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112. Corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato
[1] Il giudice deve pronunciare su tutta la domanda e non oltre i limiti di essa; e non può pronunciare
d'ufficio su eccezioni, che possono essere proposte soltanto dalle parti.
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Andrioli, Diritto processuale civile, Napoli, 1979; Calvosa, Omissione di pronuncia e cosa giudicata, in RDPr,
1950, I; Cavallini, Eccezione rilevabile d'ufficio e struttura del processo, Napoli, 2003; Colesanti, Eccezione,
in ED, XIV, Milano, 1965; Comoglio, Azione e domanda giudiziale, in Comoglio, Ferri, Taruffo (a cura di),
Lezioni sul processo civile, I, 4ª ed., Bologna, 2007; Id., Difesa, eccezione, riconvenzione, in Comoglio, Ferri,
Taruffo (a cura di), Lezioni sul processo civile, I, 4ª ed., Bologna, 2007; Id., Le prove civili, 2ª ed., Torino,
2004; Id., Allegazione, in Digesto civ., I, Torino, 1987; Id., Il principio di economia processuale, I, Padova,
1980-1982; Id., Il principio di economia processuale, II, Padova, 1980-1982; Consolo, Domanda giudiziale, in
Digesto civ., VII, Torino, 1998; Costa, Eccezione, in NN.D.I., VI, Torino, 1960; Fabbrini, Eccezione, in EG, XII,
Roma, 1989; Grasso, Dei poteri del giudice, in Comm. c.p.c. Allorio, I, Torino, 1973; Liebman, Manuale di
diritto processuale civile. Principi, 6ª ed., Milano, 2002; Mandrioli, Diritto processuale civile, I, 20ª ed.,
Torino, 2009; Montanari, sub art. 112 c.p.c., in Comm. Consolo, Luiso, I, Milano, 2000; Montesano, Arieta,
Trattato di diritto processuale civile, I, Padova, 2001; Oriani, Eccezione, in Digesto civ., XII, Torino, 1995; Id.,
Eccezione, in EG, Agg., XII, Roma, 1989; Proto Pisani, Lezioni di diritto processuale civile, 5ª ed., Napoli,
2006; Pugliatti, Eccezione (teoria generale), in ED, XIV, Milano, 1965; Valle, sub artt. 112-120 c.p.c., in
Comm. Verde, Vaccarella, Agg., Torino, 2001; Verde, Dispositivo (principio), in EG, XI, Roma, 1989; Id.,
Domanda (principio della), I. Dir. proc. civ., in EG, XII, Roma, 1989.
Sommario:1. Il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato2. Il dovere di pronunciare su tutta la
domanda: il dovere di «decidere» 3. L'omissione di pronuncia4. La domanda come fondamento del
dovere decisorio del giudice 5. L'interpretazione della domanda 6. Ultrapetizione ed extrapetizione
7. Il potere decisorio del giudice e le eccezioni
1. Il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato
La norma qui commentata sancisce il c.d. principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, il
quale rappresenta, con riferimento al giudice, il logico completamento del principio della domanda
stabilito, con riferimento alle parti, dall'art. 99 [Comoglio, Azione e domanda giudiziale, in Comoglio, Ferri,
Taruffo (a cura di), Lezioni sul processo civile, I, 4ª ed., Bologna, 2007, 231].
Nonostante l'estrema sinteticità e l'apparente chiarezza del dato normativo si tratta di una delle
disposizione più dense di significato di tutto il codice di procedura civile.
In effetti, il predetto principio, in modo molto sintetico, ma anche molto efficace, racchiude in sé tre
differenti precetti, chiaramente individuati dalla dottrina (Mandrioli, Diritto processuale civile, I, 20ª ed.,
Torino, 2009, 93 ss.; Comoglio, Azione, 232).
Il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, infatti, comporta: 1) che il giudice debba decidere
su tutta la domanda; 2) che il giudice non possa pronunciare oltre i limiti della domanda formulata; 3) che il
giudice non possa pronunciare su eccezioni la cui rilevabilità è rimessa all'iniziativa delle parti.
È evidente la grande importanza di tale principio, in tutte le sue espressioni, tanto che lo stesso è
ritenuto applicabile non solo al processo ordinario di cognizione, ma anche a tutti gli altri processi o
procedimenti regolati dal codice di rito (quali, ad esempio, l'arbitrato rituale, C. 8038/2003, l'arbitrato
irrituale, C. 4688/1996), o da leggi speciali, come il processo in tema di opposizione a sanzioni
amministrative (C. 13751/2006), nonché a processi speciali in qualche modo assimilabili al processo civile,
come il processo amministrativo (C. St., 9.10.2006, n. 5993; C. St., 19.9.2006, n. 5472; C. St., Sez. IV,
19.10.2004, n. 6710), il processo tributario (cfr. C. 14336/2011; C. 9415/2005; C. 6201/2005), il processo
avanti alla Corte dei Conti (C. Conti, Abruzzo, Sez. giurisd., 14.1.2005, n. 67) o i procedimenti disciplinari
(cfr. C. 2197/2005; C. 5715/2003, con riferimento al procedimento disciplinare avanti al Consiglio Nazionale
Forense).
In particolare sull'applicazione del principio in oggetto al processo di esecuzione v. Andrioli, Diritto
processuale civile, Napoli, 1979, 237; Consolo, Domanda giudiziale, in Digesto civ., VII, Torino, 1998, 62;
Verde, Domanda (principio della), I. Dir. proc. civ., in EG, XII, Roma, 1989, 12. Un'eccezione, forse, riguarda i
procedimenti camerali, in cui, tuttavia, potrebbero distinguersi i casi in cui il provvedimento debba essere
chiesto dall'interessato da quelli in cui il provvedimento può essere disposto d'ufficio (Verde, Domanda,
12).
Ovviamente il medesimo principio si applica anche nelle fasi di gravame, ferma restando, tuttavia,
l'applicazione delle specifiche norme relative a tali gradi, che siano di volta in volta previste (cfr., ad es.,
l'art. 345; si vedano, al riguardo C. 14063/2006; C. 24028/2004).
2. Il dovere di pronunciare su tutta la domanda: il dovere di «decidere»
La prima espressione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato consiste nel dovere da parte
del giudice di decidere su tutta la domanda, dovere che trova il proprio fondamento e il proprio limite nella
"domanda" proposta dalla parte (dall'attore o anche dal convenuto in via riconvenzionale). Ad esso si
correla il dovere di pronunciare sul merito, decidendo tutte le domande e le eccezioni proposte, sì da
definire il giudizio con un provvedimento tendenzialmente unico (artt. 277, 279, 2° co., nn. 4, 5).
Prima di tutto, però, è fondamentale sottolineare l'obbligo per il giudice di "decidere" la controversia. Si
tratta, infatti, di un corollario estremamente importante, soprattutto da un punto di vista sistematico (non
solo all'interno del processo civile, ma dello stesso ordinamento giuridico).
Il predetto dovere di decidere la controversia, tuttavia, non si risolve nell'obbligo, meramente
formale, di emettere un provvedimento conclusivo del processo. In realtà, tale dovere è connotato
qualitativamente, visto che al giudice è fatto obbligo di emettere una pronuncia di merito, anche a fronte di
una domanda invalida oppure in assenza di prove (Comoglio, Azione, 232), salvi, ovviamente, i casi di
pronunce di mero rito (quale conseguenza di violazioni della legge processuale). In definitiva, quindi, il
giudice non può emettere provvedimenti di c.d. non liquet, in cui, cioè, dichiara di non poter (o, meglio, di
non essere in grado) di decidere a favore di alcuna delle parti, ma dovrà sempre e comunque valutare, in
primo luogo, se e quale norma giuridica sia applicabile al caso di specie, e, in secondo luogo, se ed in che
termini si siano verificati i fatti previsti da tale norma nonché gli eventuali fatti lesivi di quest'ultima (cfr.
ancora Mandrioli, 95), a costo di applicare, quale extrema ratio, la «regola di giudizio» attinente al «rischio
della mancata prova» e sottesa all'art. 2967 c.c., secondo cui actore non probante reus absolvitur
(Comoglio, Le prove civili, 2ª ed., Torino, 2004, 169 e 204).
È stato giustamente rilevato, inoltre, come il dovere decisorio non sia limitato al mero obbligo di decidere
(e, quindi, di emettere una pronuncia), ma consista, più in generale, nel dovere di compiere tutti gli atti che,
coordinandosi a vicenda, permettono di arrivare alla decisione (Mandrioli, 94).
3. L'omissione di pronuncia
Qualora il giudice non assolva al proprio dovere decisorio si ha la c.d. omissione di pronuncia. Si
vedano, al riguardo, Grasso, Dei poteri del giudice, in Comm. c.p.c. Allorio, I, Torino, 1973, 1274; Mandrioli,
99; Comoglio, Azione, 233.
Ovviamente, il caso più evidente di omissione di pronuncia si verifica quando il giudice ometta di decidere
in senso assoluto, non redigendo e non depositando la sentenza (o, comunque, il provvedimento decisorio).
Si tratta di un vizio talmente grave, tuttavia, che trascende l'aspetto strettamente processuale, tanto da
non essere incluso nella ratio e nella lettera della norma qui commentata (Grasso, 1274). In tal caso, infatti,
non vi sono neppure rimedi endoprocessuali, ma è necessario fare ricorso alla normativa in tema di
ordinamento giudiziario, con la eventuale sostituzione del magistrato, ferma restando, ovviamente, la
responsabilità civile, penale e disciplinare di quest'ultimo.
