100744077 Charles Baudelaire Scritti Sull Arte

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da Scritti sull’arte di Charles Baudelaire Storia dell’arte Einaudi 1

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da Scritti sull’arte

di Charles Baudelaire

Storia dell’arte Einaudi 1

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Edizione di riferimento:Charles Baudelaire, Scritti sull’arte, trad. it. di Giu-seppe Guglielmi ed Ezio Raimondi, Einaudi, Torino1981 e 1992

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Indice

Storia dell’arte Einaudi 3

Salon del 1846

1. A che serve la critica? 7ii. Che cos’è il romanticismo? 9iii. Del colore 12iv. Eugène Delacroix 17v. Dei soggetti amorosi e di Tassaert 36vi. Di alcuni coloristi 39vii. Dell’ideale e del modello 49viii. Di alcuni disegnatori 53ix. Del ritratto 59x. Dello chic e del banale 64xi. Di Horace Vernet 65xii. Dell’eclettismo e del dubbio 68xiii. Di Ary Scheffer e delle scimmie

del sentimento 70xiv. Di alcuni dubbiosi 74xv. Del paesaggio 77xvi. Perché la scultura è noiosa 85xv11. Delle scuole e degli operai 88xviii. Dell’eroismo della vita moderna 91

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SALON DEL 1846

Ai borghesi

Voi siete la maggioranza, – per numero e intelligen-za; – e pertanto siete la forza, – che è la giustizia.

Scienziati gli uni, proprietari gli altri; – verrà ungiorno radioso in cui gli scienziati saranno proprietari,e i proprietari scienziati. Allora la vostra potenza saràcompleta, e non vi sarà nessuno a protestare contro diessa.

Nell’attesa di questa suprema armonia, è giusto checoloro i quali non sono che proprietari aspirino a diven-tare scienziati; poiché la scienza è un godimento nonmeno grande che la proprietà.

Voi possedete il governo della città, ed è giusto, giac-ché siete la forza. Ma occorre che siate capaci di senti-re la bellezza; in quanto come nessuno di voi può oggifare a meno di potenza, cosí nessuno ha il diritto di farea meno di poesia.

Potete vivere tre giorni senza pane; – ma senza poe-sia, in nessun caso; e quelli di voi che affermano il con-trario s’ingannano: non si conoscono.

Gli aristocratici del pensiero, i dispensatori dell’elo-gio e della censura, gli accaparratori dei beni spirituali,

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vi hanno detto che non avevate il diritto di sentire e digodere: – sono dei farisei.

Invero, avete il governo di una città ove è presenteil pubblico dell’universo, e bisogna che siate degni ditale carico.

Godere è una scienza, e l’esercizio dei cinque sensiesige una iniziazione tutta sua, che ha luogo solo con labuona volontà e il bisogno.

Ora ciò che vi occorre assolutamente è l’arte.L’arte è un bene infinitamente prezioso, l’arzente

che rinfresca e infiamma, che ristora lo stomaco e lo spi-rito nell’equilibrio nativo dell’ideale.

Voi ne concepite l’utilità, oh borghesi, – legislatori ocommercianti, – quando allo scoccare della settima oottava ora vi accade che il capo si chini sulle braci delfocolare e sui cuscini della poltrona.

Un desiderio più ardente, un’immaginazione più atti-va, vi conforterebbero allora dell’azione quotidiana.

Senonché gli accaparratori hanno voluto tenervi lon-tano dall’albero della scienza, perché la scienza è la lorocassa e bottega, di cui restano estremamente gelosi. Sevi avessero negato il potere di produrre opere d’arte odi comprendere i procedimenti in base ai quali si pro-ducono, avrebbero affermato un vero di cui non vi sare-ste offesi, dal momento che gli affari pubblici e il com-mercio assorbono i tre quarti della vostra giornata.Quanto alle ore libere, esse devono per questo esserededicate al godimento e alla voluttà.

Ma gli accaparratori vi hanno vietato di godere, per-ché non intendete la tecnica delle arti, come inveceintendete le leggi e gli affari.

Non per tanto, se i due terzi del vostro tempo sonooccupati dalla scienza, è giusto che l’altro terzo sia presodal sentimento, e solo per mezzo del sentimento dove-te giungere all’intelligenza dell’arte; – cosí, per l’ap-

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punto, la vostra anima può trovare l’equilibrio delleforze.

In quanto molteplice, la verità non e doppia; e comenella sfera della politica avete concesso i diritti e i van-taggi, cosí nelle arti avete fondato una piú vasta e copio-sa comunione.

Borghesi, voi – re, legislatori o negozianti, – aveteistituito collezioni, musei, gallerie. Alcune di quelle chesedici anni or sono erano aperte solo agli accaparratorihanno aperto le porte alla massa.

Vi siete consociati, avete costituito delle compagniee concesso dei prestiti per realizzare l’idea dell’avveni-re in tutte le sue diverse forme, politiche, industriali eartistiche. Mai in alcuna nobile impresa avete lasciato l’i-niziativa alla minoranza protestataria e travagliata, chepoi è la nemica naturale dell’arte.

Lasciarsi sorpassare in arte e in politica, equivale asuicidarsi, e una maggioranza non può volere il suicidiodi se stessa.

Ciò che avete fatto per la Francia, lo avete fattoanche per altri paesi. Il museo spagnolo1 è venuto adaccrescere il complesso delle idee generali che doveteavere sull’arte; sapete infatti benissimo che, cosí comeun museo nazionale è una comunione la cui influenzagentile intenerisce il cuore e affina la volontà, un museostraniero è una comunione internazionale, in cui duepopoli, avendo un modo piú libero di osservarsi e stu-diarsi, si compenetrano reciprocamente, e si affratella-no senza contrasti.

Voi siete gli amici naturali delle arti giacché siete ric-chi per una parte, scienziati per un’altra.

Dopo aver dato alla società la vostra scienza, e indu-stria, e lavoro e danaro, pretendete di essere compensatiin piaceri del corpo, della ragione e dell’immaginazione.Ora se ricuperate la somma di piaceri necessari per rico-stituire l’equilibrio di tutte le parti del vostro essere,

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sarete felici, sazi e amabili, allo stesso modo in cui lasocietà è destinata ad essere felice e amabile allorchéavrà trovato il proprio equilibrio generale e assoluto.

È naturale, dunque, che questo libro sia dedicato avoi, borghesi; ché ogni libro che non si rivolga alla mag-gioranza, – numero e intelligenza, – è un libro sciocco.

1° maggio 1846.

1

A che serve la critica?

A che serve? – Interrogativo enorme e terribile, cheafferra la critica per il collo fin dal primo passo che essaprende a fare nel suo capitolo d’apertura.

L’artista rimprovera per prima cosa alla critica dinon potere insegnare nulla al borghese, il quale nonvuole dipingere né poetare, – né all’arte, in quanto la cri-tica è uscita proprio dalle sue viscere.

E tuttavia quanti artisti di questo nostro tempo devo-no solo a lei la loro misera fama! Qui sta forse il verorimprovero da muoverle.

Si è visto un Gavarni che raffigura un pittore curvosulla tela; alle sue spalle un signore, grave, rinsecchito,rigido e incravattato di bianco, con in mano l’ultima suarecensione. «Se l’arte è nobile, la critica è santa». – «Echi lo dice?» – «La critica!» Se l’artista fa la sua partecosí a buon mercato, questo accade perché il critico èinequivocabilmente un critico come ce ne sono tanti.

In fatto di mezzi e procedimenti – se non addirittu-ra di opere2, il pubblico e l’artista non hanno nulla daimparare a questo punto. Sono cose che si imparano alcavalletto, facendo, e il pubblico s’interessa solo delrisultato.

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Credo in coscienza che la migliore critica sia quellache riesce dilettosa e poetica; non una critica fredda ealgebrica, che, col pretesto di tutto spiegare, non sentené odio né amore, e si spoglia deliberatamente di ognitraccia di temperamento; ma, – riflessa dall’occhio di unartista, – quella che ci farà vedere un quadro attraver-so lo specchio di uno spirito intelligente e sensibile, seè vero che un bel quadro è la natura riflessa. Cosí lamigliore recensione critica di un quadro potrà essere unsonetto o un’elegia.

Ma un tal genere di critica e destinato alle raccoltedi poesia e ai suoi lettori. Quanto a quella propriamen-te detta, spero che i filosofi comprenderanno ciò che stoper dire: perché sia giusta, cioè perché abbia la suaragion d’essere, la critica deve essere parziale, appas-sionata, politica, vale a dire condotta da un punto divista esclusivo, ma tale da aprire il più ampio degli oriz-zonti.

Esaltare la linea a detrimento del colore, o il colorea spese della linea, è fuor di dubbio un punto di vista;ma non è una visuale né ampia né corretta, e rivela unagrande ignoranza di ogni destino particolare.

Si ignora in quale dose la natura abbia mescolato inogni ingegno il gusto della linea e il gusto del colore, eper quali misteriosi procedimenti essa natura operi talefusione il cui esito e un quadro.

Pertanto un punto di vista più ampio vuole esserel’individualismo rettamente interpretato: esigere dal-l’artista l’ingenuità e l’espressione sincera del suo tem-peramento, soccorsa da tutti i mezzi che gli vengono dalsuo mestiere3. Chi non ha temperamento non è degnodi fare dei quadri, e allora, – poiché si è stanchi di imi-tatori, e soprattutto di eclettici, – deve entrare comemanovale al servizio di un pittore di temperamento:come dimostrerò in uno degli ultimi capitoli.

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Fornito ormai di un criterio certo, preso dalla natu-ra, il critico deve compiere il proprio dovere con pas-sione, giacché egli non rinuncia ad essere uomo, e la pas-sione avvicina i temperamenti affini, trasporta la ragio-ne a nuove altezze.

Stendhal ha detto una volta: «La pittura non è chemorale costruita!» – Ove s’intenda questo termine in unsenso piú o meno liberale, può affermarsi la stessa cosaper tutte le arti. E poiché esse sono sempre il belloespresso dal sentimento, dalla passione e dall’im-maginazione del singolo, vale a dire dalla varietà nell’u-nità, ovvero dalle diverse facce dell’assoluto, – la criti-ca s’incontra ad ogni momento con la metafisica.

Essendo riservata ad ogni secolo e ad ogni popolo l’e-spressione della propria bellezza e della propria morale,– qualora si voglia intendere il romanticismo come l’e-spressione piú recente e moderna della bellezza, – il gran-de artista sarà allora, – per il critico raziocinante e appas-sionato, – colui che unirà alla condizione sopra richiesta,all’ingenuità, – il massimo romanticismo possibile.

ii

Che cos’è il romanticismo?

Pochi vorranno oggi attribuire a questo termine unsignificato reale e positivo; ma avranno lo stesso l’ardi-re di affermare che una generazione è pronta a sostene-re una battaglia di lunghi anni per una bandiera che nonè un simbolo?

Si ripensi agli scontri di questi ultimi tempi, e sivedrà che, se è rimasto un numero esiguo di romantici,questo è accaduto perché pochi di loro hanno trovato ilromanticismo, anche se tutti lo hanno sinceramente elealmente cercato.

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Alcuni si sono rivolti unicamente alla scelta dei sog-getti; ma non ne avevano il temperamento. – Altri, checredevano ancora in una società cattolica, hanno cerca-to di riprodurre il cattolicesimo nelle loro opere. – Madirsi romantico e fissarsi sistematicamente sul passato,è una contraddizione. – Costoro, in nome del romanti-cismo, hanno insultato i Greci e i Romani: ora si pos-sono rappresentare Romani e Greci romantici, quandosi è a propria volta tali. – Molti altri sono stati fuorvia-ti dalla verità nell’arte e nel colore locale. Il realismoaveva già antiche radici prima di questa grande batta-glia, e d’altronde, comporre una tragedia o un quadroper Raoul Rochette4, significa correre il rischio di esse-re smentiti dal primo venuto, se è più colto di RaoulRochette.

Il romanticismo non sta per l’appunto né nella scel-ta dei soggetti né nella verità esatta, ma nel modo disentire.

I nostri artisti lo hanno cercato al di fuori, mentresolo dal di dentro era possibile scoprirlo.

Quanto a me, il romanticismo è l’espressione piúrecente e più attuale del bello.

Vi sono tante bellezze quanti sono i modi consueti dicercare la felicità5.

La filosofia del progresso spiega tutto questo conchiarezza; come ci sono stati tanti ideali quanti furonoper i popoli le maniere di comprendere la morale, l’a-more, la religione, ecc., cosí il romanticismo non puòconsistere in una esecuzione perfetta, ma in una conce-zione simile alla morale del secolo.

Proprio perché taluni lo hanno visto come la perfe-zione del mestiere, abbiamo avuto il rococò del roman-ticismo, che senz’ombra di smentita è il piú insoppor-tabile di tutti.

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Occorre allora, prima di tutto, conoscere gli aspettidella natura e le situazioni dell’anima, che gli artisti delpassato hanno trascurato o non conosciuto.

Chi dice romanticismo dice arte moderna, – cioè inti-mità, spiritualità, colore, aspirazione verso l’infinito,espressi con tutti i mezzi presenti nelle arti.

Ne viene che esiste una contraddizione evidente trail romanticismo e le opere dei suoi principali rappre-sentanti.

Perché stupirsi se il colore ha una parte capitale nel-l’arte moderna? Il romanticismo è figlio del Nord, e ilNord è colorista; i sogni e gli incantesimi sono creaturedelle brume. L’Inghilterra, che è la patria dei coloristipiú accesi, le Fiandre, una metà della Francia, sonoimmerse nelle nebbie; la stessa Venezia affonda nellalaguna. E i pittori spagnoli poi, sono più pittori di con-trasti che coloristi.

In compenso il Mezzogiorno è naturalista, perchéquivi la natura è cosí bella e luminosa che l’uomo, nonavendo nulla da desiderare, non trova niente di piùbello da inventare all’infuori di quello che vede: qui,l’arte sotto la luce del sole, e qualche centinaio di leghepiù a nord i sogni profondi nel chiuso del laboratorio el’occhio della fantasia sperduto nei grigi orizzonti.

