La seconda riflessio-ne riguarda la natura stessa del lavoro con la sabbia.Proprio perché fondato sulla creatività, sul gioco, esso,paradossalmente, risulta molto meno di quanto si possasuperficialmente ritenere affidato al «caso», all'improv-visazione, al soggettivismo del singolo terapeuta, a unapotenziale «deregulation».A questo proposito basterebbe pensare a tutto ilretroterra scientifico e psicologico sul giocopeculiarmente considerato. E a quanto esso rappresentila metafora per eccellenza di due capisaldi della ricercaanalitica: l'Io (dalla struttura di questo, alle sue funzioni,sino al rapporto con il Sé) e la relazione.Seppure per cenni, è sufficiente sottolineare che nonappartiene certo a una concezione corretta della dinami-ca psichica stabilire un'equazione stretta fra gioco epulsione tout court, tra affidamento, o abbandono, aun'attività ludica e resa della coscienza. L'espressioneumana, prima ancora dell'approfondimento psicologico edella lettura simbolica di comportamenti ed eventi,dimostra come il gioco non sia affatto disordine, caos,dilagare di energie in modo sfrenato, fuori di ognipossibile consapevolezza o di un plausibile, ragionevolecontrollo. La lingua corrente è ricca di espressioni cheaiutano a comprendere: basta sottolineare tutte lelocuzioni che ruotano attorno a «le regole del gioco», darispettare nei tempi, nei modi, nelle circostanze, nelledisposizioni, perché gioco si possa avere, perché lapartecipazione individuale possa arrivare ad esprimereanche un contatto, un consen-

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so, un'adesione capaci di condurre a una relazione trasoggetti.Insomma, il gioco è disciplina, è istanza rigorosa, esigen-te, esprime la capacità di raccogliere e di ordinare istan-ze forti e diverse. Quanto più il giocatore rispetta le «re-gole», tanto più egli è in grado di dare voce e forma allapropria creatività, all'interpretazione individuale, soggetti-va, originale, irripetibile. Le regole non mortificano l'uo-mo: gli offrono, anzi, i paletti e i segnali attraverso cui eglipuò procedere nel cammino individuativo, misurandosi (eaffrancandosi) di continuo con l'indistinto, il caos, la con-fusione.Certo, giocare rappresenta un significativo sacrificio (nelsignificato autentico di sacrum tacere) dell'Io. Perché,giocando, l'lo si trova a dover venire a patti con le propriepretese e a concedere spazi inaspettati allamanifestazione del Sé. Nel momento in cui l'individuoaccetta di giocare, avverte alcuni dei propri limiti. Primofra tutti: l'impossibilità di tenere a lungo, saldamente sottocontrollo tutto: se stesso, chi gli sta vicino, il mondoattorno.Anche a questo proposito viene in soccorso il lessicocorrente, con tutte le espressioni che sottendono unarealtà e una dinamica psichica complessa: uno si mettein gioco, quando accetta di relazionarsi; sta al gioco, nelmomento in cui vede che non è per lui distruttivo entrarein un rapporto; fa il proprio gioco, in quanto riferisce a séle dinamiche esterne o sottomette a pretese egoicheistanze inferiori.Nel Sandplaysì possono cogliere le dinamiche relazionalidel gioco o nel gioco, in un succedersi di modi che pos-sono essere articolati secondo alcune categorie, facil-mente riscontrabili nella pratica analitica. È così possibileosservare come l'individuo si prepara al lavoro con lasabbia, in uno spettro amplissimo di modalità, dall'aspet-tativa suggerita da volontà di controllo, sino all'affidamen-to. È peraltro significativa la verifica di un secondo mo-mento o aspetto: che cosa il paziente dice di provare o diaver provato nel corso del lavoro con la sabbia (affer-mazioni qualche volta riferite spontaneamente, in altreoccasioni frutto di risposta alla domanda «vuole direqualche cosa?» sull'immagine realizzata). Spesso sitratta,

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per l'analista, di aspetti di transfert e di controtransfert dagestire durante la seduta. Infine, v'è una terza considera-zione, utile da fare, su associazioni o evocazioni indottedal gioco, o da immagini particolari, o da singoli oggetti,molte volte compresi tra la memoria e la nostalgia, chesuggeriscono all'analista spunti di transfert o di contro-transfert da rielaborare ex post.Prendiamo le mosse dal primo ordine di considerazioni.Vi sono pazienti i quali arrivano alla sabbiera avendobene in testa l'immagine che intendono realizzare. «Ve-nendo qua avevo l'idea di una conchiglia. L'ho fatta. Mipiace». E in effetti la signora che ha modellato nella terrabagnata una valva aperta, grande quasi quanto lacassetta, al cui interno ha posto una gran quantità diperle, non ha avuto esitazioni nel predisporsi al suolavoro. Tipo di sensazione, dotata di notevole capacitàmanuale, qua-rant'anni, la paziente in quella seduta hacambiato un po' gioco. Quasi sempre, in passato, anchequando era lei a chiedere di fare la sabbia (l'analisi èmista: verbale e non verbale), plasmando talvolta figuredi notevole impatto emotivo, la signora passava i primimomenti a ripetere, quasi ritualmente, frasi del tipo «Nonso che fare», «Non mi viene nulla», «Chissà che cosavorrà dire». L'immagine della conchiglia e ladeterminazione nel realizzarla è comparsa dopo qualcheseduta in cui si è cominciato a parlare della possibile finedell'analisi.Frequente è il caso di pazienti i quali accarezzano alungo immagini, che però gli si cambiano lungo il percor-so. Al termine della seduta, una giovane donna ditrent'anni spiegava con queste parole: «Mi era rimasto inmente il castello che lei ha là. Pensavo che avrei fatto unassalto ai Crociati. Poi ho visto gli alberi: ne è uscito unpaesaggio. Non certo d'assalto». In effetti, la scenaappariva molto country, evocativa semmai di un climainglese. La paziente, tipo di pensiero, molto controllata,una madre iperinvasiva e un padre poco significativo,nella sabbia ha riprodotto quasi sempre scenari moltoconvenzionali, riferiti spesso a momenti dell'anno o aepisodi della sua vita (la vacanza, la spiaggia doveandava da piccola, la festa di compleanno, il lavoro).Dopo un paio d'anni di analisi, con alternanza di esamedi sogni e vissuti e di Sandplay,

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enuncia il conflitto, ma ancora non le riesce il gioco delcoinvolgimento e della dialettica.L'affidamento aìì'hic et nunc della sabbia è esperienzafrequentemente annunciata. Ma concorrono modalità di-verse di tale atteggiamento. «Quando ho incominciatonon avevo la più pallida idea di che cosa avrei fatto. S'èformato mentre lo facevo». Non c'è motivo per non cre-dere alla paziente, una giovane donna di poco più ditrent'anni, molto razionale, con dichiarate gravi difficoltàdi relazione con gli uomini e un pessimo rapporto col suoessere donna ancora tutto da verificare. Soltanto chel'immagine, poco lavorata e toccata appena in superficie,somigliante al dorso di una conchiglia parecchio allunga-ta e stretta, chiusa, è decorata da tessere di mosaico,biglie di vetro, legni da costruzione lunghi e a forma diparallelepipedo. Decisamente meno preda delleastrazioni e senz'altro più divertita, una signora di quasiquant'anni che dichiara: «Mi sento spontanea, qui.Prendo le cose che mi attirano al momento». Insegnante,guai col marito, ma la forza di stare prima da sola (poicon un altro uomo) resistendo alla tentazione di tornaredalla madre pronta a ospitarla ma, anche, a rinfacciarle ilsuo fallimento, la paziente in effetti presenta un'attitudinedi pensiero poco sviluppata e ha sofferto tutta la vita talemodalità come un handicap (almeno così glielo hannofatto vivere e pesare in famiglia). Non si è mai legittimata,come una donna che poteva essere così come sisarebbe sentita dentro: con un valore non intellettuale,ma molto femminile. Infine, nella gamma di chi si affidaall'/wc et nunc della sabbia, v'è chi riesce a stabilire unrapporto ottimale con il gioco. «No, soltanto il piacere»,rispondeva un uomo di poco più di quarant'anni alladomanda «vuole dire qualche cosa?». La scena, ricca dioggetti (sassi a mo' di colline, resti archeologici, piccolicocci porta acqua, case in lontananza), di personaggimaschili e femminili appartenenti alla vita di tutti i giorni,di verde, sembrava in realtà proporre un paesaggiosurreale, in un'atmosfera quasi ovattata e sfumata, dasogno. Dirigente industriale, una fondamentale pigrizianel rapporto con le donne, competente e abile nelletecnologie, nella sabbia ha trovato finalmente le radicicon la natura. Gli ci volle

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un sogno, un paio d'anni fa (prima guardava con suffi-cienza il Sandplay): una vecchietta che di sorpresa, pren-dendolo assolutamente alla sprovvista, gli buttava in fac-cia una secchiata di terra, mentre con il suo vespino(simbolo della sua autosufficienza) se ne andava, in sa-lita, lungo la via principale di un antico borgo.Veniamo alla tematica successiva. La riflessione suquanto il paziente dichiara mentre è alla sabbiera oriferisce alla fine, descrivendo il vissuto mentre lavoraaiuta a illuminare alcuni aspetti fondamentali delSandplay: dalla relazione con la sabbiera e con glioggetti, sino ai moti di transfert nei confronti del terapeuta(a volte esplicitati, ma molto più spesso espressi in modomediato, parlando dei singoli materiali impiegati, o dellesituazioni, o degli stati d'animo).«Cercavo qualcosa. Ho avuto dei momenti di vuoto.Quasi di panico. Ho aspettato. Adesso che l'ho fatto, micomunica qualcosa. Anche se non so esattamentecosa». Le mani nella sabbia dopo circa un anno (nelfrattempo l'analisi proseguiva sul piano verbale, con unamesse notevole di sogni), passati da poco i 35 anni, unlavoro creativo nel mondo dei media, tipo di pensiero, ilpaziente ha realizzato un'immagine, diciamo così«silvestre», nella quale spiccano un Adamo e una Èva, iquali, di lontano, è come se conducessero un gioco direciproci approcci. La plasticità dello scenario contrastacon il volto contratto e la tensione palpabile nella figuraintera che si muove per la stanza, tra gli scaffali, con igesti incerti prendendo e riponendo spesso gli oggetti,con i frequenti sguardi di sottecchi all'analista perverificare se sta seguendo davvero con attenzione ilgioco.Qualche settimana dopo lo stesso paziente dirà al termi-ne di una seduta: «Ho lavorato fluidamente, senza osta-coli, lasciandomi guidare dalla strada, dal percorso. An-che molto dall'istinto. E dalla necessità degli elementi -l'acqua, le rocce, il legno - più che da immagini precise».E la volta successiva, esprimendo una sorta di motociclico nel suo procedere: «Ho avuto voglia di maneggia-re delle cose, di avere un contatto manuale. Ho provatoanche un momento di vuoto, di confusione, chiedendomi'E adesso che faccio?' Ma sentivo la voglia. Ho prosegui-

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to. Perché no? Allora s'è formato lo spazio, l'ambiente,un bisogno molto forte di uno spazio».«No, non ho nulla da dire. Solo che ho usato tutte lecose che amo di più qua dentro. Mi sembra che ci sianoceste da cui io posso prendere. C'è abbondanza. E ciòcontrasta un po' con il mio stato d'animo». La paziente,38 anni, in effetti non impiega quasi mai statuine, maoggetti «preziosi»: perle, collane, biglie di vetro,conchiglie, tessere di mosaico. Le sue immagini sonouna sintesi inusitata di manipolazione della sabbia ecapacità di decoro espresse attraverso il ricorso a unagamma sostanzialmente ristretta di oggetti («le cose cheamo di più qua dentro»). Una vita sentimentaledeludente («non sono capace di amare, di dare»), cercaspesso di relazionarsi con quegli atteggiamentirivendicazionisti, regressivi, di chi dichiaracontinuamente d'aver bisogno di soccorso, di aiuto, met-tendo talvolta a dura prova la pazienza dell'analista. Lasabbiera si direbbe che assurge nella sua esperienza a«spazio transizionale».Infine, nel riferire l'esperienza nel gioco e con il gioco, ipazienti possono rivivere momenti di acuta sofferenza,che «mettono in gioco» l'analista ponendogli significativie forti elementi transferali da valutare con molta cura evigile attenzione nella conduzione della terapia. Duemomenti, riferiti a due casi, di un uomo e di una donna,aiuteranno a comprendere delicatezza, profondità, coin-volgimento e, forse, almeno in una certa misura, rischiodel gioco.«Vedendo questo motoscafo, m'è venuto di riprodurre lamia infanzia, al mare». È un giovane di quasi trent'anni.Fa una spiaggia, abbastanza realistica, tra oggetti e per-sonaggi. E, poi, quel motoscafo, insieme simbolo delpotere, della riuscita economica, del riconoscimento col-lettivo, della capacità di svago di suo padre, morto unadecina d'anni prima. Un genitore ingombrante, vagheg-giato e fuggito, imitato e tradito, rinnegato nell'immaginesociale (che anche il figlio avrebbe dovuto seguire) attra-verso la felice realizzazione di una professionalità auto-noma lontano da casa, eppure figura sempre lì presente,incombente a giudicare sia sugli esiti lavorativi, sia sullecapacità di conquista delle donne. Ecco che, poco dopo,

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la scena familiare e, tutto sommato, pacificante del maresi tramuta in un ambiente dalle tonalità affettive ben piùinquietanti. Le emozioni descritte dal paziente davantiall'immagine valgono più di ogni illustrazione: «Ho vissutocome identificativo questo qua (indica la figura di unboscaiolo, che brandisce una scure): la voglia di spacca-re tutto. Poi, gli animali (che popolano la cassetta), per iquali nella realtà provo schifo, rifiuto; qui: i serpenti, itopi». La volta successiva il paziente vuole parlare: diceche preferisce raccontare e vedere i sogni. L'analisi andràavanti per qualche mese senza toccare la sabbia. Larichiesta è di accoglienza e di pazienza. I progressi cisono, anche nella vita di tutti i giorni, nella capacità distabilire, reggere bene e arricchire relazioni. L'esperienzaforte del gioco si sente che è lì, presente e sottesa.Quando sarà l'ora, tornerà anche il suo esercizio pratico.Racconta una donna nella seduta successiva alla primasabbia: «Quando sono uscita di qui stavo male (lungosilenzio, in risposta alla domanda 'Vuole dare parole aquel malessere?'). Forse perché mi è venuta in mentemia madre. Da bambina non mi lasciava mai andare almare dove c'era la sabbia. Non voleva. (Lungo silenzio).Forse perché non voleva che mi sporcassi». La pazienteaveva realizzato una scena che colpiva: al centro avevacostruito una sorta di tempietto, sul frontone del qualecampeggiava un monile di vetro azzurro con un puntonero al centro che presentava tutte le sembianze di unocchio. In cima stava una civetta. Sul retro del tempioaveva posto un pozzo, nei pressi del quale sembrava chesi avvicinasse la statuina di una ragazza greca: si potreb-be dire una Kore. Già erano emersi i pesanti rapportidella paziente, ancorché quarantenne, con il clan di ori-gine; un dissidio culturale e sociale trascinato negli anni,che rischiava di mettere in crisi anche il suo matrimonio.Ma dopo quella sabbia esplose il dolore per una creativitàinseguita sin da piccola, ma sempre rifiutata e riprovata,come manifestazione di indipendenza e di originalità ri-spetto al sociale, alle convenienze, alle regole. Tanto chela paziente era arrivata a non riconoscerla più neanchedentro di sé come elemento possibile di riscatto, diaffrancamento, di affermazione. Anzi, sarebbe emerso in

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seguito un atteggiamento quasi autopunitivo,persecutorio, espiativo, che stava conducendo la donnasulla strada di un vissuto di sconfitta e di una dolorosadepressione. L'analisi si prospettava ora come forsel'ultima possibilità di mettersi in gioco, con un vissuto,però, di pena e di sfiducia sulle possibilità reali e sugliesiti; come se, dopo tutte le prove della vita, fossedifficile ormai accostare o almeno soltanto fantasticare,quella giovane Kore presso il pozzo. Della bipolarità delsimbolo, per riproporre l'efficace immagine presente nelpensiero di Jung, la paziente era abituata a vederesoltanto la parte streghesca, negativa, divorante,distruttiva. Anzi, rischiava addirittura di identificarsi conessa, in modo disperante e autodistruttivo. Nonl'avevano mai lasciata essere fanciulla, tanto da farsorgere la domanda se avrebbe mai potuto recuperare lospirito della giovinezza, la voglia di vivere e diesprimersi, che pur doveva avere da qualche parte, vistoche era riuscita a bussare alla porta dell'analista. Unanalista che le avevano segnalato, perché praticavaanche la terapia della sabbia. Quella sabbia che lamadre non le aveva lasciato toccare e che l'analista leaveva invece offerto, senza nulla sapere e senza che leiavesse coscienza di dirgli nulla prima. Prima di entrareinsieme nel gioco, nella sofferenza, nel mistero dellacreatività, che è molto difficile arrivare aconcettualizzare, come si diceva all'inizio, ma che si puòe si deve raccontare. Sulle storie si fonda la teoriaanalitica. Anche nella Sand-play Therapy ideata, sullascia di Jung, da Dora M. Kalff, che, a chi l'ha conosciutae con lei ha condiviso un pezzette di strada, tocca ditenere viva, di approfondire, di portare avanti.

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Alcune riflessioni sul «giocodella sabbia» nel? ambitodella terapia analitica del?adulto

Adriana Mozzarella, Milano

La terapia col «Gioco della sabbia» ha una sua partico-lare storia. Iniziata negli anni 50 da Margareth Lówenfeldcol nome di «Gioco del mondo» fu usata come mezzoproiettivo diagnostico e anche terapeutico per il suoaspetto ludico e immaginativo. 'Dora Kalff trasformò il «Gioco della sabbia» in un metodoterapeutico analitico, in quanto si rese conto che nellecassette azzurre iniziava e si svolgeva un viaggio nell'in-conscio molto simile a quelli descritti da C.G. Jung, spe-rimentati dai suoi pazienti e da lui stesso.La terapia col «Gioco della sabbia» continua ancora oggiad essere oggetto di discussione circa la suaapplicabilità nell'ambito analitico oltre chepsicoterapeutico e ancora circa la sua applicabilitàall'analisi dell'adulto oltre che alla psicoterapia infantile.È un dato di fatto che, al di là di tutte le discussioni, lecassette azzurre con la sabbia, l'acqua e le figurine inminiatura continuano ad affascinare e a catturare facilientusiasmi anche da parte di persone non strettamenteappartenenti all'ambito terapeutico e analitico classico. Èanche vero che questo tipo di gioco può dare risultatieccellenti, anche al di fuori del campo psicoterapeuticoclassico, per la sua qualità ludica che stimola la fantasiae libera energie bloccate.Tuttavia, i ricercatori più attenti si domandano quali sianole potenzialità e i limiti di tale metodo-gioco e quale la

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sua applicabilità all'analisi dell'adulto, quale tipo dicomunicazione si stabilisca tra analista e analizzato,quali le differenze transferali rispetto al classico settingdell'analisi verbale, quali i livelli psichici che vengonoattivati, ecc. ecc. Nella mia pluri-decennale esperienzacon l'analisi jun-ghiana in ogni fascia di età, dai bambini,agli adolescenti, agli adulti, alle persone anziane, hosempre usato anche il metodo del «Gioco della sabbia»come un validissimo mezzo analitico e terapeutico a volteinsostituibile.Il pioniere della obiettivazione delle emozioni e delle fan-tasie è stato proprio C.G. Jung, il quale ha valorizzatol'importanza delle immagini che emergono dall'inconscionei sogni e nelle fantasie col metodo della Immaginazio-ne Attiva. Jung ha incoraggiato altre attività ludiche ecreative come il disegno, l'uso della creta, la danza; eglistesso ha incoraggiato la Signora Dora Kalff a mettere apunto il suo metodo del «Gioco della sabbia».Proprio nei suoi studi sull'alchimia Jung ha potuto appro-fondire la sua conoscenza della psiche attraverso le im-magini tramandateci dagli alchimisti.Nel Mysterium Coniunctionis, nel capitolo della «Co-niunctio», si assommano le riflessioni del Grande Mae-stro, frutto di tutta una vita dedicata all'esperienza e allaricerca.La pioniera di fatto del «Gioco della sabbia», Dora Kalff,ci ha detto, credo, quasi tutto quanto sia possibile espri-mere con le parole nei pochi scritti che ci ha lasciato,nelle sue numerose conversazioni e nelle sue generosepresentazioni di casi clinici; non tutto è tuttaviaesprimibile con le parole, le quali non possono maisostituire l'esperienza. Nel Sand play si trattaeffettivamente di esperienze e di emozioni espresseattraverso immagini che coinvolgono tutta la personalitàfisica, psichica e spirituale del paziente.Noi ora, come adepti e ricercatori, cerchiamo di andarepiù a fondo nella formulazione di una «theoria», la qualesegue, comunque, sempre l'esperienza, lo non pensoche sia spiegabile coi nostri mezzi razionali «come» agi-sca questo «gioco», in quanto esso è l'espressione di unprocesso creativo in statu nascendi; esso può esseredescritto - come dice Jung a proposito della creatività in

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generale - ma non spiegabile. La psicologia quale scien-za empirica non può giungere a tanto.Le più frequenti discussioni tra gli analisti che usano il«Gioco della sabbia» riguardano il problema transferaletra analizzato e analista. Sta l'analista in disparte e os-serva il processo di autorealizzazione dell'inconscio delpaziente, che si svolge nella sabbiera? Oppure il gioconella sabbiera è una metafora della relazione analitica?lo penso che i limiti tra questi due momenti non siano poicosì netti e che la prevalenza dell'uno rispetto all'altrodipenda molto dalla personalità sia del paziente che del-l'analista. Sappiamo comunque che è il Sé ad avereeffetto guaritore, anche se mascherato dalla proiezionesulle figure parentali e poi sul terapeutaUna volta una paziente ha rappresentato nella sabbieraun fitto bosco all'uscita del quale ha posto un cervo. Poiha detto: «Qui dentro, nel bosco, io non conosco nulla eho paura di entrarvi. Però c'è questo cervo, il cervo è lei[cioè io] che mi condurrà». Sappiamo che il cervo è unsimbolo molto ambivalente del Sé, che compare in tuttala tradizione celtica nei romanzi della Tavola Rotonda diRè Artù dietro la figura del mago Merlino. In questo casola proiezione del Sé su di me è evidente. La relazioneanalitica può favorire comunque la costellazione del Sé.In questa relazione la personalità dell'analista non è maiindifferente. La cassetta con la sabbia e le figurine nonsono sufficienti a creare quello «spazio libero e protetto»che permette al paziente di abbandonarsi ed esprimerela sua «creazione». Lo spazio libero e protetto è creatoproprio dall'atteggiamento del terapeuta nell'accogliereed ascoltare il paziente sin dall'inizio, nel modo comeascolta e interpreta i sogni, come interviene nei momentidi dolore, di disperazione; tutte le qualità professionali eumane del terapeuta sono messe in gioco; uno sviluppospirituale del terapeuta è comunque indispensabile per-ché nessuno può portare un altro al di là della propriaesperienza.Se il terapeuta non riesce ad accettare fino in fondo ilpaziente non lo può aiutare. Ricordo una signora sui 38anni, sgradevole, rinsecchita, aggressiva, non con me,ma col mondo intero. Mi era antipatica, non riuscivo ad

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accettarla fino in fondo per una questione «di pelle». Ungiorno nella sua voce stridula sentii riecheggiare la vocepetulante di una bambina che chiedeva di essere amata,coccolata. Fu per me una folgorazione, da quel momentole ho voluto bene, ho sentito quanto grande era la depri-vazione nascosta in quel suo rendersi antipatica. Neabbiamo fatta insieme di strada io e lei, soprattutto con il«Gioco della sabbia»! Dall'espressione iniziale di un Sédiabolico negativo, quella donna oggi è in grado di aiuta-re gli altri. Similia similibus curanti! r.Per restare ancora un momento in tema di relazione tran-sferale, bisogna pure dire che le figure presenti negliscaffali risentono della personalità dell'analista. Questi leha scelte perché a lui (o lei) piacciono o perché le ritieneutili a costellare determinate forze inconscenell'analizzando. Questo complesso intreccio di forzeagenti nel retrofondo della relazione è difficile possaessere analizzato razionalmente, ma è sempre presente,interagisce.Quali livelli psichici vengono attivati nel «Gioco della sab-bia»?Il paziente può dire: «Sono arrabbiato». Oppure può conuna serie di discorsi animosi esprimere la sua rabbia. Maquando in una scena della sabbiera compare una tigreinferocita che dilania una gazzella, oppure quando unpersonaggio trapassa con un pugnale il cuore di un altro,allora percepiamo quali profondi strati della psiche sonoattivati e anche la loro pericolosità.Queste scene di gioco sono molto serie, il paziente leesprime quasi inconsciamente ma alla fine, senza alcunainterpretazione, si rende conto che è lui stesso in gioco emolto seriamente. La situazione cosciente cambia, maanche la situazione dell'inconscio si modifica; la tigreinferocita si può presentare in una immagine successivanella figura di un cavaliere armato pronto a difendere unimportante tesoro.A volte la sabbia viene accarezzata dolcemente... ada-gio... per non farle male. Chi, che cosa accarezza conmano leggera il paziente? La sabbia? Un ventre gravido?Un tenero seno? Quel bambino che non ha avuto carez-ze? Chissà? A volte il paziente parla sottovoce. A chiparla?

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(1) C.G. Jung, MysterìumCo-niunctionis (1955/56)Opere, voi. 14, tomo I,Torino, Bo-ringhieri, 1989/90,p. 165.

(2) L'oceano gioca assieme aibimbi,/sorride la marea del mare. /Sulle rive dell'oceanodell'universo/i bambini fanno festa./ In cielo arriva la tempesta, /inmare la barca affonda: / l'angelodella morte passa in volo,/i bambinicontinuano a giocare./Sulle rivedell'oceano dell'universo / unagrande festa di bambini! (R.Tagore, Sissu, Parma, Guancia,1979, Quaderni della Fenice 49,pp. 33-34.

È il mistero della psiche che emerge animato dalla ma-teria diventata viva come accadeva agli alchimisti. Così siesprime Jung nel Mysterìum Coniunctionis (1):

Se s/ tratta di un mistero deve avere anche alti aspetti. Sono dell'opinione che lapsicologia potrà pure spogliare l'alchimia dei suoi misteri, senza però riuscire a svelate ilmistero dei misteri...