Ai fini della norma qui commentata, invece, con l'espressione omissione di pronuncia si fa riferimento al
caso in cui, all'interno di un provvedimento giurisdizionale, il giudice ometta di decidere su alcune delle
domande, delle eccezioni o delle questioni dedotte; propriamente, quindi, si tratta di una omissione di
pronuncia parziale (Grasso, 1274; Verde, Domanda, par. 11). In definitiva, l'omissione di pronuncia
presuppone un thema decidendum complesso, composto da una pluralità di domande o di eccezioni, e
perciò di questioni, di cui, tuttavia, solo alcune sono state oggetto di decisione. Lo stesso caso, tuttavia, si
può verificare quando, pur essendovi una sola domanda, la pronuncia riguardi solo una sua parte, ovvero
una sola parte del diritto azionato.
Va subito precisato, però, come la mera mancanza formale di una determinata statuizione all'interno
del provvedimento, di per sé, non rappresenti automaticamente una omissione di pronuncia (C.
15172/2009; C. 16788/2006; C. 264/2006; C. 4079/2005). In tal caso, infatti, ben potrebbe intendersi tale
mancanza come un rigetto implicito. A questo proposito, secondo una giurisprudenza ormai consolidata, si
ha rigetto implicito quando nel provvedimento viene accolta una tesi decisoria incompatibile con la
domanda (o con l'eccezione) non oggetto di espressa pronuncia ( C. 2197/2015; C. 841/2014; C.
10696/2007; C. 13649/2005; C. 19131/2004; C. 9545/2001; C. 3435/2001; C. 702/2000; C. 2871/1997; C.
2320/1995; C. 2581/1986; C. 4388/1981) deve trattarsi, comunque, di domande (quella non decisa e quella
decisa espressamente) che siano tra loro o pregiudiziali e dipendenti o radicalmente incompatibili. Non può
ritenersi implicitamente respinta, quindi, la domanda solo occasionalmente connessa con quella oggetto di
espressa pronuncia di rigetto (C. 15373/2000). In ogni caso, l'omissione di pronuncia può configurarsi solo
con riferimento ad autonomi capi di decisione, vale a dire domande o istanze concretamente formulate in
conclusioni specifiche (C. 7653/2012). In senso contrario, ovviamente, vi è omissione di pronuncia ove la
sentenza sia corredata da una motivazione solo apparente, ossia caratterizzata da motivazioni del tutto
apodittiche e disancorate dalla fattispecie concreta (C. 22928/2014).
Può ipotizzarsi anche un accoglimento implicito quando il giudice si pronunci favorevolmente su una
domanda che presuppone, logicamente e giuridicamente, l'accoglimento della domanda non oggetto di una
espressa pronuncia (C. 7086/2005).
Qualora, invece, la decisione sia fondata sulla cosiddetta "ragione più liquida", allora si verifica una
situazione di "assorbimento improprio" delle altre domande e questioni, su cui, quindi, non può ritenersi
emessa alcuna pronuncia, neppure implicita (C. 5724/2015).
Secondo una recente giurisprudenza, poi, va escluso il vizio di omessa decisione allorché il dispositivo
lacunoso possa essere integrato facendo ricorso alla parte motiva della sentenza. La mancanza del
dispositivo o di una pronuncia (per quanto lacunosa) relativa ad una delle domande o delle questioni
oggetto di causa, costituisce omissione di pronuncia, quand'anche nella parte motiva tale domanda o tale
questione sia stata affrontata e, eventualmente, anche risolta (C. 16152/2010).
Allo stesso modo non si ha omissione di pronuncia quando il giudice non decida su questioni sollevate
tardivamente e, quindi, precluse (C. 24445/2010; C. 6094/2006; C. 16582/2005; C. 22970/2004; C.
3234/1987; C. 3921/1984) oppure quando il giudice decida su alcune questioni, riservandosi di pronunciare
sulle altre nel prosieguo del giudizio ai sensi dell'art. 279 (C. 5084/1982) oppure quando, pur essendovi una
decisione, manchi la motivazione della stessa (C. 22555/2010; C. 10813/1999), configurandosi, in tal caso, il
mero difetto di motivazione, oppure ancora quando pur essendovi la decisione nella parte motivazionale,
manchi il relativo dispositivo, prevalendo, in tal caso, la motivazione (C. 4741/2005).
Può discutersi, invece, se configuri omissione di pronuncia il mancato esame delle istanze istruttorie.
L'opinione prevalente (avallata anche dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione) è nel senso di ritenere
che il vizio di omissione della pronuncia possa riguardare solo le domande inerenti al merito (C.
22860/2004) e che, quindi, il mancato esame di questioni processuali e, conseguentemente, delle istanze
istruttorie, al più, possa rilevare, non come vizio in sé, ma, se riferito ad un punto decisivo della
controversia, quale argomento per sostenere l'omissione, l'insufficienza o la contraddittorietà della
motivazione (ai sensi dell'art. 360, n. 5, nella versione antecedente alla riforma del 2006: (C., S.U.,
15982/2001; C. 15196/2013; C. 3357/2009; C. 2859/1995). D'altro canto, però, si è ritenuto (ma con
motivazione non del tutto convincente) che costituisca una vera e propria omissione di pronuncia il
mancato esame di istanze istruttorie relative a circostanze che, con un giudizio di certezza (e non di mera
probabilità), avrebbero potuto indurre il giudice di merito a pronunziare una decisione diversa da quella
effettivamente adottata (C. 3494/1996).
L'omissione di pronuncia, qualora riguardi gradi diversi dal primo, consisterà nel mancato esame dei motivi
di impugnazione (C. 21034/2007).
Analogamente si è ritenuto non configurare omissione di pronuncia l'omessa adozione di un
provvedimento di carattere ordinatorio, quale, nel caso di specie, l'ordinanza di sospensione ai sensi
dell'art. 295 (C. 5246/2006). La stessa conclusione è stata raggiunta, sulla base del (discutibile) assunto
secondo cui l'art. 112 non opererebbe nel caso di eccezioni di mero rito, nel caso di mancato esame
dell'eccezione di inammissibilità dell'appello da parte del giudice di secondo grado (C. 1701/2009).
Rappresenta, invece, vera e propria omissione di pronuncia la mancata decisione in merito alla domanda di
condanna del soccombente al pagamento delle spese processuali (C. 15745/2009; C. 13513/2005; C.
2869/1995), tanto più che tale condanna può essere disposta anche d'ufficio dal giudice (C. 2719/2015).
Non lo è, invece, in caso di riforma di una sentenza, la mancanza di condanna del soccombente
(vincitore nel grado precedente) a restituire gli importi ricevuti in esecuzione della sentenza poi riformata,
dato che tale obbligo restitutorio sorge automaticamente, quale effetto consequenziale della riforma stessa
(C. 15295/2006; cfr. diversamente però C. 12186/2015 ).
Proprio recentemente, inoltre, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno stabilito che l'omissione di
pronuncia sull'istanza di distrazione delle spese non configura omissione di pronuncia e, come tale, può
essere ovviata ricorrendo al procedimento di correzione di errore materiale (C., S.U., 16037/2010).
L'orientamento precedente, invece, era nel senso di configurare una vera e propria omissione, come tale
ricorribile in cassazione solo ai sensi dell'art. 360, n. 4 (C. 11965/2010 e C. 16153/2010, quest'ultima
successiva di un giorno anteriore alla predetta sentenza delle Sezioni Unite, ma quasi certamente
pronunciata prima di conoscere il nuovo orientamento; C. 13982/2009).
L'omissione di pronuncia, come appena definita, determina la nullità della sentenza (C. 375/2005; C.
7519/2003; C. 590/1998) in base al principio consacrato nell'art. 161, 1° co., la parte interessata potrà far
valere tale vizio quale motivo di impugnazione, anche avanti alla Corte di Cassazione (ai sensi dell'art. 360,
n. 4 e non in virtù del n. 5; cfr. C. 15172/2009; C. 21034/2007; C. 4201/2006; come tale soggetto alla
formulazione dei quesiti ex art. 366-bis, ove applicabile ratione temporis; C. 4146/2001; in senso meno
formalistico, cfr. recentemente C. 25215/2014, purché il motivo contenga l'univoco riferimento alla nullità
della decisione derivante dall'omissione ), la quale giudicherà nel merito, trattandosi di un error in
procedendo e, come tale, avente ad oggetto un fatto processuale (C. 15172/2009; C. 1755/2006; C.
9159/2001; C. 8641/2000; C. 424/1998; C. 8468/1996; C. 1988/1993) oppure, ma solo nel caso in cui il vizio
colpisca la sentenza di primo grado, potrà riproporre ex novo in un autonomo giudizio la domanda in
relazione alla quale si è verificata l'omissione, purché la nullità di quella sentenza non sia stata
(validamente) dedotta quale motivo di impugnazione (C. 10029/1998; C. 10768/1996; C. 3521/1981). Non è
necessaria, tuttavia, l'adozione di formule sacramentali o il richiamo espresso al n. 4 dell'art. 360 purché il
motivo sia inequivocabilmente riferito alla nullità della decisione per omissione di pronuncia (C.