Il Mezzogiorno è brutale e positivo come uno scul-tore nelle sue composizioni più delicate; il Nord dolen-te e inquieto si consola con l’immaginazione, e quandogiunge a far scultura, essa sarà più spesso pittorica checlassica.

Raffaello, nonostante la sua purezza, non è che unospirito materiale alla ricerca senza sosta del solido; maquella canaglia di Rembrandt è un potente idealista chefa sognare e vedere al di là. Il primo compone creatureallo stato puro e verginale, – Adamo ed Eva; – il secon-do agita gli stracci davanti ai nostri occhi e ci raccontale sofferenze dell’uomo.

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Tuttavia Rembrandt non è un colorista puro, ma unarmonista; ora come sarà nuovo l’effetto e quanto ilromanticismo prestigioso, dove un potente colorista cirenda i nostri sentimenti e sogni più cari con un colorerispondente ai soggetti!

Prima di passare all’esame dell’uomo che resta sin adoggi il più degno rappresentante del romanticismo,penso di scrivere sul colore una serie di riflessioni noninutili alla piena intelligenza di queste nostre pagine.

iii

Del colore

Si immagini un ampio spazio di natura ove tutto siillumini di verde, di rosso, sfolgorante e liberamentemutevole, e tutte le cose, con diversi colori secondo lapropria struttura molecolare, mutate di attimo in atti-mo allo spostarsi dell’ombra e della luce, agitate dal-l’interno lavorio dell’energia calorica, si trovino in unavibrazione perenne, la quale fa tremare le linee e portaa fine la legge del movimento eterno e universale. –Un’immensità, talora azzurra e spesso verde, si stendesino ai confini del cielo: il mare. Verdi gli alberi, verdel’erba, verde il muschio; e il verde serpeggia nei tronchi,gli steli acerbi sono verdi; il verde è il fondo della natu-ra perché il verde si unisce senza difficoltà con tutti glialtri toni6. Ciò che subito mi colpisce, è che dappertut-to, – rosolacci nei prati, papaveri, pappagalli, ecc., – ilrosso intona la gloria del verde; e il nero, quando com-pare, nullità solitaria e insignificante, invoca l’interventodell’azzurro e del rosso. L’azzurro, cioè il cielo, èattraversato da lievi bioccoli bianchi o da masse grigieche temperano felicemente la sua spenta crudezza, – e,come il vapore della stagione, – inverno o estate, –

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bagna, ammorbidisce o stinge i contorni, la natura somi-glia a una trottola che, mossa da una velocità accelera-ta, ci appare grigia, quantunque riassuma in sé tutta lagamma dei colori.

La linfa sale e, mistura di principî, si spande in tonimisti; gli alberi, le rocce, i graniti si specchiano nelleacque e vi depongono i propri riflessi; tutti gli oggetti tra-sparenti uncinano al passaggio luci e colori prossimi eremoti. Man mano che l’astro del giorno si sposta, i tonimutano di valore, ma sempre fedeli alle proprie simpatiee repulsioni naturali, continuano a vivere in armonia perconcessioni reciproche. Le ombre migrano piano piano,e mettono in fuga o spengono i toni via via che la luce,spostandosi a sua volta, prende a concertarli di nuovo.Essi si rimandano i loro riflessi, e, mentre modificanole proprie qualità velandole di altre trasparenti e avven-tizie, moltiplicano all’infinito i loro connubi melodiosie li rendono piú fluenti. Quando la grande sfera di fuocodiscende tra le acque, rosse fanfare erompono da ognidove; un’armonia di sangue dilaga all’orizzonte, e ilverde s’imporpora dovizioso. Ma subito vaste ombreazzurre ricacciano indietro, come danzando, la schieradei toni arancione e rosa pallido che sono quasi l’ecolontana e affievolita della luce. Questa grande sinfoniadel giorno, eterna variazione della sinfonia di ieri, que-sta successione di melodie, ove la varietà sgorga sempredall’infinito, questo inno complicato ha nome colore.

Nel colore si trovano l’armonia, la melodia e il con-trappunto.

Se si vuole esaminare il particolare nel particolare, inun oggetto di media dimensione, – ad esempio, unamano di donna lievemente sanguigna, un po’ magra e diuna pelle assai fine, si vedrà che esiste un’armonia per-fetta tra il verde delle grosse vene che la solcano e i tonipurpurei che segnano le giunture; le unghie rosa spicca-no sulla prima falange dai toni grigi e bruni. Quanto al

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palmo, le linee della vita, piú rosee e vinose, sono sepa-rate fra loro dal sistema delle vene verdi o azzurre chele attraversano. Sotto una lente, lo studio del medesimooggetto fornirà in un qualsiasi spazio, per piccolo chesia, un’armonia perfetta di toni grigi, azzurri, bruni,verdi, arancione e bianchi ravvivati da una punta digiallo; – un’armonia, che combinata con le ombre, gene-ra il modellato dei coloristi, cosí radicalmente diversodal modellato dei disegnatori, le cui difficoltà si ridu-cono, in fondo, a copiare un calco.

Il colore è quindi l’accordo di due toni. Il tono caldoe il tono freddo, la cui opposizione costituisce l’interateoria, non possono definirsi in modo assoluto: esisto-no solo in rapporto.

La lente è l’occhio del colorista.Non intendo di qui concludere che un colorista deve

procedere fondandosi sullo studio minuzioso dei toniaccozzati in uno spazio assai ristretto. Se si ammetteinfatti che ogni molecola sia dotata di un tono partico-lare, occorrerebbe che la materia fosse divisibile all’in-finito; e d’altra parte, non essendo l’arte che un’astra-zione e un sacrificio del particolare all’insieme, è impor-tante occuparsi soprattutto delle masse. Ma io volevodimostrare che, ove si desse il caso, i toni per quantonumerosi, e però logicamente giustapposti, finirebberoper fondersi naturalmente in virtú della legge che ligoverna.

Le affinità chimiche sono la ragione per cui la natu-ra non può commettere errori nella concertazione deisuoi toni; che, per essa, forma e colore fanno tutt’uno.

Neppure il vero colorista può sbagliare; e tutto gli èconcesso, in quanto conosce da sempre la gamma deitoni, la forza del tono, i risultati degli impasti, e tuttala scienza del contrappunto, e può cosí comporre un’ar-monia di venti rossi differenti.

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Ciò è cosí vero che se un proprietario anticoloristadecidesse di ridipingere la propria campagna in un modoassurdo e con un sistema di colori gettati alla rinfusa, lapatina spessa e trasparente dell’atmosfera e l’occhiosapiente di un Veronese rimetterebbero in sesto il tuttoe formerebbero su una tela un insieme soddisfacente,convenzionale, non v’è dubbio, ma logico.

In questo modo si spiega come un colorista può esse-re paradossale nella sua maniera di esprimere il colore,e come lo studio della natura conduca spesso a un risul-tato differente del tutto dalla natura.

L’aria ha una parte cosí grande nella teoria del colo-re che, se un paesaggista dipingesse le foglie degli albe-ri come le vede, egli otterrebbe un tono falso; atteso chevi è uno spazio d’aria assai minore tra lo spettatore e ilquadro che non tra lo spettatore e la natura.

Le menzogne sono di continuo necessarie, anche perarrivare all’«inganno dell’occhio».

L’armonia è la base della teoria del colore.La melodia è l’unità nel colore, o il colore generale.La melodia esige una conclusione; è un insieme dove

tutti gli effetti concorrono a un effetto generale.Cosí la melodia lascia nell’animo un ricordo profondo.La maggior parte dei nostri coloristi difettano di

melodia.Il modo corretto di sapere se un quadro è melodioso

è quello di guardarlo da una distanza sufficiente per noncomprenderne né il soggetto né le linee. Se è melodio-so, ha già un senso, e si è insediato già nel repertorio deiricordi.

Lo stile e il sentimento nel colore procedono dallascelta, e la scelta procede dal temperamento.

Ci sono toni gai e vivaci, allegri e tristi, ricchi e gai,ricchi e tristi, alcuni comuni e altri originali.

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Cosí il colore del Veronese è pacato e vivace. Il colo-re di Delacroix è spesso dolente, e il colore di Catlin piúvolte terribile.

Ho avuto per molto tempo davanti alla mia finestrauna taverna pitturata in parte di verde e in parte dirosso, a colori crudi, che per i miei occhi erano una sof-ferenza deliziosa.

Non so se qualche scrittore dell’analogia abbia fon-datamente definito una gamma completa dei colori e deisentimenti, ma ricordo un passo di Hoffmann che espri-me appieno il mio pensiero, e che piacerà a quantiamano sinceramente la natura: «Non solo in sogno, e neldelirio lieve che precede il sonno, ma anche da sveglio,quando sento musica, trovo un’analogia e un’intimaconnessione tra i colori, i suoni e gli odori. Mi sembrache tutte queste cose siano state generate da uno stessoraggio di luce, e che abbiano a riunirsi in un meravi-glioso concerto. L’odore delle calendole brune e rossesoprattutto produce un effetto magico su di me. Mi facadere in una profonda fantasticheria, e sento alloracome in lontananza i suoni gravi e profondi dell’oboe»7.

Ci si chiede spesso se lo stesso uomo possa essere aun tempo grande colorista e grande disegnatore.

Sí e no; vi sono diverse specie di disegni.La qualità di un disegnatore puro risiede soprattutto

nella finezza, e la finezza esclude il tocco: ora vi sonotocchi felici, e il colorista che si propone di esprimere lanatura mediante il colore perderebbe spesso di piú a sop-primere certi tocchi felici che a ricercare una maggioreausterità di disegno.

Il colore non esclude di certo il grande disegno, quel-lo del Veronese, per fare un esempio, che lavora soprat-tutto sull’insieme e le masse; bensì il disegno del parti-colare, il contorno del frammento, ove il tocco assorbiràsempre la linea.

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L’amore della luce e dell’aria, la scelta dei soggetti inmovimento, esigono l’uso di linee fluttuanti e sfumate.

I disegnatori esclusivi agiscono secondo un procedi-mento inverso e tuttavia analogo. Intenti a seguire e acogliere la linea nelle sue ondulazioni più recondite, nonhanno il tempo di vedere l’aria e la luce, ossia i loroeffetti, e si sforzano addirittura di non vederli, per nonintaccare il principio della loro scuola.

Si può perciò essere a un tempo coloristi e disegna-tori, ma in un certo senso. Al modo che un disegnatorepuò essere colorista con le grandi masse, cosí un colori-sta può essere disegnatore con una logica piena dell’in-sieme delle linee; senonché una di queste qualità assor-be sempre il tratto particolare dell’altra.

I coloristi disegnano come la natura; le loro figuresono naturalmente definite dal contrasto armoniosodelle masse colorate.

I disegnatori puri sono filosofi ed estrattori di quin-tessenze.

I coloristi sono poeti epici.

iv

Eugène Delacroix

Il romanticismo e il colore mi portano direttamen-te a Eugène Delacroix. Non so se egli vada fiero dellapropria qualità di romantico; ma qui è il suo posto, per-ché la maggioranza del pubblico da tempo, e anzi findalla sua prima opera, lo ha posto a capo della scuolamoderna.

Nell’entrare in questo capitolo, il cuore mi si empiedi una gioia serena, e scelgo di proposito le penne piúnuove, tanto voglio esser chiaro e limpido, e cosí gran-de è il piacere di affrontare l’argomento che mi è piú

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caro e congeniale. E per far comprendere appieno le con-clusioni di queste mie pagine, bisogna che risalga per unqualche tratto indietro nella storia dei nostri tempi, eripresenti al pubblico alcuni protocolli del processo, giàaddotti dai critici e dagli storici che mi hanno precedu-to, ma tuttavia necessari all’insieme del mio assunto. Delresto, i veri appassionati di Eugène Delacroix non sinegheranno un intenso piacere a rileggere un articolo del«Constitutionnel» del 1822, estratto dal Salon delThiers giornalista.

Nessun quadro, a mio avviso, rivela l’avvenire di ungrande pittore, piú di quello di Delacroix che raffiguraDante et Virgile aux enfers [Dante e Virgilio all’inferno].Qui soprattutto può cogliersi l’erompere del talento, quel-lo slancio della superiorità nascente che rianima le speran-ze alquanto mortificate dal merito troppo modesto di tuttala mostra.

Dante e Virgilio, guidati da Caronte, attraversano ilfiume infernale e fendono a fatica la calca che si pigia attor-no alla barca per salirvi sopra. Dante, come essere ancoravivente, ha l’incarnato orrido dei luoghi; Virgilio, con unacorona di un cupo alloro, ha i colori della morte. Gli sciagu-rati, dannati in eterno a desiderare l’opposta riva, si aggrap-pano alla barca: uno l’afferra invano, e, rovesciato dal movi-mento troppo impetuoso, viene ricacciato nelle acque; unaltro vi si allaccia e respinge coi piedi quanti vogliono issar-si come lui; altri due stringono coi denti il legno che gli sfug-ge. È l’egoismo dell’angoscia, la disperazione dell’inferno.In un soggetto che sfiora l’iperbole, si riscontra tuttavia unaseverità di gusto, una pertinenza del luogo, in certo senso,che fa risaltare il disegno, a cui giudici severi, ma poco saga-

ci in questo caso, potrebbero rimproverare un difetto dinobiltà. La pennellata è larga e ferma, il colore semplice evigoroso, sebbene alquanto crudo.

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L’autore, oltre all’immaginazione poetica che è comunetanto al pittore quanto al poeta, possiede l’immaginazionedell’arte, che si potrebbe chiamare in qualche modo l’im-maginazione del disegno, e che è del tutto diversa dall’al-tra. L’artista sbozza le figure, le raggruppa e le piega a suovolere con l’ardimento di Michelangelo e la fecondità diRubens. Davanti a questo quadro mi prende non so qualericordo dei grandi maestri; vi ritrovo quella potenza sel-vaggia, ardente, ma naturale, che cede senza sforzo al pro-prio impulso.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Non credo di ingannarmi, Delacroix ha il dono del

genio; proceda dunque sicuro, si dia alle opere grandi; comeè condizione indispensabile del talento; e a dargli ancora piúfede, ricordo che l’opinione che qui esprimo su di lui è ilgiudizio di uno tra i grandi maestri della sua scuola.

