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Filosofia - Prof. Monti - a.s. 2016-2017 - Cartesio e il razionalismo 1 René Descartes 1596 – 1650 * L’atto di nascita del soggetto razionale moderno 1. PRIMI CENNI SU RAZIONALISMO ED EMPIRISMO Nel corso del ‘600, la rivoluzione scientifica seguì due fondamentali tendenze / correnti filosofiche denominate l’una razionalismo e l’altra empirismo. -1- Il razionalismo – che ebbe in Cartesio, Spinoza e Leibniz i maggiori rappresentanti – sostiene che, detto molto in fretta, fondamento primo ed essenziale del sapere è la ragione dell’uomo, il logos greco che tante volte abbiamo nominato. Ecco che molte idee, molti pensieri, non derivano affatto dall’esperienza, ma sono presenti nelle nostre menti sin dalla nascita, sono quindi “innati”. Le esperienze che un individuo, crescendo a partire dall’infanzia sino all’età adulta, accumula presuppongono tali idee / pensieri come un fondamento indispensabile. Insomma, detto in due parole: prima la ragione, poi l’esperienza! -2- Con l’empirismo (in particolare con gli inglesi John Locke, George Berkeley e David Hume), invece, assistiamo a una differente sottolineatura: ogni forma di sapere, dunque anche ogni idea / pensiero, trova la sua origine nell’esperienza, la quale si presenta così come fondamento primo di ogni sapere. In due parole: prima l’esperienza, poi la ragione! Insomma: che cosa viene prima fra la ragione e l’esperienza? Qualcosa che pre-esiste nelle nostre teste e che, poi , ci permette di conoscere il mondo, facendone esperienza? Oppure prima c’è il mondo esterno che, una volta esperito, fa nascere in noi pensiero e riflessione? Proviamo a dire la cosa anche altri in termini, tramite un esempio. In che modo il grande artista realizza un capolavoro? Dove si trova il suo punto di partenza, il fondamento primo dell’opera? L’opera nasce da uno stimolo tutto interiore, un profondo impulso verso la creazione? Oppure emerge a partire dagli stimoli di cui il mondo reale è ricco? 2. CARTESIO: VITA E SCRITTI La personalità di Descartes segna la svolta decisiva dal Rinascimento all’età moderna. I temi del Rinascimento divengono con lui termini di un nuovo problema. Egli è unanimemente considerato il fondatore della filosofia moderna e, in particolare, di quella corrente nota come razionalismo : la ragione umana è il

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Filosofia - Prof. Monti - a.s. 2016-2017 - Cartesio e il razionalismo

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René Descartes 1596 – 1650

*

L’atto di nascita del soggetto razionale moderno

1. PRIMI CENNI SU RAZIONALISMO ED EMPIRISMO

Nel corso del ‘600, la rivoluzione scientifica seguì due fondamentali tendenze / correnti filosofiche denominate l’una razionalismo e l’altra empirismo.

-1- Il razionalismo – che ebbe in Cartesio, Spinoza e Leibniz i maggiori rappresentanti – sostiene che, detto molto in fretta, fondamento primo ed essenziale del sapere è la ragione dell’uomo, il logos greco che tante volte abbiamo nominato. Ecco che molte idee, molti pensieri, non derivano affatto dall’esperienza, ma sono presenti nelle nostre menti sin dalla nascita, sono quindi “innati”. Le esperienze che un individuo, crescendo a partire dall’infanzia sino all’età adulta, accumula presuppongono tali idee / pensieri come un fondamento indispensabile. Insomma, detto in due parole: prima la ragione, poi l’esperienza!

-2- Con l’empirismo (in particolare con gli inglesi John Locke, George Berkeley e David Hume), invece, assistiamo a una differente sottolineatura: ogni forma di sapere, dunque anche ogni idea / pensiero, trova la sua origine nell’esperienza, la quale si presenta così come fondamento primo di ogni sapere. In due parole: prima l’esperienza, poi la ragione! Insomma: che cosa viene prima fra la ragione e l’esperienza? Qualcosa che pre-esiste nelle nostre teste e che, poi, ci permette di conoscere il mondo, facendone esperienza? Oppure prima c’è il mondo esterno che, una volta esperito, fa nascere in noi pensiero e riflessione? Proviamo a dire la cosa anche altri in termini, tramite un esempio. In che modo il grande artista realizza un capolavoro? Dove si trova il suo punto di partenza, il fondamento primo dell’opera? L’opera nasce da uno stimolo tutto interiore, un profondo impulso verso la creazione? Oppure emerge a partire dagli stimoli di cui il mondo reale è ricco?

2. CARTESIO: VITA E SCRITTI

La personalità di Descartes segna la svolta decisiva dal Rinascimento all’età moderna. I temi del Rinascimento divengono con lui termini di un nuovo problema. Egli è unanimemente considerato il fondatore della filosofia moderna e, in particolare, di quella corrente nota come razionalismo: la ragione umana è il

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fondamentale organo di verità e lo strumento per elaborare una nuova visione del mondo. I primi studi, svolti in un collegio dei Gesuiti (collegio di La Flèche, una delle migliori scuole del tempo) non bastarono a dargli un orientamento sicuro, una guida affidabile. Alla ricerca di questa “guida” Cartesio dedicò i suoi sforzi. Nel 1616 ottenne la laurea in diritto presso l’università di Poitiers. Dopo un breve periodo di vita a Parigi, Cartesio decise di intraprendere una serie di viaggi per studiare il “gran libro del mondo” (ricordate che questa metafora del libro viene usata anche da Galileo): per far questo si arruolò nell’esercito e partecipò alla Guerra dei Trent’anni. Di fatto, la guerra lasciava ai nobili grande libertà e Cartesio poté viaggiare a suo piacimento per tutta l’Europa, dedicandosi agli studi di matematica e fisica (ottenne, in particolare, risultati scientifici di grande rilievo nel campo dell’ottica, della geometria e dell’algebra). Ciò che si impose al suo studio in modo sempre più pressante, però, fu il desiderio di giungere alla elaborazione di un metodo universale del sapere, ciò che diventerà la sua celebre dottrina del metodo. Nel 1628 si stabilì in Olanda: sia per godervi di quella libertà filosofica e religiosa che era propria del paese, sia per poter lavorare senza essere distratto dagli obblighi di società che a Parigi e in provincia gli rubavano molto tempo. Dal 1629 al 1633 lavorò a un grande trattato di fisica – Il mondo o Trattato della luce – ma la notizia della condanna di Galileo lo sconsigliò dal pubblicare l’opera, all’interno della quale la dottrina copernicana aveva una parte di rilievo. In una lettera privata, Cartesio affermò di non voler insegnare nulla che fosse contrario alla dottrina della Chiesa, aggiungendo come la sua massima aspirazione fosse quella di conservare la sua tranquillità privata, indispensabile per i suoi studi (il suo motto, non a caso, fu “Visse bene chi ben si nascose”). Cartesio ancora non aveva pubblicato nulla, ma la sua fama era già assai vasta grazie alle sue scoperte in ambito matematico. Fra il 1633 e il 1637, a seguito dell’insistenza di alcuni discepoli ed estimatori, Cartesio decise di pubblicare almeno alcuni risultati parziali: nel 1637 apparvero – scritti in francese e in forma anonima – i saggi La diottrica, Le meteore e La geometria ai quali premise una prefazione intitolata Discorso sul metodo. La prefazione aveva l’ambizione di fornire delle indicazioni di metodo valide per tutte le scienze, mentre i tre saggi particolari ne rappresentavano esempi di applicazione pratica. Nel 1649, Cartesio cedette ai ripetuti inviti della regina Cristina di andare a stabilirsi presso la corte di Svezia, a Stoccolma, ma nel rigido inverno del 1650 si ammalò e morì.

3. IL METODO CARTESIANO

Il Discorso sul metodo divenne ben presto il manifesto della filosofia moderna, testimonianza del sorgere di una mentalità scientifica il cui razionalismo mira ad abbracciare ogni campo. Una simile ambizione totalizzante, però, richiedeva una giustificazione che, naturalmente, non poteva essere trovata in nessuna disciplina particolare.

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Cartesio ne era ben consapevole e, sin dal 1629, aveva cominciato ad abbozzare le linee di un trattato di metafisica brevemente riportato nella quarta parte del Discorso. Una esposizione più ampia verrà da Cartesio pubblicata nel 1641 con il titolo Meditazioni di filosofia prima intorno all’esistenza di Dio e all’immortalità dell’anima. Quest’opera, diversamente dalle precedenti, venne pubblicata da Cartesio con il suo nome e in latino. Il Discorso sul metodo, curiosamente, non inizia con l’esposizione del metodo stesso, ma con una strana premessa che occupa tutta la prima parte del testo.

“ Il buon senso [ovvero la ragione, ndr] è tra tutte le cose quella meglio distribuita […] la facoltà di giudicare bene e di distinguere il vero dal falso – nel che consiste propriamente ciò che si chiama buon senso e ragione – è per natura eguale in tutti gli uomini, e che perciò la diversità delle nostre opinioni non dipende dal fatto che gli uni siano più ragionevoli degli altri, ma semplicemente dal fatto che conduciamo i nostri pensieri per vie diverse, e non consideriamo le stesse cose. Non è sufficiente infatti essere dotati di buon ingegno, ma saperlo applicare bene. Le anime più grandi sono capaci dei maggiori vizi come delle maggiori virtù, e coloro che procedono molto lentamente, se seguono sempre il giusto cammino, possono percorrere un tragitto assai più lungo di quelli che corrono, ma se ne

allontanano. ” Proviamo a commentare! Sin qui pare una storia vecchia, già sentita: l’uomo è per natura un animale razionale, come diceva Aristotele; “Bisogna seguire ciò che è comune: il logos”, diceva ancor prima Eraclito. Cartesio qui è molto rassicurante – dice, infatti, cose già note – “la ragione è comune a tutti gli uomini”, ma di fatto è proprio da qui che la filosofia e, successivamente, la scienza prendono le mosse: qui sta la loro origine! L’istituzione di un logos, una ragione universale, a tutti comune che, per questo, è in grado di discernere oggettivamente ciò che è vero da ciò che è falso. È solo davanti all’occhio di questa ragione universale che il mondo può assumere il nostro senso di “mondo oggettivo”, fatto cioè di cose misurabili e fenomeni verificabili.

“ […] per quanto riguarda la ragione o il buon senso, essendo essa l’unica qualità che ci rende uomini e ci distingue dalle bestie, voglio credere che essa sia tutta intera in ciascun uomo […]. Ma in questo Discorso sarò ben lieto di indicare quali siano i sentieri da me battuti, e di rappresentarvi la mia vita come in un quadro, perché ciascuno possa giudicarne e perché io, apprendendo dalla voce pubblica quello che gli altri ne avranno pensato, possa avere un nuovo mezzo per istruirmi, mezzo che aggiungerò a quelli di cui solitamente mi servo. Il mio scopo dunque non è di insegnare qui il metodo che ciascuno deve seguire per ben condurre la propria ragione, ma semplicemente di far vedere in che modo ho cercato di

condurre la mia. ” Il Discorso sul metodo è un’opera autobiografica. Come già Agostino e Abelardo, Cartesio ci parla di se stesso. Egli, poi, non pretende di proporci una dottrina sempre e comunque valida, ma, più modestamente, di raccontarci in quale maniera lui personalmente ha provato a procedere nel corso dei suoi studi scientifici.

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Cartesio qui è molto prudente: è come se dicesse: “Io non insegno il metodo, semplicemente parlo a tutti del metodo che io personalmente ho seguito. Non intendo propormi come esempio, ma chiunque è libero di imitarmi se lo trova utile!” Cartesio, naturalmente, è del tutto convinto dalla validità delle sue idee: la sua prudenza non è sintomo di dubbi personali, egli però non vuole proporre una teoria preconfezionata – cosa che accadeva con il sapere scolastico, tradizionale – ma è come se dicesse “provate e vedrete che ho ragione!”. Il problema che Cartesio presenta come suo proprio, personale, emerge dal bisogno di orientamento che egli sente all’uscita dalla scuola dei Gesuiti, quando, pur avendo assimilato il miglior sapere del tempo, si accorge di non possedere alcun sicuro criterio per distinguere il vero dal falso.