10056/2014). In base al principio di autosufficienza del ricorso, inoltre, è necessario che le domande o le
eccezioni di cui sia stata omessa la pronuncia vengano riportate puntualmente, con indicazione specifica
dell'atto difensivo o del verbale di udienza in cui sono state proposte (C. 9597/2014).
È importante sottolineare la differenza tra omissione di pronuncia e omessa motivazione (rilevante ai sensi
dell'art. 360, n. 5). In quest'ultimo caso, infatti, l'omissione riguarda una mera circostanza di fatto che, se
considerata, avrebbe modificato la decisione assunta con riferimento ad una domanda. Nel primo caso,
invece, l'omissione riguarda la domanda stessa, relativamente a cui, quindi, nella sentenza non si rinviene
alcuna statuizione, né favorevole né sfavorevole (C. 22825/2010; C. 15882/2007; C. 16788/2006; C.
5444/2006).
L'omissione della pronuncia, in ogni caso, non può mai valere come rigetto della domanda non decisa,
ferma restando, ovviamente, la possibilità di ipotizzare un rigetto implicito nei modi e nei limiti segnalati in
precedenza (Andrioli, 237).
Il vizio di omessa pronuncia non è rilevabile d'ufficio (C. 1977/1994), né, conseguentemente, può
essere dedotto per la prima volta avanti alla Corte di Cassazione, se relativo alla sentenza di primo grado (C.
4612/1999).
4. La domanda come fondamento del dovere decisorio del giudice
Come si è detto in precedenza, il dovere decisorio del giudice trae la propria origine ed il proprio
fondamento dalla "domanda" proposta dalle parti (principalmente dall'attore, ma, eventualmente, anche
dal convenuto, in via riconvenzionale, e dal terzo). Ciò è conforme non solo ad altre disposizioni dello stesso
codice di rito (l'art. 99) e del codice civile (l'art. 2907 c.c.), ma anche alla tradizione processual civilistica
italiana ed europea (almeno per quanto riguarda i sistemi di civil law), secondo cui il processo civile è
regolato dal c.d. principio della domanda, in virtù del quale la scelta se ricorrere o meno all'autorità
giudiziaria per la tutela di un diritto è rimessa alla discrezionale volontà del titolare del diritto medesimo (o,
meglio, di colui che in giudizio se ne afferma titolare). Al massimo, in casi particolarmente delicati, il
legislatore ha esteso la legittimazione ad agire in giudizio anche ad altri soggetti che non siano i veri titolari
del diritto controverso (cfr., ad esempio quanto disposto in tema di poteri del pubblico ministero e di
sostituzione processuale dagli artt. 70, 81 ai cui rispettivi commenti, ovviamente, si rinvia per una
approfondita analisi). In nessun caso, tuttavia, è permesso al giudice proporre una domanda e,
conseguentemente, decidere sulla medesima ex officio, in assenza, quindi, di una rituale iniziativa della
parte legittimata (si riveda, nel suo pregnante significato, il risalente brocardo nemo judex sine actore).
Anche l'unica eccezione presente nell'ordinamento (sancita dall'art. 6, R.D. 16.3.1942, n. 267, che
prevedeva la possibilità per il giudice di dichiarare d'ufficio il fallimento), cui si riferiva l'inciso finale dell'art.
2907, 1° co., c.c., è stata recentemente abrogata (anche se con efficacia a decorrere dal 16 luglio 2006)
dall'art. 4, D.Lgs. 9.1.2006, n. 5, contenente la generale riforma della disciplina delle procedure concorsuali.
Quanto appena detto è tanto chiaro in astratto quanto complesso e articolato in concreto. Non è semplice,
infatti, capire ed individuare quale sia (o siano) la domanda (o le domande) su cui deve decidere il giudice.
Senza alcun dubbio, tuttavia, è ragionevole ritenere che ai fini del dovere di cui alla norma qui commentata
debba farsi riferimento alla versione definitiva delle domande formulate dalle parti, in considerazione,
quindi, dei mutamenti, delle precisazioni e degli allargamenti del thema decidendum operati nel rispetto
delle preclusioni previste dalle norme processuali.
A questo proposito merita di essere segnalato come, dopo notevoli incertezze, a seguito della riforma
del 1990, la Corte di Cassazione abbia ritenuto che le preclusioni previste dal codice di rito siano poste a
tutela di esigenze di ordine pubblico processuale e che, quindi, la violazione delle stesse sia rilevabile ex
officio dal giudice (C. 23127/2004; C. 4376/2000). Sul punto, tuttavia, si tornerà in seguito. Fin da ora,
invece, deve segnalarsi la netta discrasia tra tale indirizzo e quanto stabilito dal legislatore del 2003 con
riferimento al c.d. rito societario. L'art. 13, 4° co., D.Lgs. 17.1.2003, n. 5, infatti, prevede che le decadenze e,
in generale, il mancato rispetto delle preclusioni sia rilevabile solo su eccezione di parte. Sul punto, come
detto, si tornerà più ampiamente nel prosieguo del presente commento.
5. L'interpretazione della domanda
Spetta al giudice, naturalmente, interpretare la domanda proposta (o le domande proposte),
individuando, mediante l'analisi delle allegazioni e delle affermazioni della parte (ma anche alla luce delle
ulteriori circostanze segnalate nel precedente paragrafo), gli elementi costituitivi della domanda, e cioè,
secondo una tripartizione ormai tradizionale nella dottrina processualcivilistica, le personae, il petitum e la
causa petendi (Andrioli, 235; Verde, Domanda, par. 6). La valutazione da parte del giudice circa l'effettivo
contenuto della domanda, è dunque discrezionale e libera, soprattutto con riferimento agli elementi
oggettivi.
In tale interpretazione, infatti, il giudice non è necessariamente vincolato alle espressioni letterali
utilizzate, ma deve indagare e considerare il contenuto sostanziale della domanda ( C. 23669/2014; C.
27940/2013; C. 18783/2009; C. 19331/2007; C. 15802/2005; C. 18068/2004; C. 11667/2003; C. 2922/1997),
come ricavabile, ad esempio, dalle argomentazioni (in fatto e in diritto) contenute nell'atto introduttivo o
negli atti defensionali successivi, dai mezzi istruttori offerti, dalle precisazioni compiute nel corso del
giudizio (C., S.U., 27/2000; C. 16783/2006; C. 8879/2000; C. 2574/1999; C. 383/1999; C. 424/1998; C.
7941/1994; dallo stesso scopo cui mira la parte (C. 17760/2006; C. 8107/2006) e, persino, dal
comportamento processuale (C. 969/1996).
Si veda in dottrina, Comoglio, Allegazione, in Digesto civ., I, Torino, 1987, 277.
Il giudice, inoltre, in considerazione del tradizionale principio iura novit curia (sancito dall'art. 113),
anche in appello (C. 4008/2006) e in cassazione (C. 9143/2007; C. 6671/2006; ma, sul punto, si veda il
nuovo art. 366 bis, che impone, a pena di inammissibilità l'espressa formulazione di un quesito di diritto)
non è vincolato né alla qualificazione giuridica dei fatti allegati data dalle parti (C. 9590/2013; C. 6757/2011;
C. 5442/2006; C. 9570/2005; C. 17610/2004; C. 7931/2000; C. 2730/1999), né alle argomentazioni
giuridiche (C. 6891/2005), né alla normativa addotta dalle parti medesime a sostegno delle proprie
domande (T. Reggio Emilia 22.1.2009), sempre che, ovviamente, l'intenzione delle parti non sia univoca nel
sottoporre alla valutazione del giudice solo ed esclusivamente le questioni specificamente dedotte (C.
14142/2000; A. Roma 5.1.2009). Ovviamente il potere di interpretazione della domanda non può essere
così ampio da superare il principio della domanda, in base al quale è riservato alle sole parti la scelta circa
l'esercizio della domanda medesima (C. 9143/2007). A questo proposito, la Cassazione ha rilevato come il
potere di interpretazione della domanda trovi un proprio limite negli effetti giuridici richiesti dalle parti (C.
15383/2010; C. 21484/2007).
Riguardo alla qualificazione giuridica dei fatti allegati data dalle parti vedi in dottrina, Mandrioli, 104,
Verde, Domanda, par. 7.
In quest'ottica, si è ammessa la possibilità per il giudice di qualificare, alla luce delle allegazioni e delle
prospettazione delle parti, come revocatoria ordinaria l'azione proposta apparentemente come revocatoria
fallimentare (C. 11017/2005); diversamente, però, nel caso in cui in corso di causa si prospetti una
differente collocazione temporale (dopo il sorgere del debito) dell'atto dispositivo (C. 13446/2013). Si
ritiene, invece, che il giudice non possa sindacare e, quindi, variare l'ordine delle domande e delle questioni
oggetto di decisione (C. 10748/1992; C. 2748/1989), a meno che, in presenza di questioni fra di loro
interdipendenti per effetto di un nesso di pregiudizialità logico-giuridica, esigenze prevalenti di economia
decisoria impongano al giudice un diverso ordine di cognizione e di pronuncia. In proposito, in senso
parzialmente difforme, si veda C. St., Sez. V, 14.12.2006, n. 7442, secondo cui l'art. 112 imporrebbe al
giudice un vero e proprio onere di privilegiare e, quindi, affrontare preliminarmente le questioni più
importanti e, quindi, decisive per definizione della controversia.