A. T... RS

Queste parole cosí piene di entusiasmo stupisconodavvero non meno per la loro anticipazione che per l’ar-ditezza. Se il redattore-capo del giornale, com’è da sup-porre, aveva qualche pretesa d’intendersi di pittura, ilgiovane Thiers dovette sembrargli quasi matto.

Per farsi un’idea pertinente del turbamento profon-do in cui il quadro di Dante et Virgile dovette gettareallora gli animi, un’idea dello stupore, dello sbalordi-mento, delle ire, degli applausi, delle ingiurie, dell’en-tusiasmo e dei cachinni insolenti che circondarono l’o-pera stupenda, autentico segnale di una rivoluzione, varicordato che nello studio di Guérin, uomo di grandemerito, ma dispotico ed esclusivo come David, suo mae-stro, c’era solo un ridotto manipolo di paria che pensa-vano ai vecchi maestri messi in disparte e timidamentesi azzardavano a cospirare all’ombra di Raffaello e di Mi-chelangelo. Non si parlava ancora di Rubens.

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Guérin, rude e severo verso il giovane allievo, Gué-rin vide il quadro solo per il rumore che si era creatointorno.

Géricault, reduce dall’Italia, dove, si dice, dinanzi aigrandi affreschi romani e fiorentini aveva rinunciato amolte sue qualità poco meno che originali, si compli-mentò cosí vivamente col nuovo pittore, che questi,nella sua timidezza, ne rimase quasi confuso.

Proprio di fronte a questo dipinto, o poco più tardi,dinanzi ai Pestiférés de Scio [Gli Appestati di Scio]8,accadeva poi a Gérard, che, a quanto sembra, era piùuomo d’ingegno che pittore, di esclamare: «Ci è statorivelato un uomo, ma è un uomo che corre sopra i tetti!»– Ma per correre sopra i tetti, bisogna avere il piedesicuro e l’occhio illuminato da una luce interiore.

Siano rese gloria e giustizia a Thiers e a Gérard!Dal quadro di Dante et Virgile alle pitture della Came-

ra dei pari e dei deputati, corre certo un lungo lasso ditempo; ma la biografia di Eugène Delacroix è povera dieventi esterni. Per un uomo della sua tempra, con uncoraggio e una passione cosí grandi, i conflitti più inte-ressanti sono quelli che deve sostenere con se stesso; nonoccorrono i grandi orizzonti perché le battaglie sianoimportanti; le rivoluzioni e gli eventi piú sorprendentihanno luogo sotto la volta del cranio, nel laboratorioangusto e misterioso del cervello.

Mentre, dunque, l’artista si era rivelato come si con-viene e si rivelava progressivamente (quadro allegoricodella Grece [La Grecia], il Sardanapale [Sardanapalo],La Liberte [La Libertà], ecc.), il contagio del nuovo van-gelo che si diffondeva sempre piú, lo sdegno accademi-co si vide costretto a propria volta a fare i conti colnuovo genio. Sosthènes de La Rochefoucauld, alloradirettore delle belle arti, mandò un giorno a chiamareE. Delacroix, e gli disse, dopo vari complimenti, che eradoloroso che un uomo di cosí ricca immaginazione e di

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cosí bell’ingegno, e cosí benvoluto poi dal governo, nonvolesse versare un po’ d’acqua nel suo vino; chiedendo-gli in definitiva se non gli fosse possibile mutare la pro-pria maniera. Estremamente stupito da una propostacosí bizzarra e da quei consigli ministeriali, EugèneDelacroix rispose con un furore quasi comico che evi-dentemente se dipingeva cosí, era solo perché dovevafarlo e non poteva dipingere in altro modo. E cosí caddein completa disgrazia, e per sette anni fu escluso daqualsiasi genere di lavori. Bisognava aspettare il 183o,quando Thiers scrisse su «Le Globe» un secondo solen-ne articolo.

Un viaggio in Marocco gli lasciò nell’animo, a quan-to pare, un’impressione profonda; qui poté a suo agiostudiare l’uomo e la donna nell’autonomia e nell’origi-nalità nativa dei loro atti, e comprendere la bellezzaantica attraverso le fattezze di una stirpe scevra da ogniincrocio e fiorente della propria salute e del libero, atle-tico sviluppo del proprio corpo. Risalgono probabil-mente a quell’epoca la composizione delle Femmes d’Al-ger [Donne di Algeri] e una ricca serie di abbozzi.

Fin ad oggi si è stati ingiusti verso Eugène Dela-croix. La critica è stata con lui amara e ottusa; se si tol-gono alcune nobili eccezioni, persino la lode dovettespesso sembrargli ingiuriosa. In generale, e per la mag-gior parte delle persone, fare il nome di Eugène Dela-croix, è come introdurre nel loro animo non so quali ideevaghe di foga incontrollata, di turbolenza, d’ispirazioneavventurosa, se non di disordine; e per tutti costoro checostituiscono il grosso del pubblico, il caso, onesto ecompiacente servitore del genio, ha una gran parte nellesue composizioni piú felici. Nel tempo doloroso di rivo-luzione cui mi riferivo poc’anzi, e di cui ho registrato lemolte sciocchezze, Eugène Delacroix è stato spesso para-gonato a Victor Hugo. C’era il poeta romantico, ci vole-va il pittore. Questo bisogno di trovare ad ogni costo

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corrispondenze e analogie nelle varie arti porta spesso astrani abbagli, e dimostra inoltre, per giunta, come sicapisse poco. C’è da scommettere che il paragone suo-nasse spiacevole a Eugène Delacroix, e forse anzi a tuttie due gli interessati; che se la mia definizione delromanticismo (interiorità, spiritualità, ecc.) pone Dela-croix alla testa del movimento romantico, ne esclude perforza Victor Hugo. E parallelo è rimasto nel campobanale delle idee convenzionali, e questi due pregiudizihanno ancora un grosso peso nelle menti non abbastanzaforti. Bisogna farla finita una volta per tutte con questeinsulsaggini da retore. Invito tutti coloro che hannosentito il bisogno di crearsi una certa estetica, e dedur-re le cause dagli effetti, di confrontare con qualcheattenzione le opere dei due artisti.

Victor Hugo, di cui non voglio certo diminuire lanobiltà e la maestà, è un artefice molto piú abile cheinventivo, meno un creatore che un mestierante di gustosicuro. Delacroix talvolta non è elegante, ma è essen-zialmente un creatore. Victor Hugo lascia intravvederein tutti i suoi quadri, lirici e drammatici, un sistema digiustapposizione e di contrasti uniformi. Anche l’ec-centricità assume in lui forme simmetriche. Egli possie-de a fondo e usa freddamente tutti i toni della rima, lerisorse dell’antitesi, i trucchi dell’apposizione. È uncompositore di decadenza o di transizione che si servedei propri strumenti con una destrezza davvero mirabi-le e sorprendente. Prima ancora di nascere, Hugo era giàaccademico, e se fossimo ancora al tempo delle fiabe edei miracoli, sarei prontissimo a credere che i verdileoni dell’Institut, allorché il poeta passava davanti alsantuario, corrucciato, gli abbiano piú volte sussurratocon voce profetica: «Tu sarai all’Accademia!»

Per Delacroix, la giustizia e più tardiva. Ma, di con-tro, le sue opere sono poemi, e grandi poemi di una con-cezione ingenua9, eseguiti con l’insolenza consueta del

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genio. – Nei poemi dello scrittore, non v’è nulla daimmaginare; egli prova un tale piacere nel fare mostradella propria destrezza, che non trascura un filo d’erbané un riflesso di riverbero. – Il pittore apre con i suoi,corsi sterminati all’immaginazione piú vogliosa di viag-giare. – Il primo gode di una certa tranquillità, o per dirmeglio, di un certo egoismo di spettatore, che distendesu tutta la sua poesia non so che freddezza e modera-zione, – che la passione tenace e irosa del secondo, alleprese con i giochi pazienti del mestiere, non sempreconsente a quest’ultimo di mantenere. – L’uno inco-mincia dal dettaglio, l’altro dall’intelligenza interna delsoggetto; e di qui deriva che lo scrittore arriva solo allapelle, mentre il pittore ne strappa le viscere. Troppoconcreto, troppo attento alle superfici della natura, Vic-tor Hugo è diventato un pittore in poesia; ma Delacroix,rispettoso sempre del proprio ideale, è spesso, senzasaperlo, un poeta in pittura.

Quanto al secondo pregiudizio, quello del caso, essoha lo stesso valore del primo. – Nulla è più scorretto epiú grossolano che parlare a un grande artista, dotto emeditativo come Delacroix, degli obblighi che può avereverso il dio del caso. Viene solo da alzar le spalle di com-passione. Non meno che nella meccanica, non esistenell’arte il caso. Una cosa felicemente trovata è la meraconseguenza di un buon ragionamento, di cui talvolta sisono saltate le deduzioni intermedie, cosí come un erro-re è la conseguenza di un falso principio. Un quadro èuna macchina in cui tutti gli ingranaggi sono intellegi-bili a un occhio esercitato; dove tutto ha la sua ragioned’essere, se il quadro è un vero quadro; dove un tono èsempre chiamato a fame risaltare un altro; dove un erro-re occasionale di disegno è talora necessario per nonsacrificare qualcosa di piú importante.

L’intervento del caso nei fatti pittorici di Delacroixè tanto più inverosimile in quanto egli è uno di quegli

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uomini rari che restano originali dopo avere attinto atutte le vere sorgenti, e la cui indomabile individualitàè passata sotto il giogo alterno, sempre poi rimosso, ditutti i grandi maestri. – Più d’uno proverebbe un certostupore nel vedere un suo studio da Raffaello, che è uncapolavoro paziente e laborioso di imitazione, e pochiricordano oggi alcune litografie ricavate da medaglie eda pietre incise.

Ma ecco un frammento di Heinrich Heine che illu-mina convenientemente il metodo di Delacroix, unmetodo che, come accade a tutti gli uomini di robustastruttura, è il risultato del suo temperamento: «In mate-ria d’arte, io sono sopranaturalista. Credo che l’artistanon possa trovare in natura tutti i propri archetipi, mache i piú notabili gli siano rivelati nella sua anima, al paridella simbolica innata delle idee innate, e tutto questonel medesimo istante. Un moderno professore di esteti-ca, autore di alcune Ricerche sull’Italia, ha voluto ripren-dere il vecchio principio dell’imitazione della natura, esostenere che l’artista plastico deve trovare nella natu-ra tutti i suoi modelli. Questo professore, esibendo cosíil suo principio supremo delle arti plastiche, aveva solodimenticato una di quelle arti, una tra le piú primitive,intendo dire l’architettura, della quale si è cercato diritrovare a posteriori i modelli nel fogliame delle fore-ste, nelle grotte delle scogliere: tali modelli non eranonella natura esterna, bensí nell’anima umana».

Delacroix parte dunque dal principio che un quadrodeve innanzitutto riprodurre il pensiero intimo dell’ar-tista, il quale domina il modello, cosí come il creatore lacreazione; e da questo principio ne nasce un secondo chea prima vista sembra contraddirlo, – cioè, che occorreportare la massima attenzione ai mezzi materiali di ese-cuzione. – Egli professa un fanatico rispetto per la pro-prietà degli strumenti e la preparazione dei materiali del-l’opera. – In effetti, siccome la pittura è un’arte di argo-

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mentare profonda e tale da richiedere il concorso imme-diato di un vasto complesso di qualità, importa che lamano, quando si mette all’opera, incontri il minor nume-ro possibile di ostacoli, ed esegua con una docile rapiditàgli ordini divini del cervello: altrimenti l’ideale dilegua.

Quanto è lenta, severa, coscienziosa la concezionedel grande artista, tanto è rapida la sua esecuzione. Delresto, questa è una qualità che egli condivide con Ingres,che per l’opinione pubblica rappresenta il suo antipodo.Sgravarsi non è partorire, e questi grandi signori dellapittura, con tutta la loro apparente indolenza, dispiega-no un’agilità stupefacente nel ricoprire una tela. Il SaintSymphorien [San Sinforio] è stato rifatto completamentevarie volte, e in origine conteneva molto meno figure.

Per E. Delacroix, la natura è un vasto dizionario dicui egli sfoglia e consulta le pagine con occhio sicuro eprofondo; e la sua pittura, che procede soprattutto dalricordo, parla soprattutto al ricordo. L’effetto prodottosull’animo dello spettatore è simile ai mezzi dell’artista.Un quadro di Delacroix, Dante et Virgile, a esempio,lascia sempre un’impressione profonda, la cui intensitàcresce con la distanza. Sacrificando di continuo il par-ticolare all’insieme, e temendo di diminuire la vitalitàdel pensiero con la fatica di un’esecuzione piú netta ecalligrafica, egli ricorre largamente a un’inarrivabile ori-ginalità, che è l’interiorità del soggetto.

L’uso di una dominante è possibile in linea di prin-cipio solo a scapito del resto. Un gusto iperbolico vuolesacrifici, e i capolavori non sono altro che estratti diver-si della natura. Ecco allora perché bisogna subire le con-seguenze di una grande passione, qualunque essa sia, eaccettare la fatalità di un talento, e non commerciare colgenio. Ma di questo non si sono per nulla resi contoquelli che hanno tanto preso in giro il disegno di Dela-croix; in particolare gli scultori, individui parziali emiopi oltre ogni limite, il cui giudizio vale tutt’al piú

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metà di un giudizio di architetto. – La scultura, a cui ilcolore non è consentito e il movimento risulta difficile,non ha nulla da spartire con un artista a cui interessasoprattutto il movimento, il colore e l’atmosfera. Que-sti tre elementi richiedono di necessità un contornoappena indeciso, linee leggere e fluttuanti, e l’audaciadel tocco. – Delacroix è il solo al giorno d’oggi la cui ori-ginalità non sia stata sopraffatta dal sistema delle lineerette; i suoi personaggi sono sempre mossi, e i suoi pan-neggi impennanti. Dal punto di vista di Delacroix, lalinea non esiste; poiché, per quanto sottile essa sia, ungeometra rigoroso può sempre supporla abbastanza spes-sa da contenerne infinite altre; e per i coloristi, chevogliono imitare i palpiti eterni della natura, le linee nonsono altro, come nell’arcobaleno, se non l’intima fusio-ne di due colori.