“ Come un uomo che cammina da solo e nelle tenebre, decisi però di procedere così lentamente e di usare tanta circospezione in ogni circostanza, che se anche avessi fatto dei

minimi progressi, avrei tuttavia evitato almeno di cadere […]. ” Cartesio si trova, per dir così, in stato di solitudine. La cultura appresa a scuola gli pare incerta, non gli fornisce supporto adeguato. Cosa fare? In una parola, di nuovo: da dove cominciare? Ricostruire l’edificio del sapere non è come ricostruire una casa: esso infatti non è stato pensato e ordinato da una sola mente, ma da moltissime, cosa questa che ha provocato il disordine cui Cartesio dice di assistere. Occorre un metodo: procedendo come si è fatto sino ad ora non si può sperare che le cose migliorino. Detto in una sola, ma efficace parola, possiamo affermare che il metodo cartesiano, che è ancora oggi il nostro metodo, il metodo della scienza, consiste nel saper fare punto e a capo. Se c’è una disciplina che si è dimostrata imbattibile nel fissare punti stabili, nel gettare premesse e da lì procedere con sicurezza, questa è la matematica. Occorre quindi partire da lì. Occorre un metodo che assommi i vantaggi di logica, geometria e algebra, ma che eviti i loro difetti. Quali difetti? L’astrattezza! Il metodo che Cartesio propone è allo stesso tempo, teoretico e pratico: deve condurre a distinguere vero da falso, anche e soprattutto in vista dei vantaggi pratici che possono derivarne per la vita dell’uomo. Il metodo deve condurre ad una filosofia non solo speculativa, ma anche pratica, per la quale l’uomo possa rendersi padrone e possessore della natura. Il metodo deve aprire la mente alla visione della vera realtà, del vero mondo: non bisogna cercare in esso ciò che esiste solo nelle menti degli uomini (essenze, cause finali, ecc.). Bene, è necessario ora dare formulazione al metodo. Non si inventa nulla di nuovo, esso è già praticamente messo in atto nelle discipline matematiche, si tratta dunque di: 1. Astrarlo dalle discipline matematiche e formularlo in termini di applicabilità

generale; 2. Giustificare il metodo stesso, e la possibilità della sua universale applicazione,

con una ricerca metafisica che lo riporti al suo fondamento ultimo, cioè all’uomo come soggetto pensante o ragione.

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Sul primo punto la seconda parte del Discorso ci dà la formulazione più semplice e matura delle regole del metodo, che sono quattro.

1. Non accogliere mai nulla per vero, se non ciò che conosci essere tale con evidenza. È la cosiddetta regola dell’evidenza.

2. Dividere ciascuna delle difficoltà da esaminare nel maggior numero di parti possibili e necessarie per meglio risolverla. È la regola dell’analisi.

3. Condurre i pensieri ordinatamente, cominciando dagli oggetti più semplici a conoscersi per risalire gradatamente alle conoscenze più complesse. È la regola della sintesi.

4. Fare in ogni caso enumerazioni così complete e revisioni così generali da essere sicuro di non omettere nulla. L’enumerazione controlla l’analisi, la revisione e la sintesi. Il metodo appare quanto mai semplice: non è un caso, visto che ormai da secoli siamo abituati a utilizzarlo quando ci troviamo un problema di fronte! Il metodo insegna a ridurre ogni questione, ogni domanda, nei termini di un problema. Attenzione: la regola dell’evidenza è la prima, ma non è da essa che normalmente si comincia! Ciò che è evidente, infatti, non abbisogna di spiegazione, e dunque di metodo alcuno. Si comincia invece dall’analisi e solo dopo un lungo tratto di cammino qualcosa può emergere come evidente. Il metodo è, secondo Cartesio, il modo in cui l’uomo pensa il contenuto effettivo della realtà.

“ Quelle lunghe catene di ragioni assolutamente semplici e facili, che i geometri [cioè i matematici, ndr] impiegano per pervenire alle loro dimostrazioni più difficili, mi avevano suggerito l’idea che tutte le cose accessibili alla conoscenza degli uomini si collegassero tra

di loro in quello stesso modo […]. ”

Detto in parole povere: la matematica non è solo una teoria astratta, essa è la logica del mondo, è la lingua migliore per poter descrivere il funzionamento del mondo. Essa non si esprime a parole, come la logica tradizionale, ma tramite funzioni (che, non a caso, studiate in matematica!). La quantità, ovvero la “materia estesa”, è l’unica cosa che realmente esiste là fuori, ed è qualcosa di misurabile! Ogni fenomeno reale è funzione delle cause materiali che lo provocano e degli effetti che, a sua volta, esso produce. Non c’è altro. Del perché qualcosa accada, il metodo non si occupa minimamente. Esso si occupa solo di descrivere il fenomeno in termini matematici: esso dunque si ferma alla spiegazione del come. Cartesio non amava discutere queste sue idee: sapeva che una concezione così strumentale ed utilitaristica avrebbe generato, come in effetti generò, molte critiche e incomprensioni. Egli, però, era convinto che, alla fine, il suo metodo si sarebbe imposto e la sua verità sarebbe diventata la verità di tutti. Aveva ragione.

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Una volta ridotto il mondo a un insieme di fenomeni causalmente interdipendenti tramite un legalismo matematico si sarà raggiunto “tutto ciò che l’ingegno umano può scoprire”. Ecco che il metodo, di fatto, non è solo un contenuto dottrinale, una teoria, ma consiste in una scelta etica, in una abitudine di vita, una decisione pratica che ancora determina il nostro modo di pensare il mondo e di vivere in esso.

Queste regole non hanno in se stesse giustificazione, né le giustifica il fatto che la matematica se ne serve con successo, perché queste potrebbero essere valide solo in matematica. Cartesio le deve giustificare risalendo alla loro radice, l’uomo come soggettività o ragione. Di questo si occupa la sua opera del 1641, le Meditazioni metafisiche.

4. IL DUBBIO E IL COGITO ERGO SUM

La prima meditazione

“Già da qualche tempo mi sono accorto che sin dai primi anni [di vita] avevo accolto come vere una quantità di opinioni false e che perciò tutte le costruzioni da me fatte su principi così mal sicuri non potevano essere che molto dubbie e incerte. Occorreva quindi che incominciassi seriamente una volta nella mia vita a disfarmi di tutte le opinioni accettate fino allora e ricostruissi tutto dalle fondamenta […].”

- Trovare il fondamento del metodo è, per Cartesio, possibile solo con una critica di tutto il sapere già dato. Bisogna sospendere l’assenso ad ogni conoscenza comunemente accettata, dubitare di tutto e considerare almeno temporaneamente come falso tutto ciò su cui il dubbio è possibile. Se in questo modo si giunge ad un principio di cui non si riesce a dubitare, questo sarà ritenuto saldissimo e tale da poter fondare tutte le altre conoscenze. Cartesio ritiene che nessun grado o forma di conoscenza si sottragga al dubbio: 1. Si può, e quindi si deve dubitare delle conoscenze sensibili, sia perché a volte i

sensi ingannano, sia perché a volte si hanno nei sogni conoscenze simili a quelle della veglia, senza che vi sia un sicuro criterio di distinzione.

2. Le conoscenze matematiche sono vere sia nel sogno che nella veglia, ma neppure queste conoscenze si sottraggono del tutto al dubbio, dato che la loro certezza potrebbe essere illusoria. Si può supporre, fintanto che non si sa qualcosa di certo sulla nostra origine, che l’uomo sia stato creato da un genio maligno che gli fa credere evidente ciò che invece è falso e assurdo. In tal modo il dubbio si estende a tutto e diviene universale. Si giunge così al cosiddetto dubbio iperbolico.

Puntualizzazione importante sul dubbio iperbolico: con l’ipotesi del genio maligno, pare che Cartesio abbia introdotto nella sua riflessione un elemento di assurdità, una cosa “tirata per i capelli”. State molto attenti: il dubbio qui è metodico, non reale! Questo significa che Cartesio non dubita affatto della verità di proposizioni matematiche come 2+2=4 (proprio lui, uno dei massimi matematici della storia, come potrebbe fare una cosa del genere?). Cartesio, invece, si chiede se proprio non sia

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possibile trovare qualcosa su cui in nessun modo, neppure introducendo un’ipotesi assurda come quella del genio maligno, sia possibile dubitare!

APPROFONDIMENTO [SOLO DA LEGGERE] - I contemporanei di Cartesio, colpiti dalla scoperta del cogito, o almeno dalla sua originale ripresa, lo discussero ampiamente. Qualcuno lo accusò di circolo vizioso, affermando che se il principio del cogito viene accettato perché evidente, la regola dell’evidenza risulta anteriore allo stesso cogito. Per cui la pretesa di giustificare la regola dell’evidenza in virtù del cogito diviene illusoria. Cartesio risponde affermando che non è vero che esso risulta evidente perché conforme alla regola dell’evidenza, in quanto il cogito è la stessa autoevidenza esistenziale che il soggetto ha di sé medesimo. Gassendi sostiene che il cogito è una forma abbreviata di sillogismo del tipo: “Tutto ciò che pensa esiste. Io penso, dunque esisto” e risulterebbe infondato perché la premessa cade preliminarmente sotto il dubbio del genio maligno. Cartesio ribatte che il cogito non è un ragionamento, ma una intuizione immediata della mente. Più insidiosa l’obiezione di Hobbes: Cartesio avrebbe ragione nel dire che l’io, in quanto pensa, esiste, ma avrebbe torto nel pretendere di pronunciarsi sul come esso esista, definendolo uno spirito, un’anima. In ciò Cartesio sarebbe simile a chi dicesse: “Io sto passeggiando, quindi sono una passeggiata”. Infatti il quid pensante potrebbe benissimo essere una parte del corpo, il cervello. Cartesio ribatte dicendo che l’uomo non passeggia costantemente mentre pensa costantemente, per cui il pensiero risulta per lui essenziale. Inoltre il pensiero indica talora l’atto del pensiero, talvolta la facoltà del pensiero, talvolta la cosa o sostanza con cui tale facoltà si identifica. Per cui, in quest’ultimo caso, si può legittimamente parlare di una sostanza pensante, la cui essenza è costituita appunto dal pensiero.

5. DIO COME GIUSTIFICAZIONE METAFISICA DELLE CERTEZZE UMANE

La seconda meditazione - Nella prima meditazione Cartesio ha, per dir così, ripulito completamente la lavagna della mente umana: lo scopo è di vedere se c’è qualcosa in grado di resistere a tale radicale cancellazione. Cosa rimane? Semplice: rimane colui il quale ha cancellato la lavagna, il soggetto pensante! Ecco cosa scrive:

“Io dunque, almeno, non sono forse qualche cosa? Ma io ho già negato di avere alcun senso ed alcun corpo. Io esisto tuttavia […]. Io esistevo senza dubbio, se mi sono convinto di qualcosa, o solamente se ho pensato qualcosa. […] Bisogna infine concludere e tener fermo questa proposizione: io sono, io esisto, è necessariamente vera tutte le volte che la pronuncio o che la concepisco nel mio spirito.”

Ed ecco che, proprio nel carattere radicale di questo dubbio, si presenta il principio di una prima certezza. Infatti, anche solo per ingannarmi o essere ingannato, io debbo esistere! Il dubbio stesso conferma la proposizione "io esisto". Solo chi esiste può dubitare. Ma questa proposizione contiene anche una certa indicazione su ciò che io sono. Non posso dire di esistere come corpo, dato che in nessun modo posso affermare l’esistenza dei corpi. Io quindi non esisto se non come cosa che dubita, cioè che pensa. La certezza del mio esistere concerne solo le determinazioni del mio pensiero. Le cose pensate, immaginate, sentite… possono non essere reali, ma il fatto di pensare no: cogito ergo sum (ego cogito, ego sum). La mia esistenza di soggetto pensante è certa come non lo è nessuna delle cose che penso o sento. Può darsi che non esista il mio corpo, ma deve per forza esistere l’io che pensa di percepire un corpo. Su questa certezza originaria e necessaria deve essere

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fondata ogni altra conoscenza. Il principio di Cartesio ripete il movimento di pensiero che già c’era in Agostino, ma il problema è un altro. Non si tratta, come in Agostino, di stabilire la presenza trascendente della Verità (cioè di Dio) nell’interiorità dell’uomo. Si tratta, invece, di trovare nell’esistenza del soggetto pensante, il cui essere è evidente a se stesso, il principio che garantisce la validità della conoscenza umana e l’efficacia dell’azione umana sul mondo. Non bisogna dimenticare che Cartesio ha elaborato la sua metafisica come fondamento e giustificazione della fisica. Ecco, per Cartesio, che cos’è l’anima umana: res cogitans, puro pensiero! Se ricordate per Agostino – ma, in generale, per tutto il pensiero cristiano – l’uomo non è solo pensiero, ragione, ma anche altre cose: volontà, amore, tensione spirituale verso Dio... Con la sua operazione Cartesio riduce l’essere umano, nella sua essenza, a pura e semplice razionalità. Correlativamente, di fronte a un uomo così ridotto, per la prima volta appare il mondo oggettivo della scienza.

