14 poesia italiana+riviste - Università degli Studi di Siena · «liberi e scalzi / le tasche...

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poesia italiana semicerchio rivista di poesia comparata XXXV 2006 Paolo Bertolani 127 PAOLO BERTOLANI, Raità da neve, Novara, Interlinea, 2005, pp. 136, 10,00. In Raità da neve (Rarità della neve), un libro amaro, quasi di congedo, i let- tori di Bertolani ritroveranno temi, musiche e suggestioni di una stagione di versi che è stata lunga e intensa: la casa-luce di ieri, «tuto ’r die che se pè de n’amóe» (‘tutto il dire che si può di un amore’), persone, vicende e luoghi legati alle parole perdute di anni lonta- ni. Si fa inverno ormai dove il poeta posa gli occhi, e la sua finestra si apre oggi su un mondo di cose che non gli appartengono più: «Ghe càpeda na pàs- sua e la ghe mena / colói, e i odói / de quélo che gh’è fèa…» (‘Vi capita un passero e vi porta / colori, e gli odori / di quello che c’è fuori…’). Le «góse» (le voci), i suoni, gli incanti rimasti sospesi nella memoria si affollano nel vuoto di quella finestra affacciata sul- l’entroterra ligure, assieme alle «tre o quatro cose che ’r tempo / i nó rièssa a massàe» (‘tre o quattro cose che il tempo / non riesce ad ammazzare’). E la neve, «’sta finta de neve / sempre na raità / da ’ste bànde ch’la sente ’r mae» (‘questa finzione di neve / sempre una rarità / da queste parti che sentono il mare’), si fa metafora dello spolverio di versi che ancora gli ‘detta il cuore’ e forse anche della manciata di giorni che stringe tra le mani, «che nó te fè / ’n tempo a die: mia ca stémo / vivendo – e l’è finita» (‘che non fai / in tempo a dire: guarda che stiamo / vivendo – ed è finita’), e quel suo cadere lento accompagna il rarefarsi dei gesti, dei passi, dei pensieri. Ma «adè che davèo l’è vegnù sea» (‘adesso che davvero è venuta sera’), soltanto la parola pro- sciugata e rastremata di questo libro può farci ancora sentire, in «qualche straccio di poesia / per l’inverno», l’a- ria della Serra, così come ce l’ha resti- tuita il ‘suo’ poeta, con i silenzi e le ghirlande di lumini di notti remote, quando «serà tute e luse / comensa ’r pensae» (‘chiuse tutte le luci / comincia il pensare’, da Seinà, 1985). E l’io riesce a oltrepassare il muro d’acqua che lo separa da ombre che sono state creature amate, solo se si aggrappa alla lingua della sua poesia. Una lingua che più marginale non potrebbe essere e che muore – o vive? – in questi versi carichi d’inverno, disfatta lei pure dal tempo come «l’uliveto disfatto» della madre del poeta. Ma le voci che abita- no da sempre le sere di tante sue liriche fanno pensare che la lingua di que- st’autore sia «provvista di quel ramo d’oro che gli consente di entrare in contatto con l’Ade, unica lingua che sia intesa nell’aldilà dalle ombre del borgo, silenziosamente misericordiose nei confronti del presente» (F. Bandini, Prefazione a P. B., Se de sea, Se di sera, 2002). Ritornano quelle ombre, riemer- gono dai cerchi del passato le voci di «quando ’r tempo g’ea anca / come n’a- móe somià // […] // quando g’én sem- pre / i artri a moìe» (‘quando il tempo era ancora / come un amore sognato // […] quando erano sempre / gli altri a morire’, da ’E góse, l’aia, 1988). Impossibile per l’io attraversare il con- fine di pioggia e lampi che lo separa da loro. Altrettanto difficile dire cosa prova oggi in questo luogo purgatoria- le che è diventato il mondo, mentre sente piombargli addosso di colpo tutto il peso degli anni e degli amici scom- parsi. E non comprende quello che suc- cede fuori, proprio come il gatto che se ne sta alla finestra «tra’r basìrco e ’a réde / i mia ’a strada sóto, c’ló che gh’é. / E i nó sa, i nó ‘ntenda. L’è come / si fusse ’nte na spéce de ardelà / ca nó podèmo vede» (‘tra il basilico e la rete / guarda la strada sotto, quello che c’è. / E non sa, non capisce. È come / se fosse in una specie di aldilà / che non possiamo vedere’). Forse perché c’è tanta nebbia fuori e dentro di lui, ma dietro quella nebbia ancora s’intravede la casa perduta della Serra, «na scafèla / persa de note en mae» (‘una barchet- ta / persa di notte in mare’), sottratta ‘per incantamento’ al naufragio degli anni: «A ghe rivo sempre cargo / de fòge e rami sechi / […] / per védeghe solo / ’sto gnente de luse de mae / e sensa manco l’ómbia / de na véa dren- to» (‘Ci arrivo sempre carico / di foglie e rami secchi / […] / per vederci sol- tanto / questo niente di luce di mare / e senza neppure l’ombra / di una vela dentro’). Segno, questo, che ancora sopravvivono, in qualche ripostiglio del cuore, gli stupori di un tempo, quando «avevano un nome anche le pietre» e la neve si affacciava, inattesa, ai primi di aprile, sulla Serra: «Co’ i pèrseghi carghi / come asi de fiói, / co’ ’a primavèa en mae» (‘Con i peschi carichi / come asini di fiori, / con la pri- mavera in mare’). Anna De Simone PIERLUIGI CAPPELLO, Assetto di volo. Poesie 1992 – 2005, a cura di Anna De Simone, Prefazione di Gio- vanni Tesio, Milano, Crocetti, 2006, pp. 173, 15,00. Il volume che raccoglie le tappe del- l’itinerario poetico di Pierluigi Cappello si presenta come oggetto niti- do ed essenziale che sembra conserva- re, nella stampa, qualcosa del manufat- to: quasi un decantarsi della parola nella materia, affinché la parola riman- ga nitida dopo la fatica. Questa della fatica dello scrivere non è una comune metafora: per Cappello, costretto in sedia a rotelle, davvero il corpo è costrizione e impaccio, è ridotta mobi- lità, come avverte Giovanni Tesio nella prefazione. Così Assetto di volo, la poesia che dà il titolo alla silloge, con- centra nella traiettoria dello spastico lo sforzo della vita e insieme della poesia: «con una tensione di motore imballato / tutta la forza del suo corpo spastico / ribellata alla forza di gravità», fino a che «non sbanda più, vince, è in equili- brio / vola via». La tensione e l’equili- brio sono i due poli che si alternano e si compongono nella raccolta che contie- ne integralmente gli ultimi due libri, Dentro Gerico (2002) e Dittico (2004), POESIA ITALIANA a cura di Fabio Zinelli

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PAOLO BERTOLANI, Raità daneve, Novara, Interlinea, 2005, pp.136, € 10,00.

In Raità da neve (Rarità della neve),un libro amaro, quasi di congedo, i let-tori di Bertolani ritroveranno temi,musiche e suggestioni di una stagionedi versi che è stata lunga e intensa: lacasa-luce di ieri, «tuto ’r die che se pède n’amóe» (‘tutto il dire che si può diun amore’), persone, vicende e luoghilegati alle parole perdute di anni lonta-ni. Si fa inverno ormai dove il poetaposa gli occhi, e la sua finestra si apreoggi su un mondo di cose che non gliappartengono più: «Ghe càpeda na pàs-sua e la ghe mena / colói, e i odói / dequélo che gh’è fèa…» (‘Vi capita unpassero e vi porta / colori, e gli odori /di quello che c’è fuori…’). Le «góse»(le voci), i suoni, gli incanti rimastisospesi nella memoria si affollano nelvuoto di quella finestra affacciata sul-l’entroterra ligure, assieme alle «tre oquatro cose che ’r tempo / i nó rièssa amassàe» (‘tre o quattro cose che iltempo / non riesce ad ammazzare’). Ela neve, «’sta finta de neve / sempre naraità / da ’ste bànde ch’la sente ’r mae»(‘questa finzione di neve / sempre unararità / da queste parti che sentono ilmare’), si fa metafora dello spolverio diversi che ancora gli ‘detta il cuore’ eforse anche della manciata di giorniche stringe tra le mani, «che nó te fè /’n tempo a die: mia ca stémo / vivendo– e l’è finita» (‘che non fai / in tempo adire: guarda che stiamo / vivendo – edè finita’), e quel suo cadere lentoaccompagna il rarefarsi dei gesti, deipassi, dei pensieri. Ma «adè che davèol’è vegnù sea» (‘adesso che davvero èvenuta sera’), soltanto la parola pro-sciugata e rastremata di questo libropuò farci ancora sentire, in «qualchestraccio di poesia / per l’inverno», l’a-ria della Serra, così come ce l’ha resti-tuita il ‘suo’ poeta, con i silenzi e leghirlande di lumini di notti remote,quando «serà tute e luse / comensa ’rpensae» (‘chiuse tutte le luci / comincia

il pensare’, da Seinà, 1985). E l’ioriesce a oltrepassare il muro d’acquache lo separa da ombre che sono statecreature amate, solo se si aggrappa allalingua della sua poesia. Una lingua chepiù marginale non potrebbe essere eche muore – o vive? – in questi versicarichi d’inverno, disfatta lei pure daltempo come «l’uliveto disfatto» dellamadre del poeta. Ma le voci che abita-no da sempre le sere di tante sue lirichefanno pensare che la lingua di que-st’autore sia «provvista di quel ramod’oro che gli consente di entrare incontatto con l’Ade, unica lingua che siaintesa nell’aldilà dalle ombre delborgo, silenziosamente misericordiosenei confronti del presente» (F. Bandini,Prefazione a P. B., Se de sea, Se di sera,2002). Ritornano quelle ombre, riemer-gono dai cerchi del passato le voci di«quando ’r tempo g’ea anca / come n’a-móe somià // […] // quando g’én sem-pre / i artri a moìe» (‘quando il tempoera ancora / come un amore sognato //[…] quando erano sempre / gli altri amorire’, da ’E góse, l’aia, 1988).Impossibile per l’io attraversare il con-fine di pioggia e lampi che lo separa daloro. Altrettanto difficile dire cosaprova oggi in questo luogo purgatoria-le che è diventato il mondo, mentresente piombargli addosso di colpo tuttoil peso degli anni e degli amici scom-parsi. E non comprende quello che suc-cede fuori, proprio come il gatto che sene sta alla finestra «tra’r basìrco e ’aréde / i mia ’a strada sóto, c’ló chegh’é. / E i nó sa, i nó ‘ntenda. L’è come/ si fusse ’nte na spéce de ardelà / ca nópodèmo vede» (‘tra il basilico e la rete/ guarda la strada sotto, quello che c’è./ E non sa, non capisce. È come / sefosse in una specie di aldilà / che nonpossiamo vedere’). Forse perché c’ètanta nebbia fuori e dentro di lui, madietro quella nebbia ancora s’intravedela casa perduta della Serra, «na scafèla/ persa de note en mae» (‘una barchet-ta / persa di notte in mare’), sottratta‘per incantamento’ al naufragio deglianni: «A ghe rivo sempre cargo / de

fòge e rami sechi / […] / per védeghesolo / ’sto gnente de luse de mae / esensa manco l’ómbia / de na véa dren-to» (‘Ci arrivo sempre carico / di fogliee rami secchi / […] / per vederci sol-tanto / questo niente di luce di mare / esenza neppure l’ombra / di una veladentro’). Segno, questo, che ancorasopravvivono, in qualche ripostigliodel cuore, gli stupori di un tempo,quando «avevano un nome anche lepietre» e la neve si affacciava, inattesa,ai primi di aprile, sulla Serra: «Co’ ipèrseghi carghi / come asi de fiói, / co’’a primavèa en mae» (‘Con i peschicarichi / come asini di fiori, / con la pri-mavera in mare’).

