1345. La bancarotta di Firenze. Una storia di …...della Peste, che a Firenze come e più che in...
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L. Tanzini, 1345. La bancarotta di Firenze. Una storia di banchieri, fallimenti e finanza, Roma
2018: intervista all’Autore su Letture.org (disponibile al sito: https://www.letture.org/1345-la-
bancarotta-di-firenze-una-storia-di-banchieri-fallimenti-e-finanza-lorenzo-tanzini): si
tratta di un efficace affresco del grande crack economico e finanziario che negli anni
Quaranta del Trecento coinvolse la città di Firenze, causandone la bancarotta. Al di là del
dramma vissuto dagli uomini dell’epoca, si evidenzia la ricerca di provvedimenti di emergenza
per rassicurare i creditori, sostenere l’imprenditoria cittadina, salvaguardare la credibilità degli
operatori fiorentini. La creazione di un sistema di debito pubblico (il cosiddetto Monte) fu la
chiave per il ri-finanziare la Repubblica e uscire dalla spirale negativa innescatasi. Un libro di
cui si consiglia la lettura, al di là dell’esame.
Prof. Lorenzo Tanzini, Lei è autore del libro 1345. La bancarotta di Firenze. Una storia di
banchieri, fallimenti e finanza edito da Salerno: come e perché si giunse al crack del 1345? 1345. La
bancarotta di Firenze. Una storia di banchieri, fallimenti e finanza, Lorenzo TanziniLa caduta delle grandi
compagnie bancarie fiorentine fu scatenata come noto dalle sfortunatissime circostanze della prima fase
della Guerra dei cent’anni, che videro il re d’Inghilterra Edoardo III rifiutarsi di restituire alle compagnie
Bardi e Peruzzi la somma colossale dei suoi debiti, che nel corso degli anni aveva superato il milione di
fiorini. L’episodio in sé però è soltanto il motivo scatenante di una serie di meccanismi politico-finanziari
di vasta portata, ed è per questo che le vicende di quegli anni sono indicative per comprendere un’intera
epoca. I mercanti-banchieri avevano anticipato quelle somme perché non avrebbero potuto non farlo, nel
senso che la loro permanenza nel teatro economico inglese (come in quello francese, del resto) era proprio
condizionata ad un rapporto di speciale vicinanza con la corte regia, della quale operatori stranieri, spesso
circondati dall’ostilità degli autoctoni, non potevano comunque fare a meno. Ripercorrere quegli eventi
significa quindi riflettere in profondità sulle strutture della vita economica e politica del Trecento europeo.
Questi fattori esterni si combinavano poi in maniera micidiale con vicende molto interne a Firenze. La
città infatti tra la fine egli anni ’30 ai primi del decennio successivo si trovò impegnata in una serie di
campagne militari nella Toscana occidentale, specialmente con il vano tentativo di sottomettere Lucca.