Il ragionamento di Cartesio venne ampiamente criticato e, in effetti, la sua operazione è filosoficamente piuttosto ingenua: noi non ne parliamo, sarebbe piuttosto complesso. Qui, di fatto, al rigore della filosofia Cartesio antepone la fondazione del metodo della scienza, ovvero ciò che più gli interessa. Ma procediamo: il principio del cogito non mi rende sicuro se non della mia esistenza. Ciò che primariamente e certamente esiste è l’io, la cosa pensante: res cogitans. Su tutto il resto continua a gravare l’ipotesi del genio maligno! Vediamo: io sono un essere pensante che ha idee, sono sicuro che queste esistono nel mio pensiero, ma non so se a queste idee corrispondano realtà effettive fuori di me o meno. Le cose percepite dai sensi certamente esistono nel mio spirito, ma esistono anche fuori di me? Cartesio, per rispondere a questa domanda, divide in tre categorie tutte le idee: quelle che sembrano essere innate in me, quelle che mi sembrano estranee o venute dal di fuori, avventizie, e quelle formate o trovate da me stesso, fattizie. Alla prima classe corrispondono le idee di Dio, di verità, di pensiero; alla seconda le idee delle cose naturali; alla terza le idee delle cose chimeriche o inventate. Ora, per scoprire se qualcuna di queste idee corrisponde ad una realtà esterna non c’è altro da fare che chiedersi la possibile causa di esse. Le idee che rappresentano uomini e cose naturali non hanno nulla di così perfetto che non possa essere stato inventato da me. Ma è difficile supporre che io possa aver creato l’idea di Dio, infatti io sono privo di tutte quelle perfezioni che quell’idea rappresenta e la causa di un’idea deve essere perfetta almeno quanto l’idea. La causa dell’idea di una sostanza infinita non posso essere io, che sono una sostanza finita. Questa causa deve essere una sostanza infinita e deve pertanto essere ammessa come esistente. Questa è la prima prova dell’esistenza di Dio fornita da Cartesio. In secondo luogo l’esistenza di Dio si può dimostrare anche a partire dalla mia natura evidentemente imperfetta, come dimostra il fatto che dubito. Ma se fossi causa di me stesso mi sarei dato tutte le perfezioni che concepisco e che sono appunto contenute nell’idea di Dio. È chiaro, dunque, che non posso essermi creato da solo e che non può avermi creato che Dio, che mi ha creato finito pur dandomi l’idea dell’infinito. Questa è la seconda dimostrazione dell'esistenza di Dio.

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A queste due "prove", Cartesio aggiunge la tradizionale prova ontologica (quella di Anselmo d'Aosta). Non è possibile, secondo questa prova, concepire Dio come essere sovranamente perfetto senza ammettere la sua esistenza. Perché? L’esistenza è proprio una delle necessarie "perfezioni" di Dio: egli dunque "non può" non esistere! L’esistenza di Dio è richiesta, secondo Cartesio, dalla stessa durata della mia esistenza, giacché tutto ciò che non ha causa in se stesso cesserebbe di esistere qualora la sua causa non continuasse incessantemente a crearlo. La creazione è continua. Una volta riconosciuta l’esistenza di Dio, il criterio dell’evidenza trova finalmente la sua garanzia! Dio, essendo perfetto, non può ingannarmi. La facoltà di giudizio, che ho ricevuta da Lui, non può essere tale da indurmi in errore, se viene adoperata rettamente. Tutto ciò che appare chiaro ed evidente deve essere vero, perché Dio lo garantisce come tale. Dio è quel terzo termine che ci permette di passare dalla certezza del nostro io alla certezza delle altre evidenze. Ma allora com’è possibile che l’uomo, come spesso capita, si sbagli? L’errore dipende dal concorso di due cause, cioè dall’intelletto e dalla volontà. L’intelletto umano è limitato, ma la sua volontà è libera e, quindi, è assai più estesa dell’intelletto. La volontà può decidere sia rispetto alle cose che l’intelletto presenta con chiarezza sia rispetto a quelle che non sono evidenti. Nella possibilità della volontà di affermare o negare ciò che l’intelletto non coglie distintamente risiede la possibilità dell’errore. L’errore non ci sarebbe mai se io dessi il mio giudizio solo intorno a ciò che l’intelletto mi fa conoscere con sufficiente chiarezza. La volontà libera può contravvenire a questa regola. Io potrò anche indovinare per caso, ma anche in questa situazione avrei usato male la mia libertà. L’errore dipende unicamente dal libero arbitrio che Dio ha dato all’uomo e si può evitare solo attenendosi alle regole del metodo e in primo luogo a quella dell’evidenza. L’evidenza, avendo ormai ottenuto ogni garanzia, consente di eliminare il dubbio che era stato avanzato in principio sulle cose corporee. Io ho un’idea di cose corporee esterne a me e tale idea è evidente. APPROFONDIMENTO Anche il discorso cartesiano su Dio è stato tradizionalmente accusato di circolo vizioso, poiché il filosofo pretenderebbe di dimostrare Dio per mezzo dell’evidenza e l’evidenza per mezzo di Dio. Egli inoltre invocherebbe Dio per giustificare ciò che, in fondo, ritiene già vero prima e indipendentemente da Dio: il criterio generale dell’evidenza e le evidenze particolari. In tal modo la funzione di Dio all’interno del conoscere finisce per essere inutile o pleonastica. Per giustificare che l’acqua bolle a cento gradi o che il sole splende è proprio necessario ricorrere a Dio? Cartesio, difendendosi, afferma che Dio è garante non tanto della verità quanto della sua permanenza. Così il suo richiamo alla divinità risulta anche epistemologicamente pericoloso perché rischia di dogmatizzare ed eternizzare le verità umane, andando contro la metodologia della rivoluzione scientifica, la quale afferma che una cosa è vera in quanto e finché risulta verificata e non perché è garantita metafisicamente e per sempre da qualche principio superiore. Le prove fornite dal filosofo francese sull’esistenza di Dio sono per lo più apparse fragili.

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6. IL DUALISMO CARTESIANO

Riassumiamo: vi è la sostanza infinita e perfetta di Dio, Dio che ha creato l’universo, a sua volta costituito da due tipi di sostanze, ben distinte l’una dall’altra: 1. La sostanza pensante, res cogitans, l’io degli esseri umani, la loro anima. L’anima

ha caratteristiche sue proprie: è semplice, inestesa, libera. 2. La sostanza estesa, res extensa, ovvero la materia. Anche la materia ha sue proprie

caratteristiche, opposte a quelle dell’anima: essa è estesa (ovvero possiede larghezza, lunghezza, profondità) ed è meccanicamente determinata: in essa non vi è libertà alcuna!

Qui Cartesio mostra in pieno il suo essere uno scienziato: anch’egli fa sua la distinzione già stabilita da Galileo (e, molto prima di lui, da Democrito) fra le determinazioni quantitative, che sono determinazioni reali, e determinazioni qualitative (colore, sapore, odore, ecc.) che non esistono come tali nella realtà. Cartesio, insomma, spezza la realtà in due zone distinte, costituendo il famoso dualismo cartesiano: la sostanza pensante che è inestesa, consapevole e libera da un lato; la sostanza estesa che è spaziale e meccanicamente determinata dall’altro. A questo punto Cartesio deve però spiegare il rapporto fra queste due sostanze. Cartesio ricorre alla teoria della ghiandola pineale (l’odierna epifisi) che essendo la sola parte del cervello che non è doppia può unificare le sensazioni che vengono dagli organi di senso che sono tutti doppi. I pensatori successivi cercheranno di sciogliere il dualismo in modo differente, trovando questa soluzione come pseudo-filosofica e pseudo-scientifica.

6. LA FISICA [SOLO DA LEGGERE!] Nella fisica Cartesio studia il mondo della natura come campo dell’estensione, del movimento e della necessità meccanica. La fisica cartesiana procede in modo deduttivo, poiché parte da alcuni principi di base e procede costruendo sulla loro scorta l’intero sistema della natura. Per questo motivo gli illuministi la definiranno “fisica da tavolino”. Cartesio ritiene che la prima causa del movimento sia Dio stesso, che ha creato la materia con una determinata quantità di quiete e di moto, quantità cher Egli conserva immutata. Dio infatti è immutabile non solo in se stesso, ma in ogni sua operazione. Da questo principio, detto della “immutabilità divina”, Cartesio trae le leggi fondamentali della sua fisica. Dall’immutabilità divina segue come prima legge di natura il principio di inerzia: ogni cosa persevera sempre nel medesimo stato (di quiete o di moto), stato che non può essere mutato se non tramite una causa esterna. La seconda legge è che ogni cosa tende a muoversi (se non influenzata da una causa esterna) in linea retta. La terza è il principio della conservazione del movimento, per cui nell’urto dei corpi tra di loro il movimento non viene perduto, ma la sua quantità rimane costante. Queste tre leggi, a parere di Cartesio, bastano a spiegare tutti i fenomeni della natura e la struttura dell’universo. L’universo è una macchina gigantesca, da cui è esclusa ogni forza animata ed ogni causa finale. Come Bacone, anche Cartesio ritiene che il

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finalismo della natura abbia senso nell’etica, ma che sia ridicolo e stupido nel campo della fisica. È atto di superbia immaginare che tutto sia stato creato da Dio per l’esclusivo vantaggio dell’uomo. L’universo si è formato da un caos iniziale. La materia primitiva era composta di particelle uguali in grandezza e movimento. Tali particelle si muovevano sia rispetto il loro centro sia l’una nei confronti dell’altra, in modo da formare dei vortici fluidi che, componendosi variamente fra di loro, hanno dato origine al sistema solare e quindi alla terra. Anche le piante e gli animali e lo stesso corpo umano sono un puro meccanismo. Per spiegare la vita dei corpi organici non serve un’anima vegetativa o sensitiva, ma bastano le stesse forze meccaniche che agiscono nell’universo. Cartesio vede nella circolazione del sangue una conferma di questo fatto. La fisica di Cartesio, con le sue pretese di derivare tutto da tre principi e questi da uno unico, non si rivelò suscettibile di grandi sviluppi. La strada maestra della scienza passa da Galileo e Newton, che hanno assai meno di Cartesio la preoccupazione dell’unità del sapere scientifico e danno una parte più larga all’esperienza e alle nuove possibilità che essa presenta. Si deve però osservare che la fisica è stata indirizzata da Cartesio nella direzione del più rigoroso meccanicismo. Inoltre la filosofia di Cartesio ha stabilito un principio di divisione tra il lavoro della scienza e quello della filosofia. La filosofia ha punto di partenza nel cogito ergo sum, che è spiritualità, interiorità, libertà. La scienza deve intendere invece il meccanismo del mondo esteso, che è pura necessità. Anche nelle ricerche scientifiche particolari il contributo di Cartesio non è stato grande.

7. LA MATEMATICA [SOLO DA LEGGERE!]

- Molto più importante è l’opera di Cartesio nel campo delle matematiche. Egli, in primo luogo, perfezionò il simbolismo algebrico introducendo l’uso degli esponenti e indicando le incognite con le lettere x, y, z… Potendo così adoperare la potenza dell’incognita il calcolo algebrico ebbe notevoli sviluppi. A parte l’ = (al posto del quale egli utilizzava l’attuale simbolo di infinito), i simboli usati da Cartesio sono quelli tuttora in uso. Il grande merito di Cartesio è, poi, la creazione della geometria analitica. La corrispondenza fra numeri e costruzioni grafiche risale ai pitagorici. Cartesio la estese e ne fece la base di una nuova disciplina, appunto la geometria analitica. Per primo si avvide che ad una retta corrisponde sempre una equazione di primo grado, che una circonferenza o una parabola corrispondono ad una equazione di secondo grado... L’impulso dato in Francia da Cartesio alle matematiche subì un ulteriore incremento per opera del suo rivale e contemporaneo Fermat (1601 – 1665). Fermat è un tecnico delle matematiche che studia un certo numero di problemi cercando di risolverli ognuno col metodo più appropriato, senza preoccuparsi di ricondurli a un fondamento unico e assoluto. Quando, nel 1637, Cartesio pubblicò la sua Geometria, Fermat aveva per conto suo scoperto già quasi tutti i risultati che lo scritto cartesiano conteneva.

8. LA MORALE E LO STUDIO DELLE PASSIONI

Nella terza parte del Discorso sul metodo, prima di iniziare col dubbio l’analisi metafisica, Cartesio aveva stabilito alcune regole di morale provvisoria, destinate a

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evitare che egli rimanesse “irresoluto nelle sue azioni mentre la ragione lo obbligava ad esserlo nei suoi giudizi”. La prima regola provvisoria è quella di obbedire alle leggi e ai costumi del paese, conservando la religione tradizionale e regolandosi in tutto secondo le opinioni più moderate e lontane dagli eccessi. L’atteggiamento di Cartesio è dunque caratterizzato dal rispetto verso la tradizione religiosa e politica. La seconda massima era quella di essere il più fermo e risoluto possibile nell’azione e di seguire con costanza anche l’opinione più dubbiosa, una volta che fosse stata accettata. Anche questa regola è suggerita dalle necessità della vita, che molte volte obbligano ad agire in mancanza di elementi sicuri e definitivi. La regola perde carattere provvisorio se la ragione è già entrata in possesso del suo metodo. La terza regola era di cercare di vincere se stessi piuttosto che la fortuna e di cambiare i propri pensieri più che l’ordine del mondo. Cartesio ritenne costantemente che nulla è interamente in nostro potere tranne i nostri pensieri, i quali dipendono solo dal nostro libero arbitrio.

“Non c’è niente che ci impedisca di essere contenti tranne il desiderio, il rimpianto o il pentimento: ma se facciamo sempre tutto ciò che ci detta la nostra ragione, non avremo mai alcun motivo di pentirci anche se gli avvenimenti ci mostrino in seguito che ci siamo ingannati senza nostra colpa. […] per aver sempre seguito il consiglio della nostra ragione, nulla abbiamo omesso di ciò che era in nostro potere, e che le malattie e gli infortuni non sono meno naturali per l’uomo che la prosperità e la salute”.

