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112. Corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato [1] Il giudice deve pronunciare su tutta la domanda e non oltre i limiti di essa; e non può pronunciare d'ufficio su eccezioni, che possono essere proposte soltanto dalle parti. Mostra bibliografia Andrioli, Diritto processuale civile, Napoli, 1979; Calvosa, Omissione di pronuncia e cosa giudicata, in RDPr, 1950, I; Cavallini, Eccezione rilevabile d'ufficio e struttura del processo, Napoli, 2003; Colesanti, Eccezione, in ED, XIV, Milano, 1965; Comoglio, Azione e domanda giudiziale, in Comoglio, Ferri, Taruffo (a cura di), Lezioni sul processo civile, I, 4ª ed., Bologna, 2007; Id., Difesa, eccezione, riconvenzione, in Comoglio, Ferri, Taruffo (a cura di), Lezioni sul processo civile, I, 4ª ed., Bologna, 2007; Id., Le prove civili, 2ª ed., Torino, 2004; Id., Allegazione, in Digesto civ., I, Torino, 1987; Id., Il principio di economia processuale, I, Padova, 1980-1982; Id., Il principio di economia processuale, II, Padova, 1980-1982; Consolo, Domanda giudiziale, in Digesto civ., VII, Torino, 1998; Costa, Eccezione, in NN.D.I., VI, Torino, 1960; Fabbrini, Eccezione, in EG, XII, Roma, 1989; Grasso, Dei poteri del giudice, in Comm. c.p.c. Allorio, I, Torino, 1973; Liebman, Manuale di diritto processuale civile. Principi, 6ª ed., Milano, 2002; Mandrioli, Diritto processuale civile, I, 20ª ed., Torino, 2009; Montanari, sub art. 112 c.p.c., in Comm. Consolo, Luiso, I, Milano, 2000; Montesano, Arieta, Trattato di diritto processuale civile, I, Padova, 2001; Oriani, Eccezione, in Digesto civ., XII, Torino, 1995; Id., Eccezione, in EG, Agg., XII, Roma, 1989; Proto Pisani, Lezioni di diritto processuale civile, 5ª ed., Napoli, 2006; Pugliatti, Eccezione (teoria generale), in ED, XIV, Milano, 1965; Valle, sub artt. 112-120 c.p.c., in Comm. Verde, Vaccarella, Agg., Torino, 2001; Verde, Dispositivo (principio), in EG, XI, Roma, 1989; Id., Domanda (principio della), I. Dir. proc. civ., in EG, XII, Roma, 1989. Sommario:1. Il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato2. Il dovere di pronunciare su tutta la domanda: il dovere di «decidere» 3. L'omissione di pronuncia4. La domanda come fondamento del dovere decisorio del giudice 5. L'interpretazione della domanda 6. Ultrapetizione ed extrapetizione 7. Il potere decisorio del giudice e le eccezioni 1. Il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato La norma qui commentata sancisce il c.d. principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, il quale rappresenta, con riferimento al giudice, il logico completamento del principio della domanda stabilito, con riferimento alle parti, dall'art. 99 [Comoglio, Azione e domanda giudiziale, in Comoglio, Ferri, Taruffo (a cura di), Lezioni sul processo civile, I, 4ª ed., Bologna, 2007, 231]. Nonostante l'estrema sinteticità e l'apparente chiarezza del dato normativo si tratta di una delle disposizione più dense di significato di tutto il codice di procedura civile. In effetti, il predetto principio, in modo molto sintetico, ma anche molto efficace, racchiude in sé tre differenti precetti, chiaramente individuati dalla dottrina (Mandrioli, Diritto processuale civile, I, 20ª ed., Torino, 2009, 93 ss.; Comoglio, Azione, 232). Il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, infatti, comporta: 1) che il giudice debba decidere su tutta la domanda; 2) che il giudice non possa pronunciare oltre i limiti della domanda formulata; 3) che il giudice non possa pronunciare su eccezioni la cui rilevabilità è rimessa all'iniziativa delle parti.

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112. Corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato

[1] Il giudice deve pronunciare su tutta la domanda e non oltre i limiti di essa; e non può pronunciare

d'ufficio su eccezioni, che possono essere proposte soltanto dalle parti.

Mostra bibliografia

Andrioli, Diritto processuale civile, Napoli, 1979; Calvosa, Omissione di pronuncia e cosa giudicata, in RDPr,

1950, I; Cavallini, Eccezione rilevabile d'ufficio e struttura del processo, Napoli, 2003; Colesanti, Eccezione,

in ED, XIV, Milano, 1965; Comoglio, Azione e domanda giudiziale, in Comoglio, Ferri, Taruffo (a cura di),

Lezioni sul processo civile, I, 4ª ed., Bologna, 2007; Id., Difesa, eccezione, riconvenzione, in Comoglio, Ferri,

Taruffo (a cura di), Lezioni sul processo civile, I, 4ª ed., Bologna, 2007; Id., Le prove civili, 2ª ed., Torino,

2004; Id., Allegazione, in Digesto civ., I, Torino, 1987; Id., Il principio di economia processuale, I, Padova,

1980-1982; Id., Il principio di economia processuale, II, Padova, 1980-1982; Consolo, Domanda giudiziale, in

Digesto civ., VII, Torino, 1998; Costa, Eccezione, in NN.D.I., VI, Torino, 1960; Fabbrini, Eccezione, in EG, XII,

Roma, 1989; Grasso, Dei poteri del giudice, in Comm. c.p.c. Allorio, I, Torino, 1973; Liebman, Manuale di

diritto processuale civile. Principi, 6ª ed., Milano, 2002; Mandrioli, Diritto processuale civile, I, 20ª ed.,

Torino, 2009; Montanari, sub art. 112 c.p.c., in Comm. Consolo, Luiso, I, Milano, 2000; Montesano, Arieta,

Trattato di diritto processuale civile, I, Padova, 2001; Oriani, Eccezione, in Digesto civ., XII, Torino, 1995; Id.,

Eccezione, in EG, Agg., XII, Roma, 1989; Proto Pisani, Lezioni di diritto processuale civile, 5ª ed., Napoli,

2006; Pugliatti, Eccezione (teoria generale), in ED, XIV, Milano, 1965; Valle, sub artt. 112-120 c.p.c., in

Comm. Verde, Vaccarella, Agg., Torino, 2001; Verde, Dispositivo (principio), in EG, XI, Roma, 1989; Id.,

Domanda (principio della), I. Dir. proc. civ., in EG, XII, Roma, 1989.

Sommario:1. Il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato2. Il dovere di pronunciare su tutta la

domanda: il dovere di «decidere» 3. L'omissione di pronuncia4. La domanda come fondamento del

dovere decisorio del giudice 5. L'interpretazione della domanda 6. Ultrapetizione ed extrapetizione

7. Il potere decisorio del giudice e le eccezioni

1. Il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato

La norma qui commentata sancisce il c.d. principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, il

quale rappresenta, con riferimento al giudice, il logico completamento del principio della domanda

stabilito, con riferimento alle parti, dall'art. 99 [Comoglio, Azione e domanda giudiziale, in Comoglio, Ferri,

Taruffo (a cura di), Lezioni sul processo civile, I, 4ª ed., Bologna, 2007, 231].

Nonostante l'estrema sinteticità e l'apparente chiarezza del dato normativo si tratta di una delle

disposizione più dense di significato di tutto il codice di procedura civile.

In effetti, il predetto principio, in modo molto sintetico, ma anche molto efficace, racchiude in sé tre

differenti precetti, chiaramente individuati dalla dottrina (Mandrioli, Diritto processuale civile, I, 20ª ed.,

Torino, 2009, 93 ss.; Comoglio, Azione, 232).

Il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, infatti, comporta: 1) che il giudice debba decidere

su tutta la domanda; 2) che il giudice non possa pronunciare oltre i limiti della domanda formulata; 3) che il

giudice non possa pronunciare su eccezioni la cui rilevabilità è rimessa all'iniziativa delle parti.

È evidente la grande importanza di tale principio, in tutte le sue espressioni, tanto che lo stesso è

ritenuto applicabile non solo al processo ordinario di cognizione, ma anche a tutti gli altri processi o

procedimenti regolati dal codice di rito (quali, ad esempio, l'arbitrato rituale, C. 8038/2003, l'arbitrato

irrituale, C. 4688/1996), o da leggi speciali, come il processo in tema di opposizione a sanzioni

amministrative (C. 13751/2006), nonché a processi speciali in qualche modo assimilabili al processo civile,

come il processo amministrativo (C. St., 9.10.2006, n. 5993; C. St., 19.9.2006, n. 5472; C. St., Sez. IV,

19.10.2004, n. 6710), il processo tributario (cfr. C. 14336/2011; C. 9415/2005; C. 6201/2005), il processo

avanti alla Corte dei Conti (C. Conti, Abruzzo, Sez. giurisd., 14.1.2005, n. 67) o i procedimenti disciplinari

(cfr. C. 2197/2005; C. 5715/2003, con riferimento al procedimento disciplinare avanti al Consiglio Nazionale

Forense).

In particolare sull'applicazione del principio in oggetto al processo di esecuzione v. Andrioli, Diritto

processuale civile, Napoli, 1979, 237; Consolo, Domanda giudiziale, in Digesto civ., VII, Torino, 1998, 62;

Verde, Domanda (principio della), I. Dir. proc. civ., in EG, XII, Roma, 1989, 12. Un'eccezione, forse, riguarda i

procedimenti camerali, in cui, tuttavia, potrebbero distinguersi i casi in cui il provvedimento debba essere

chiesto dall'interessato da quelli in cui il provvedimento può essere disposto d'ufficio (Verde, Domanda,

12).