Secondo la mia esperienza, il «Gioco della sabbia» nel-l'adulto serve a completare molte analisi verbali non ter-minate in modo soddisfacente. Anche dopo molti anni dianalisi qualcosa è rimasto nell'oscurità e crea disarmonia,irrequietezza, insicurezza. In questi casi ho verificatoquasi sempre una veloce regressione all'infanzia. Làqualcosa era rimasto sofferente: il bambino in noi. Delresto Jung stesso aveva affermato che nessuna analisi sipuò ritenere completa se non si passa attraverso la stan-za dell'infanzia.Proprio quel bambino dimenticato che continua a piange-re o a fare dispetti nell'inconscio dell'adulto è la causa dimolti disturbi nevrotici, mai fino in fondo analizzati. Quan-do si ravviva quella memoria e viene rappresentata, allorale ribellioni e i pianti sono infiniti fino a quando nello«spazio protetto costituito dalla sabbiera e dall'analista»si ristruttura quella «relazione primaria» madre-bambinoprevalentemente corporea. Su questa base quel bambinodimenticato potrà crescere e integrarsi alla personalitàadulta. Si spalanca in questi casi una porta sull'eternità, làsulla spiaggia di quel mare dove giocano i bambini, comedice Tagore (2). Là inizia anche la fase creativadell'analisi. L'esperienza catartica vissuta a volte nellaterapia con il «Gioco della sabbia» non può essere unameta raggiunta una volta per tutte, ma deve essereseguita dall'analisi dei sogni, i quali giorno per giornoportano la compensazione agli eventuali atteggiamentiunilaterali della coscienza.Certamente il «Gioco della sabbia» non è adatto a tutti ipazienti, ne è la panacea per tutti i mali. In alcuni soggettil'inconscio si manifesta in modo così eloquente con leimmagini dei sogni che il paziente non si sente attrattoverso la sabbiera.

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Bisogna inoltre tenere sempre presente che il «Giocodella sabbia» attiva i livelli archetipici della psiche. Ènecessaria quindi una preliminare accurata diagnosi concolloqui e analisi dei sogni onde evitare in soggetti «bor-derline» uno scompenso psichicoNella ricerca sul «Gioco della sabbia» c'è ancora moltoda fare con pazienza e senza risparmio di tempo. Ènecessaria la collaborazione di tutti coloro che lo usanoper uno scambio sincero e non polemico di esperienze edi punti di vista. Ritenendo validi e utili per la ricerca tutti idati sperimentali ottenuti, ci si potrà awicinare sempre dipiù alla comprensione delle potenzialità di questo va-lidissimo metodo terapeutico.

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Bianca Garufì, Roma

A Robert Avens conadesione e amicizia

«£ l'essere umano è totalmente umano sololà dove gioca»*.

* F. Schiller, Lettere e poesiescelte, Sull'educazione este-tica dell'uomo. Quindicesimalettera, Verona, II Segno,1983.

Vorrei raccogliere qui alcune considerazioni emerse dallamia memoria e dalla mia mente seguendo il filo di unaricerca che mi ha impegnato da tempo. L'immagine el'immaginazione (owerossia il suo fluire), sono state alcentro delle mie riflessioni. Ma non solo l'immagine. Perforza di cose, nei miei pensieri intervenivano anche altrielementi, i tanti elementi che secondo la psicologia jun-ghiana fanno parte della struttura della psiche: ad esem-pio l'Io, la Persona, l'Archetipo, il Simbolo, l'Ombra, l'Ani-mus, l'Anima, il Sé. Tutto ciò che riguarda la psiche vieneinfatti chiamato in causa poiché, come è possibile con-statare, non esiste nella psiche nessun elemento che nonsia interconnesso con tutti gli altri. Questi elementi, que-ste figure, questi contenuti vengono spesso per ragionioperative, nei testi junghiani, classificati in capitoli e se-parati quindi l'uno dall'altro. Ma pur riconoscendo lagrande importanza della schematicità e della differen-ziazione, lo scopo che si prefiggono queste mie note èquello di impostare il discorso in maniera diversa, e pre-cisamente non tanto sulle verità dogmatiche, quanto sulleopinioni, non tanto sull'Unilateralità quanto sul conflitto,avendo in mente così più il relativo che l'assoluto. Delresto è la psicologia junghiana stessa ad essere costruita

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in modo non monolitico. Direi anzi che, a mio awiso,l'essere junghiani significa proprio avere a cuore più ilmolteplice che ì'univoco, avere più inclinazione per il flui-re che per lo statico, sentirsi più vicini alle tesi eracliteeche a quelle di qualsiasi altro pensatore. E questo inmodo da poter sperimentare, da un punto di vista psico-logico, la validità della massima che adotta il principiodell'e questo e quello, invece di dare la precedenza as-soluta al principio dell'o questo o quello. Ciò nell'intentodi rintracciare e, se possibile, estrarre la positività cheesiste, di certo, nella tensione e dunque nellaconflittualità dell'ambivalenza.Del resto nell'insieme dell'opera di Jung, una certa ambi-valenza e una certa conflittualità si manifestano a voltasotto forma di due aspetti o tendenze diversi l'uno dal-l'altro e che si combinano in vari modi dando adito adindirizzi e a conclusioni diversi. La prima è una disposi-zione scientifica, (e riguarda la sistematizzazione dei fattiin strutture di significato). L'altra è una tendenza che siesprime nell'attività estetica, ossia nelle attività dellafantasia e dell'immaginazione, e quindi connesse ancheall'arte, ad esempio pittura, architettura, letteratura,scultura, la musica, l'interesse per i miti, le favole, lereligioni, l'alchimia e soprattutto l'attenzione al rapportocon le figure immaginarie. In questa, chiamiamola ten-denza seconda, ma non seconda per importanza, Jung sirapporta ai fenomeni dell'immaginazione con una par-ticolare concreta immediatezza. È utile qui forse unabreve precisazione: parlando di attività estetica, mi rife-risco alla parola greca aisthesis, che significa apparte-nente ai sensi, concernente la percezione, la sensuositàe quindi anche il rapporto con la bellezza, un'aspirazioneinsita nell'essere umano, indipendentemente dallaestrinsecazione concreta che può farne l'essere umanostesso.Ma forse, proprio perché di solito si connette l'immagina-zione con l'attività artistica, ossia con qualcosa che diffi-cilmente può essere preordinata, contenuta e controllata,siamo invece portati, nella nostra cultura, devota soprat-tutto al razionale, ad avere paura dell'immaginazione, etendiamo quindi a screditarla o a degradarla al livello di

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(1) E. Christou, // Logos del-l'anima, Roma, Città NuovaEditrice, 1987.

facoltà inferiore, oppure a utilizzarla a scopi commerciali,abbandonandola a uso e consumo di psicologie e pa-rapsicologie da strapazzo. Soltanto agli artisti, ai poetiviene concesso oggi, ma a che prezzo, di esercitarel'immaginazione. Il terrore che si ha di essa fa pensareall'agorafobia, l'angoscioso rifiuto degli spazi aperti; unterrore che, in ultima analisi, potremmo associare allapaura del corpo, in quanto il corpo, quale microcosmo,può essere considerato un riflesso del macrocosmo e deisuoi spazi infiniti. Spesso si ha paura dell'immaginazionecome si ha paura della vita.Immaginazione, conflittualità, ambivalenza, collaborazio-ne fra l'Io e l'immagine, ecco l'ambito ideale entro cuipotrebbe muoversi questa ricerca che può avvalersi, oltreche di Jung, anche di un certo numero di autori i qualiovviamente hanno caratteristiche comuni, di cui la piùimportante mi sembra quella di essere inseriti nella tradi-zione platonica e neoplatonica della filosofia occidentale.Ricordo qui a caso Vico, Ficino, Harder, il poeta WilliamBlake, l'islamista francese Henry Corbin, il filosofo Cas-sirer, in parte Heidegger e, più recentemente, il filosofoEdward Casey, lo psicologo James Hillman e altri autoridel filone junghiano degli archetipi. Devo dire subito peròche il platonismo, così come lo troviamo, sia in partenell'opera junghiana, sia soprattutto nel filone post-jun-ghiano della psicologia degli archetipi, è un platonismomodificato, nel senso che la sua direziono va verso unpluralismo più accentuato, più laicizzato, meno idealisticoe più connesso con la natura che nel platonismo e nelneoplatonismo classico. La psiche è vista come una real-tà policentrica e policroma, come una moltitudine di con-tenuti e forze, a nessuna delle quali è consentito imporreun'egemonia tirannica e duratura sulle altre.In questo senso la psiche è essenzialmente come Proteo,che mutava forma a suo piacimento. È ovvio che inquesto continuo movimento sia possibile riconoscere,nella psiche, dei tratti che potrebbero sembrare patologici,se però non ci fosse in essa anche un desiderio benpreciso e determinato, tendente all'ordine, alla razionalità,alla coscienza, al logos (1). Poiché la psiche è ilcontenitore di tutti gli aspetti della personalità umana, ilsuo deside-

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ho, la sua finalità è sempre quella di autoelaborard, diportarci ad una comprensione sempre più profonda di noistessi e del mondo. E poiché i livelli di profondità, comenoi stessi sperimentiamo, si spostano da un punto di vistapsicologico a un altro punto di vista psicologico, nientepuò essere vero in modo letterale e assoluto, o in mododefinitivo, neanche la stessa psiche, quando la si usacome strumento per un'ulteriore indagine e per unanuova esplorazione.Tutto ciò potrebbe suonare troppo relativistico e persinodistruttivo per una mentalità orientata solo al consegui-mento e al possesso di incrollabili certezze. L'unica cosache si può obiettare di fronte a un culto eccessivo dellecertezze è che, come ben sappiamo, anche la distruttivitàè un contenuto della psiche, e di conseguenza serve allapsiche.In questo senso infatti la psiche contiene dawero ancheuna forma destrutturante in quanto, con la sua mutevo-lezza, impedisce il prolungarsi delle posizioni rigide eassolutistiche: essa le frantuma, le de-struttura, riportan-dole ad altre costituenti psichiche, vale a dire ad altreimmagini. Questo movimento da adito ad una maggiorelibertà, ad esempio quella di poter immaginare molteplicipossibilità dando, nel contempo, vita e credito ad unatteggiamento nuovo, creativo, il che però non ha nulla ache vedere con il «lasciar fare» associato in genere alvagare passivo della fantasia. Questo atteggiamentonuovo propone piuttosto un «lasciar essere», checonsente alle immagini di potersi esprimere di per sé,tramite le loro storie, tutte interessanti e istruttive.Ma ritorniamo al nucleo del nostro tema. Che cosa èun'immagine e l'immaginare? A questa domanda non sipuò dare una risposta in quanto è una domanda postanel modo sbagliato; essa, infatti, presuppone (senza al-cun fondamento) che esista qualche contenuto psichicodefinitivo che possa venir descritto e fissato in modo nonambiguo in vista di futuri riferimenti. Un'altra difficoltà,quando si vuole definire un'immagine, è dovuta all'ecces-siva e generale focalizzazione sul senso della vista.Quando parliamo di immagini diciamo molto spesso «raf-figurare», o «visualizzare», benché, e lo sappiamo, esi-

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stano anche immagini tattili, orali, olfattive, uditive. Questeimmagini sono molto difficili da trattare, da esprimere equalificare. Ciò che invece possiamo, e dobbiamo fare, èdifferenziare l'immaginazione primaria, creativa, da quellaindotta, esteriore, passiva, che possiamo chiamare, abuon titolo, immaginazione visiva, o più generalmentepercettiva. Quest'ultima nasce dalla dipendenza dellamente rispetto all'occhio. Liberare la mente dal visualismodell'occhio, potrebbe costituire il primo passo verso la suaemancipazione dall'influenza dei sensi e dalle sensazioni.La fantasticheria è solo una modalità della memoriaemancipata dall'ordine temporale e spaziale; essa è mec-canica e passiva; è un rispecchiare, una semplice ripeti-zione, è insomma un'immaginazione associativa che di-pende unicamente dalla percezione e, in quanto tale, nonha niente di veramente creativo.Per Winnicott, ad esempio, il fantasticare è qualitati-vamente diverso sia dalla vita reale che dal sogno, poichécomporta un certo grado di dissociazione; di conseguenzaassorbe energia senza peraltro contribuire ne alla vitareale ne alla vita psichica, e porta anche a una certastaticità nel tempo.Il suggerimento di Winnicott a questo proposito è di re-integrare la fantasticheria nella vita reale, trasformandolain immaginazione (2).L'immaginazione invece ricrea i suoi elementi: è sintetica,è una forza che miscela, permea, fonde, e si diffonde.L'immaginazione creativa è sostanzialmente vitale, poichégenera una forma propria, e le sue norme sono le forzestesse della crescita e della trasformazione.Ci sono immagini che sono ingenite, congenite, nellanostra mente. Grazie alla creatività di queste immaginivediamo, è vero, ma con gli occhi della mente, eventi delnostro passato, eventi dimenticati, o a volte situazionifuture. Questi awenimenti, lontani nel tempo e nello spa-zio, accadono nella realtà che è dentro di noi, sia che citroviamo ad occhi aperti che ad occhi chiusi. Accadononella realtà inferiore, psichica, quella che Jung chiama la«realtà dell'anima».Per la maggior parte delle persone appartenenti allanostra

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(2) Winnicott, Gioco e realtà,Roma, A. Armando Editore,1974, p. 62.

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cultura però, la realtà inferiore non gode della stessacredibilità della realtà esteriore; tutt'al più le viene attribuitoun valore piacevole o spiacevole ma irrilevante, o vieneaddirittura liquidata come ingannevole e perfino pericolosanei confronti del senso di stabilità che giustamente siritiene indispensabile per un'esistenza normale. Viviamogran parte del nostro tempo convinti che mondo inferiore emondo esteriore siano separati. È opinione molto diffusache quando inferiore ed esteriore si mescolano, ciò siadovuto principalmente a condizioni autistiche, patologiche,insomma insane. Questo genere di considerazioni haportato non pochi psicologi e filosofi alla conclusione chenell'attività immaginativa ci sia qualcosa di assolutamenteirreale. Jean-Paul Sartre ad esempio, un maitre apenseróe\ nostro secolo, ha espresso questo punto divista affermando che l'immagine contiene un che di nullità.Per quanto coinvolgente, forte e viva l'immagine possaessere, il suo oggetto è senza alcun dubbio nonesistente(3).Ma cerchiamo per un momento di rintracciare quando eattraverso quali circostanze Jung è giunto a formulare lesue idee riguardo l'immagine.Da un'osservazione attenta dei suoi primi scritti l'interesseper le immagini è già presente nella sua tesi di laurea,Psicologia e patologia dei cosiddetti fenomeni occulti (4).Fin dall'inizio dunque, e poi man mano che procedeva ilsuo lavoro, questo interesse prese sempre più consisten-za. Il momento più significativo della sua ricerca è tuttavia,come abbiamo già accennato, l'incontro con l'inconscio,con le immagini dell'inconscio che sperimentò in profonditàdopo il suo distacco da Freud e che, in modo più o menocostante, e attraverso canali d'interesse diversi, continuòpoi per tutta la sua vita.Ci sembra tuttavia che, in sostanza, la formulazione dellesue idee sull'immagine contenga ed amplii il concetto disimbolo, in quanto l'immagine costituisce il contesto in cuiil simbolo viene inserito ed elaborato.Benché egli, in momenti diversi della sua opera teorica eclinica, utilizzi entrambi questi due termini, immagine esimbolo, come se li considerasse sinonimi, con l'andar deltempo, nei suoi scritti, l'immagine prende sempre di

(3) J.-P. Sartre,L'Imaginaire, Paris, PUF,1940.

(4) C.G. Jung, «Psicologia epatologia dei cosiddetti fenomeniocculti» (1900), in Studipsichiatrici, Opere, voi. I, Torino,Boringhieri, 1970.

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(5)C.G. Jung, «Definizioni»,in Tipi psicologici, Opere,voi. VI, Torino, Boringhieri,1969, p. 462.

(6) C.G. Jung, «L'Io el'inconscio» (1928), in Duetesti di psicologia analitica,Opere, voi. VII, Torino,Boringhieri, 1983, pp. 227-228.

più l'aspetto di qualcosa di antecedente e nel contempo dipiù vasto del simbolo. Già nel 1921, nei Tipi Psicologici{5}, afferma che «l'immagine è un'espressione concen-trata della situazione psichica totale e non soltanto oprevalentemente di contenuti inconsci qualsiasi».In seguito la comprensione di Jung dell'immagine si èapprofondita e modificata lungo tutta la sua vita. Definitadapprima come un concetto, l'immagine è stata poi spe-rimentata come una presenza psichica verificata empi-ricamente. A questo proposito la scoperta di Jung piùsignificativa è che la psiche non procede per ipotesi emodelli, cioè scientificamente, bensì attraverso immaginie quindi attraverso la metafora e il mito. L'interpretazionedel significato dell'immagine non può dunque partire nedalla sola coscienza ne dal solo inconscio, ma esclusiva-mente dal loro mutuo rapportò. Insomma l'immagine è uncontenitore di opposti, a differenza del simbolo che è unmediatore di opposti. L'immagine non si identifica con unsingolo contenuto, ma parti di questa si ritrovano in ognialtro contenuto. Prendiamo ad esempio l'immagine delpadre: essa è un'esperienza sia inferiore che esteriore,sia personale che sovrapersonale. È certamente il propriopadre ma è anche il Capo, il Rè, e tutto ciò che conl'autorità è connesso, in noi e fuori di noi.In gran parte il nostro lavoro consiste nel differenziare emettere in evidenza ognuno di questi livelli, al fine diriunirli in un'immagine più conscia e quindi rinnovata. Mase l'individuo non compie l'operazione cruciale che con-siste nell'entrare in rapporto con l'immagine, portandovi leproprie reazioni, allora tutti i cambiamenti restano affidatisoltanto al flusso delle immagini, ed egli stesso resteràimmutato.Solo se, e qui cito Jung, «la coscienza prende parteattiva, e vive e capisce, almeno intuitivamente ogni gradodel processo, l'immagine successiva comincia ogni voltasul gradino più alto così raggiunto, e in tal modo siproduce la direziono verso una méta» (6). (In definitiva sitratta anche qui dell'indispensabile dialogo fra l'lo el'inconscio). A questo punto credo non sia inutile fare unpasso indietro e accennare il più succintamente possibileal processo fisiologico di formazione dell'immagine.

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Dai dati più elementari sulla formazione dell'immagine sisa che la luce, o gli impulsi di energia trasmessi al cer-vello dalle aree visive, vengono anche, quasi simultanea-mente, tradotti in forme significative che chiamiamo im-magini. Ciò che però il cervello riceve non è una rap-presentazione o un ritratto della realtà esterna, ma soloun insieme di segnali fisici che non sono identici allapercezione visiva che appare poi nella coscienza. Duran-te il processo di trasmissione, questi segnali vengonotrasformati in una nuova classe di percezioni le quali nonsi possono associare a nessun organo conosciuto.Ciò che comunque sembra accertato è che le immagini,qualunque significato si voglia ad esse dare, sono leunità originali dell'attività psichica. La capacità di immagi-nare è considerata, almeno per quanto ci consta, unaprerogativa umana, ed è essa che ci permette, con la suacoscienza, il suo proprio /ogos, non solo di dilazionare lareazione istantanea ad uno stimolo, ma anche di pianifi-care, durante questa pausa temporale, (attraversoquesto momento di riflessione), una risposta allo stimolo,ossia la possibilità di una scelta di fronte ad esso, il cherappresenta qualcosa di peculiare e proprio all'essereumano del quale si può dire, per l'appunto, che non èsoltanto istintuale.

La considerazione che l'essere umano non è soltantoistintuale porta l'attenzione sul lungo cammino percorsofinora dalla coscienza, dall'intelletto umano.Con questo in mente, e avendo sempre presente il nostrotema, accennerò brevemente ai precedenti storici e filo-sofici nell'ambito dei quali l'immagine ha costituito unodegli argomenti principali.La questione più controversa storicamente è quella delruolo psicologico (anche epistemologico) dell'immagina-zione; in particolare del rapporto tra immagine e pensie-ro. La risposta abituale è che le immagini rappresentanodegli oggetti in loro assenza. Esse sarebbero quindirappresentazioni mentali indirette della forma esternadelle cose, sulla base di ciò che di esse ricordiamo esappiamo. Questa concezione piuttosto semplicisticadell'immaginazione, (nota come la teoria della copia),suggerisce l'idea

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(7) R. Avens, Imagination isReality, Dallas, SpringPubli-cations, 1980.(8)D. Hume, Trattato sullanatura umana, Bari,Laterza, 1926, tomo I.

che l'immagine sia una replica completa, colorata e mec-canica di una scena o di un oggetto visibile che si riflettein modo quasi tangibile nella mente. Questa concezionesuggerisce inoltre che la memoria può estrapolare le cosedal loro contesto e «immaginare» creature assurde comei centauri, i grifoni, un corpo umano con la testa di gatto oi piedi di caprone. In entrambi i casi ci viene presentatocosì un concetto di immaginazione la cui unica funzioneconsisterebbe: o nel duplicare, copiare la realtà, o nelfalsificare, snaturare la realtà.Questo vedere le immagini come una copia della realtàtangibile, ha un sostegno linguistico: infatti la radice latinadi «immagine» è imago, e imago a sua volta si connettecon «imitare» nel senso di imitazione, copia o somiglian-zà. È stato quindi facile limitare l'immaginazione a unafunzione soltanto mimetica. Ridurre l'immagine ad unafunzione mimetica è un passo intrapreso in tempi relati-vamente recenti da David Hume, il quale sostenne che diogni impressione sensoriale la mente fa una copia, equesta copia rimane anche dopo che l'impressione ècessata; insomma qualcosa che oggi potrebbe far pensa-re al prodotto di una fotocopiatrice (7). Queste copie eglile chiamò indiscriminatamente idee o immagini (8). Sem-pre secondo questo pensatore, le idee si distinguonodalle immagini (impressioni, passioni ed emozioni) solo inquanto queste ultime (le immagini) vengono percepite inmodo più intenso e vivo delle prime (cioè le idee). Le ideesono quindi per Hume soltanto immagini più deboli,versioni più deboli delle percezioni sensoriali originali. Leimmagini poi, queste semplici copie o riproduzioni, sareb-bero tenute insieme dal principio di associazione.Ma il grande progenitore di questo modo di interpretarel'immaginazione, nella filosofia occidentale, resta senzadubbio Aristotele. Come ricordiamo, egli attribuì all'imma-ginazione un posto fondamentale. Egli sostenne tuttaviache le percezioni dei cinque sensi diventano il materialedella facoltà intellettuale solo dopo che sono state elabo-rate dalla facoltà dell'immaginazione (che poi altro non èche un moto provocato dalla sensazione). L'anima pen-sante deve far uso dei fantasmi, i quali sono come lesensazioni tranne che per il fatto che sono immateriali.

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Aristotele ammette che la fantasia di tipo semplice,percettivo, si trova anche negli animali; però soltantol'essere umano ha la facoltà di produrre deliberatamenteuna fantasia da un certo numero di fantasmi di tipopercettivo. Una sua frase spesso citata dal De Anima dice:«L'anima non pensa mai, se non c'è prima una figura dellamente» (9).In'ultima analisi, Aristotele fa dipendere l'immaginazionedirettamente dalla sensazione. Nella sua concezione, l'im-maginazione non può essere una facoltà sui generis,poiché l'immaginazione in quanto tale, niente può aggiun-gere alla nostra coscienza. Aristotele definisce l'immagi-nazione «falsa per la maggior parte», anticipando così lafamosa formula di Locke: nihil est in intellectu quod nonante fuerit in sensu.Non è esagerato riconoscere che l'influenza di Aristoteleimpregnò non solo l'empirismo del diciottesimo secolo, maanche il materialismo occidentale in tutte le sue forme piùo meno sfumate. L'unica funzione che si può affidareall'immaginazione, e questo vale sia per Aristotele che poianche per Hume, è quella di dare un certo ordine alla«rigogliosa, orgiastica confusione» (James) dell'esperien-za sensoriale. Resta comunque che (a giudizio generale)niente è più pericoloso, per la ragione, quanto i voli del-l'immaginazione. A questo proposito vale la pena di ricor-dare un esempio letterario in cui la facoltà d'immaginareviene drammaticamente svilita. Nel Paradiso Perduto,Milton in una sua quartina, afferma che la fantasia preludealla caduta e, di conseguenza, è il preludio della mortespirituale. La descrizione di Satana che seduce Èva, haquasi la stessa forza e lo stesso colore delle immagini diBosch:

Tozzo come un rospo, si avvicina all'orecchio di Èva, Prova conla sua arte demoniaca a raggiungere Gli organi della suaFantasia, e tramite essi a forgiare Illusioni, elencando via viafantasmi e sogni (10)

Anche Pascal emette sull'immagine un giudizio moltosevero. Nei Pensieri egli definisce l'immaginazione addi-rittura «la signora della falsità e dell'errore» (11). Nellastoria della filosofia occidentale è senza dubbio a Kant(1724-1804) che si vede attribuire il merito di avere

(9) Aristotele, De Anima, Padova,Gregoriana Libreria Editrice,1944.

(10) J. Milton, II Paradiso per-duto, Milano, Oscar Monda-dori,1984, IV, 800.

(11 ) B. Pascal, Pensieri, Roma,Edizioni Paoline, 1990, p. 54.

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(12) E. Kant, Critica della ragionpura, Milano, Bompiani, 1987.