Si tratta, perlopiù, del fenomeno che tradizionalmente si definisce come assorbimento e che trova
riscontro, pure, nelle impugnazioni incidentali c.d. condizionate: sul tema, diffusamente, Comoglio, Il
principio di economia processuale, I, Padova, 1980-1982, 215; Id., Il principio di economia processuale, II,
Padova, 1980-1982, 66.
L'interpretazione, tuttavia, non può spingersi tanto sino a configurare una domanda radicalmente
difforme, nel petitum o nella causa petendi, da quanto espressamente allegato e dedotto dalle parti ( C.
8519/2006; C. 15802/2005; C. 10922/2005; C. 6891/2005; C. 5954/2005; C. 22987/2004; C. 919/1999; C.
258/1999; C. 3670/1996; C. 532/1990); analogamente deve ritenersi nel caso in cui la parte abbia
espressamente e incondizionatamente limitato, nelle conclusioni del ricorso, la propria richiesta,
indipendentemente dal fatto che le allegazioni contenute nell'atto siano più ampie (C. 20727/2013). È stata
ritenuta mera interpretazione della domanda (e, come tale, ammissibile) la condanna al risarcimento del
danno basata sulla qualificazione di infortunio sul lavoro, anziché quella di malattia professionale
prospettata dalla parte (C. 18711/2006).
A questo proposito, inoltre, va detto come il giudice non possa modificare i fatti principali allegati
dalle parti (Comoglio, Allegazione, 277; Mandrioli, 109), potendo, al più prendere in considerazione fatti
secondari che, pur se non allegati, risultano provati nel corso del giudizio (Grasso, 1304).
Qualche problema, semmai, si può porre con riferimento ai c.d. diritti autodeterminati, diritti, cioè,
che possono sorgere una sola volta e che, quindi, sono individuati (o, meglio, individuabili) in base alla sola
indicazione del loro contenuto. In tal caso si discute se il giudice possa decidere sulla base di fatti costitutivi
differenti rispetto a quelli indicati nelle domande delle parti; in senso favorevole a questa possibilità si
vedano C. 23851/2010; C. 24702/2006; C. 15248/2005; C. 4460/1997; A. Genova 19.10.2006. Di contrario
avviso, invece, nel senso di non ammettere la possibilità di decidere sulla base di fatti costitutivi non
dedotti, è la giurisprudenza prevalente soprattutto con riferimento a domande volte a far accertare la
risoluzione o l'invalidità di un atto negoziale, quale, ad esempio, un contratto o domande aventi ad oggetto
uno specifico diritto reale ( C. 7502/2014; C. 20548/2004; C. 18210/2004; C. 4817/1999; C. 1811/1999; C.
4269/1996) o una deliberazione (C. 13732/2005). Ad esempio, si ritiene che il giudice non possa
riqualificare in domanda di annullamento per violenza morale la domanda di annullamento per dolo (C.
11371/2014). Rimane fermo, ovviamente, quanto si dirà in seguito circa la possibilità per il giudice di
decidere sulle c.d. domande implicite.
È discusso, invece, se, in tale analisi, debba essere ricercata la reale intenzione delle parti con conseguente
applicabilità dei criteri di cui all'art. 1362 c.c. (in questo senso C. 17947/2006; C. 15299/2005; C. 5814/1995;
C. 4205/1987; C. 1922/1984) oppure se, invece, la domanda non sia assimilabile ad una mera dichiarazione
di volontà e, quindi, debba essere interpretata con esclusivo riferimento a quanto dedotto in giudizio,
indipendentemente da una diversa prospettazione (e, quindi, dalla effettiva volontà) delle parti ( C.
25853/2014; C. 9875/1997; C. 5829/1995; C. 2369/1986).
Altrettanto incerto è l'inquadramento dell'attività interpretativa della domanda compiuta dal giudice. Può
discutersi, infatti, se la stessa rappresenti una valutazione di mero fatto e, come tale, sottratta al controllo
della Corte di Cassazione (in questo senso si vedano C. 22893/2008; C. 14751/2007; C. 11667/2003; C.
3094/2001; C. 10948/1999; C. 3678/1999; C. 5829/1995; C. 2369/1986) oppure se, invece, comporti una
valutazione di carattere giuridico, la cui erroneità, quindi, rappresenti un vero e proprio error in
procedendo, con la conseguente violazione dell'art. 112 (C. 15653/2012; C. 14952/2004; C. 1097/2003; C.
7049/2001; C. 8641/2000; C. 2574/1999; C. 1108/1999; C. 10337/1998; C. 1988/1993). Senza alcun dubbio,
invece, deve ritenersi che l'interpretazione della domanda non possa essere modificata dal giudice in sede
di impugnazione in mancanza di gravame sul punto (C. 20730/2008; C. 14573/2005; C. 8082/2005; C.
6754/2003; C. 9621/2001).
Anche nel caso di mancata riproposizione di una domanda (ad es. in sede di precisazione delle conclusioni),
il giudice è comunque tenuto ad interpretare la domanda, valutando se tale omissione sia stata realmente
voluta o se, al contrario, la parte abbia inteso ugualmente insistere in tale domanda (C. 14964/2006; C.
4794/2006). Generalmente l'omissione o la difformità, se dipese da mero errore materiale, non rilevano,
salvo che tale errore abbia determinato, in concreto, una violazione del principio del contraddittorio (C.
16999/2007).
I problemi maggiori in tema di interpretazione della domanda, ovviamente, si hanno in relazione alla
possibilità per il giudice di considerare e, quindi, decidere su domande non espressamente proposte dalle
parti, ma in un certo senso contenute nelle o, quantomeno, presupposte dalle domande proposte. Si parla,
in proposito, di domande implicite.
In effetti, la giurisprudenza, giustamente, tende ad ammettere la possibilità che il giudice possa
pronunciarsi su tali domande ( C. 10009/2013; C. 8879/2000; C. 3143/1993; C. 6727/1991). Meno chiaro,
tuttavia, è capire cosa si intenda per domanda implicita. Se, in negativo, è semplice rilevare come non
rientrino in tale nozione le domande che allargano l'ambito soggettivo della controversia o che, comunque,
riguardino un diritto incompatibile con un altro già dedotto in causa, molto più difficile, invece, è fornire
una definizione positiva. Alla luce della giurisprudenza in materia, tuttavia, sono da reputarsi
implicitamente contenute in quelle proposte le domande caratterizzate dalla medesima causa petendi, ma
con un petitum inferiore ( C. 9021/2005; C. 24021/2004; C. 2262/1998; C. 11157/1996), le domande di
condanna al pagamento delle somme dovute nella domanda di rendimento del conto (C. 2148/2014), le
domande riguardanti questioni pregiudiziali rispetto a quelle sulle quali si fonda la decisione della domanda
proposta espressamente (C. 8258/1997), le domande poste in un rapporto di connessione necessaria con il
petitum e la causa petendi di quest'ultima (C. 15345/2000; C. 3613/1999; C. 4461/1997), le domande
risarcitorie connesse alla sopravvenuta inefficacia di un precedente provvedimento (C. 3401/2013, con
riferimento al caso della domanda di ripetizione di quanto pagato in esecuzione di un decreto
provvisoriamente esecutivo poi divenuto inefficace a seguito di fallimento dell'ingiunto) e quelle che, in un
certo senso, ne siano il naturale svolgimento pratico (C. 2848/1998; C. 2926/1997). Analoga soluzione
sembra valere (anche senza un espresso riferimento alle domande implicite) con riferimento all'eventuale
conguaglio dovuto in caso di domanda di divisione ereditaria; e ciò in quanto il riconoscimento conguaglio
di cui all'art 728 c.c. prescinde da domanda di parte, concernendo unicamente la fase attuativa della
divisione (C. 15288/2014).
Viceversa, dovranno considerarsi autonome e, quindi, non comprese, neppure implicitamente, nelle
domande proposte, le domande che mutino l'ambito soggettivo o che siano incompatibili con quella
proposta o, comunque, alterino in maniera sostanziale il relativo oggetto (C. 11525/1999; C. 5516/1998).
A titolo esemplificativo, sono ritenute domande implicite (e, quindi, ricomprese nel dovere decisorio del
giudice): in materia risarcitoria, la domanda di risarcimento del lucro cessante, nell'ambito di una domanda
di risarcimento del danno (C. 10263/2000), la richiesta di liquidazione equitativa del danno quando la
domanda aveva ad oggetto il risarcimento del danno da determinarsi in corso di causa (C. 1589/2015), la
domanda di condanna al risarcimento ex art. 2051 c.c. in quella più generale, basata sull'art. 2043 c.c. (C.
12694/1999; T. Pescara 26.5.2011; T. Reggio Emilia 22.1.2009; contra, però, si veda la recente C.
20328/2006; del resto, in senso contrario, circa la diversità della domanda ex art. 2050 c.c. rispetto a quella
proposta ex art. 2043 c.c. si vedano C. 26516/2009; C. 8095/2006; C. 3751/2005), la domanda di
risarcimento dei danni non patrimoniali nella domanda di risarcimento per fatto illecito (C. 4184/2006), la
domanda di risarcimento in forma specifica ex art. 1669 c.c. in quella proposta ex art. 1669 c.c. (C.