Ovviamente il medesimo principio si applica anche nelle fasi di gravame, ferma restando, tuttavia,

l'applicazione delle specifiche norme relative a tali gradi, che siano di volta in volta previste (cfr., ad es.,

l'art. 345; si vedano, al riguardo C. 14063/2006; C. 24028/2004).

2. Il dovere di pronunciare su tutta la domanda: il dovere di «decidere»

La prima espressione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato consiste nel dovere da parte

del giudice di decidere su tutta la domanda, dovere che trova il proprio fondamento e il proprio limite nella

"domanda" proposta dalla parte (dall'attore o anche dal convenuto in via riconvenzionale). Ad esso si

correla il dovere di pronunciare sul merito, decidendo tutte le domande e le eccezioni proposte, sì da

definire il giudizio con un provvedimento tendenzialmente unico (artt. 277, 279, 2° co., nn. 4, 5).

Prima di tutto, però, è fondamentale sottolineare l'obbligo per il giudice di "decidere" la controversia. Si

tratta, infatti, di un corollario estremamente importante, soprattutto da un punto di vista sistematico (non

solo all'interno del processo civile, ma dello stesso ordinamento giuridico).

Il predetto dovere di decidere la controversia, tuttavia, non si risolve nell'obbligo, meramente

formale, di emettere un provvedimento conclusivo del processo. In realtà, tale dovere è connotato

qualitativamente, visto che al giudice è fatto obbligo di emettere una pronuncia di merito, anche a fronte di

una domanda invalida oppure in assenza di prove (Comoglio, Azione, 232), salvi, ovviamente, i casi di

pronunce di mero rito (quale conseguenza di violazioni della legge processuale). In definitiva, quindi, il

giudice non può emettere provvedimenti di c.d. non liquet, in cui, cioè, dichiara di non poter (o, meglio, di

non essere in grado) di decidere a favore di alcuna delle parti, ma dovrà sempre e comunque valutare, in

primo luogo, se e quale norma giuridica sia applicabile al caso di specie, e, in secondo luogo, se ed in che

termini si siano verificati i fatti previsti da tale norma nonché gli eventuali fatti lesivi di quest'ultima (cfr.

ancora Mandrioli, 95), a costo di applicare, quale extrema ratio, la «regola di giudizio» attinente al «rischio

della mancata prova» e sottesa all'art. 2967 c.c., secondo cui actore non probante reus absolvitur

(Comoglio, Le prove civili, 2ª ed., Torino, 2004, 169 e 204).

È stato giustamente rilevato, inoltre, come il dovere decisorio non sia limitato al mero obbligo di decidere

(e, quindi, di emettere una pronuncia), ma consista, più in generale, nel dovere di compiere tutti gli atti che,

coordinandosi a vicenda, permettono di arrivare alla decisione (Mandrioli, 94).

3. L'omissione di pronuncia

Qualora il giudice non assolva al proprio dovere decisorio si ha la c.d. omissione di pronuncia. Si

vedano, al riguardo, Grasso, Dei poteri del giudice, in Comm. c.p.c. Allorio, I, Torino, 1973, 1274; Mandrioli,

99; Comoglio, Azione, 233.

Ovviamente, il caso più evidente di omissione di pronuncia si verifica quando il giudice ometta di decidere

in senso assoluto, non redigendo e non depositando la sentenza (o, comunque, il provvedimento decisorio).

Si tratta di un vizio talmente grave, tuttavia, che trascende l'aspetto strettamente processuale, tanto da

non essere incluso nella ratio e nella lettera della norma qui commentata (Grasso, 1274). In tal caso, infatti,

non vi sono neppure rimedi endoprocessuali, ma è necessario fare ricorso alla normativa in tema di

ordinamento giudiziario, con la eventuale sostituzione del magistrato, ferma restando, ovviamente, la

responsabilità civile, penale e disciplinare di quest'ultimo.

Ai fini della norma qui commentata, invece, con l'espressione omissione di pronuncia si fa riferimento al

caso in cui, all'interno di un provvedimento giurisdizionale, il giudice ometta di decidere su alcune delle

domande, delle eccezioni o delle questioni dedotte; propriamente, quindi, si tratta di una omissione di

pronuncia parziale (Grasso, 1274; Verde, Domanda, par. 11). In definitiva, l'omissione di pronuncia

presuppone un thema decidendum complesso, composto da una pluralità di domande o di eccezioni, e

perciò di questioni, di cui, tuttavia, solo alcune sono state oggetto di decisione. Lo stesso caso, tuttavia, si

può verificare quando, pur essendovi una sola domanda, la pronuncia riguardi solo una sua parte, ovvero

una sola parte del diritto azionato.

Va subito precisato, però, come la mera mancanza formale di una determinata statuizione all'interno

del provvedimento, di per sé, non rappresenti automaticamente una omissione di pronuncia (C.

15172/2009; C. 16788/2006; C. 264/2006; C. 4079/2005). In tal caso, infatti, ben potrebbe intendersi tale

mancanza come un rigetto implicito. A questo proposito, secondo una giurisprudenza ormai consolidata, si

ha rigetto implicito quando nel provvedimento viene accolta una tesi decisoria incompatibile con la

domanda (o con l'eccezione) non oggetto di espressa pronuncia ( C. 2197/2015; C. 841/2014; C.

10696/2007; C. 13649/2005; C. 19131/2004; C. 9545/2001; C. 3435/2001; C. 702/2000; C. 2871/1997; C.

2320/1995; C. 2581/1986; C. 4388/1981) deve trattarsi, comunque, di domande (quella non decisa e quella

decisa espressamente) che siano tra loro o pregiudiziali e dipendenti o radicalmente incompatibili. Non può

ritenersi implicitamente respinta, quindi, la domanda solo occasionalmente connessa con quella oggetto di

espressa pronuncia di rigetto (C. 15373/2000). In ogni caso, l'omissione di pronuncia può configurarsi solo

con riferimento ad autonomi capi di decisione, vale a dire domande o istanze concretamente formulate in

conclusioni specifiche (C. 7653/2012). In senso contrario, ovviamente, vi è omissione di pronuncia ove la

sentenza sia corredata da una motivazione solo apparente, ossia caratterizzata da motivazioni del tutto

apodittiche e disancorate dalla fattispecie concreta (C. 22928/2014).

Può ipotizzarsi anche un accoglimento implicito quando il giudice si pronunci favorevolmente su una

domanda che presuppone, logicamente e giuridicamente, l'accoglimento della domanda non oggetto di una

espressa pronuncia (C. 7086/2005).

Qualora, invece, la decisione sia fondata sulla cosiddetta "ragione più liquida", allora si verifica una

situazione di "assorbimento improprio" delle altre domande e questioni, su cui, quindi, non può ritenersi

emessa alcuna pronuncia, neppure implicita (C. 5724/2015).

Secondo una recente giurisprudenza, poi, va escluso il vizio di omessa decisione allorché il dispositivo

lacunoso possa essere integrato facendo ricorso alla parte motiva della sentenza. La mancanza del

dispositivo o di una pronuncia (per quanto lacunosa) relativa ad una delle domande o delle questioni

oggetto di causa, costituisce omissione di pronuncia, quand'anche nella parte motiva tale domanda o tale

questione sia stata affrontata e, eventualmente, anche risolta (C. 16152/2010).

Allo stesso modo non si ha omissione di pronuncia quando il giudice non decida su questioni sollevate

tardivamente e, quindi, precluse (C. 24445/2010; C. 6094/2006; C. 16582/2005; C. 22970/2004; C.

3234/1987; C. 3921/1984) oppure quando il giudice decida su alcune questioni, riservandosi di pronunciare

sulle altre nel prosieguo del giudizio ai sensi dell'art. 279 (C. 5084/1982) oppure quando, pur essendovi una

decisione, manchi la motivazione della stessa (C. 22555/2010; C. 10813/1999), configurandosi, in tal caso, il

mero difetto di motivazione, oppure ancora quando pur essendovi la decisione nella parte motivazionale,

manchi il relativo dispositivo, prevalendo, in tal caso, la motivazione (C. 4741/2005).

Può discutersi, invece, se configuri omissione di pronuncia il mancato esame delle istanze istruttorie.

L'opinione prevalente (avallata anche dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione) è nel senso di ritenere

che il vizio di omissione della pronuncia possa riguardare solo le domande inerenti al merito (C.

22860/2004) e che, quindi, il mancato esame di questioni processuali e, conseguentemente, delle istanze

istruttorie, al più, possa rilevare, non come vizio in sé, ma, se riferito ad un punto decisivo della

controversia, quale argomento per sostenere l'omissione, l'insufficienza o la contraddittorietà della

motivazione (ai sensi dell'art. 360, n. 5, nella versione antecedente alla riforma del 2006: (C., S.U.,

15982/2001; C. 15196/2013; C. 3357/2009; C. 2859/1995). D'altro canto, però, si è ritenuto (ma con

motivazione non del tutto convincente) che costituisca una vera e propria omissione di pronuncia il

mancato esame di istanze istruttorie relative a circostanze che, con un giudizio di certezza (e non di mera

probabilità), avrebbero potuto indurre il giudice di merito a pronunziare una decisione diversa da quella

effettivamente adottata (C. 3494/1996).

L'omissione di pronuncia, qualora riguardi gradi diversi dal primo, consisterà nel mancato esame dei motivi

di impugnazione (C. 21034/2007).

Analogamente si è ritenuto non configurare omissione di pronuncia l'omessa adozione di un

provvedimento di carattere ordinatorio, quale, nel caso di specie, l'ordinanza di sospensione ai sensi

dell'art. 295 (C. 5246/2006). La stessa conclusione è stata raggiunta, sulla base del (discutibile) assunto

secondo cui l'art. 112 non opererebbe nel caso di eccezioni di mero rito, nel caso di mancato esame

dell'eccezione di inammissibilità dell'appello da parte del giudice di secondo grado (C. 1701/2009).