D’altronde esistono diversi disegni, come esistonodiversi colori: – esatti o spenti, fisionomici e immaginati.

Il primo è negativo, scorretto a forza di realtà, natu-rale, ma stravagante; il secondo è un disegno naturali-stico, e però idealizzato, di un genio che sa scegliere,comporre, correggere, intuire e assaporare la natura; ilterzo infine, il più nobile e singolare, può mettere daparte la natura, perché ne rappresenta un’altra, in tuttosimile allo spirito e al temperamento dell’autore.

Il disegno fisionomico è dato in genere agli appas-sionati, come Ingres; il disegno creativo è invece il pri-vilegio del genio10.

La grande qualità del disegno degli artisti sommi è laverità del movimento, e Delacroix non trasgredisce maiquesta legge di natura.

Ma veniamo all’esame di qualità ancora più genera-li. – Fra i caratteri principali del grande pittore vi è quel-lo dell’universalità, per cui il poeta epico, Omero oDante, compone altrettanto bene un idillio, un raccon-to, un discorso, una descrizione, un’ode, ecc.

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Allo stesso modo, Rubens, nel dipingere dei frutti, lideve raffigurare piú belli di qualsiasi altro specialista.

E. Delacroix è universale; ci ha dato quadri di gene-re pervasi di interiorità, scene storiche piene di gran-dezza. Forse solo lui, nel nostro secolo di poca fede, haconcepito quadri religiosi che non fossero né vuoti néfreddi come certe opere da concorso, né pedanteschi,mistici o neocristiani, come quelli di tutti i filosofi del-l’arte che fanno adesso della religione una scienza del-l’arcaico, e credono necessario possedere innanzitutto lasimbolica e le tradizioni primitive per muovere ancorae far vibrare la corda religiosa.

La cosa si comprende facilmente, se si tiene presen-te che, come tutti i grandi maestri, Delacroix è un mera-viglioso incrocio di scienza, – ossia un pittore comple-to, – e di ingenuità, che significa a sua volta un uomocompleto. Si veda a Saint-Louis nel Marais la Pietà, incui la regina maestosa dei dolori tiene sulle ginocchia ilcorpo del figlio morto, le braccia tese orizzontalmentein un impeto di disperazione, in una crisi di piantomaterna. Una delle due figure che soccorre e lenisce ilsuo dolore è in lacrime come i personaggi piú desolatidell’Hamlet [Amleto] con cui, del resto, la nostra Pietàha più di una somiglianza. – Delle due sante donne, laprima si storce convulsa al suolo, ancora ricoperta deigioielli e dei simboli dello sfarzo; mentre l’altra, biondae dorata, si accascia piú mollemente sotto il peso enor-me della propria disperazione.

Il gruppo è tutto scaglionato e disposto su uno sfon-do di un verde cupo e uniforme, che somiglia a unamassa di scogliere quanto a un mare sconvolto dallatempesta. Lo sfondo è di una semplicità favolosa, E.Delacroix, proprio come Michelangelo, ha soppressol’accessorio per non offuscare la chiarezza della sua ideaoriginaria. È un’opera suprema che lascia nello spiritoun solco profondo di malinconia. – Ma non era poi la

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prima volta che il nostro pittore affrontava i soggettireligiosi. Il Christ aux Oliviers [Cristo nell’Oliveto] e ilSaint Sebastien [San Sebastiano], avevano già dato unaprova della gravità e dell’intima sincerità di cui riesce asuggellarli.

Ora però, per chiarire la mia posizione di poc’anzi –secondo cui Delacroix è il solo capace di darci una pit-tura religiosa, – farò notare all’osservatore che, se i suoiquadri piú interessanti sono quasi sempre quelli di cuisceglie i soggetti, cioè i quadri di fantasia, – nondime-no la severa tristezza del suo talento si addice per-fettamente alla nostra religione, che è religione profon-damente triste, religione del dolore universale, e che, inforza della sua stessa cattolicità, lascia piena libertàall’individuo e non domanda altro che essere celebratanel linguaggio di ognuno, – se questi conosce la soffe-renza ed e pittore.

Ricordo che uno dei miei amici, giovane peraltro dimerito, e colorista già affermato, – uno di quegli adole-scenti precoci che sono di belle speranze per tutta la lorovita, assai più accademico di quanto lui stesso non sup-ponga, – definiva questa pittura: una pittura da canni-bale!

Si può star certi che il nostro giovane amico non riu-scirà a trovare nelle curiosità di una tavolozza sovrac-carica, o nel dizionario delle regole, quella cruenta e sel-vaggia desolazione, appena mitigata dal verde cupo dellasperanza!

Questo inno terribile al dolore produceva sulla suaimmaginazione di classico l’effetto dei vini traditori del-l’Angiò, dell’Alvernia o del Reno, in uno stomacoavvezzo alle pallide violette del Médoc.

Cosí, da una universalità di sentimento a una uni-versalità di scienza!

Da parecchio tempo i pittori avevano, per cosí dire,disimparato il genere detto decorativo. L’emiciclo delle

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Belle Arti11 è un’opera puerile e impacciata, ove le inten-zioni si contraddicono, e simile a una collezione di ritrat-ti storici. Il Plafond d’Homère [Soffitto di Omero]12 è unbel quadro che fa da cattivo soffitto. Le cappelle ese-guite negli ultimi anni, e assegnate agli allievi di Ingres,sono realizzate per la maggioranza nel sistema dei pri-mitivi italiani, nel senso che mirano all’unità soppri-mendo gli effetti luminosi, e mediante un complessosistema di tenui velature cromatiche. Un tale sistema,senza dubbio piú logico, evita le difficoltà. Sotto LuigiXIV, Luigi XV e Luigi XVI, i pittori eseguirono deco-razioni di grande parata, ma povere di unità nel coloree nella composizione.

E. Delacroix ebbe l’incarico di alcune decorazioni, erisolse il grande problema. Scoprí l’unità nella figura-zione senza recare pregiudizio al suo mestiere di colori-sta.

La Camera dei deputati sta ad attestare questo straor-dinario esercizio di alta scuola. La luce, sobriamentedistribuita, circola attraverso tutte le figure, ma noncoinvolge l’occhio con prepotenza tirannica.

Il soffitto circolare della biblioteca del Luxembourgè un’opera ancora più stupefacente, in cui il pittoregiunge, – non solo a un effetto ancora più tenero e piúfuso, senza nulla sacrificare delle qualità di colore e diluce, che contraddistinguono tutti i suoi quadri, – ma sirivela inoltre sotto un aspetto del tutto nuovo: Delacroixpaesaggista!

Anziché dipingere Apollo e le Muse, costante deco-rativa di tutte le biblioteche, E. Delacroix ha ceduto alsuo amore incontenibile per Dante, a cui forse sta allapari per lui solo Shakespeare, e ha scelto il passo in cuiDante e Virgilio incontrano in un luogo misterioso i piúgrandi poeti dell’antichità:

«Non lasciavam d’andare, mentre diceva, ma passa-vamo la selva tuttavia, la selva, dico, di spiriti spessa.

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Non eravamo molto lontani dall’entrata dell’abisso,quando vidi un fuoco che un emisfero di tenebre tra-passava. Pochi passi ancora ci separavano, ma già pote-vo discernere che spiriti illustri abitavano quel luogo.

«– Oh tu, che onori ogni scienza ed arte, questi chisono a cui fanno tanto onore da separarli dalla sortedegli altri?

«E quegli mi rispose: – La bella fama che di lorosuona lassù nella tua vita, grazia acquista nel cielo, cheli distingue dagli altri.

«Intanto una voce fu da me udita: “Onorate l’altis-simo poeta; l’ombra sua torna, che era partita”.

«La voce tacque, ed io vidi venire a noi quattro gran-di ombre; che sembianza avevano né triste né lieta.

«Il buon maestro cominciò a dire: – Guarda colui cheviene, con la spada in mano, dinanzi ai tre, sì come sire:quegli è Omero, poeta sovrano; l’altro che lo segue èOrazio satirico, Ovidio è il terzo, e l’ultimo è Lucano.Poiché ciascuno di loro divide con me il nome che hafatto risuonare la voce umana, essi mi fanno onore e, diciò, fanno bene.

«Cosí vidi adunar la bella scuola di quel signore del-l’altissimo canto che sopra gli altri come aquila vola. Dache ebbero ragionato insieme alquanto, si volsero a mecon salutevol cenno, e il mio maestro sorrise di questo.E mi fecero ancora più onore, poiché mi accolsero nellaloro schiera; sí che io fui sesto fra tanto senno13 . . . . .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .»

Non intendo fare a E. Delacroix il torto di un elogioeccessivo avendo egli superato cosí perfettamente laconcavità della tela da costruirvi figure ortogonali. Il suotalento è al di sopra di cose del genere. Ciò che m’inte-ressa soprattutto è lo spirito della sua pittura. È impos-sibile esprimere in prosa tutta la felice pacatezza che vialita, e l’armonia profonda che fluisce in questa atmo-

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sfera. Si pensa alle pagine più rigogliose del Telémaque,e tornano alla mente tutti i ricordi che lo spirito si portacon se dai racconti edenici. Il paesaggio, che pure è sol-tanto un accessorio, costituisce, dal punto di vista cheassumevo poc’anzi, – l’universalità dei grandi maestri,– una delle cose più rilevanti. E questo paesaggio circo-lare, che abbraccia un cosí vasto spazio, è dipinto conla fermezza di un pittore di scene storiche, e con lafinezza e l’amore di un paesaggista. Boschetti di lauro,corposi fogliami lo dividono armoniosamente; lembi disole dolce e uniforme si posano sui prati; montagneazzurre o coronate di boschi tracciano un orizzonte afantasia per il piacere degli occhi. Il cielo, poi, è azzurroe bianco, come è raro in Delacroix; le nuvole, stempe-rate e tratte in diverse direzioni come una garza che sistrappa, riescono di una levità somma; e la volta del-l’azzurro, profonda e colma di luce, si allontana a unaprodigiosa altezza. Gli acquerelli di Bonington sonomeno trasparenti.

Penso che questo suo capolavoro supera i piú beiVeronese, ma che per essere compreso, richieda unagrande tranquillità d’animo e una luce dolcissima.Disgraziatamente, il lume sfolgorante che piomberà dalfinestrone della facciata, non appena sarà liberata daiteloni e dalle impalcature, ne renderà la lettura piú dif-ficile.

Quest’anno i quadri di Delacroix sono l’Enlevementde Rèbecca [Ratto di Rebecca], dall’Ivanhoe, gli Adieuxde Romeo et Juliette [Addii di Romeo e Giulietta], Mar-guerite à l’église [Margherita in chiesa] e Un lion [Unleone], all’acquerello.

Suscita stupore nell’Enlèvement de Rèbecca, una per-fetta partitura dei toni, intensi, fitti, serrati e coerenti,che dànno luogo a una figurazione penetrante. In quasitutti i pittori non coloristi, si avvertono immancabil-mente dei vuoti, come dire delle grandi lacune prodot-

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te da toni fuori registro, per cosí dire; ma la pittura diDelacroix è come la natura, ha orrore del vuoto.

Roméo et Juliette, – sul balcone, – nelle chiarità fred-de del mattino, si tengono religiosamente abbracciatialla vita. Nella stretta violenta dell’addio, Giulietta,mentre le sue mani si posano sulle spalle dell’amato,getta indietro la testa, quasi per respirare o per un motodi orgoglio e di passione gioiosa. La posizione incon-sueta, – giacché quasi tutti i pittori incollano le bocchedegli amanti l’una contro l’altra, – è nondimeno estre-mamente naturale; – la torsione vigorosa della nuca ètipica dei cani e dei gatti beati di ricevere una carezza.– I vapori violacei del crepuscolo avvolgono la scena eil paesaggio romantico che la suggella.

L’unanime successo che il quadro riscuote e la curio-sità che suscita provano perfettamente quanto mi è giàoccorso di dire – che Delacroix è popolare, qualunquecosa ne dicano i pittori, e basta non tenere lontano ilpubblico dalle sue opere perché gli arrida una popolaritàpari a quella dei pittori che non sono alla sua altezza.Marguerite a l’église rientra in quel gruppo già numero-so di deliziosi quadri di genere, coi quali Delacroix sem-bra voler spiegare al pubblico le sue litografie, accoltecon critiche cosí aspre.

Il leone all’acquerello ha ai miei occhi una grandevirtú, che si aggiunge alla bellezza del disegno e dell’at-teggiamento: quella di essere eseguito con grande sem-plicità. L’acquerello è ricondotto al suo ruolo modesto,e non pretende di avere la dimensione di un olio.