7080/1995, ma non viceversa), la domanda di risarcimento per equivalente qualora il bene oggetto di
azione revocatoria non possa più essere oggetto di esecuzione (C. 24051/2006; cfr. anche C. 259/2013), la
domanda avente ad oggetto la liquidazione della rivalutazione monetaria (C. 4925/2006; C. 4010/2006; C.
1041/2006; cfr., però, con riferimento ad obbligazioni di valuta la soluzione opposta accolta da C.
25662/2006), la domanda di ripristino dei luoghi nell'ambito di una domanda risarcitoria in tema di danno
ambientale (C. 22382/2012, la quale, tuttavia, arriva a tale conclusione con specifico riferimento alla
materia ambienta, viste le previsioni contenute nella L. n. 166 del 1999, secondo cui la richiesta di tutela
reale sarebbe sempre insita nella domanda risarcitoria), ma non la domanda restitutoria a seguito di
risoluzione del contratto ex art. 1458 c.c., posto che spetta alla parte disporre degli effetti della risoluzione
(C. 2075/2013), in materia di locazioni, la domanda di pagamento dei canoni di locazione, ai sensi dell'art.
1591 c.c., per il periodo di occupazione abusiva in quella proposta dal locatore per inadempimento
contrattuale (C. 9987/1994), la richiesta di rilascio dell'immobile per occupazione sine titulo nella domanda
di rilascio per morosità (C. 7977/1994), la domanda di rilascio dell'immobile in quella di risoluzione del
contratto di affitto per inadempimento (C. 4439/1985), la domanda di accertamento della scadenza di un
contratto di locazione in una determinata data nella medesima domanda formulata, tuttavia, con
riferimento ad una data diversa (C. 1172/1999), in materia di interessi, la domanda di pagamento degli
interessi nell'ambito di un'azione di condanna alla rifusione dei danni derivanti da fatto illecito (C.
1931/2000; C. 977/1999; C. 11310/1998), la domanda di pagamento degli interessi legali in quella di
pagamento di interessi al tasso bancario (C. 6495/1986), in materia di rapporti di lavoro e previdenziali, il
riconoscimento di una categoria inferiore rispetto a quella richiesta dal lavoratore nel ricorso proposto ai
sensi dell'art. 2103 c.c. (C. 17561/2004; C. 12121/1998), la domanda di riassunzione rispetto a quella di
reintegrazione ai sensi dello Statuto dei Lavoratori (C. 9460/1991), la domanda di corresponsione
dell'assegno ordinario di invalidità in quella di corresponsione della pensione di invalidità (C. 8845/2005), in
materia di diritti reali, la domanda di accertamento della comproprietà rispetto alla domanda di
accertamento della proprietà esclusiva (C. 2502/1986), la domanda di reintegrazione nel compossesso in
quella di reintegrazione nel possesso esclusivo (C. 13415/2014), la domanda di pagamento dell'indennità di
occupazione rispetto a quella di pagamento dell'indennità aggiuntiva di cui all'art. 1, L. 18.4.1962, n. 167 (C.
25662/2006) e la domanda di cessazione della turbativa del possesso rispetto a quella di reintegrazione (C.
23718/2011), in materia successoria, la domanda di annullamento di un testamento rispetto alla domanda
di radicale nullità del medesimo atto (C. 12479/2013; C. 8366/2012).
Si ritiene, inoltre, che la domanda dell'attore verso il convenuto si estenda (anche in mancanza di
un'espressa indicazione in tal senso da parte dello stesso attore) verso il terzo chiamato dal convenuto
come unico soggetto effettivamente e direttamente obbligato (C. 1522/2006). Ciò non avviene, però,
qualora il terzo venga chiamato un diverso rapporto giuridico rispetto a quello dedotto dall'attore nei
confronti del convenuto, come avviene, ad esempio, in caso di chiamata in garanzia, sia propria che
impropria (C. 12317/2011; C. 13374/2007; C. 13131/2006).
È stata ritenuta domanda implicita, rispetto a quella espressamente proposta, infine, anche l'istanza di
condanna del soccombente al pagamento delle spese processuali, sulla quale il giudice, nell'accogliere la
domanda principale, può pronunziare d'ufficio (C. 5174/1997; C. 5720/1994), e tale potere è conferito
anche al giudice dell'impugnazione, che accolga in tutto o in parte il proposto gravame, salvo restando il
salvo il caso di rigetto dell'impugnazione medesima (in cui la pronuncia del primo giudice sulle spese può
essere riformata solo se sia, a sua volta, oggetto di un apposito e specifico motivo di gravame C.
18073/2013; C. 12963/2007; C. 16123/2004; C. 58/2004; C. 15559/2003).
6. Ultrapetizione ed extrapetizione
Come detto all'inizio, il secondo precetto ricavabile dal principio di corrispondenza tra chiesto e
pronunciato consiste nel divieto, per il giudice, di pronunciarsi oltre i limiti della domanda proposta (come
interpretata nei termini riferiti nei precedenti paragrafi). Qualora tale divieto venga violato, si parla di
ultrapetizione, nel caso in cui il giudice integri o ampli gli effetti giuridici della domanda rispetto a quanto
richiesto dalle parti, oppure di extrapetizione, qualora il giudice sostituisca altri effetti rispetto a quelli
connessi alla domanda proposta. Sul punto si vedano, in generale, Grasso, 1254; Comoglio, Azione, 233, e
Mandrioli, 99.
Si tratta, in realtà, di una distinzione più che altro concettuale, priva di particolari conseguenze pratiche
(essendo medesima la sanzione in entrambi i casi) e, comunque, tutt'altro che agevole e chiara (Verde,
Domanda, par. 11).
Non è un caso, infatti, che la giurisprudenza spesso non distingua tra tali vizi, sostanzialmente
parificandoli (cfr., ad es., C. 9452/2014; C. 14468/2009; C. 6945/2007; C. 21745/2006; C. 8636/2000; C.
6827/1999; C. 258/1999).
Entrambi i predetti vizi, del resto, determinano la nullità della sentenza (Andrioli, 236; Verde,
Domanda, par. 11), convertendosi in motivi di impugnazione (ex art. 360, n. 4, nel caso di ricorso per
cassazione), la cui formulazione è lasciata all'iniziativa della parte interessata, sì da determinare, quindi, in
mancanza di impugnazione sul punto, il passaggio in giudicato (interno) della decisione.
In giurisprudenza, sul tema, si vedano, ad esempio, C. 21856/2004; C. 2479/1987.
Da ciò conseguono, ovviamente, la non rilevabilità d'ufficio di tale nullità da parte dal giudice
dell'impugnazione ( C. 15629/2005; C. 11559/2000; C. 822/2000; C. 5183/1988; C. 4451/1985) e la non
deducibilità di tali vizi avanti alla Corte di Cassazione qualora si riferiscano alla sentenza di primo grado e
non siano stati dedotti quali motivi di appello (C. 21/2000; C. 4612/1999; C. 9808/1997). Qualora, poi, in
sede di gravame, venga riconosciuta la sussistenza degli stessi, il giudice di appello dovrà trattenere la
causa e decidere nel merito, non potendosi fare luogo a rimessione ex art. 354 (C. 13892/2005; C.
19274/2004). Lo stesso potrà fare la Corte di Cassazione, ma, ovviamente, nei limiti di cui all'art. 384. Con
specifico riferimento al giudizio di Cassazione, una recente pronuncia ha ritenuto che i predetti vizi (nel
caso di specie trattatasi di pronuncia d'ufficio su domanda o eccezione rilevabile solo ad opera della parte
interessata) possano essere fatti valere esclusivamente ai sensi dell'art. 360, n. 4 (C. 1196/2007; cfr. anche
C. 17931/2013, la quale, tuttavia, rileva la non necessari età dell'espressa menzione del numero dell'art.
360, essendo sufficiente l'univo riferimento alla nullità della sentenza).
Nonostante la segnalata labilità della distinzione appena segnalata, costituiscono casi di ultrapetizione la
condanna al pagamento di una somma superiore a quella richiesta (C. 6096/2006; C. 1752/2005; C.
5363/2001; C. 7565/1991; C. 6351/1981; cfr., però, in senso parzialmente difforme e più permissivo la
recente C. 17977/2007), ma non la condanna ad un importo inferiore o, comunque, l'accoglimento parziale
della domanda (C. 23626/2006, anche in caso di opposizione a decreto ingiuntivo, C. 1954/2009) e, sempre
che la parte non abbia comunque fatto riferimento, anche in modo generico, alla somma maggiore o
minore che risulti in giudizio effettivamente dovuta (C. 4828/2006; C. 1324/2006; C. 4727/1984; C.