Rappresenta, invece, vera e propria omissione di pronuncia la mancata decisione in merito alla domanda di

condanna del soccombente al pagamento delle spese processuali (C. 15745/2009; C. 13513/2005; C.

2869/1995), tanto più che tale condanna può essere disposta anche d'ufficio dal giudice (C. 2719/2015).

Non lo è, invece, in caso di riforma di una sentenza, la mancanza di condanna del soccombente

(vincitore nel grado precedente) a restituire gli importi ricevuti in esecuzione della sentenza poi riformata,

dato che tale obbligo restitutorio sorge automaticamente, quale effetto consequenziale della riforma stessa

(C. 15295/2006; cfr. diversamente però C. 12186/2015 ).

Proprio recentemente, inoltre, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno stabilito che l'omissione di

pronuncia sull'istanza di distrazione delle spese non configura omissione di pronuncia e, come tale, può

essere ovviata ricorrendo al procedimento di correzione di errore materiale (C., S.U., 16037/2010).

L'orientamento precedente, invece, era nel senso di configurare una vera e propria omissione, come tale

ricorribile in cassazione solo ai sensi dell'art. 360, n. 4 (C. 11965/2010 e C. 16153/2010, quest'ultima

successiva di un giorno anteriore alla predetta sentenza delle Sezioni Unite, ma quasi certamente

pronunciata prima di conoscere il nuovo orientamento; C. 13982/2009).

L'omissione di pronuncia, come appena definita, determina la nullità della sentenza (C. 375/2005; C.

7519/2003; C. 590/1998) in base al principio consacrato nell'art. 161, 1° co., la parte interessata potrà far

valere tale vizio quale motivo di impugnazione, anche avanti alla Corte di Cassazione (ai sensi dell'art. 360,

n. 4 e non in virtù del n. 5; cfr. C. 15172/2009; C. 21034/2007; C. 4201/2006; come tale soggetto alla

formulazione dei quesiti ex art. 366-bis, ove applicabile ratione temporis; C. 4146/2001; in senso meno

formalistico, cfr. recentemente C. 25215/2014, purché il motivo contenga l'univoco riferimento alla nullità

della decisione derivante dall'omissione ), la quale giudicherà nel merito, trattandosi di un error in

procedendo e, come tale, avente ad oggetto un fatto processuale (C. 15172/2009; C. 1755/2006; C.

9159/2001; C. 8641/2000; C. 424/1998; C. 8468/1996; C. 1988/1993) oppure, ma solo nel caso in cui il vizio

colpisca la sentenza di primo grado, potrà riproporre ex novo in un autonomo giudizio la domanda in

relazione alla quale si è verificata l'omissione, purché la nullità di quella sentenza non sia stata

(validamente) dedotta quale motivo di impugnazione (C. 10029/1998; C. 10768/1996; C. 3521/1981). Non è

necessaria, tuttavia, l'adozione di formule sacramentali o il richiamo espresso al n. 4 dell'art. 360 purché il

motivo sia inequivocabilmente riferito alla nullità della decisione per omissione di pronuncia (C.

10056/2014). In base al principio di autosufficienza del ricorso, inoltre, è necessario che le domande o le

eccezioni di cui sia stata omessa la pronuncia vengano riportate puntualmente, con indicazione specifica

dell'atto difensivo o del verbale di udienza in cui sono state proposte (C. 9597/2014).

È importante sottolineare la differenza tra omissione di pronuncia e omessa motivazione (rilevante ai sensi

dell'art. 360, n. 5). In quest'ultimo caso, infatti, l'omissione riguarda una mera circostanza di fatto che, se

considerata, avrebbe modificato la decisione assunta con riferimento ad una domanda. Nel primo caso,

invece, l'omissione riguarda la domanda stessa, relativamente a cui, quindi, nella sentenza non si rinviene

alcuna statuizione, né favorevole né sfavorevole (C. 22825/2010; C. 15882/2007; C. 16788/2006; C.

5444/2006).

L'omissione della pronuncia, in ogni caso, non può mai valere come rigetto della domanda non decisa,

ferma restando, ovviamente, la possibilità di ipotizzare un rigetto implicito nei modi e nei limiti segnalati in

precedenza (Andrioli, 237).

Il vizio di omessa pronuncia non è rilevabile d'ufficio (C. 1977/1994), né, conseguentemente, può

essere dedotto per la prima volta avanti alla Corte di Cassazione, se relativo alla sentenza di primo grado (C.

4612/1999).

4. La domanda come fondamento del dovere decisorio del giudice

Come si è detto in precedenza, il dovere decisorio del giudice trae la propria origine ed il proprio

fondamento dalla "domanda" proposta dalle parti (principalmente dall'attore, ma, eventualmente, anche

dal convenuto, in via riconvenzionale, e dal terzo). Ciò è conforme non solo ad altre disposizioni dello stesso

codice di rito (l'art. 99) e del codice civile (l'art. 2907 c.c.), ma anche alla tradizione processual civilistica

italiana ed europea (almeno per quanto riguarda i sistemi di civil law), secondo cui il processo civile è

regolato dal c.d. principio della domanda, in virtù del quale la scelta se ricorrere o meno all'autorità

giudiziaria per la tutela di un diritto è rimessa alla discrezionale volontà del titolare del diritto medesimo (o,

meglio, di colui che in giudizio se ne afferma titolare). Al massimo, in casi particolarmente delicati, il

legislatore ha esteso la legittimazione ad agire in giudizio anche ad altri soggetti che non siano i veri titolari

del diritto controverso (cfr., ad esempio quanto disposto in tema di poteri del pubblico ministero e di

sostituzione processuale dagli artt. 70, 81 ai cui rispettivi commenti, ovviamente, si rinvia per una

approfondita analisi). In nessun caso, tuttavia, è permesso al giudice proporre una domanda e,

conseguentemente, decidere sulla medesima ex officio, in assenza, quindi, di una rituale iniziativa della

parte legittimata (si riveda, nel suo pregnante significato, il risalente brocardo nemo judex sine actore).

Anche l'unica eccezione presente nell'ordinamento (sancita dall'art. 6, R.D. 16.3.1942, n. 267, che

prevedeva la possibilità per il giudice di dichiarare d'ufficio il fallimento), cui si riferiva l'inciso finale dell'art.

2907, 1° co., c.c., è stata recentemente abrogata (anche se con efficacia a decorrere dal 16 luglio 2006)

dall'art. 4, D.Lgs. 9.1.2006, n. 5, contenente la generale riforma della disciplina delle procedure concorsuali.

Quanto appena detto è tanto chiaro in astratto quanto complesso e articolato in concreto. Non è semplice,

infatti, capire ed individuare quale sia (o siano) la domanda (o le domande) su cui deve decidere il giudice.

Senza alcun dubbio, tuttavia, è ragionevole ritenere che ai fini del dovere di cui alla norma qui commentata

debba farsi riferimento alla versione definitiva delle domande formulate dalle parti, in considerazione,

quindi, dei mutamenti, delle precisazioni e degli allargamenti del thema decidendum operati nel rispetto

delle preclusioni previste dalle norme processuali.

A questo proposito merita di essere segnalato come, dopo notevoli incertezze, a seguito della riforma

del 1990, la Corte di Cassazione abbia ritenuto che le preclusioni previste dal codice di rito siano poste a

tutela di esigenze di ordine pubblico processuale e che, quindi, la violazione delle stesse sia rilevabile ex

officio dal giudice (C. 23127/2004; C. 4376/2000). Sul punto, tuttavia, si tornerà in seguito. Fin da ora,

invece, deve segnalarsi la netta discrasia tra tale indirizzo e quanto stabilito dal legislatore del 2003 con

riferimento al c.d. rito societario. L'art. 13, 4° co., D.Lgs. 17.1.2003, n. 5, infatti, prevede che le decadenze e,

in generale, il mancato rispetto delle preclusioni sia rilevabile solo su eccezione di parte. Sul punto, come

detto, si tornerà più ampiamente nel prosieguo del presente commento.

5. L'interpretazione della domanda

Spetta al giudice, naturalmente, interpretare la domanda proposta (o le domande proposte),

individuando, mediante l'analisi delle allegazioni e delle affermazioni della parte (ma anche alla luce delle

ulteriori circostanze segnalate nel precedente paragrafo), gli elementi costituitivi della domanda, e cioè,

secondo una tripartizione ormai tradizionale nella dottrina processualcivilistica, le personae, il petitum e la

causa petendi (Andrioli, 235; Verde, Domanda, par. 6). La valutazione da parte del giudice circa l'effettivo

contenuto della domanda, è dunque discrezionale e libera, soprattutto con riferimento agli elementi

oggettivi.

In tale interpretazione, infatti, il giudice non è necessariamente vincolato alle espressioni letterali

utilizzate, ma deve indagare e considerare il contenuto sostanziale della domanda ( C. 23669/2014; C.

27940/2013; C. 18783/2009; C. 19331/2007; C. 15802/2005; C. 18068/2004; C. 11667/2003; C. 2922/1997),

come ricavabile, ad esempio, dalle argomentazioni (in fatto e in diritto) contenute nell'atto introduttivo o

negli atti defensionali successivi, dai mezzi istruttori offerti, dalle precisazioni compiute nel corso del

giudizio (C., S.U., 27/2000; C. 16783/2006; C. 8879/2000; C. 2574/1999; C. 383/1999; C. 424/1998; C.

7941/1994; dallo stesso scopo cui mira la parte (C. 17760/2006; C. 8107/2006) e, persino, dal

comportamento processuale (C. 969/1996).

Si veda in dottrina, Comoglio, Allegazione, in Digesto civ., I, Torino, 1987, 277.