Le esorbitanti spese militari sottoposero le finanze comunali ad uno sforzo che andava ben al di là degli
introiti ordinari, le gabelle o imposte sul transito di merci o il consumo. Divenne così abituale attingere
alle prestanze, cioè imposte dirette che gravavano sui cittadini, ma che a differenza delle nostre tasse erano
formulate come prestiti dei cittadini allo Stato. In virtù degli obblighi che ogni fiorentino aveva nei
confronti della sua comunità, il comune imponeva simili prestiti forzosi. Nei momenti più gravi della
guerra l’esigenza di risorse in tempi brevi aveva aperto anche un canale complementare di finanziamento,
cioè i prestiti volontari accesi presso le grandi compagnie bancarie. Il comune si trovava così debitore per
molte decine di migliaia di fiorini, verso i comuni cittadini ma soprattutto verso i grandi protagonisti della
finanza privata. Con il corollario però che il governo della città era retto essenzialmente dai medesimi
gruppi familiari che dominavano la finanza internazionale: Bardi, Peruzzi, Frescobaldi. Quindi si trattava
di risorse private anticipate ad una autorità pubblica, che però era diretta dai medesimi capi delle grandi
imprese, quindi ai detentori di quelle risorse. Per vari anni insomma finanza pubblica e privata si trovarono
abbracciate in un circuito pericolosissimo ma allo stesso tempo irrinunciabile. Gli eventi inglesi arrivarono
a squilibrare definitivamente il quadro: già nel 1341 i Bardi erano virtualmente falliti. I primi eventi di
quella stagione di crisi si giocarono proprio nel binario dell’intervento pubblico. L’élite cittadina presa da
panico si affidò al regime di un uomo forte chiamato dall’esterno, il famoso Gualtieri di Firenze. Sotto la
signoria del Duca le autorità fiorentine stabilirono una serie di sospensioni alle procedure fallimentari: in
sostanza alle compagnie veniva data una boccata d’ossigeno nelle cause con i creditori, in modo da
rallentare il fallimento; allo stesso tempo però il comune interrompeva le cosiddette assegnazioni delle
imposte indirette, cioè i versamenti che abitualmente venivano erogati a coloro che avevano prestato al
comune, prelevati dalle entrate ordinarie delle gabelle. Alle compagnie veniva quindi consentito di non
fallire, a patto di rinunciare ad incassare le somme che le compagnie stesse avevano anticipato al comune.
Una situazione del genere poteva dare sollievo per qualche tempo, ma non era una soluzione.
Quali avvenimenti accompagnarono la bancarotta del sistema bancario fiorentino? Innanzitutto
dobbiamo ricordare che proprio nel pieno della crisi delle compagnie, quando ancora molte di esse
vivevano in un limbo di insolvenza non ancora conclamata, come una frana sul punto di staccarsi
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inesorabilmente, la città conobbe una serie di rivolgimenti politici, che nell’autunno 1343 portarono al
governo un nuovo regime caratterizzato da una composizione molto più popolare di quelli che l’avevano
preceduto. I popolari al potere scelsero di sveltire le procedure fallimentari: il fatto che i fallimenti veri e
propri si siano addensati nel 1345 e nei mesi immediatamente precedenti o successivi deriva proprio dal
fatto che la politica aveva coraggiosamente rimosso quegli impedimenti escogitati poco prima per
rallentare il crollo. Venute meno le grandi compagnie, però, anche il sistema delle prestanze entrava in
una crisi irreversibile, perché il comune non aveva più modo di rimborsare i suoi creditori. Frutto di quel
momento fu la creazione del Monte, cioè l’amministrazione del debito pubblico. Unificate in un’unica
amministrazione, tutte le voci dei debiti contratti dal comune con i cittadini vennero trasformate in titoli
di credito, acquistabili sul mercato, che una legge dei primi del 1345 dichiarava non redimibili. La
bancarotta del comune del 1345, da cui prende spunto il titolo del comune, è proprio questa: l’autorità
pubblica dichiara di non poter più restituire i prestiti ai cittadini, e allo stesso tempo assume
unilateralmente l’impegno di versare su quei crediti davvero deteriorati un interesse annuo nominale del
5%. Il grande tema del 1345 è dunque la vicenda di un regime politico alle prese con l’imprenditoria
cittadina in crisi, che allo stesso tempo entra nella stagione del debito pubblico.