Un piccolo vaso può essere pieno allo stesso modo di uno grande. Se ciascuno pone la propria soddisfazione nel compimento dei desideri regolati dalla ragione, anche il più povero e il meno favorito dalla fortuna e dalla natura potrà essere contento e soddisfatto. A questa morale provvisoria Cartesio, preso dai prevalenti interessi metafisici e scientifici, non farà mai seguire una morale definitiva. Nel suo scritto Le passioni dell’anima Cartesio distingue nell’anima azioni e affezioni: le azioni dipendono dalla volontà, mentre le affezioni sono involontarie e sono costituite da percezioni, sentimenti o emozioni causate nell’anima dagli spiriti vitali, cioè dalle forme meccaniche che agiscono sul corpo. La “debolezza” dell’anima consiste nel lasciarsi dominare dalle emozioni. Ma attenzione: ciò non significa che le emozioni siano sostanzialmente nocive. Esse hanno, infatti, la funzione naturale di incitare l’anima ad acconsentire e a contribuire alle azioni che servono a conservare il corpo e a renderlo più perfetto. In questo senso la tristezza e la gioia sono le emozioni fondamentali. Dalla prima l’anima è avvertita delle cose che nuocciono al corpo, prova odio per esse e desidera liberarsene. Dalla gioia l’anima è avvertita delle cose utili al corpo e quindi prova amore per loro. Alle emozioni va tuttavia congiunto uno stato di servitù da cui l’uomo deve tendere a liberarsi. Esse fanno quasi sempre apparire il bene e il male che rappresentano assai più grandi e importanti di ciò che realmente sono. L’uomo deve per quanto possibile lasciarsi guidare non dalle emozioni, ma dall’esperienza e dalla ragione. Solo così potrà distinguere bene e male nel loro giusto valore ed evitare gli eccessi. In questo dominio sulle emozioni consiste la saggezza. Proprio questo dominio è il tratto saliente della morale cartesiana.

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prof. Monti – classe IV – a.s. 2016/2017 – brevi note su G. W. Leibniz

GOTTFRIED WILHELM LEIBNIZ (brevi note)

1646 – 1716

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1. VITA E SCRITTI La dottrina razionalistica di Baruch Spinoza, che non abbiamo trattato, è una filosofia dell’ordine geometrico del mondo: tutto ciò che accade è necessario, non c’è posto alcuno per il caso o per la libertà. Leibniz, pur affermando con altrettanta energia l’ordine del mondo e la fondamentale importanza della ragione (anche egli, dunque, può essere definito un “razionalista”, proprio come Cartesio e Spinoza, anche se occorre non legarsi troppo a queste “etichette”!), vede in esso una libera creazione di Dio, una scelta libera dunque, e compie un prodigioso sforzo atto a conciliare il meccanicismo con il finalismo. Leibniz era un uomo della sintesi come, a loro modo, anche Cartesio e Spinoza: il suo tentativo di estrema ambizione abbraccia tutti i possibili campi del sapere nel segno di una conciliazione fra la nuova scienza meccanicistica e le verità fondamentali della religione cristiana. Leibniz è unanimemente considerato l’ultimo, grandioso esempio di genio universale: dedicandosi ai campi di disparati – egli fu filosofo, matematico, fisico, ingegnere, storico, ma anche giurista, diplomatico, glottologo e persino magistrato – tenne sempre fede alla sua ambizione di sintesi. In definitiva, il suo tentativo fallirà – pur dando frutti straordinariamente fecondi e duraturi (inventore del calcolo infinitesimale, precursore dell’informatica e dell’intelligenza artificiale, ma anche di fondamentali concetti della psicologia scientifica come quello di “inconscio”), ancora oggi assai influenti – e Leibniz stesso, forse il più grande intellettuale dell’intera epoca moderna, morirà solo, abbandonato da tutti. Leibniz nacque a Lipsia, nel 1646, dove rimane orfano a soli sei anni di età. Da autodidatta e di propria iniziativa apprende il latino nei testi rinvenuti nella biblioteca paterna, affronta lo studio della matematica e della filosofia scolastica. Non ancora quattordicenne si iscrive all’università di Lipsia, ottiene la laurea in filosofia due anni dopo, prosegue poi gli studi a Jena, dove si laurea in matematica e in giurisprudenza. Indeciso se restare fedele alla “vecchia cultura” o dedicarsi interamente alla nuova scienza, Leibniz decide di stare nel mezzo, credendo di poter realizzare una loro conciliazione. All’anno 1666 risale il suo scritto De arte combinatoria, geniale trattato di logica matematica e primo esito di uno dei progetti cui si dedicherà per tutta la vita: l’invenzione di una lingua universale in grado di esprimere tanto la realtà quanto il sapere che la riguarda in termini rigorosamente logici e matematici, in modo da evitare ogni possibile fraintendimento o dubbio.

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Pur continuando ad attendere ai suoi studi, Leibniz inizia una carriera in ambito diplomatico. Si trova presto coinvolto in importantissime questioni di carattere politico e culturale: dal piano di unificazione di tutte le chiese cristiane, alla tentata organizzazione di una nuova crociata contro i Turchi, fino alla promozione della scienza tramite la creazione di numerosi istituti di ricerca. Nel 1672, Leibniz viene addirittura inviato a Parigi, presso Luigi XIV, nel tentativo di convincere il sovrano francese a desistere dalla progettata guerra di invasione nei confronti dell’Olanda (suggerendo al re di attaccare i suoi domini coloniali in Egitto). Leibniz ebbe anche modo di conoscere personalmente Spinoza e di leggere – e annotare minutamente – la sua celebre Etica. Perplessità destarono in lui le nozioni dell’unicità della sostanza, la negazione che Dio abbia intelletto e volontà, l’abolizione delle cause finali. Tra il 1675 e il 1676 Leibniz elabora la teoria del calcolo differenziale ed integrale (a lui fra l’altro, si deve l’utilizzo del termine “funzione”), pubblicando però le sue scoperte solo nel 1684. Alla fine del 1676, diviene bibliotecario del duca di Hannover, lavorando per questa casata come storico, compiendo numerosi viaggi per ricostruire la storia della dinastia Hannover. Nel 1692, anche grazie a Leibniz, il duca ottenne la carica di Grande Elettore. Verso la fine del ‘600 Leibniz è ormai celebre e può vantare (forse) l’acquisizione di un titolo nobiliare, incarichi di grandissimo prestigio, numerosissimi titoli accademici, una corrispondenza fittissima con i più importanti filosofi e scienziati dell’epoca. Nonostante i moltissimi impegni, Leibniz continuò le sue ricerche che restano affidate a frammenti inediti, saggi incompiuti e anche all’immenso epistolario. Citiamo il Discorso di metafisica (1685), I nuovi saggi sull’intelletto umano (1704), i Saggi di teodicea (1710) e la Monadologia (1714). Gli ultimi anni della sua vita non furono felici e fortunati. Nel 1699 due allievi di Newton accusarono Leibniz di plagio relativamente all’invenzione del calcolo differenziale e integrale. La polemica fra i due scienziati fu assai aspra, ma Leibniz si trovò privo di appoggi politici, soprattutto da parte del duca di Hannover, divenuto re di Inghilterra (Giorgio I) nel 1714, e si scoprì isolato. Alla sua morte, nel 1716, Leibniz era ormai solo: nessuno ritenne di doverne commemorare la scomparsa, neppure l’Accademia delle scienze di Berlino, da lui fondata.

2. L’ORDINE DEL MONDO È, preventivamente, opportuno un piccolo confronto fra Leibniz e Newton, per mettere in luce le differenti personalità dei due grandi scienziati.

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Le scoperte matematiche e fisiche di Newton furono suggerite dallo studio di problemi particolari e non da una prospettiva filosofica unitaria: Leibniz, a sua volta matematico e fisico, tende invece a inquadrare queste discipline in un sistema che va ben al di là della portata teorica e pratica di queste singole discipline. Anche per Leibniz, come già per Spinoza, occorre ammettere l’esistenza di un ordine complessivo che regge l’intero universo, in tutti i suoi aspetti. Non si tratta però di un ordine geometricamente determinato e quindi necessario, ma di un ordine spontaneamente organizzato, quindi libero. Il concetto di questo ordine è espresso da Leibniz nel Discorso di metafisica:

“Nulla accade nel mondo che sia assolutamente irregolare e non si può neppure immaginare nulla di simile...”

Se qualcuno si trovasse, per esempio, a segnare a caso su un foglio di carta dei punti, sarebbe sempre e comunque possibile trovare una linea geometrica (cioè un’equazione) la cui nozione sia costante ed uniforme che li tocca tutti.

“...Così si può dire che in qualunque modo Dio avesse creato il mondo, il mondo sarebbe stato sempre regolare e fornito di un ordine generale”

Per Spinoza c’è un solo ordine, univoco e necessario, che è Dio stesso (cioè, come abbiamo visto, ciò che lui chiama Sostanza). Per Leibniz c’è invece sempre e solo la possibilità di rintracciare un ordine (anche se magari, in pratica, non si riesce a farlo!), quali che siano il disordine e la confusione della situazione. Quest’ordine, quale che sia, non è necessitato dall’inizio, ma è sempre frutto di una scelta. Leibniz presenta Dio stesso come colui che ha scelto tra gli infiniti ordini possibili dell’universo il migliore, il più perfetto. Questo è ciò che Leibniz cercò di riconoscere in tutti i campi della realtà.

3. LA “CARATTERISTICA UNIVERSALE” Ordine, regolarità, senso, verità: spesso, però queste cose non sono affatto semplici da trovare! Nel giovanile scritto De arte combinatoria, Leibniz già critica il criterio cartesiano dell’evidenza. Esso, infatti, si riferisce ad una certezza di carattere psicologico, dunque soggettivo, e non logico, universale. Una cosa può apparire evidente a me, ma questo, di per sé, non significa che lo stesso valga per tutti! Occorre, invece, trovare quelli che sono i caratteri oggettivi della verità: questo è quanto la logica consente, logica vista però non solo come disciplina astratta, come accadeva nella tradizione, ma come applicabile alla costruzione di un sapere pratico, progressivo, verificabile nell’esperienza. La logica, insomma, deve spostarsi dal mondo astratto dei concetti puri a quello della realtà. In che modo?

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1. Serve creare una lingua universale – la cosiddetta characteristica universalis – un sistema algebrico capace di rendere possibile, attraverso calcoli, la verifica di ogni tipo di affermazione riguardante ogni aspetto della realtà.

2. L’invenzione di una arte combinatoria – ars inveniendi – capace, partendo da eventi noti, di scoprire nuove relazioni fra loro.

3. La costruzione di una enciclopedia del sapere matematicamente fondata. Un’ipotesi ben precisa sostiene la possibilità della creazione di una caratteristica universale: la convinzione che il pensiero e la realtà siano composti da elementi semplici che, combinandosi fra loro, producano tutti i pensieri complessi e tutte le cose esistenti. Cosa vuol dire conoscere la realtà? Vuol dire scomporla nei suoi elementi primi (analisi), elementi dai quali derivare poi (sintesi) l’infinita serie delle relazioni possibili fra essi. Pensate all’alfabeto, come esempio: con un numero di lettere relativamente piccolo è possibile creare discorsi di qualsivoglia complessità, basta combinare le lettere fra loro, in modi sempre più lunghi e complessi. Ecco: ma quali dovrebbero essere i caratteri, le lettere, gli elementi semplici di questa lingua universale? Leibniz valutò diverse possibilità, per soffermarsi sui numeri, in particolare i numeri primi, e i segni dell’algebra. Leibniz non riuscirà mai a creare questa lingua universale, né ci riuscirà qualcuno dopo di lui. Quali sono gli elementi primi? Secondo quali regole si combinano? A tutt’oggi, non conosciamo alcuna risposta. Forse non esiste alcuna risposta... Nonostante ciò, le intuizioni di Leibniz saranno riprese da numerosi matematici contemporanei, circa due secoli dopo la sua morte (in particolare da Kurt Godel, da molti considerato il più grande matematico del ‘900) con un processo noto come aritmetizzazione, che è stato utilizzato per la dimostrazione di importantissimi teoremi in svariati campi della matematica.

4. LE “VERITÀ DI RAGIONE” E LE “VERITÀ DI FATTO” Fondamentali per Leibniz sono le nozioni di NECESSITÀ, ESISTENZA e POSSIBILITÀ. Naturalmente vi sono molte più cose possibili di quante ne esistono realmente. Se noi possedessimo la caratteristica universale, cioè se sapessimo quali sono gli elementi primi / fondamentali del pensiero e se conoscessimo tutte le regole di combinazione / calcolo fra questi elementi, allora potremmo teoricamente prendere in considerazione e arrivare a conoscere non solo tutte le cose esistenti, nel pensiero e nel mondo, ma anche tutte quelle possibili. Noi potremmo sapere tutto quanto Dio stesso conosce: l’universo realmente esistente, quello che lui ha scelto liberamente di creare, e anche tutti gli infiniti universi possibili. Immaginate due giocatori di scacchi all’inizio di una partita, prima che entrambi abbiano effettuato la loro prima mossa. Come si svolgerà la partita? Non siamo in grado si stabilirlo a priori: le possibili partite sono infinite, né ci sono mosse necessarie. Alla fine, a conclusione della partita, ci sarà stata la vittoria di uno dei contendenti oppure un pareggio. Ora sappiamo come la partita, quella reale, si è svolta: è una ed una sola. Il reale è solo una minuscola, infinitesima, parte del possibile.