Anna De Simone

PIERLUIGI CAPPELLO, Assettodi volo. Poesie 1992 – 2005, a cura diAnna De Simone, Prefazione di Gio-vanni Tesio, Milano, Crocetti, 2006,pp. 173, € 15,00.

Il volume che raccoglie le tappe del-l’itinerario poetico di PierluigiCappello si presenta come oggetto niti-do ed essenziale che sembra conserva-re, nella stampa, qualcosa del manufat-to: quasi un decantarsi della parolanella materia, affinché la parola riman-ga nitida dopo la fatica. Questa dellafatica dello scrivere non è una comunemetafora: per Cappello, costretto insedia a rotelle, davvero il corpo ècostrizione e impaccio, è ridotta mobi-lità, come avverte Giovanni Tesio nellaprefazione. Così Assetto di volo, lapoesia che dà il titolo alla silloge, con-centra nella traiettoria dello spastico losforzo della vita e insieme della poesia:«con una tensione di motore imballato/ tutta la forza del suo corpo spastico /ribellata alla forza di gravità», fino ache «non sbanda più, vince, è in equili-brio / vola via». La tensione e l’equili-brio sono i due poli che si alternano e sicompongono nella raccolta che contie-ne integralmente gli ultimi due libri,Dentro Gerico (2002) e Dittico (2004),

POESIA ITALIANAa cura di Fabio Zinelli

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un’ampia selezione dei due precedenti,La misura dell’erba (1998) e Amôrs(1999), e si conclude con tre inediti.Cappello è poeta bilingue, e soprattuttola raccolta Dittico, con testi in italianoe in friulano, evidenzia la compresenzadei due strumenti in un movimentopendolare tra cose che chiedono diessere dette in friulano e cose che chie-dono di essere dette in italiano. Il friu-lano, che Cappello usa in una variantedi confine, non è né immediato némanieristico: egli si pone davanti aldialetto come ad una lingua che puòancora esprimere la verginità di un’al-ba, pur nella constatazione della perdi-ta ormai definitiva della civiltà contadi-na cui quella lingua, e con lei i parame-tri culturali da essa espressi, apparte-nevano. Ma Cappello usa anche il friu-lano in una sorta di ardua tenzone con iProvenzali: lavora dall’interno il dialet-to coniando dei neologismi, oppurerichiamando ad icastica esattezza ter-mini ormai desueti, come in Inniò (‘Innessun dove’), dove l’avverbio friulanoviene ad indicare «il luogo che non c’è,la terra dei sogni e delle chimere», e ciònella ricerca della parola ‘tersa’, capa-ce di fare argine alla perdita di sensocui va incontro l’abbassamento dellalingua contemporanea. È la figura dellaRetroguardia che apre la raccolta dipoesie tutte in italiano Dentro Gerico:«Si è la coda dell’esercito in fuga / o lafronte dell’altro che incalza / qui resi-stere significa esistere...». La resistenzadella parola poetica sta nella sua capa-cità di cogliere l’esistenza delle cose: el’italiano di Cappello è lingua sorve-gliatissima, nutrita di intertestualitàcolta e addestrata al labor limae. Per luila poesia è uno sguardo pulito sullecose e che lascia le cose come stanno,cercando di illuminarle dall’interno,con misura severa: «Attieniti alla misu-ra dell’erba / di questo prato che è largo/ quanto si stende il verde». Saper guar-dare in basso per cogliere ogni stelosingolarmente e quindi il prato nellasua complessità: il comandamento cheil poeta dà a se stesso e al suo fare poe-sia vuole essere infine anche una indi-cazione di valenza civile. La silloge,nel suo carattere consuntivo, terminacon una rapida indicazione dei ‘lavoriin corso’, collocandosi nel passaggiotra quello che è stato e quello che anco-ra può essere: incarna dunque in sé

quel motivo della soglia che percorre infiligrana il libro ed emerge in alcunipunti emblematici, come nel ritratto diCaproni, «uno che i suoi bagagli / li hagià spediti avanti». L’ultima lirica, Ivostri nomi, presenta una casa di ripo-so; su quei vecchi là raccolti e comesospesi la parola poetica si soffermaper nominarli, cogliendo in quellasituazione estrema «la luce sullasoglia» che li restituisce alla memoria«liberi e scalzi / le tasche piene disassi». Di soglia in soglia: in questo iti-nerario ci accompagna la poesia diCappello.

Maria Rosa Tabellini

LUCIANO CECCHINEL, Perchéancora, note di C. Mouchard e M.Rueff, Vittorio Veneto, ISREV 2005,pp. 174, s.i.p.

Fa riflettere il sodalizio a tre voci checaratterizza l’ultima opera in versi diCecchinel, annotata e come ‘soccorsa’dai compagni d’oltralpe, ClaudeMouchard e Martif Rueff. Quasi cheuna poesia destinata a rievocare tragi-che vicende resistenziali, valido spaltoall’opera corrosiva di «smemorati» e«mentitori», necessitasse di poggiaresu una coralità unanime. Preso atto del-l’obbligo morale che ha, nel sessantesi-mo anno della liberazione, costituito ilfomite a scrivere ancora di questa guer-ra civile – «fogo cain» appiccato controil fratello in una lotta che da sociale (trapadroni e contadini) scivola in un con-flitto tra due opposte ideologie (dimorte l’una quanto di vita e di ragionel’altra) –, Perché ancora è raccolta chenon può non avvincere anche il lettorepiù distante per motivi cronologici daquesto passato di orrori. E non è solo lafatale bellezza delle sciagure umane acoinvolgere; non sono di per sé i tantifatti d’arme di una terra che fu teatro diresistenza alle milizie tedesche e fasci-ste; è la rivisitazione poetica di questacronaca di lotta, non spogliata della suacrudezza, né avvolta in sudari di retori-ca, a fare dell’opera di Cecchinel unavoce degna della migliore tradizionedella poesia civile post-resistenziale.Riuscito, quanto non mai ostentato, ilprocesso analogico, che privilegia nellanarrazione dei drammi (nella maggio-ranza le liriche si presentano quali

cippi simonidei, che recano una dedicaalle vittime) l’accostamento con uncomune (altre volte più erudito) imma-ginario sacrificale. La morte dei giova-ni partigiani si sostanzia del valoreassoluto di antichi beaux gestes, esem-plari martirî accettati a rilasciare unatestimonianza eterna. Di notte provve-de a dare umana sepoltura a Nino ilparroco dei Tempi che son dati, controle ‘creontine’ ingiunzioni dei fascisti;un destino di morte è segnato a fuocoin quei due nomi di battaglia, Claudio eTiberio, che i fratelli combattenti diRedenzione di sangue scelgono, quasi arendere consapevole la madre dellaloro sorte imminente. Ma è il sacrificioper eccellenza, quello del Cristo amatoa propria immagine dai contadini, aspiccare come esempio di tormentoimmanente nella vita degli oppressi: ilCristo delle patetiche deposizioni, dovela scala, strumento impiegato per stac-carne il corpo abbandonato al sostegnodi donne e uomini di carità muta nelmezzo di trasporto di un partigiano pia-gato, condotto dai suoi persecutori alluogo dell’ultimo, liberatorio supplizio(Speranze). Efficace, perché ancoracondotta in termini analogici, la raffi-gurazione di questa lotta di classe ecivile insieme, guardata secondo un’ot-tica tipicamente rurale, dove la bestia eil suo rapporto duplice con l’uomo, divittima o di temibile presenza, divieneil termine di paragone di un atavicoconflitto che nel regime e quindi con laguerra conosce il suo grado supremo.Poiane feroci si fanno gli sgherri di un‘bertolucciano’ fattore in camicia nera(Da ’n zimitèrio a bas na montagna,identico paragone animale torna in Leparla agre le piere), non trattenuto dalsuo inetto signore nel dar tormento al«Checo Rosso», il contadino antifasci-sta, non mai ridotto a cane «mestegà»,neppure dal «canped-èl» ‘con siepe econ fossetto’ che il conte a guerra fini-ta tenta inutilmente di offrirgli perinfossare quella scomoda verità, cheriaggalla nella memoria degli uominidel paese, come la talpa invano tumula-ta (la giusta interpretazione del dettocontadino che agisce dietro il verso, «asepolir, par coparla, la rùmola», mi èstata gentilmente riferita dallo stessoCecchinel). Così, deportati in campo diconcentramento, a Buchenwald, il ‘nonluogo’ che snatura della propria essen-

Luciano Cecchinel

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za ogni internato, i prigionieri costrettial trasporto di carri pesanti vengono dailoro aguzzini nominati a disprezzo«cavalli cantanti», ancora una voltauomini asserviti, instrumenta vocaliadi cui fare scempio nella rigida leggedell’«a ciascuno il suo» (Nel bosco deifaggi). Convincente pure quel riconnet-tere ai crudi riti feriali del mondo agri-colo le atrocità di questo ‘stato di ecce-zione’. Gli attrezzi del lavoro divengo-no termini di raffronto per altre spieta-te opere, come quei banchi da macellosu cui sono mattati adesso corpi diuomini ribelli (Via d-a i òstri taolaz d-ebechèr). A dirne tutta la debolezza, lafune usata per la straziante impiccagio-ne che fallisce nel suo primo tentativodi Spaventauomini, è definita «cordada fieno», inadeguato arnese di morteora impiegato in un’«Italia da fieno»,terra non più di ‘tiglia’ soda, prostratadal giogo dei tempi. Il ritorno alla vitanon può che procedere inversamente:gli automezzi militari ceduti daglialleati ovvero conquistati ai nemicicostituiranno i primi strumenti per riat-tivare l’unica forma di onorata fatica,non lavoro di dipendenza, ma opera dicollettività cooperativa (Paesi). Così, learmi segretamente custodite dagli ex-combattenti, nel timore di un rimpia-garsi dell’ulcera fascista (Sorelle dipaura), verranno trattate, ormai in unpaese tornato ai suoi ritmi normali, contutte le benigne cure che il contadinoriserva ai frutti del proprio lavoro:nascoste sotto le pietre delle «masie-re», oppure coperte sotto più lievecumulo, le carte usate nell’allevo deibachi da seta; esse, larve riposte amaturare, nella speranza di una piùnuova primavera.

Francesca Latini

MARINA CORONA, I raccoglito-ri di luce, Milano, Jaca Book, 2006,pp. 128, € 13,00.