Quali provvedimenti di emergenza vennero adottati per rassicurare i creditori? L’aspetto forse più
impressionante delle strategie messe in atto dal 1345 in poi fu la capacità di elaborare risposte pragmatiche
sul breve periodo, ma allo stesso tempo affrontare i problemi di fondo dell’intreccio da cui la crisi era
nata. Nell’immediato, l’obiettivo fondamentale fu quello di condurre le cause di fallimento in maniera
ordinata e senza eccessivi conflitti, specialmente con soggetti economici e politici esterni, che avrebbero
potuto attivare ritorsioni esiziali per la città. Firenze era già attrezzata in questo senso. Dall’inizio del
secolo era in funzione un tribunale estremamente efficace, la Mercanzia, che aveva competenza sulle
cause commerciali. Una corte di mercanti, coadiuvati da un giudice togato, assicurava giudizi rapidi e
improntati al pragmatismo mercantile per tutte le cause in cui gli operatori economici fiorentini fossero
in lite con forestieri. La Mercanzia negli anni della crisi fu molto di più di un tribunale, perché funse come
vera e propria cancelleria parallela, che insieme alle magistrature di governo della città tenne abilmente i
rapporti diplomatici con gli interlocutori più disparati ai quattro angoli dell’Europa del tempo. Non
mancarono momenti di rottura e di evidente forzatura della correttezza istituzionale: furono introdotte
norme palesemente lesive dei privilegi tradizionali degli uomini di Chiesa, per depotenziare le
rivendicazioni di creditori ecclesiastici, e anche nella gestione dei processi furono introdotti meccanismi
dilatori, escamotage tattici e forme di negoziazione informale. In ogni caso, questo attento lavoro di
fioretto evitò scontri troppo aspri. In gioco era però la stessa credibilità degli operatori fiorentini: la
voragine che si era aperta con la caduta di Bardi, Peruzzi e Acciaioli gettava un’ombra sinistra sulla
capacità di Firenze di onorare i propri impegni anche a livello pubblico. Entrambi i versanti della crisi,
quello privato e quello pubblico, concorrevano dunque a togliere credito al ‘sistema’ finanziario e politico
cittadino. La crisi di fiducia, di ‘credito’ in senso etico, aveva bisogno di interventi finanziari e politici,
ma anche di scelte per così dire comunicative. La fiducia dipende dalla percezione che i soggetti hanno
dei loro interlocutori, e in questa percezione entrano in gioco fattori difficili da misurare, a volte anche
estranei alla pura razionalità. In quest’ambito i reggitori fiorentini dimostrarono una grandissima
creatività. Potremmo dire che la cultura politica di Firenze nella seconda metà del ‘300 fu in grado di
elaborare una ‘narrazione’ della città, una rappresentazione dei suoi valori e del suo ruolo nell’Italia del
tempo funzionale a recuperare la credibilità e la fiducia perduta. Le componenti di questa narrazione sono
due. Da una parte il guelfismo, cioè l’immagine di una città alleata con il papa. Da un certo punto di vista
era un’immagine anacronistica, antiquata, perché richiamava le lotte di un secolo prima: ma era efficace
perché rassicurava il più importante centro finanziario del tempo, la curia pontificia. Accanto al guelfismo
il grande emblema della narrazione fiorentina fu la libertà. Libertà dai tiranni dei regimi signorili, libertà
dei comuni legati alle loro antiche tradizioni di partecipazione. Evidentemente erano strumenti retorici, la
cui funzione andava a rispondere ad esigenze anche molto prosaiche e non a nobili idealità. Ma così
funziona la politica: sarebbe ingenuo separare in maniera rigida la sfera dei valori e delle dichiarazioni di
principio da quella delle scelte concrete, perché si tratta invece di piani diversi che si intrecciano e
condizionano vicendevolmente.