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- La necessità invece, secondo Leibniz, trova posto nel mondo della logica, non in quello del reale. Un ordine reale non è mai necessario. Le cosiddette verità di ragione sono tutte le affermazioni non solo vere, ma anche necessarie: questo significa che il loro opposto è impossibile. Esse sono fondate sul principio di identità, il quale afferma che “ogni cosa è ciò che è”, e sul principio di non contraddizione. Le verità di ragione sono per forza vere, nel senso che sono logicamente possibili, che non è insita in esse contraddizione alcuna, ma questo non significa affatto che si riferiscano a qualcosa di realmente esistente. Buoni esempi sono le proposizioni della matematica. Un teorema, date certe premesse (dalle quali esso viene dedotto), è per forza vero: ciò che in esso funge da predicato non fa che esplicitare ciò che è già implicitamente presente nella nozione di ciò che in esso funge da soggetto. Esempio banale: date certe premesse (la serie dei numeri naturali e la sua struttura), è per forza vero che “2 + 2 = 4”: e in effetti “2+2” (soggetto) è solo un modo diverso di esprimere “4” (predicato). Le cosiddette verità di fatto, invece, sono di un altro genere. Partiamo con un semplice esempio: l’enunciato “Giulio Cesare attraversò il Rubicone” è una verità di fatto e non di ragione perché il suo contrario (“Giulio Cesare non attraversò il Rubicone”) sarebbe stato comunque possibile! Notate, inoltre, che in questo caso il predicato (“attraversò il Rubicone”) aggiunge al soggetto (“Giulio Cesare”) qualcosa che non era già implicito nella nozione di Cesare stesso. Ancora: “Giulio Cesare attraversò il Rubicone” e “Giulio Cesare non attraversò il Rubicone” sono entrambe affermazioni possibili, ma solo una di esse descrive ciò che realmente accadde. Ecco che le verità di fatto sono regolate non dai principi di identità e di non contraddizione, ma dal principio di ragion sufficiente: ogni evento realmente accaduto deve avere in sé una ragione sufficiente, ovvero qualcosa che permetta di spiegare il perché accadde così e non in un altro modo, perché accadde questo e non quello. Ora: perché Cesare attraversò il Rubicone? Detto in altre parole, quale fu la ragione sufficiente di tale attraversamento? Forse Cesare voleva cogliere di sorpresa Pompeo, forse perché in questo modo riteneva di non perdere la propria superiorità miliare, forse era guidato dall’ambizione... Le possibili ragioni sono infinite e noi potremmo anche non conoscere affatto quale o quali furono quelle che effettivamente mossero Cesare all’azione. Potremmo anche non conoscere la/le ragione/i, è vero, ma ciò nonostante una o più ragioni, tali da essere sufficienti, devono esistere. Perché? Perché nulla avviene a caso: tutto ciò che accade può essere, almeno in linea teorica, spiegato. Per Leibniz il caso non esiste. Approfondimento (solo per i più curiosi!) Certo, la cosa è assai problematica: proviamo ad accennare una spiegazione continuando a riferirci all’esempio di Cesare. Anche la ragione sufficiente dell’attraversamento del Rubicone – poniamo che si tratti dell’ambizione di Cesare – a sua volta deve essere spiegata: perché Cesare era così ambizioso? Ma anche questa ulteriore ragione deve avere una sua ragione sufficiente... e così via! Ecco: noi esseri umani non conosciamo l’intera serie delle cause che determinano un evento qualsiasi. Questo è di fatto impossibile. Ma se noi non possiamo

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conoscere l’intera catena delle ragioni, in che senso la ragione o le ragioni da noi individuate sono sufficienti? Noi vediamo ciò che accade, una cosa qualsiasi, e diciamo: “è andata così, ma poteva andare altrimenti” e aggiungiamo “ma se è andata così, deve esserci una ragione che costituisca una spiegazione valida e completa di quanto è accaduto.”. Insomma: abbiamo visto accadere un fatto e, visto che tutto ciò che accade deve avere una causa, anche questo fatto deve averne una, ma una spiegazione valida e completa di tale causa non è alla nostra portata: non lo è mai. Oltre un certo punto la nostra analisi non può andare e si ferma. Dal punto di vista di Dio le cose stanno diversamente: lui conosce perfettamente la serie delle cause che condussero Cesare ad attraversare il Rubicone, risalendo da Cesare stesso sino all’istante iniziale della Creazione. Ma in tutto questo cosa c’è mai di libero, di contingente, di non necessario? In effetti, c’è una sola cosa: la scelta iniziale di Dio. Il primo anello della catena causale, l’unico anello a non essere legato ad un anello precedente, l’unico a non essere vincolato, ma liberamente scelto. A questo punto, però, ricordiamo che Dio stesso non sceglie affatto a caso, ma per una ragione: Leibniz ritiene che Dio abbia scelto di creare il migliore fra tutti i mondi possibili. Avrebbe potuto fare una scelta diversa, avrebbe potuto selezionare fra gli infiniti mondi possibili un mondo meno perfetto? Sì, certo, ma, essendo Dio infinitamente saggio e buono, non avrebbe mai agito diversamente da come di fatto ha agito. Appare qui evidente una certa paradossalità nel tentativo di Leibniz di conciliare le cause meccaniche – alle quali, in quanto scienziato, mai avrebbe potuto rinunciare – con la sua esigenza di libertà. Pare che, per Dio, ogni verità sia una verità di ragione. Del resto: un ordine – qualcosa quindi che, per definizione, siamo in grado almeno teoricamente di prevedere – può davvero essere libero? La questione è assai problematica.

5. IL PRINCIPIO DI CONTINUITÀ E LA FISICA DI LEIBNIZ La realtà è retta da un ordine libero e, tuttavia, regolare e determinabile. L’ordine ad avviso di Leibniz presuppone la continuità. In tutti i campi si può riconoscere continuità, e dunque un ordine, purché si sia in grado di prendere in considerazione le differenze minime, o infinitesime. La legge di continuità di Leibniz stabilisce che la natura non fa mai salti, ma in tutte le sue manifestazioni, in tutti i suoi passaggi, si manifesta sempre tramite infiniti passaggi intermedi. Questo vale in matematica – ed ecco l’invenzione del calcolo infinitesimale, utile appunto alla considerazione matematica di grandezze infinitesime, cioè infinitamente piccole – ma anche in fisica classica (esempio: un oggetto che si sposti dalla posizione a alla posizione b occupa, successivamente, infinite posizioni intermedie) e persino quando si prenda in considerazione l’essere umano e la sua natura. La metafisica di Leibniz è preparata da un grande rinnovamento della fisica. In effetti, anche in questo ambito Leibniz cerca di conciliare il determinismo meccanico delle scienze con il libero finalismo della religione.

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Leibniz giunse a rifiutare l’atomismo, allora abbastanza diffuso, proprio in virtù della legge di continuità da lui propugnata. La materia si può dividere all’infinito: gli atomi non sono altro che comode astrazioni operate dalla nostra mente, utili alla considerazione matematica dei fenomeni stessi, ma inadeguate alla realtà. Si tratta insomma di enti di ragione e non di enti reali. Al fondo, a fondamento, della natura non ci sono gli atomi e non ci sono neppure delle leggi matematiche. La prima ipotesi si ferma all’inganno indotto dall’apparenza delle sostanze corporee e dalla debolezza dei nostri sensi – che ci fanno apparire unitario ciò che unitario non è, ma che, in realtà, è infinitamente divisibile – mentre la seconda è vittima dell’astrazione che, per quanto precisa possa essere, non riesce mai a dar conto del reale accadere dei fenomeni. Vediamo la cosa in termini più concreti. Uno dei principi della fisica cartesiana era la conservazione della quantità di movimento (che veniva espressa come prodotto della massa di un corpo per la sua velocità). Ma se è così come si spiega il passaggio dalla quiete al movimento, o viceversa? La questione va posta in termini diversi. Tanto il movimento, quanto lo spazio e il tempo (come sapete, necessari per la misura del movimento stesso in termini di velocità, direzione e verso, accelerazione...), ad avviso di Leibniz, sono privi di una loro realtà sostanziale. Lo spazio, e dunque l’estensione materiale, non è una realtà sostanziale perché divisibile all’infinito. Tempo e moto, a loro volta, non lo sono perché dipendono dall’osservatore, ovvero dal suo punto di vista. Tutto viene ricondotto da Leibniz al concetto di forza (la stessa materia, a suo avviso, altro non è che forza, energia): solo essa ha una realtà sostanziale (vedremo di cosa si tratta) e, in quanto tale, si conserva. Non sono lo spazio ed il tempo, come Newton riteneva e come per molto tempo si credette, ad essere i parametri assoluti della realtà. Leibniz, in questo modo, anticipa genialmente le critiche che Einstein con la sua teoria della relatività – speciale e generale – porterà ai principi della fisica classica. Il movimento non è reale di per se stesso, come non lo sono lo spazio e il tempo che devono piuttosto essere considerati come enti di ragione. La forza è invece la vera realtà dei corpi. Il concetto di forza serve a Leibniz per oltrepassare il meccanicismo nella spiegazione dei fenomeni naturali. Egli ammette che tutto in natura si spieghi meccanicamente, ma ritiene che i principi stessi della meccanica e le leggi del movimento nascano da qualcosa di superiore, che dipende piuttosto dalla metafisica. È appunto la forza questo superiore principio metafisico. Leibniz distingue la forza passiva (quella che oggi la fisica chiama “energia statica”), che costituisce la massa di un corpo, dalla vera e propria forza o forza attiva (la nostra “energia cinetica”), che è la tendenza all’azione. La stessa massa materiale, ridotta a forza passiva, non è più nulla di corporeo. Sicché l’ultimo risultato della fisica di Leibniz è la risoluzione della realtà fisica in una realtà incorporea: il medesimo risultato viene proposto, oggi, da numerose teorie fisiche. L’elemento costitutivo del meccanismo, riconosciuto nella forza, si rivela essere di natura “spirituale”. Il dualismo cartesiano di sostanza estesa e sostanza pensante viene così negato, giacché nell’universo non esiste veramente né estensione né corporeità né materia: tutto è spirito e vita perché tutto è forza.

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Perché questo? Solo se l’universo è costituito da elementi spirituali, l’ordine che lo caratterizza sarà esso stesso di natura spirituale, cioè non necessario, ma libero.

6. LA SOSTANZA INDIVIDUALE: LE MONADI

La forza incorporea e priva di estensione, principio fondamentale della fisica, a livello metafisico si chiama, naturalmente, sostanza. “Di cosa è fatto l’universo?”: questa domanda è, a tutt’oggi, priva di una risposta che i fisici considerino soddisfacente. La risposta di Leibniz era che l’universo è costituito da infiniti centri di forza (in termini fisici), cioè di sostanze individuali, o monadi (in termini metafisici). Il concetto di “sostanza individuale” viene elaborato da Leibniz dapprima nel Discorso di metafisica del 1686, riferendo solo all’individualità umana. La sostanza individuale è, praticamente, il principio logico della ragion sufficiente elevato ad entità metafisica e cioè ad elemento costitutivo di un ordine contingente e libero. In quello scritto Leibniz aveva anche accennato alla necessità che anche i corpi fisici avessero in sé una “forma sostanziale” che corrispondesse alla sostanza individuale umana, ma non aveva spinto oltre l’analogia. Verso il 1696 egli cominciò ad introdurre la parola ed il concetto di monade. L’acquisizione di questo termine segna la possibilità di Leibniz di estendere al mondo fisico il suo concetto di ordine contingente e di unificare mondo fisico e spirituale in un ordine universale libero. Ricordate che Spinoza ammetteva l’esistenza di un’unica Sostanza divina che, in termini di pura e assoluta necessità, si esplica in attributi e modi. Leibniz, al fine di garantire la libertà e il finalismo, cose che Spinoza rifiutava, ritiene si debbano ammettere infinite sostanze individuali, separate le une dalle altre. Insomma: l’universo non è una monarchia assoluta, in cui tutto dipende dal sovrano, come accade in Spinoza, ma è una immensa repubblica di individui fra loro indipendenti.

Quali sono le caratteristiche delle sostanze individuali, o monadi? Ecco un elenco:

1. Le monadi sono sostanze semplici, cioè non composte da un aggregato di

parti; esse non hanno estensione, né figura, né divisibilità alcuna: sono i veri atomi della natura.

2. Le monadi non possono avere un’origine naturale e una fine naturale: essendo semplici non possono formarsi per composizione (come accade per tutte le cose) né scomparire per dissoluzione. Esse sono direttamente create, ed eventualmente distrutte, da Dio.

3. Ogni monade è diversa da tutte le altre. Ciò significa che non vi sono in natura due esseri del tutto uguali, cioè che non siano caratterizzati da una differenza interiore. Leibniz insiste su questo principio che egli chiama della identità degli indiscernibili. Due cose non possono differire solo localmente (si trovano in posizione diverse) e/o temporalmente (esistono in momenti diversi), ma fra esse c’è sempre anche una qualche differenza interna: due cubi identici esistono solo in matematica, non nella realtà. Gli esseri reali si diversificano sempre per una qualche qualità interiore.