Dopo Le case della parola (IQuaderni del Battello Ebbro, 1993) eL’ora chiara (Jaca Book, 1998),Marina Corona dà ora alle stampe lasua terza raccolta di versi, in cui con-fluiscono, tra l’altro, alcune poesie giàpubblicate su «Semicerchio» (cfr. n.XXVIII). Il linguaggio ricco di accen-sioni metaforiche è al servizio di una

costruzione limpidamente narrativa, incui la ricerca del «segreto» dell’esi-stente si compie nel racconto della«storia», della propria storia. Il primopasso muove à rebours verso un’infan-zia che, rivissuta nei suoi nodi edipici(il rapporto col padre «uomo tabù»,con la madre/rivale e con l’altra madre,la madre buona, la tata Carolina chenutre, culla e scaccia le paure dellanotte, a cui è intitolata la prima sezionedella raccolta), porta con sé la primaverità, il primo tassello di luce pazien-temente raccolto, procedendo, come inuna riuscita regressione ipnotica, peraccumulo di immagini da libro illustra-to (fiori, luna, barchette, streghe, aqui-loni), cantilenando una lingua-fila-strocca, una lingua-esorcismo infantile(specialmente in La paura e oltre, inBimba morte e nella Tata Carolina cheintitola la sezione). Il percorso prose-gue poi nelle sezioni successive,L’amore, Un cielo altro, Le radici delnulla, con un progressivo decrementodi narratività (puntellandosi tuttaviasempre a riconoscibili passaggi biogra-fici, ad una geografia reale, special-mente nella seconda sezione, con poe-sie come Castel Sant’Angelo o Pasqua2000) e con una crescente densità del-l’impasto metaforico. Nella quarta eultima parte, Le radici del nulla, torna-no protagoniste le figure del padre, esoprattutto della madre; qui però,ormai, la materia tipicamente di gene-re, e di genere femminile, manda defi-nitivamente in frantumi la coerenzanarrativa del romanzo familiare perrifrangersi all’infinito nell’esuberanzasempre risorgente delle immagini,mentre la ‘raccolta della luce’, scanditacon corrispondenza perfino troppo pre-cisa nelle ultime poesie dal trascolora-re dalla sera all’alba (la sequenza for-mata da Vespro, Brunilde, Margini, Iglobi), finisce, con scarto inaspettatoquanto felice, non con la definizione diun acquisto di verità almeno provviso-rio, ma con una nota sospesa, interro-gativa, che si concede anche, civetteriainconsueta, di incastonare nel dettatonitido una citazione dantesca (Ladichiarazione: «Posso aprirti la mano /per lasciare cadere il mattino / dellelabbra mie / farfalle prigioniere? / leterrai come si tiene / fra le dita il gior-no / la sua luce che non fa ritorno / e citace? / le terrai nella stretta / che mi

assenta da me / e mi fa catturata e alte-ra / voce della tua casa profonda / leterrai nell’onda tua dei capelli?»).

Elena Parrini

MARCO GIOVENALE, Superfi-cie della battaglia, Roma, La cameraverde, 2006, € 5,00.

Tragici atti di guerra nel loro svol-gimento e nel loro pietrificato esitosono – per frammenti – i temi di unaessenziale plaquette di sette cartolinedi cui Marco Giovenale firma testipoetici e immagini fotografiche.Superficie della battaglia è, in realtà,un ‘libro non cucito’, perché compo-sto da testi/immagini in pagine scioltee non numerate, mobili nell’ordine eprogrammaticamente inviabili ad unaad una. Che fotografia e scritturacostituissero, per Giovenale, i terminidi un confronto e di un dialogo serra-to era apparso chiaro fin dalle sueprime raccolte, si pensi almeno aCurvature (Roma, 2002) con fotogra-fie di Francesca Vitale, ad Altre ombre(Roma, 2004) i cui testi sono di altacaratura visiva o a ciò che è già appar-so di Shelter, opera in artistica e intel-lettuale prossimità al lavoro di unfotografo come Mario Giacomelli chedalla parola, a sua volta, ha ricavatoinnumerevoli suggestioni. Ora, inSuperficie della battaglia, la dialetticatra poesia e immagine fotografica sipalesa, in certo senso, primaria; pri-maria come viene detto dei colori blu,rosso e giallo. Da questa dialettica,imperniata sulla lontananza piuttostoche sulla vicinanza tra testo e fotogra-fia, scaturiscono ulteriori, molteplici –e potenzialmente infinite – interpreta-zioni, in campiture nette come in sfu-mature. Ad una fotografia che taglia esfoca un quadrante d’orologio, forsed’una pendola, ‘risponde’ in modostraniante – fuori da ogni intento dida-scalico – un testo poetico che ha comeoggetti «il carro / con l’obice», «iguardapezzi», le «nappe d’argento /sulle spalle», «due morti», «seicentometri verdi» di prato. E così tempo fis-sato (inquadrato, tagliato obliquo) suun oggetto quotidiano, e sfocaturadella visione (fuga dei contorni), einsieme spazio (campo di battaglia),armi e morti di guerra possono rispon-

Marina Corona

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dersi sia nel segno benjaminiano del-l’interruzione del continuum storico,sia in quello di una ineluttabilitàsovratemporale. Ogni immagine, siaessa fotografica o poetica, risulta, inSuperficie della battaglia; asciutta escabra. Il dettato poetico procede perlacerti di situazioni drammatiche,quasi scaglie di «lamelle»; la natura vicompare in modo parco e basilarmen-te ‘di superficie’ – «il filo basso / del-l’acqua che fa la pianura», «il pratonella luminescenza» –; i paesaggisono sterili e ‘petrosi’ – «ci sono trop-pe pietre / nel muro» – e hanno il pro-filo dei guasti lasciati dalle guerre, gliuomini che li percorrono sono soldatie le loro sono azioni di morituri: «èbello che rischino la vita / per riporta-re indietro gli impiccati». Le fotogra-fie, come i versi, sono scarnificate edessenziali: non sarà un caso che tra leparole ricorrenti (non molte in unaplaquette così concentrata) si lascinotare un termine di sapore biblico,scritturale, come «costole». In unbianco e nero non brillante quantosevero nei contrasti, le fotografiemostrano oggetti comuni dispersi,dimenticati o gettati via, luoghi deser-ti e in abbandono, dunque utilità efunzioni venute meno. Su tutto domi-na una atmosfera cimiteriale, o meglioquel ‘livellamento democratico’ – giu-sta certa lezione preromantica – pro-messo dalla morte: «all’ossariodichiarato dalla luna / allora sono unserrarsi / le fibbie degli occhi. / nonsanno staccarsi. dodicimila sassi /lucidi: le facce tese avanti». Distesa dipietre e distesa di volti umani coinci-dono, dunque, in un biancore freddo eluttuoso. E gli «occhi» sono per sem-pre chiusi come «fibbie», o forse da«fibbie» accecati come lo furono quel-li di chi, regnando a Tebe, aveva dovu-to sostenere la vista e l’incolpevoleresponsabilità di un male non tollera-bile. In queste ‘cartoline’ la superficie– estensione ed apparenza – della bat-taglia è emblematicamente campo diguerra tout court, spazio reale e proie-zione immaginativa di uno scontrodrammatico tra nemici che non sonosolo soldati in una situazione storica-mente definibile, ma anche, in sensolato e allegorico, uomini e cose, cose eluoghi, luoghi e tradizioni, e uomininella loro identità esistenziale: ogni

uomo il cui io, in conflitto tra sé e sé,sia costretto ad essere nemico dellapropria memoria o di quella altrui.

Cecilia Bello Minciacchi

VALERIO MAGRELLI, Disturbidel sistema binario, Torino, Einaudi,2006, pp. 83, € 9,50.

Attutito, in parte, per il fatto di avereun posto all’interno di una ‘formalibro’ mai così strutturata, il lascito delfinale Post-scriptum, Addio alla lin-gua: «Adesso è un mondo invaso daultracorpi», dove si strappa «ciò cheavevo di più caro: / il sogno di una lin-gua condivisa», ha effetto contunden-te, per il suo nero messaggio che espel-le autore e lettore fuori dal testo, pro-vocando insomma il disturbo più gravetra quelli annunciati dal titolo. Ma, perquanto leggibile nei termini di ‘aliena-zione politica’, la perdita dichiarata diuna lingua condivisa ‘disturba’ perché,nel contesto dell’ampio consenso chene circonda l’opera, dall’esordio pre-coce come puer senex delle lettere ita-liane, e soprattutto di fronte all’influs-so esercitato dalla ‘maniera’ diMagrelli su larghe zone della scritturapoetica (e critica) degli ultimi anni, cisi chiede se l’autore si smarchi o secerchi (come invece è) di fare un seriotentativo per l’assunzione di (nuove)responsabilità. All’interno del ‘sistemaMagrelli’, lingua condivisa voleva direuna metascrittura disponibile a tutte letrasformazioni del soggetto sulla stra-da di una minuziosa ékphrasis di séstesso, e ciò sempre nei termini di unafenomenologia gentile, di una gestionelineare dell’ansia, straniata e aristocra-tica, così da essere insieme sperimen-tatore e scienziato di sé. Le tecnicheacquisite di «resa oggettuale della sog-gettività» (Cecilia Bello Minciacchi)avevano quindi potuto essere usufruitea vantaggio della rappresentazione ditemi attuali nelle Didascalie per la let-tura di un giornale (1999), «libro-pro-getto» che «appare come una dellepoche strade percorribili, oggi per unapoesia civile» (Andrea Cortellessa).D’altro lato, con le prose di Nel con-dominio di carne (2003), l’ékphrasislineare di un ‘oggetto’ che decade neltempo qual’è il proprio corpo, mettevaa nudo i limiti interni del campo d’a-

zione, la condizione del sé come prote-si in comunicazione difettosa verso ilmondo, ma tutto comunque con unanitidezza di segno che riallacciava ilembi estremi in una pacifica ‘comuni-cabilità’ della scrittura. Si aveva, a talealtezza, netta la sensazione che la poe-sia di Magrelli, nel segno dell’«ostina-ta autoscopia iniziata con Ora serrataretinae» avesse compiuto «il primo,coscienzioso periplo intorno a se stes-sa» (Cecilia Bello Minciacchi). ConDisturbi del sistema binario l’io hafinalmente doppiato sé stesso e ripren-de il mare affidandosi ad una organiz-zazione ‘macro-strutturale’ del libroche, si diceva, è una novità perMagrelli – che ci aveva piuttosto abi-tuati a corone di strutture, raffinateinstallazioni dominate dalla figuralitàtautologica di Escher, stratigrafiememoriali – e ci sorprende almenoquanto la metafora neurologica neltitolo, questa non certo per la suaimprevedibilità, ché anzi in un autoreattento ai rapporti tra neuroscienze escrittura ha sapore quasi di auto-cita-zione (colpisce invece come continuiun itinerario in parallelo con DursGrünbein, e non solo con la celebreLezione sulla base della scatola crani-ca: i due autori hanno notevoli riso-nanze comuni, nel segno del refertocircolare, kafkiano), ma in quantoorienti ‘dall’alto’ la direzionalità dellalettura. Il ‘centro pensante’ del libro,battezzato – ed è ulteriore effetto di‘disturbo’ – come ‘appendice’, è L’in-dividuo anatra-lepre, vero e proprio‘poemetto-Gestalt’: commentario adue voci della figura ambigua (ideatadallo psicologo Jastrow e utilizzata daWittgenstein nelle sue Ricerche filoso-fiche), consistente in un disegno chepuò essere visto sia come una testa dilepre che come una testa d’anatra.L’articolazione ‘animata’ del disegnoriposa sul fatto che se ciascun modo divedere è incompatibile con l’altro,spostando pendolarmente lo sguardo,si può passare dall’uno all’altro e ren-dersi conto che ‘l’uno è l’altro’.L’instabilità della percezione porta aun effetto di disturbo del soggetto chepuò innescarne, e qui il poema funzio-na come un test dello psicologoMagrelli, l’applicazione «alla sferadell’etica». Delle due voci, una, in cor-sivo, è la voce ‘etica’ («Ecco il segreto