Per concludere la mia analisi, mi resta solo da rilevareun’ultima qualità, quella di maggiore spicco, che fa diDelacroix il vero pittore del xix secolo: una malinconiaunica e pertinace che esala da ogni sua opera, e si espri-me con la scelta dei soggetti, con l’espressione dellefigure, col gesto, e con lo stile del colore. Delacroix pre-dilige Dante e Shakespeare, due altri grandi pittori del

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dolore umano; li conosce a fondo, e sa tradurli con libe-ra intelligenza. Quando si guarda la serie dei suoi qua-dri, sembra di assistere, si direbbe, alla celebrazione diun mistero doloroso: Dante et Virgile, Le Massacre deScio, il Sardanapale, il Christ aux Oliviers, il Saint Séba-stien, la Médée [Medea], Les Naufrages [I Naufraghi], el’Hamlet, che si è tanto deriso e cosí poco compreso. Inmolti di essi, per non so quale ripetersi del caso, vi èsempre una figura più desolata, piú affranta delle altre,nella quale si riassumono tutti i dolori che la circonda-no; cosí la donna inginocchiata, dai capelli disciolti, inprimo piano nei Croises a Constantinople [Crociati aCostantinopoli]; la vecchia, triste e rugosa, nel Massacrede Scio. Una tale malinconia penetra sin nelle Femmesd’Alger, il quadro piú brillante e piú fiorito di Delacroix.Questo poemetto d’interno, pieno di quiete e di silen-zio, saturo di preziose stoffe e di ninnoli da toeletta,esala non so che acre profumo di luogo equivoco che citrasporta di colpo verso i limbi insondati della tristez-za. In genere, l’artista non dipinge donne avvenenti,almeno secondo il giudizio del bel mondo. Quasi tuttesono malate, e si illuminano di una certa bellezza inte-riore. Delacroix non esprime la forza con l’ampiezza deimuscoli, ma con la tensione dei nervi. Ciò che gli rie-sce, si badi, di esprimere meglio non è soltanto il dolo-re, ma più ancora, – prodigioso mistero della sua pittu-ra, – il dolore morale! Questa alta e severa malinconiarifulge di un cupo splendore, anche nel colore, che èlargo, semplice, copioso nelle sue masse armoniche, alpari di quello di tutti i grandi coloristi, e però lugubree profondo come una melodia di Weber.

Gli antichi maestri hanno ciascuno il proprio domi-nio, il proprio feudo, – che spesso sono obbligati a con-dividere con illustri rivali. Raffaello possiede la forma,Rubens e il Veronese il colore Rubens e Michelangelol’immaginazione del disegno. Restava ancora una parte

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del territorio, in cui solo Rembrandt aveva compiutoqualche incursione, – il dramma, – il dramma naturalee vivente, terribile e malinconico, espresso spesso dalcolore, ma sempre dal gesto.

In materia di gesti sublimi, Delacroix ha rivali soloal di fuori della propria arte. Non conosco altri che Fre-derick Lemaître e Macready14.

Per tale qualità cosí interamente nuova e moderna,Delacroix è l’ultima espressione del progresso dell’arte.Erede della grande tradizione, voglio dire della magnifi-cenza, della nobiltà e del fasto nella composizione, edegno successore dei vecchi maestri, egli ha piú di lorol’arte di manovrare il dolore, la passione, il gesto! E pro-prio questo dà spicco alla sua grandezza. – In effetti,supponendo che vada perduto il patrimonio di uno deigrandi antichi, si troverà quasi sempre un suo equivalentein grado di spiegarlo e farlo intuire al pensiero dello sto-rico. Ma se si sopprime Delacroix, allora la grande cate-na della storia si spezza e rovina infranta a terra.

In un articolo che arieggia più una profezia che nonuna critica, non serve a nulla individuare errori di det-taglio e mende microscopiche. L’insieme è cosí bello datogliermene l’ardire. E d’altronde è una cosa cosí faci-le, tanti altri hanno potuto farlo! – Non è piú nuovo fis-sare la gente dalla loro faccia positiva? I difetti di Dela-croix sono a volte cosí appariscenti che anche l’occhiomeno esercitato li scorge immediatamente. Basta aprirea caso il primo foglio che capita, dove per troppo tempoci si è ostinati, al contrario di quanto propone il miosistema, a non vedere le qualità radiose che fanno la suaoriginalità. È noto che i grandi geni non si sbagliano maia metà, e hanno il privilegio dell’enorme in ogni senso.

Fra gli allievi di Delacroix, alcuni si sono felicemen-te impadroniti di quanto si può captare del suo talento,cioè alcune parti del suo metodo, e si sono già fatti un

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qualche nome. Tuttavia, nel loro caso, il colore ha gene-ralmente il torto di mirare solo al pittoresco e all’effet-to; l’ideale non è affatto la loro partita, quantunquefacciano di buon grado a meno della natura, senza aver-ne acquisito il diritto attraverso gli studi arditissimi delmaestro.

Quest’anno si è notata l’assenza di Planet, la cuiSainte Therèse [Santa Teresa] aveva attirato l’attenzionedegli studiosi all’ultimo Salon, – e di Riesener, che spes-so ha fatto quadri di un colore spazioso, e di cui si pos-sono ammirare con piacere alcuni soffitti alla Camera deipari, nonostante la terribile vicinanza di Delacroix.

Léger Chérelle ha mandato Le Martyre de sainte Irène[Il Martirio di sant’Irene]. Il quadro è composto di unasola figura e di una lancia dall’effetto piuttosto sgrade-vole. Peraltro, il colore e il modellato del torso sonocomplessivamente buoni. Ma ho l’impressione che LégerChérelle abbia già mostrato al pubblico lo stesso quadrocon lievi varianti.

Colpisce ne La Mort de Cléopâtre [La Morte di Cleo-patra] di Lassalle-Bordes, il fatto che non vi si trovi unapreoccupazione esclusiva del colore, e probabilmente èun merito. I toni sono, per cosí dire, ambigui, di unacupezza non priva di fascino.

Cleopatra spira sul trono, e l’inviato di Ottavio sichina a guardarla. Una delle sue schiave e appenamorta ai suoi piedi. La composizione non manca dimaestà, la pittura è condotta con una probità in certamisura audace; la testa di Cleopatra ha una sua bellez-za, e la tunica verde e rosa della negra contrasta feli-cemente con il colore della pelle. In questa grande telaportata a buon termine senza intento di imitazione, viè senza dubbio qualcosa che piace e attrae lo sfaccen-dato contemplativo.

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Dei soggetti amorosi e di Tassaert

Vi è mai capitato, come a me, di cadere in profondemalinconie, dopo aver trascorso ore e ore a sfogliaredelle stampe libertine? Vi siete mai chiesti il motivo delfascino che a volte si prova passando tra le mani questiannali della lussuria, sepolti nelle biblioteche o finitinelle cartelle degli antiquari, e talvolta anche dello scon-tento che vi lasciano? Piacere misto a dolore, amarezzadi cui le labbra sempre hanno sete! – Il piacere nasce dalvedere raffigurato, in tutte le sue forme il sentimentodominante della natura, – e la bile, dal trovarlo spessocosí mal riprodotto o tanto stupidamente calunniato. Sianelle interminabili sere d’inverno accanto al fuoco, sianegli ozi opprimenti della canicola, all’angolo dei nego-zi di vetraio, la vista di questi disegni mi ha sospintosulla china immensa del fantasticare, quasi quanto unlibro osceno ci precipita verso i mistici oceani dell’az-zurro. Quante volte, davanti a quegli innumerevoliesemplari del sentimento che è di ognuno, mi sono sor-preso a desiderare che il poeta, il curioso, il filosofo,potessero procurarsi il godimento di un museo dell’a-more, ove tutto trovasse il suo posto, dalla tenerezzasenza oggetto di santa Teresa fino alle dissolutezze cor-pose dei secoli di tedio. Non vi ha dubbio che immen-sa è la distanza che separa Le Départ pour l’île de Cythè-re [La Partenza per l’isola di Citera]15 dalle povere oleo-grafie appese nelle stanze delle prostitute, sopra un vasoincrinato e una mensola traballante; ma in un tema cosíimportante nulla può essere trascurato. E per di più ilgenio santifica qualsiasi cosa, e se questi soggetti fosse-ro trattati con la cura e la meditazione necessarie, nonsarebbero punto lordati da quell’oscenità rivoltante, chepiú ancora che una verità, è una millanteria.

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Non si spaventi troppo il moralista; saprò rispettarele giuste misure, e in fondo il mio sogno si limitava adesiderare questo poema immenso dell’amore disegnatodalle mani più pure, da Ingres, da Watteau, da Rubens,da Delacroix! Le principesse folli ed eleganti di Wat-teau, accanto alle Veneri composte e pacate di Ingres;gli splendenti candori di Rubens e di Jordaens, e le cupebellezze di Delacroix, quali possiamo figurarcele: gran-di donne pallide che affondano nel raso16!

Ma per finire di rassicurare la pudicizia sgomenta dellettore, dirò che includerei tra i soggetti amorosi, nonsolo tutti i quadri che trattano in particolare l’amore, maanche ogni quadro che spira un’aria d’amore, fosse pureun ritratto17.

In questo sterminato museo, mi fingo la bellezza e l’a-more di tutte le latitudini, raffigurati dai grandi maestri;dalle vaporose, stravaganti e fiabesche creature che ci halasciato Watteau figlio nelle incisioni di moda, sino alleVeneri di Rembrandt che si fanno fare le unghie, comesemplici mortali, e pettinare con un gran pettine dibosso.

I soggetti di questo genere sono cosí importanti, chenon c’è artista, piccolo o grande, che non vi si sia cimen-tato, in segreto o in pubblico, da Giulio Romano sino aDevéria e Gavarni.

Il loro vero difetto, in genere, è la mancanza di inge-nuità e sincerità. Ricordo nondimeno una litografia cheesprime, – purtroppo senza molta finezza, – una dellegrandi verità dell’amore libertino. Un giovane travesti-to da donna e la sua amante in abiti maschili sono sedu-ti l’uno accanto all’altra sopra un sofà, – il sofà checonoscete, il sofà delle camere ammobiliate e dei salot-ti riservati. La giovane donna vuole sollevare le sottanedel compagno18. – Nel nostro museo ideale questa pagi-na di lussuria troverebbe compenso in tante altre dove

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l’amore non si mostrerebbe se non nel suo volto più deli-cato.

Tali riflessioni mi sono tornate alla mente dinanzi adue quadri di Tassaert, Érigone [Erigone] e Le Marchandd’esclaves [Il Mercante di schiave].

Tassaert, di cui ho avuto la colpa di non parlare comesi conviene l’anno scorso, è un pittore del massimo meri-to, il cui talento potrebbe dedicarsi con la più grandefortuna ai soggetti amorosi.

Erigone è semiriversa su un poggio ombreggiato diviti, – in una posa provocante, una gamba quasi piega-ta, l’altra diritta e il corpo proteso in avanti; il disegnoè fine, le linee sinuose e accordate in modo sapiente. Mavorrei rimproverare a Tassaert, che è colorista, di averedipinto il torso con un tono troppo uniforme.

L’altro quadro raffigura un mercato di donne inattesa di essere vendute. Sono donne vere, donne dellanostra civiltà, dai piedi arrossati per le calzature, unpoco comuni, un poco troppo rosee, che un turco ottu-so e sensuale si accinge a comprare quali bellezze super-lative. Quella che si vede di dorso, le natiche avvoltein un velo trasparente, ha ancora sul capo un cappelli-no di modista, acquistato in Rue Vivienne o al Tem-ple. La povera ragazza è stata sicuramente rapita daipirati.

Il colore del quadro s’impone per la finezza e la tra-sparenza dei toni. Si direbbe che Tassaert abbia volutoseguire la maniera di Delacroix; e nondimeno conservaalla fine un colore originale.

Si tratta di un artista eminente che apprezzano sologli eccentrici perdigiorno e che il pubblico non conosceabbastanza; il suo talento è andato sempre crescendo, equando si pensa donde sia partito e dove sia arrivato, c’eragione di aspettarsi da lui suggestive composizioni.

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Di alcuni coloristi

Vi sono al Salon due curiosità di qualche rilievo: iritratti di Petit Loup [Piccolo Lupo] e di Graisse du dosde buffle [Grasso di dorso di bufalo], dipinti da Catlin,la guida dei selvaggi. Quando Catlin sbarcò a Parigi, coni suoi uomini dello Iowa e il suo museo, si sparse la voceche fosse un brav’uomo che non sapeva né dipingere nédisegnare, e che se aveva fatto qualche bozzetto passa-bile, lo doveva al suo coraggio e alla sua pazienza. Eraastuzia innocente di Catlin o stupidità dei giornalisti?– È oggi accertato che Catlin sa dipingere e disegnarequanto mai bene. Basterebbero questi due ritratti a dar-mene la prova, se la memoria non mi facesse sovveniredi molti altri lavori altrettanto belli. Soprattutto mi ave-vano colpito i suoi cieli per la loro levità e la loro tra-sparenza. Catlin ha reso in modo supremo il caratterelibero e fiero, l’espressione nobile di questa stirpe corag-giosa; la struttura delle teste è di un’intelligenza per-fetta. Con le loro pose decorose e la scioltezza dei movi-menti, questi selvaggi rendono comprensibile la scultu-ra antica. E il colore ha qualcosa di misterioso che mipiace più di quanto non sappia dire. Il rosso, il coloreche è del sangue, il colore della vita, bulicava a tal puntonel fosco museo di Catlin, da dare una vertigine diebrezza; i paesaggi poi, – montagne boscose, immensesavane, fiumi solitari, – erano di un verde monotono,eterno; il rosso, colore cosí scuro e così denso, più dif-ficile da penetrare che gli occhi di un serpente, – ilverde, colore pacato e gaio e ridente della natura, liritrovo a cantare la loro antitesi melodica dritto sulvolto dei due eroi. – Sta di fatto che i loro tatuaggi e leloro striature risultavano eseguite in modo conformealle gamme naturali e armoniche.

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Credo che a indurre in errore il pubblico e i giorna-listi nei riguardi di Catlin, sia il fatto che egli non ci dàuna pittura fanfarona, quale quella a cui tutti i nostri gio-vani artisti li hanno cosí bene abituati che adesso risul-ta la pittura classica.