Il giudice, inoltre, in considerazione del tradizionale principio iura novit curia (sancito dall'art. 113),

anche in appello (C. 4008/2006) e in cassazione (C. 9143/2007; C. 6671/2006; ma, sul punto, si veda il

nuovo art. 366 bis, che impone, a pena di inammissibilità l'espressa formulazione di un quesito di diritto)

non è vincolato né alla qualificazione giuridica dei fatti allegati data dalle parti (C. 9590/2013; C. 6757/2011;

C. 5442/2006; C. 9570/2005; C. 17610/2004; C. 7931/2000; C. 2730/1999), né alle argomentazioni

giuridiche (C. 6891/2005), né alla normativa addotta dalle parti medesime a sostegno delle proprie

domande (T. Reggio Emilia 22.1.2009), sempre che, ovviamente, l'intenzione delle parti non sia univoca nel

sottoporre alla valutazione del giudice solo ed esclusivamente le questioni specificamente dedotte (C.

14142/2000; A. Roma 5.1.2009). Ovviamente il potere di interpretazione della domanda non può essere

così ampio da superare il principio della domanda, in base al quale è riservato alle sole parti la scelta circa

l'esercizio della domanda medesima (C. 9143/2007). A questo proposito, la Cassazione ha rilevato come il

potere di interpretazione della domanda trovi un proprio limite negli effetti giuridici richiesti dalle parti (C.

15383/2010; C. 21484/2007).

Riguardo alla qualificazione giuridica dei fatti allegati data dalle parti vedi in dottrina, Mandrioli, 104,

Verde, Domanda, par. 7.

In quest'ottica, si è ammessa la possibilità per il giudice di qualificare, alla luce delle allegazioni e delle

prospettazione delle parti, come revocatoria ordinaria l'azione proposta apparentemente come revocatoria

fallimentare (C. 11017/2005); diversamente, però, nel caso in cui in corso di causa si prospetti una

differente collocazione temporale (dopo il sorgere del debito) dell'atto dispositivo (C. 13446/2013). Si

ritiene, invece, che il giudice non possa sindacare e, quindi, variare l'ordine delle domande e delle questioni

oggetto di decisione (C. 10748/1992; C. 2748/1989), a meno che, in presenza di questioni fra di loro

interdipendenti per effetto di un nesso di pregiudizialità logico-giuridica, esigenze prevalenti di economia

decisoria impongano al giudice un diverso ordine di cognizione e di pronuncia. In proposito, in senso

parzialmente difforme, si veda C. St., Sez. V, 14.12.2006, n. 7442, secondo cui l'art. 112 imporrebbe al

giudice un vero e proprio onere di privilegiare e, quindi, affrontare preliminarmente le questioni più

importanti e, quindi, decisive per definizione della controversia.

Si tratta, perlopiù, del fenomeno che tradizionalmente si definisce come assorbimento e che trova

riscontro, pure, nelle impugnazioni incidentali c.d. condizionate: sul tema, diffusamente, Comoglio, Il

principio di economia processuale, I, Padova, 1980-1982, 215; Id., Il principio di economia processuale, II,

Padova, 1980-1982, 66.

L'interpretazione, tuttavia, non può spingersi tanto sino a configurare una domanda radicalmente

difforme, nel petitum o nella causa petendi, da quanto espressamente allegato e dedotto dalle parti ( C.

8519/2006; C. 15802/2005; C. 10922/2005; C. 6891/2005; C. 5954/2005; C. 22987/2004; C. 919/1999; C.

258/1999; C. 3670/1996; C. 532/1990); analogamente deve ritenersi nel caso in cui la parte abbia

espressamente e incondizionatamente limitato, nelle conclusioni del ricorso, la propria richiesta,

indipendentemente dal fatto che le allegazioni contenute nell'atto siano più ampie (C. 20727/2013). È stata

ritenuta mera interpretazione della domanda (e, come tale, ammissibile) la condanna al risarcimento del

danno basata sulla qualificazione di infortunio sul lavoro, anziché quella di malattia professionale

prospettata dalla parte (C. 18711/2006).

A questo proposito, inoltre, va detto come il giudice non possa modificare i fatti principali allegati

dalle parti (Comoglio, Allegazione, 277; Mandrioli, 109), potendo, al più prendere in considerazione fatti

secondari che, pur se non allegati, risultano provati nel corso del giudizio (Grasso, 1304).

Qualche problema, semmai, si può porre con riferimento ai c.d. diritti autodeterminati, diritti, cioè,

che possono sorgere una sola volta e che, quindi, sono individuati (o, meglio, individuabili) in base alla sola

indicazione del loro contenuto. In tal caso si discute se il giudice possa decidere sulla base di fatti costitutivi

differenti rispetto a quelli indicati nelle domande delle parti; in senso favorevole a questa possibilità si

vedano C. 23851/2010; C. 24702/2006; C. 15248/2005; C. 4460/1997; A. Genova 19.10.2006. Di contrario

avviso, invece, nel senso di non ammettere la possibilità di decidere sulla base di fatti costitutivi non

dedotti, è la giurisprudenza prevalente soprattutto con riferimento a domande volte a far accertare la

risoluzione o l'invalidità di un atto negoziale, quale, ad esempio, un contratto o domande aventi ad oggetto

uno specifico diritto reale ( C. 7502/2014; C. 20548/2004; C. 18210/2004; C. 4817/1999; C. 1811/1999; C.

4269/1996) o una deliberazione (C. 13732/2005). Ad esempio, si ritiene che il giudice non possa

riqualificare in domanda di annullamento per violenza morale la domanda di annullamento per dolo (C.

11371/2014). Rimane fermo, ovviamente, quanto si dirà in seguito circa la possibilità per il giudice di

decidere sulle c.d. domande implicite.

È discusso, invece, se, in tale analisi, debba essere ricercata la reale intenzione delle parti con conseguente

applicabilità dei criteri di cui all'art. 1362 c.c. (in questo senso C. 17947/2006; C. 15299/2005; C. 5814/1995;

C. 4205/1987; C. 1922/1984) oppure se, invece, la domanda non sia assimilabile ad una mera dichiarazione

di volontà e, quindi, debba essere interpretata con esclusivo riferimento a quanto dedotto in giudizio,

indipendentemente da una diversa prospettazione (e, quindi, dalla effettiva volontà) delle parti ( C.

25853/2014; C. 9875/1997; C. 5829/1995; C. 2369/1986).

Altrettanto incerto è l'inquadramento dell'attività interpretativa della domanda compiuta dal giudice. Può

discutersi, infatti, se la stessa rappresenti una valutazione di mero fatto e, come tale, sottratta al controllo

della Corte di Cassazione (in questo senso si vedano C. 22893/2008; C. 14751/2007; C. 11667/2003; C.

3094/2001; C. 10948/1999; C. 3678/1999; C. 5829/1995; C. 2369/1986) oppure se, invece, comporti una

valutazione di carattere giuridico, la cui erroneità, quindi, rappresenti un vero e proprio error in

procedendo, con la conseguente violazione dell'art. 112 (C. 15653/2012; C. 14952/2004; C. 1097/2003; C.

7049/2001; C. 8641/2000; C. 2574/1999; C. 1108/1999; C. 10337/1998; C. 1988/1993). Senza alcun dubbio,

invece, deve ritenersi che l'interpretazione della domanda non possa essere modificata dal giudice in sede

di impugnazione in mancanza di gravame sul punto (C. 20730/2008; C. 14573/2005; C. 8082/2005; C.

6754/2003; C. 9621/2001).

Anche nel caso di mancata riproposizione di una domanda (ad es. in sede di precisazione delle conclusioni),

il giudice è comunque tenuto ad interpretare la domanda, valutando se tale omissione sia stata realmente

voluta o se, al contrario, la parte abbia inteso ugualmente insistere in tale domanda (C. 14964/2006; C.

4794/2006). Generalmente l'omissione o la difformità, se dipese da mero errore materiale, non rilevano,

salvo che tale errore abbia determinato, in concreto, una violazione del principio del contraddittorio (C.

16999/2007).

I problemi maggiori in tema di interpretazione della domanda, ovviamente, si hanno in relazione alla

possibilità per il giudice di considerare e, quindi, decidere su domande non espressamente proposte dalle

parti, ma in un certo senso contenute nelle o, quantomeno, presupposte dalle domande proposte. Si parla,

in proposito, di domande implicite.

In effetti, la giurisprudenza, giustamente, tende ad ammettere la possibilità che il giudice possa

pronunciarsi su tali domande ( C. 10009/2013; C. 8879/2000; C. 3143/1993; C. 6727/1991). Meno chiaro,

tuttavia, è capire cosa si intenda per domanda implicita. Se, in negativo, è semplice rilevare come non

rientrino in tale nozione le domande che allargano l'ambito soggettivo della controversia o che, comunque,

riguardino un diritto incompatibile con un altro già dedotto in causa, molto più difficile, invece, è fornire

una definizione positiva. Alla luce della giurisprudenza in materia, tuttavia, sono da reputarsi

implicitamente contenute in quelle proposte le domande caratterizzate dalla medesima causa petendi, ma

con un petitum inferiore ( C. 9021/2005; C. 24021/2004; C. 2262/1998; C. 11157/1996), le domande di

condanna al pagamento delle somme dovute nella domanda di rendimento del conto (C. 2148/2014), le

domande riguardanti questioni pregiudiziali rispetto a quelle sulle quali si fonda la decisione della domanda

proposta espressamente (C. 8258/1997), le domande poste in un rapporto di connessione necessaria con il

petitum e la causa petendi di quest'ultima (C. 15345/2000; C. 3613/1999; C. 4461/1997), le domande

risarcitorie connesse alla sopravvenuta inefficacia di un precedente provvedimento (C. 3401/2013, con

riferimento al caso della domanda di ripetizione di quanto pagato in esecuzione di un decreto

provvisoriamente esecutivo poi divenuto inefficace a seguito di fallimento dell'ingiunto) e quelle che, in un

certo senso, ne siano il naturale svolgimento pratico (C. 2848/1998; C. 2926/1997). Analoga soluzione

sembra valere (anche senza un espresso riferimento alle domande implicite) con riferimento all'eventuale

conguaglio dovuto in caso di domanda di divisione ereditaria; e ciò in quanto il riconoscimento conguaglio

di cui all'art 728 c.c. prescinde da domanda di parte, concernendo unicamente la fase attuativa della

divisione (C. 15288/2014).