Valerio Magrelli

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dell’anatra-lepre: / come essere colpe-voli / rimanendo innocenti»), che pro-gressivamente si afasizza e si fa‘agrammaticale’ («Voci-vespe ronza-no, bzzzz»). L’altra è la voce ‘ottica’(«Mi accanivo sull’Etica, / quando ilproblema riguardava l’Ottica»), cheinseguendo un’ékphrasis questa voltaimpossibile, si scopre etica. Questavoce, che si permette anche un po’ dimetafisica in rima alla Caproni («Èsoltanto un problema di capienza: /trovare spazio per l’indifferenza», vedianche, in altra sezione: «Dio non èmorto / è soltanto scaduto»), svela la«radice / della doppiezza» nascostanello sguardo «fisso e vuoto, da ani-male / weltlos, il ‘senzamondo’ di cuiparla il filosofo», non per nienteHeidegger. Lo sguardo mette infatti anudo la radice del male: «Per questocerte lepri sono in grado / di fare para-lumi in pelle umana, / mentre l’incon-sapevole anatra / volge il viso», sve-lando insomma che la guerra non èmai finita (viene in mente il Sabatotedesco di Sereni, e si vedrà perchéSereni), e che anche il punto di vistadell’autore è contaminato: «Bello, ilmio becco giallo, / ma a chi apparten-gono quei dentini affilati?». Si potrà aquesto punto sottolineare come tra ilresto del libro e l’appendice esista unapolarizzazione per figure (comporta-menti, Gestalten) tipizzabili, come giài testi del ‘poemetto’, in ‘forme espe-rienza’ indissociabili dal loro insieme.Si prenda un caso macroscopico, quel-lo del testo d’apertura, dove l’isomor-fia è lessicalizzata nel titolo, guace(‘guerra’ + ‘pace’), e dove: «La portadel Tempio di Giano / è diventata quel-la di Duchamp», anticipa il citato Post-scriptum: «Quel giorno compresi loscopo del Giano animale: / vanificare,ossia ‘gianificare’, ogni scambio ver-bale». Ma è più interessante valutare,caso per caso, come il gioco delle iso-morfie attragga e condizioni dall’inter-no testi appartenenti ad altre maniere,tendenzialmente irrelati (cosa che,insieme a un uso intelligente del nonfinito, tende a un effetto di post-moder-no e di ‘opera-mondo’ per l’insiemedel libro). È il caso della bellissimacontraffazione in falsetto di Su un’ariadel ‘Turco in Italia’ («Riposa tuttaquanta la Penisola / avvolta da una tre-pida collana / di affogati. Ognuno di

loro è una briciola / fatta cadere perritrovar la strada. // Ma i pesci le hannomangiate e i clandestini, / persi nelmare senza più ritorno, / vagano cometanti Pollicini / seminati nell’acquatorno torno», sorta di plazer straniante,da accostare al De Signoribus di«affacciato all’oblò vedi in un punto /una nave mobile e allegra / che per uncaso incendia e fuma / rendendo icuriosi inquilini / leggere carbonelle»sul rogo del Moby Prince, in Istmi echiuse), o dell’‘araldico’ (secondo unodei modi di cristallizzazione formaleindividuati da Cortellessa, in sostanzaaltrettanti ‘cammei morali’) sonetto‘francese’ in settenari ribattezzatoCanzonetta delle sirene catodiche,avvitato alla specularità di TV : TU(innescata da Kafka citato in esergoche annette l’avanguardia alla sferadella ‘colpa’, trasformando Dada nelpronome ‘doppio’ Dudu). Senza esa-gerare per questo la centralità dellatautologia televisiva nell’universo del-l’umanista Magrelli, sono i due scarniappunti (sempre il non finito)onirico/televisivi sull’11 e 12 settem-bre 2001, che mostrano chiaramenteciò che è minacciato nell’eradell’Anatra-lepre. Alla catastrofe delletorri si oppone infatti il feticcio apotro-paico del patron di cartone bianco«che tiene in piega le camice»,mostrando quanto il campo del ‘dome-stico’, pateticizzato all’estremo e conuna sovraesposizione più forte diquanto visto finora in Magrelli, diven-ti il tempo dell’ansia, tempo serenianoper eccellenza, compresenza al sogget-to ‘privato’ di tutte le paure, prime eseconde, esperienza del «terrore cheaccompagna ogni felicità». La pauratocca la famiglia-Nido «un calcestruz-zo di polvere, di paglia, di saliva, /povero intreccio nato da secrezioni esteli» (Guardando le colonne di profu-ghi da casa mia), e muove il giocod’ombre di «la voce / di mia figlia chegridando / dalla cucina chiede / a suofratello / se davvero la Bomba, / quan-do scoppia, / lascia l’ombra / dell’uo-mo sopra il muro», che ha in filigranail Sereni di Sarà la noia (il poeta infa-stidito dalla piccola Laura le torce ilbraccino, sprigionando con quellabreve ferocia l’ombra dell’«angelo /nero dello sterminio»). A Serenirimanda tutto il campo dell’affettività

familiare nella sezione: La volontàbuona con i bambini alle prese conl’apprendimento, l’insonnia, e avegliare inconsapevolmente sui gran-di, così come una variazione su Serenisembra Elegia dove nel tipico dissan-guarsi dell’estate si intaglia il sillogi-smo: «Ciò che ti è caro muore, ciò chemuore / ti è caro, se qualcosa ti è caro,/ è perché muore. Ed ecco il corollario:‘Ciò che ti è caro, è solo la suamorte’», che sembra una lunga chiosaa «Quattro settembre, muore / oggi unmio caro...» (Niccolò). Al centro dellacasa-libro il capofamiglia Magrelli,‘classicamente’ nevrotizzato nella suapacifica acedia dalle aggressioni dellamodernità: l’invasione psichica del-l’inglese, il computer (Si riparano per-sonal [computer], è una raffinata sesti-na in settenari dove la poca perizia del-l’utente è riscattata per competenza ditecnica poetica), si trova esposto allapropria inadeguatezza nel corso di unamemorabile seduta domestica di ago-puntura. In un’inusuale ‘forma-appun-to’ (il non finito è qui molto anni ’70),il testo elabora la rinuncia al desideriocome rinuncia alla dimensione pubbli-ca che è il lavoro, scaduto per il sog-getto nei termini di un diritto al dove-re, un sacrificio la cui ara è «il posto dilavoro» (è preoccupante che per l’au-tore questo coincida con l’Università).Dove il posto di lavoro di Sereni era lamisura della catastrofe quotidiana pro-vocata dal consumarsi del tempo, perMagrelli è il luogo emblematico dellasua solitudine pubblica. L’interruzionetra esterno ed esterno è data come defi-nitivamente accampata nel campo diesperienza del soggetto. Riprendendoallora Post-scriptum («Fino ad alloraavevo ciecamente / creduto nella sacraliturgia del colloquio. / Comunicare,per me, significava comunicarsi / nellacomunione di una parola comune»),viene da chiedersi se il congedo dallacomunicazione faccia del libro l’ulti-mo frutto dell’era in cui questa eraancora possibile o se invece sia la‘prima volta’ del relazionarsi con unanuova fase. Ma si tratta probabilmentedel punto di crisi in cui sono vereentrambe le cose. La scoperta è ormaiquella di una scrittura ‘disincapsulata’,fuoriuscita da sé stessa, passata daltempo della lingua condivisa al tempoinsidioso dello sguardo condiviso,

Valerio Magrelli

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libero in apparenza, ma orientabile dauna serie di a priori al di fuori dellecapacità politiche del soggetto, terra diconquista per la volontà di potenzadell’anatra-lepre. È nel disegno dimantenere uno sguardo etico nellascrittura, di mantenere il verso legatoad un fine, malmenato o perso l’attodella comunicazione, ma puntandoallora sulla sua potenza, mai cosìimpura, sulla ‘comunicabilità’ delloscrivere, che continua ad esserci carala poesia di Magrelli.

Fabio Zinelli

GABRIELLA MALETI, Parola esilenzio, Firenze, Edizioni Gazebo2004, pagine 52, s.i.p.

«Lasciare il silenzio così com’è? /Calco del tempo? Opera? / Volontà?Casualità? / Silenzio?» Tutta incentra-ta sulla dicotomia parola/silenzio (daleggersi, forse, come poesia e vita?Teoria letteraria e quotidianità? Amoreo rimorso?), la silloge di GabriellaMaleti segue la via della vena narrati-vo-discorsiva che le è familiare e fun-zionale; ma anche non rinuncia all’a-bilità tecnica di far suonare i suoni(consonanti) e ri-significare le parole,concrete o astratte, lasciandole ‘cozza-re’ (o ‘chiocciare’?) insieme e gene-rando un ritmo altalenante e convin-cente. Tra interrogativi e dilemmi avalenza estetica e immagini sincretisti-che e metaforiche, luoghi dell’anima(come il «bosco muto») o spiazzantiellittiche improvvise in un sottofondodi ‘realismo’ del linguaggio, compren-dendovi anche lo stile comico o paro-distico, emerge e si imprime il sensoamico del balbettamento, il ripiega-mento del gioco amaro, la privazione(cosciente e complice) del ‘livelloalto’. E, tra «tentati rimedi / e tentateabiure», si incastra il forte tema del‘sacrificio’ continuo dell’artista e nellafattispecie del poeta, sacerdote attentotragicomico ed immerito tra i due poliopposti, colui che dovrebbe custodirela chiave che apre ogni silenzio alsuono, ma il cui riconoscimento agliocchi degli altri finisce con svanireperché «invece le calze si sono rotte e/ dal freezer non si è tolta a tempol’anca di pollo», e la cui trasognata epoco miracolistica figura ricorda – in

una curiosa ‘riscrittura’ della fiaba –Cenerentola. E la parola? Sembre-rebbe che, come per il fiore nella fotodi copertina (da considerare parte inte-grante del testo, perché scattata dal-l’autrice), fiore-dono per metà nelvaso e per metà fuori, anche la dimen-sione naturale della parola non possaessere che d’acqua e d’aria, nella coin-cidentia oppositorum della pagina.Perché «Quello che fu ed è amore-scrittura torna amore / e resta tale. /Altro non ci sarebbe da dire».

Caterina Bigazzi

GIULIO MARZAIOLI, Quadran-ti, Oedipus, 2006, € 8,00.

Con In re ipsa (2005), il suo libroprecedente, Marzaioli aveva mostratoun’accensione sonora, o meglio ritmi-co-sonora che tendeva a racchiudersinella misura di pochi versi, per lo piùbrevi. Ne sortivano rimartellamenti sucola alternativamente minimi o ecce-denti la misura del verso, con effetti dirima al mezzo, come in questo caso:«Chiome. Chi osa violare? / Chi omeglio cosa se non / interferenze, venechiamate / a ferire? (l’inferno è sempre/ sotto, verde ben raccolto)». Se poil’ultima sezione accoglieva invece trecomponimenti lunghi (Riflesso, Vene,Verso), identica restava l’insistenzafonica, irrobustita però in questo casoda una struttura sintattica allo stessotempo solida e volubile, agglutinante aspirali e battuta su di un tempo tuttosuonato in semibiscrome («Ed inver-tendo viene neve nel / vento, gelidavira, sviene, risale / e viene ancora, eancora ve ne / fosse ad invernare [...]»).Con Quadranti le scelte espressivesono in parte mutate. Intanto non piùversi, ma prosa, lasse compatte e disolito assai brevi, con la punta massimadi una mezza paginetta. Ne deriva unrallentamento del ritmo, che però restaelemento cardinale del tessuto compo-sitivo. Ma è forse nell’articolazionesintattica che maggiori sono i cambia-menti, se è vero che essa tende a farsisostegno di un andamento concettualeche si mostra, sia pure tra sincopi ecrasi, più raziocinante. Un breve esem-pio: «Meglio scarnificarsi, dettagliato.Tutto di taglio in uno, concentrarsi.Così per aderire all’altro, con incastro.