Già l’anno scorso ho protestato contro l’unanime Deprofundis, contro la congiura degli ingrati, a propositodei Devéria. E il nuovo anno mi ha dato ragione. Moltefame precoci che gli sono state sostituite non valgonoancora la loro. Achille Deveria soprattutto si è fattonotare al Salon del 1864 per un quadro, Le Repos de lasainte famille [Il Riposo della sacra famiglia], che nonsolo conserva tutta la grazia propria di questi ingegniaffascinanti e fraterni, ma ricorda anche le severe virtúdelle scuole di un tempo; – delle scuole di second’ordi-ne forse, che non si affermano per l’appunto né per ildisegno né per il colore, ma che l’intavolatura e la bellatradizione collocano tuttavia tanto al di sopra deglieccessi tipici delle epoche di transizione. Nella grandebattaglia romantica, i Devéria militarono nel battaglio-ne santo dei coloristi; perciò qui era il loro posto. – Vaaggiunto che il quadro di Achille Devéria, la cui com-posizione è eccellente, colpisce poi lo spirito con unaspetto dolce e armonioso.

Boissard, i cui esordi furono altrettanto brillanti e ric-chi di promesse, è uno di quegli spiriti che eccellono etrovano nutrimento negli antichi maestri; la sua Made-leine au desert [Maddalena nel deserto] è un dipinto dirobusto e buon colore, – fatta eccezione per i toni dellecarni un poco tristi. L’atteggiarsi delle figure viene daun’invenzione felice.

In questo Salon senza fine, dove più che mai scom-paiono le differenze, e ognuno disegna e dipinge la suaparte, ma non abbastanza da meritare neppure d’essereclassificato, – è una vera gioia incontrare un pittoreschietto e autentico come Debon. Forse il suo Concert

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dans l’atelier [Concerto nello studio] è un quadro un po’troppo artistico, in cui si sentono Valentin, Jordaens ealtri ancora; ma perlomeno si tratta di bella e solida pit-tura, da indicare nell’autore un uomo interamente sicu-ro di sé.

Duveau ha all’attivo Le Lendemain d’une tempête [IlGiorno dopo una tempesta]. Non so se egli possa diven-tare uno schietto colorista, ma alcune parti del quadrolo fanno sperare. – Al primo contatto, si cerca nellamemoria quale possa essere la scena storica che vi è rap-presentata. In effetti, solo gli Inglesi hanno il coraggiodi dare proporzioni cosí vaste al quadro di genere. –D’altro canto, quello di Duveau è di bella partitura com-plessivamente. – Il tono un po’ troppo uniforme, chedapprincipio urta l’occhio, è senz’ombra di dubbio uneffetto della natura, i cui aspetti appaiono tutti di unastrana crudezza dopo il lavacro della pioggia.

La Charité [La Carità] di Laemlein è una donna stu-penda, che tiene per mano, e porta attaccati al seno, deimarmocchi di tutti i continenti, bianchi, gialli, neri,ecc... Certo Laemlein ha il senso del colore pieno; manel quadro vi è un grave difetto, in quanto il Cinesinoè cosí grazioso, e la sua veste cosí piacevole alla vista daassorbire quasi esclusivamente l’occhio dello spettatore.Il piccolo mandarino continua a sgambettare nellamemoria, ed è destinato a far dimenticare a parecchitutto il resto.

Decamps è di quegli artisti che da più anni hanno cat-turato dispoticamente la curiosità del pubblico, e nullaera piú legittimo.

In possesso di una mirabile facoltà di analisi, egligiungeva spesso, per un felice concorso di piccoli mezzi,a risultati di un effetto potente. – Se evitava più deldovuto il particolare della linea, e si accontentava moltevolte del movimento o del contorno generale, se talorail suo disegno rasentava il prezioso, – il gusto minuto

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della natura, studiata soprattutto nei suoi effetti lumi-nosi, lo aveva sempre salvato e tenuto in una regione piúalta.

Se Decamps non era propriamente un disegnatore,nel senso che in genere si dà al termine, tuttavia lo eraalla sua maniera e in una forma particolare. Nessuno havisto grandi figure che egli abbia disegnate; ma è certoche il disegno, cioè la geometria fluida dei suoi figurini,era accentuata e colta con un’arditezza e una felicità diforte evidenza. Il carattere e gli atti abituali dei corpirisultavano sempre visibili; poiché Decamps sa far capi-re un personaggio con alcuni tratti. I suoi schizzi eranodivertenti e profondamente comici, disegno di un uomodi spirito, quasi di un caricaturista; possedeva infattinon so quale buon umore o fantasia beffarda, che si lega-va perfettamente alle ironie della natura: cosí i suoi per-sonaggi erano sempre atteggiati, drappeggiati o vestitisecondo la verità e le convenienze e gli usi eterni del loroessere individuale. Solo che v’era nel suo disegno unacerta immobilità, non spiacevole del resto e tale da com-pletare il suo orientalismo. Di solito egli riprendeva isuoi modelli da fermi, e quando correvano, somigliava-no spesso a ombre sospese o a sagome arrestate di colponella propria corsa; e correvano come in un bassorilie-vo. Ma il colore era la sua parte migliore, la sua grandee unica partita. Non vi è dubbio che Delacroix sia ungrande colorista, ma senza accanimenti. Ha ben altriproblemi, e cosí vuole la dimensione delle sue tele; perDecamps invece il colore era la cosa suprema, il suo pen-siero favorito, per cosí dire. Il colore splendido e sfa-villante aveva inoltre uno stile del tutto particolare.Era, per usare parole della sfera morale, sanguinario emordente. I piatti piú appetitosi, le stramberie cucina-te con il massimo di riflessione, i prodotti culinari piùfortemente speziati avevano meno sugo e condimento,esalavano meno voluttà istintiva per l’odorato e le papil-

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le di un goloso, di quanto non facessero i quadri diDecamps per un amatore di pittura. La stranezza delloro aspetto bloccava e incatenava ispirando un’invin-cibile curiosità. Forse dipendeva dai procedimenti sin-golari e minuziosi di cui si serve spesso l’artista, il qualestrologa, si dice, la sua pittura con la volontà instanca-bile di un alchimista. L’impressione che si producevaquindi sull’animo dello spettatore era cosí improvvisa enuova, che riusciva difficile immaginare da chi quellapittura fosse nata, chi avesse tenuto a battesimo un arti-sta cosí unico, e da quale bottega fosse venuto fuori ilsuo talento inedito e solitario. – Si può star certi che diqui a cento anni, gli storici avranno il loro da fare a risa-lire al maestro di Decamps. – Egli muoveva in alcuni casidai vecchi maestri piú intrepidamente coloristi dellascuola fiamminga; ma aveva piú stile di loro e ordinavale figure con maggiore armonia; in altri casi, il suo pen-siero fisso erano il fasto e la volgarità di Rembrandt; ein altri ancora, si riscopriva nei suoi cieli un ricordo amo-roso di quelli del Lorrain. Decamps, infatti, era pure unpaesaggista, e paesaggista di grandissimo valore: i suoipaesaggi e le sue figure formavano sempre un’unità e sisostenevano a vicenda. I paesaggi non contavano piúdelle figure, e nulla riusciva accessorio, tanto ogni partedella tela era elaborata con attenzione e ogni particola-re chiamato a concorrere all’effetto dell’insieme! –Niente era inutile, né il topo che attraversa a nuoto unavasca in non ricordo quale quadro di soggetto turco,indolente e pieno di fatalismo, né gli uccelli rapaci chesi librano sullo sfondo di quel capolavoro che è Le Sup-plice des crochets [Il Supplizio dei ganci].

Il sole e la luce avevano allora una notevole partenella pittura di Decamps. Nessuno come lui studiava conpari cura gli effetti dell’atmosfera. Amava sopra ognicosa i giochi piú bizzarri e più inverosimili dell’ombra edella luce. In un quadro di Decamps, il sole bruciava sul

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serio i muri bianchi e le sabbie gessose, e tutti gli ogget-ti colorati possedevano una trasparenza viva e raggian-te. Le acque erano di una profondità indicibile; le gran-di ombre che tagliano gli angoli delle case e dormonostese sul suolo o sull’acqua avevano un’indolenza eun’accidia di ombre indefinite. Nell’incanto di questanatura sorprendente si agitava o sognava una poveraumanità, tutto un piccolo mondo con il suo vero, nati-vo e comico.

I quadri di Decamps erano dunque pervasi di poesiae spesso d’immaginazione sognante; ma quello che altri,come Delacroix, avrebbero concepito con un grandedisegno, con la scelta di un modello originale o un colo-re largo e fluente, Decamps lo otteneva con la forza inti-ma del particolare. Il solo appunto, in effetti, che gli sipoteva muovere, era di studiare troppo l’esecuzionemateriale degli oggetti; le sue case erano proprio digesso, legno, come i suoi muri di vera malta di calce; edinanzi a questi capolavori si restava spesso rattristatinell’animo all’idea dolorosa del tempo e della fatica cheavevano richiesti. Quanto sarebbero stati più belli seeseguiti con un’altra semplicità!

L’anno scorso, quando Decamps, munito d’una mati-ta, scese in gara con Raffaello e Poussin, – gli sfaccen-dati entusiasti del piano e dell’alpe, quelli che hanno uncuore grande come il mondo, ma non vogliono appen-dere le zucche ai rami delle querce, gli sfaccendati cheavevano tutti una passione per Decamps come uno degliesseri piú singolari della creazione, si sono detti: «SeRaffaello toglie il sonno a Decamps, addio ai nostriDecamps! Chi li farà d’ora in poi? – Ahime! Guignete Chacaton».

Eppure Decamps è ricomparso quest’anno con figu-razioni di ambiente turco, paesaggi, quadri di genere eun Effet de pluie [Effetto di pioggia]; ma bisognava pro-prio cercarli: non saltavano piú agli occhi.

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Decamps, il quale sa cosí ben dipingere il sole, nonvi è riuscito con la pioggia; e in piú ha fatto nuotare delleanatre nella pietra. L’École turque [La Scuola turca], tut-tavia, ha l’aria dei suoi quadri migliori; ritornano i beifanciulli che conosciamo, e l’atmosfera assolata e pol-verosa di una stanza dove il sole vuole entrare in tuttala sua luce.

Mi sembra cosí facile consolarci con i superbi Decam-ps che adornano le gallerie, che rinuncio a un’analisi deidifetti degli altri. Sarebbe un’impresa puerile, che tuttidel resto possono fare benissimo.

Fra i quadri di Penguilly-L’Haridon, che sono tuttidi buona fattura – piccoli quadri eseguiti con un toccolargo, e tuttavia con finezza, – uno soprattutto si lasciaguardare e attira lo sguardo: Pierrot présente à l’assembléeses compagnons Arlequin et Polichinelle [Pierrot presen-ta al pubblico i suoi compagni Arlecchino e Pulcinella].

Pierrot, con un occhio aperto e l’altro chiuso, nellasua tradizionale aria sorniona, mostra al pubblico Arlec-chino che avanza sbracciandosi in salamelecchi d’obbli-go, una gamba protesa spavaldamente in avanti. Losegue Pulcinella, – il volto leggermente avvinazzato,l’occhio piú che fatuo, e due povere gracili gambe ingrandi zoccoli. Una figura ridicola, di naso enorme,grandi occhiali e gran mustacchi all’insù, spunta tra duequinte. – Il complesso è di uno splendido colore, raffi-nato e semplice, e i tre personaggi spiccano perfetta-mente su un fondo grigio. La suggestione del quadroviene assai meno dall’aspetto che non dalla composizio-ne, la quale è di una semplicità portata all’estremo. – IlPulcinella, che è essenzialmente comico, ricorda quellodello «Charivari» inglese, che accosta l’indice dellamano alla punta del naso, per esprimere quanto ne siafiero o imbarazzato. Il rimprovero che faccio a Pen-guilly è di non aver adottato il tipo di Deburau, che è ilvero Pierrot di oggi, il Pierrot della storia moderna, a

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cui spetta di diritto un posto in tutti i quadri di scenemimiche.

Ma eccoci ora a un’altra fantasia molto meno abile emeno sapiente, tanto piú bella in quanto è forse invo-lontaria: La Rixe des mendiants [La Rissa dei mendican-ti] di Manzoni. Non ho mai visto nulla di cosí poetica-mente brutale, neppure nelle orge più fiamminghe. –Elenco in sei punti le differenti impressioni del visita-tore al cospetto di questo quadro: 1° viva curiosità; 2°che orrore! 3° è dipinto male, ma è una composizionesingolare, non priva di fascino; 4° non è poi dipinto cosímale come si penserebbe alla prima vista; 5° riguardia-moci dunque il quadro; 6° ricordo durevole.

Vi si coglie una ferocia e una brutalità di manieraquanto mai appropriate al soggetto, da far ricordare laviolenza di certi bozzetti di Goya. – Sono invero lefacce più patibolari che sia dato vedere: un miscugliostrano di cappelli sfondati, di gambe di legno, di bic-chieri infranti, di bevitori distrutti; e la lussuria, la fero-cia e l’ubriachezza mettono sottosopra i loro stracci.

La bellezza rubiconda che incendia i desideri di que-sta umanità è di un buon tocco, e tale da piacere agliintenditori. Di rado ho visto qualcosa di cosí comicocome quel poveraccio schiacciato contro il muro, che ilcompare con un forcone inchioda senza scampo.

Il secondo quadro L’Assassinat nocturne [L’Assassinionotturno], invece, ha una figurazione meno inconsueta.Il colore è spento e sciatto, e il fantastico si affida soloalla maniera in cui la scena viene rappresentata. Unmendicante alza un coltello sopra un disgraziato che,perquisito, sembra morire di paura. I loro mascheronigessosi, dominati da nasi giganteschi, di un buffo inten-so, dànno alla scena di terrore un’impronta delle piú sin-golari.

Villa-Amil ha dipinto la Salle du trône [Sala del trono]a Madrid. A prima vista si direbbe che il quadro sia but-

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tato giù molto alla brava; ma guardando piú attenta-mente, si riconosce una grande abilità nella composi-zione e nel colore dell’insieme. È una pittura decorati-va di un tono forse meno fine, ma di un colore più soli-do dei quadri dello stesso genere che predilige Roberts.Il male è tuttavia che il soffitto somiglia meno a un sof-fitto che non a un vero cielo.