Viceversa, dovranno considerarsi autonome e, quindi, non comprese, neppure implicitamente, nelle

domande proposte, le domande che mutino l'ambito soggettivo o che siano incompatibili con quella

proposta o, comunque, alterino in maniera sostanziale il relativo oggetto (C. 11525/1999; C. 5516/1998).

A titolo esemplificativo, sono ritenute domande implicite (e, quindi, ricomprese nel dovere decisorio del

giudice): in materia risarcitoria, la domanda di risarcimento del lucro cessante, nell'ambito di una domanda

di risarcimento del danno (C. 10263/2000), la richiesta di liquidazione equitativa del danno quando la

domanda aveva ad oggetto il risarcimento del danno da determinarsi in corso di causa (C. 1589/2015), la

domanda di condanna al risarcimento ex art. 2051 c.c. in quella più generale, basata sull'art. 2043 c.c. (C.

12694/1999; T. Pescara 26.5.2011; T. Reggio Emilia 22.1.2009; contra, però, si veda la recente C.

20328/2006; del resto, in senso contrario, circa la diversità della domanda ex art. 2050 c.c. rispetto a quella

proposta ex art. 2043 c.c. si vedano C. 26516/2009; C. 8095/2006; C. 3751/2005), la domanda di

risarcimento dei danni non patrimoniali nella domanda di risarcimento per fatto illecito (C. 4184/2006), la

domanda di risarcimento in forma specifica ex art. 1669 c.c. in quella proposta ex art. 1669 c.c. (C.

7080/1995, ma non viceversa), la domanda di risarcimento per equivalente qualora il bene oggetto di

azione revocatoria non possa più essere oggetto di esecuzione (C. 24051/2006; cfr. anche C. 259/2013), la

domanda avente ad oggetto la liquidazione della rivalutazione monetaria (C. 4925/2006; C. 4010/2006; C.

1041/2006; cfr., però, con riferimento ad obbligazioni di valuta la soluzione opposta accolta da C.

25662/2006), la domanda di ripristino dei luoghi nell'ambito di una domanda risarcitoria in tema di danno

ambientale (C. 22382/2012, la quale, tuttavia, arriva a tale conclusione con specifico riferimento alla

materia ambienta, viste le previsioni contenute nella L. n. 166 del 1999, secondo cui la richiesta di tutela

reale sarebbe sempre insita nella domanda risarcitoria), ma non la domanda restitutoria a seguito di

risoluzione del contratto ex art. 1458 c.c., posto che spetta alla parte disporre degli effetti della risoluzione

(C. 2075/2013), in materia di locazioni, la domanda di pagamento dei canoni di locazione, ai sensi dell'art.

1591 c.c., per il periodo di occupazione abusiva in quella proposta dal locatore per inadempimento

contrattuale (C. 9987/1994), la richiesta di rilascio dell'immobile per occupazione sine titulo nella domanda

di rilascio per morosità (C. 7977/1994), la domanda di rilascio dell'immobile in quella di risoluzione del

contratto di affitto per inadempimento (C. 4439/1985), la domanda di accertamento della scadenza di un

contratto di locazione in una determinata data nella medesima domanda formulata, tuttavia, con

riferimento ad una data diversa (C. 1172/1999), in materia di interessi, la domanda di pagamento degli

interessi nell'ambito di un'azione di condanna alla rifusione dei danni derivanti da fatto illecito (C.

1931/2000; C. 977/1999; C. 11310/1998), la domanda di pagamento degli interessi legali in quella di

pagamento di interessi al tasso bancario (C. 6495/1986), in materia di rapporti di lavoro e previdenziali, il

riconoscimento di una categoria inferiore rispetto a quella richiesta dal lavoratore nel ricorso proposto ai

sensi dell'art. 2103 c.c. (C. 17561/2004; C. 12121/1998), la domanda di riassunzione rispetto a quella di

reintegrazione ai sensi dello Statuto dei Lavoratori (C. 9460/1991), la domanda di corresponsione

dell'assegno ordinario di invalidità in quella di corresponsione della pensione di invalidità (C. 8845/2005), in

materia di diritti reali, la domanda di accertamento della comproprietà rispetto alla domanda di

accertamento della proprietà esclusiva (C. 2502/1986), la domanda di reintegrazione nel compossesso in

quella di reintegrazione nel possesso esclusivo (C. 13415/2014), la domanda di pagamento dell'indennità di

occupazione rispetto a quella di pagamento dell'indennità aggiuntiva di cui all'art. 1, L. 18.4.1962, n. 167 (C.

25662/2006) e la domanda di cessazione della turbativa del possesso rispetto a quella di reintegrazione (C.

23718/2011), in materia successoria, la domanda di annullamento di un testamento rispetto alla domanda

di radicale nullità del medesimo atto (C. 12479/2013; C. 8366/2012).

Si ritiene, inoltre, che la domanda dell'attore verso il convenuto si estenda (anche in mancanza di

un'espressa indicazione in tal senso da parte dello stesso attore) verso il terzo chiamato dal convenuto

come unico soggetto effettivamente e direttamente obbligato (C. 1522/2006). Ciò non avviene, però,

qualora il terzo venga chiamato un diverso rapporto giuridico rispetto a quello dedotto dall'attore nei

confronti del convenuto, come avviene, ad esempio, in caso di chiamata in garanzia, sia propria che

impropria (C. 12317/2011; C. 13374/2007; C. 13131/2006).

È stata ritenuta domanda implicita, rispetto a quella espressamente proposta, infine, anche l'istanza di

condanna del soccombente al pagamento delle spese processuali, sulla quale il giudice, nell'accogliere la

domanda principale, può pronunziare d'ufficio (C. 5174/1997; C. 5720/1994), e tale potere è conferito

anche al giudice dell'impugnazione, che accolga in tutto o in parte il proposto gravame, salvo restando il

salvo il caso di rigetto dell'impugnazione medesima (in cui la pronuncia del primo giudice sulle spese può

essere riformata solo se sia, a sua volta, oggetto di un apposito e specifico motivo di gravame C.

18073/2013; C. 12963/2007; C. 16123/2004; C. 58/2004; C. 15559/2003).

6. Ultrapetizione ed extrapetizione

Come detto all'inizio, il secondo precetto ricavabile dal principio di corrispondenza tra chiesto e

pronunciato consiste nel divieto, per il giudice, di pronunciarsi oltre i limiti della domanda proposta (come

interpretata nei termini riferiti nei precedenti paragrafi). Qualora tale divieto venga violato, si parla di

ultrapetizione, nel caso in cui il giudice integri o ampli gli effetti giuridici della domanda rispetto a quanto

richiesto dalle parti, oppure di extrapetizione, qualora il giudice sostituisca altri effetti rispetto a quelli

connessi alla domanda proposta. Sul punto si vedano, in generale, Grasso, 1254; Comoglio, Azione, 233, e

Mandrioli, 99.

Si tratta, in realtà, di una distinzione più che altro concettuale, priva di particolari conseguenze pratiche

(essendo medesima la sanzione in entrambi i casi) e, comunque, tutt'altro che agevole e chiara (Verde,

Domanda, par. 11).

Non è un caso, infatti, che la giurisprudenza spesso non distingua tra tali vizi, sostanzialmente

parificandoli (cfr., ad es., C. 9452/2014; C. 14468/2009; C. 6945/2007; C. 21745/2006; C. 8636/2000; C.

6827/1999; C. 258/1999).

Entrambi i predetti vizi, del resto, determinano la nullità della sentenza (Andrioli, 236; Verde,

Domanda, par. 11), convertendosi in motivi di impugnazione (ex art. 360, n. 4, nel caso di ricorso per

cassazione), la cui formulazione è lasciata all'iniziativa della parte interessata, sì da determinare, quindi, in

mancanza di impugnazione sul punto, il passaggio in giudicato (interno) della decisione.

In giurisprudenza, sul tema, si vedano, ad esempio, C. 21856/2004; C. 2479/1987.

Da ciò conseguono, ovviamente, la non rilevabilità d'ufficio di tale nullità da parte dal giudice

dell'impugnazione ( C. 15629/2005; C. 11559/2000; C. 822/2000; C. 5183/1988; C. 4451/1985) e la non

deducibilità di tali vizi avanti alla Corte di Cassazione qualora si riferiscano alla sentenza di primo grado e

non siano stati dedotti quali motivi di appello (C. 21/2000; C. 4612/1999; C. 9808/1997). Qualora, poi, in

sede di gravame, venga riconosciuta la sussistenza degli stessi, il giudice di appello dovrà trattenere la

causa e decidere nel merito, non potendosi fare luogo a rimessione ex art. 354 (C. 13892/2005; C.

19274/2004). Lo stesso potrà fare la Corte di Cassazione, ma, ovviamente, nei limiti di cui all'art. 384. Con

specifico riferimento al giudizio di Cassazione, una recente pronuncia ha ritenuto che i predetti vizi (nel

caso di specie trattatasi di pronuncia d'ufficio su domanda o eccezione rilevabile solo ad opera della parte

interessata) possano essere fatti valere esclusivamente ai sensi dell'art. 360, n. 4 (C. 1196/2007; cfr. anche

C. 17931/2013, la quale, tuttavia, rileva la non necessari età dell'espressa menzione del numero dell'art.

360, essendo sufficiente l'univo riferimento alla nullità della sentenza).