5549/1981), la condanna al pagamento di un importo a titolo di lucro cessante in assenza di apposita
richiesta, non essendo sufficiente, al riguardo, la mera richiesta di condanna al pagamento della
rivalutazione e degli interessi (C. 13959/2007), la condanna al risarcimento dei danni dipendenti dall'unico
fatto dedotto con il ricorso introduttivo e poi maturati nel corso del giudizio, non trattandosi di eventi
provocati da circostanze diverse e successive alla proposizione della domanda (C. 15769/2013), la
condanna in solido nei confronti di più soggetti convenuti per un pagamento pro quota (C. 4018/1996) e, a
maggior ragione, la condanna in via esclusiva di uno dei convenuti di cui si era chiesta la condanna in via
solidale (C. 804/2009), la condanna alle restituzioni conseguenti alla richiesta di risoluzione (C. 7234/1995;
C. 6677/1988), o di annullamento del contratto (C. 4143/2012), la condanna al pagamento dell'assegno di
divorzio in favore del coniuge che non l'abbia richiesto (C. 7203/1991), la condanna al pagamento
dell'indennità di avviamento di cui all'art. 34, L. 27.7.1978, n. 392 a fronte di una domanda di mero
accertamento (C. 12125/2005), la condanna al pagamento della rivalutazione rispetto alla domanda
principale nel caso di obbligazione di valuta (C. 25662/2006), la costituzione di una servitù di passaggio sulla
base di un tracciato diverso rispetto a quello prospettato in modo specifico nella domanda (C. 15821/2008;
non però le domande aventi ad oggetto determinate modalità di esecuzione della servitù all'interno
della più generale domanda di eliminazione della servitù C. 5413/2015 ) oppure facendo applicazione
dell'art. 1051 c.c. (C. 3092/2014), la condanna al ripristino dello stato dei luoghi basata sul riconoscimento
di un diritto di proprietà quando la domanda era fondata su un diritto di servitù di passaggio (C.
13568/2008), la pronuncia su una domanda subordinata pur dopo l'accoglimento della domanda principale,
anche qualora vi fosse un rapporto di compatibilità tra le stesse (C. 15629/2005; C. 5954/2005), la
condanna al pagamento del rimborso forfetario della tariffa professionale forense (C. 24081/2010), la
condanna al risarcimento del danno in una controversia avente ad oggetto la richiesta di pagamento del
conguaglio del prezzo concordato con la P.A. in sede di cessione volontaria di un terreno oggetto di
esproprio (C., S.U., 3040/2007), la dichiarazione di nullità del precetto per genericità del titolo qualora
l'opponente abbia eccepito unicamente l'inidoneità della sentenza a valere come titolo esecutivo (C.
11066/2012), la pronuncia, in sede di gravame, su punti non oggetto di specifiche censure impugnatorie (C.
8501/2003; C. 7629/2003; C. 3002/2001) e, quindi, la reformatio in peius ai danni della parte impugnante in
mancanza di una impugnazione incidentale da proporsi dalla parte impugnata (C. 9646/2003; C. 135/2003).
Altro caso di ultrapetizione si ha quando il giudice condanni al pagamento degli interessi quando la
domanda principale è volta ad ottenere il pagamento del capitale (C. 11310/1998; C. 2814/1995). Sempre
con riferimento agli interessi, tuttavia, come già si è rilevato, costituiscono domande implicite (e, quindi,
comprese nel thema decidendum anche in assenza di espressa domanda) la richiesta di riconoscimento
degli interessi legali (C. 1913/2000; C. 977/1999; C. 11310/1998) o della rivalutazione (C. 77/2003) in
relazione ad una domanda avente ad oggetto la rifusione dei danni da atto illecito e, in generale, il
pagamento di un debito di valore oppure la richiesta di pagamento degli interessi legali in quella di
pagamento degli interessi al tasso bancario (C. 6495/1986). In tema di responsabilità aquiliana, è stata
ritenuta implicita nella richiesta principale di pagamento del danno la richiesta di pagamento degli interessi
compensativi, con esclusione, quindi, delle altre tipologie di interessi, i quali, quindi, devono essere chiesti
in via autonoma (C. 1087/2007); è stata esclusa, invece, la possibilità per il giudice di riconoscere interessi
legali e rivalutazione in appello, qualora l'istanza non sia stata espressamente riproposta in tale grado di
giudizio (C. 16128/2009).
Analogamente rientra nelle ipotesi in oggetto anche la condanna alla rifusione delle spese a favore della
parte vincitrice qualora essa, nelle proprie conclusioni, ne avesse chiesto la compensazione (C.
24560/2013).
Costituiscono, invece, casi di extrapetizione l'accertamento della natura definitiva del preliminare
nell'ambito di un giudizio avente ad oggetto la domanda di esecuzione specifica dell'obbligo di contrarre ex
art. 2932 c.c. (C. 4016/1995), pronunzia di una condanna generica in assenza di espressa richiesta (C.
7847/1998; C. 1736/1988; ma non pronunzia solo sull'an debeatur all'interno di una domanda di
condanna generica C. 3366/2015 ), o, comunque, in presenza di richiesta di condanna di una somma
determinata (C. 11460/2007), la condanna al pagamento del saldo dei conti correnti nell'ambito di
un'azione di ripetizione di indebito connessa fondata sull'illegittima capitalizzazione trimestrale degli
interessi (C. 12196/2012), la dichiarazione di nullità del contratto nell'ambito della domanda volta ad
ottenerne la risoluzione per inadempimento (C. 2108/2000), la dichiarazione di nullità del contratto
nell'ambito della domanda volta a far dichiarare la nullità di singole clausole (ma non nel caso opposto; cfr.
C. 16017/2008), l'accertamento della nullità nell'ambito di un procedimento avente ad oggetto
l'accertamento dell'esistenza di un brevetto per disegno ornamentale, qualora la nullità sia stata solo
eccepita dal convenuto (cfr. C. 24179/2011, secondo cui la proposizione in via di eccezione darebbe luogo
ad un accertamento meramente incidentale), la domanda di risoluzione per effetto di una clausola
risolutiva espressa, ex art. 1456 c.c. rispetto a quella di risoluzione per inadempimento, ex art. 1453 c.c. (C.
167/2005; non costituisce extrapetizione, invece, la dichiarazione di risoluzione per impossibilità
sopravvenuta nell'ambito della domanda di risoluzione per inadempimento; cfr. C. 23490/2009),
l'accertamento della nullità del contratto a fronte della domanda di accertamento dell'avvenuto recesso ex
art. 1385 c.c. (C. 1340/1994), ma non (anche se la posizione è assai discutibile) l'annullamento del contratto
a fronte di una domanda di accertamento della nullità (C. 15981/2007), l'accertamento della nullità di un
contratto per cause diverse da quelle dedotte quando la domanda verta direttamente sulla validità di quel
medesimo contratto ( C. 89/2007; C. 4817/1999; C. 1811/1999; C. 4269/1996), l'accertamento della
nullità di una deliberazione condominiale per ragioni differenti rispetto a quelle dedotte (C. 13732/2005), la
pronunzia di nullità o di risoluzione del contratto, sulla base di ragioni differenti da quelle dedotte a
fondamento della domanda iniziale (C. 4064/1995), la condanna al ritrasferimento dei beni in caso di
interposizione reale in relazione ad una domanda volta esclusivamente ad accertare l'interposizione fittizia
e, quindi, la simulazione relativa del contratto traslativo (C. 4645/1987), l'azione di restituzione in relazione
ad un'azione di rivendica (A. Potenza 25.7.2008), la pronuncia che riconosca il mantenimento dei diritti del
lavoratore in caso di trasferimento d'azienda, ai sensi dell'art. 2112 c.c. in relazione ad una domanda
originariamente fondata su di un unico ed ininterrotto rapporto di lavoro subordinato (C. 7379/1996), la
pronuncia relativa alla contestazione della stima nell'ambito di una domanda proposta per ottenere il
risarcimento del danno da occupazione acquisitiva (C. 21994/2008), la dichiarazione di illegittimità del
licenziamento per motivi diversi da quelli dedotti a fondamento della domanda ( C. 23683/2004; C.
11455/1999; C. 1173/1996; C. 5833/1994), ma non la pronuncia di rigetto dell'impugnazione del
licenziamento basata su, riconoscimento di un giustificato motivo oggettivo invece della giusta causa
intimata in sede di licenziamento (C. 27104/2006), la condanna ex art. 2049 c.c. rispetto all'azione di
restituzione di titoli mobiliari (C. 5544/2012), l'accertamento della qualità di erede nell'ambito di un'azione
volta ad ottenere l'accertamento della qualità di legatario (C. 4581/1993), la condanna a titolo di
inadempimento contrattuale a fronte di domanda fondata su un ingiustificato arricchimento ( C.
4365/2003; C. 8184/1994; C. 1738/1983), il riconoscimento di una qualifica superiore rispetto a quella
richiesta (C. 4759/1987), la condanna per responsabilità aggravata ai sensi dell'art. 96, 2° co., a fronte di
una domanda basata solo sul 1° co. di tale norma (C. 7051/1997).
In tema, tuttavia, occorre segnalare C., S.U., 26242/2014, la quale, modificando i precedenti e
consolidati orientamenti di legittimità, ha ritenuto ammissibile (e, quindi, tale da non costituire vizio di
extrapetizione o ultrapetizione) la rilevazione della nullità del contratto per cause diverse rispetto a quelle
inizialmente dedotte (anche nel caso di nullità di protezione), la rilevazione d'ufficio di tale nullità in grado
d'appello e, in generale, la rilevazione d'ufficio della nullità contrattuale nell'ambito delle domande di
impugnativa contrattuale (risoluzione, rescissione e annullamento). Secondo questo nuovo orientamento,
l'unica attività preclusa al giudice in tema di nullità è rappresentata dall'impossibilità di rilevare d'ufficio
l'eventuale conversione del contratto, stante la contraria previsione dell'art. 1424 c.c.