Uno per ogni altro nelle ossa». Come sivede, la sintassi, sia pure nominale, èdisposta a isolare momenti di pensieroprogressivi, così che dalla constatazio-ne iniziale, dov’è certo un valore ottati-vo se non proprio esortativo, si arrivaall’affermazione conclusiva, che chia-risce la precedente frase finale. Quelche però resta collocato in bella evi-denza è il tessuto sonoro, nel quale irimartellamenti sillabici hanno spesso-re semantico tanto da realizzare giochietimologici (dettaglio/taglio), o crassesovrapposizioni in clausola -arsi, -astro, ossa. Un tale smembramento delcorpo fonico della parola che si appog-gia appunto sullo sviluppo progressivodella sintassi, è poi in rapporto con iltema del libro e con la sua organizza-zione macrotestuale complessiva. Qua-dranti, come per una bussola, e dunquein un campo di azione perimetrato,ridotto a composizione logica. E pro-gressiva, se le quattro partizioni, intito-late ai quattro punti cardinali, prose-guono secondo l’ordine Est, Nord, Sud,Ovest, così da realizzare il più classicodei movimenti verso Occidente. Dallanascita, dunque, verso la fine, oltre laquale, a discorso poetico compiuto, siapre la dimensione della pulsione bio-logica. Al di qua di quel limite, le partidescrivono innanzitutto la tensione trail di qua e il di là. Non si tratta di un’or-ganizzazione spaziale, della creazionedi uno spazio dove si soggettivizzi ilsoggetto, ma proprio di una definizionebiunivoca, nel senso di un’infinita dia-lettica servo-padrone: i due poli si ten-gono appunto perché coesistono.Questa tensione realizza poi il movi-mento. Lo spiega il secondo capoversodella prima lassa: «Un lato e l’altro –altro. Altrove, dove scorre, non c’è soc-corso, se non come registro del passag-gio. Qualsiasi cosa dentro, ma verso unfine. / Indefinibilmente, ma verso».Scorrimento della materia organicaridotta a mira biologica che non puòche concludersi col caos (viene inmente Gadda: «tendo al mio fine»,ossia, prima o poi dovrò finire...).Tuttavia un soggetto c’è, un resto disoggetto, che è però soggettività mate-riale: carne. Ecco dunque quello che misembra il tema di base di Quadranti: dauna parte il «corpo cartesiano» (p. 24),dall’altro la «carne» (ivi). Che è a dire:da una parte l’organizzazione membra-

Gabriella Maleti

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tim della compagine umana (con la suaderiva ideologica: c’è un corpo, ergoc’è un individuo), dall’altra parte lapura presenza – elastica, malleabile,come di una sorta di gelatina senziente(La fisica del senso! diremmo adessocon Cortellessa, la sua fisicità sensibi-le). Certo, nella vita ordinaria si vive dicorpi e di sue derive ideologiche, mavige costante la minaccia sottile chetutto si possa scompaginare, che essopossa squassarsi per l’improvvisacaduta di ogni illusione strutturale ecosì aprirsi sulla familiarità con la puraNatura, la quale a null’altro tende cheal suo fine: andare-verso, «indefinibil-mente», al di là della rocca individuale.Che poi Quadranti raffiguri una stanzachiusa con dentro due amanti, noncambia di una virgola il suo discorsoprofondo. Sesso è per eccellenza unaspinta verso, «Sino ad arrivare infondo. Foro. Fuori» (p. 31).

Giancarlo Alfano

PIERA MATTEI, La materia invi-sibile, S. Cesario di Lecce, Manni,2005, pp. 111, € 10,00.

Di che materia si compone la musi-ca, è il titolo dell’illustrazione sullacopertina, opera pittorica dell’autrice,il medesimo della poesia a chiusura delvolume; La materia invisibile, è il tito-lo del libro, sotto l’illustrazione. Lamateria di cui si compone la musica èinvisibile, ma anche le parole sonocomposte di materia invisibile, «leparole sono esse stesse MateriaInvisibile». Musica e parole sono glistrumenti con cui mettere in atto ognisperimentazione sulla realtà, per la lorointima con-sostanzialità gli unici ingrado di penetrare nel vivo delle quali-tà che non cadono sotto i nostri occhi.Perché materia invisibile è «l’animainseparabile delle cose». La raccolta,ordinata per sezioni cronologicamenteretrograde all’interno di una più vastascansione in due parti, si apre con lepoesie di Gli angeli dell’insonnia. Èinfatti la realtà vigile dell’insonnia,notturna e diurna, lo spazio in cui cre-dere nella materia invisibile, ricono-scerla, rinnovarla, evitando lo specchio«perché lo sa di notte è invisibile».Nella sezione successiva, Lungo unasola direzione, l’invisibilità è restituita

da un lavoro di musica e parole cherestituiscono la tramatura originaledella materia di cui esse sono parte, inun disvelamento da cui è impossibilefare ritorno. Nell’ultima sezione dellaprima parte, Epigrammi lirici. Le paro-le, la Mattei passa al setaccio le parole,per isolarle dalla materia intrinseca –«…e passarono notti a spillarle / dentroteche di collezionisti» –, disinnescarequelle eccessive, prepotenti, per poiriporre le altre «in comparti diversi»,verbi, aggettivi, preposizioni e «…inomi, ben lucidati, risplendenti / masilenziosi, innocui», fino a ridurre tuttoall’essenza, all’unicità dell’invisibile.La seconda parte della raccolta, anchenei titoli, è dominata da voli. Voli diuccelli che prolungano una felicitàsospesa, spalancati su una Roma verdenell’inverno (Siamo noi quell’uccello),voli di stelle e pianeti, e piccoli voli dicreatura terrestre, gallina monca, raso-terra e a ritroso, «eliminando – uno allavolta – i sensi», consapevoli dell’azzar-do e della vertigine, anelanti alla stabi-lità delle querce, a vivere strettamentelegati ad altri «più pesanti oggetti / acorpi dotati / di radici, a pietrosi /immobili concetti». La materia checompone la musica della poesia finaleè una sintesi della riformulazione deicorpi, e il suo presupposto, avvio e con-clusione del passaggio invisibile:nuvole, canti alati dalle penne robuste,ma «quietamente spiegate / naviganoalla voce del soprano // sovrana assorta/ senza strumenti se non l’aria / nellagola, nel docile palato».

Mia Lecomte

ELIO PAGLIARANI, Tutte le poe-sie (1946-2005), a cura di AndreaCortellessa, Milano, Garzanti, «Glielefanti» 2006, pp. 512, Euro 19.

Lo scaffale di una libreria a Ferrara,una domenica mattina d’inizio Feb-braio. Non ci potrebbe essere, forse,un contesto più adatto entro cui imbat-tersi, per una circostanza fortuita, eprendere confidenza con l’opera cheper la prima volta raccoglie tutta laproduzione poetica di Elio Pagliarani,sdoganata da filoni di realismo/neo-realismo sotto la cura di AndreaCortellessa (che firma anche un ampiosaggio introduttivo) con l’ausilio di

una ricca antologia critica. Non dun-que Milano, scenario dei testi fra i piùcelebri e celebrati di questo autore: letante Milano sorvolate da cieli metal-lici «colore di lamiera» che riflettonole fabbriche «a Sesto a Cinisello allaBovisa», concentrate a scandire la vitaquotidiana dei lavoratori – impiegati«All’ombra del Duomo» o operai, abi-tanti autoctoni o forestieri; bensì, laFerrara degli «Epigrammi» omonimi– per la verità citata e presente solo neltitolo – molto meno industriale, menod’«acciaio», decisamente più a misurad’uomo, poco distante dal mare (unicavia di fuga ormai, dato che in prece-denza, nel poemetto La Ballata diRudi, era stato suggerito che «dobbia-mo continuare come se non avessesenso pensare che s’appassisca ilmare»), una città che trattiene ancoratracce della voce del ferrareseSavonarola della quale il riminesePagliarani ha voluto rialzare il volumeriscrivendo, manipolando, traducendobrani tratti per lo più dalle PredicheSopra Ezechiel del predicatore quat-trocentesco. Sono componimenti lapi-dari, secchi e scarni, di pochissimerighe, non ci sono scenografie oambientazioni in questi versi perfetta-mente estranei a ogni paesaggio. Lospazio testuale è occupato tutto dalsolo ‘cogitare’ fulmineo della mente, amo’ di sentenza, su argomenti qualifede, religione, società, popolo, pote-re, in un’atmosfera di sospensionetemporale. Non conta che il materialeutilizzato nell’arte sia di cinquecentoanni prima, manipolare e dialogarecon passi del Savonarola vale comeconfrontarsi e confondersi nelle paro-le dette o scritte o lette della contem-poraneità. «Non dire anche tu che l’ar-te non c’entra col tempo / quando èuno dei modi del tempo / di essere,quando sono di più / i modi di nonessere del tempo» era stato anticipatoin «Fecaloro». Essere del tempo (enon nel tempo) significa assumersiresponsabilità anche nell’arte, le cuimodalità di operarvi rispecchiano laposizione nei confronti del propriotempo verso il quale ci si può anchesentire estranei o fuori tempo. La dif-ficoltà di comunicazione, il balbettiodei codici linguistici saettano negli«Eccetera di un contemporaneo»come lampi, come «scorregge», e

Piero Mattei

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danno in conclusione una rispostamorale a tutto ciò, perché «Non so seavete capito: siamo in troppi a farmischifo», che non è, si badi, una«implosione arteriosclerotica / ovve-rosia casino confusionale» di un«pacifico bisonte», quanto piuttosto laconstatazione amareggiata di comel’afasia sia una delle reazioni plausibi-li e civili di argine individuale controil riflusso della deriva politica socialeculturale e anche umana dell’esistenzaodierna. Del resto, nelle «Lettere» diLezione di Fisica e Fecaloro il lettoreera stato preavvisato di questo passag-gio e stilistico e metrico e semantico:«Lo vedi anche tu / siamo in un otto-cento di appendice; non si può cavar-ne una storia / nemmeno da mettere inversi: ci sono esperienze / che non ser-vono a niente che si inscrivono / comepuro passivo». Si assiste quindi negliEpigrammi da Savonarola MartinLutero eccetera a una continua sottra-zione testuale, in sintonia con un pro-cesso, quello appunto della sottrazio-ne, che sembra attraversare l’opera in-tera di Pagliarani, lucidamente e con-sapevolmente, disseminando spunti(concetti o modi poetici diversi) nelpassaggio da un libro all’altro, checome germi contamineranno e prolifi-cheranno nel lavoro successivo. Ecosì, se passando da Cronache e altrepoesie a Inventario privato si perde unpo’ la determinazione di luogo e ditempo (tutti i componimenti delleCronache riportavano in calce l’annodi stesura), l’ingombrante e poliedricoio poetico (a volte al femminile: «Incasa, adesso faccio la sarta») di sup-porto scenografico e di effetto emoti-vo degli esordi, nel poemetto Laragazza Carla si sottrae al ruolo diprotagonista costante e si accuccianelle varie voci e lingue dei personag-gi (i pensieri di Carla, la terza personanarrante, Aldo, un noi corale e condi-viso…) parlate senza soluzione dicontinuità, cosicché, non separate unadall’altra neanche ortograficamente,fioriscono in quella che GuidoGuglielmi ha chiamato «plurivocali-tà». Sul piano metrico i versi vannoperdendo la loro estensione normale equesto loro bisogno di maggioreespansione affiora in qualche rigadella Ragazza Carla, per farli poi pro-tendere in «Fecaloro» oltre la lun-