Wattier e Pérèse trattano generalmente soggetti quasisimili, delle splendide dame in antichi costumi nei par-chi, sotto piante secolari; ma Pérèse ha dalla sua il meri-to di dipingere con semplicità assai maggiore, e di nonessere destinato dal nome a fare la scimmia di Watteau.Nonostante la studiata finezza delle figure di Wattier,Pérèse gli è superiore nell’invenzione. D’altronde tra leloro composizioni corre la stessa differenza che distin-gue la galanteria dolciastra del tempo di Luigi XV dallaschietta galanteria del secolo di Luigi XIII.

La scuola Couture, – ché bisogna chiamarla col suonome, – ha dato sin troppo quest’anno.

Diaz de la Peña, che è in piccolo l’espressione iper-bolica di questa piccola scuola, parte dal principio cheuna tavolozza è un quadro. Quanto all’armonia com-plessiva, Diaz è convinto che la si trovi sempre. Per ildisegno, – il disegno del movimento, il disegno dei colo-risti, – non c’è neanche da parlarne; le membra di tuttequeste figurine stanno su all’incirca come certi fagottidi stracci o come braccia e gambe disseminate dall’e-splosione di una locomotiva. – Preferisco il caleidosco-pio, perché non produce Les Délaissées [Le Abbandona-te] o Le jardin des Amours [Il Giardino degli Amori], mafornisce disegni per scialli e tappeti, secondo il proprioruolo modesto. – Diaz è un colorista, è vero; ma provaad allargare di un palmo il suo quadro, allora le forze glivengono meno poiché egli ignora la necessità di un colo-re d’insieme. E per questo i suoi quadri non lascianoombra di ricordo.

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A ciascuno la sua parte, dici. La grande pittura nonè da tutti. Un buon pranzo ha i suoi piatti forti e i suoiantipasti. Vorresti storcere il naso davanti alla salsicciadi Arles, ai peperoncini, alle acciughe, alla maioneseall’aglio, ecc.? – Antipasti appetitosi, dici? – Ma no,confetture e dolciumi stomachevoli. – Chi amerebbenutrirsi di dolce? Un piccolo assaggio è già abbastanzaquando si è soddisfatti del proprio pranzo.

Célestin Nanteuil sa disporre una pennellata, ma nonstabilire le proporzioni e l’armonia di un quadro.

Verdier dipinge con ragionevolezza, ma per me è nelfondo nemico del pensiero.

Müller, l’uomo dei Sylphes [Silfi], il grande appassio-nato dei soggetti poetici, – dei soggetti grondanti di poe-sia, – ha composto un quadro dal titolo Primavera. Chinon sa l’italiano crederà che questo nome voglia direDecameron.

Il colore di Faustin Besson perde molto a non esserepiú alterato e riflesso dai vetri della bottega Deforge.

Quanto a Fontaine, è evidente che è un uomo serio;ci ha dipinto Béranger attorniato di marmocchi dei duesessi, in atto di iniziarli ai misteri della pittura Couture.

Grandi misteri, parola mia! – una luce rosa o colorpesca e un’ombra verde, ecco in cosa consiste la diffi-coltà di tutta l’operazione. – L’atroce di tale pittura èche si fa vedere: la si scorge da molto lontano.

Dell’intero gruppo, il piú sfortunato è senza falloCouture, a cui tocca in tutto questo il ruolo interessan-te di una vittima. – Un imitatore è un indiscreto chemette in vendita una sorpresa.

Nelle differenti specialità dei soggetti basso-bretoni,catalani, svizzeri, normanni, ecc., Armand e AdolpheLeleux sono superati da Guillemin, che è inferiore aHédouin, il quale a sua volta sta dietro ad Haffner.

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Più di una volta ho sentito rivolgere ai Leleux que-sto curioso rimprovero: svizzeri e spagnoli o bretoni,tutti i loro personaggi hanno l’aria di Bretagna.

Hédouin è sicuramente un pittore di merito, che pos-siede una solida pennellata e capisce il colore; non hodubbi che egli riuscirà a costruirsi un’originalità tuttasua.

Quanto a Haffner, non gli posso perdonare di aver-ci dato in altri tempi un ritratto in uno stile romanticoe superbo, e di non averne fatti altri; credevo che fosseun grande artista ricco di poesia e soprattutto d’inven-zione, un ritrattista di prim’ordine, che si lasciava anda-re a qualche crosta nelle ore morte; ma sembra che eglisia solo un pittore.

vii

Dell’ideale e del modello

Siccome il colore è la cosa più naturale e visibile, ilpartito dei coloristi è il piú numeroso e importante. L’a-nalisi, che facilita i mezzi di esecuzione, ha sdoppiato lanatura in colore e linea, e prima di procedere allo scru-tinio degli uomini che formano il secondo partito, credoora utile spiegare alcuni dei principî che li guidano, avolte persino a loro insaputa.

Il titolo di questo capitolo è una contraddizione omeglio un accordo di contrari; in quanto il disegno delgrande disegnatore deve riassumere l’ideale e il model-lo.

Il colore è fatto di masse cromatiche, costituite daun’infinità di toni, la cui armonia crea l’unità: cosí lalinea, che ha le sue masse e le sue generalità, si suddi-vide in un gran numero di linee particolari, ciascunadelle quali è un carattere del modello.

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La circonferenza, ideale della linea curva, è compa-rabile a una figura analoga composta da un’infinità dilinee rette, che deve confondersi con essa, mentre gliangoli interni divengono sempre piú ottusi.

Ma poiché non si dà circonferenza perfetta, l’idealeassoluto è un’idiozia. Il gusto esclusivo del sempliceporta l’artista inetto all’imitazione dello stesso tipo. Ipoeti, gli artisti e tutto il genere umano sarebbero pro-prio infelici, se fosse dato di trovare l’ideale, questoassurdo, questo impossibile. Che cosa ne farebbe il sin-golo del suo povero io, – della sua linea spezzata?

Ho già osservato che il ricordo è la pietra di parago-ne dell’arte; l’arte è una mnemotecnica del bello: ora, l’i-mitazione esatta guasta il ricordo. Esistono poveri pit-tori, per i quali la piú piccola verruca è una vera fortu-na; non solo si guardano bene dal dimenticarla, ma devo-no renderla quattro volte piú grande: in tal modo met-tono alla disperazione gli amanti; e un popolo che com-missiona il ritratto del proprio re è sempre un amante.

Procedere troppo nel particolare o procedere tropponel generale impedisce parimenti il ricordo; all’Apollodel Belvedere e al Gladiatore preferisco l’Antinoo; per-ché l’Antinoo è l’ideale del bellissimo Antinoo.

Benché uno sia il principio universale, la natura nonoffre nulla di assoluto, e neppure di completo19; non miriesce di vedere che individui. Ogni animale, di unastessa specie, differisce in qualche parte dal propriosimile, e fra le migliaia di frutti che può dare un albero,è impossibile trovarne due identici, in quanto sarebbe-ro la medesima cosa: e la dualità, che è la contraddizio-ne dell’unità, ne è pure la conseguenza20. Massime nelgenere umano l’infinito della varietà si manifesta in unaforma che sgomenta. Escludendo i grandi tipi che lanatura ha distribuito sotto i diversi climi, vedo ogni gior-no passare sotto la mia finestra un certo numero di Cal-mucchi, di Osage, di Indiani, di Cinesi e di Greci anti-

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chi, tutti più o meno fatti parigini. Ogni individuo costi-tuisce un’armonia; e infatti è capitato più volte a tuttidi voltarsi a una cadenza nota di voce, e di restare stu-pefatti davanti a una creatura sconosciuta, viventericordo di un altro essere che ha voce e gesti analoghi.Ciò è cosí vero che Lavater ha steso una nomenclaturadei nasi e delle bocche che cozzano tra loro nel figura-re insieme, e ha accertato vari errori del genere negliartisti antichi, che talvolta hanno rivestito personaggireligiosi o storici di forme contrarie al loro carattere.Può essere che Lavater si sia ingannato nel particolare;ma aveva colto l’idea del principio. Una data manorichiede un dato piede; ogni epidermide genera il pro-prio pelo. Ogni individuo ha quindi il proprio ideale.

Non sostengo che ci siano tanti ideali originari quan-ti sono gli individui, poiché uno stampo dà luogo aparecchie copie; ma nell’animo del pittore si dànno tantiideali quanti individui, dal momento che un ritratto èun modello complesso di un artista.

Cosí l’ideale non è quella cosa vaga, quel sogno gri-gio e impalpabile che aleggia sul soffitto delle accademie;un ideale non è che l’individuo modificato dall’indivi-duo, ricostruito e reso dal pennello o dallo scalpello allaraggiante verità della sua armonia nativa.

La qualità prima di un disegnatore è perciò lo studioassiduo e sincero del proprio modello. Occorre non soloche l’artista abbia un’intuizione penetrante del caratte-re del modello, ma anche che v’infonda un qualche sensopiú generale, e esageri volutamente alcuni particolariper accentuare la fisionomia e renderne più chiara l’e-spressione.

È curioso notare che, guidata da questo principio, –secondo cui il sublime deve rifuggire dai particolari, –l’arte per muovere verso la perfezione torna alla propriainfanzia. – I primi artisti infatti non esprimevano i par-ticolari. Tutta la differenza stava nel fatto che model-

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lando con una linea continua le braccia e le gambe dellefigure, non erano loro a rifuggire dai particolari, ma iparticolari che gli sfuggivano; per scegliere, infatti,occorre possedere.

Il disegno è un conflitto tra la natura e l’artista, incui l’artista può trionfare tanto piú agevolmente quan-to sa intendere meglio le intenzioni della natura. Il pro-blema non è quello di copiare, ma di interpretare in unalingua piú semplice e luminosa.

L’introduzione del ritratto, cioè del modello idealiz-zato, nei soggetti storici, religiosi, o di fantasia, richie-de per prima cosa una scelta sottile del modello, e puòindubbiamente svecchiare e rivitalizzare la pitturamoderna, troppo portata, al pari di tutte le nostre arti,ad appagarsi dell’imitazione degli antichi.

Tutto quello che potrei aggiungere sugli ideali mipare sia contenuto in un capitolo di Stendhal, dal tito-lo tanto chiaro quanto insolente:

come avere la meglio su raffaello?Nelle scene patetiche generate dalle passioni, il grande

pittore dei tempi moderni, se mai farà la sua comparsa,darà a ciascuna delle sue figure la bellezza ideale tratta dal

temperamento adatto a sentire piú vivamente l’effetto ditale passione.

Werther non sarà indifferentemente sanguigno omelanconico, né Lovelace, flemmatico o bilioso. Il buoncurato Primerose21 e l’amabile Cassio non avranno il tem-peramento bilioso; ma l’ebreo Shylock sì, e allo stessomodo il cupo Iago, lady Macbeth, Riccardo III; l’amabilee casta Imogene sarà un poco flemmatica.

Sul fondamento delle prime sue osservazioni, l’artista hacreato l’Apollo del Belvedere. Ma si ridurrà a dare fredda-mente delle copie di questo Apollo ogni volta che vorrà figu-rare un dio giovane e bello? No, egli stabilirà un rapportotra l’azione e il genere di bellezza. L’Apollo, che libera la

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terra dal serpente Pitone, sarà piú forte; ma l’Apollo, checerca di piacere a Dafne, avrà tratti piú delicati.

viii

Di alcuni disegnatori

Nel capitolo precedente, non ho parlato del disegnocreativo o di immaginazione, in quanto di solito esso èprerogativa dei coloristi. Michelangelo, il quale da uncerto punto di vista è l’inventore dell’ideale fra i moder-ni, è l’unico ad avere avuto in misura suprema l’imma-ginazione del disegno senza essere colorista. I disegnato-ri puri sono dei naturalisti dotati di un senso straordi-nario; ma disegnano per ragionamento, mentre i colori-sti, i coloristi grandi, disegnano per temperamento,quasi senza che lo sappiano. Il loro metodo è analogo allanatura: disegnano perché coloriscono, e i disegnatoripuri, se volessero essere conseguenti e fedeli alla propriaprofessione di fede, dovrebbero limitarsi alla matita.Invece, si danno al colore con un trasporto inaudito, enon si accorgono affatto delle proprie contraddizioni.Cominciano col delimitare le forme in maniera aggres-siva e assoluta, e poi pretendono di riempire queglispazi. È un duplice metodo che intralcia di continuo iloro sforzi, e conferisce a tutte le loro opere un non soche di amaro, di spiacevole e di contrastato. Ogni loroopera è un processo senza fine, una dualità logorante.Un disegnatore è un colorista mancato.

Il fatto è cosí vero che Ingres, il rappresentante piúillustre della scuola naturalistica nel disegno, è sempreteso alla ricerca del colore. Mirabile e infelice pertina-cia! È l’eterna storia di quanti baratterebbero la famache meritano con quella che non possono raggiungere.Ingres adora il colore come una modista. Si prova a un

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tempo rammarico e piacere osservando gli sforzi chedeve sostenere per scegliere e accoppiare i propri toni.L’esito, non sempre contraddittorio, ma amaro e vio-lento, attrae spesso i poeti corrotti; ma il loro spiritostanco, dopo che si è a lungo compiaciuto di questi scon-tri pericolosi, ha bisogno ad ogni costo di acquietarsi inun Velásquez o in un Lawrence.

Se Ingres occupa il posto piú importante dopo Dela-croix, lo deve a questo disegno cosí personale, di cui hoappena scrutato i misteri, e che meglio di ogni altroriassume, sino ad oggi, l’ideale e il modello. Ingres dise-gna meravigliosamente bene, e disegna rapido. Nei suoischizzi gli viene spontaneo l’ideale; il suo disegno, spes-so poco carico non contiene molti tratti; ma ciascuno diessi rende un contorno che conta. Si vedano a confron-to i disegni di tutti questi lavoranti della pittura, – spes-so allievi di Ingres; – costoro rendono soprattutto leminuzie, e in tal modo incantano il volgo, il cui occhioin tutte le cose si apre soltanto a ciò che è piccolo.