Non incorre nella violazione del principio di corrispondenza fra chiesto e pronunciato il giudice d'appello
che, a seguito di impugnazione della sentenza di primo grado in ordine al quantum debeatur, escluda
l'esistenza di qualsiasi danno. Posto, infatti, che la pronuncia sull'an debeatur riguarda solo l'astratta
potenzialità lesiva della condotta, se la sentenza di primo grado viene specificamente impugnata in ordine
alla liquidazione del danno, contestandosi che di esso sia stata fornita la prova, il giudice di appello può
riesaminare nella sua interezza la statuizione concernente il quantum debeatur (C. 15595/2014).
Per un particolare caso di extrapetizione si veda C. 13918/2007, secondo cui sussisterebbe tale vizio nel
caso in cui il Giudice di appello accertasse l'extrapetizione del Giudice di primo grado in assenza di specifica
censura da parte dell'appellante (qualora quest'ultimo, nell'atto di impugnazione, abbia lamentato
unicamente l'infondatezza, totale o parziale, nel merito della domanda proposta in primo grado).
7. Il potere decisorio del giudice e le eccezioni
La terza manifestazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato (questa volta
espressamente delineata dalla norma qui commentata) consiste nel divieto per il giudice di pronunciarsi,
senza esserne richiesto, su eccezioni rilevabili solo per iniziativa di parte. Si tratta, per convenzione
terminologica, delle eccezioni in senso proprio, le quali si differenziano per tale specifico profilo da quelle
denominate come eccezioni in senso lato, rilevabili anche d'ufficio dal giudice. È bene precisare come, nei
limiti predetti, tale divieto si applichi ad ogni eccezione, da qualunque parte sia proposta e, quindi, anche a
quelle proponibili dall'attore nelle forme e nei limiti di cui all'art. 183.
Così come detto in relazione alle domande, spetta al giudice interpretare l'eccezione proposta,
valutando, eventualmente, la presenza di eccezioni implicite. Se è vero, infatti, che l'eccezione non postula
un ampliamento o, comunque, un mutamento della pretesa, è altrettanto vero che tale attività difensiva
allarga comunque il thema decidendum, attraverso l'allegazione e l'introduzione in giudizio di ulteriori fatti
(modificativi, impeditivi e estintivi), ontologicamente diversi da quelli costitutivi allegati dall'attore; sulla
nozione di eccezione si vedano, in particolare: Comoglio, Difesa, eccezione, riconvenzione, in Comoglio,
Ferri, Taruffo (a cura di), Lezioni sul processo civile, I, 4ª ed., Bologna, 2007, 266; Fabbrini, Eccezione, in EG,
XII, Roma, 1989, 1; Oriani, Eccezione, in Digesto civ., XIII, Torino, 1995, 262; Mandrioli, 143; Pugliatti,
Eccezione (teoria generale), in ED, XIV, Milano, 1965, 151. Appare corretto, quindi, applicare anche alle
eccezioni i principi sopra illustrati in relazione all'interpretazione della domanda.
Le più frequenti applicazioni si hanno, ovviamente, in relazione all'eccezione di prescrizione, la più
tipica delle eccezioni rilevabili unicamente per iniziativa di parte. A questo riguardo, la giurisprudenza ha
ritenuto che il giudice possa dichiarare d'ufficio una prescrizione breve, anche se sia stata eccepita la
prescrizione decennale, purché, tuttavia, non vi sia una differente disciplina relativamente ai fatti
interruttivi e sospensivi invocati (C. 9768/2005; C. 13898/1999; C. 11923/1998); non saranno assimilabili,
quindi, le prescrizioni ordinarie (decennali o quinquennali che siano) alle prescrizioni presuntive (C.
3443/2005). Non è possibile, invece, il caso opposto (riconoscimento d'ufficio di una prescrizione più lunga
di quella eccepita e dedotta), visto che, in tale situazione, il giudice accerterebbe una circostanza di fatto
(cioè, il decorso di 10 anni senza l'esercizio del corrispondente diritto, e quindi la sua sopravvenuta
estinzione, ex art. 2946 c.c.) non allegata in giudizio, essendo stata eccepita solo una prescrizione breve, ai
sensi degli artt. 2947 ss. c.c. (C. 12146/1998); proprio recentemente, però, la Corte di Cassazione ha sancito
il principio opposto, a condizione che, ovviamente, i fatti su cui si basa l'eccezione siano stati regolarmente
allegati e provati (cfr. C. 21752/2010). Neppure, infine, il giudice può riconoscere ed accertare d'ufficio una
differente prescrizione qualora la parte abbia eccepito, in modo specifico ed univoco, una determinata
prescrizione (C. 2412/1995; C. 1570/1986). Recentemente, tuttavia, la Suprema Corte, forse modificando il
precedente orientamento, ha ritenuto sufficiente l'allegazione del fatto costitutivo dell'eccezione (vale a
dire l'inerzia del titolare del diritto), indipendentemente dal termine applicabile e dal momento iniziale e
finale di decorrenza del termine medesimo, trattandosi di questioni di diritto, come tali svincolate dalle
allegazioni di parte (C. 11843/2007).
La norma qui commentata, inoltre, presuppone la ormai classica distinzione (valevole sia per le eccezioni di
rito che per quelle di merito) tra eccezioni in senso lato (rilevabili anche ex officio da parte del giudice) ed
eccezioni in senso stretto (rilevabili unicamente ad opera di parte), visto che solo a queste ultime si applica
il divieto sancito dall'art. 112 c.c.
Non è facile, tuttavia, qualificare una determinata eccezione nell'ambito della predetta bipartizione,
soprattutto in considerazione del fatto che, spesso, il legislatore non precisa il regime di rilevabilità
dell'eccezione. Apparentemente l'art. 112 non sembrerebbe fornire alcuna indicazione al riguardo (Oriani,
Eccezione, in Digesto civ., 270). In realtà, si ritiene che tale norma introduca una specie di rapporto di
regola-eccezione tra le predette categorie di eccezioni (Grasso, 1273; Comoglio, Difesa, 270). Dovrebbero
essere considerate eccezioni in senso stretto soltanto quelle espressamente definite come tali dalla legge,
nonché quelle corrispondenti all'esercizio di un diritto potestativo. Conseguentemente, qualora si versi in
situazioni poste al di fuori di tale nozione, i fatti ritualmente accertati ed acquisiti alla causa potrebbero
essere utilizzati dal giudice anche in assenza di formali istanze o difese di parte che li assumano a proprio
fondamento.
Sul punto non mancano i contrasti, soprattutto in dottrina (per una rassegna delle varie opinioni si veda
Montanari, sub art. 112 c.p.c., in Comm. Consolo, Luiso, I, Milano, 2000, 1041). In senso contrario, infatti,
sulla base di una distinzione tradizionale (di origine chiovendiana), si è rilevato come il criterio discretivo
vada ricercato non tanto, da un punto di vista formale, nel dato normativo, quanto piuttosto, da un punto
di vista sostanziale, nella natura del controdiritto opposto in via di eccezione (Mandrioli, 146). Se così fosse,
quindi, potrebbero essere rilevati d'ufficio quei fatti impeditivi, modificativi ed estintivi che producano
immediatamente i propri effetti (siano, cioè, operanti ipso jure, come, ad es., l'avvenuto pagamento, la
risoluzione consensuale, la nullità, la simulazione), mentre dovrebbero essere eccepiti solo su iniziativa di
parte (pur in assenza di specifica previsione) quei fatti che operino esclusivamente in presenza di una
specifica manifestazione di volontà della parte interessata (come, ad es., accade a seguito dell'esercizio di
diritti potestativi, nei casi di risoluzione per inadempimento o di annullabilità). Sul punto, si veda, ancora
una volta Mandrioli, 149. Ad onor del vero, tuttavia, deve segnalarsi come il predetto contrasto si attenui
notevolmente in considerazione del fatto che gli stessi sostenitori della generale rilevabilità officiosa delle
eccezioni ritengono che un'eccezione in senso proprio potrebbe essere prevista dalla legge anche in modo
implicito (Grasso, 1273).
Il predetto contrasto si riscontra anche in giurisprudenza, seppure in modo molto meno marcato.
L'orientamento prevalente, infatti, è favorevole alla tesi più tradizionale, distinguendo tra eccezioni in
senso lato ed eccezioni in senso stretto sulla base di un rapporto di regola (rilevabilità officiosa) - eccezione
(rilevabilità ad opera di parte). Si vedano, al riguardo, C., S.U., 1099/1998; C. 11108/2007; C. 16501/2004; C.
226/2001; C. 5747/1995; v. in senso contrario, però, C. 1320/2000. Recentemente, la Corte di Cassazione
ha ritenuto rilevabili d'ufficio tutte le ragioni che possono condurre al rigetto della domanda per difetto
delle sue condizioni di fondatezza o per la successiva caducazione del diritto fatto valere, purché tali
circostanze siano state ritualmente acquisite al processoe il rilievo officioso non sia impedito sia impedito o
precluso in conseguenza di specifiche regole processuali (C. 21482/2013).