Come ne uscì l’imprenditoria cittadina? Sarebbe un errore pensare, sulla scorta dei racconti molto
drammatizzati dei testimoni contemporanei come Giovanni Villani, che il panorama dell’impresa
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fiorentina dopo il 1345 fosse coperto di macerie. In realtà fin dai primissimi anni dopo la crisi le fonti
testimoniano la crescita di alcune grandi imprese familiari, attive sia nella manifattura che nella finanza
internazionale. Un nome emblematico è quello della famiglia Albizzi, protagonista di una straordinaria
impresa di lavorazione della lana, organizzata con grandi stabilimenti che sfruttavano l’energia idraulica
lungo il corso dell’Arno. Controllando l’intera filiera della produzione, dal perfezionamento tecnico del
tessuto fino alla tintura e alla commercializzazione, gli Albizzi poterono realizzare nel giro di pochi anni
profitti importanti, ipotecando un futuro da protagonisti anche nel teatro politico cittadino. Al successo di
questa nuova generazione di grandi imprenditori contribuì un fattore inaspettato e di per sé tragico, ma
che ebbe effetti molto positivi nel medio periodo. Nel 1348 la città fu investita dalla spaventosa epidemia
della Peste, che a Firenze come e più che in altre città italiana falcidiò la popolazione, in una proporzione
di più di un terzo. Nell’immediato il crollo della popolazione condusse ad una destrutturazione del tessuto
economico, ma nel giro di pochi anni emerse un fenomeno inaspettato, che gli stessi contemporanei
stentarono a capire. La peste aveva distrutto gli uomini, ma non le ricchezze: immobili, beni preziosi,
materie prime restavano a disposizione dei sopravvissuti. Con l’effetto da una parte di una impennata
nella richiesta di manodopera, ora molto ridotta e quindi in grado di strappare condizioni salariali migliori,
dall’altro di una inusitata disponibilità di beni anche per ceti sociali medi, diversi dalla ristretta élite. Gli
studi hanno mostrato insomma come dopo la peste la disponibilità di beni fosse aumentata al di fuori della
fascia più alta della società: questo creava un mercato più ampio per l’industria tessile come per l’attività
edilizia. La ‘nuova’ imprenditoria aveva dunque la possibilità di trovare un mercato più ampio rispetto
anche solo ad un decennio prima. Certamente l’equilibrio non era facile da mantenere, perché gli interessi
imprenditoriali chiedevano una politica di bassi salari che consentisse margini più cospicui alle imprese
delle manifatture, del tutto contraria alle aspettative dei ceti inferiori, ma anche grazie ad una attenta
gestione della politica monetaria, quindi del cambio tra moneta d’argento e d’oro, simili aspettative
contrapposte vennero ragionevolmente contemperate, almeno negli anni centrali del secolo. Nel frattempo
alcune famiglie cittadine stavano rinnovando la loro vitalità economica anche nella sfera finanziaria. In
particolare la famiglia Alberti assunse nella seconda metà del secolo la funzione di banchieri del papa,
che era stata già dei primi protagonisti dell’età d’oro come Mozzi e Acciaiuoli. La rete di relazioni
finanziarie a vasto raggio venne insomma recuperata molto presto. Per far questo, il fattore decisivo fu la
politica: i mercanti fiorentini riconquistarono di nuovo un rapporto privilegiato col papato essenzialmente
in virtù del ruolo politico che la città poteva svolgere nello scacchiere diplomatico italiano.