(13) M. Heidegger, Kant e ilproblema della metafisica, Bari,Laterza, 1985.

elevato l'immaginazione ad una posizione preminente ri-spetto a tutte le altre facoltà. Kant distinse due tipi diimmaginazione: quella riproduttiva (owerossia della co-pia), e quella produttiva e trascendentale. Le attività del-l'immaginazione riproduttiva sono soggette alle leggi del-l'associazione, e la sua funzione è semplicemente quelladi condensare il caos delle sensazioni in un'immagine.L'immaginazione produttiva o trascendentale invece, èuna forza attiva, spontanea all'interno dell'essere umano,una forza atta a costituire, in una unità sintetica, datipuramente sensoriali e categorie intellettuali. Lungi dal-l'essere soltanto una facoltà in più, accanto alla sensa-zione e al pensiero, l'immaginazione è la fonte comuneche permette, tanto alla sensazione che al pensiero, diemergere e di scaturire. Nella Critica della Ragion Pura,egli definisce l'immaginazione una «forza fondante del-l'anima la quale si pone come base di ogni conoscenza apriori» (12). Questo implica che essa non è riducibile allasensazione o al pensiero; è piuttosto un processodinamico e autogenerantesi. Con parole che sembranoanticipare la psicologia del profondo, Kant dice che l'im-maginazione è una funzione cieca ma indispensabiledell'anima senza cui non ci sarebbe conoscenza alcuna,ma di cui siamo scarsamente consapevoli. Martin Hei-degger, nel suo saggio su Kant e il problema della me-tafisica (13), mette in evidenza come Kant abbandoni, allafine, la sua precedente concezione circa il primatodell'immaginazione. La scoperta che la funzione fondantedell'immaginazione potrebbe rimandare ad una baseancora più fondamentale della percezione e del pensiero,lo allarmò profondamente. Infatti nella seconda edizionedella Critica, l'immaginazione, «l'indispensabile funzionedell'anima», viene presentata come una semplice ancelladella ragione. Riaffermando la supremazia della ragione,Kant ritorna sul tradizionale sentiero del razionalismo e

\del logo-centrismo.In sostanza, il rapporto tra immaginazione e percezione siè caricato di secoli di discussioni, durante i quali l'im-maginazione è stata: o soprawalutata (come ad esempionel Romanticismo), o denigrata (come nell'Empirismo fi-losofico e nel behaviorismo psicologico).

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In tutti i casi il problema cruciale è stato, da una parte se ecome distinguere l'immaginazione, (e distinguerla in mododecisivo), dai diversi atti mentali; dall'altra, comeidentificare l'immaginazione quale attività a sé stante, conun proprio status esistenziale. Numerosi filosofi, oltre adAristotele e Hume, quali Averroè, Tommaso d'Aquino,Cartesio, Locke, Merleau-Ponty, hanno visto una conti-nuità inevitabile tra percezione e immaginazione.L'altro gruppo di filosofi, (Plafone, Piotino, Bruno, Ficino,Vico, Fichte, oltre a poeti e pensatori quali Schelling,Coleridge, Breton, Bachelard), vede l'immagine molto piùindipendente rispetto alla percezione. Invece di conside-rarla uno stadio di passaggio che porta ad un processomentale che si suppone superiore (l'intelletto vero e pro-prio, la ragione pura), l'immaginazione è vista da questiautori quale facoltà noetica originale fondamentale, indi-pendente dalla percezione e dalla sensazione.

A questo punto potremmo anche aspettarci che l'immagi-nazione, come attività autonoma della psiche, sia relati-vamente facile da delimitare rispetto agli altri atti del pro-cesso mentale. Sostanzialmente però il delimitarla, il pre-cisarla è pressoché impossibile, come abbiamo accennatoanche prima, poiché nonostante la sua autonomia,l'immaginazione rimane una faccenda estremamente am-bigua ed elusiva, difficile da descrivere nei propri termini osulla base del suo rapporto con altri atti mentali.L'ambiguità e il carattere elusivo dell'immaginazione èdovuto principalmente al fatto che essa non agisce mai dasola, ma sempre mediante altre facoltà (qui insisto, non inbase, bensì attraverso altre facoltà) oppure in tandem conesse. Come dice Jung, «la fantasia è, a un tempo,sentimento e pensiero, è intuizione e sensazione» (14). Aproposito di quanto sia difficile isolare e fissare l'immaginepuò essere utile e interessante ricordare un articolo diHillman apparso su Spring (15), nel quale egli sottolineal'importanza del sottile rapporto tra immagine epreposizioni, e illustra con un esempio ciò che intendequando parla di questo speciale rapporto preposizionalequale fattore essenziale nel lavoro sul sogno: «Se in unsogno», egli dice, «sto camminando con mia moglie, que-

(14)C.G. Jung, Tipipsicologici (1921), op. cit,p. 63.

(15) J. Hillman,ImageSense, Dallas,Spring, 1979.

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(16) Ch. Baudelaire,Curìosité estétiques de l'artromanti-que, Paris,Gallimard, p. 329.

(17)Rizzoli-Larousse, Dizio-nario Enciclopedico per tutti,Milano, Rizzoli, 1975, p. 33.(18)S. Arieti, Interpretazionidella schizofrenia, Milano,Feltrinelli, 1971; B. Callieri,A. Castellani, G. De Vincen-tiis, Lineamenti di una psico-patologia fenomenologica,Roma, II Pensiero ScientificoEditore, 1972; G. Benedetti,Alienazione e persona-zionenella psicoterapia dellamalattia mentale, Torino,Einaudi, 1980; E. Casey, 7b-ward Archetypal Imagination,Dallas, Sping, 1974.

sta immagine si riferisce non solo al camminare e allamoglie. L'immagine è pre-posizionata da con, e i compo-nenti dell'immagine ("moglie", e "io che cammino"), sonolegati da quel con in modo tale che le figure del sogno, ele azioni, risultano pre-posizionate, cioè governate daquesto "camminare con" dell'Io onirico esprimente uninsieme, una combinazione con la moglie. Questo insie-me, questa combinazione significa forse una confidenzaulteriore, o addirittura una complicità? E non dovremmoforse leggere qualunque altra situazione di questo sognocome in rapporto alla relazione specificata da quella pre-posizione?» E Hillman continua: «II fatto è che, in questosogno, avrei anche potuto camminare dietro, per traverso,o davanti, o in direzione di mia moglie; ogni preposizionepresenta una proposta diversa. Il sogno in questioneavrebbe potuto dire: lo e mia moglie stiamo camminando,senza nessuna preposizione, un semplice camminarecongiuntamente, una coppia che cammina, senzainferenza di complicità inconscia». Insomma ciò che que-sto autore suggerisce è che solo mettendosi al servizio ditutte le preposizioni, e quindi al servizio di tutte le sfuma-ture e sfaccettature del nostro mondo inferiore, l'immagi-nazione si precisa ed essa emerge (per dirla con Baude-laire) quale regina delle facoltà (16). Secondo Baudelaireinfatti tutte le facoltà dell'anima umana dovrebbero esseresubordinate all'immaginazione, la quale le mette al suoservizio. E come ogni vera personalità regale, e in quantotale, l'immaginazione diventerà per sua funzione servaservorum di ogni facoltà dell'anima stessa.

È venuto ora il momento di accennare alle allucinazioni. Aquesto proposito, e per cominciare, mi sono rivolta aldizionario Rizzoli Larousse nel quale è detto che nellalingua italiana per allucinazione s'intende «la percezione,da parte di un soggetto sveglio, di fenomeni in realtàinesistenti» (17). Nella ricerca di un maggior approfondi-mento ho consultato owiamente vari autori (18) le cuiricerche ed elaborazioni sull'argomento mi sembra con-fermino, in sostanza, la succitata definizione linguistica.Edward Casey, ad esempio, eminente fenomenologoamericano studioso dell'immaginazione, sostiene chel'alluci-

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nazione consiste nel credere erroneamente ed ostinata-mente nella presenza di qualcosa che nell'esperienzapercettiva non esiste affatto.Queste ed altre definizioni sono state ben ferme nella miamente, ogni qualvolta mi sono trovata a dover trattare conpersone afflitte da allucinazioni o, comunque, inclini adesse. Nel cercare una modalità che possa in qualchemodo alleviare l'angoscia di questa sofferenza, ho potutosperimentare che una delle strade a cui ricorrere, a parteowiamente il sostegno farmacologico, indispensabile nellamaggior parte dei casi, è stata quella di sforzarsi di so-stituire alle allucinazioni altri prodotti puramente immagi-nativi in cui però la componente percettiva non fosseessenziale, o avesse soltanto un carattere accidentale,per esempio sforzarsi di ampliare, deleteralizzare discorsi-vamente, l'immagine allucinata.Uno dei tratti fondamentali delle allucinazioni è il lorocarattere «paranormale», dovuto al fatto che esse si pro-ducono contemporaneamente alle percezioni ordinarie espesso tendono a rimpiazzare tali percezioni per un pe-riodo indefinito di tempo. Se utilizzo qui l'aggettivo «pa-ranormale» invece di «patologico», è perché vorrei evitaredi catalogare tutti i fenomeni allucinatori sotto l'etichetta di«aberrazione». Sicuramente, infatti, esperienze come leimmagini eidetiche, ossia non contemporanee alla per-cezione - termine usato da HusserI come oggetto idealedella mente -, oppure le visioni indotte da droghe o quelleche si producono sotto ipnosi, o alcune sensazionicinestetiche, non sono tutte ed esclusivamente sintomi dimalattie mentali. Le allucinazioni vere e proprie appaionosempre in una specifica forma sensoriale, e i loro conte-nuti vengono avvertiti come entità che esistono all'esternodel soggetto che le prova. In contrasto con questocarattere proprio delle allucinazioni, le figure, gli oggetti ogli eventi immaginati non interferiscono mai con figure,oggetti o eventi effettivamente percepiti nel mondo con-creto, ne si sostituiscono a questi. «L'immagine o rappre-sentazione fantastica», e adesso cito Jung, «non si so-stituisce alla realtà concreta, e viene sempre distinta comeimmagine intema, e ben diversa dalla realtà sensibile»(19).

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(19) C.G. Jung,«Definizioni», in Tipipsicologici, op. dt., p.452.

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(20) P. Berry, «Un approccioal sogno», in L'Immaginale,3/1984, p. 99.

(21) M. Watkins, WakingDreams, Dallas, Spring Pu-blications, 1984.

Ciò trova la sua ragione nel fatto che la qualità sensoriadelle immagini - la loro forma, il loro colore, la loro strut-tura - non sempre derivano da oggetti esterni.Come dice Patricia Berry, «con l'immaginazione i referentioggettivi non sono rilevanti. L'immaginazione è sufficien-temente reale a modo suo, e mai reale in quanto corri-sponde a qualcosa di esterno» (20).Gli psichiatri di orientamento organicista affermano senzail minimo dubbio che i cosiddetti visionari sono soggettiisterici o schizofrenici, o che le esperienze visionarie diqualsiasi tipo, specialmente religiose, sono provocate ingenere da eccessivo ascetismo, o dalla pratica sistema-tica della meditazione, in quanto queste pratiche induconoa una concentrazione e a una tensione del tutto fuori delcomune. Ciò che essi dicono è certamente vero,ciononostante non è da escludersi l'insinuarsi di qualchedubbio soprattutto se osserviamo il fenomeno da un puntodi vista storico. L'assoluta certezza della patologia nelcampo delle visioni potrebbe non essere così evidente sesi pensasse che l'identificare le visioni con le allucinazionitrascura, anzi ignora completamente, il fatto che in talunisoggetti le visioni, (e lo confermano non pochi esempi tra iquali citiamo a caso Sant'Agostino, Giovanna d'Arco, SanFrancesco d'Assisi) hanno consentito unariorganizzazione e un rafforzamento della personalità in-dividuale, e specialmente dell'Io, laddove le comuni allu-cinazioni non apportano nessun tratto strutturante nellacostituzione del soggetto. In questo senso tendo perciò aconvenire con Mary Watkins, autrice di uno studio moltoaccurato sull'immaginazione, quando dice che: «Di frontealla consapevolezza dell'immaginazione, chi vive un'allu-cinazione è come se fosse addormentato. O meglio, dalpunto di vista dell'immaginale, è come se fosse un son-nambulo nella misura in cui i suoi sensi non sono com-pletamente svegli rispetto alla potenziale ricchezza diquello che c'è nell'immaginazione» (21).

Fra i molti tentativi filosofici e psicologici per superare ildualismo tra inferiore ed esteriore (spirituale e materiale,soggettivo e oggettivo), la posizione di Jung è unica per ilfatto che, come sappiamo, egli riesce ad evitare di

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cadere nell'uno o nell'altro estremo. Jung non ha raggiuntoquesta posizione per mezzo di acrobazie intellettuali, main quanto terapeuta praticante che non temeva dirapportare la propria esperienza clinica sia all'antica sag-gezza e al pensiero delle discipline spirituali dell'Oriente,sia al pensiero mitico culturale e religioso dell'Occidente. Ilrisultato di questa sintesi clinico-simbolica fu l'intuizioneche la psiche è immagine e immaginante.Ho selezionato alcune frasi di Jung in cui egli cerca diesprimere questa sua intuizione e posizione mediana.Secondo Jung, «la nostra esperienza della realtà..., ognipensiero, ogni sentimento e ogni percezione sonocomposti d'immagini psichiche, e il mondo esiste soltantoin quanto noi siamo capaci di produrne un'immagine» (22).Contrariamente agli assunti sia del materialismo che dellospiritualismo, il mondo che noi abitiamo è un mondopsichico. La psiche junghiana non si basa sulla materia (ilcervello) o sulla mente (l'intelletto o la metafisica), masull'esse in anima concepito come terza realtà tra mente emateria. Nell'attività immaginativa della psiche, idea ecosa, inferiore ed esteriore, procedono insieme, e sonomantenuti insieme da un loro equilibrio.Purtroppo, e cito da Jung: «il rapporto dell'uomo con lasua fantasia è determinato in alto grado dal suo rapportocon l'inconscio in generale. E a sua volta questo rapportoè condizionato in modo particolare da quello che è lospirito del tempo» (cioè dalle tendenze collettive). «Aseconda del grado di razionalismo dominante» (nel col-lettivo) «l'individuo sarà portato ad avere un contatto più omeno stretto con l'inconscio e i suoi prodotti» (23). Noisiamo immersi in un mondo che è una creazione dellanostra psiche. Siamo talmente avvolti da una nube diimmagini cangianti e d'infinite iridescenze, che si vorrebbeesclamare con Jung: «Nulla è completamente vero, eanche questo non è completamente vero» (24).Ciò che Jung esprime in queste affermazioni è che ilmondo dell'esperienza comune, o mondo fisico fenome-nico che «razionalmente» ci viene dato dalla vista, daltatto, dall'odorato, ecc., e che si può misurare o disegnarein unità di tempo e di spazio, è - nella sua forma più

(22) C.G. Jung,«Commento psicologico al'Libro Tibetano della grandeliberazione'», in Psicologiae Religione, Opere, voi. XI,Torino, Borin-ghieri, 1979,p. 494.

(23) C.G. Jung, Tipipsicologici {)92~ì), op. cit.,p. 63.

(24) C.G. Jung, «Spirito evita» (1926), in La dinamicadell'inconscio. Opere, voi.Vili, Torino, Boringhieri,1976, p. 352.

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(25) C.G. Jung, «Scopi dellapsicoterapia» (1929), in Pra-tica della psicoterapia, Ope-re, voi. XVI, Torino, Borin-ghieri, 1981, p. 54.

(26) C.G. Jung, Tipi psicolo-gici {•\92'\), op. cit., p. 399.

(27) Ibidem, 400.

semplice e fondamentale - una complicatissima strutturadi immagini psichiche.Jung ammette che: «Esistono fantasie vane, inadeguate,morbose e insoddisfacenti, delle quali chiunque sia dotatodi buon senso riconosce immediatamente la naturasterile». Ma anche se riconosciamo nella fantasia qualco-sa di imperfetto, d'imbarazzante o di futile, ciò non do-vrebbe portarci a discreditare la facoltà creativa contenutain essa. Sempre secondo Jung: «Tutto il lavoro umanotrae origine dalla fantasia creativa, dall'immaginazione.Come potremmo allora averne una bassa opinione?» Egliafferma inoltre che «la fantasia di norma non si smarrisce:profondamente e intimamente legata come è alla radicedegli istinti umani e animali, ritrova sempre, in modosorprendente, la sua via. Ancora: «L'attività creatri-cedell'immaginazione strappa l'essere umano ai vincoli chelo imprigionano nel «nient'altro che», elevandolo allo statodi colui che gioca» (25).Considerare le immagini come eventi psichici vuoi direche in ogni sensazione c'è un «fattore soggettivo», unadisposizione soggettiva, inconscia, che (seguiamo le pa-role di Jung), «modifica la percezione sensoriale fin dalsuo sorgere e che le toglie pertanto il carattere di meroeffetto dell'oggetto» (26).Un'ultima e significativa citazione, sempre da Jung: «IIfattore soggettivo... rappresenta lo specchio nel quale siriflette il mondo della psiche. Questo specchio ha la spe-cifica proprietà di rappresentare i contenuti attuali dellacoscienza... così come li vedrebbe una coscienza vecchiadi milioni di anni. Una coscienza siffatta vedrebbe ildivenire e lo svanire delle cose simultaneamente con illoro essere attuale e momentaneo, e non questo soltanto,ma anche ciò che era prima del loro divenire e ciò chesarà dopo la loro scomparsa...» (27). Una realtà la qualeè coperta da un'antichissima patina di esperienze sog-gettive.L'analogia dello specchio usata da Jung suggerisce chele immagini del mondo psichico sono, in un certo senso, ilnostro destino. Contrariamente a quanto sostengonoLocke, Hume e le filosofie sensazioniste, noi non comin-ciamo la nostra vita come una tabula rasa, ma siamo

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sempre, in ogni momento, carichi delle esperienze deinostri più remoti antenati che, come letti dei fiumi, in-canalano il flusso della nostra vita individuale. Ci sonocose che siamo destinati a ripetere come i corpi celestiripetono le loro orbite.Ma diamo per finire la parola a un poeta, Samuel TaylorColeridge.Per Coleridge l'immaginazione creativa non è solo lafonte dell'arte, ma anche la forza viva e l'agente primo ditutta la percezione umana. Essa ci da modo di scoprire ilsenso più profondo di tutto ciò che ci sta intorno - unsignificato che è intensamente soggettivo, ma che appar-tiene nel contempo al nucleo interiore di tutte le cose chefanno parte di questo nostro mondo. Insomma ciò checon Jung intendiamo quando parliamo óeWAnima Mundi.

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Gioco e dialettica

Marcello Pignatelli, Roma

Nella stagione dei trattali, nel trionfo del caos e dellacomplessità sembra ingenuo e inopportuno avanzareuna visione del mondo di stile euclideo e tanto menoilluministico. Bisogna adeguarsi se non si vuole correre ilrischio di rimanere fuori del corso della storia, dei ritmidel progresso.Tale premessa serve per tentare un confronto tra lapsicoanalisi, detta classica, e le numerose proposte teo-riche e pratiche che da essa sono derivate, magarirecuperando moduli precedenti il suo awento.Sembra ormai obsoleta la tradizionale diatriba, che sisforzava di distinguere psicoanalisi da psicoterapia,fissando linee precise di demarcazione: comunque taledistinzione sembra oggi priva di significato, in quantoinlnfluente rispetto al successo terapeutico. Questoproviene dall'uso poliedrico e disinvolto di tecnichesvariate: la religione monoteistica di Freud, non a casoebreo, è fuori moda;i suoi corifei si mostrano ingessati e vengono spessoguardati con sorrisi di benevolo compatimento: lascienza imposta da Freud al suo metodo appare solo unvestito, a nascondere nudità sconcertanti, perchévecchie.È tempo di sincretismo, di ecumenismo, di neo-umane-simo, che rifiuta alla psicoanalisi la fiera e provocatoriapretesa di porsi contro natura per enfatizzare il propriopeso culturale. La regressione, ritenuta indispensabileper una terapia etiologica del disagio psichico, non viene

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più temuta per il pericolo di rimanere a vita sul lettinodell'infanzia, ma è utilizzata con energica convinzionecome strumento indispensabile, sotto forma di gioco nelladilagante invasione del puer, a fecondare la grigia, ristret-ta monotonia dell'adulto.Il gioco della sabbia si inserisce efficacemente in questofilone presentando con aperta seduttività oggetti sacriallo spirito del tempo: materia, corpo, immaginazione,rappresentazione sono offerti in fortunata combinazionecon emergenza dell'inconscio, interpretazione, condivi-sione, parola. Il titolo del Convegno dell'Orto Botanico èsuggestivo: quel «Sognando con le mani» che equipara ilquadro della sabbia al sogno e introduce le mani, quellemani sensuali e immediate, a carezzare la mente, a rei-ficare la fantasia.Qualche dubbio tuttavia si insinua circa la qualità di que-sta operazione. Personalmente debbo confessare che findal primo, lontano apparire della sabbia tra le dita del suoambasciatore, Dora Kalff, provai una qualche diffidenza,che si è man mano consolidata in un pregiudizio, non soquanto sano oppure orgoglioso.Da allora è stato coperto un lungo cammino, dove si èdistinto Paolo Aite, che ha elaborato una sua particolareversione del metodo, fornendo ad esso un substrato spe-culativo ed un'organizzazione culturale. Tale pazientefatica è poi approdata ad una larga applicazione clinica,che sembra confermare la bontà dell'assunto.Nelle tante occasioni di dialogo sull'argomento e nel con-tenuto degli articoli di questo numero della Rivista hotrovato argomenti convincenti, illustrazioni di sicura effi-cacia e un'accurata disamina teorica, che inquadra tuttele prospettive e approfondisce i significati nella dimensio-ne spazio-temporale.Sembra dawero che, ponendosi in un assetto squisita-mente junghiano, si riesca finalmente a coniugare gli op-posti storici di pensiero razionale e pensiero fantastico, diimmagine e parola, in una composizione olistica. Non sose sia troppo dichiarare un tale risultato: in effetti piùumilmente il Convegno si propone come punto didomanda. Se partiamo dal postulato che è importantesollecitare l'apparire dell'inconscio e quindi ottenere uneffetto più

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rapido rimanendo nel campo della psicoanalisi, possiamodirci soddisfatti: si arriva ad ammettere analogie con l'im-maginazione attiva.Ma rispetto all'atteggiamento analitico, con il quale vo-gliamo confrontarci, intervengono variabili di non pococonto, anche se intendiamo prescindere dai lacci dell'or-todossia: esse sono il fare, il toccare, unitamente conl'intrusione di strumenti, che mi suonano come voce di unterzo nel rapporto duale, cioè la sabbiera, le figurine, lamacchina fotografica. Si tratta di una rivoluzione, cheben venga quando segna un progresso, anche se sidistanzia vieppiù dalle origini.Se fosse vero, e lo è solo in parte, che sia peculiaredell'analisi non agire ne predisporre un apparato checondizioni il paziente, qui è codificato il contrario: sobenissimo che anche un setting rigoroso lancia messaggiprecisi, ma si tratta della misura di questi, sia nella qua-lità che nella quantità.È chiaro che, pur nella conformità della metodologia, glioggetti di base, scelti dal terapeuta, sono una comunica-zione controtransferale marcata, che precede l'incontrocon l'altro; l'attesa, sia pure discreta, che si passi allasabbiera è esplicita, anche se può essere assimilata adaltre imposizioni tipiche dell'analisi, come il lottino.Torno a ripetere che nessuno crede più al mito dellaneutralità, se non in mala fede o in un'accezione esaspe-rata della dottrina, che scotomizza gli eventi verificatipraticamente in seduta. Ma c'è una gradualità nella dero-ga all'utopia di fondo, rimanendo questa tuttavia una li-nea di tendenza costante.Il linguaggio del corpo, la comunicazione non verbalehanno trovato da tempo esegeti appassionati e applica-zioni avanguardistiche: da Wilhelm Reich, alla Gestalt,allo psicodramma, a forme variopinte di «maratone» inte-se a liberare gestualmente l'emozione e a rappresentarlaper il tocco abile del regista.Tali accostamenti possono sembrare arbitrar! e blasfemi,ma vogliono solo ricordare come fin dagli inizi della vi-cenda analitica siano state molte le iniziative atte a spez-zare la prigionia della parola e recuperare i livelli primaridi espressione.