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4. Nella sua individualità irriducibile, la monade implica anche la massima universalità. Ogni monade infatti costituisce un determinato punto di vista sull’universo intero: essa è l’intero universo visto da un determinato punto di vista. Immaginate una immensa città: quanti sono i punti di vista rispetto ai quali è possibile osservarla? Infiniti: questi punti di vista sono, appunto, le monadi.

5. Nessuna monade comunica direttamente con le altre: essa non ha finestre attraverso le quali qualcosa possa uscire o entrare. Le monadi si modificano solo in virtù di un principio interno, in esse ogni mutamento avviene per gradi infinitesimi. Ogni monade, pur essendo priva di parti, consiste in una serie infinita e infinitamente mutevole di stati o di rapporti. Ogni singolo stato monadico è quello che Leibniz chiama percezione. Invece ciò che chiama appercezione, quello che noi chiamiamo autocoscienza, è caratteristica solo delle monadi che costituiscono la sostanza individuale di un essere umano. Come si passa da uno stato all’altro, da una percezione all’altra? Il principio, interno alla monade, che opera il passaggio da una percezione all’altra è l’appetizione.

Le monadi si possono disporre in una sorta di gerarchia, dalle meno perfette alle più perfette. Una monade è tanto più perfetta quanto più chiare e distinte, quanto più consapevoli sono le sue percezioni. Una prima differenza importante: mentre le monadi create rappresentano un singolo punto di vista sull’universo, punto di vista più o meno chiaramente e consapevolmente rappresentato, quella monade suprema che è Dio rappresenta tutti i possibili punti di vista con la massima chiarezza e autocoscienza possibili. Le monadi create non si rappresentano la totalità dell’universo con lo stesso grado di chiarezza: le percezioni delle monadi create sono sempre più o meno confuse, andando dal massimo grado di coscienza possibile (che si ha nell’uomo) fino al vero e proprio inconscio. Tutto è fatto di monadi: la mera materia, le piante, gli animali, l’uomo e Dio stesso è una monade. Naturalmente le infinite monadi che formano anche il più piccolo brandello di materia inanimata - sempre e continuamente divisibile, all’infinito - sono dotate solo di percezioni: il loro grado di consapevolezza è il minimo possibile.

“Ciascuna porzione di materia può essere concepita come un giardino di piante o come uno stagno di pesci. Ma ciascun ramo della pianta, ciascun membro dell’animale e ogni goccia dei suoi umori è ancora un giardino o uno stagno dello stesso genere”

- Monadi più complesse e dunque perfette sono quelle che costituiscono la sostanza individuale, l’anima, degli animali tutti: esse sono dotate di memoria e di un certo grado di autoconsapevolezza, ciò significa che sono dotate anche di appercezioni e non solo di percezioni. - Le monadi create di maggior perfezione sono quelle che costituiscono la sostanza individuale dell’uomo, l’anima umana. Esse, dotate di ragione, del massimo grado di autoconsapevolezza. Ciò, attenzione, non vuol dire che l’uomo abbia solo appercezioni, cioè pensieri e sensazioni dei quali egli è consapevole... Molta parta dell’attività interna della monade che costituisce l’anima umana è costituita da percezioni: questo è l’inconscio, cioè che Leibniz chiama “piccole percezioni”.

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Da un punto di vista rigorosamente metafisico ogni sostanza individuale, ogni monade, non fa che agire: essa in realtà non subisce l’azione di nessun’altra sostanza. Consideriamo uomini e animali: il loro corpo, come tutto ciò che appare materiale, è un aggregato di infinite monadi. Esse però, a differenza di quanto accade per la materia morta, inanimata, sono dominate e, per così dire, tenute insieme, da una monade superiore, quella che costituisce l’anima (dell’animale o dell’uomo). Attenzione: non c’è differenza sostanziale, metafisica, fra le monadi che formano il corpo, dunque la materia, e quella che costituisce l’anima, pure esse seguono leggi indipendenti. I corpi agiscono tra loro secondo leggi meccaniche mentre le anime agiscono secondo le leggi di finalità. Non si può immaginare come il corpo possa influenzare l’anima, o viceversa, quindi bisogna concludere che anima e corpo seguono ognuno la sua legge separatamente. Si ripresenta il problema di spiegare l’accordo fra anima e corpo, anche se in termini differenti da quelli che abbiamo visto emergere con Cartesio. In questo problema si risolve quello più generale della comunicazione fra tutte le monadi che costituiscono l’universo. Tutte le monadi sono perfettamente chiuse in sé e non hanno finestre, come abbiamo visto, non possono comunicare direttamente l’una con l’altra. Nello stesso tempo, però, ognuna è legata all’altra: perché ognuna è un aspetto del mondo, cioè una rappresentazione più o meno chiara di tutte le altre monadi. Le monadi sono come diverse vedute di una stessa città - ricordate? - e come tali si accordano insieme a costituire la veduta totale e complessiva dell’universo, che si trova pienamente espressa e riassunta in quella monade suprema che Dio è. Ma sebbene ogni monade rappresenti l’intero universo, essa rappresenta più distintamente il corpo che le si riferisce particolarmente e di cui costituisce l’entelechia (ovvero la perfezione, la realizzazione piena). APPROFONDIMENTO (FACOLTATIVO) Leibniz distingue tre possibili soluzioni del problema anima - corpo. 1. Se si paragonano l’anima e il corpo a due orologi, il primo modo di spiegare il loro accordo è quello di ammettere l’influenza reciproca. Questa è la dottrina della filosofia volgare, che urta con l’incomunicabilità delle monadi. 2. La seconda maniera Leibniz la chiama dell’assistenza, e che è propria del sistema delle cause occasionali: due orologi anche cattivi possono essere tenuti in armonia da un abile operaio che provveda ad essi in ogni istante. Questo sistema ha, per Leibniz, il torto di introdurre un Deux ex machina in un fatto naturale e ordinario. 3. Resta solo la terza maniera, cioè supporre che i due orologi siano stati costruiti con tanta arte e perfezione da essere sempre in accordo per il futuro. Questa è la dottrina dell’armonia prestabilita sostenuta da Leibniz. Per essa anima e corpo seguono leggi distinte, ma l’accordo è stato stabilito preventivamente da Dio. Questa dottrina è lo sbocco e la conclusione ultima della dottrina di Leibniz, sebbene non sia il suo pensiero centrale e animatore. Per tale dottrina il corpo organico, dell’uomo o degli animali, è una specie di macchina o di automa naturale, le cui manifestazioni non sono affatto influenzate dagli atti spirituali. È

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solo nell’armonia prestabilita che nell’anima di un uomo, o di un animale, entra il dolore quando il suo corpo viene percosso. Leibniz giunge a dire che anche l’anima è una sorta di automa immateriale. Egli deve perciò sostenere un innatismo totale: la monade è tutta innata a se stessa visto che nulla può ricevere dall’esterno. Non solo le verità di ragione e i principi logici su cui essa si fonda sono innati; ma anche le verità di fatto e persino le sensazioni nascono solo dal fondo della monade: dal suo fondo oscuro, fatto dalle piccole percezioni le quali divengono via via, almeno in parte, chiare e distinte. La monade esce dalle mani di Dio compiuta nella sua natura e determinata, sebbene non necessariamente, nei suoi pensieri e nelle sue azioni. Come abbiamo sottolineato anche parlando della distinzione fra verità di ragione e verità di fatto, lo sforzo compiuto da Leibniz per garantire la libertà, limitando il ruolo del determinismo fisico, appare problematico...

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Cos'è l'Empirismo? (brevi note)

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1. L’EMPIRISMO INGLESE Una lunga tradizione, risalente a Hegel, vede in John Locke (1632-1704) il fondatore del cosiddetto “EMPIRISMO INGLESE”. Si tratta di una corrente – proseguita da George Berkeley (1685-1753) e David Hume – che si sviluppa a cavallo fra ‘600 e ‘700 e che in parte si inscrive già nell’atmosfera illuministica, di cui risulta una delle componenti di fondo. Appare mutata l’atmosfera culturale in cui i tre autori citati si muovono rispetto a Cartesio, Spinoza e Leibniz. Sul piano storico/genetico l’empirismo si innesta sulla tradizione del pensiero inglese (da Ruggero Bacone, a Guglielmo di Ockham, a Francesco Bacone: tutti personaggi cui abbiamo in passato fatto cenno) e rappresenta un punto di incontro con il cartesianesimo da un lato, da cui desume concetti e terminologia, e con la rivoluzione scientifica dall’altro, da cui deriva l’appello all’esperienza e una nuova metodologia del sapere. Le seguenti parole illustrano assai bene il principio fondamentale dell'empirismo, converrà dunque considerarle con attenzione: nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu (niente è nell'intelletto che prima non sia stato nei sensi). Questo cosa significa? Vediamo: Nei confronti del razionalismo cartesiano, l’empirismo risulta caratterizzato dal fatto che esso vede nella ragione un insieme di poteri che sono limitati dall’esperienza. Qui il termine "esperienza", che è sempre esperienza che passa attraverso i cinque sensi, viene inteso come: 1) fonte ed origine del processo conoscitivo; 2) come criterio di verità o strumento di certificazione delle tesi dell’intelletto, che risultano valide solo se suscettibili di controllo empirico. Il secondo aspetto, seppure già presente in Locke, viene fatto valere in tutta la sua forza da Hume. Il richiamo costante all’esperienza fa sì che l’empirismo, in antitesi al razionalismo, tenda ad assumere un atteggiamento limitativo o critico nei confronti delle possibilità conoscitive dell’uomo e a seguire un indirizzo antimetafisico. In effetti questa prospettiva antimetafisica è presente in modo esplicito e rigoroso solo in Hume: né Locke né Berkeley, invece, tagliano del tutto i ponti con la metafisica (ricordiamo, per dirlo molto in breve, che la metafisica è quella disciplina appartenente alla tradizione filosofica che pretende di raggiungere una conoscenza assoluta del mondo). Comunque, a cominciare da Locke scaturisce quel concetto della filosofia come analisi del mondo umano, nei suoi vari campi, che sarà proprio dell’Illuminismo, il quale lo farà valere in modo polemico contro la tradizione culturale del passato.

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David Hume 1711 - 1776

2. VITA E SCRITTI

Col restringere la conoscenza umana nei limiti dell’esperienza, Locke non aveva inteso diminuirne il valore. Le aveva anzi riconosciuto, in quei limiti, una piena validità. Hume invece conduce l’empirismo a una conclusione scettica: l’esperienza, che pure è il fondamento di ogni sapere, non è in grado di garantire la piena validità della conoscenza. Questo significa che il sapere non è mai del tutto certo, ma sempre e solo probabile. Hume nacque a Edimburgo, ove studiò giurisprudenza. Dopo un fiacco tentativo come avvocato si recò in Francia, dove rimase tre anni per proseguire gli studi. Stabilì allora il suo piano di vita, come vediamo dalle sue stesse parole: “Risolsi di supplire alla mia fortuna scarsa [si riferisce alle sue non buone condizioni economiche, ndr] con una rigida frugalità, di mantenere intatta la mia libertà e di considerare come trascurabile ogni cosa all’infuori dell’applicazione del mio ingegno alle lettere”. In Francia compose la prima e fondamentale sua opera, il Trattato sulla natura umana, che non ebbe successo alcuno. Nel 1742 pubblicò in Inghilterra la prima parte dei suoi Saggi morali e politici che ebbero invece buona accoglienza. Nel 1748 escono a Londra le Ricerche sull’intelletto umano, che rielaborano in forma più semplice la prima parte del Trattato. Le Ricerche sui principii della morale del 1752 invece rielaborano la seconda parte del Trattato. Ospitò a casa sua Rosseau, ma il carattere ombroso del filosofo francese provocò presto una rottura. Dal 1769 in poi Hume, ormai ricco, condusse la vita tranquilla del benestante inglese e morì a Edimburgo nel 1776.

3. LA NATURA UMANA E IL SUO LIMITE

Hume vuol essere il “filosofo della natura umana”. La natura umana, egli dice, è la sola scienza dell’uomo; eppure è stata sinora la più trascurata. In realtà tutte le scienze si riallacciano alla natura umana, anche quelle che ne sembrano più indipendenti come la matematica, la fisica e la religione naturale. Anche queste fanno, infatti, parte delle conoscenze dell’uomo e sono giudicate dai poteri e dalle facoltà umane. Dalla conoscenza della natura umana, quindi, si potrà poi muovere alla conquista di tutte le altre scienze, inevitabilmente legate ad essa.