In che modo si uscì dalla spirale di quel fatidico 1345? La politica fiorentina, che non poteva contare
come in passato sulle risorse illimitate delle grandi compagnie, si resse principalmente sulla crescita del
debito pubblico. In questo senso davvero tutta la politica della seconda metà del secolo è figlia della
bancarotta del 1345, nel senso che il governo di quella massa incredibile di denaro ‘virtuale’ fu la chiave
che consentì a Firenze di attraversare una stagione incertissima. Nel giro di pochi anni l’ammontare del
debito raggiunse la cifra astronomica di due milioni di fiorini. Una somma puramente virtuale, s’intende,
perché era costituita da quello che nel corso degli anni i cittadini avevano versato come imposte, ma
comunque una cifra impressionante. Se ci chiediamo come una città a governo repubblicano sia riuscita
ad imporre ai cittadini uno sforzo fiscale così impressionante, la risposta sta nella libera negoziazione dei
titoli del debito pubblico sul mercato secondario. Ricevere un interesse del 5% sulle imposte pagate era
una iattura per i cittadini comuni, ma chi avesse avuto a disposizione capitali freschi, magari usciti dal
circuito della finanza privata sconvolta dalla crisi delle compagnie, poteva acquistare i titoli,
rastrellandone una porzione importante ad un valore di mercato molto basso, fino ad un quarto del valore
nominale. Giocando tra quanto i titoli costavano sul mercato, e quanto invece rendevano per gli interessi
calcolati sul valore nominale, si potevano fare affari. La chiave per il problema del Monte erano
evidentemente gli interessi: la somma virtuale del debito pubblico diventava concretissima quando su di
essa si trattava di pagare gli interessi, per molte decine di migliaia di fiorini l’anno, cioè abbastanza per
consumare quasi del tutto le entrate ordinarie del comune. La corresponsione degli interessi (le “paghe”)
infatti era garantita dal trasferimento all’amministrazione del Monte degli introiti delle gabelle, le imposte
indirette. In definitiva il sistema scaricava gran parte del peso del debito sulle classi inferiori, che non
avevano modo di entrare nel lucroso gioco del debito pubblico e allo stesso tempo pagavano i costi delle
imposte sui consumi. L’equilibrio resse finché durò l’ondata degli alti salari dei primi anni dopo la Peste,
ma già negli anni ’60 la situazione veniva sentita come iniqua e insopportabile per i poveri. Il
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rovesciamento dell’amministrazione del Monte sarà così uno degli obiettivi principali del Tumulto dei
Ciompi. C’è da considerare poi un ulteriore fattore, che distingue la Firenze post 1345 da quella del primo
Trecento. Alla metà del secolo era in pieno vigore una campagna di espansionismo militare che in poco
più di cinquant’anni avrebbe assoggettato a Firenze buona parte delle maggiori città toscane.
Probabilmente non si può attribuire ai governanti del tempo una vera e propria strategia di costruzione di
una ‘regione economica’ integrata, ma certo la sottomissione di centri urbani ricchi e vivaci, per quanto
depressi dal trauma della Peste, dava a Firenze come potenza dominante la possibilità di sfruttare il suo
territorio, per lo meno a livello fiscale: le città soggette finivano per affiancare i ceti subalterni nel
sostenere, loro malgrado, i costi della politica del debito pubblico.
Quali furono le conseguenze storiche della bancarotta di Firenze? Come abbiamo detto sopra,
l’imprenditoria cittadina trovò risorse sufficienti per superare la crisi, aiutata in questo senso dalle
inopinate conseguenze della Peste. Ma la chiave di questo rapido recupero va trovata anche nelle iniziative
politiche del ceto dirigente, che seppe elaborare una narrazione della città adatta a costruire un clima di
affidabilità e credito. Se guardiamo all’intreccio tra politica e interessi economici nella seconda metà del
secolo, rispetto a quello che si sarebbe potuto osservare prima del 1345, l’elemento più vistoso è senza
dubbio la centralità del debito pubblico, sia come sfera di investimento, sia come risorsa del comune che
il ceto dirigente si trovò a gestire e governare. Questo nuovo ceto dirigente fatto di grandi banchieri e
imprenditori crebbe con la consapevolezza di dover governare il debito: di doverlo usare per guidare la
politica della città, ma di doverlo anche alimentare, pure con pesanti sacrifici finanziari. Ho voluto
concludere il volume con uno sguardo alla politica cittadina nel primo Quattrocento, per mostrare come
quel ceto dirigente, pur con tutti i conflitti e gli interessi contrapposti, avesse acquisito un forte senso del
governo, in cui la cura del bene della Repubblica e quella dei propri interessi si condizionavano a vicenda.
Anche il volto monumentale della Firenze di quegli anni porta il segno di un simile condizionamento.
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G. Boccaccio, Decameron, a cura di G. Salinari, Roma-Bari 1985, Giornata prima, Introduzione
(la peste a Firenze).
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