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A proposito del gioco della sabbia, quando arriva il mo-mento di svolgere il compito suggerito, non imposto,comunque incombente, di «creare» una scena, si deter-mina una situazione che mette alla prova la capacità delpaziente di operare in un ambito a metà tra la manualitàe la valenza estetica. La genuinità del lavoro dipende, amio awiso, da quanto si riesca ad affrancarsi dalla pres-sione dell'Io e dal giudizio dell'osservatore, anche sesappiamo che quest'ultimo è deliberatamente riservato.Non credo che fare la sabbia somigli alla scrittura auto-matica.Mi vengono in mente gli stati emotivi che condizionanol'esecuzione dei tests psicometrici e dei quiz esplorativi,tanto cari alla psicologia scientifica e adatti per una valu-tazione superficiale, ma sempre diffidati dallapsicoanalisi. Naturalmente anche chi usa tali tecnicheconosce quanti elementi di devianza si interpongono afalsare il valore oggettivo del risultato: anzi proprio questiegli sottolinea per coglierne la componente ansiosa e ilapsus corrispettivi. Come pure l'attitudine a cimentarsicon tali strumenti e l'indicazione a usarli dipende dallatipologia e dalla psicopatologia del soggetto. Mi domandoad esempio quale effetto produca il gioco della sabbia sudi una personalità fobico-ossessiva, per la qualepotrebbe succedere che, al di là di un certo limite disopportazione, l'esperimento susciti sintomipreoccupanti, come accade con un intervento forzoso didecondizionamento comportamentistico.Sono obiezioni di rito, cui è facile rispondere affidando,come al solito, il successo alla scelta del caso e allasapienza del terapeuta nell'analizzare le resistenze. Tut-tavia questa conclusione riguarda qualunque trattamentopsicoterapeutico: quindi bisogna mettere in evidenzacosa accade per ogni singola tecnica, quali sianovantaggi e riserve, cosa differenzi l'una dall'altra.Rimane sullo sfondo il tema che più ci interessa: cioè nontanto la validità del metodo, quanto piuttosto la parentelache il gioco della sabbia ha con l'analisi. Cominciandodalla frase di Jung: «Spesso accade che le mani sappia-no svelare un segreto intorno a cui l'intelletto si affannainutilmente», da un a parte ci sentiamo garantiti dalla

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competenza del maestro, dall'altra facilmente convenia-mo che il tatto e con esso i sensi tutti ci fornisconoinformazioni preziose: in ultimo possiamo affermare cheun incontro erotico fino ad un orgasmo condivisoconsentono percezioni sintetiche e integrazioni sublimi.Limitando alla circostanza terapeutica in questione l'usodelle mani, rimaniamo in un campo appropriato. Ma unpresupposto forte dell'analisi è l'esclusione dell'agito e laprescrizione di vivere l'evento a livello disiimbolizzazione. Si potrebbe pensare che la traduzionein atto della fantasia e il trasferimento delle capacitàsensitive sulle cose, prevaricando il simbolo che le lasciain un regime di fluidità senza fissarle ne privarle diintensità, alterino il significato dell'espressione e dellacomunicazione.L'analisi però, temporaneamente emarginata, rientra inun momento ulteriore, quello dell'interpretazione: ma lasuccessione dei tempi ha importanza rilevante sul conte-nuto. È diverso dare spazio immediato al processoprimario piuttosto che partire dall'attualità dell'adulto,perché questi arrivi, strato dopo strato, ai recessi piùprofondi.I sostenitori della tecnica del gioco affermano che così siriproduce il processo di apprendimento secondo le lineenaturali di sviluppo, dall'immagine alla parola; che taleprocedimento abbrevia il percorso facilitando l'emersionedell'inconscio. Ritorna il sospetto che si avanzi una tera-pia breve, con tutto il rispetto e l'attenzione che le sonodovuti, e che l'inconscio, forzato a manifestarsi, si beffi dinoi mandando falsi messaggi.L'antinomia, che si vuole proporre tra il linguaggio condi-viso e la comunicazione per immagini, mi appare sur-rettizia: in psicoanalisi l'immagine viene fornita impastatacon il linguaggio, il sogno la presenta prima della suaverbalizzazione formale; l'immagine parla anche nel so-gno, come è impossibile che non succeda visto che illinguaggio è struttura della mente nella sua totalità. L'im-magine che il corpo offre in analisi non ha bisogno diconcretizzarsi in una manifattura come quella della sab-bia, che ne riduce la libertà.Se si parla poi di transfert, ricordiamo che esso, in unasua accezione allargata, si attua in qualsiasi rapportointerpersonale, caratterizzato da ruoli distinti: nel nostro

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settore avviene anche nella supervisione, dove pure lapresenza dell'Io è prevalente e il fantasma del terzo (ilpaziente dell'allievo, l'Associazione) attraversa il campo.Nel gioco della sabbia, come dicevo sopra, il terzo èammesso ufficialmente, la strumentazione tecnica si in-serisce platealmente, interponendosi nelle emozioni fra idue: il rilievo fotografico, la lettura delle immagini fuoridella seduta forniscono un dato di realtà che caratterizzala persona del terapeuta incidendo sul transfert, e provo-cano apprezzamenti condizionati dei suoi movimenti.Forse non vale la pena, se non per il gusto dell'indaginecritica, di enfatizzare il significato della passività: questa,nel nostro caso, viene dichiaratamente superata, ma nontanto per quello che si fa in seduta, quanto per l'applica-zione di un sistema organizzato a collazionare elementi,che rimangono fissati in mezzo ad una relazione, suppo-sta diretta, aperta e fluttuante. L'analista rischia di appa-rire piuttosto come tecnico esperto che come soggettopsichico.Se vogliamo tornare all'analogia tra gioco della sabbia eimmaginazione attiva, bisogna precisare, chiarendo unequivoco tradizionale, che è opportuno dire qui «attivitàimmaginativa», in quanto l'attività prevale sull'immagina-zione. lo ritengo che la vera «immaginazione attiva», cosìvicina alla meditazione, sia più autentica se vissuta da sésoli, con l'interno di sé, senza l'ingombro di altri: ancheperché viene ritenuta essere la via essenziale per l'indi-viduazione.C'è un altro punto che entra in collisione con i dati del-l'analisi ed è la catamnesi. Nel lessico analitico consueto,sempre ammesso che si voglia condividerlo, il lavoro siconclude con l'ultima seduta, che prevede una separazio-ne definitiva. Nel gioco della sabbia è richiesto che sirivisitino insieme con il terapeuta le sabbie fatte a suotempo e che eventualmente se ne producano delle nuovedi controllo. Quindi si propone di accompagnare il pazien-te lungo il suo inserimento nella realtà, proposta che ha ilvantaggio di essere più umana e più attinente allecaratteristiche della cura, ancora una volta però in antitesicon la premessa che sia più importante conoscere checurare. D'altronde così facendo si assumono appunto

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atteggiamenti sempre più vicini alle pretese scientifichedella psicologia. Voglio tuttavia convenire che il giocodella sabbia, come l'analisi, non lo si conosce se non sene fa l'esperienza: io non sono in queste condizioni esono pertanto costretto ad una discussione teorica che,ripeto, non concerne la sua validità, ma solo la sua affi-nità con l'analisi.Dopo essermi concesso una serie di argomentazioni checercano di dare una risposta ai quesiti avanzati dal Con-vegno dell'Orto Botanico, vengo a precisare che essesono dichiaratamente faziose: intendo dire che mi sonoassunto la parte dell'opposizione e il ruolo del PubblicoMinistero, non già per puro amore di polemica, bensì perevidenziare la complessità dei problemi che investono lanostra esistenza di terapueti. Mi piace la semplicità, manon il semplicismo.A me poco importa stabilire se il gioco della sabbia sicollochi dentro o fuori dalla psicoanalisi: mi è parso utileperò esaminare gli elementi distintivi per ribadire che lapsicoanalisi sembra abbia perso oggi i suoi confini. Èowio e opportuno che nel tempo abbia subito trasforma-zioni e trasgressioni: soltanto gli epigoni, sacerdoti del-l'ortodossia, ne custodiscono fedelmente il tempio. Sem-pre più calati nella storia, s'impone la necessità di ottene-re che la gente stia bene, gli individui come la società daessi composta, purché non si approdi all'appiattimentopsicologico e etico: questo fine si può raggiungere con imezzi più svariati, la cui bontà si verifica attraversol'esperienza e la correttezza. I mezzi non sonoobbligatoriamente iscritti nella cornice terapeutica, masono anche riferiti alla disposizione riflessiva, fattuale,relazionale, sociopolitica, tenendo sempre presente la«realtà dell'anima».

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Immagini, parole, ombre

Giuseppe Maffei, Lucca

Ogni parola ha un alone semantico. Seguendo una sug-gestione di Anna Resnik possiamo immaginare questoalone semantico come un'ombra, ma un'ombra che nonè sempre identica a se stessa. Mi piace immaginareancora che la forma dell'ombra (dell'alone semantico) diogni parola vari, nel linguaggio parlato, a seconda dellemodalità con cui la parola viene pronunciata. L'ombradella parola «upupa» non può che essere, a causa delledue «u» per chi non conosce quell'uccello, un'ombra unpo' sinistra ed è forse difficile che la sua ombra possadiventare quella di un uccello solare. E per parole conuna quantità maggiore di suoni, la loro combinatoria ètale che possiamo immaginare veramente una quantitàinfinita di ombre.La suggestione può essere applicata, credo, anche alleimmagini. Anche le immagini hanno un alone semantico,possiedono un'ombra costituita, in questo caso, dadiverse parole. Ma anche le parole «ombre» di immagininon possono essere sempre le stesse perché lemodalità di rappresentarsi delle immagini è molto variaed a diversi colori, a diverse sfumature, a diversicontorni non possono non corrispondere che suonidifferenti.Ne le parole ne le immagini dicono la verità, rivelanocomunque l'essenza di ciò cui si riferiscono. La «cosa»resta sempre un loro irraggiungibile «oltre». A mioawiso, è la consapevolezza di questa irraggiun-

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gibilità della «cosa» che può fondare una utilizzazioneanalitica di tecniche in cui venga dato spazio alle imma-gini, sia di quelle in cui viene compiuto un uso diretto diimmagini mentali che di quelle in cui vengono offerti, aipazienti, oggetti che consentono di giocare e, appunto, diimmaginare (v. la tecnica analitica kleiniana e la sandplay therapy). Se queste tecniche vengono cioè usateritenendo che riescano a porre più vicini alla realtà dellapsiche, viene compiuto, credo, un «attacco» inconscioall'ambito del verbale. E nello stesso modo, se si usal'ambito del verbale, ritenendolo più vicino o addiritturacoincidente con la realtà della psiche, si compie pure un«attacco» inconscio all'ambito dell'immaginario.Se si rinuncia invece, radicalmente, alla raggiungibilitàdella «cosa», ambito del verbale e ambito dell'immagina-rio appaiono invece come ambiti dell'Esserci (Dasein)dell'uomo, modalità cioè di rapportarsi al mondo per viaverbale e per via immaginativa (v. il saggio di Sartresull'immaginario: la coscienza che prende forma immagi-nante).Quando Kekulé immagina il serpentello che si chiude acerchio e intuisce la struttura dell'anello benzenico, lascoperta della chimica organica è già avvenuta a livelloimmaginativo; poco dopo viene assunta dal livello verba-le. E viceversa certe scoperte a livello di verbalizzazioneastratta necessitano di essere assunte a livello immagi-nativo.Immagini e parole si rimandano le une alle altre in modoincessante: basti pensare ancora, nelle tecniche classi-che, all'uso dei sogni e dei giochi. E lo stesso vale, credo,anche per la terapia con la sabbia dove l'ombra verbaledelle immagini create con l'aiuto dei «bambini» giochi edella «madre» sabbia, è essenziale, almeno nella psichedel terapeuta per il buon esito dell'esperienza.Immaginare e parlare, fantasticare e pensare, sognare epensare da svegli: si tratta di ineliminabili polarità, che seanche create di necessità dalla pre-esistenza del linguag-gio alla nascita del neonato, non per questo devono es-sere ritenute come completamente riducibili al livello delparlare, del pensare e del pensare da svegli. Non èpensabile che il riconoscimento della centralità del lin-

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guaggio nella costituzione della vita psichica debba de-terminare una sottovalutazione di tutto ciò che non ap-partiene alla sua sfera. La terapia della sabbia, se non èusata come un «attacco» al verbale, ma riconosceinvece un proprio fondamento nella rinuncia alla «cosa»può pertanto essere così ritenuta come una forma diterapia, che consente a chi la pratica di entrare incontatto non solo con le immagini idealizzate del propriosé, ma anche con i luoghi della propria sofferenza e dellapropria incompletezza. E questo può essereparticolarmente utile per quelle persone in cui il livelloverbale ha come assunto un potere eccessivo, in cui èpossibile osservare un distacco sia dal fondamentoimmaginativo (inalienabile) della vita psichica chedall'esperienza estetica. La produzione di formeesteticamente molto belle, se non diviene una delle tantemodalità della propria idealizzazione, pone in contattoinfatti con una sfera della vita psichica che per moltepersone è molto lontana dalla coscienza e pressochéirraggiungibile: è per questo che l'attivazione di una ten-denza estetica può essere pure considerata, pertanto,come molto importante nella direzione di una riap-propriazione di modalità di esistenza, oggetto di mecca-nismi di diniego.

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La dinamica di gruppo comemodello clinico delmeccanismo di costituzionedell^immagine

Piergiacomo Migliorati, Roma

(1) Per immagineintendiamo, qui, tutti ifenomeni percettivi,comunque costituiti, che ac-quistano un significato inogni modo sovradeterminato,comprese le forme sensoriali(visive, uditive e tattili) equelle mentali.

Nella Psicologia analitica il processo trasformativo avvie-ne, come sappiamo, per l'esercizio della funzione imma-ginativa la quale, in virtù della propria capacità di aggre-gare i dati in modo nuovo, induce quelle mutazioni pro-fonde della psiche che vengono ritenute il vero fattoreterapeutico. È la produzione dell'immagine (1), dunque, inforza della polivalenza di questa, che costituisce la rotturadelle unilateralità della coscienza; rottura dolorosa maindispensabile se si vuole evitare che quanto vienerelegato nell'inconscio riemerga sotto forma di sintomo.D'altra parte, è un assioma della psicoanalisi in genereritenere che l'immagine prenda il posto, nella coscienza,del desiderio rimosso impossibilitato a farsi strada a cau-sa della censura dell'Io. Ma un punto qualifica in modoparticolare la Psicologia analitica rispetto al ruolo asse-gnato all'immagine nel processo terapeutico: mentre perla psicoanalisi il reperire le immagini inconsce ha lo sco-po di evidenziare la situazione che ha provocato la rimo-zione, per Jung l'immagine conserva un valore significa-tivo in sé: esprime, cioè, non solo «qualche altra cosa»attraverso una funzione segnica, ma possiede una virtùcreativa sua propria, contiene una prefigurazione germi-nale del disegno che dovrà svolgersi nella vita dell'indi-viduo.Tutto ciò è abbastanza noto, anche se ritengo debbaancora essere approfondito con sostanziali riferimenti per

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la pratica clinica. In questo lavoro, tuttavia, non parleròdell'immagine come strumento terapeutico ma farò alcuneosservazioni sul meccanismo stesso con cui l'immagineviene prodotta, illustrandole con un esempio clinico.Chiarisco meglio il senso di questo lavoro ponendo duedomande:

Prima domanda: Qual è il materiale di cui è costituital'immagine?Jung sostiene che «nel ritrovare il senso della propriaimmagine primordiale l'uomo scopre il luogo di incontro tral'ignoto di se stesso e l'ignoto del mondo» (2). Ma di quale«ignoto» si tratta? In che rapporto entra l'individuo colmistero del proprio mondo interno e del mondo cosiddettoesterno? In altri termini: il materiale che si costituisce inimmagine è essenzialmente endopsichico, oppure entradirettamente in gioco anche la realtà esterna? E se è così,come si manifesta questo rapporto con la realtà esterna?Bisogna dire, prima di tutto, che in ogni caso i datipercettivi (sia esterni che intemi) forniscono elementi per lacostituzione dell'immagine. Anche Freud, a proposito dellaformazione delle immagini oniriche, sosteneva che «tutto ilmateriale che costituisce il contenuto del sogno deriva inqualche modo da ciò che abbiamo vissuto e vieneriprodotto, ricordato nel sogno» (3). Questo vale anche peril contenuto latente del sogno, che viene interpretato comeil prodotto di una spinta provocata dalla pressione delrimosso il quale, a sua volta, è costituito dalle traccemnestiche di percezioni reali. A proposito dei contenutiarchetipici dell'inconscio (ipotesi alla quale lo stesso Freudnon era estraneo), Jung riteneva che essi fossero, inqualche modo, il precipitato delle esperienze filogenetichepregresse all'individuo.Il problema, piuttosto, è quello di accertare se la relazioneattuale con la realtà esterna ha una specifica funzionenell'attivare la funzione immaginativa della psiche. Ci stia-mo domandando se la componente con la quale la co-scienza deve confrontarsi resti endopsichica (cioè debbafar conto dei contenuti immaginali presenti nella psicheinconscia, ancorché originati dalla percezione della realtà

(2) C.G. Jung, «II simbolo dellatrasformazione della Messa»(1954), in Ps/co/o-gia e religione,Opere, voi. XI, Torino,Boringhieri, 1974.

(3) S. Freud, L'interpretazio-nedei sogni (1899), Opere, voi. Ili,Torino, Boringhieri, 1978, p. 20.

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(4) P.G. Migliorati, «Sul sag-gio di Jung 'Realtà e sur-realtà'», IV Seminario resi-denziale AIPA, Ischia, 1990.

esterna) oppure se la realtà come dato oggetti vo attualenon entri nel gioco in maniera molto più sostanziale. Senon sia, cioè, proprio la relazione attuale col mondo ester-no una concausa determinante nella produzione dell'im-magine.

Seconda domanda: // «senso» dell'immagine che la co-scienza scopre è solo un prodotto dell'attività immagina-tiva?Chiedersi da dove viene l'immagine non significa solointerrogarsi sul tipo di materiale di cui essa è costituita,ma, soprattutto, sull'origine del senso che questo mate-riale assume quando si aggrega in quella che chiamiamoappunto «immagine». Se è vero che il tutto è superiorealla somma delle parti, è lecito chiedersi cosa costituiscaquesto tutto. Infatti, è proprio questo il problema: da doveviene il senso di questa totalità? Poco importa se l'incon-scio viene considerato un deposito di tracce mnestichederivate da percezioni personali oppure viene consideratocome sede di contenuti arcaici derivati dall'esperienzafilogenetica; come pure se il mondo esterno è quello dellanostra esperienza passata e presente o addirittura quelladella specie. Ora ci stiamo interrogando sulla funzioneimmaginativa per chiederci se essa sia so/o una attivitàendopsichica autonoma attivata da un movimentoenergetico strutturato su modelli interni autosufficienti,oppure se concorrono alla sua attivazione in manieradeterminante gli elementi particolari che poi vengono co-stituiti in immagine. In altri termini: è solo la funzioneimmaginativa a costituire l'immagine, o questa incontra undinamismo delle parti che sono per se stesse finalizzatead essere unificate nel tutto? In questo caso tra l'attivitàimmaginativa e il finalismo intrinseco delle parti costitutivesi avrebbe un'interrelazione come tra concause di unmedesimo movimento.Sul concetto di realtà esterna e realtà interna, e sullanecessità di non porle in contraddizione ma in relazionedinamica, ho avuto occasione di esprimere alcune osser-vazioni (4) e intendo proseguire in altra sede la ricerca. Milimito a ricordare l'avvertimento di Humbert secondo ilquale «non bisogna confondere l'intrapsichico con l'intra-

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soggettivo, con la scusa che la soggettività si apre sullaoggettività dell'inconscio collettivo (5). Questa è un'ambi-guità cui da luogo lo stesso Jung quando non sembradistinguere sufficientemente il concetto di collettivo daquello di sociale, anzi talvolta pare proprio sovrapporli. Seconsideriamo ogni realtà umana dentro la psiche ciò nonsignifica che essa sia anche esclusivamente dentro ilsoggetto. Se così fosse l'unica via di salvezza sarebbeidentificarsi solo con se stessi, con il proprio modelloinferiore, col proprio mito. Ma questa diviene una petizionedi principio: come è possibile prendere coscienza delproprio mito se l'occhio con cui guardo me stesso e ilmondo sono anch'essi un mito?Per parte mia ritengo che si debba rispondere positiva-mente ad entrambe le domande. Se il rapporto tra realtàesterna e realtà interna è correlato, anche l'immagine è unprodotto di questa correlazione ed è solo grazie a questache il processo si conclude con la produzione del simbolo.Nel presente lavoro, per dimostrare gli assunti teorici quisopra proposti, userò la relazione del gruppo analitico.Vorrei mostrare come nel dinamismo gruppale la situa-zione si costituisca in immagine secondo due funzioni. Larelazione attuale tra i mèmbri del gruppo e lo psichismoindividuale di questi si integrano nella potenzialità espres-siva inconscia presente sia nell'una che nell'altro. I datimetaforizzabili sono forniti sia dalla situazione globale cheda ciascuno dei mèmbri, a vari livelli (onirico, com-portamentale non verbale e verbale). A tutto ciò, comevedremo, non è estraneo neppure l'analista.L'immagine emergente la chiamerò Immagine relazionaleallo scopo di evidenziarne sia la genesi che il significato. Ènecessario precisare, però, che con «Immagine rela-zionale» intendo l'immagine in se stessa in quanto neviene colto il senso attraverso l'esercizio delle quattrofunzioni dell'Io. Qualora fosse solo la funzione Pensiero adindividuarla, la partecipazione ad essa sarebbe parziale enon sarebbe quella che chiamo Immagine relazionale. Inaltre parole: l'Immagine relazionale costituisce unamodalità di fruizione simbolica espressa a livello re-lazionale.

(5) E.G. Humbert, «II ruolodell'immagine nella psicolo-gia analitica», in Rivista diPsicologia Analitica, 19,1979, p. 25.

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(6) Non è questo il luogo perdescrivere compiutamente lamodalità di conduzione deigruppi che sto seguendo or-mai da molti anni. Si tratta digruppi chiusi, della durataprestabilita di tré anni. Suquesto, del resto, ho già avu-to modo di esprimermi in altriluoghi: «Teorie del gruppo ePsicologia analitica», in P.Aite e A. Carotenuto (a curadi), Itinerari del pensiero jun-ghiano, Milano, Cortina,1989; «Sul saggio di Jung'Realtà e surrealtà'» (1990),op. cit.; «Analogie tra grup-poanalisi e psicologia analiti-ca», in Psichiatrìa e Psicolo-gia Analitica, voi. XI: 1,1991.

Userò, come esemplificazione, la dinamica che si è svi-luppata in una seduta di gruppo. Poiché il mio intendi-mento è mostrare concretamente il fenomeno della pro-duzione dell'Immagine relazionale, mi soffermerò solo suquesto processo tralasciando sia la situazione cllnica deisingoli pazienti che gli effetti terapeutici, salvo qualcheaccenno indispensabile. Il gruppo è composto da ottopersone (quattro uomini e quattro donne) e si trova altermine del terzo anno di lavoro (6).Nella seduta che precede quella a cui ci riferiremo ilgruppo ha manifestato una forte ansia per la fine immi-nente. Livio l'ha espressa con un duro attacco all'analistae all'analisi in genere motivato da un senso di delusione:«Speravo che l'analisi risolvesse i miei problemi - diceva- invece mi accorgo che nessuno tè li può risolvere, deviarrangiarti da solo». Quasi la totalità degli altri non hasmentito apertamente questa considerazione senza riflet-tere sull'evidente regressione, contrariamente a quantoaccadeva in altre sedute quando l'autonomia personaleveniva considerata la meta positiva da perseguire. Altermine, dico al gruppo: «Forse vi è una domanda che ilgruppo vorrebbe rivolgermi... Forse vorrebbe sapere se ame dispiace lasciarvi...».In questo contesto si apre la seduta che stiamo osser-vando. Per comodità di esposizione non seguirò gli avve-nimenti in ordine cronologico ma dividerò il materiale intré sezioni secondo quelle che mi sembrano essere statele fasi del processo di sviluppo dell'Immagine relazionale.Le tré fasi sono le seguenti:- prima fase: il materiale metaforizzabile viene presentato- seconda fase: elaborazione del materiale- terza fase: emerge l'Immagine relazionale

Prima fase: presentazione del materiale, costituito da ma-teriale onirico, comportamenti e dichiarazioni significative.Alberto (sogno): Sono a Londra con mio suocero ed altre persone anziane. Penso difare loro da guida per la città, ma loro chiedono di andare dalle prostitute. Sulle prime mimeraviglio ma poi penso: perché no? Usciamo dall'albergo, il luogo dove si trovano leprostitute è vicino, sono per la strada, molto vistose. Poi sono con una 500, con me c'èqualcun'altro.

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Osservazioni: Alberto, all'inizio della seduta, dice di aversubito di recente una delusione riguardante alcune pro-spettive professionali. Per un senso di depressione sa-rebbe tentato di ritenere finito il suo iter analitico. «Tanto -dice - non mi serve per la professione». Gli viene fattoosservare che comunque l'esperienza del Gruppo stafinendo, e non si vede cosa c'entri questo con la delusio-ne di cui stava parlando. Non sembra cogliere lo stimoloalla riflessione, ed insiste nel suo discorso.

Rina (sogno): Mi trovo a New York con mio fratello ed un gruppo di persone forse difamiglia. Avevamo affittato una casa. Scendo per andare in un bar a prendere qualcosa,ma ho 50.000 lire e non me le cambiano, devo andare in una banca. Prima di uscire dalbar prendo un bacio Perugina che era in un angolo e lo mordo a metà e l'altra metà larimetto incartata a posto. Per cambiare questi soldi mi allontano e ad un certo punto miviene il panico perché non ho l'indirizzo della casa e non conosco nemmeno il quartiere,come farò a ritornare da mio fratello?

Osservazioni: Rina si trova in un paese straniero con ungruppo di amici ed ha un punto di riferimento nel fratello:facile individuare qui un richiamo alla situazione analitica,dove vi è un gruppo ed una persona di riferimento costi-tuita dall'analista. Ma per «cambiare i soldi» rischia diperderlo. Da rilevare anche un particolare: il bacioPerugina viene solo «morso a metà». Descrivendo ilsogno Rina conferma essere questo un suo modoabituale di comportarsi: spesso mangia un pasticcino ametà! Tutto ciò viene spontaneamente riferito aisentimenti (il «bacio») spesso bloccati. Terminata lalettura del sogno chiede all'analista se è possibile fareuna o due sedute individuali...

Laura (sogno): Sono andata al mare, con il treno. Ho lasciato un costume da bagno ealtre cose in cabina. Forse la cabina è dentro la stazione, come se stazione balneare ecabina fossero la stessa cosa. Tornando dal mare mi accorgo che non so il numerodella cabina, che comunque non ho chiuso e cerco inutilmente e affannosamente le miecose pensando che me le abbiano rubate. Torno a casa con il treno disperando ormai diritrovarle e racconto l'episodio a mia madre. Ma non ricordo più se sono io a risalire dalnumero del biglietto ferroviario alla cabina o se mi telefonano dalla stazione: hannoritrovato le mie cose sempre risalendo alla cabina dal numero del biglietto. Dico a miamadre che dovrò riprendere il treno e tornare in quel posto. Dico a me stessa che, dopotutto, non è male: andrò un altro giorno al mare.

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Osservazioni: Laura riferendosi ad un interventochirurgico piuttosto serio subito recentemente dice chenella settimana trascorsa avrebbe dovuto effettuare unavisita di controllo, ma nel recarsi dal medico ha smarritotutta la documentazione cllnica relativa all'intervento.Teme che il fatto in qualche modo possa significare unaremota intenzione di danneggiarsi e si preoccupa chequesto atteggiamento influisca negativamente anche sulsuo recupero fisico postoperatorio. Prima della sedutaprecedente si era comperata una collana, ma congrande sforzo, perché sbaglia sempre nel fare di questiacquisti. Poi aveva visto la collana di Federica e le eraapparsa molto più carina della sua. Tutto questo lesembra indice del momento depressivo in cui crede ditrovarsi e conclude dichiarando di voler chiedereall'analista una seduta individuale.

Livio (sogno): Un mio paziente cieco, schizofrenico, è steso su un bancone, tipo untavolo da cucina; con una mano apre il gas e lo respira per suicidarsi. Me ne accorgo eme ne stupisco.

Osservazioni: Livio è uno psichiatra che lavora sul terri-torio particolarmente con pazienti psicotici. È lui che ave-va fatto, all'inizio della seduta, quelle dichiarazioni di de-lusione sull'analisi non contestate nel complesso dalGruppo. Dopo aver raccontato il sogno dice diconsiderare certamente significativo il fatto che ladelusione possa evolversi in un tentativo di suicidio.Accorgersi del pericolo, tuttavia, è già un principio diripresa. (In realtà nella presente seduta il suoatteggiamento è mutato, appare più riflessivo epartecipe).A questo punto intervengo per osservare che nei sogniriportati viene come fotografata la situazione del gruppocon riferimento anche al senso di delusione chealeggiava nella seduta precedente. Si scorge il rischio diperdere qualche cosa; e questo è facilmente collegabilealla fine imminente del gruppo. Come alla ripetutarichiesta di sedute individuali.