ghezza della pagina quasi abitualmen-te, mentre nel contempo sul piano nar-rativo viene meno un canovaccio ditrama o argomento che leghi i testiall’interno della singola sezione, eviceversa, da una parte prende piedeun trattamento astratto delle parole eparti di frase o di discorso come bloc-chi materici o masse di colore, per iquali non conta più la sintassi e ilsignificato linguistico ma il loro‘movimento’ e le loro variazioni/spo-stamenti possibili all’interno dell’ope-ra e dello spazio, dall’altra parte divie-ne pressoché sistematica l’assunzionedi vari linguaggi tecnico-scientifici alingua poetica («La produzione aurife-ra è in aumento e nel ’55 / tocca i 27virgola 5 milioni di once;») che avevavisto nel poemetto di Carla brevisprazzi nei pochi paragrafi riportatitout court da un manuale di stenogra-fia. Neanche il tempo di familiarizza-re col «verso lungo, […], della fisar-monica spalancata», che già si annun-cia una riduzione di esso («il verso sifa compiacente, niente è più facile diquesto ma io lo spezzo») per «riacqui-stare facoltà di articolazione più varie-gata», ci chiarisce la nota d’autore infondo agli Esercizi platonici, prodro-mi degli Epigrammi. Diversamente LaBallata di Rudi, coprendo un arcotemporale di gestazione più che tren-tennale, racchiude, accavalla, rime-scola tutte le forme, metriche stilisti-che tematiche, che hanno caratterizza-to i testi in questi decenni, dalla pluri-vocalità, a una trama-pretesto che siperde di vista ma poi ritorna, ai lin-guaggi scientifici e massmediatici,agli esperimenti estremi col linguag-gio, dove qui la parola (corpo, oro,rosso…) è alla incessante ricerca ditrovarsi un ‘posto’, quasi una giustifi-cazione ontologica della propria esi-stenza, ma proprio così facendo esau-risce qui tutto il suo senso, nel decorodella composizione, nella rincorsaossessiva dietro alla propria eco. Ilvolume contiene infine le «Poesie dis-perse»: alcune sono state a suo tempo«escluse» da una raccolta, oppurehanno seguito altri canali di pubblica-zione o vi si sono sottratte, altre sonoinedite. Nell’ultima che chiude illibro, datata 2005, l’autore era un ra-gazzo di diciassette anni nel ’44; fer-mato da un drappello di tedeschi, si

toglie «la protesi oculare» e mostraall’ufficiale «l’orbita cava dell’oc-chio», per poi fuggire via. È forse quelsenso di sottrazione e di perdita che cipare percorrere tutta la sua opera poe-tica, quando ogni volta gli spunti anti-cipatori rispecchiano lo sforzo mag-giore di messa a fuoco e di visuale acui è sottoposto l’occhio residuo?

Giuseppe Bertoni

TIZIANO ROSSI, Cronaca perdu-ta, Milano, Mondadori 2006, pp. 128,€ 9,40.

In una recente antologia, Dopo lalirica (Einaudi, 2005), Tiziano Rossi,nato a Milano nel 1935, figura dopoValduga, che è del ’53, e subito primadi Magrelli, classe 1957. Inopinato lif-ting, che lo proietta fra i poeti ‘giova-ni’. Una spiegazione c’è: il curatore,Enrico Testa, seguendo l’esempio deiPoeti italiani del Novecento diMengaldo, adotta un ordine cronologi-co basato non sulle risultanze anagrafi-che, ma sui tempi dell’affermazionepoetica; e la prima raccolta di Rossidegna di entrare nel canone, per Testa,è quella, in effetti splendida, uscita nel’98, Pare che il paradiso (bello già iltitolo, che ne varia in paronomasia unodi Frénaud: Il n’y a pas de paradis). Lamotivazione è stilistica: prima, domi-nerebbero «fenomeni testuali di sfilac-ciamento discorsivo» e «nessi razioci-nanti», dilatati «verbosamente»; dopo,la «sintassi scioglie i suoi grovigli» e ildiscorso si fa «pacatamente drammati-co». Giudizio doppiamente discutibile:perché Rossi è poeta notevolissimo –non inferiore al poco più anzianoRaboni, oserei dire – fin dagli esordidel Cominciamondo (1963) e dellaTalpa imperfetta (1968): certo risentitie a tratti petrosi, mai però involuti; eperché i primi cospicui indizi di unasvolta verso cadenze più piane si col-gono negli anni Ottanta. Come puòverificare ogni lettore del volume cheraccoglieva, fino a oggi, l’intera produ-zione dell’autore milanese: Tutte lepoesie (1963-2000), con prefazione delcompianto Piero Cudini (Garzanti,2003). Appare ora nello ‘Specchio’ unanuova raccolta, Cronaca perduta. E,leggendola, forte è la tentazione di darragione a Testa, anzi di postdatare

Elio Pagliarini

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ancora il floruit del poeta. Si tratta diun libro, a suo modo, d’esordio, perchéinteramente composto di poèmes enprose, cioè di poesie in prosa (non‘poemi’ o ‘poemetti’, come si usa tra-durre): genere già praticato da Rossi,ma a intermittenze, e qui promosso astrumento espressivo unico. Genereche ancora fatica, in Italia, a uscire dauna protratta condizione di minorità;mentre altrove, soprattutto in Francia,da più di un secolo gli è riconosciutadignità pari a quella dei versi. Certo èdeterminante, da noi, l’assenza di unarchetipo autorevole come Lo spleen diParigi; ma pesa soprattutto l’abbracciomortale della prosa d’arte, che ha tra-sformato il poème en prose, già nelframmentismo d’inizio Novecento esempre più negli esercizi ermetici, inpalestra di sterile bellettrismo. Peraltro,se in Baudelaire vocazione narrativa evirtuosismo ritmico, prosa degradatadella vita metropolitana e impennateliriche, trovano un equilibrio perfettoquanto precario, già nella sua immedia-ta discendenza francese (per tutti:Rimbaud e Mallarmé), il primo ele-mento tende a affievolirsi. Ritornainvece in forze, fin dal titolo, inCronaca perduta, che non esita a riven-dicare – in coerenza con quella concre-tezza «rasoterra», di ‘linea lombarda’,cui Rossi da sempre è fedele – unaredenzione poetica del fait divers, deglieventi minimi e dimenticati, ma poten-zialmente carichi di enigmatico senso,che punteggiano la quotidianità deinostri anni «confusi». Come nellequartine di Gente di corsa (2000), ognitesto, di norma, mette in scena un (ouna) protagonista: la poesia di Rossi ècorale; l’io abdica alla sua centralitàlirica per lasciare spazio alle storie, espesso anche alle voci, che si assiepa-no, «come su una gratuita ribalta», inuna routine domestica in apparenzabanale, in realtà stravolta. Non di radoinconsuete, le vicende narrate per breviscorci «stralunati» contemplano un’ir-ruzione dello strano nella normalità,che certo risente della lezione diBreton: ma in un’accezione di surreali-smo laico e (se è lecito l’ossimoro)razionalista. E di là dalla commozioneaffettuosa con cui sono raccontati, que-sti autentici, densissimi, micro-roman-zi tratteggiano i contorni sinistri di unmondo dove domina «la crudeltà, che

s’insinua nelle occasioni più dispara-te». Sotto gli occhi del lettore si dise-gna, per frammenti, il quadro di unanuova mutazione antropologica, «per-ché davvero c’è un’altra trasformazio-ne nei nostri paesi ed è cambiata anco-ra la convivenza delle persone». Civuole coraggio, oggi, per impiegare inpoesia una subordinata causale: e non èun caso isolato; anzi, il ricorso a un’in-tonazione sapienziale, naturalmente disecondo grado, spesso ironica o in fal-setto (ma non troppo), potrebbe perfinoassurgere a cifra stilistica dell’interovolume. Un altro esempio: «perché –come sempre – il tragitto è la cosa piùbella». Il fatto è che del poème en proseRossi riattiva con straniata originalitàuna delle possibili ascendenze: quellache in vari testi dello Spleen di Parigilo ricollega alla tradizione della favola,da Esopo a La Fontaine. Meno ancoradi quelli di Baudelaire, tuttavia, gliapologhi urbani di Cronaca perdutaconsentono un’univoca traduzione alle-gorica; sono allegorie vuote, senzachiave. Non contengono una moralecerta; se a tratti sembrano esibirla (ifrequenti «perché»; certe conclusionisentenziose), è per revocarla subito indubbio. E però reclamano un’interpre-tazione: al tempo stesso impossibile eirrinunciabile. Storie e personaggi lan-ciano «i segnali», costruiscono i «sim-boli improbabili», di cui la nostrasopravvivenza «abbisogna»: «e sianopure contraddittori». Come la vita deglianimali, «nostri astrusi cugini», dasempre enigmatici protagonisti dei testidi Rossi; come la salamandra, che«porta testimonianza, ma di che?».Anche se poi una costante di significa-to s’impone: spesso il tema zoologicogenera gli scenari di una spietata lottaper l’esistenza, che proietta la suaombra sul mondo degli uomini.Ovunque, «poca è l’assistenza e infles-sibile la selezione». Cosicché, diCronaca perduta, si potrà dire che èlibro darwiniano; o, forse meglio, eso-pico-darwiniano, come sembra indica-re, in Uccelli, la cruenta battaglia fra«due smisurati stormi»: di «passeri dicampagna e passeri di città». La sceltadella prosa non tradisce dunque, anziapprofondisce, i temi profondi delpoeta. Accanto alle vicende mute deglianimali, quelle di anziani, malati ebambini: vittime predestinate, perché

«sfinito è anche il paese dei balocchi».Vittime «forse innocenti»: ma nonsempre (a ognuno «la sua briciola dibarbarie»), se è vero che «l’ottantacin-quenne signora Saramenti», nel super-mercato dove siede in senile feticismodelle merci, «ricorrerebbe tranquillaanche a degli sbudellamenti». E poitorna, dalle precedenti raccolte, lamemoria dell’infanzia bellica: fra tene-rezza memoriale e affioramenti dell’or-rore; nella consapevolezza che «adessonon è finita la guerra, s’è trasferita piùin là». A maggior ragione perché inprosa, le poesie di Cronaca perdutameriterebbero una puntuale analisi rit-mico-metrica. Non soltanto sulle traccedi versi tradizionali nascosti nelle pie-ghe delle frasi, che pure non mancano:settenari, anche doppi («poi passo leg-germente le parti da brunire»; oppure:«un po’ di quel prestigio che è degliscampati», dove però il secondo puòessere anche senario); vari endecasilla-bi, spesso ipermetri (come già in Gentedi corsa), o comunque antipetrarche-schi, per esempio di quarta e settima(«le sue figure estasiate e travolte»).Non soltanto per ascoltare la cadenzadelle rime interne, alcune appena sug-gerite, altre esibite («blu» / «tivù»). So-prattutto, per render ragione delle spo-radiche accensioni liriche, che si svin-colano inaspettate da una sintassi linea-re e perfino analitica, e che a volte siesauriscono nell’attimo di un sopras-salto: come il «sussulto» del signorR.B., nella magnifica Formiche, cheaspira a distinguere differenze di«carattere», non di «mansione», nelle«geometrie sapientissime», e «parec-chio sadiche», che regolano «il mondovorticante degli insetti». O, ancora, persondare le ragioni musicali, oltre chesemantiche, di un altro dei rari scartistilistici della raccolta, il ricorso fre-quente all’infinito sostantivato (deltipo: «il tenebrore del campare»).Lessico in prevalenza colloquiale, manon privo di increspature, capaci a trat-ti di ripristinare le fragili barriere deldecorum letterario; sintassi piana,anche se tesa; impiego parco ma strate-gico delle figure ritmiche e retoriche,fra cui primeggia l’allitterazione. E poi,intensità drammatica, minimi e impre-vedibili colpi di scena narrativi. Sipotrebbe ripetere per la prosa poetica diRossi quel che in Visita è detto dell’al-

Tiziano Rossi

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truista signora Cralli, che s’industria«così da tendersi (non senza impacci)verso il sublime». Impacci necessari: auna rappresentazione esatta della «sto-ria contemporanea» e del suo «strido-re»; della capacità umana di «adatta-mento a condizioni di macelleria».Dove resiste, però, la vocazione a unadisperata dignità; e agisce il «tònico»di un possibile, minimo eroismo quoti-diano: come quello balneare del signorBolandini, che «va nuotando coraggio-so verso il largo»; come quello del«restauratore» di Lavoro, o della bimbaSantina che disegna, con araldica«virtù», in Quadro: trasparenti figuredel poeta, che dà colore al «vuoto bian-chissimo» della pagina, «dove primanon c’era la storia di nessuno» (ancoraun doppio settenario). E se «tragica èl’opera perché ci incorpora», il recupe-ro memoriale di Cronaca perduta èanche «festa provvisoria del creato»:«come un’arca che un poco la scam-pa». La poesia è sottrazione precaria al«transitare spedito degli anni», che cidisloca in «processione rigorosa».Forse è questo il baricentro della rac-colta, che una volta di più giustifica lascelta prosastica e narrativa: una rifles-sione mai scontata, e solo in superficieelegiaca, sul tempo. E sull’oblio: la cuipotenza disgregatrice, nella bellissimaAntenato, è in opera fin dalla primainfanzia. Per il piccolo L.M., di ottomesi, che ormai «si sforza con succes-so di stare ritto in piedi», è preistorial’era in cui «non riconosceva nessuno»;«di quel suo passato indifeso e invòl-to», serbano un ricordo già «ap-pannato» gli adulti che lo circondano;per lui, con buona pace della vulgatapsicanalitica, «è disceso per sempre nelbuio».