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La natura umana è, per Hume, più sentimento e istinto che ragione. La stessa ragione indagatrice è, a suo avviso, una specie di istinto che porta l’uomo a chiarire ciò che istintivamente accetta o crede. Le nostre "verità", quindi, non sono oggettive, basate sulla natura delle cose, ma soggettive e dettate all’uomo solo da istinto e abitudine. Nella conclusione del primo libro del Trattato sulla natura umana Hume, domandandosi se valga davvero la pena di spendere tempo e fatica per considerare problemi astrusi e difficili che le vivaci impressioni dei sensi o il corso ordinario della vita eliminano subito dalla mente, quali che siano le loro soluzioni, giunge a concludere che egli non può fare altrimenti. Egli sente che la sua mente si raccoglie in se stessa e tende naturalmente a prendere in considerazione i problemi della filosofia. Egli si sente a disagio con chi approva o disapprova, giudica bello o brutto, vero o falso, senza conoscere su quali principi questo giudicare si possa fondare. La ricerca filosofica germina naturalmente in lui. “Questi sentimenti nascono naturalmente nella mia presente disposizione; e se cercassi di bandirli e applicarmi ad altri affari o distrazioni, io sento che ci perderei in fatto di piacere. Questa è l’origine della mia filosofia”. Questa è, per Hume, l’origine di tutte le filosofie. La filosofia che smonta e distrugge le credenze fondate sull’istinto è essa stessa un istinto. Come tale è indistruttibile perché fa parte della natura umana. Hume ha così inteso radicare nella stessa natura umana il compito critico e distruttivo che l’Illuminismo ha ritenuto proprio della ragione. Egli ha sottoposto a critica radicale i due concetti cardine della metafisica tradizionale: quelli di sostanza e di causa. Ha cercato di sottrarre etica e politica alle loro impostazioni metafisiche riconducendo l’origine e la validità di esse a esigenze umane. Ha, soprattutto, ristretto la capacità conoscitiva della ragione al dominio del probabile. La certezza è, infatti, conseguibile dall’uomo solo nel campo “della quantità e del numero”, cioè al dominio astratto o formale, in cui non ci si riferisce alle cose reali. La pretesa di estendere la dimostrazione ad altri domini gli appare assurda e chimerica. “Se ci viene alle mani qualche volume, per esempio, di teologia o di metafisica scolastica, domandiamoci: contiene qualche ragionamento astratto sulle quantità o sui numeri? No. Contiene qualche ragionamento sperimentale su questioni di fatto e di esistenza? No. E allora gettiamolo nel fuoco, perché non contiene che sofisticherie e inganni” (Ricerche sull’intelletto umano, conclusione). Ma l’atteggiamento di Hume non è semplicemente negativo e distruttivo. Per Hume, come per Locke, come per tutto l’Illuminismo, la ragione è la sola guida possibile per l’uomo. Così, insieme con l’illustrazione del carattere puramente empirico o fattuale, cioè probabile, delle connessioni causali che si scoprono in natura, si trova in Hume l’esclusione della possibilità di ammettere eccezioni a queste connessioni, quali sarebbero i miracoli.

4. IMPRESSIONI E IDEE

Tutte le percezioni dello spirito umano si dividono, secondo Hume, in due classi che si distinguono fra loro per il grado di forza e di vivacità con cui colpiscono lo spirito. Le percezioni che penetrano con maggior forza ed evidenza nella coscienza si chiamano impressioni. Sono tutte le sensazioni, passioni ed emozioni, nell’atto in cui

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vediamo o sentiamo, amiamo o odiamo, desideriamo o vogliamo. Le immagini illanguidite di queste impressioni si chiamano, invece, idee o pensieri. La differenza, per esempio, è quella che c'è fra il dolore per un calore eccessivo e il ricordo di questo dolore impressa nella memoria. Ogni idea deriva dalla corrispondente impressione: non esistono idee o pensieri di cui non si sia avuta precedentemente l’impressione. La libertà del pensiero dell’uomo trova limite in questo principio. L’uomo può si collegare le idee fra loro nei modi più vari, ma non potrà mai avere nulla che non derivi dalle impressioni. Locke, dopo aver ammesso che l’unico oggetto della conoscenza umana è l’idea, aveva riconosciuto, al di là dell’idea, la realtà dell’io, di Dio e delle cose. Berkeley, pur negando la materia, aveva ammesso la realtà degli spiriti finiti e di quello infinito, entrambe le cose irriducibili alle idee. Hume solo risolve totalmente la realtà nel molteplice delle idee attuali, cioè delle impressioni e delle loro copie, e nulla ammette al di là di esse. Per spiegare la realtà del mondo e dell’io egli non ha disposizione se non le impressioni, le idee e i loro rapporti. Hume accetta e fa sua la negazione dell’idea universale, già operata da Berkeley. Non esistono idee che non abbiano caratteri particolari e singoli (per esempio, l'idea di un uomo che non sia idea di questo o quell’uomo ben preciso): esistono solo idee particolari assunte come segni di altre idee particolari a esse simili. Ma per spiegare la funzione del segno, cioè la possibilità di un’idea di richiamare altre idee simili, Hume ricorre a un principio di cui si servirà largamente in tutte le sue analisi: l’abitudine. Quando abbiamo scoperto una somiglianza fra idee usiamo un solo nome per indicarle. Si forma così in noi l’abitudine di considerare fra loro unite idee designate da un solo nome. Il nome risveglierà in noi non una sola di quelle idee, né tutte, ma l’abitudine che abbiamo di considerarle assieme e quindi l’una o l’altra di esse a seconda dell’occasione. La parola “uomo” risveglierà l’abitudine di considerare tutti insieme gli uomini, in quanto simili tra loro, e ci permetterà di richiamare l’idea di questo o quel singolo uomo.

5. LE CONNESSIONI FRA LE IDEE E LE DISCIPLINE MATEMATICHE

Le idee, che costituiscono il mondo della nostra esperienza, presentano indubbiamente ordine e regolarità. Tali caratteri sono dovuti ai principi che associano e connettono le idee fra loro. Hume riconosce tre soli principi di questa natura: la somiglianza, la contiguità nel tempo e nello spazio, la causalità. Un ritratto conduce naturalmente il nostro pensiero all’originale (somiglianza); il ricordo di una stanza porta a discorrere delle altre stanze presenti nella stessa casa (contiguità); una ferita fa pensare subito al dolore che ne è derivato (causa ed effetto). La relazione di somiglianza, quando viene riferita a semplici idee e non a cose reali, possiede la massima esattezza e costituisce il dominio della conoscenza vera, cioè della scienza. Su di essa sono fondate la geometria, l’algebra e l’aritmetica, i cui oggetti sono idee che non aspirano ad alcuna realtà di fatto. le proposizioni di queste scienze si possono scoprire con il solo pensiero e non è possibile negarle perché ciò implica contraddizione. “Anche se non esistesse in natura neppure un triangolo, le verità dimostrate da Euclide conserverebbero sempre la loro certezza e la loro evidenza”.

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Hume contrappone alle proposizioni matematiche, il cui contrario non è possibile, le proposizioni che concernono l’esistenza il cui contrario è sempre possibile “perché ogni cosa che è, può non essere”.

6. LE CONNESSIONI FRA I DATI DI FATTO E L’ANALISI CRITICA DEL PRINCIPIO DI CAUSA

La certezza delle proposizioni che concernono fatti non è fondata sul principio di contraddizione. Questo perché il contrario di un fatto è sempre possibile. “Il sole domani non si leverà” è una proposizione non meno intelligibile né più contraddittoria de “il sole domani si leverà”, perciò è impossibile dimostrarne la falsità. Tutti i ragionamenti che riguardano realtà o fatti si fondano sulla relazione di causa ed effetto. Se si chiede ad una persona perché crede ad un fatto qualunque, la persona addurrà un altro fatto. Ora la tesi fondamentale di Hume è che la relazione tra causa ed effetto non può mai essere conosciuta a priori, cioè con il puro ragionamento, ma solo con l’esperienza. Nessuno, di fronte ad un oggetto nuovo, può conoscerne causa ed effetti per via del solo ragionamento. “Adamo non avrebbe mai potuto inferire dalla fluidità e trasparenza dell’acqua che essa poteva soffocarlo o dalla luce e dal calore del fuoco che esso poteva consumarlo. Nessun soggetto scopre mai, per mezzo delle qualità di un oggetto che appaiono ai sensi, le cause che lo producono o gli effetti che sorgeranno da esso; né può la nostra ragione, senza l’aiuto dell’esperienza, effettuare alcuna induzione che concerna realtà o fatti”. Questo vuol dire che la connessione fra causa ed effetto, anche dopo che è stata scoperta per esperienza, rimane "arbitraria" e priva di qualsiasi necessità oggettiva. Causa ed effetto sono due fatti interamente diversi, ognuno dei quali non ha nulla insieme che richiami necessariamente l’altro. Una palla di biliardo ne colpisce un’altra: che cosa accade? Ci sono varie possibilità e nessuna di esse è di per sé contraddittoria. È solo l’esperienza a dire che una sola si verifica: l’urto della prima palla mette in movimento la seconda. L’esperienza, però, non ci illumina se non intorno ai fatti che abbiamo sperimentato in passato e non ci dice nulla circa quelli futuri. Anche dopo che l’esperienza è stata fatta la connessione tra causa ed effetto rimane arbitraria, questa connessione non si potrebbe assumere a fondamento in alcuna previsione. Se il pane di oggi si dimostra capace di nutrirmi non per questo il pane di domani, identico a quello di oggi, dovrà mostrare la stessa capacità: per questo non esiste alcuna certezza assoluta, ovvero alcuna garanzia logica. Che il corso della natura possa cambiare, che i legami causali che l’esperienza ci ha testimoniato per il passato possano non verificarsi nell’avvenire, è ipotesi che non implica nessuna contraddizione e che perciò rimane sempre possibile (per quanto possiamo dire che tutto ciò sia estremamente improbabile). L’esperienza, per quanto confermata, riguarda sempre il passato, mai il futuro. Tutto ciò che l’esperienza ci dice è che da cause simili ci aspettiamo effetti simili. Ma appunto questa attesa non è giustificata dall’esperienza: essa è piuttosto il presupposto dell’esperienza, un presupposto ingiustificabile logicamente. Se ci fosse sospetto che in futuro il corso della natura possa cambiare, allora ogni esperienza sarebbe inutile e non potrebbe dare origine ad alcuna inferenza (= ragionamento). È impossibile che argomenti tratti dall’esperienza possano dimostrare la rassomiglianza del passato con il futuro: tutti questi argomenti sono fondati sulla supposizione di quella rassomiglianza. Queste considerazioni escludono che il legame tra causa ed effetto possa essere dimostrato oggettivamente necessario, cioè assolutamente valido. L’uomo tuttavia lo crede necessario e fonda su di esso l’intero corso della sua vita. La sua necessità è quindi puramente soggettiva e va cercata in un principio della natura umana. Questo principio è l’abitudine, o costume. Quando abbiamo visto più volte congiunti

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due fatti o due oggetti, ad esempio la fiamma e il calore, il peso e la solidità, siamo portati dall’abitudine ad aspettarci l’uno quando l’altra si mostra. L’abitudine ci spinge a credere che domani il sole si leverà come si è sempre levato. Senza l’abitudine noi saremmo del tutto ignoranti di ogni questione di fatto, fuori da quelle che ci sono immediatamente presenti ai sensi o alla memoria. Ma l’abitudine spiega la congiunzione che noi stabiliamo tra i fatti, non la loro connessione necessaria. Spiega perché noi crediamo alla necessità dei legami causali, ma non giustifica tale necessità. L’abitudine, come l’istinto degli animali, è una guida infallibile per la pratica della vita, ma non è principio di giustificazione razionale o filosofico. E un principio di questo genere non c’è.

7. LA “CREDENZA” NEL MONDO ESTERNO E NELL’IDENTITÀ DELL’IO

Ogni credenza in realtà o fatti, in quanto risultato di un’abitudine, è un sentimento o un istinto, non un atto di ragione. Tutta la conoscenza della realtà è così priva di necessità razionale e rientra nel dominio della probabilità, non della conoscenza scientifica. Hume, con ciò, non intende certo annullare la differenza che c’è tra la finzione e la credenza. La credenza è un sentimento naturale, che non soggiace ai poteri dell’intelletto. Se così fosse la ragione potrebbe farci credere qualsiasi cosa ci piaccia. “Noi possiamo, nel nostro concetto, congiungere la testa di un uomo con il corpo di un cavallo [esempio di finzione], ma non è nostro potere credere che una tale creatura esista realmente [credenza]”. Il sentimento della credenza è un sentimento naturale. Come sentimento non può essere definito, ma descritto come “una concezione più vivace, più intensa e potente di quella che accompagna le pure finzioni dell’immaginazione”. La credenza è, in ultima analisi, dovuta alla maggior vivacità delle impressioni rispetto alle idee. Gli uomini credono abitualmente nell’esistenza di un mondo esterno (esterno, cioè, alla coscienza conoscente), che viene anche considerato diverso ed estraneo alle impressioni che se ne hanno. E Hume si sofferma lungamente nel Trattato e brevemente nelle Ricerche a spiegare la genesi naturale di questa credenza. Hume, a questo proposito, comincia con il distinguere la credenza nell’esistenza continuata e indipendente delle cose, che è propria di tutti gli uomini e anche degli animali, e la credenza nell’esistenza esterna delle cose stesse, la quale ultima suppone la distinzione semifilosofica o pseudofilosofica delle cose dalle impressioni sensibili. Dalla coerenza e dalla costanza di certe impressioni, l’uomo è tratto a immaginare che esistano cose dotate di una esistenza continua e ininterrotta e quindi tali che esisterebbero anche se ogni creatura umana fosse assente o annientata. In altri termini la stessa coerenza e costanza di certi gruppi di impressioni ci fa dimenticare o trascurare che le nostre impressioni sono sempre interrotte e discontinue e ce le fa considerare come oggetti persistenti e stabili. Questa credenza che appartiene alla parte irriflessiva e afilosofica del genere umano (e

quindi a tutti gli uomini in un tempo o nell’altro) è però presto distrutta dalla riflessione filosofica la quale insegna che ciò che si presenta alla mente è soltanto l’immagine e la percezione dell’oggetto e che i sensi sono solo le porte attraverso le quali le immagini entrano, senza che ci sia mai rapporto immediato tra l’immagine stessa e l’oggetto. La tavola che vediamo sembra rimpicciolirsi quando ci allontaniamo, ma quella reale, che esiste indipendentemente da noi, non subisce alterazioni; perciò alla nostra mente era presente solo l’immagine di essa! La filosofia conduce a distinguere le cose oggettive, continuamente esistenti, dalle percezioni soggettive, mutevoli e interrotte. Ma a favore di questa distinzione non gioca più l’istinto naturale che appoggiava la prima credenza.