Seconda fase: elaborazione del materialeIn questa fase sono interessanti soprattutto i dialoghi cheintervengono tra i mèmbri. Ne riporto gli elementi piùsignificativi.

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Laura: «Riguardo all'ultima seduta, ricordo che andandovia mi è venuto in mente l'episodio evangelico del Getse-mani, quando i discepoli abbandonano Cristo lasciandolosolo. Ho pensato che anche l'analista rimarrà solo quan-do finirà il gruppo e tutti ce ne andremo». Analista: «Macosa le ha fatto pensare così?» Rina: «A me è sembratoche l'analista scendesse dalle stelle, quando ha detto cheforse anche a lui dispiace che il gruppo finisca».Analista: «Quando sono uscito dallo studio, dopo laseduta, ho visto il gruppo che si tratteneva a parlare perstrada... anche voi mi avete visto!». Federica:(scherzando): «Si, ci siamo detti che forse andava acomprare il latte... certo che lei esagera con lademitizzazione dell'analista!»Alberto: «Anche Migliorati ha una 500, come quella cheho sognato...».Paolo: «Certo, vedere l'analista come uno di noi è unbello shock!».Analista: «Allora la delusione è questa, di non poter averpiù un sicuro punto di riferimento? Come nel sogno quan-do Rina è presa dal panico perché non ricorda più l'indi-rizzo del fratello... e poi chiede le sedute individuali». (Unbreve silenzio)Livio: «È molto squallido vedere nel sogno di Alberto queivecchi che vanno a puttane... In settimana io sono anda-to con una prostituta... era sesso e basta... però non hopagato...».Analista: «Ma allora non era proprio una prostituta...».Livio: «No, era un donna che neppure mi piaceva tanto,c'era solo tanta eccitazione. Ho lasciato la mia ragazzaperché con lei invece c'erano sempre tanti casini...».Rina: «In passato ho fatto tanti sogni in cui c'era unacerta sacralità nel sesso».Federica: «Mi viene in mente il sogno del cieco che sivuole uccidere col gas. Edipo si era acciecato, per pu-nirsi».Livio: «Questa estate andrò in vacanza in barca a vela,sarà una vacanza nuova».Analista: «Ma questo non sembra un progettodepressivo! Come nel sogno di Rina: uscire e andare albar, dover

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cambiare le 50.000 lire, il bacio Perugina, non sembranoimmagini depressive, ma nel sogno sono associate adun pericolo. Così, nel sogno di Laura il costume dabagno viene ritrovato, ma l'averlo perso comporta ilvantaggio di poter fare un giorno di mare in più». Anchela cecità di Edipo non mi sembra un fatto di depressione.(Segue un periodo piuttosto lungo di silenzio).

Terza fase: emergenza dell'Immagine relazionaleFederica (rivolgendosi a Laura): «Dopo l'ultima seduta,quando tu hai ammirato la mia collana, io ho pensato diregalartela, ma tu non hai accettato. Perché? Mi è dispia-ciuto...».Laura: «Ho pensato che stesse meglio addosso a tè, nonvolevo privarti di una cosa bella...». Federica: «Ma io tèla davo volentieri...». Analista: «Perché rifiutare undono?». Alberto: «lo sono sempre diffidente con i doni...Ho paura che mi leghino. Se penso al sogno di Lauradove qualcuno le ruba i costumi da bagno, penso cheforse è meglio rubare le cose, piuttosto che accettare undono. Almeno quando si ruba non si ha un debito diaffetto... Così con la collana di F.». Rina: «Hai detto ilcollare?» Alberto: «No, ho detto collana, non collare...»Analista: «Forse è lo stesso oggetto che può essere unacollana o un collare... se il collare è una limitazione dilibertà, il dopo può trasformarlo in collana. Il collare ri-chiama l'idea di prigione, la collana quella di bellezza...».Rina (alcuni notano che indossa una collana rossa): «Si,oggi porto una collana, ma ci ho messo tanto a decidermia portarla».Federica: «Anche io prima di avere il coraggio di indos-sarla ho dovuto faticare molto; è qualcosa di me stessa,per questo volevo regalarla a Laura. È molto bello sentireche anche gli uomini capiscono che per una donna puòessere un problema indossare una collana!». Analista:«La collana/collare è costituita da tante parti unite: è unabella immagine per esprimere cosa accade in ogniincontro umano e quindi anche nel gruppo: se ciascunopone il proprio ascolto come un dono, il gruppo

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è una collana; ma se l'ascolto viene preteso, se si tenta disedurre gli altri per avere la loro attenzione, allora ilrapporto diventa una prigione, e non più di collana sitratta ma piuttosto di un collare che toglie la libertà. Forseè più difficile accettare un dono che rubare o pretenderel'attenzione. Come è più difficile amare che andare conuna prostituta».Livio: «La seduta scorsa io l'ho vissuta come una galera,mi sembrava che nessuno volesse più ascoltarmi, chel'analisi mi abbandonasse e mi ribellavo...». Analista: «Inquella seduta il gruppo era come prigioniero del dirittorabbioso di ricevere attenzione e cura, anche a costo dispaventare gli altri con un proposito di suicidio(riferimento al sogno dello schizofrenico cieco). Il gruppoformava piuttosto un collare le cui maglie erano costituitedal bisogno che ciascuno avanzava di avere l'attenzionedi tutti gli altri».Livio: «Ma oggi è diverso, la seduta è molto più calma...».Analista: «Oggi forse i mèmbri del gruppo stanno vivendoun'esperienza diversa: l'ascolto viene 'donato' agli altri inmodo più libero: e questa è una cosa gradevole, forsepreziosa. Oggi è più forte l'immagine della collana».

ConclusioneII processo che ho descritto attraverso questo esempionon avviene così linearmente come può apparire. Si trat-ta, piuttosto, di un continuo succedersi delle tré fasi, in unmovimento circolare a spirale, praticamente senza fine.Mi pare evidente, però, anche da questa descrizionesuccinta e necessariamente separata dal vissuto emotivodel momento, che l'immagine della collana/collare pocoper volta ha acquistato il suo senso ed è diventata quellache ho chiamato una Immagine relazionale. Ma l'immagi-ne in se stessa, col suo esplicito riferimento ad un insie-me di elementi, può essere ben considerata una metaforadel succedersi di dinamiche ambivalenti (collana/collare)riferibili al particolare momento ed il suo formarsi puòesemplificare in modo plastico proprio ciò che ho indicatoall'inizio: la compartecipazione al processo di formazionedell'Immagine relazionale della relazione attuale tra imèmbri e della potenzialità immaginale contenuta nel

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materiale portato da ciascuno ai vari livelli che abbiamonotato. Gli effetti della rappresentazione si sonoevidenziati quando il gruppo ha colto il senso di tutto ciòcon un salto di livello sia nel materiale onirico (come sivedrà nella seduta successiva) che nell'intensità dellapartecipazione alla dinamica globale.Vorrei terminare con una domanda: questo discorso puòessere applicato ad ogni prodotto della attività immagina-tiva? In effetti, ogni immagine ha anche un significatorelazionale essendo composta da un insieme che rag-giunge l'unità del senso proprio per la relazione che sistabilisce tra gli elementi che la costituiscono. Mapossiamo dire che ciascun elemento che costituiscel'immagine abbia in se stesso una potenzialità tale daessere in qualche modo orientato all'immagine che sicostituirà per l'aggregazione nel senso? La mia risposta,almeno provvisoriamente, è positiva. Per fare unesempio: guardiamo un setting predisposto per la terapiacon la sabbia. Vediamo una sabbiera vuota e unoscaffale dove sono posti gli oggetti che verranno usati.Ora, mi pare indubitabile che la situazione costituisca diper sé un atto che in qualche modo evoca una doppiafunzionalità: un aspetto relazionale, rappresentato dallasabbiera in quanto è destinata a contenere una relazionetra oggetti; e un aspetto immanente negli oggetti stessi inquanto sono potenzialmente orientali all'immagine che siformerà nella sabbiera. Questa doppia finalità non esistese non vi è una sabbiera e se gli oggetti non sono adisposizione sullo scaffale. Ma l'intenzione dell'analista dioffrire la possibilità reale di operare con essi costituiscedi per sé un atto creativo che libera nel contesto unapossibilità immaginativa praticamente infinita. Sappiamoche alla costituzione dell'immagine sulla sabbieraconcorrono anche aspetti quali il rapporto transferale econtrotransferale, i dati della storia remota e attuale,elementi archetipici ecc. Ma tutto ciò, a mio parere, noncontraddice il fatto che, comunque, la formazionedell'immagine awiene per la partecipazione di due con-cause: una funzione relazionale totalizzante e un'altraimmanente nei dati che vengono aggregati.Il gruppo funziona in modo analogo: vi è un setting costi-

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tuito da un luogo destinato a riunire delle persone e visono delle realtà oggettuali che si aggregano. La decisio-ne dell'analista di condurre un gruppo e quella di singoliindividui (sconosciuti gli uni agli altri) di parteciparvi atti-vano sia l'aspetto relazionale della funzione immaginativache quello immanente nei singoli mèmbri.Il discorso dovrà essere ulteriormente approfondito eapplicato ad altri livelli. Per esempio: il normale rapportoanalitico a mio parere è un'Immagine relazionale nelsenso indicato. Ma anche una fruizione simbolicacomunque esperita può essere descritta come Immaginerelazionale perché verifica le stesse caratteristiche eviene costituita secondo le stesse modalità.

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Il gioco della sabbia comegioco del mondo

Romano Madera, Milano

I. Un cassetto scoperchiato, una scatola vuota, un rettan-golo di cielo - o di mare ? -, forse di lago. E un ombra digiudizio, che sguscia accanto, accompagna l'abbandono,che vuole ingenuità, al piacere del gioco. Giocare ancorae guardare discosti. Tenerezza e malinconia, insieme.Come un momento, allora, lasciati sulla terra, un corpocresciuto dall'erba, una scia bianca, altissima, avvolti,rotolati lassù - finalmente liberi di respirare l'azzurro delcielo.La sabbiera dal fondo azzurro: traverso dai dodici aisedici anni per accostarla. E si apre su un ricordo ancorapiù lontano, un pomeriggio di primavera matura. Unaradura nel bosco, c'eravamo andati quel giorno per poco,subito oltre le ultime case - per sentire l'odore forte, ilsapore assolato dell'erba prima del taglio? Per fuggire inun altro mondo, indefinito quanto un quadrato di cielo, unpertugio segreto su una infinità vuota ma calda, eserena? Anche allora, più tenue, già s'affacciava ildubbio di impraticabili, fantasticanti e non più credibilirifugi. Eppure erano gesti vigorosi, aperti al futuro,impazienti di un quotidiano annoiato. Produzione di unpresente pieno contro l'attesa di qualcosa che, già sisapeva, mai sarebbe arrivato. La menzogna della vitaadulta che seduce con la promessa di una eternitàprotetta, offerta dalla garanzia della ripetizione. Benordinata. E l'ardimento di un sentimento bruciante, lassù,all'azzurro del cielo e al

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corpo sommerso nell'erba, quaggiù, promettere dedizionetenacemente inseguirli.

II. Non ho cuore bastante - e più netto: cuore indurito,sclerocardia - per ricoprire subito la mia sabbiera dipensieri pesanti. Molte tenere cose si sono custodite inlei, dopo essere apparse, o riapparse. E molte tremendesi sono lasciate avvicinare e hanno potuto pronunciarediscorsi che nessuna vicinanza di affetti potrebbe tollera-re. Essa ha ospitato in forme ogni eccesso e ogni sbavo,li ha congegnati in figure solide, ha realizzato i volatiliumori, le parole instabili, il sentire invisibile. Si rivela neglioggetti il terzo, il figlio della relazione dei due, il mondodel loro fragile comunicare. Figlio dei filosofi e operaalchemica, lo ripeterei se lo si potesse intendere a rove-scio: nella materia non si proietta una psiche inferiore eprima inconscia, a questa moderna malattia della scissio-ne si offre invece un campo costruttivo, ricostruttivo. Ilpassato e i vissuti ne rappresentano i materiali che, scar-tati e ingombranti la via della vita fino allora condotta, daldisturbante disvalore cercano un altro, più complesso emeditato racconto. Non penso quindi a una concessioneregressiva, a un gioco che riattiva il principio di piacerecontro il reale, all'imitazione dell'inconscietà infantile oprimitiva, a un'espressione nevrotica. Anche questo in-tendo ma, di nuovo, altrimenti. È l'inevitabile chiudersidell'anima nell'interiorità prigioniera del singolo, la scis-sione della malattia moderna. Solo in questa cella, esclu-sa dal mondo disinfestato dai batteri del sacro, del rito,del magico - districato e ripulito dal richiamarsi fitto dellecorrispondenze - l'equazione di infantile, primitivo, incon-scio, può aver luogo. Ma la cura non consiste nel disfarsidi questa archeologia riportandola a contatto con l'aperto.Anzi il sapere non tralasciato della scissione - l'acutacoscienza dell'invalicabile appartenenza al dramma mo-derno - si cura aprendosi un campo di integrazione,dandosi un microcosmo esterno a partire dal quale mo-dellare una nuova, diversa e possibile struttura.

III. L'ombra del giudizio che accompagna l'esitante versola sabbiera è sì l'adulto che si perturba al rinvenire del

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fanciullo, è sì lo sguardo superegoico che insieme all'ioideale muove critica e diniego, è pure il calcolodiscorsivo della ragione che ha in sospetto l'intuizionefigurale - ma è questo, prima di tutto, come effetto edaffetto di una configurazione culturale, quella delmoderno o della lunga storia della civiltà capitalistica,che si è impressa dentro le vicende familiari e dei gruppidei pari, gli stampi delle imitazioni e delle devianze.Non voglio solo, e neppure innanzitutto, enunciare unatesi buona per la scienza o la storia della cultura. Mainterrogare lo sguardo analitico fino a indovinarne losfondo, la prospettiva che lo rende possibile e che esso,nei fondatori e poi giù per li rami, non osa discutere. Elasciare andare fino al fondo potenziale questo esserericondotto per mano dalle mani e dal loro dinamismooriginario, così originario da consegnarci, esse, iltestimone ancora vivo delle nostre origini. L'animaleculturale che nasce dalla andatura eretta, dallaliberazione delle mani per agire e sperimentare, dallacerebralizzazione resa possibile da questa postura e daqueste opere. Qui psiche non è più il fiato segretobandito dal mondo - così consegnato, questo mondopurificato, all'indagine del pensiero e all'autonomiaindifferente degli strumenti. Qui psiche è vento chericomincia a spirare dall'oggetto, messo in opera dallamano che desidera e che sa ancora significare. In nienteantitecnica la mano dell'uomo, anzi la sua prima tecnica,ma in niente ristretta al già indicato da meccanismiistintuali presupposti, ricevuti con il mero esistere. Invecevisionaria e portata a creare il mondo, l'oggetto-immagine esterno capace di trattenere e fissare tatto esguardo, non in cerca di evanescenti fantasmi mentali,ma di solide forme intorno alle quali consacrare e orga-nizzare la vita. Così comprendo l'arcaismo del gioco in-torno e dentro la sabbiera. È questo riattuante procedereche comprende il fanciullo, e il primitivo e l'inconscio,come ancora non consaputo (e si può consapere solocon altri e per altri, partendo da oggetti). Non viceversa.Viceversa il fanciullo, il primitivo e l'inconscio solo alludo-no a un fondamento antropologico che rimane separato,allontanato, praticato attraverso infinite mediazioni, eperciò dimenticato. Di più, queste allusioni confondono.La ricer-

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ca delle visioni-guida non è per niente «primitiva» (noimoderni siamo invece primitivi, rozzi, mancanti di tecni-che adeguate, semplicisti nella cieca passione per lasostanza chimica feticcio, propensi allo stordimento dro-gato invece che alla disciplina, ascetica o orgiastica chesia, quella che ha profuso tesori di specializzazioni daglisciamani ai monaci - solo la via psicoanalitica scopertasperimentando per altri fini, come sempre accade per lecose importanti, merita d'essere accomunata alle tecni-che delle culture premoderne).L'intuizione figurale non è affatto infantile, non è unaimmatura espressione ancora impreparata all'esattezzadel reale e del logico - il bambino apprende le strutturedella lingua e i rapporti possibili, interni alle immagini ointerni alle sensazioni o fra tutte queste dimensioni; al-l'opposto la visione sconfina esplorando, lasciando i qua-dri sicuri di riferimento che le istituzioni delle pratichediscorsive e delle discipline consentono.La visione non è inconscia, o lo è solo come una novitàche si sta sperimentando e che eccede il già consaputo.Ha bisogno di un lavoro di traduzione a posteriori peressere comunicabile, a sé e agli altri, entro i riferimentiordinariamente efficaci nel guidare il senso. Non fa insa-late russe di piani diversi senza awedersene: essa operasapendo di surdeterminare e di gettare nel diamante delnuovo simbolo anche il nodo contratto del sintomo. Laricerca delle visioni-guida si cristallizza nell'oggetto, otrova nell'oggetto il suo addensamento, perché desidera,costretta dall'asfissia e dalla via cieca, le aperture disenso che ogni esperire i lati, gli strati, le dimensioni dellacosa, schiude, prima che essa venga immagazzinata nel«dare per scontato» della riproduzione quotidiana.

IV. Inavvertitamente ma sensibilmente la sabbiera provo-ca l'insieme assestato (il setting) dell'analisi. Il piccolospostamento è più denso di possibili delle grida esortantiad aprire le finestre dello studio (specie se le finestredanno su panorami un po' kitsch, con nature vive semi-nate di dei e demoni di cartapesta, antiquariato dell'ani-ma, nostalgie malinconiche di un sacro da biblioteca, oda Hollywood).

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Dico che si può intrawedere non il gioco della sabbia -ogioco del mondo - come articolazione di un modelloanalitico che così si conferma e si arricchisce, ma, vice-versa, il gioco della sabbia come ovulo di una ristrut-turazione del modello analitico.Nel fare è visibile l'unità di esterno e interno, di corpo epsiche, di mondo e sé. Questo consente di svincolare lecostruzioni da ogni archeologia del passato,rinvenimento di ricorsi. Il già awenuto e il ricordare quisarebbero solo materiali di partenza, influenze dicontesto, vincoli di una nuova ristrutturazione. Anamnesie analisi lasciano che la comprensione le metta alservizio della nuova forma che la storia di vita staimmaginando e sperimentando. Nel setting si provano innuove scomposizioni e ricomposizioni i vecchi materialiaffettivi e cognitivi, si mettono alla prova, si vede se sonocapaci di soddisfare le esigenze di relazioni con l'altro/ae con gli altri/e - e con l'Altro/a -attuali e future,rimodellando adeguatamente la memoria. La sabbiera el'analista delimitano il campo di questa prova diinnovazioni tipologiche. L'attitudine a privilegiare ilpassato è legata all'eziologia in uso in medicina, inpsichiatria e nelle scienze naturali della fine del secoloXIX. Ma egemone anche in gran parte della filosofia edelle scienze sociali. Freud, nonostante l'apertura deisuoi ultimi scritti, e Jung, nonostante l'intuizioneprospettica privilegiata rispetto alla ricerca causale, siallineano a questa tendenza; intanto perché isolano lopsichico come causa, prescindendo dall'unità di mondo edi relazione sociale che lo contengono.È peraltro proprio questo retrocedere alle cause e alpassato che deve postulare una sorta di eredità incon-scia dell'umanità in Freud, e il persistere di immaginiarchetipiche in Jung. Costanti antropologiche - biopsi-chiche - emergono invece nella considerazione del fare,dell'agire creante, della intuizione sperimentale. Da circacinquantamila anni \'homo sapiens sapiens è fermo bio-logicamente, e il suo fare, benché libero da vincoliistintuali e in grado di rispondere adeguatamente aicompiti vitali, si modella secondo schemi d'azione che siriproducono in infinite variazioni. Mano, occhio e cervello,linguaggio, si organizzano, almeno per tratti elementari,in modo

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comune alla specie. Infinitamente capaci di variare perprodurre mondi, invece d'essere parti di un ambiente. Lecostanti, proprio in quanto schemi elementari d'azione,sono costanti di una originaria libertà della cultura. Poten-za di ingegnose innovazioni, rischio latente di fallire e diprodurre, in luogo di un ordine che rimpiazzi le risposteistintive, ormai ridotte a residui, un invivibile caos.È la crisi di un dramma di culturazione (di acculturazionee di inculturazione) nella dimensione del singolo (a suavolta sintomo di una difficoltà di un certo gruppo umano),che si incontra nella malattia psichica. Malattia di unsenso, di un percorso, di un racconto di vita, di modelli direlazioni che non permettono più di convivere e di vivere,incapaci di mediare in nessi funzionali e comunicativipulsioni, stimoli e comportamenti appresi e modificati.Il gioco della sabbia ricomincia da dove si deve ricomin-ciare: si tratta di ridare una sensata e credibile figura almondo, a un racconto e a un percorso possibile di mon-do, in un mondo che ricomprenda se stessi.«Il Vecchio venne da sud, diretto verso nord. Procedendofece i monti, le pianure, gli alberi e i cespugli, mettendofiumi qua e là e sistemando il mondo così come lo vedia-mo adesso... Dopo aver fatto il bisonte, il Vecchio andònelle grandi pianure e fece la pecora a grandi corna,dalla grande testa e dalle corna curve. Ma essa eraimpacciata e non si muoveva agilmente sul terreno piattodelle praterie, e allora il Vecchio la afferrò per un corno ela portò sulle montagne, dove la lasciò andare».Come si vede il Vecchio, un nome del Grande Spirito peri Piedi Neri, organizza il mondo e lo fa operando pertentativi ed errori. Si tratta di una fondazione culturaledella natura. Noi, ciascuno di noi come mèmbri di unadelle tribù dell'animale la cui natura è cultura, si è misu-rato con diverse iniziazioni e confermazioni per entrareed essere riconosciuto nella cultura di un insieme umano.Dramma di culturazione appunto, non garantito infatti dabinari istintuali già predisposti. Viviamo esposti al rischiocontinuo, singolarmente e collettivamente, di produrre unordine inefficace, inadatto, incapace di riprodursi e disvilupparsi. Mettere una pecora dalle grandi corna nelle

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piatte praterie crea disastri. Si deve correggere lacomposizione per salvarla.Il processo analitico è la revisione e la sperimentazionedel dramma di culturazione. Si fanno prove di una diver-sa messa in scena, si ripete la scena per «rivederla». Ilgioco della sabbia, nato all'interno della psicoanalisi, è lametafora della sua possibile autocomprensione comedramma di culturazione, alluso nel suo riprendere il giocodella creazione di un mondo.

V. Non c'è dubbio che in Freud l'intuizione figurale, illinguaggio del lavoro onirico per esempio, sia splendida-mente descritta, scoperta nei suoi meccanismi di funzio-namento, e con altrettanta nettezza posta, quanto al suopoter esprimere un senso, in posizione subordinata alpensare logicamente o secondo le regole del «buon»senso di realtà, senso comune dell'epoca moderna gui-dato, almeno in via di diritto, dalla scienza. Questo cidice la funzione di deformazione, della quale si incarica illavoro onirico, rispetto al senso latente che si esprimenella corretta lingua della ragione.È altrettanto vero che il merito di Jung, relativamente alcampo filosofico-epistemologico, o, comunque, di teoriagenerale della cultura, sta quasi tutto nel suo affrancarel'intuizione figurale dal servizio al mascheramento. Jungattribuisce un senso proprio al parlar per simboli. Marimane, anche nella sua visione, una sorta di non rag-giunta «pari dignità». Il simbolo vede dove la logica siblocca. Ma è poi svuotabile dal lavorio storico-logico chelo dispiega e lo rende superfluo. Non è compiutamentesconfessata la sua parentela con il «meno evoluto», ilprimitivo, il preverbale, lo spontaneo un po' caotico. Ipo-tizzo che sia in Jung stesso ancora visibile lo stigmadella mentalità evoluzionistica tipico della antropologiaculturale della fine del XIX secolo (esplicitamentenell'edizione del 1912 di Libido, simboli e trasformazioni).Accanto a una troppo approssimativa distinzione frapensare indirizzato e non-indirizzato.Si possono invece articolare una gamma di dimensionilinguistiche, correlandole storicamente al disintegrarsidel mondo sacro delle corrispondenze e al nascere del

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disincantamento, della razionalizzazione e della secola-rizzazione del mondo. Ma poi, appunto, altro è il sensocomune, altro il discorso in pratiche istituzionali specifi-che, altro ancora sono i modelli filosofico-logico-scientificidi argomentazione.Come, sul versante immaginale, altro è l'insalata di parolee altro il gioco di metafore e metonimie, più o menocollettivamente valide e singolarmente rielaborate, altroancora è l'apprendimento infantile dei linguaggi di unacultura. Tuttavia l'intuizione figurale e i suoi modi - me-tafora e metonimia o, come voleva Freud, condensazionee spostamento, iconicità etc... - non solo sono più origi-nar! dei linguaggi tesi all'univocità, all'identità, alla non-contraddizione e al controllo calcolato dei passaggi dauna affermazione ad un'altra, va anzi rovesciata la pre-sunzione moderna: l'intuizione figurale comprende al suointerno, come una delle sue possibilità, la modellisticalogica, non viceversa. Una sola delle tante ragioni: illinguaggio è sempre simbolicamente allusivo ad altre di-mensioni dell'esperienza, in questa dipendenza nasce etrova rigoglio. Esso è dunque sempre una metafora chemetonimizza l'infinità dell'esperienza possibile, ed è que-sto come una delle espressioni e delle funzioni dellanatura culturale dell'animale uomo: libero dall'univocitàdell'istinto non può che cercare di ordinare un mondoaperto a plurivoche, stratificate e complicatesignificazioni. Il gioco della sabbia, nato all'interno dellacura attraverso le parole, ricolloca la parola stessa dentroil mondo dell'esperienza, la riconduce all'esperienza delmondo, al tatto, allo sguardo, ai gesti nei quali e con iquali essa nasce e vive. Curare la presunzione delleparole, l'hybris del linguaggio verbale, curare lapsicoanalisi. Ecco, il gioco della sabbia è il sogno dellapsicoanalisi, e il suo senso prospettico mi sembra questo:riunire la parola all'occhio e alle mani, tornare, e cioèarrivare, alle origini e al compito dell'uomo intero, allacultura come suo dramma: azione e spettacolo, messa inscena di un vivere rischioso, produzione della bellezzanel rischio. Il rischio è d'obbligo per un animale fondatosull'originaria libertà della cultura. Nel pericolo ciò cherawiva la vita e la getta di continuo nel desiderio della suaprosecuzione è ciò

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che, anche nel resto della natura, organizza pulsioni: ilpresentare forme simmetriche, regolarità, accostamentidi vividi colori - rare corrispondenze. L'evocatore dipulsioni di vita, il richiamo di Eros, l'equivalente culturaledei segnali naturali, è la creazione di bellezza. Ma l'arteè molto di più che il rarefatto e spesso museale produrredegli specialisti. La prima arte, la prima e vitale bellezza,è dare un cosmo, mettere il proprio vivere in un cosmo,crearsi un ordine, potersi raccontare in un senso ricono-scibile. La sabbiera allude a questa scuola di bellezzaper la vita e lo fa commuovendo l'uomo di diecimila anniinsieme all'irriducibile diversità di ciascuno. L'emozionedella libertà di un mondo, la meraviglia e la forza del suorischio ci prendono - lasciamo segni, portiamo testimo-nianza biografica aprendo nel mondo il nostro mondo.