Pierluigi Pellini

EVA TAYLOR, L’igiene dellabocca, con una nota di Anna MariaCarpi, Brescia, Edizioni l’Obliquo2006, pp. 59, € 11,00.

In un’atmosfera quotidiana di atten-zioni e sollecitazioni martellanti allacura, pulizia, profilassi di un corpoche contraddittoriamente abita unaterra da lui sporcata, maltrattata,lasciata deperire irreversibilmente, untitolo come L’igiene della bocca può

risultare lo slogan puntuale di unmomento culturale preciso della con-temporaneità. La bocca è un organo,una sede, uno strumento: un mi-cro/macrocosmo, con almeno «triacorda», i ‘tre cuori’ dell’esergo latino,cioè le tre lingue parlate da Ennio (nelcaso della Taylor italiano, tedesco einglese ci dice in nota Anna MariaCarpi), che possono anche essere peròtre funzioni principali assolte dallabocca, ciascuna di esse dotata di unsuo cuore, di una sua anima. La boccaè un organo all’interno del quale siarticolano suoni e fonemi della comu-nicazione vocale, è la sede del pro-cesso di masticazione, ma all’occor-renza diviene strumento di trasferi-menti emozionali, ad esempio diattacco o difesa per mezzo dell’azionedel mordere o di affetto attraverso ilbacio. Operazioni automatiche che lacavità orale esegue ciascuna autono-mamente, ma che in questo ambitotestuale si vengono ad accavallare eaggrovigliare una nell’altra tramiteinterferenze espressive e linguistiche,creando un cortocircuito spiazzante:«La mia lingua ti ha cercato fra i mieidenti / ti sei nascosto per assaporare /tutto ciò che volevo dire / parole rima-ste in bocca / accanto a te». Tali mec-canismi fisiologici innestati nel pro-cesso linguistico potrebbero richiama-re per certi tratti procedimenti poeticidi Elisa Biagini: in realtà qui siamo inun ambito più tecnico, più meramenteanatomico, lessicalmente crudo eaggressivo («Pulpectomia» si potreb-be parafrasare pulp della detartrasilessicale), esente da una biaginianadialettica metaforica con le sfaccetta-ture ‘domestiche’ di una vita casalingache origlia all’esterno. Difatti l’am-biente non è un paesaggio, una casauna stanza, ma la bocca e i suoi abi-tanti: denti lingua (quale «tessutomuscolare» e quale codice di comuni-cazione) e gengive, surrealmentedeformati («bianche montagne denta-li», «sono scesa nella camera pulpare /attraverso il canale radicolare») eminati dalla malattia, dalla carie, cioèdisguidi e incomprensioni del lin-guaggio, della masticazione, dellaconversazione. Il libro si divide in treparti, «Prima igiene», «Igiene alfabe-tica», «Igiene ultima»: prevenzione esalvaguardia della salute orale sembra

essere l’impulso dominante, ma«ormai è troppo tardi / per correggerela mia bocca», «fili di sangue attraver-sano il cavo orale / […] / quando spaz-zolo, quando formulo, quando respi-ro», «quando chiudo la bocca affogonel rumore dei denti». Si può tentaredi porvi rimedio con interventi odon-toiatrici per impiantare «corone in unabocca senza denti», che come le paro-le sono «protesi per tritare la vita».

Giuseppe Bertoni

ANDREA TEMPORELLI, Il cielodi Marte, Torino, Einaudi, 2005, pp.65, € 9,50.

Esordio ‘secondo’ sotto mentitespoglie di un giovane redattore di«Atelier» (classe ’73), la raccolta si fanotare subito per l’uso sistematico,con le specificazioni che diremo, dellaforma più nobile della tradizione poe-tica italiana classica, ovverosia la can-zone di endecasillabi e settenari, in 30testi titolati e quasi tutti pluristrofici(12 da due, 6 da tre e quattro, tre dacinque, uno solo da sei), con stanze fra8 e 35 versi (ma per lo più contenutefra 10 e 20), organizzate secondoschemi rimici finissimi specie perl’uso di sdrucciole, ritmiche, irrelateed interne. All’allusività ‘categoriale’dello pseudonimo il titolo sommal’ambiguità tra il riferimento dantescoagli spiriti militanti (legittimato da untono ‘civile’ solo latamente) e unametaforica più ‘analitica’ dei singolicomponenti del sintagma: così l’auto-re «martire fra schiere / di mamertiniin festa / con le baldracche diBaudelaire» del testo d’esordio, inau-gurando un lessico non soffocante madiffuso in tutta la raccolta (tregua,coraggio, sangue, guerra, disfatta,battaglia, vittoria, armi), sembra pri-vilegiare l’accezione militare di unMarte non più «soltanto un dio deicampi», piuttosto che quella del piane-ta su cui si posa il Primo passo deltesto finale, metafora di «un angolo /dell’universo vergine e inondato / diluce». Dall’altra parte, se non a offrireuno scampo alla diffusa violenza del-l’esistenza, almeno a sovrastarla, èproprio il cielo, insostenibile perchéterso, inesplorato, col valore metafisi-co di una metafora semplice che rap-

Eva Taylor

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presenta l’essenza, e rinforzato dariferimenti espliciti alla divinità e aitesti sacri (La tenda di Mamre dalGenesi). Intanto l’affabulazione sidipana a ridosso di altri asili, terrestrie un po’ più fragili, a cominciaredall’oikos: la casa comunque tua, ani-mata di oggetti e ricordi di Novecento,teatro dell’Indagine domestica chericompone storie nella memoria («leforbici cadute sotto al letto / schiudo-no varie trame»), o scena non più stra-niera e non ancora tua della neonataconvivenza di Canzone dello sposo,magari nella variante del giardinodepositario di sapienze arcaiche e diun aratro oracolo di padri contadini /fuggiti qui per rimanere vivi, materialitutti soggetti a una forte rarefazione,come qui una situazione moralmente‘virgiliana’ si piega ad una astrattaRetorica del luogo. Ancor meno rassi-curanti, e dunque ulteriormente espo-sti al rischio della pretestuosità proiet-tiva dell’‘occasione’, si affacciano tas-selli di contesti scolastici: il quadro diuna maestra-pittrice, i compiti dei pro-pri alunni delle medie (Verifica dellastoria, Grammatica contrastiva), per-sino i loro turbamenti (Favola). Lapolarizzazione tra una materia piùopaca che scandalosa e un anelitoalmeno filosoficamente metafisico siripropone in un certo senso anche sulpiano stilistico, sebbene nell’opposi-zione fra i caratteri dominanti deidiversi livelli espressivi piuttosto cheall’interno di ciascuno di essi. Da unaparte, infatti, il lessico resta quotidia-no nel concreto (fogna, fango, sperma;fa eccezione colostro) quasi quantonell’astratto (varco, particola d’im-menso; ma cruore), e le sue vetteespressive, se si escludono i tecnicismicontadini di Italia ’57 (brugo, miglia-rolo e brida) e il neologismo sgonna-no, si risolvono in una serie di attribu-ti dotti che si contano sulle dita di unamano (embricate, immemoriali, gem-mante, manetici, sdutto) e soprattuttoscompaiono nel mare di un’aggettiva-zione tanto frequente quanto familiare(con qualche sintomatica insistenza:incontrastabile, incredibile, insormon-tabile, impossibile, inesprimibile,insensata, irreversibili, invisibili,

indecente, inflessibile, inconclusa,insospettabili, inaudita, immediato,indiscreta, infinito, inutile, impensabi-le), che è scelta consapevole e fattaoggetto di autoironia: «L’aggettivo siinsinua nella voce: / tra dire il vero etradire sincero / con questa musicafine è lo stesso» (Infrapensieri del gio-vane uomo). È la stessa linea che nondisdegna una fraseologia comune(giurando e spergiurando, puzza dipesce marcio, rialzare il capo) e, sulpiano sintattico, una conservazione‘disarmante’ dell’ordine naturale delleparole, appena mitigata da qualcheellissi (in compenso i figurati sonospesso introdotti dai nessi di raccordo)e da un uso delle parentetiche atto sì aprovocare scarti verticali nell’elocu-zione, introducendo logiche alt(r)e acommento dell’occasione ‘esistenzia-le’, ma talora con effetti di amplifica-zione narrativa. Al medesimo risultatocospira anche una retorica elementare,che pare a tratti mimare trite figure delparlato, negli accenni dei cataloghicome in ripetizioni banali’ nei mate-riali («Si deve / dire ciò che si sa, ciòche sappiamo»; ci fu…ci fu…) o nelladispositio (ecco l’anadiplosi: ma inse-guito da lei, lei che…; non so incanta-re più le bestie, bestia / io stesso…;così la struttura a cornice, anche inattacchi ‘solenni’: «Il giorno che saràquel giorno…»). Tale colloquialità siriflette, letteralmente, nell’uso dellaseconda persona (con imperativi o tugenerico), e nelle diverse e anonimevoci dei personaggi a cui sono attri-buiti interventi («Ma ovunque unodiceva»; «dice uno», «diceva l’inna-morato a una donna», «Uno / dice»,«ma la voce insisteva a dire» «Comequest’altro: ‘Giuro / – e parla da unastanza / piena di libri – …’») anchesolo ipotetici («sembra pensare»,«Uno direbbe…», «pensava il viaggia-tore», «diranno»). In questo quadrol’innalzamento (relativo) del tono èaffidato, più che alla scelta dei mate-riali, al loro scontro ossimorico (gioiaferoce) o alle loro giunture metafori-che, specie in attriti tra astratto e con-creto che ricordano certo Marinetti(impalcatura delle ore, vetrofanie difuturo passato, scrigno di una favola

inconclusa), solo retaggio di tradizio-ne simbolista di una poesia che privi-legia il ricorso (discreto) ad un imma-ginario mitologico-letterario lontanoma ‘intero’ (Parsifal, Orfeo,Amfortas). E in un certo senso proprioil compito di rappresentare il corri-spettivo stilistico di questa tensione‘totalizzante’ spetta, come anticipato,all’imponente investimento costruttivometrico delle stanze di canzone diendecasillabi e settenari, forma classi-ca con queste avvertenze: a) la misuradel verso è sempre perfetta, ed è fre-quente l’utilizzo di rime tronche,sdrucciole, e talora ritmiche, mentresono rare le assonanze; b) lo stessonon si può dire dello schema rimico,nel quale sono inserite sempre una odue rime irrelate, che talora cambianoposizione da una stanza all’altra, com-promettendo così l’isometrìa dellestrofe, altrove minacciata da cambia-menti della formula sillabica a paritàdi schema rimico (cioè da sostituzionifra settenari ed endecasillabi nellamedesima posizione dello schema trauna stanza e l’altra); c) la divisione trapiedi e sirma è solo parzialmente rin-tracciabile, e per lo più solo nell’esau-rirsi dei primi tre-quattro rimemi neisei-otto versi iniziali, e non anche inuna divisione sintattica. L’esperimentoè molto interessante, e meriterebbealtra analisi, indipendentemente dalfatto che riesca o meno a riscattare laprosaicità della materia («Certamentein Turchia si scava ancora, / mentrequesto sobborgo dell’Europa / declinaogni lamento / e il problema piùurgente è solo un’eco / leggera: la finedel Novecento»); ma è problema di cuiTemporelli è conscio: «E se verrannogiorni senza il fuoco / dell’amicizia miesporrò al confronto, / sebbene nondimostri / la retorica di versi infelici /come questi tanta forza. A momenti /conterai le mie sillabe e per poco / sco-prirai la misura che non è / sicuracome credi. / È lo spazio da te a me, dame a te / che può mandarla all’aria inun istante / e senza indugi travisare ilgioco / in vizio, equivocarne la sapien-za. / Ma ti cedo le redini / perché sia tua inventarne l’innocenza».