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E in verità si tratta di un’ipotesi filosofica, che non è necessaria né alla ragione né alla immaginazione e quindi non è sostenibile. La sola realtà di cui siamo certi è costituita dalle percezioni; le sole inferenze che possiamo fare sono quelle fondate sul rapporto tra causa ed effetto, che si verifica anch’esso solo tra percezioni. Una realtà che sia diversa dalle percezioni ed esterna ad esse non si può affermare né sulla base delle impressioni dei sensi né sulla base del rapporto causale. La realtà esterna dunque rimane priva di giustificazione, ma l’istinto a credere in essa è ineliminabile. Neppure il dubbio filosofico intorno ad essa si può eliminare, ma la vita ci toglie il dubbio e ci riaffida alla credenza istintiva. Una spiegazione analoga trova, nell’analisi di Hume, la credenza nell’unità e nell’identità dell’io. L’identità che noi attribuiamo allo spirito umano è un’identità fittizia, dello stesso genere di quella che attribuiamo alle cose esterne. Essa non può quindi avere un’origine diversa, ma è il prodotto di un’operazione simile dell’immaginazione su oggetti simili. Lo spirito umano è fatto da una pluralità di percezioni legate insieme dai rapporti di somiglianza e di causalità. Sui rapporti di somiglianza è fondata la memoria, giacché l’immagine della memoria somiglia al suo oggetto. E il presentarsi di percezioni simili dà il primo spunto a produrre l’idea dell’identità personale. La causalità dà l’altro, quello decisivo. Le percezioni differenti sono legate insieme dal rapporto di causa ed effetto perché si generano, si distruggono, si influenzano e si modificano reciprocamente. Hume paragona l’anima a una repubblica, in cui i diversi membri sono uniti da un vincolo reciproco di governo e di subordinazione e danno vita ad altre persone, le quali continuano la stessa repubblica nell’incessante cambiamento delle sue parti. E come una stessa repubblica, non solo può mutare i suoi membri, ma anche le sue leggi e la sua costituzione, così una stessa persona può mutare carattere e disposizione, e anche le sue impressioni e le sue idee, senza perdere la sua identità. Qualunque cambiamento subisca, le sue parti sono sempre connesse da una relazione di causalità. La credenza nella realtà indipendente del mondo esterno e quella nell’identità dell’io si spiegano dunque come produzioni fittizie dell’immaginazione, ma non si giustificano nella loro validità oggettiva. C’è un contrasto tra l’istinto della vita da un lato, la ragione dall’altro che spinge ad analizzare e a giustificare le credenze che quell’istinto produce. Ma il contrasto è solo forse apparente: la ragione stessa, l’esigenza della ricerca filosofica, si radica nell’istinto. Fa parte della natura umana la curiosità che spinge ad indagare, il bisogno di giustificare ciò che si crede.

8. MORALE E SOCIETÀ Su cosa si fonda la morale? Hume non prende partito nella disputa che vuol riconoscere soltanto nella ragione o solo nel sentimento tale fondamento. Entrambi i principi entrano in queste valutazioni. Hume intende piuttosto analizzare tutti gli elementi che costituiscono il merito personale: le qualità, le abitudini… tutto ciò che rende un uomo degno di stima o disprezzo. In questo modo il problema morale diviene una questione di fatto, che può essere decisa con il metodo sperimentale. A fondamento delle qualità morali della persona sta, secondo Hume, la loro utilità per la vita sociale. Sia l’approvazione che la riprovazione per certi comportamenti dipendono dal riconoscimento della loro utilità sociale. In una condizione in cui l’uomo avesse sovrabbondanza di beni materiali, ad esempio, la giustizia non avrebbe ragione d’essere, né potrebbe mai nascere. Le regole della giustizia dipendono dalle condizioni in cui l’uomo si trova e debbono la loro origine all’utilità

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che presentano per la vita della società umana. Ciò è tanto vero che l’obbligo della giustizia non si verifica nei confronti di creature mescolate con gli uomini, ma incapaci di ogni resistenza o reazione verso di loro. Tale è il caso degli animali, che Hume considera dotati di capacità inferiori per grado, ma non per natura rispetto a quelle dell’uomo. Nessuno sente obbligo di giustizia verso gli animali, dunque quest’obbligo nasce unicamente dall’utilità che la giustizia presenta per la natura umana. Né quest’obbligo nascerebbe se l’uomo bastasse a se stesso e potesse vivere isolato. La necessità della giustizia per mantenere in vita la società umana è il solo fondamento di questa virtù. Ed è anche il fondamento del valore che attribuiamo alle altre virtù: all’umanità, alla benevolenza, alla socievolezza… L’utilità sociale è pure il fondamento della massima virtù politica, l’obbedienza. È l’obbedienza che mantiene i governi e questi sono indispensabili per gli uomini. Le regole della giustizia sono meno rispettate fra nazioni che fra uomini, dato che gli uomini non possono vivere soli mentre le nazioni possono essere fra loro indipendenti. Tutte le virtù si radicano così nella natura dell’uomo, che può giudicare facilmente da sé che è bene ciò che promuove la felicità dei suoi simili e male ciò che la deprime. Non è vero che l’unico movente dell’uomo sia l’egoismo (come sosteneva, ad esempio, Hobbes): il benessere e la felicità individuale sono strettamente congiunti al benessere e alla felicità collettiva. La morale di Hume non parla di inutili austerità e rigori, di sofferenze e umiliazioni: il suo solo fine è di rendere gli uomini felici e contenti per tutta la vita.

9. RELIGIONE E NATURA UMANA L’analisi che Hume ha fatto della religione è decisiva per quella corrente del deismo che ha dominato la filosofia inglese del XVIII secolo e ha ispirato il pensiero religioso dell’Illuminismo di tutti i paesi. Alla religione Hume ha dedicato i Dialoghi sulla religione naturale e la Storia naturale della religione. Già nelle Ricerche sull’intelletto umano aveva rigettato l’idea dei miracoli e in un saggio, Sull’immortalità dell’anima, aveva criticato le ragioni metafisiche e morali e fisiche addotte a sostegno dell’immortalità, facendone puro oggetto di fede. Nei Dialoghi sulla religione naturale contro ogni specie di prova dell’esistenza di Dio Hume oppone un argomento che si connette ai principi fondamentali della sua filosofia. “Niente è dimostrabile, senza che il suo contrario implichi contraddizione. Niente che sia distintamente concepibile implica contraddizione. Tutto ciò che noi concepiamo come esistente possiamo anche concepirlo come non esistente. Perciò non vi è un essere la cui non esistenza implichi contraddizione. Conseguentemente non vi è un essere la cui esistenza sia dimostrata.” L’esistenza è sempre materia di fatto, mai di dimostrazione o di prova. Questo esclude la prova ontologica che pretende di dimostrare Dio partendo dal suo concetto. L’argomento cosmologico tenta di sfuggire a questa difficoltà introducendo la considerazione dell’esperienza. Ma Hume nega che i legami causali fra i fenomeni possano essere usati per dimostrare l’esistenza di una causa prima. Se si dimostra la causa di tutti i componenti di una collezione, è poi assurdo domandare la causa di tutta la collezione; questa è già data quando abbiamo dato le cause particolari. Lo stesso vale per il mondo. Un maggior valore Hume sembra dare alla prova fisico-teologica, la quale considerando l’universo come una macchina tenta di risalire all’autore di questa macchina. La prova si urta contro una pregiudiziale inerente la dottrina di Hume sulla causalità. Il legame causale deriva dall’abitudine, che si forma osservando la successione costante di due fatti. Ma come questa abitudine avrebbe potuto formarsi a

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proposito di Dio e del mondo? Inoltre l’argomento può permettere di risalire solo ad una causa proporzionata all’effetto, e siccome l’effetto è imperfetto e finito… Ma se la divinità è imperfetta e finita non c’è neppure motivo per riconoscerla unica. Tutto ciò dimostra che una giustificazione teoretica della religione non è possibile. Si può fare tuttavia della religione la storia naturale: si possono cioè rintracciare le sue radici nella natura umana, anche se queste radici non sorgono da un istinto, da una impressione originale, ma dipendono da principi secondari. Le idee religiose non sorgono dalla contemplazione della natura, ma dall’interesse per gli eventi della vita e quindi dalle speranze e dai timori incessanti che agitano l’uomo. Sospeso tra vita e morte, l’uomo attribuisce a cause sconosciute i beni di cui gode e i mali da cui è minacciato. La varietà delle vicende che lo riguardano gli fa pensare a cause diverse e contrastanti del mondo, dunque déi benigni e maligni: il politeismo è quindi all’origine di ogni religione. A concepire la divinità come infinita e perfetta gli uomini sono condotti non dalla filosofia, ma dal bisogno di adulare e tenere buona la divinità. “Man mano che la paura e l’ansia diventano più urgenti, gli uomini inventano nuovi modi di adulazione; e anche chi ha superato il suo predecessore nel gonfiare i titoli della propria divinità, è certo che sarà superato da suo successore…” Così si arriva all’infinito al di là del quale non si può procedere. La riflessione filosofica conferma e chiarisce il monoteismo nato in tal modo, ma non impedisce il rischio di ricaduta nel politeismo e nella idolatria di figure intermedie fra Dio e l’uomo. Il teismo che bandisce l’idolatria è superiore ad essa, ma porta il rischio dell’intolleranza. Riconosciuto un unico oggetto di devozione, tutte le altre devozioni divengono empie e c’è così il pretesto per persecuzioni e condanne. Al politeismo è invece estranea l’intolleranza. “Dubbio, incertezza, sospensione del giudizio sembrano il frutto delle nostre più accurate indagine intorno a questo argomento.”

10. IL GUSTO ARTISTICO Lo scetticismo di Hume riguardo i poteri della ragione lo mette in grado di abolire o diminuire la distanza tra i prodotti della ragione e quelli del sentimento e di riconoscere a questo, e specialmente all’arte, nuovo valore. Posto che la ragione non è infallibile e, in ultima analisi, dipende dal sentimento stesso, le valutazioni del sentimento non costituiscono più l’antitesi della pretesa universalità delle valutazioni razionali, e uno stesso destino domina le une e le altre. Già nelle Ricerche sull’intelletto umano Hume aveva abolito l’antitesi stabilita da Aristotele nella sua Poetica tra poesia e storia. L’unità di azione che si trova nella biografia o nella storia differisce non in specie, ma solo in grado da quella che c’è nella poesia. In questa tutto è architettato per sollevare le passioni, cosa che ovviamente non è nella storia. Ma poesia e storia hanno, al contrario di quanto riteneva Aristotele, la stessa forma di unità e la differenza non si può segnare esattamente, ma è piuttosto questione di gusto che di ragionamento. Così Hume riconosce il medesimo valore alla narrazione veritiera della storia e a quella fantastica della poesia. Nel Saggio sul criterio del gusto dice che “Ogni sentimento è giusto; perché il sentimento non si riferisce a nulla al di là di sé ed è sempre reale posto che un uomo ne sia consapevole. Ma non tutte le determinazioni dell’intelletto sono giuste… perché esse si riferiscono a un fatto reale”. Fra le mille opinioni una sola è la giusta, ma la difficoltà è di fissarla e accertarla. Al contrario i mille sentimenti eccitati da un solo oggetto sono tutti giusti perché nessun sentimento rappresenta quello che realmente c’è nell’oggetto. Ora la bellezza è per l’appunto un

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sentimento: essa esiste solo nello spirito che la contempla, e ognuno percepisce una bellezza differente. Ma questo non impedisce che vi sia un criterio del gusto perché vi è una specie di senso comune che riduce il valore della tradizionale espressione de gustibus non est disputandum. Se si volesse fissare il tipo della bellezza riducendo le sue varie espressioni alla verità e all’esattezza geometrica, si giungerebbe solo a produrre l’opera più insipida. Si può determinare il criterio del gusto solo ricorrendo all’esperienza e all’osservazione dei sentimenti comuni della natura umana, senza pretendere che i sentimenti degli uomini siano in ogni occasione conformi a questo criterio. “In ciascuna creatura c’è uno stato sano e uno difettoso; e il primo soltanto ci dà il vero criterio del gusto e del sentimento” La condizione umana che rende possibile l’apprezzamento della bellezza è, per Hume, la delicatezza dell’immaginazione. Altre condizioni sono la pratica e l’assenza di pregiudizi.