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n tempo della meravigliaMaria Ilena Marozza. Roma

«II pensiero era oggetto di percezione inter-na, non era pensato, ma sentito, per così direveduto, udito come fenomeno esterno. Ilpensiero era essenzialmente rivelazione, nonera inventato ma imposto, o convincente perla sua diretta realtà. Il pensare precede laprimitiva coscienza dell'Io, che ne è piuttostol'oggetto che il soggetto».(C.G. Jung, Gli archetipi dell'inconscio collettivo}

Quell'in ilio tempore» cui si riferisce l'imperfetto della ci-tazione junghiana allude ad un tempo originario, fuoridalla storia dell'individuo e dell'umanità, ad un tempoarcaico, di necessità antecedente il Verbo dell'origine edella creazione. È il tempo dell'indistinta edincomprensibile uguaglianza del soggetto con l'oggetto,della psiche con il mondo, anteriore ad ogni possibilità diraccontare e di declinare, nella sintassi linguistica, lapropria esperienza di esseri umani. È il tempo dellarivelazione dell'assurda identità della psiche con lamateria, prima che la coscienza sappia porre un argine almoto ondoso della fluttuazione tra esterno ed interno.È il tempo della coesistenza, della reciproca appartenen-za dell'uomo con le cose, in cui «le cose sono per me e iosono delle cose», ad esse consegnato in un rapporto dinuda dipendenza non interrotto da alcun segno dicoscienza, cogitatio o pensiero (1).

191(1)J. Ortega Y Gasset, Me-tafisica e ragione storica(1940), Milano, Sugarco,1989, p. 209.

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È il tempo in cui non si comprende ma si prende diretta-mente, con assoluta convinzione, la realtà dell'essere. È iltempo in cui la realtà non ha alcun significato ma esprimeil suo «essere reale» attraverso l'immediata persuasivitàdel segno di un'azione.È un tempo che, in quanto originario, è inevitabilmenteperduto da uomini assoggettati al tempo storico, uominidotati di una coscienza discriminante che li mette in con-dizione di potersi in parte sottrarre al patimento del mondoper distinguerlo in forme significative. Noi, uomini chepensiamo con parole depurate della sensorialità della loroorigine, che comunichiamo attraverso un linguaggio che civincola alla convenzionalità del significato, che siamo ingrado di distinguere la nostra soggettività di agenti dallapassività dei nostri oggetti, conserviamo però un nessoinscindibile con quella dimensione di originaria passione,un nesso che ci mette in grado di ritrovare, nella nostraesperienza con la «realtà» delle immagini, la prospettivamitica di un tempo perduto.Questo tempo originario, in quanto pre-teorico, non puòesser colto da alcun pensiero astratto che presuppongagià, per poter essere, la distinzione di un punto di vista checonsegni alla differenza della coscienza una possibileragione delle cose.Non dunque nella consequenzialità del divenire storico,non nella logica della spiegazione, non nell'astrazionedell'idea, non nell'attribuzione di significati, che ci aiutano acomprendere ma non ci sorprendono, ritroviamo quellatraccia, la cui emergenza è forse proprio segnalata dalsussulto della meraviglia che ci coglie quando, piuttostoche esser confermati in una nostra previsione, ci conse-gnarne alla sorpresa di un imprevisto esperito comeevento che non ha significato, ma che diventa significativopoiché aperto alla creazione di senso.Nell'attribuire i significati ci serviamo di matrici linguistiche, derivate a lorovolta da immagini primigenie. Da qualsiasi lato ci accostiamo alproblema, ci imbattiamo nella storia della lingua e dei motivi e sempreimmediatamente essa ci riporta al primitivo mondo delle meraviglie (2).

Laddove il sorgere della coscienza, con l'lo quale propriocentro e il linguaggio quale proprio strumento, costituisceun'evoluzione nella dirczione di una capacità di pensare

192(2) C.G. Jung, Gli archetipidell'inconscio collettivo (1934/54),Opere, voi. 9, tomo I, Torino,Boringhieri, 1980, p. 31.

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(3)A.G. Gargani (1993), Stilidi analisi, Milano, Feltrinelli,p.48.

(4)C.G. Jung, Gli archetipidell'inconscio collettivo (1934/54),op. cit.,p. 31.

(5) Analogamente Jung distinguefra l'irrappresentabili-tàdell'archetipo in sé e larappresentazione dell'immaginearchetipica.(6) In questo senso, per Jung,«Reale è ciò che agisce». C.G.Jung, «Realtà e surrealtà» (1933),in La dinamica dell'inconscio, Ope-re, voi. 8, Torino, Boringhieri, 1976,p. 411.

attraverso la categoria arbitraria del significato, là pureavviene la perdita di quell'originaria esperienza di totalitàdell'essere con il mondo. Se da questo punto s'origina lastoria individuale, con la possibilità di dar conto dellapropria esperienza attraverso la costruzione di una bio-grafia e di una versione del mondo, a questo punto pure ilpensiero sempre tende a ritornare nel suo permanerelegato a quel quid di necessario che esso non può darsi,ma da cui avverte di essere giocato. Nel riconoscere ilradicamento del linguaggio in una matrice diindifferenziata unitarietà tra affetto, senso e cognizione,Jung pone un limite all'arbitrarietà della differenziazione edell'adattamento al mondo: alla possibilità delle infinitevariazioni nella costruzione della storia individuale fa dacontrappeso il radicamento in una dimensione in cuil'uomo non può decidere, ma di cui reca l'impronta qualesegno di una sua appartenenza ad un esseresovraordinato alla propria individualità. Che chiamiamoquesto aspetto inconscio collettivo o archetipo del Sé, inogni caso la sua esigenza ci richiama alla considerazionedella dimensione della necessità che non può esserepensata ne racchiusa in concetti, ma che prioritariamente«da da pensare» (3), poiché orienta e profondamentemotiva la direzio-ne del pensiero.Così arriviamo al paradosso per cui, prima ancora che cisia un soggetto al quale appartenga l'atto del pensare, viè un pensare che «precede la primitiva coscienza del l'Io»(4): un pensare in sé enigmatico, poiché non distingue,non scioglie il legame originario della coesistenzadell'uomo con il mondo, ma lo assume radicalmentequale proprio modo di essere; un pensare che in sé nonha figura, ma spinge verso la creazione di figure, di imma-gini portatrici del segno di una realtà invisibile quale so-stanza, poiché non suscettibile di rappresentazione (5),ma agente, attiva (6) quale «dynamis» motrice dell'imma-ginazione.Questa azione non può dunque essere un atto arbitrario,un libero movimento nella categoria astratta del significa-to, ma un pensare veduto, sentito, potremmo dire motiva-to dall'urgenza di una necessità. Non credo ci sia modomigliore di darsi conto della radicalità, della numinosità e

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del potere persuasivo delle immagini primordiali di cuiparla Jung, immagini che tendono ad annichilire il senti-mento soggettivo di essere padroni nella propria casaindividuale, che riportando il soggetto verso quell'originariaesperienza di appartenenza al mondo «reale».Scrive Jung: «L'inconscio collettivo non è affatto un siste-ma personale incapsulato, è oggettività ampia come ilmondo, aperta al mondo, lo vi sono l'oggetto di tutti isoggetti, nel più pieno rovesciamento della mia coscienzaabituale, dove io sono sempre soggetto che «ha» oggetti;là mi trovo talmente e direttamente collegato con il mondointero che dimentico (anche troppo facilmente) chi io sia inrealtà. «Perduto in sé stesso» è un'espressione efficaceper descrivere questo stato. Ma se una coscienza potessevedere questo «sé stesso», vedrebbe il mondo o unmondo. Ecco perché dobbiamo sapere chi siamo» (7).Bisogna indubbiamente sapere chi si è per non essereatterriti dalla dispersione della garanzia della propria indi-vidualità e dallo sperimentare la propria «parentela con glianimali e con gli Dei, con i cristalli e con le stelle» (8). Unaparentela che forse sosteniamo in sogno, ma che è difficileaccettare nella piena luce del giorno, perché davveroannichilente ed incomprensibile. Non è possibile guardarenegli occhi la Medusa, se non nello specchio di Perseo. Ilnostro tragitto esistenziale è forse un modo di procurarciquello specchio che solo obliquamente rivela la pregnanzadel «mondo delle meraviglie»: un mondo cioè in cuil'esperienza non può esser ridotta dall'lo a qualcosa di giàsaputo e già previsto da una teoria presupposta; unmondo, viceversa, in cui la coscienza si lascia colpire dallameraviglia di un esperire che suscita in essa il bisogno diaprirsi ad ulteriori domande, fonti di una tensionegeneratrice di una nuova capacità di vedere e, quindi,della creazione di nuova teoria (9).

- Sire, ormai ti ho parlato di tutte le città che conosco.- Ne resta una di cui non parli mai. Marco Polo chinò il capo.- Venezia - disse il Kan.Marco sorrise. - E di che altro credevi che ti parlassi?L'imperatore non battè ciglio. - Eppure non ti ho mai sentito fare il suonome.

(7) C.G. Jung, Gli archetipidell'inconscio collettivo(1934/54), op. cit., p. 20.

(8) C.G. Jung, L'Io e l'inconscio(1928), in Due testi di psicologiaanalitica, Opere, voi. 7, Torino,Boringhieri, 1983, p. 233.

(9) E. Grassi, Potenza del-l'immagine (1989), Milano,Guerini e Associati, pp. 143-148.

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(10)C.G. Jung, «Riflessioniteoriche sull'essenza dellapsiche» (1947/54), in La di-namica dell'inconscio, op.cit., p. 206.

E Polo: - Ogni volta che descrivo una città dico qualcosa di Venezia.- Quando ti chiedo di altre città, voglio sentirti dire di quelle. E diVenezia, quando ti chiedo di Venezia.- Per distinguere le qualità delle altre, devo partire da una prima cittàche resta implicita. Per me è Venezia.

I. Calvino, Le città invisibili.

Se la condizione in cui ci troviamo è quella di non poterdirettamente parlare di quel luogo originario da cui prove-niamo, pure, nella nostra esperienza, parliamo sempre,implicitamente, di Venezia. Il che può anche esser dettoin un altro modo: nel tragitto attraverso il quale costruia-mo una distanza che separa la coscienza dal mondo«oggettivo», acquisiamo una capacità di rappresentareche è sostanzialmente espressione metaforica.Ciò che diciamo, vediamo, pensiamo non coincide maiesattamente con «il reale», ma in qualche modo, obliqua-mente, lo suggerisce. La metafora, per definizione, «portafuori» da quella dimensione di oscura coappartenenza,ma mentre tende per un verso a dare una visibilità de-scrittiva, per altro verso continua ad alludere ad unarealtà invisibile che costituisce l'ordine da cui procedeogni necessità di rappresentare, come pure lo sfondo cherende inesuastiva ogni descrizione.Credo che attraverso questo modo di pensare la «relati-vità» di ogni rappresentazione possa essere intesa anchel'affermazione di Jung dell'essere ogni fenomeno psichiconello stesso tempo conscio ed inconscio (10). L'inconscionon si perde mai, esso non ha un «luogo» separato dallacoscienza, non abbiamo bisogno di andarcelo a cercarechissà dove. Esso costituisce l'aspetto complementare diogni emergenza coscienziale, l'«altro» che, in quanto nondetto, rappresenta il fondo su cui qualcosa si rendedicibile, l'oscura rotondila che circonda ogni apparire.In questo senso torniamo a dire che potenzialmente at-traverso ogni nostra esperienza può essere ritrovato quel-l'originario tempo perduto, se solo ci disponiamo a dargliascolto, se acconsentiamo a non privilegiare la nostracompetenza sul mondo, ma a lasciare che esso ci sor-prenda. La meraviglia si può dischiudere attraverso illasciare un tempo a quell'impressione che gira attorno ad

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ogni nostro dire, agire, pensare; a quell'umore non giusti-ficabile che da il tono ad ogni nostra esperienza; a quel-l'odore che si sprigiona attorno alla memoria; a quellaimpressione sensoriale che trasforma in cosa presentel'aleatorietà della parola. Sostanzialmente: a quella«concretezza» che rivela il radicamento della nostra vitanella passione, a quell'essere originariamente toccati chetorna, nel nostro tempo storico, quale inderivabile e indi-mostrabile credenza attraverso la quale non costruiamoun'identità, ma ci dislochiamo dall'lo verso la nostra coap-partenenza al mondo.In tale dimensione non sperimentiamo il dubbio del poteressere, non ci muoviamo agilmente nella plausibilità ditante versioni del mondo, sappiamo con l'immediata cer-tezza del sentimento che lì c'è la nostra verità. Ed è dallanecessità di affermare la certezza di questo sentire ches'origina la metafora «viva», quel modo di dire, cioè, chepur considerando la dubitabilità di ogni asserzione lingui-stica, impone sulla scena la diretta persuasività del pa-thos, l'assoluta necessità della credenza.Cos'altro è quello strano, inutile tempo dell'analisi se nonla ricerca del tempo della meraviglia?

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OPINIONIII ritorno del mito

Aldo Carotenuto, Roma

1. Demitizzazione

È innegabile che una delle chiavi per comprendere ilmondo moderno e anche quello, come si usa oggi dire,«postmoderno» si trovi nel concetto di secolarizzazionee in quello, apparentato, di demitizzazione. A partire dal-l'Illuminismo, ma si potrebbe andare ancora a ritroso neltempo della nostra cultura, gli uomini si sono, per cosìdire, «appropriati» del mondo, o hanno cercato di farlo,tentando sistematicamente di «espungere» da esso leragioni del mistero, del mito, dell'alterità in quanto tale.Contro tali ragioni si è insomma levata prepotentementela «ragione». Gli dei sono stati scalzati (ma non permolto, come vedremo e, forse, mai del tutto) dall'unica«Dea Ragione». E qua! è in fin dei conti l'idea che èsottesa al dispiegarsi di questa Dea e al suo inverare leintime ragioni della scienza? L'idea della dominabilitàdella natura, un'idea che potremmo a buon diritto, e conbuona dose di paradosso, definire «mitica». Un'ideasulla quale dovrò più avanti ritornare quando si tratteràdi declinare la presenza del mito fin dentro le ragionidella scienza. Sarà il caso di prendere in considerazionequalche autore rappresentativo della stagione dei lumiper meglio comprendere cosa effettivamente accadenell'Europa del Settecento allo Zeitgeist di quel periodocosì denso di sviluppi futuri. Si pensi allora, a titolo diesempio, allo

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scritto, pubblicato nel 1697 da John Toland, intitolato,programmaticamente ed eloquentemente Cristianesimosenza misteri. Toland, un appartenente a quella schieradi pensatori chiamati «liberi» (freethinkers), un analogodei cosiddetti «philosophes» di Francia, sosteneva lapreminenza della ragione nei confronti della fede. L'ideadi fede viene ricondotta nell'alveo della ragione. Di Dio edella religione è la ragione che può render pienamenteconto, la ragione dell'uomo. In ciò Toland si rivela uncompiuto «deista». Non esistono misteri nel cristianesi-mo, di tutto può dare esaustive spiegazioni la ragione. Ilmistero corrisponde esclusivamente a ciò che la ragionenon ha ancora chiarito ma che è in via di chiarire. Sitratta in fin dei conti d'una questione meramentetemporale, in ottemperanza alla concezione illuminista diprogresso che prevede, appunto, un «progressivorischiaramento» delle zone d'ombra che ancoras'oppongono alla metodica azione della ragione. Lasecolarizzazione si mostra qui nella specie d'unaprogressiva riduzione di spazio alle ragioni della fede, delmistero, del trascendente, in una parola del «mitico».Ogni pretesa metafisica, ogni pretesa di trascendenzaviene ridefinita sul piano della ragione, del «secolo»,viene cioè «secolarizzata», viene destituita di incanto.E dopo Toland si pensi brevemente a quello che un«philosophe» per eccellenza quale fu Voltaire aveva dadire riguardo ai miti. Voltaire considerava i miti comeun'espressione della non ragione: si trattava, secondolui, di vaneggiamenti di selvaggi e di invenzioniescogitate da furfanti. I miti defenestrano la verità. Laragione ristabilisce la verità, togliendo i vaneggiamentiche la nascondono all'uomo. In ciò sembra essere ancheall'opera una sorte di perversione temporale, in base allaquale quanto precede ritiene un minimo di valore rispettoa quanto segue. Di qui, ad esempio, la svalutazioneilluminista del medioevo, considerato «epoca buia»,svalutazione che sarà ricomposta a partire da Vico e dairomantici tedeschi.Ho detto prima che, soprattutto a partire dalla stagioneilluministica, gli dei sono stati scalzati dalla dea ragione eho aggiunto «non per molto». In realtà tale espressione

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risulta essere, a ben vedere, inesatta. Si potrebbe facil-mente dimostrare che gli dei non hanno mai veramente,completamente abbandonato gli uomini. Si pensisoltanto alla circostanza che vuole il nostro GiambattistaVico contemporaneo di Toland e per buona parte dipercorso degli illuministi francesi, Voltaire, d'Holbach, LaMettrie etc. Sappiamo che Vico annetteva un grandevalore ai miti che con stupenda espressione chiamava gli«universali fantastici». Diversamente da Voltaire i mitihanno per Vico la loro verità perché hanno la loroautonomia, un'idea, questa dell'autonomia del mito, chesarebbe stata ribadita da un grande studioso di mitologiacome Karl Kerényi. Nella concezione vichiana giàpossiamo riconoscere alcune delle basi di quello chesarà il nostro discorso sul ritorno del mito. Il mito costituì,per così dire, «il linguaggio necessario» dei nostriprogenitori. Ad essi mancavano i concetti, ma non ilbisogno esistenziale di pensare la propria esistenza e lapropria conflittualità. I miti, dunque, gli universalifantastici soddisfacevano appunto questa esigenzaesistenziale. Dove per «esistenziale» occorre intendere,come vuole la lettera, l'ec-sistere ovvero l'emergere e,per impiegare un termine più vicino alla concezionejunghiana, il differenziarsi dal terreno della «sola» realtà.Mi sembra che nella espressione «universali fantastici»si trovi condensato il senso stesso del nostro discorsosul ritorno del mito. Da una parte il termine «universali» edall'altra l'aggettivo «fantastici» (che sta a significare, piùo meno «inerenti all'immaginazione») rimandano allapresenza nel genere umano di quella che è statachiamata la «base poetica della mente». Tale basepoetica della mente ha il suo linguaggio e tale linguaggioè sostanziato dall'immaginazione. I mitologemi, ovvero leunità del discorso mitico, corrispondono ad altrettanteimmagini e non vediamo come possa essere altrimenti.La relazione tra mito e immaginazione, tra ritorno delmito e immaginazione, è una relazione intrinseca,necessaria, ultimativa.Su questa falsariga potremmo già iniziare a pensare alleragioni profonde del ritorno del mito nel nostro tempo. Seil mito ritorna è perché l'uomo nutre bisogni che nonpossono essere soddisfatti in altro modo. Se il mito ritor-

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na e ritorna il suo linguaggio e ritornano le sue immagini,ciò può essere intanto spiegato in ragione d'una esigenzache potremmo definire, sinteticamente, «esistenziale». Sipuò insomma fin d'ora muovere la seguente ipotesi: esi-ste una specificità del mito ed esiste una specificità deibisogni e delle esigenze cui esso va incontro. Ciò detto,non sembra che tale specificità sia eludibile. L'ineludibilitàdel mito costituisce poi, al tempo stesso, un tratto ca-ratteristico di quel ritorno di cui qui stiamo facendo que-stione.Se è vero che il romanticismo (a partire dall'alveo fecon-do della cultura tedesca) ha mantenuto in piedi le relazio-ni degli dei e degli uomini, e non è certo casuale che Vicosia stato così inlnfluente nella cultura tedesca di fineSettecento e degli inizi dell'Ottocento, è anche vero chela tendenza demitizzante e secolarizzante espressa dalloZeitgeist d'Europa soprattutto a partire dalla stagioneilluministica (ma si pensi anche al Seicento di Cartesio,tanto per fare un nome che non ha bisogno di ulterioripresentazioni) ha segnato una certa tendenziale predo-minanza. Penso in particolar modo alla stagionepositivista, quella stessa nella quale è cresciutointellettualmente il padre della psicoanalisi SigmundFreud.Nello Zeitgeist d'Europa è stato possibile in questo modo,sulla falsariga dell'Illuminismo e del Positivismo, l'appro-do d'un discorso che toglie Dio e gli Dei, l'approdo d'unannuncio che si propone come alternativo a quello untempo dato dal Cristo, l'annuncio della morte di Dio. Ora,c'è una relazione profonda anche in questo caso tra l'an-nuncio della morte di Dio e il discorso demitizzante checaratterizza in modo così profondo larga parte della cul-tura europea a partire soprattutto dalla stagioneilluminista. Un modo della demitizzazione esecolarizzazione, con fulcro nella stagione illuministica, èappunto quello inaugurato dalla frase «Dio è morto» diNietzsche, frase che riecheggia quella antica, riportata daPlutarco, secondo la quale era morto il grande dio Fan (econ esso, potremmo dire, la stessa cultura antica). Sullafalsariga di Nietzsche, ma anche di teologi comeBonhoeffer, si è sviluppata, in special modo a partiredagli anni Sessanta, una teologia radicale cosiddetta«della morte di Dio», sviluppatasi negli

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Stati Uniti in seno al protestantesimo (1). I suoi più illustrirappresentanti, che rispondono ai nomi di Thomas Altizere William Hamilton, sostengono che la morte di Dio è un«evento storico», nel senso che un Dio c'è stato untempo ed era un tempo necessario, ma ora non c'è più enon è più sperabile un suo ritorno, ne c'è bisogno d'unsuo ritorno. E tuttavia lo stesso William Hamilton parla diquesto non esserci più di Dio come di un «mito pro-testante». Qui sembrerebbe che l'idea stessa di «mito»sia più «forte» di quella, variamente usurata, di Dio. Peraltri versi il fatto che tale teologia radicale della morte diDio si sia sviluppata su suolo americano e abbia, a dettadei suoi rappresentanti, «una forma caratteristicamenteamericana» da molto da pensare. Non è certo casualeinfatti che un paese quasi totalmente secolare (almenoall'apparenza) come gli Stati Uniti abbia visto nascere unpensiero teologico così radicale. Ma, come vedremo, nonè senza minore interesse il fatto che in questo stessopaese, quasi a compensazione di tale tendenza delpensiero, un altro pensiero abbia preso piede, il pensierod'un nuovo politeismo, d'una nuova nascita degli dei.Un ventennio prima, rispetto ai teologi della morte di Dio,il grande teologo protestante Rudolf Bultmann ha inoltrereso ancor più incisivo tale movimento di demitizzazionecon la sua proposta di una «demitizzazione», appunto,del Nuovo Testamento. Secondo Bultmann, infatti, lostrato mitico del Nuovo Testamento (e per strato miticovanno intesi gli angeli, i diavoli, l'ascensione, i miracolietc.) nasconde il vero senso, owero il senso esistenziale(quello che vale per noi qui e ora del messaggioevangelico) delle scritture. Per arrivare a tale fondosignificativo occorre, secondo Bultmann, togliere i mitievangelici, ovvero occorre demitizzare. Il presupposto dacui parte Bultmann è che una raffigurazione miticadell'universo (quale è quella presente del NuovoTestamento) non è in grado di comunicare nulla disignificativo all'uomo d'oggi, che è uomo smaliziato,disincantato. «In quanto discorso mitologico» così scriveBultmann nel suo lavoro del 1941 Nuovo Testamento emitologia. Il problema della demitizzazione del messaggioneotestamentario «non è credibi-

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(1)T.J.J. Altizer - W. Hamil-ton, La teologia radicale e lamorte di Dio (1966), Milano,Feltrinelli, 1981 (prima ed.1969).

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le dagli uomini di oggi, giacché per costoro la figura miticadel mondo è dissolta» (2).Vedremo più avanti la risposta a tale programma bulta-manniano data da altri grandi teologi di area tedesca. Perora mi limito a dire che quello di Bultmann appare unpregiudizio, nella misura in cui non tiene conto del sem-plice fatto che il mito è reale, e dico «reale» nel senso cheil mito agisce, ha effetto sulle vite degli uomini, come èdimostrato, ad esempio, dalla teoria e cllnica psicoa-nalitica.Un modo ulteriore di nominare la secolarizzazione e lademitizzazione è quello di cui ci ha parlato Max Weberquando ha teorizzato, nel suo lavoro La scienza comeprofessione, il processo noto come «disincantamento delmondo». Cos'è disincantamento del mondo secondo We-ber? È il risultato dell'awento della ragione al dominio.«Non occorre più» afferma Weber «ricorrere alla magiaper dominare o per ingraziarci gli spiriti, come fa il selvag-gio per il quale esistono simili potenze. A ciò sopperisconola ragione e i mezzi tecnici». Come si può ben compren-dere da questa citazione il discorso di Weber ci introduceal significato della ragione scientifica, discorso sul qualedovremo ritornare per verificarne più da vicino le commi-stioni mitiche.Sulla falsariga delle posizioni espresse da Weber possonoessere inquadrate anche le osservazioni di GregoryBateson sulla «razionalità finalizzata» (che è poi un mododi dire la razionalità scientifica). Ebbene, secondo questoteorico «sistemico» la razionalità finalizzata distrugge lavita là dove non è soccorsa da fenomeni quali l'arte, lareligione, il sogno e, in una parola, il mito.