Nonostante la segnalata labilità della distinzione appena segnalata, costituiscono casi di ultrapetizione la

condanna al pagamento di una somma superiore a quella richiesta (C. 6096/2006; C. 1752/2005; C.

5363/2001; C. 7565/1991; C. 6351/1981; cfr., però, in senso parzialmente difforme e più permissivo la

recente C. 17977/2007), ma non la condanna ad un importo inferiore o, comunque, l'accoglimento parziale

della domanda (C. 23626/2006, anche in caso di opposizione a decreto ingiuntivo, C. 1954/2009) e, sempre

che la parte non abbia comunque fatto riferimento, anche in modo generico, alla somma maggiore o

minore che risulti in giudizio effettivamente dovuta (C. 4828/2006; C. 1324/2006; C. 4727/1984; C.

5549/1981), la condanna al pagamento di un importo a titolo di lucro cessante in assenza di apposita

richiesta, non essendo sufficiente, al riguardo, la mera richiesta di condanna al pagamento della

rivalutazione e degli interessi (C. 13959/2007), la condanna al risarcimento dei danni dipendenti dall'unico

fatto dedotto con il ricorso introduttivo e poi maturati nel corso del giudizio, non trattandosi di eventi

provocati da circostanze diverse e successive alla proposizione della domanda (C. 15769/2013), la

condanna in solido nei confronti di più soggetti convenuti per un pagamento pro quota (C. 4018/1996) e, a

maggior ragione, la condanna in via esclusiva di uno dei convenuti di cui si era chiesta la condanna in via

solidale (C. 804/2009), la condanna alle restituzioni conseguenti alla richiesta di risoluzione (C. 7234/1995;

C. 6677/1988), o di annullamento del contratto (C. 4143/2012), la condanna al pagamento dell'assegno di

divorzio in favore del coniuge che non l'abbia richiesto (C. 7203/1991), la condanna al pagamento

dell'indennità di avviamento di cui all'art. 34, L. 27.7.1978, n. 392 a fronte di una domanda di mero

accertamento (C. 12125/2005), la condanna al pagamento della rivalutazione rispetto alla domanda

principale nel caso di obbligazione di valuta (C. 25662/2006), la costituzione di una servitù di passaggio sulla

base di un tracciato diverso rispetto a quello prospettato in modo specifico nella domanda (C. 15821/2008;

non però le domande aventi ad oggetto determinate modalità di esecuzione della servitù all'interno

della più generale domanda di eliminazione della servitù C. 5413/2015 ) oppure facendo applicazione

dell'art. 1051 c.c. (C. 3092/2014), la condanna al ripristino dello stato dei luoghi basata sul riconoscimento

di un diritto di proprietà quando la domanda era fondata su un diritto di servitù di passaggio (C.

13568/2008), la pronuncia su una domanda subordinata pur dopo l'accoglimento della domanda principale,

anche qualora vi fosse un rapporto di compatibilità tra le stesse (C. 15629/2005; C. 5954/2005), la

condanna al pagamento del rimborso forfetario della tariffa professionale forense (C. 24081/2010), la

condanna al risarcimento del danno in una controversia avente ad oggetto la richiesta di pagamento del

conguaglio del prezzo concordato con la P.A. in sede di cessione volontaria di un terreno oggetto di

esproprio (C., S.U., 3040/2007), la dichiarazione di nullità del precetto per genericità del titolo qualora

l'opponente abbia eccepito unicamente l'inidoneità della sentenza a valere come titolo esecutivo (C.

11066/2012), la pronuncia, in sede di gravame, su punti non oggetto di specifiche censure impugnatorie (C.

8501/2003; C. 7629/2003; C. 3002/2001) e, quindi, la reformatio in peius ai danni della parte impugnante in

mancanza di una impugnazione incidentale da proporsi dalla parte impugnata (C. 9646/2003; C. 135/2003).

Altro caso di ultrapetizione si ha quando il giudice condanni al pagamento degli interessi quando la

domanda principale è volta ad ottenere il pagamento del capitale (C. 11310/1998; C. 2814/1995). Sempre

con riferimento agli interessi, tuttavia, come già si è rilevato, costituiscono domande implicite (e, quindi,

comprese nel thema decidendum anche in assenza di espressa domanda) la richiesta di riconoscimento

degli interessi legali (C. 1913/2000; C. 977/1999; C. 11310/1998) o della rivalutazione (C. 77/2003) in

relazione ad una domanda avente ad oggetto la rifusione dei danni da atto illecito e, in generale, il

pagamento di un debito di valore oppure la richiesta di pagamento degli interessi legali in quella di

pagamento degli interessi al tasso bancario (C. 6495/1986). In tema di responsabilità aquiliana, è stata

ritenuta implicita nella richiesta principale di pagamento del danno la richiesta di pagamento degli interessi

compensativi, con esclusione, quindi, delle altre tipologie di interessi, i quali, quindi, devono essere chiesti

in via autonoma (C. 1087/2007); è stata esclusa, invece, la possibilità per il giudice di riconoscere interessi

legali e rivalutazione in appello, qualora l'istanza non sia stata espressamente riproposta in tale grado di

giudizio (C. 16128/2009).

Analogamente rientra nelle ipotesi in oggetto anche la condanna alla rifusione delle spese a favore della

parte vincitrice qualora essa, nelle proprie conclusioni, ne avesse chiesto la compensazione (C.

24560/2013).

Costituiscono, invece, casi di extrapetizione l'accertamento della natura definitiva del preliminare

nell'ambito di un giudizio avente ad oggetto la domanda di esecuzione specifica dell'obbligo di contrarre ex

art. 2932 c.c. (C. 4016/1995), pronunzia di una condanna generica in assenza di espressa richiesta (C.

7847/1998; C. 1736/1988; ma non pronunzia solo sull'an debeatur all'interno di una domanda di

condanna generica C. 3366/2015 ), o, comunque, in presenza di richiesta di condanna di una somma

determinata (C. 11460/2007), la condanna al pagamento del saldo dei conti correnti nell'ambito di

un'azione di ripetizione di indebito connessa fondata sull'illegittima capitalizzazione trimestrale degli

interessi (C. 12196/2012), la dichiarazione di nullità del contratto nell'ambito della domanda volta ad

ottenerne la risoluzione per inadempimento (C. 2108/2000), la dichiarazione di nullità del contratto

nell'ambito della domanda volta a far dichiarare la nullità di singole clausole (ma non nel caso opposto; cfr.

C. 16017/2008), l'accertamento della nullità nell'ambito di un procedimento avente ad oggetto

l'accertamento dell'esistenza di un brevetto per disegno ornamentale, qualora la nullità sia stata solo

eccepita dal convenuto (cfr. C. 24179/2011, secondo cui la proposizione in via di eccezione darebbe luogo

ad un accertamento meramente incidentale), la domanda di risoluzione per effetto di una clausola

risolutiva espressa, ex art. 1456 c.c. rispetto a quella di risoluzione per inadempimento, ex art. 1453 c.c. (C.

167/2005; non costituisce extrapetizione, invece, la dichiarazione di risoluzione per impossibilità

sopravvenuta nell'ambito della domanda di risoluzione per inadempimento; cfr. C. 23490/2009),

l'accertamento della nullità del contratto a fronte della domanda di accertamento dell'avvenuto recesso ex

art. 1385 c.c. (C. 1340/1994), ma non (anche se la posizione è assai discutibile) l'annullamento del contratto

a fronte di una domanda di accertamento della nullità (C. 15981/2007), l'accertamento della nullità di un

contratto per cause diverse da quelle dedotte quando la domanda verta direttamente sulla validità di quel

medesimo contratto ( C. 89/2007; C. 4817/1999; C. 1811/1999; C. 4269/1996), l'accertamento della

nullità di una deliberazione condominiale per ragioni differenti rispetto a quelle dedotte (C. 13732/2005), la

pronunzia di nullità o di risoluzione del contratto, sulla base di ragioni differenti da quelle dedotte a

fondamento della domanda iniziale (C. 4064/1995), la condanna al ritrasferimento dei beni in caso di

interposizione reale in relazione ad una domanda volta esclusivamente ad accertare l'interposizione fittizia

e, quindi, la simulazione relativa del contratto traslativo (C. 4645/1987), l'azione di restituzione in relazione

ad un'azione di rivendica (A. Potenza 25.7.2008), la pronuncia che riconosca il mantenimento dei diritti del

lavoratore in caso di trasferimento d'azienda, ai sensi dell'art. 2112 c.c. in relazione ad una domanda

originariamente fondata su di un unico ed ininterrotto rapporto di lavoro subordinato (C. 7379/1996), la

pronuncia relativa alla contestazione della stima nell'ambito di una domanda proposta per ottenere il

risarcimento del danno da occupazione acquisitiva (C. 21994/2008), la dichiarazione di illegittimità del

licenziamento per motivi diversi da quelli dedotti a fondamento della domanda ( C. 23683/2004; C.

11455/1999; C. 1173/1996; C. 5833/1994), ma non la pronuncia di rigetto dell'impugnazione del

licenziamento basata su, riconoscimento di un giustificato motivo oggettivo invece della giusta causa

intimata in sede di licenziamento (C. 27104/2006), la condanna ex art. 2049 c.c. rispetto all'azione di

restituzione di titoli mobiliari (C. 5544/2012), l'accertamento della qualità di erede nell'ambito di un'azione

volta ad ottenere l'accertamento della qualità di legatario (C. 4581/1993), la condanna a titolo di

inadempimento contrattuale a fronte di domanda fondata su un ingiustificato arricchimento ( C.

4365/2003; C. 8184/1994; C. 1738/1983), il riconoscimento di una qualifica superiore rispetto a quella

richiesta (C. 4759/1987), la condanna per responsabilità aggravata ai sensi dell'art. 96, 2° co., a fronte di

una domanda basata solo sul 1° co. di tale norma (C. 7051/1997).