Proprio sulla base di tale ragionamento, sono state considerate rilevabili ex officio, anche in assenza di
apposita previsione, l'eccezione di nullità del contratto (a meno che oggetto della domanda sia proprio la
declaratoria di nullità; C. 12627/2006; C. 6003/2006; C. 19903/2005), l'eccezione volta a rilevare la non
integrità del contraddittorio (C. 26388/2008; C. 25305/2008); l'eccezione di interruzione della prescrizione
(cfr. C. 13783/2007; C. 9053/2007; C. 6092/2006; C. 2468/2006; C. 2035/2006, conformi a C., S.U.,
15661/2005, la quale ha risolto un precedente contrasto giurisprudenziale; a favore della rilevabilità
officiosa erano C. 3726/2000; C. 11474/1993; C. 1165/1983, in senso contrario, a favore della rilevabilità ad
opera di parte C. 11588/2003; C. 10137/2002; C. 6759/2001), l'eccezione con cui si afferma di aver
compiuto l'atto necessario ad evitare una decadenza (C. 414/2013, secondo cui, in realtà, si sarebbe in
presenza di una mera difesa), l'eccezione volta a far valere l'accettazione dell'eredità con beneficio
d'inventario (C. 10531/2013), l'eccezione di giudicato esterno (C. 15023/2001; C. 5886/1999; C.
11018/1995; contra, però, C. 14698/1999), l'eccezione volta ad accertare il mancato avveramento della
condizione sospensiva (C. 15978/2010; C. 2214/2002), l'eccezione di pagamento (C. 599/1998), l'eccezione
di risoluzione consensuale (C. 2770/1997), l'eccezione di novazione (C. 3026/1999), l'eccezione di riduzione
ad equità della penale, purché vengano rispettati gli oneri allegatori e probatori con riferimento alle
circostanze rilevanti per tale valutazione (C. 24166/2006), l'eccezione volta a rilevare l'incapienza del
massimale minimo di legge rispetto al danno (C. 22893/2012) e l'eccezione d'inosservanza degli oneri di cui
all'art. 66, R.D. 14.12.1933, n. 1669 in materia di azioni causali (C. 12677/2014). Analogamente, è rilevabile
d'ufficio l'eccezione di concorso di colpa del danneggiato, ai sensi dell'art. 1227 c.c. (C. 13902/2013; C.
23734/2009 e C. 18544/2009, secondo cui non si tratterebbe neppure di una vera e propria eccezione, ma
di una mera difesa).
Ad onor del vero, però, nonostante la prevalenza, in astratto, della tesi tradizionale, la giurisprudenza ha
avuto occasione di individuare diversi casi di eccezioni rilevabili solo ad opera di parte anche in assenza di
un'espressa previsione e, quindi, unicamente sulla base della natura del diritto opposto. In particolare, sono
state considerate eccezioni in senso stretto le eccezioni riguardanti fatti operanti solo in presenza di
un'apposita manifestazione di volontà, quali, ad esempio, quella volta ad accertare il concorso colposo del
danneggiato nell'aggravamento del danno (ma non il concorso nella causazione dello stesso, circostanza
operante ipso jure; cfr. C. 4799/2001), l'eccezione con cui si allega il decorso del termine di cui all'art. 80, L.
27.7.1978, n. 392, con conseguente decadenza dall'azione di risoluzione del contratto di affitto in
conseguenza del mutato uso del bene affittato, (C. 14765/2007), l'eccezione volta ad opporre la remissione
(C. 11749/2006; C. 1110/1999), l'eccezione avente ad oggetto la decorrenza del termine di decadenza di cui
all'art. 1168 c.c. (C. 5841/2006), l'eccezione di risoluzione del contratto per avveramento della condizione
(C. 17474/2014), l'eccezione di decadenza di cui al primo comma dell'art. 1669 c.c. (C. 18078/2012),
l'eccezione riguardante la tardiva contestazione dell'illecito nel caso di opposizione a sanzioni
amministrative (C. 1173/2007), l'eccezione volta a limitare la responsabilità dell'erede a seguito di
accettazione con beneficio di inventario (C. 14766/2007), l'eccezione volta a limitare la responsabilità di
uno degli eredi in proporzione alla propria quota, ai sensi dell'art. 754 c.c. (C. 25764/2008), l'eccezione
finalizzata a far valere la clausola c.d. solve et repete (C. 5819/1993) e l'eccezione volta ad opporre la c.d.
presupposizione (C. 3908/2000).
Anche in relazione alle eccezioni rilevabili ex officio, il potere decisorio del giudice non è, comunque, privo
di vincoli. Innanzi tutto, il giudice deve fare esclusivo riferimento alle allegazioni (legittimamente e
tempestivamente) operate dalle parti. Conseguentemente, quand'anche un'eccezione possa essere rilevata
d'ufficio, il giudice potrà pronunciarsi sulla stessa se e solo se i fatti (estintivi, modificativi e impeditivi) ad
essa sottesi siano stati allegati dalle parti o, comunque, tempestivamente (entro quindi, i termini di cui
all'art. 183, 6° co.; cfr. C. 14581/2007; C. 9916/1998) e ritualmente acquisiti (e provati) nel processo (C.,
S.U., 1099/1998; C. 13783/2007; C. 9916/1998; C. 5276/1993). Non soggiace, invece, alle ordinarie
preclusioni, anche in tema di allegazione delle circostanze di fatti, l'eccezione volt aa far valere la
transazione novativa conclusa nelle more del giudizio (C. 18195/2012).
Corollario di quanto detto fino ad ora è la possibilità che il giudice incorra, anche con riferimento alle
eccezioni, nei vizi sopra segnalati di omissione di pronuncia, di ultrapetizione e di extrapetizione. In
particolare, si ha ultrapetizione quando il giudice decida su una eccezione rilevabile esclusivamente ad
opera di parte (C. 3191/1999; C. 15/1990). Si ha extrapetizione, invece, quando il giudice si pronunci
sull'eccezione ritualmente sollevata da una parte ma sulla base di fatti differenti rispetto a quelli da costei
allegati e dedotti.
Inoltre, secondo l'orientamento dominante, la rilevabilità officiosa viene meno quando il fatto posto alla
base dell'eccezione rappresenti il fatto costitutivo (o, meglio, uno dei fatti costitutivi) della domanda
proposta. Specificamente, tale limitazione si verifica nel caso dei diritti autodeterminati. Prendendo ad
esempio l'eccezione di nullità del contratto, il giudice può sempre rilevare tale invalidità anche in assenza di
un'apposita richiesta di parte (ovviamente sempre nei limiti delle allegazioni operate dalle parti) nei giudizi
aventi ad oggetto l'adempimento o la esecuzione del contratto (ove la nullità si pone quale mera «ragione
di rigetto» della pretesa dedotta dall'attore: (C. 18374/2006; C. 1097/2005; C. 21095/2004; C. 18210/2004;
C. 14570/2004), ma non già in quelli di impugnazione o di risoluzione, aventi espressamente ad oggetto
l'accertamento (e la conseguente dichiarazione) dell'invalidità o dell'inefficacia della pattuizione contrattale
( C. 15093/2009; C. 21632/2006; C. 20548/2004; C. 4817/1999; C. 1811/1999; C. 4269/1996).
Recentemente, però, a seguito di due importanti sentenze delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione,
l'orientamento è radicalmente mutato. Anzitutto, C., S.U., 14828/2012, risolvendo il contrasto che stava
insorgendo nelle sezioni semplici, ha ammesso espressamente la rilevabilità dell'eccezione di nullità anche
nelle azioni aventi ad oggetto la richiesta di risoluzione del contratto.
Successivamente, le Sezioni Unite (cfr. C., S.U., 26242/2014), ribaltando i precedenti orientamenti
giurisprudenziali, anche di legittimità, hanno ammesso in modo del tutto estensivo la rilevabilità
dell'eccezione di nullità sia in tutte le azioni di impugnativa negoziale (comprese quelle di annullamento e
rescissione) sia nelle vere e proprie azioni di nullità (ammettendo così espressamente il rilievo officioso da
parte del giudice di una causa di nullità diversa da quella allegata dalla parte).
Tale orientamento pare ribadito anche in relazione alle eccezione di rito (in relazione alle quali,
tuttavia, appare dubbia l'applicabilità della norma qui commentata, dedicata precipuamente agli aspetti
sostanziali della tutela; cfr. Montanari, 1046).
Dopo numerosi travagli interpretativi, infatti, la Corte di Cassazione ha riconosciuto la generale
rilevabilità officiosa delle eccezioni di rito, specialmente di quelle relative alle preclusioni e alle decadenze
maturate, essendo poste a tutela di interessi di ordine pubblico processuale (C. 23127/2004; C. 4376/2000).
Con specifico riferimento alle eccezioni di rito, tuttavia, deve la particolare disciplina che era stata prevista
nel c.d. rito societario. L'art. 13, 4° co., D.Lgs. 17.1.2003, n. 5, infatti, sanciva il principio esattamente
opposto della generale rilevabilità ope exceptionis delle preclusioni e delle decadenze maturate (e, quindi,
in definitiva, l'opponibilità di tutte le eccezioni di rito solo ad iniziativa di parte). Si trattava, tuttavia, di una
previsione eccezionale, o, più correttamente, di natura generale nell'ambito del rito societario, ma di
natura speciale con riferimento al processo civile ordinario. Del resto, le recenti riforme al codice di rito
(contenute nella L. 14.5.2005, n. 80 e nelle successive modificazioni) hanno sostanzialmente riaffermato il
rapporto regola eccezione delineato dalla norma qui commentata e poco sopra analizzato.