2. RimitizzazioneSecolarizzazione e demitizzazione sono movimenti delloZeitgeist'\n cui, per dirlo in modo estremamente sintetico,qualcosa viene tolto. Viene tolto il mistero (come è nelcaso del cristianesimo secondo il libero pensatore Toland),vengono tolti i miti, viene tolto il soprannaturale, vengonotolte le immagini. Ma a tale movimento «negativo» ri-sponde (per reazione, almeno in certi momenti della sto-

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(2) R. Bultmann, Nuovo Te-stamento e mitologia. Il problemadella demitizzazione delmessaggio neotestamentario(1941), Brescia, Que-riniana,1985 (53 ed.), p. 106,

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ria dello Zeitgeist) e corrisponde (perché, potremmo dire,la base poetica della mente umana rinnova ad ogni sta-gione della storia i suoi bisogni) un processo contrarioche potremmo legittimamente chiamare di «rimitizza-zione». Al processo di secolarizzazione e demitizzazionerisponde, insomma, come per necessaria e ineluttabilecompensazione, un processo inverso che si fortifica inspecial modo nel corso della stagione romantica.La concezione vichiana degli «universali fantastici» vieneripresa soprattutto dal romanticismo tedesco e da lì pas-serà alla stagione psicoanalitica, a Freud, che fonderà lesue concezioni sul «complesso d'Edipo» e ci parlerà di«narcisismo» (nominando per mezzo del mito, dunque, edimostrando così implicitamente la coappartenenza delleragioni e delle regioni della psiche a quelle della mitolo-gia); a Otto Rank, che dedicherà al mito (ad esempio amitologemi quali quello della nascita dell'eroe) parecchisuoi lavori; a Jung i cui archetipi (ovvero immagini pri-mordiali che improntano della propria realtà l'esperienzadegli uomini) richiamano da vicino gli universali fantasticidi Vico e anzi ne costituiscono un significativo corri-spettivo.La presenza del mito nella psicologia che si diparte daJung diventa ancora più ragguardevole in autori comeNeumann (che ripropone il proprio discorso a partire dalmito dell'eroe, che è mito dell'acquisizione di consapevo-lezza da parte dell'uomo, e che dedica un importantevolume alle figure della «Grande Madre», mitologemacardine non soltanto della cultura mediterranea ma an-che fondante d'un modo di far terapia) e Hillman, fonda-tore di quella «psicologia archetipica» che apre il nostrosguardo al ritorno degli dei.Viene facile pensare agli archetipi di Jung come a uncorrispettivo, un analogo (se non un equivalente) degliuniversali fantastici di Vico. L'interesse di Jung per lamitologia e la fenomenologia religiosa, il riconoscimentodi una funzione 'religiosa' della mente - laddove Freudaveva invece considerato la religione un'illusione - diven-ta il punto di contatto tra la sua opera e quella di altrimitologi e storici delle religioni. Citiamo tra gli altri i nomidi Rudolf Otto, Karl Kerényi, Joseph Campbell, Mircea

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Eliade, Van der Leeuw. Valgano su tutti di casi di Kerényie Campbell, autori alla luce delle cui opere veramentepossiamo parlare di rimitizzazione.Tale rimitizzazione ha a che vedere con il concetto diarchetipo, concetto che riceve comunque letture non uni-voche a seconda degli autori. Per Jung gli archetipi sonostrutture dell'inconscio collettivo e, nei miti, l'archetipo, diper sé irrapresentabile, ha modo di manifestare la propriaoperatività. L'uomo di oggi, come l'uomo che l'ha prece-duto nel corso della storia, viene in qualche modo rac-contato nel mito, ovvero lo sperimenta, piuttosto che in-ventarlo. I miti sono altrettante rivelazioni della psichecioè modi della psiche di rivelarsi.Kerényi, dal canto suo, rivendica, come ho già accenna-to, l'autonomia del mito, e della scienza che se ne occu-pa, dalle altre scienze umane, compresa la psicologia. Ilmito è per lui l'espressione di una Weltanschauung checontraddistingue una cultura, un popolo. Come già perEliade, il mito costituisce un modello esemplare, un mo-dello nel quale l'umanità rispecchia i suoi drammi fonda-mentali. Le figure mitologiche non sono dunque immaginiarchetipiche, ma «prototipi della maniera umana dell'esi-stere». Per lo studioso ungherese i diversi mitologeminon possono essere considerati la variazione culturale diun archetipo che, in sé inconoscibile, si palesa nell'imma-gine mitica - come invece sostiene Jung. L'archetipokerényiano appartiene a ciascun essere umano e, invecedi rivelarsi, di apparire all'individuo, è da questi creatoogni qualvolta vive la sua profonda unione con il mondo.L'archetipo plasma e modella, ma è anche plasmato emodellato.Se l'incontro con lo psicologo è dunque possibile in quan-to Jung, a differenza di Freud, non riduce il mito aun'espressione psicopatologica, ma riconosce l'autono-mia della vita simbolica di cui il mito è una delle formeprincipali, la diversa accezione con la quale i due studiosiusano il termine 'archetipo' segna una linea,di demarca-zione tra i due modi di accostarsi al mito.Mentre per molti studiosi la teoria degli archetipi rimaneuna lettura psicologica del fatto religioso, per altri questateoria informa nettamente il loro pensiero. È questo il

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caso del mitologo e storico delle religioni JosephCampbell, autore di opere importanti come L'eroe deimille volti e Le Maschere di Dio e della lunga intervista IIpotere del mito (del 1988) nel corso della quale lostudioso statunitense riconosce il ruolo che ha avutoJung sulla sua formazione culturale. Quella degliarchetipi non è per Campbell solo una teoria psicologicache per uno studioso delle religioni può essereinteressante, per quanto non indispensabile, conoscere,ma un modello della psiche che consente di accostare ecomprendere fenomeni estremamente diversi tra loro, trai quali appunto i miti e le religioni.Figure eminenti del post-junghismo appartenenti soprat-tutto alla scuola classica e a quella archetipica - da MarieLouise von Franz a Joseph Henderson, da EdwardEdinger al già citato James Hillman - mostrano per miti,fiabe e religioni uno spiccato interesse, al punto da porrequesti miti al centro del loro impianto teorico. Da questo,reciproco intreccio nascono una terminologia e una visio-ne psicologica che si lasciano arricchire dal contributodella storia delle religioni. Come Jung ha tratto da Otto iltermine 'numinoso', così Hillman mutua dal mundusimagi-naiis, questo mondo di mezzo tra terra etrascendenza di cui parla l'islamista Corbin, la suaconcezione dell'immaginale.Il processo di rimitizzazione che stiamo cercando di de-clinare non si limita certo alle regioni della psicoanalisi odella psicologia analitica, non si conclude con Freud,Jung e i loro epigoni. Il richiamo del mito è per definizioneuniversale ed è appunto ad esso che recentemente hadedicato un testo, sul quale torneremo, intitolato // richia-mo del mito, appunto, uno psicologo di diversa apparte-nenza teorica, Rollo May, il cui quadro di riferimento èquello conosciuto come «terza forza» della psicologia (inalternativa a psicologia del profondo e comportamenti-smo), owero il quadro «umanistico esistenziale».Va anche detto che la rimitizzazione non si ferma all'ap-porto fornito dalle psicologie del profondo o dallepsicologie esistenziali. A Bultmann che, come abbiamovisto in precedenza, propone un progetto didemitizzazione del Nuovo Testamento, Bonhoeffer, l'altrogrande teologo protestante, con Barth, del Novecento,aveva risposto che

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togliere il mito significa togliere la religione, perché il mito,così diceva Bonhoeffer «è la cosa stessa». Forte di questoprecedente anche Drewermann, sacerdote cattolico,teologo e psicoterapeuta di orientamento junghiano (ri-dotto allo stato laicale per le sue posizioni ritenute ereti-che e anche «gnostiche» dalle autorità ecclesiastiche), haproposto un vero e proprio programma di «rimitizza-zione»andando a scovare, ad esempio, nella antica mitologiaegiziana i prodromi della concezione cristiana diresurrezione e rivendicando la necessità di leggere (rileg-gere) le Sacre Scritture (Antico e Nuovo Testamento) allastregua d'un sogno sognato la notte precedente.Tale processo di rimitizzazione si è poi manifestato conforza in quel variegato movimento, sincretistico, ecologistae alternativo, noto come New Age, movimento in un certosenso preconizzato da Jung e connesso con l'entrata dellacosiddetta «Era dell'Acquario». L'idea fondamentale dellaNew Age, a detta di uno dei suoi più importanti e recentistudiosi, è chealla vigilia del 2000 e del passaggio dall'era astrologica dei Pesci a quelladell'Acquario, l'umanità si appresta ad entrare in una nuova età di presadi coscienza spirituale e planetaria, d'armonia e di luce, contrassegnatada profondi mutamenti psichici. Esso guarderebbe in particolare allaseconda venuta del Cristo le cui «energie» sarebbero già attive in mezzoa noi, nel pieno fermento delle molteplici ricerche spirituali e dei gruppireligiosi caraneristici della nostra epoca (3).

Si può notare quanto, in questo brano, sia di derivazionee, direi, di sostanza mitologica. Al punto che si potrebbedefinire tale movimento una concretizzazione e presen-tificazione della dimensione mitologica, la quale, per de-finizione, è generalmente pensata nell'ottica temporale (e,anzi, meglio, atemporale) di ciò che da sempre eperennemente precede.Per quanto riguarda la collocazione cronologica del mo-vimento, caratterizzato fortemente in senso planetario,ecologico e, per così dire, di «sinergia delle spiritualità»(con forte tendenza al sincretismo e alla religiosità orien-tale), l'origine recente si colloca negli anni Settanta, conawisaglie nel decennio precedente. Si tratta della scoperta(ma dovremmo parlare piuttosto di riscoperta) edell'approfondimento esistenziale d'un nuovo paradigma

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(3) J. Vernette, // NewAge. All'alba dell'eradell'Acquario (1990),Cinisello Balsamo (Mi),Ed.Paoline,1992,p.5,

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segnato dalla consapevolezza d'un profondo mutamentodelle coscienze individuali, un mutamento che a ragioneva definito «epocale», e che fonda sulla trasformazionepersonale ogni possibilità di trasformazione sociale eplanetaria in direziono della acquisizione d'unacoscienza ecologica che finalmente assuma su di sé laresponsabilità di salvare l'ecosistema, owero, in altritermini, il mondo. Luoghi privilegiati d'irradiazione dellaNew Age appaiono essere a tutti gli effetti soprattutto,almeno all'inizio (che si colloca come s'è detto negli anniSettanta), Pasadena, in Californìa, e Princeton, nel NewJersey. In realtà centri di New Age risultano a tutt'oggidisseminati in tutto il mondo. Ciò anche inconsiderazione del fatto che quella della New Age è unasorta di cospirazione spirituale delle coscienze, unacospirazione tale da risultare assolutamentetrascendente nei confronti di una specifica collocazionegeografica.Sebbene il punto di convergenza massima con la NewAge sia da individuare nella psicologia umanistica e, poi,transpersonale, gli storici non hanno mancato di rilevarela paternità junghiana, relativa ma non per questo menoprobante, della New Age. Jean Vernette ha scritto cheJung (e certo non si tratta d'una connessione causale,vista la profondità di rapporti e l'intrinseca convergenzaregistrata da mitologia e psicologia analitica) èuno dei padri spirituali del New Age... una delle figure che hannoesercitato maggiore influenza sul movimento (4).

Il credo della New Age, così come è stato brevementericostruito da Jean Vernette e sintetizzato in diecicomandamenti «inferiori», presenta una sicurarispondenza con la concezione di Jung. Soprattutto làdove entra in gioco, in accordo con l'antico messaggiognostico (di Basilide e Valentino ad esempio) e, ingenerale, della gnosi, la centralità assegnata al risvegliodella coscienza in ordine a una trasformazioneplanetaria.Nel decalogo della New Age reimmaginato da Vernettenon solo si tratta di attendere con impazienza l'Era del-l'Acquario (che corrisponde all'Era dello Spirito preconiz-zata da Gioacchino da Fiore, autore ben presente aJung), ma di aver fede ferma nella grande mutazioneprossima

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(4) Ibidem, p. 232.

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ventura, di risvegliare, appunto, la propria coscienza, dipreoccuparsi attivamente del proprio corpo (e qui il rife-rimento all'energia kundalini fa immediatamente pensareal fatto che Jung ha dedicato un seminario all'argomen-to), di seguire un Guru (ovvero, potremmo dire noi, unopsicoterapeuta) che aiuti ad ampliare la coscienza e per-metta di pervenire al proprio Maestro inferiore, di crederecon fermezza nell'irrazionale, di venerare religiosamentela dea Gaia, ovvero la Terra, di rigettare le religioni tra-dizionali, di parlare con tutta naturalezza agli spiriti (cosache, in termini a lui peculiari, Jung ha abbondantementefatto, se si pensa agli incontri immaginali succeduti aldistacco da Freud e raccontati nell'autobiografia), di ride-re serenamente della morte (argomento questo toccatopiù volta da Jung e ripreso con rigore dalla sua allievaMarie-Louise von Franz).Oltre a ciò una stretta relazione tra Jung e il movimentodella New Age è rivelata dal fatto che lo psicologo sviz-zero ha in qualche modo profetizzato l'avvento della NewAge, non diversamente da quanto in sede diversa e se-guendo differenti percorsi di pensiero hanno fatto, adesempio, Paul Le Cour, la teosofa dissidente. Alice AnnBailey e Andre Mairaux. Quest'ultimo, in termini più gene-rali, ha chiaramente avvertito l'imminenza d'un futuroprossimo venturo caratterizzato dalla spiritualità, unfuturo pienamente religioso coincidente con l'entrata nellastoria del terzo millennio, quello stesso che in terminianaloghi, ovvero spirituali (e che potremmo dire,legittimamente, mitologici), ma molti secoli addietro,aveva annunciato quel primo precursore della New Ageche risponde al nome del già citato Gioacchino da Fiore.Occorre comunque dire che Jung non ha annunciatol'entrata della nuova era, o nuova età, o, anche, nuovoeone, in modi generici, ma ha legato il millennio venturoa una elaborazione astrologica che si lascia ben confron-tare con quanto già negli anni Trenta andava affermandol'esoterista francese Paul Le Cour nel suo scritto L'eradell'Acquario, pubblicato nel 1937. Analoghe elaborazionisarebbero apparse nel testo, più tardo di quasi mezzosecolo, della citata Ferguson.Jung, dal canto suo, non cita Paul Le Cour, che Vernette

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(5) C.G. Jung, Aion: ricerchesul simbolismo del Sé (1951 ),voi. 9/2, Opere, Torino, Borin-ghieri, 1982, p. 85 sgg.

(6) C.G. Jung, Thè Seminars.Volume One. Dream-Analy-sis. Notes of thè Seminar gi-ven in 1928-1930, London,Routiedge & Kegan Paul,1984, p. 405 sgg.

(7) Ibidem, p. 607.

giudica essere stato «il primo a parlare in modo esplicitodell'età dell'Acquario». Egli elabora lo schema astrologi-co (mitologico dunque), relativo alla successione delleere o eoni dell'Ariete (ovvero dei primi due millenni avantiCristo), dei Pesci (ovvero dei due millenni cristiani), del-l'Acquario (owero l'età dello spirito che si annuncia nelterzo millennio), in uno scritto pubblicato nel 1951, Aion(5). Tuttavia, già nel seminario sull'analisi dei sogni tenutonel periodo 1928-1930, Jung si riferisce in modiinequivocabili alla successione dell'età e all'Acquario (6)e, in modo particolare, nella seduta seminariale del 21maggio 1930, fa riferimento specifico all'entratadell'Acquario come all'avvento della nuova età, legandola successione trinitaria (età del Padre, età del Figlio, etàdello Spirito Santo), di gioachimita memoria, allo sviluppoin tré stadi pensato nei circoli teosofici (7).Va infine rilevata la presenza, nel frastagliato panoramadella New Age, di un atteggiamento profondamente insintonia con il dettato junghiano. Tale atteggiamento con-cerne la contrapposizione stabilita dall'antropologo V.Turner tra una sensibilità iconofilica (che favorisce leimmagini) e una sensibilità iconofobica (che caratterizza ilmondo razionale e rappresenta per molti versi il pesantelascito d'una certa teologia cristiana, in specie prote-stante, awersata da Jung). Ci troveremmo, in altri termini,con l'awento dell'era dell'Acquario, nel passaggio dallasensibilità iconofobica, che ha imperato in Occidente finoad oggi, all'altra. Ora, Jung mi sembra appunto figurare,nell'ambito della cultura del ventesimo secolo, come unodei protagonisti di questo passaggio. E non si può nonrilevare in questo ritorno dell'iconofilia, di questo attento eamoroso rispetto per le immagini, un segno inequivoca-bile del ritorno del mito.New Age è un esempio concreto e intenso al tempostesso della pervicace presenza e della realtà, dellaeffettività della Grande Madre, dell'archetipo della GrandeMadre, della radicale presenza del mito fin dentro leviscere della Terra e dei suoi abitanti. Il nuovo «culto» diGaia (terra), ovvero l'atteggiamento ecologico che stasempre più prendendo piede ai nostri tempi (e l'esempiodi New Age ne costituisce testimonianza evidente) ci dice

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dunque, insieme a tanti altri fenomeni collettivi di oggi,che gli dei, insieme ai loro racconti e alle loro immagini,sono ritornati.

3. // ritorno degli deiJung aveva le sue ragioni per ritorcere contro Nietzschela sua sentenza «Dio è morto». Dio non è morto, potrem-mo dire. Al contrario, Nietzsche non è forse morto inpreda alla follia? E non è forse la follia, nelle sue varie-gate manifestazioni più o meno individuabili clinicamente,a offrirsi quale teatro (non l'unico certo) del ritorno deglidei? È una tesi di Jung ripresa da Hillman: gli dei scac-ciati dalla porta dall'Illuminismo rientrano dalla finestradelle malattie mentali. Se poniamo attenzione al peculia-re ritorno delle antiche divinità, troviamo che esso si rea-lizza anche dalla parte della psicopatologia.Il discorso su New Age e sulle tendenze neognostiche osulla teologia della rimitizzazione proposta da Drewer-mann, che è un discepolo inoltrato di Jung e della psico-logia analitica, la stessa peculiare congenialità del discor-so mitico e del discorso psicologico inaugurato da Jung(ma a ridosso dell'esperienza così affine del romantici-smo tedesco) figurano tra le testimonianze d'un gradualeritorno degli dei che caratterizza, in contemporanea conle negazioni di stampo positivista e neopositivista, loZeitgeist del Novecento.La presenza del mito, poi anzi la tendenza alla rimitizza-zione, è agevolmente avvertibile nella letteratura contem-poranea, ad esempio, della stagione pionieristica dellapsicoanalisi. Si pensi ad autori come Yeats e Joyce.L'uno attento alla riproposizione della mitologia celtica ealla reinvenzione d'una propria personale mitologia (nelloscritto programmaticamente intitolato Una visione), l'altro,l'autore dell'LWsse, impegnato a rintracciare nel labirintod'un giorno della vita d'un uomo medio della Dublinodell'inizio del secolo ventesimo l'insistenza del mito nellespecie di parallelismi che legano, oltre le distanze deltempo, l'Odissea di Omero alle peripezie quotidiane del-l'ebreo a suo modo errante Leopold Bloom, il protagoni-sta dell'LWsse.

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con essa di mitologia. Insomma si potrebbe ben dire chela mitologia è così dentro le anime di questi uomini chenon vuole accettare di uscirne. Potremmo ipotizzare cheil ritorno degli dei assomigli a qualcosa come al ritornodel rimosso.Seznec si sofferma ad analizzare l'astuzia con cui questo«rimosso» ritorna. E vale la pena di riprendere breve-mente in esame le sue argomentazioni che mi sembranoparticolarmente illuminanti e al tempo stesso suggestive.Afferma Seznec che a sferrare un certa offensiva controle immagini mitologiche pensò il concilio di Trento. At-tuando quali strategie e imponendo quali precetti? Larisposta è semplice: attraverso il ricorso sistematico all'al-legoria. Si trattava di svilire il mito ricavandone (a forza)un insegnamento morale. Tuttavia la riduzione del mitoad allegoria (potremmo anche dire: del simbolo a segno)costituì un comodo alibi per gli artisti che si vedevanomessi nella condizione di poter giustificare, allegorica-mente, ogni loro soggetto «pagano». Il rigore dellacontroriforma consentì insomma alle immagini del mito disopravvivere sotto forma di allegorie.La lezione che si può ricavare da quanto precede ècertamente indicativa della forza posseduta dalla mitolo-gia. E anche della sua insita astuzia. Come scriveSeznec:«Perfino l'offensiva lanciata dal Concilio di Trento controle immagini profane si era infine rivolta a loro favore» (9).E in un altro luogo del suo libro fa analogamente notarecome «l'interpretazione allegorica costituisca il migliorsalvacondotto per gli antichi dei» (10). È così chenell'Europa del Cinquecento e del Seicento si diffondonoin modo clamoroso manuali di mitologia con le relativeiconologie allegorizzate, fonte primaria di molti degliscrittori che ne faranno un ampio, talora amplissimo uso.Non solo possiamo parlare d'una forza propria della mi-tologia, ma anche provare a declinarne sinteticamente lafenomenologia e rinvenire in ciò, al tempo stesso, unmotivo che mi sembra caratterizzare la mitologia in quan-to tale e ogni suo possibile ritorno. La forza della mitolo-gia «appare», appare nelle metamorfosi attraverso lequali gli dei sono sopravvissuti a tutte le rivoluzioni e atutti i tentativi di metterli a tacere. Se dovessimo scrivereun

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(9) Ibidem, p. 342.

(10) Ibidem, p. 376.

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testo dal titolo kantiano, «Prolegomeni a ogni possibileritorno del mito», dovremmo certo tenere in debito eprimario conto questo aspetto del mito, questo suo farconsistere la forza del mutamento.Una delle risposte più probanti e convincenti al processodi demitizzazione di cui ho parlato sopra ci è stata fornitadalla psicoanalisi, la cui nascita è legata profondamentealle ragioni del mito. Potremmo ad esempio porci il se-guente interrogativo: Freud avrebbe potuto «inventare»la psicoanalisi senza il concorso del mito greco? Credia-mo di no. Cosa sarebbe la psicoanalisi, ad esempio,senza il «complesso d'Edipo»? La patologia, del resto,come ha dimostrato ampiamente Jung, è pensabile, l'ab-biamo già visto, come ritorno degli dei greci. In altri ter-mini: gli dei tornano nel mondo d'oggi. Certo, essi potreb-bero tornare in altri modi, in modi non così «perversi».Tuttavia se tornano, per così dire, «sub specie patho-logica» ciò sembra potersi attribuire al fatto semplice cheevidentemente noi non abbiamo ancora appreso l'arte diaccoglierli in un modo diverso, non abbiamo ancora im-parato a fondo l'arte dell'ospitalità.Anzi, potremmo dimostrare il nostro assunto rovescian-dolo e dicendo che se la psicoanalisi ha prodotto effettifelici lo ha fatto in virtù del suo ancoraggio al mito (e ciòcerto in gran parte contro le posizioni coscientementeassunte da Freud e alle quali si è mantenuto fedele pertutta la vita). In altri termini, la felicità degli effetti dellapsicoanalisi, il suo imporsi sulla scena dello Zeitgeistnovecentesco, non avrebbe tanto a che vedere con lasua epistemologia, ovvero con la sua presunzione disapere, ma con la sua ermeneutica, ovvero con il suotentativo di dialogare, anche con gli dei e gli eroi delmito. È insomma, paradossalmente, perché Freud haparlato di complesso d'Edipo (e non, ad esempio,semplicemente di complesso genitoriale o altra simileespressione) che noi oggi «crediamo» nel complessod'Edipo. E quando dico «crediamo» non invoco certo nepretendo atti di fede, ma intendo il termine nel sensod'una partecipazione alla narrazione che l'espressione«complesso d'Edipo» comporta se la si assumeseriamente nella sua interezza e nella ricchezzadispiegata dei suoi motivi.

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Un grande critico letterario, Harold Bloom, ha sostenuto, atale riguardo, che non possiamo sfuggire a Freud perché alui appartiene la mente mitopoietica della nostra epoca.Dunque, in altri termini, al mito non si può sfuggire. Nonpossiamo sfuggire a Freud nella misura in cui nonpossiamo sfuggire al mito che sostanzia la psicoanalisi.Non possiamo sfuggire a Freud (ne vogliamo o dobbiamofarlo) perché, per impiegare l'espressione di Bloom, Freudè «il nostro teologo e filosofo morale, il nostro psicologo esommo creatore di finzioni narrative» (11).Ma anche il messaggio della filosofia che si fa chiamare«postmoderna» sembra favorevole a una convivenza colmito in nome d'una tolleranza e d'un recupero dello spiritopoliteista che (in ambito junghiano e postjunghiano) èauspicato da Hillman. Diciamo che la ragione viene scal-zata ed entra in scena la narrazione. Diciamo anche chel'Io viene scalzato dalle sue posizioni di preminenza (l'egocogito di cartesiana memoria) ed entra sulla scena delmondo come io narrato.Infine, il ritorno degli dei può essere visto in connessionecon la psicopatologia secondo la traiettoria di pensiero cheda Jung porta a Hillman. Gli dei sono tornati attraversandoi meandri della malattia mentale. È lo stesso Hillman,insieme al professore di teologia David Miller, ad averproposto, in special modo in un testo redatto con-giuntamente e pubblicato agli inizi degli anni Ottanta, ildiscorso d'un «nuovo politeismo» (12). Come ho già dettoin precedenza non è causale che lo stesso ultraseco-larizzato paese, gli Stati Uniti, alberghi tendenze di pen-siero così diverse (e, anzi, all'apparenza opposte) come lateologia radicale della morte di Dio e il nuovo politeismo.Ci troviamo qui di fronte al fatto che gli dei antichi edunque i miti che li significano per noi non ne voglionosapere di morire, di estraniarsi dalla scena del mondo.Perché? Semplicemente perché la scena del mondo è dasempre e continua a essere la loro scena. A dispettodunque della morte di Dio, assistiamo in varie forme allarinascita degli Dei. E ciò anche in virtù del fatto che conbuona pace di Tertulliano, come è stato detto, l'anima nonè naturalmente cristiana, «l'anima è naturalmente pagana»(13).

(11)H. Bloom, Agone(1982), Milano, Spirali,1985, p. 55.

(12)D.L Miller, J. Hillman,// nuovopoliteismo. La rinascita degli Deie delle Dee (1981), Milano,Edizioni di Comunità, 1983.