In tema, tuttavia, occorre segnalare C., S.U., 26242/2014, la quale, modificando i precedenti e

consolidati orientamenti di legittimità, ha ritenuto ammissibile (e, quindi, tale da non costituire vizio di

extrapetizione o ultrapetizione) la rilevazione della nullità del contratto per cause diverse rispetto a quelle

inizialmente dedotte (anche nel caso di nullità di protezione), la rilevazione d'ufficio di tale nullità in grado

d'appello e, in generale, la rilevazione d'ufficio della nullità contrattuale nell'ambito delle domande di

impugnativa contrattuale (risoluzione, rescissione e annullamento). Secondo questo nuovo orientamento,

l'unica attività preclusa al giudice in tema di nullità è rappresentata dall'impossibilità di rilevare d'ufficio

l'eventuale conversione del contratto, stante la contraria previsione dell'art. 1424 c.c.

Non incorre nella violazione del principio di corrispondenza fra chiesto e pronunciato il giudice d'appello

che, a seguito di impugnazione della sentenza di primo grado in ordine al quantum debeatur, escluda

l'esistenza di qualsiasi danno. Posto, infatti, che la pronuncia sull'an debeatur riguarda solo l'astratta

potenzialità lesiva della condotta, se la sentenza di primo grado viene specificamente impugnata in ordine

alla liquidazione del danno, contestandosi che di esso sia stata fornita la prova, il giudice di appello può

riesaminare nella sua interezza la statuizione concernente il quantum debeatur (C. 15595/2014).

Per un particolare caso di extrapetizione si veda C. 13918/2007, secondo cui sussisterebbe tale vizio nel

caso in cui il Giudice di appello accertasse l'extrapetizione del Giudice di primo grado in assenza di specifica

censura da parte dell'appellante (qualora quest'ultimo, nell'atto di impugnazione, abbia lamentato

unicamente l'infondatezza, totale o parziale, nel merito della domanda proposta in primo grado).

7. Il potere decisorio del giudice e le eccezioni

La terza manifestazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato (questa volta

espressamente delineata dalla norma qui commentata) consiste nel divieto per il giudice di pronunciarsi,

senza esserne richiesto, su eccezioni rilevabili solo per iniziativa di parte. Si tratta, per convenzione

terminologica, delle eccezioni in senso proprio, le quali si differenziano per tale specifico profilo da quelle

denominate come eccezioni in senso lato, rilevabili anche d'ufficio dal giudice. È bene precisare come, nei

limiti predetti, tale divieto si applichi ad ogni eccezione, da qualunque parte sia proposta e, quindi, anche a

quelle proponibili dall'attore nelle forme e nei limiti di cui all'art. 183.

Così come detto in relazione alle domande, spetta al giudice interpretare l'eccezione proposta,

valutando, eventualmente, la presenza di eccezioni implicite. Se è vero, infatti, che l'eccezione non postula

un ampliamento o, comunque, un mutamento della pretesa, è altrettanto vero che tale attività difensiva

allarga comunque il thema decidendum, attraverso l'allegazione e l'introduzione in giudizio di ulteriori fatti

(modificativi, impeditivi e estintivi), ontologicamente diversi da quelli costitutivi allegati dall'attore; sulla

nozione di eccezione si vedano, in particolare: Comoglio, Difesa, eccezione, riconvenzione, in Comoglio,

Ferri, Taruffo (a cura di), Lezioni sul processo civile, I, 4ª ed., Bologna, 2007, 266; Fabbrini, Eccezione, in EG,

XII, Roma, 1989, 1; Oriani, Eccezione, in Digesto civ., XIII, Torino, 1995, 262; Mandrioli, 143; Pugliatti,

Eccezione (teoria generale), in ED, XIV, Milano, 1965, 151. Appare corretto, quindi, applicare anche alle

eccezioni i principi sopra illustrati in relazione all'interpretazione della domanda.

Le più frequenti applicazioni si hanno, ovviamente, in relazione all'eccezione di prescrizione, la più

tipica delle eccezioni rilevabili unicamente per iniziativa di parte. A questo riguardo, la giurisprudenza ha

ritenuto che il giudice possa dichiarare d'ufficio una prescrizione breve, anche se sia stata eccepita la

prescrizione decennale, purché, tuttavia, non vi sia una differente disciplina relativamente ai fatti

interruttivi e sospensivi invocati (C. 9768/2005; C. 13898/1999; C. 11923/1998); non saranno assimilabili,

quindi, le prescrizioni ordinarie (decennali o quinquennali che siano) alle prescrizioni presuntive (C.

3443/2005). Non è possibile, invece, il caso opposto (riconoscimento d'ufficio di una prescrizione più lunga

di quella eccepita e dedotta), visto che, in tale situazione, il giudice accerterebbe una circostanza di fatto

(cioè, il decorso di 10 anni senza l'esercizio del corrispondente diritto, e quindi la sua sopravvenuta

estinzione, ex art. 2946 c.c.) non allegata in giudizio, essendo stata eccepita solo una prescrizione breve, ai

sensi degli artt. 2947 ss. c.c. (C. 12146/1998); proprio recentemente, però, la Corte di Cassazione ha sancito

il principio opposto, a condizione che, ovviamente, i fatti su cui si basa l'eccezione siano stati regolarmente

allegati e provati (cfr. C. 21752/2010). Neppure, infine, il giudice può riconoscere ed accertare d'ufficio una

differente prescrizione qualora la parte abbia eccepito, in modo specifico ed univoco, una determinata

prescrizione (C. 2412/1995; C. 1570/1986). Recentemente, tuttavia, la Suprema Corte, forse modificando il

precedente orientamento, ha ritenuto sufficiente l'allegazione del fatto costitutivo dell'eccezione (vale a

dire l'inerzia del titolare del diritto), indipendentemente dal termine applicabile e dal momento iniziale e

finale di decorrenza del termine medesimo, trattandosi di questioni di diritto, come tali svincolate dalle

allegazioni di parte (C. 11843/2007).

La norma qui commentata, inoltre, presuppone la ormai classica distinzione (valevole sia per le eccezioni di

rito che per quelle di merito) tra eccezioni in senso lato (rilevabili anche ex officio da parte del giudice) ed

eccezioni in senso stretto (rilevabili unicamente ad opera di parte), visto che solo a queste ultime si applica

il divieto sancito dall'art. 112 c.c.

Non è facile, tuttavia, qualificare una determinata eccezione nell'ambito della predetta bipartizione,

soprattutto in considerazione del fatto che, spesso, il legislatore non precisa il regime di rilevabilità

dell'eccezione. Apparentemente l'art. 112 non sembrerebbe fornire alcuna indicazione al riguardo (Oriani,

Eccezione, in Digesto civ., 270). In realtà, si ritiene che tale norma introduca una specie di rapporto di

regola-eccezione tra le predette categorie di eccezioni (Grasso, 1273; Comoglio, Difesa, 270). Dovrebbero

essere considerate eccezioni in senso stretto soltanto quelle espressamente definite come tali dalla legge,

nonché quelle corrispondenti all'esercizio di un diritto potestativo. Conseguentemente, qualora si versi in

situazioni poste al di fuori di tale nozione, i fatti ritualmente accertati ed acquisiti alla causa potrebbero

essere utilizzati dal giudice anche in assenza di formali istanze o difese di parte che li assumano a proprio

fondamento.

Sul punto non mancano i contrasti, soprattutto in dottrina (per una rassegna delle varie opinioni si veda

Montanari, sub art. 112 c.p.c., in Comm. Consolo, Luiso, I, Milano, 2000, 1041). In senso contrario, infatti,

sulla base di una distinzione tradizionale (di origine chiovendiana), si è rilevato come il criterio discretivo

vada ricercato non tanto, da un punto di vista formale, nel dato normativo, quanto piuttosto, da un punto

di vista sostanziale, nella natura del controdiritto opposto in via di eccezione (Mandrioli, 146). Se così fosse,

quindi, potrebbero essere rilevati d'ufficio quei fatti impeditivi, modificativi ed estintivi che producano

immediatamente i propri effetti (siano, cioè, operanti ipso jure, come, ad es., l'avvenuto pagamento, la

risoluzione consensuale, la nullità, la simulazione), mentre dovrebbero essere eccepiti solo su iniziativa di

parte (pur in assenza di specifica previsione) quei fatti che operino esclusivamente in presenza di una

specifica manifestazione di volontà della parte interessata (come, ad es., accade a seguito dell'esercizio di

diritti potestativi, nei casi di risoluzione per inadempimento o di annullabilità). Sul punto, si veda, ancora

una volta Mandrioli, 149. Ad onor del vero, tuttavia, deve segnalarsi come il predetto contrasto si attenui

notevolmente in considerazione del fatto che gli stessi sostenitori della generale rilevabilità officiosa delle

eccezioni ritengono che un'eccezione in senso proprio potrebbe essere prevista dalla legge anche in modo

implicito (Grasso, 1273).

Il predetto contrasto si riscontra anche in giurisprudenza, seppure in modo molto meno marcato.

L'orientamento prevalente, infatti, è favorevole alla tesi più tradizionale, distinguendo tra eccezioni in

senso lato ed eccezioni in senso stretto sulla base di un rapporto di regola (rilevabilità officiosa) - eccezione

(rilevabilità ad opera di parte). Si vedano, al riguardo, C., S.U., 1099/1998; C. 11108/2007; C. 16501/2004; C.

226/2001; C. 5747/1995; v. in senso contrario, però, C. 1320/2000. Recentemente, la Corte di Cassazione

ha ritenuto rilevabili d'ufficio tutte le ragioni che possono condurre al rigetto della domanda per difetto

delle sue condizioni di fondatezza o per la successiva caducazione del diritto fatto valere, purché tali

circostanze siano state ritualmente acquisite al processoe il rilievo officioso non sia impedito sia impedito o

precluso in conseguenza di specifiche regole processuali (C. 21482/2013).