Attilio Motta

Andrea Temporelli

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ANTEREM. Rivista di ricerca let-teraria, n. 72, giugno 2006, via Zam-belli 15, 37121 Verona, www.antereme-dizioni.it.

Tema di questo numero raffinato èl’hairesis, inteso come scelta e comeeresia, documentato dal geniale acco-stamento di poesie di Mandel’_tamnella traduzione di Paul Celan com-mentate da Camilla Miglio, e seguiteda altri saggi e altri testi dei due gran-di autori, ma anche di IngeborgBachmann, Thomas Bernhard, ErrnstJandl, Peter Huchel, del direttoreFlavio Ermini, con pregevoli inclusio-ni paradossali come il minisaggio diFélix Duque La fiaba, eresia del mitoe L’amore divino dell’eretico GeorgesBataille.

[F.S.]

ATELIER. Trimestrale di poesiacritica letteratura a. XI n. 41 marzo2006 L’urgenza della contemporanei-tà c.so Roma 168, Borgomanero (NO)28021, www.atelierpoesia.it.

La prima parte del numero è dedica-ta a una nuova rubrica, «Profili», cheapprofondisce il discorso critico su unautore specifico (in questo caso PierLuigi Bacchini, «un poeta che ha fattodella sua discrzione e della sua separa-tezza la ‘specola’ della cultura attua-le»). Fra i saggi qui pubblicati incurio-sisce particolarmente quello di SabrinaBaratta su Il volto ‘drammaticamente’orientale della poesia di Bacchini.Seguono gli atti del convegno diFirenze del 18 febbraio 2005, una tavo-la rotonda fra Ladolfi, Merlin, Buffoni,Galaverni, Cortellessa e Bertoni grade-vole da leggere e necessariamente rapi-da nelle argomentazioni. Seguono itesti di Andrea Di Consoli, MariaTeresa Giani, Davide Nota e GiovannaRosadin (che gioca un po’ sui toniforti, ma ‘buca’ la pagina).

[F.S].

ERBA D’ARNO. Rivista trime-strale, n. 101-102, estate-autunno2005, piazza Garibaldi 3, 50054 Fu-cecchio, www.ederba.it.

Per i contributi poetici segnaliamoin questo numero la sequenza Ka-roline Knabberchech in Lucchesia diClaudio Di Scalzo, in prose alternate aversi, la fresca Aurora di Mario Fresa,Il rumore del tempo e altre poesie diFranco Riccio e Città vecchia di CarloFini, mentre fra le «Note» spicca ilsaggio di Paolo Pianigiani sul duellomancato di Dino Campana con AthosGastone Banti, di cui si pubblicanofoto e documenti autografi.

[F.S.]

IL VERRI. Rivista fondata daLuciano Anceschi a. LI n. 30 gennaio2006 «le forme del racconto» pp. 143Euro 13.50, n. 31 «i diari di LucianoAnceschi» pp. 156 € 13.50.

Il titolo del primo fascicolo si riferi-sce in realtà a un inedito di GuidoGuglielmi che viene fornito in allegato,e alla seconda parte del numero, cen-trata sulla narrativa di Pasolini, Gadda,Manganelli, Landolfi e Primo Levi apartire da un contributo di Guglielmi suUn’idea di racconto. La prima partedel numero 30 invece si occupa di poe-sia con un dossier su Valéry: un saggiodello stesso Guglielmi sul formalismodi Valéry è seguito da uno di NivaLorenzini sullo stesso argomento e dauno di Pellizzi sul saggio di Guglielmi.Il n. 31, che festeggia i 50 anni dellagloriosa rivista, pubblica i diari diAnceschi dal 1986 al 1990, in bilico fraosservazione letteraria e riflessione pri-vata, con un saggio introduttivo diTommaso Lisa. E’ sempre imbarazzan-te entrare nella stanza personale di unautore che non può più correggere,spiegare, integrare, ma la pagine sonoricche di sapide notazioni.

[F.S.]

KAMEN’. Rivista di poesia e filo-sofia n. 29, giugno 2006, red. vialeVittorio Veneto 23, 26845 Codogno,e-mail: [email protected].

La sezione di filosofia si occupa diDino Formaggio e dunque di estetica, i«Materiali» riguardano Edgardo Ab-bozzo, la sezione poetica presenta poe-sie di comunicativa meditazione del-l’autore serbo Aleksandr Ristovic(1933-1994) tratte da una raccolta pub-blicata a Belgrado nel 1979, seguite dauna dichiarazione del poeta e da unsaggio sulla sua opera a cura di LidijaVukcevic che ne sottolinea la capacitàdi estendere il suo sguardo poetico atutto lo spettro del quotidiano.

[F.S.]

LA MOSCA DI MILANO. In-trecci di poesia, arte e filosofia. Ritidi passaggio, n. 14 giugno 2006, viaPadova 77, 20177 Milani, [email protected].

Cambio grafico, con veste più illu-strata, e di editore («La Vita Felice»)per la rivista di Gabriella Fantato, chededica questo numero a interrogare «ilsignificato antropologico, e quindiesistenziale, simbolico e linguistico,dei riti di passaggio» per chiedere«quanto la poesia, l’arte e la filosofiasiano stati e siano tutt’oggi in grado disvelare e dare voce al significato pro-fondo di alcuni momenti fondamenta-li per la vita individuale». Affrontaquesto compito con saggi comeTracce della ritualità funebre nellapoesia italiana contemporanea diAlfredo Rienzi, Il Novecento poeticodi Giovanni Raboni, di RobertaBetozzi, mentre Filippo Ravizza ana-lizza l’antologia di poesia europea Lavoce che ci parla delle EdizioniBottazzi di Suzzara. Fra le prove poe-tiche segnaliamo quelle di MariaGrazia Calandrone e quelle di MiaLecomte, in una maniera parzialmentenuova dal verso più allungato ma

RIVISTE ITALIANEa cura di Simone Giusti

Page 13: 14 poesia italiana+riviste - Università degli Studi di Siena · «liberi e scalzi / le tasche piene di sassi». Di soglia in soglia: in questo iti-nerario ci accompagna la poesia

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mosso dalla consueta interrogazionesurreale e disincantata.

[F.S.]

LA VALLISA. Quadrimestrale diletteratura ed altro, a. XXIV n. 72,ed. BESA v. Duca degli Abbruzzi13/15 73048 Nardò (LE), www.besae-ditrice.it.

Indice denso e ricco come sempredi interventi in campi su cui dobbiamoormai l’informaizone quasi solo aquesta rivista, come la poesia dialetta-le pugliese, gli studi sulla cultura e ilfolklore meridionali (qui sui cultilegati a san Cataldo), interventi criticisu autori pugliesi importanti ma tra-scurati (un dossier di saggi su EnricoBagnato e qualche sua lirica), connes-sioni con terre «vicine» come laSerbia (attraversata con un dario diviaggio di Angela Giannelli), Malta(di cui Olivier Friggieri analizza i rap-porti letterari con la Sicilia) el’Algeria, da dove Anna Santoliquidopresenta la poetessa Nassira Belloula,nei cui versi riaffiora la rimossa afri-canità di sant’Agostino.

F.S.]

PAGINA ZERO. Quadrimestraledi letterature, arti e culture. N. 9,giugno 2006, v. S. Zenone 56, 33052Cervignano del Friuli, www.paginaze-ro.it.

Letterature di frontiera è il tema diquesto numero, che include fra gli

altri un interessante saggio sulla lette-ratura serba in esilio a Venezia fra fine’700 e inizio ’800, di Persida La-zarevic Di Giacomo, e uno di PaoloGalvagni su Samsam AbdullaevChamdam Zakirov: poesia russofonain Uzbekistan (su testi che rivelanoimpreviste citazioni pascoliane), epoesie di Nika Georgevna Turbina intraduzione italiana.

F.S.]

PAGINE. Quadrimestrale di poe-sia internazionale a. XVI n. 47, mag-gio-luglio 2006, via Arnobio 11,00136 Roma.

In primo piano le poesie del cilenoGonzalo Rojas, ministro del governodi Allende poi esule per decenni, cura-te da Gregorio Carbonero, un saggiodescrittivo degli Spazi metrici diAmelia Rosselli con belle foto private,l’abituale generosa antologia liricacon testi di Maria Clelia Cardona,Francesco Dalessandro, Laura Lilli,Dante Maffia, Maria Gabriella Can-farelli, Alessandro Contadini, Giu-seppe Tirotto (in sardo) lo spagnoloAntonio Gamoneda, lo svizzero YvesLecomte (tradotte dal francese), l’ar-gentino Juan Gelman, la statunitenseSabrina Ray Valli, le vivaci poesie ita-liane della cilena Francisca Paz Rojas.La rivista ospite è «Il Gabellino», lacasa editrice Lietocolle di Miche-langelo Camilliti, mentre fra i saggiquello centrale è impietosamente de-dicato da Tiziano Salari alle antologie

recenti di poesia italiana, le quali «nonfanno che ribadire una certa precarietàmetodologica».

[F.S.]

TRATTI. Fogli di letteratura egrafica da una provincia dell’impe-ro. N. 72, estate 2006, Mobydick,Faenza, € 10,00.

La rivista è aperta da un editoriale diautopresentazione che enfatizza l’i-dentità di rivista sostenuta non da una«poetica di tendenza», ma da una«poetica operativa», esplorativa, ca-ratterizzata da «curiosità per il diverso,che rifiuta l’omologazione nella lettu-ra» ecc. ecc. Le concessioni alla retori-ca del marginale e l’orgogliosa difesadi scelte basate solo sulla qualità («seil testo non è della qualità richiesta, sicassa») conducono a individuare i malidella cultura italiana da una parte nel«paludamento universitario» (magari!)e dall’altra nella «bestsellerite»(idem). Questa autocelebrazione è tut-tavia giustificata in fondo dal lavoro disolito eccellente e culturalmentecoerente, con cui «Tratti» ha contribui-to a far conoscere ai lettori della rivistapoeti gallesi, scozzesi, irlandesi efiamminghi. Oltre che italiani. Fraquesti, nel numero in oggetto segnalia-mo soprattutto Valeria Ferraro e AnitaMancia. Interessante ritraduzione deL‘ipocrisia religiosa di Zola e accura-ta intervista a Marco Munaro.

[F.S.]

Paul Klee, Ad Parnassum