(13) E.M. Cioran, I nuovi dei,Milano, Edizioni del Borghese,1971, pp. 38-39, 42, 44,

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(14) D.L. Miller, J. Hillman, // nuovopoliteismo. La rinascita degli Dei edelle Dee (1981), op. cit., p. 100.

Per Hillman e Miller è proprio la morte di Dio (owero delDio delle religioni monoteistiche) a dar luogo alla rinascitadegli dei. Ma a quale bisogno obbedisce tale rinascita?Perché, certo, si tratta di bisogno e d'un bisogno profon-do, un bisogno che ha a che vedere con l'anima e la sua«paganità». Bisogno di racconto, potremmo dire, e diracconti, ma anche bisogno di vedersi, da un lato ancoratia un fondo collettivo che ci sostenga e, dall'altro, bisognodi andare incontro alla nostra dimensione di pluralità, alnostro essere uno e, allo stesso tempo, tanti. Nelle paroledi Hillman e Miller (14):II pensiero politeistico, attraverso i racconti degli Dei e delle Dee, non cida solo un punto d'appoggio impersonale e collettivo con cui fare levasulla dimensione pluralistica della vita; esso ci aiuta inoltre a differen-ziare la qualità politeistica di ciascuno degli aspetti della nostra pluralità.Ciò offre al pensiero politeistico non solo un ampio spazio per i nostripluralismi, ma anche una profondità, una risonanza, una qualità religio-sa caratterizzata dalla sua funzione trascendente.

Bisogno religioso, dunque, di trascendenza. E bisognopsicologico, di differenziazione.

4. // richiamo del mito (15)II mito ci chiama a trovare o ritrovare il significato dellanostra vicenda umana. Il richiamo del mito attiene insom-ma alla sfera del senso e implica una pervadente enichilistica percezione della totale insensatezza dellecose e degli eventi del mondo.Così nel già citato Ulisse di Joyce, pubblicato agli inizidegli anni Venti, un giorno «comune» d'un uomo «comu-ne» (l'ebreo Leopold Bloom) viene descritto alla luced'una corrispondenza con quanto Omero, o chi per lui,racconta nell'Odissea. Un giorno banale fatto di eventibanali, viene reso in questo modo significativo dalrichiamo al mito che quel giorno banale sostiene dallalontananza del tempo reale e dalla prossimità del tempomitico, appunto che sempre ritorna. E allora il mondo deigiornali diventa il mondo del dio dei venti, Eolo, e lecameriere d'un bar assumono la valenza delle Sireneseduttrici, e una visita al cimitero è illuminata dal «topos»mitologico della discesa agli inferi. La ricerca del padre daparte di Stephen

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(15) II titolo del paragrafo fariferimento al testo omonimodello psicoterapeuta, di indi-rizzo umanistico-esistenziale,Rollo May (1991), Milano,Rizzoli, testo del quale ven-gono qui riprese alcune tesi.

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Dedalus, un altro dei personaggi del romanzo (ricercamitica per eccellenza perché un padre Stephen ce l'ha), silascia rivisitare come corrispettivo della ricerca che delpadre lontano fa il figlio Telemaco nel poema omerico. Nelromanzo di Joyce, così potrei suggerire di leggerlo, il mitoinforma la realtà fin dentro le viscere del quotidiano. Equando dico «informa» intendo il verbo in senso di «darforma a», di dar significato a ciò che (la banalità della vitad'ogni giorno che ogni giorno si ripete simile a se stessa)sembra essere destituito di senso.Adier, uno dei grandi pionieri della psicologia e, dovremmoanche dire, uno dei padri più derubati, sostiene che l'uomoè portatore di questo destino: dare senso alla sua vicendaesistenziale. Essere uomo significa da una parte essereinferiori (e lottare nel tentativo, molte volte disperato, dicompensare l'originaria inferiorità) e dall'altra cercare didare senso a tale condizione. Dunque, una risposta all'in-terrogativo di partenza (perché ritorna il mito?) lapossiamo rinvenire in questo semplice e al tempo stessoproblematico assunto adieriano, sul quale dovremo tornarein seguito quando si tratterà di analizzare la risposta che alnostro interrogativo sul mito ha dato Hans Blumenberg.Un'altra risposta del perché del ritorno del mito consistenel raccordarlo a una reazione agli eccessi della ragioneilluministica (che in parte è stata anche la dea ragione diFreud) nella forma di una compensazione. E si tratta inquesto caso d'un concetto di marca junghiana. È la stessaunilateralità dell'atteggiamento (in questo caso dell'habitusrazionale) spinta agli estremi a costellare, attivare, porre inessere un moto opposto, una enantiodromia, ovvero,letteralmente, una «corsa in direziono del contrario».Per usare le parole dello psicoterapeuta d'indirizzo uma-nistico-esistenziale Rollo May, autore del già citato librotradotto qualche anno fa (nel 1991) in italiano con il titolodi // richiamo del mitoII mito è un modo di portare senso in un mondo privo di senso. I miti sonostrutture narrative che danno significato alla nostra esistenza (16).

C'è in altri termini una «consustanzialità» tra la nostraanima e le ragioni del raccontare. Anche in questo senso

218(16) Rollo May, // richiamo delmito, op. cit., p. 13.

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e in questa direzione possiamo spiegarci ciò che RolloMay chiama «il richiamo del mito». Secondo May è soloapparente che i miti sono morti, è più giusto, più confor-me alla verità dei fatti affermare che i miti sono statirimossi, owero allontanati dalla coscienza. È una societàmalata quella che rimuove i miti, laddove May parla di«società sana» nel caso in cui i miti siano ricondotti allacoscienza e, anzi, ai giochi della coscienza, al fine diassolvere alla loro funzione fondante e costitutiva. Talefunzione May nomina come un produrre sollievo dai sen-si di colpa nevrotici e dalle angosce insostenibili.Il discorso di May vale ovviamente anche e soprattuttonel campo specifico della psicoterapia. La «mitopeia» èritenuta da May «essenziale alla salute mentale». Ognipaziente (ogni uomo) è portatore d'un proprio mitopersonale, e ogni sofferenza è riconducibile al raccontoinerente a questo o a quel mito. È in questo sensofondamentale, da un punto di vista terapeutico, chel'analista permetta al paziente di accedere ai e diprendere sul serio i propri miti. Sotto questo riguardoMay può affermare che «i miti individuali sono di solitovariazioni di motivi centrali della mitologia classica, chesi riferiscono alle crisi dinamiche, esistenziali della vita»(17).Esiste una variegata sintomatologia sociale che reca te-stimonianza di quanto affermato da May. Si pensi al fio-rire delle sette, alla droga, alle promesse di felicitàveicolate dai mass-media o, anche, come abbiamo giàvisto, a movimenti quali quello di New Age. Talesintomatologia sociale, che è anche sintomatologiaindividuale, può essere spiegata come «perversione» delbisogno di mito, intendendo per «perversione» unamodalità non sana o unilaterale per incanalare esoddisfare quel bisogno.Ma quali funzioni assolve il mito e quali bisogni precisa-mente soddisfa? Mi sembra opportuno insistere su que-sta relazione dinamica col mito, dal momento che essagetta una luce particolare sul nostro argomento.Secondo May i bisogni cui assolve il mito sonofondamentalmente quattro (18):1) il mito assolve alla funzione di fornire il sensodell'identità personale. L'esempio di Edipo è qui il piùilluminante, così come è illuminante il fatto che esso siaall'origine

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(17) Ibidem, p. 28.

(18) Ibidem, p. 26.

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dell'elaborazione e della costruzione psicoanalitica. Con ilcieco indovino Tiresia, ovviamente, a fungere da psicoa-nalista.2) II mito assolve alla funzione di giustificare il senso diappartenenza al gruppo.3) II mito assolve alla funzione di fondare i valori morali.Su questa fondazione dei valori si è soffermato lo storicodella filosofia polacco Leszek Kolakowski, sulle cui tesi eargomentazioni dovrò tornare.4) II mito assolve, infine, alla funzione di risolvere l'inson-dabile mistero della creazione, dove per creazione Mayintende anche la creatività (artistica, scientifica etc.).Una buona esemplificazione del discorso condotto daRollo May è quello riguardante la sua rivisitazione delPeer Gynt di Ibsen, in un capitolo che reca l'eloquentetitolo «Peer Gynt: la difficoltà di amare».In Peer Gynt si condensa un «tipo psicologico» che ogginoi terapeuti incontriamo di frequente nell'esercizio dellanostra professione. Tale tipo è caratterizzato dalla com-presenza attiva di due opposti desideri: il desiderio diessere ammirato dalle donne e quello di essere da loroaccudito. Il primo desiderio genera comportamenti gran-diosi, virili, il secondo costella comportamenti di dipen-denza dalla «immaginaria Regina» che è la madre. Nonè un caso che la scena iniziale si apra sul racconto fattoda Peer Gynt alla madre d'una propria bravata, una follecavalcata sul dorso d'una renna, bravata che si rivela benpresto essere una menzogna. Il dramma di Peer Gynt èinsomma il dramma edipico della ricerca della propriaidentità. Lo psicoterapeuta sa che questo «tipo»riproduce una prevedibile sequenza di comportamenti:egli seduce e poi abbandona. Ma in questo reiteratoabbandonare, in realtà, non possiamo non leggere il suosegreto complotto con la madre, il suo aderire a lei, il suorestarle avvinto.Tale aspetto regressivo è evidente nell'episodio che vedePeer Gynt alle prese col regno dei «troll», creaturesubumane che vivono sottoterra, al buio, tipiche rappre-sentanti degli aspetti esclusivamente animali della naturaumana. Ciò che caratterizza tale regno è l'individualismo,espresso dal motto che rappresenta i «troll» e che suona:

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(19) Ibidem, p. 151.

«Sii tè stesso, e solo tè stesso». In ciò Ibsen mostra dicomprendere (in effetti lo preannuncia, se ne fa profeta) ilmito centrale della modernità, mito dell'individualismo,mito che tradotto nella cifra esistenziale di Peer Gyntimplica il suo non sapere entrare in rapporto con gli altriesseri umani. Mancanza che possiamo considerare ca-ratteristica della cosiddetta «personalità narcisistica». Ciòè ulteriormente rawisabile in una tipica modalitàcomportamentale del protagonista: la fretta, il non sapersostare nel rapporto. Egli corre per il mondo (ovveroseduce e abbandona) ma in realtà resta sempre nellostesso posto (a casa, luogo della regressione allamadre). È costantemente in fuga per evitare di incontraregli altri, owero se stesso.A tale possibilità di incontro Ibsen dedica la secondaparte del suo lavoro. E tale possibilità è offerta a PeerGunt da Solveig, la donna che lo ama, la donna «anima»potremmo dire. Anima nel senso che introduce Peer Gyntal mondo della costanza del sostare nella relazione sen-za provare la necessità di fuggire, di trovarsi in un altroluogo. In ciò, in questo recupero della costanza si puòfacilmente vedere una metafora dell'azione del terapeuta,creatore di spazi nei quali il paziente può sostare perentrare in rapporto. Così, la capacità di sostare nel luogosignifica l'integrazione del complesso materno (dal qualePeer Gynt, in virtù della sua fretta, della sua incostanza,del suo abbandonare donne, era dominato).In definitiva il mito di Peer Gynt è «il mito del maschio delXX secolo» e quello offertoci da Ibsen è «un ritrattoaffascinante delle strutture psicologiche dell'uomo con-temporaneo» (19).

5. Le risposte di BlumenbergUna risposta complessa all'interrogativo che ci stiamoponendo sul perché del ritorno del mito ci è stata fornitada Hans Blumenberg, in particolare nel suo voluminosolavoro che reca il titolo «Elaborazione del mito» pubblica-to nel 1979 (20).Una delle tesi centrali sulle quali ha argomentato il nostroautore si rifa a una sorta di rivisitazione fenomenologica

221(20) H. Blumenberg, Elabo-razione del mito (1979), Bo-logna, II Mulino, 1991.

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delle origini del mito. Blumenberg si chiede, in altri termi-ni, a quali bisogni abbia corrisposto l'invenzione delmito». E si deve trattare, come abbiamo compreso, dibisogni profondi che inverano l'essenza dell'uomo, la suaintima costituzione esistenziale. Ebbene, una delle fun-zioni assolte originariamente dal mito è quella di difende-re l'uomo dalle potenze minacciose che lo circondano.Detto altrimenti: il mito affranca l'uomo dall'assolutismodella realtà, diciamo anche, dal suo monoteismo. Mitosignifica libertà, libertà dalla letteralità, da quella cheHeidegger ha chiamato «la semplice presenza».Un modo distorto (e che è stato ampiamente sfruttatodall'Illuminismo e dagli illuminismi) di intendere il mitoconsiste nel considerarlo alla stregua d'un tentativo dirisposta a domande essenziali, fondanti. L'illuminismo egli illuminismi hanno avuto buon gioco, a partire da que-sta mistificante attribuzione, nel considerare quelle offer-te dal mito «risposte distorte». Ora, Blumenberg ci mettein guardia a questo riguardo invitandoci a pensare al mitonon come a una risposta a domande essenziali ma, in-tanto, a un dispositivo creativo per allontanare, scacciare,risolvere, venire a patti con l'insoddisfazione.In chiave adieriana, potremmo intendere tale insod-disfazione come una conseguenza della condizione diinferiorità. Il mito diventa allora un modo di compensaretale inferiorità che è costitutiva dell'uomo. La realtà èstata in altri termini percepita, nella notte dei tempi, inmodo «numinoso», ovvero dotata di potere, anzi di un'ec-cedenza di potere rispetto alle possibilità di cui l'uomodispone. È così che nel corso dei secoli e, anzi, deimillenni si sono sedimentate storie, narrazioni capaci diopporre all'assolutismo della realtà un altro assolutismo,quello delle immagini e delle sequenze di immagini che larealtà non può contraddire. In quest'ottica si può com-prendere perché Blumenberg rifiuti come semplicistica efondamentalmente errata l'opposizione mito/logos. In ef-fetti, anche in considerazione delle argomentazioni cheprecedono, si dovrà piuttosto dire che il mito è un «pezzodi lavoro impareggiabile del logos».L'aspetto logos può essere visto in azione in una dellepeculiarità della dinamica mitica. Tale peculiarità consiste

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nella nominazione, nella attribuzione di nomi. Si tratta divedere come Blumenberg leghi tale caratteristicafondante del mito al motivo della lotta ingaggiatadall'uomo contro l'assolutismo della realtà. Ebbene,possiamo pensare che nella notte dei tempi una dellereazioni più tipiche dei nostri progenitori sia stata quelladella paura di fronte a ciò che è sconosciuto. Ciò che èsconosciuto corrisponde anche a ciò che non ha nome.In quanto privo di nome esso non può neanche essereesorcizzato. Non può essere esorcizzato perché, arigore, non c'è anche essendoci. Un modo di esorcizzarequello che abbiamo chiamato «numinoso» sta in quellaprocedura di awicinamento che prende il nome di«familiarizzazione». Se trovo un nome perl'indeterminato che mi sta di fronte, instauro con essouna relazione tale da capovolgere i rapporti di potereiniziali. La nominazione è una prima forma di familiariz-zazione col mondo cui segue quella, propriamentemitica, della narrazione. Soltanto a condizione dipossedere i nomi, sono anche in grado di raccontare iracconti. Tale appare la lezione che ci viene fornita dalmito edenico di Adamo. Con la nominazione della realtàl'uomo può anche iniziare un rapporto di fiducia colmondo e parallelamente diminuire l'inimicizia iniziale.Se, come s'è visto, la realtà sovrasta l'uomo, il mitoaffranca l'uomo dalla realtà. Questa, in sintesi, una delleargomentazioni proposte da Blumenberg. Ma in tale ope-razione e, direi, pratica di libertà, il mito non risponde adomande, ne tantomeno risponde in modo distorto o alo-gico o irrazionale. Il mito non risponde a domandeperché crea domande, origina altri problemi. Il mitoequivale insomma a quella narrazione che lungi dalsollevarci dai nostri interrogativi rinforza il nostrointerrogare.Un esempio fatto da Blumenberg è quello relativo allavicenda di Prometeo. A quali domande concernenti l'esi-stenza dell'uomo, a quali interrogativi fondanti rispondetale mito? A ben vedere sembra proprio che il mito noncontenga risposte. Ciò di cui è sostanziato è il suostatuto di perpetua interrogazione. Così Blumenberg puòaffermare che il mito di Prometeo contiene tutte ledomande che si possono porre sull'esistenza dell'uomo.Un esempio analogo potrebbe essere quello addotto dal

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già citato Rollo May e relativo alla figura mitica di Satana.Si tratta d'un mito che è sempre stato presente nonsoltanto nella letteratura ma dentro l'uomo, rappresentan-done appropriatamente il lato oscuro, la possibilità d'unatotale messa in discussione di quella che Jung chiama«ombra» e a cui noi siamo soliti pensare come «male».Quando il Mefistofele di Goethe risponde alla domanda diFaust (che gli chiede chi sia) con la famosa frase «Unaparte della forza che vuole sempre il male e opera sempreil bene» (21) ci rendiamo ben conto di come anche inquesto caso la figura mitica costituisca di per sé unainterrogazione globale su tutta l'esistenza dell'uomo.Ma ancora altra appare essere la funzione del mito. Se, apartire da Rudolf Otto, il sacro è ciò che per eccellenzasuscita timore, è, con termine che sarà abbondantementeripreso dalla psicologia del profondo, «numinoso», se inaltri termini appartiene al sacro un fondo emozionaleselvaggio, non facilmente o affatto addomesticabile, ov-vero, come direbbe Freud (con riferimento alle pulsioni)«imbrigliabile», spetta al mito una speciale opera di con-versione: la conversione della radicale «selvaticità» delsacro in qualcosa di concreto, di visibile che, in quantotale, sia suscettibile d'essere relazionato.L'urgenza di ciò che chiamiamo sacro, ovvero il suo ri-mandare a una potenza indeterminata, il numinoso, Dio,etc., ci dice che l'uomo non è il reale padrone del propriodestino. Il mito assurge in questo senso a interpretazionesecondaria di quell'urgenza. Lungi dunque dall'essere ir-razionale, il mito, potremmo dire, si configura come quellaprimaria razionalizzazione che consente all'uomo dirapportarsi al numinoso che, di per sé, è il fondo noninterpretabile e, di conseguenza, neanche relazionabile daparte dell'uomo. Uomo che non possiede altra realtà cherealtà interpretata.In altri termini ancora, potremmo affermare che il mitorestituisce all'uomo l'immagine d'un mondo significativo,ovvero reso tale, a ridosso del rischio o della percezioned'una assenza di significatività. Nel mito si coagula, in-somma, il tentativo da parte dell'uomo di dare significatoalla vita, per accedere, anzi, all'orizzonte della significa-tività. Una concezione questa che preoccupandosi più

(21 ) W. Goethe, Faust I, verso1335 (trad. di Franco Fortini,Milano, Mondadori, 1990).

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(22) C.G. Jung, «Sulla com-prensione psicologica deiprocessi patologici» (1914), inPsicogenesi delle malattiementali, Opere, voi. 3, Torino,Boringhieri, 1979, pp. 186-187.(23) II titolo del paragrafo fariferimento al testo omonimodel filosofo polacco LeszekKolakowski, Presenza delmito (1972), Bologna, II Mu-lino, 1992, testo del qualevengono qui riprese alcunetesi.

della finalità ci appare consonante con le posizioni as-sunte da Jung e anche, come s'è già accennato, daAdier. Come ha scritto più volte nella sua abbondante-mente saccheggiata opera, Alfred Adier ci presenta unuomo costantemente alle prese con la lotta per il signifi-cato, condannato quasi alla lotta per il significato, unuomo che comunque non può assolutamente sfuggire aisignificati. Modalità questa alla quale Jung diede, in uncontributo del 1914 dal titolo Sulla comprensione psicolo-gica dei processi patologici, il nome di «comprensioneverso l'avanti», modalità teleologica, dunque, rivolta aifini, non «ipotizzata», «stregata» dalle cause, rivolta al-l'anticipazione degli eventi (22).

6. Presenza del mito (23)Ho definito sopra «mitica» l'idea, illuministica, della domi-nabilità della natura. In considerazione del fatto che nelsolco tracciato dall'Illuminismo alberga come privilegiatadestinataria la scienza, ci si impone la prospettiva, forseinedita e che sicuramente può suonare illegittima, d'unacommistione di scienza, appunto, e mito. Vale allora lapena di soffermarci sul significato, se significato c'è, diquesta commistione. Nel definire «mitica» l'idea delladomi-nabilità della natura ci si presenta, per così dire,surretti-ziamente, clandestinamente, un modo diconsiderare la funzione propria del mito, quella dipermettere all'uomo di sentirsi a casa sua (il verbo«dominare» ha qui a che vedere con «domus», casa,appunto) in un mondo percepito originariamente comeestraneo, «altro». Un mondo ostile, foriero di angosce epaure, un mondo che induce alla indecidibilità, un mondoche alimenta l'incertezza. «Anche i fondamenti ultimi cheguidano il pensiero scientifico nella scelta delle proprieconvinzioni sono atti valutativi», rientrano dunquenell'orbita mitica. Uno dei limiti della scienza, come haavuto modo di osservare lo stesso Jung, sta proprio nellasua estraneità al mondo dei valori. Analogamente, aTolstoj la scienza appariva «assurda» perché nonrispondeva all'unico interrogativo importante per la vita diognuno di noi: che dobbiamo fare? In che mododobbiamo condurre la nostra esisten-

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za? Tuttavia è proprio dei valori «valere», cioè imporsialla nostra attenzione, guidarci nei nostri comportamenti,generare conflitti. Se la scienza è estranea ai valori, inaltri termini, non vale il reciproco, e cioè che i valori sianoestranei al mondo della scienza. I valori toccano la scien-za, la stravolgono anche, la fanno entrare cioè nel mondodel significato e, ultimativamente, in quello del trascen-dente.Nel libro che abbiamo già citato La scienza come profes-sione, l'autore, Mac Weber dimostra che l'assunto «lascienza è un bene» è indimostrabile per la scienza. Lascienza non si preoccupa se il mondo da essa descrittosia «degno di esistere», «se abbia un significato e seabbia un senso esistere in esso». La scelta della ragionescientifica non può essere giustificata scientificamente.Dal momento che la scienza non presuppone i valori, nonsolo non può fondare i valori, ma non può a rigore nem-meno confutarli. I valori restano al di là. Questo al di là cisembra il luogo dell'esplicarsi del mito. Ma la scienzapresuppone il proprio valore, la propria «bontà»: essendofatta della stessa sostanza di cui sono fatti gli uomini nonpuò astrarre dal mondo dei valori, ergo la scienza èmitica.Ora, proprio in ciò, nella relazione intrinseca, d'identità,col valore, risiede lo specifico del mito secondo il filosofopolacco Kolakowski. Il quale, anzi, rivolta l'affermazionesecondo cui i miti fondano i valori per affermare che ilvalore stesso è un mito, un trascendente. E certo nonpossiamo dargli torto. Del resto si tratta d'una posizioneabbondantemente presente nel filone platonico della filo-sofia. Trascendente è in questo senso il valore dei valori,il Bene, quello stesso che Fiatone equipara al Sole.Mitica, in questo senso, è ogni esperienza «chetrascenda l'esperienza finita», che obblighi l'uomo a unconfronto «ermeneutico» col mondo, che lo getti al suo«al di là». In quest'ottica, come afferma Kolakowski (24):

II mondo dei valori è una realtà mitica. La nostra cognizione deglielementi dell'esperienza, le situazioni e le cose, è un'esperienza vissutain quanto questi elementi li viviamo come dotati di qualità di valore,come facenti parte della realtà che trascende in modo assoluto latotalità dell'esperienza possibile.

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(24) Ibidem, p. 59.

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Secondo Kolakowski esiste e opera nell'uomo un biso-gno di rispondere alle domande ultime, cioè metafisiche,trascendenti, non suscettibili d'una traduzione scientifica.Tale bisogno si lascia caratterizzare in tré modalità delbisogno (25):

1) bisogno di dare un senso al mondo dell'esperienza;2) bisogno di credere alla persistenza dei valori;3) esigenza di vedere il mondo come continuo.

Tale triplice bisogno non è altro che la trasposizione«argomentata» dell'esigenza «mitica» per eccellenza disospendere il tempo fisico, di trasformarlo in tempo «mi-tico» ovvero in «una forma temporale che permetta divedere nel trascorrere delle cose non solo la trasforma-zione, bensì la cumulazione, o che consenta di credereche il passato relativamente al suo valore si conservi inqualcosa di duraturo». «Un simile trascendimento dellatemporalità è attivo nei miti che permettono di crederenella persistenza dei valori personali» (26).Ovviamente è la dimensione amorosa quella in cui siavverte elettivamente tale sospensione del tempo, carat-teristica della realtà del mito. Nei termini impiegati daKolakowski (27):

II compimento atteso nell'amore annulla il tempo reale, cioè l'amore èun rapporto privo di memoria e di prospettiva in cui ha luogo un totaleassorbimento nel presente, è l'esclusione delle cose passate, e laperfetta noncuranza del futuro, è assenza di scrupoli, di pentimenti, diaspettative, di timori.

I bisogni di cui s'è detto sopra sono in ultima analisi glistessi che hanno reso possibile la nascita della cultura.Se è vero che sono assiologici (owero relativi al mondodei valori) i fondamenti in cui si ràdica la coscienzamitica, se è vero che essi soddisfano il bisogno diassoggettare il mondo (interpretandolo ecomprendendolo e magari riconducendolo a un esserecreatore o, comunque, a qualcosa di incondizionato), èanche vero che «i fondamenti ultimi che guidano ilpensiero scientifico nella scelta delle proprie convinzionisono atti valutativi» (28), appartengono dunqueintrinsecamente alla sfera del mito o, se si vuole, dellametafisica, della trascendenza, del-l'assiologia e, perchéno? della teleologia.

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(25) Ibidem, p. 30 sgg.

(26) Ibidem, p. 33.

(27) Ibidem, p. 86.

(28) to/ctem, p. 34.

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In ultima analisi potremmo dire che la presenza del mito(non importa in quale specifico campo si manifesti, siaesso la logica o l'amore o, come afferma Kolakowski, cheall'argomento dedica un intero capitolo, la «cultura deglianalgesici») è legata all'insistenza, alla persistenza deibisogni dell'uomo e alla necessità d'un libero esplicarsidella sua dimensione creativa. In questo senso il mitonon può non ritornare e questo ritorno coincide semplice-mente col suo modo o con uno dei suoi modi d'essere.

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