Proprio sulla base di tale ragionamento, sono state considerate rilevabili ex officio, anche in assenza di

apposita previsione, l'eccezione di nullità del contratto (a meno che oggetto della domanda sia proprio la

declaratoria di nullità; C. 12627/2006; C. 6003/2006; C. 19903/2005), l'eccezione volta a rilevare la non

integrità del contraddittorio (C. 26388/2008; C. 25305/2008); l'eccezione di interruzione della prescrizione

(cfr. C. 13783/2007; C. 9053/2007; C. 6092/2006; C. 2468/2006; C. 2035/2006, conformi a C., S.U.,

15661/2005, la quale ha risolto un precedente contrasto giurisprudenziale; a favore della rilevabilità

officiosa erano C. 3726/2000; C. 11474/1993; C. 1165/1983, in senso contrario, a favore della rilevabilità ad

opera di parte C. 11588/2003; C. 10137/2002; C. 6759/2001), l'eccezione con cui si afferma di aver

compiuto l'atto necessario ad evitare una decadenza (C. 414/2013, secondo cui, in realtà, si sarebbe in

presenza di una mera difesa), l'eccezione volta a far valere l'accettazione dell'eredità con beneficio

d'inventario (C. 10531/2013), l'eccezione di giudicato esterno (C. 15023/2001; C. 5886/1999; C.

11018/1995; contra, però, C. 14698/1999), l'eccezione volta ad accertare il mancato avveramento della

condizione sospensiva (C. 15978/2010; C. 2214/2002), l'eccezione di pagamento (C. 599/1998), l'eccezione

di risoluzione consensuale (C. 2770/1997), l'eccezione di novazione (C. 3026/1999), l'eccezione di riduzione

ad equità della penale, purché vengano rispettati gli oneri allegatori e probatori con riferimento alle

circostanze rilevanti per tale valutazione (C. 24166/2006), l'eccezione volta a rilevare l'incapienza del

massimale minimo di legge rispetto al danno (C. 22893/2012) e l'eccezione d'inosservanza degli oneri di cui

all'art. 66, R.D. 14.12.1933, n. 1669 in materia di azioni causali (C. 12677/2014). Analogamente, è rilevabile

d'ufficio l'eccezione di concorso di colpa del danneggiato, ai sensi dell'art. 1227 c.c. (C. 13902/2013; C.

23734/2009 e C. 18544/2009, secondo cui non si tratterebbe neppure di una vera e propria eccezione, ma

di una mera difesa).

Ad onor del vero, però, nonostante la prevalenza, in astratto, della tesi tradizionale, la giurisprudenza ha

avuto occasione di individuare diversi casi di eccezioni rilevabili solo ad opera di parte anche in assenza di

un'espressa previsione e, quindi, unicamente sulla base della natura del diritto opposto. In particolare, sono

state considerate eccezioni in senso stretto le eccezioni riguardanti fatti operanti solo in presenza di

un'apposita manifestazione di volontà, quali, ad esempio, quella volta ad accertare il concorso colposo del

danneggiato nell'aggravamento del danno (ma non il concorso nella causazione dello stesso, circostanza

operante ipso jure; cfr. C. 4799/2001), l'eccezione con cui si allega il decorso del termine di cui all'art. 80, L.

27.7.1978, n. 392, con conseguente decadenza dall'azione di risoluzione del contratto di affitto in

conseguenza del mutato uso del bene affittato, (C. 14765/2007), l'eccezione volta ad opporre la remissione

(C. 11749/2006; C. 1110/1999), l'eccezione avente ad oggetto la decorrenza del termine di decadenza di cui

all'art. 1168 c.c. (C. 5841/2006), l'eccezione di risoluzione del contratto per avveramento della condizione

(C. 17474/2014), l'eccezione di decadenza di cui al primo comma dell'art. 1669 c.c. (C. 18078/2012),

l'eccezione riguardante la tardiva contestazione dell'illecito nel caso di opposizione a sanzioni

amministrative (C. 1173/2007), l'eccezione volta a limitare la responsabilità dell'erede a seguito di

accettazione con beneficio di inventario (C. 14766/2007), l'eccezione volta a limitare la responsabilità di

uno degli eredi in proporzione alla propria quota, ai sensi dell'art. 754 c.c. (C. 25764/2008), l'eccezione

finalizzata a far valere la clausola c.d. solve et repete (C. 5819/1993) e l'eccezione volta ad opporre la c.d.

presupposizione (C. 3908/2000).

Anche in relazione alle eccezioni rilevabili ex officio, il potere decisorio del giudice non è, comunque, privo

di vincoli. Innanzi tutto, il giudice deve fare esclusivo riferimento alle allegazioni (legittimamente e

tempestivamente) operate dalle parti. Conseguentemente, quand'anche un'eccezione possa essere rilevata

d'ufficio, il giudice potrà pronunciarsi sulla stessa se e solo se i fatti (estintivi, modificativi e impeditivi) ad

essa sottesi siano stati allegati dalle parti o, comunque, tempestivamente (entro quindi, i termini di cui

all'art. 183, 6° co.; cfr. C. 14581/2007; C. 9916/1998) e ritualmente acquisiti (e provati) nel processo (C.,

S.U., 1099/1998; C. 13783/2007; C. 9916/1998; C. 5276/1993). Non soggiace, invece, alle ordinarie

preclusioni, anche in tema di allegazione delle circostanze di fatti, l'eccezione volt aa far valere la

transazione novativa conclusa nelle more del giudizio (C. 18195/2012).

Corollario di quanto detto fino ad ora è la possibilità che il giudice incorra, anche con riferimento alle

eccezioni, nei vizi sopra segnalati di omissione di pronuncia, di ultrapetizione e di extrapetizione. In

particolare, si ha ultrapetizione quando il giudice decida su una eccezione rilevabile esclusivamente ad

opera di parte (C. 3191/1999; C. 15/1990). Si ha extrapetizione, invece, quando il giudice si pronunci

sull'eccezione ritualmente sollevata da una parte ma sulla base di fatti differenti rispetto a quelli da costei

allegati e dedotti.

Inoltre, secondo l'orientamento dominante, la rilevabilità officiosa viene meno quando il fatto posto alla

base dell'eccezione rappresenti il fatto costitutivo (o, meglio, uno dei fatti costitutivi) della domanda

proposta. Specificamente, tale limitazione si verifica nel caso dei diritti autodeterminati. Prendendo ad

esempio l'eccezione di nullità del contratto, il giudice può sempre rilevare tale invalidità anche in assenza di

un'apposita richiesta di parte (ovviamente sempre nei limiti delle allegazioni operate dalle parti) nei giudizi

aventi ad oggetto l'adempimento o la esecuzione del contratto (ove la nullità si pone quale mera «ragione

di rigetto» della pretesa dedotta dall'attore: (C. 18374/2006; C. 1097/2005; C. 21095/2004; C. 18210/2004;

C. 14570/2004), ma non già in quelli di impugnazione o di risoluzione, aventi espressamente ad oggetto

l'accertamento (e la conseguente dichiarazione) dell'invalidità o dell'inefficacia della pattuizione contrattale

( C. 15093/2009; C. 21632/2006; C. 20548/2004; C. 4817/1999; C. 1811/1999; C. 4269/1996).

Recentemente, però, a seguito di due importanti sentenze delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione,

l'orientamento è radicalmente mutato. Anzitutto, C., S.U., 14828/2012, risolvendo il contrasto che stava

insorgendo nelle sezioni semplici, ha ammesso espressamente la rilevabilità dell'eccezione di nullità anche

nelle azioni aventi ad oggetto la richiesta di risoluzione del contratto.

Successivamente, le Sezioni Unite (cfr. C., S.U., 26242/2014), ribaltando i precedenti orientamenti

giurisprudenziali, anche di legittimità, hanno ammesso in modo del tutto estensivo la rilevabilità

dell'eccezione di nullità sia in tutte le azioni di impugnativa negoziale (comprese quelle di annullamento e

rescissione) sia nelle vere e proprie azioni di nullità (ammettendo così espressamente il rilievo officioso da

parte del giudice di una causa di nullità diversa da quella allegata dalla parte).

Tale orientamento pare ribadito anche in relazione alle eccezione di rito (in relazione alle quali,

tuttavia, appare dubbia l'applicabilità della norma qui commentata, dedicata precipuamente agli aspetti

sostanziali della tutela; cfr. Montanari, 1046).

Dopo numerosi travagli interpretativi, infatti, la Corte di Cassazione ha riconosciuto la generale

rilevabilità officiosa delle eccezioni di rito, specialmente di quelle relative alle preclusioni e alle decadenze

maturate, essendo poste a tutela di interessi di ordine pubblico processuale (C. 23127/2004; C. 4376/2000).

Con specifico riferimento alle eccezioni di rito, tuttavia, deve la particolare disciplina che era stata prevista

nel c.d. rito societario. L'art. 13, 4° co., D.Lgs. 17.1.2003, n. 5, infatti, sanciva il principio esattamente

opposto della generale rilevabilità ope exceptionis delle preclusioni e delle decadenze maturate (e, quindi,

in definitiva, l'opponibilità di tutte le eccezioni di rito solo ad iniziativa di parte). Si trattava, tuttavia, di una

previsione eccezionale, o, più correttamente, di natura generale nell'ambito del rito societario, ma di

natura speciale con riferimento al processo civile ordinario. Del resto, le recenti riforme al codice di rito

(contenute nella L. 14.5.2005, n. 80 e nelle successive modificazioni) hanno sostanzialmente riaffermato il

rapporto regola eccezione delineato dalla norma qui commentata e poco sopra analizzato.