In un certo senso, Ingres disegna meglio di Raffael-lo, il principe universalmente riconosciuto del disegno.Raffaello ha decorato sterminate pareti; ma non sareb-be riuscito a uguagliare il pittore moderno nel ritrattodi vostra madre, di un amico o di un’amante. L’audaciadi Ingres è tutta particolare, fusa con una tale astuzia danon arretrare dinanzi al brutto e allo stravagante: egliritrae la redingote di Molé; il carrick di Cherubini; mettenel soffitto di Omero, – per quanto tenda all’idealecome nessun altro – un cieco, un guercio, un monco eun gobbo. La natura lo ricompensa generosa di questasua pagana adorazione. Ingres potrebbe fare di Mayeux22

una cosa sublime.Anche la bella Musa di Cherubini è un ritratto. È

lecito affermare che se Ingres, a cui manca l’immagina-zione del disegno, non sa fare un quadro, per lo meno

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di grandi dimensioni, i suoi ritratti sono come quadri,ossia poemi interiori.

Talento avaro, crudele, collerico e dolente, miscugliostrano di qualità contrarie, interamente al servizio dellanatura, e la cui anomalia non ne costituisce l’ultimofascino; – fiammingo nell’esecuzione, individualista enaturalista nel disegno, antico per i suoi amori e ideali-sta per l’intelletto.

Mettere armonia tra tali e tante tensioni non è fati-ca da poco: e cosí, non senza ragione, per disvelare imisteri sacri del suo disegno egli ha scelto una luce arti-ficiale, che giova a rendere il suo pensiero piú chiaro, –simile all’albore in cui la natura non ancora desta ciappare livida e cruda, e la campagna si manifesta sottoun aspetto fantastico e penetrante.

Un fatto piuttosto singolare e, come credo, ancoranon osservato nel talento di Ingres, è la sua preferenzaper i ritratti femminili; egli dipinge le donne come levede, quasi che le amasse troppo per essere disposto amutarle, si ferma su ogni loro bellezza, anche seconda-ria, con una inflessibilità da chirurgo; segue le ondula-zioni più lievi delle loro linee con una soggezione dainnamorato. L’Angélique, le due Odalisques, il ritrattodella d’Haussonville sono opere di una voluttà profon-da. Ma tutto questo non ci appare se non sotto una lucequasi terrificante; non si ha l’atmosfera dorata che inon-da i campi dell’ideale, né il lume calmo e misurato delleregioni sublunari.

Effetto di un’attenzione portata all’estremo, le operedi Ingres esigono, per essere comprese, un’attenzionealtrettanto intensa. Sono figlie del dolore, e generanodolore. Ciò dipende, come ho già spiegato, dal fatto cheil suo metodo non è un’unità, una e semplice, sí piutto-sto la pratica di metodi sovrapposti.

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Attorno a Ingres, il cui insegnamento ha non so qualeautorità di fanatismo, si sono raccolti alcuni artisti, i piùnoti dei quali sono Flandrin, Lehmann e Amaury-Duval.

Ma che distanza tra il maestro e i suoi allievi! Ingresresta ancora l’unico della propria scuola. Il suo metodoè il prodotto della sua natura, la quale, per quanto possaessere bizzarra e pertinace, è poi schietta e come direinvolontaria. Amante appassionato dell’antico e del suoparadigma, rispettoso esecutore della natura, Ingresdipinge ritratti che possono competere con le migliorisculture romane. Quelli della sua scuola, invece, hannotradotto in sistema, freddamente, con determinazione,da pedanti, la parte sgradevole e impopolare del suogenio; che quello che li distingue sopra ogni altra cosa èla pedanteria. Nel maestro hanno visto e studiato solola curiosità e l’erudizione. Di qui, le loro ricerche di esi-lità, di pallore e tutte quelle convenzioni ridicole, adot-tate senza riflessione e buona fede. Si sono calati nel pas-sato, lontano e lontano, a copiare con un candore ser-vile errori mortificanti, privandosi volontariamente ditutti i mezzi di esecuzione e di riuscita apprestati dal-l’esperienza dei secoli anche per loro. Tutti ricordanoancora La Fille de Jephté pleurant sa virginité [La figlia diJefte che piange la perduta verginità]; – la lunghezzasmisurata delle mani e dei piedi, gli ovali iperbolici delleteste, le affettazioni ridicole, – convenzioni e abitudinidel pennello che hanno un’aria passabile di raffinatez-za, e sono degli strani difetti in un fervido adoratoredella forma. Dopo il ritratto della principessa Belgiojo-so, Lehmann non fa altro che occhi troppo grandi, in cuila pupilla nuota come un’ostrica in una zuppiera. – Que-st’anno, ha mandato alcuni ritratti e quadri. I quadrisono Les Oceanides [Le Oceanidi], Hamlet e Ophélie. LesOceanides sono una specie di Flaxman, cosí brutte avedersi da levar la voglia di esaminare il disegno. Neiritratti di Hamlet e di Ophélie, appare evidente la pre-

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tesa del colore, – il chiodo fisso della scuola! È un’infe-lice imitazione del colore che rattrista e affligge come unVeronese o un Rubens copiato da un uomo della luna.Quanto all’idea e alla costruzione, le due figure mi fannopensare all’enfasi degli attori dell’antico Bobino, quan-do vi si dava il melodramma. Oh certo, la mano diAmleto è bella; ma una mano di perfetta esecuzionenon fa un disegnatore, e si gioca troppo sul frammento,anche per uno scudiero di Ingres.

Penso che anche la Calamatta sia iscritta al partito deinemici della luce del sole; tuttavia compone a volte i suoiquadri con una certa felicità, con qualcosa di quell’ariasovrana che le donne, anche le più letterate e artiste,prendono dagli uomini piú raramente dei loro aspetticomici.

Janmot ha dipinto una Station [Stazione]: Le Christportant sa croix [Il Cristo che porta la croce], – la cuistruttura mostra carattere e severità; ma il suo colore,che non è piú misterioso o per meglio dire mistico, comenelle sue ultime opere, ricorda purtroppo il colore ditutte le viae crucis possibili. Quando si guarda questoquadro violento e vitreo, si capisce in un lampo cheJanmot e di Lione. Difatti, è proprio questa la pitturache si addice a una città di banche, bigotta e scrupolo-sa, ove tutto, anche la religione, ha per forza la nettez-za calligrafica di un registro.

L’intelligenza del pubblico ha già associato piú voltei nomi di Curzon e di Brillouin: per quanto i loro esor-di promettessero tutt’altra originalità. Quest’anno, Bril-louin, – À quoi rêvent les jeunes filles [A che cosa sogna-no le fanciulle] – è riuscito diverso da se stesso, e Cur-zon si è accontentato di fare dei Brillouin. La loromaniera ricorda la scuola di Metz, scuola letteraria,mistica e tedesca. Curzon, cui si devono a volte dei beipaesaggi di un colore dovizioso, potrebbe esprimereHoffmann in una forma meno dotta, – meno conven-

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zionale. Benché egli sia chiaramente un uomo d’ingegno,– e basta a provarlo la scelta dei suoi soggetti, – si senteche il soffio hoffmanniano non è passato nel suo studio.L’antica fattura degli artisti tedeschi non somiglia innulla allo stile di questo grande poeta, le cui opere hannoun carattere tanto piú moderno e romantico. Inutil-mente il pittore, per rimuovere un difetto cosí di fondo,ha scelto fra i racconti quello meno fantastico, MaîtreMartin et ses apprentis [Mastro Martino e i suoi appren-disti], del quale lo stesso Hoffmann diceva: «È la piúmediocre delle mie opere, senza l’orrido e il grottesco,che sono le due cose nelle quali mi trovo a piú agio!» Eciò nonostante, persino nel Maître Martin, le linee sonopiù fluide e l’atmosfera più satura di spiriti di quantonon abbia fatto Curzon.

A voler essere precisi, il posto di Vidal non è qui,giacché egli non è un vero disegnatore. Tuttavia non èscelto poi troppo male, in quanto l’artista possiede alcu-ni difetti e debolezze dei seguaci di Ingres, cioè il fana-tismo del minuto e del grazioso, l’entusiasmo per labella carta e le tele fini. Ma questo non è l’ordine cheregna e aleggia intorno a un ingegno veramente vigoro-so, e neppure la giusta precisione di un uomo di buonsenso: è la forma maniacale della precisione.

Il mito Vidal è cominciato, credo, tre o quattro annifa, quando però i suoi disegni erano meno pedanteschie manierati di oggi.

Leggevo stamani un articolo di Théophile Gautier,nel quale egli elogia grandemente Vidal di saper rende-re la bellezza moderna. – Non so perché Théophile Gau-tier abbia indossato quest’anno il carrick e la pellegrinadel benefattore, dato che ha lodato tutti, e non c’è disgra-ziato imbrattatele di cui non abbia citato i lavori. Oforse che non sia suonata per lui, che è già cosí buono,l’ora dell’Accademia, l’ora solenne e soporifera; e che ilsuccesso letterario produca conseguenze cosí funeste da

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costringere il pubblico a richiamarci all’ordine e a rimet-terci sotto gli occhi i nostri antichi certificati di roman-ticismo? La natura ha donato a Gautier uno spiritoeccellente, ampio e poetico; e tutti sanno quale furiosaammirazione egli abbia sempre mostrato per le opereautentiche e forti. Quale filtro allora hanno versato que-st’anno i pittori nel suo vino, o quale occhiale egli hascelto per questo suo ufficio?

Vidal, che conosce la bellezza moderna! Ma via! Gra-zie alla natura, le nostre donne non hanno tanto spiritoné sono cosí preziose; ma sono poi ben altrimenti roman-tiche. – Guardi la natura, signor Vidal; la pittura non sifa con lo spirito e le matite meticolosamente temperate;visto che taluni la pongono, non so bene perché, nellanobile famiglia dei pittori. Lei ha un bel chiamare le suedonne Fatinitza, Stella, Vanessa, Stagione delle rose, –quanti nomi per pomate! – ma non basta a fare delle crea-ture poetiche. Una volta lei si è provato con L’Amour desoi-même [L’Amore di sé], – un’idea grande e bellissima,un’idea femminile come poche altre, – ma non ha sapu-to renderne l’avidità golosa, l’egoismo glorioso. Lei hasaputo essere solo candido e oscuro.

Del resto, tutte queste affettazioni passeranno comeunguenti rancidi. Basta un raggio di sole per liberarnetutto il fetore. Preferisco lasciare che il tempo faccia ilsuo corso che non perdere il mio a spiegarle tutte le pic-cinerie di questo suo misero genere.

ix

Del ritratto

Due sono i modi di concepire il ritratto: la storia e ilromanzo. Il primo rende con fedeltà, con rigore, minu-ziosamente, il contorno e il modellato del soggetto,

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senza che questo escluda l’idealizzazione, la quale puòconsistere per i naturalisti illuminati nello scegliere l’at-teggiamento piú caratteristico, quello che esprime piùcompiutamente le abitudini interiori; e in aggiunta sadare ad ogni particolare importante un’enfasi conve-niente, mettendo in luce tutto ciò che in natura è rile-vato, risentito e primario, e trascurando o fondendonell’insieme quanto è insignificante, o effetto di un de-gradarsi fortuito.

I maestri della scuola storica sono David e Ingres; imigliori esempi sono i ritratti di David che si è avutomodo di vedere alla mostra Bonne-Nouvelle, e quelli diIngres, quali a esempio il Bertin e il Cherubini.

L’altro metodo, che è proprio dei coloristi, tende afare del ritratto un quadro, un poema con ogni suo ele-mento, di uno spazio pari all’ampiezza dell’immagina-zione. Qui l’arte è piú difficile, in quanto piú ambizio-sa. Si deve saper distendere intorno a una testa i mor-bidi vapori di una calda atmosfera, o farla emergeredalle profondità di un crepuscolo. Qui l’immaginazioneha una parte più alta, e tuttavia, come spesso accade cheil romanzo sia piú vero della storia, accade anche che unmodello sia più chiaramente espresso dal pennello dovi-zioso e duttile di un colorista che non dalla matita di undisegnatore.

I maestri della scuola romantica sono Rembrandt,Reynolds, Lawrence, e gli esempi piú noti La Dama dalcappello di paglia e il giovane Lambton.

In genere, Flandrin, Amaury-Duval e Lehmann eccel-lono nella qualità del modellato che è vero e finissimo.Il particolare è ben concepito, di un’esecuzione fluida etutta di getto; ma i loro ritratti sono spesso insidiati daun’affettazione goffa e pretenziosa. Il gusto esasperatodella distinzione riserva loro ad ogni tratto le peggioriinsidie. È noto con che onesto e incredibile candore per-seguano i toni distinti, toni cioè che, se fossero intensi,

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striderebbero come il diavolo e l’acqua santa, il marmoe l’aceto; ma siccome sono oltremodo esangui, sommi-nistrati in dosi omeopatiche, l’effetto è piú sorpren-dente che doloroso: ed ecco il loro grande successo!

La distinzione nel disegno consiste nel far propri ipregiudizi di certe smaniose, infarinate di letteraturescadenti, che hanno in orrore gli occhi piccoli, i piedigrossi, le mani grandi, le fronti basse e le guance rossedi gioia e di salute, – tutti elementi che possono esseredi grande bellezza.

Tale pedanteria nel colore e nel disegno nuoceimmancabilmente alle opere di questi pittori, benchénon siano prive di qualche merito. Cosí, davanti alritratto blu di Amaury-Duval e a tanti altri ritratti fem-minili di confezione e trattamento «Ingres», ho sentitorisuonare nella mente, per non so quale associazione diidee, le sagge parole del cane Berganza23, che fuggiva lebla-bla-blu con la stessa furia con cui le ricercano i nostrigalantuomini: «Corinna non ti è mai sembrata insop-portabile?... All’idea di vederla avvicinarsi a me, ani-mata di una vita vera, mi sentivo come oppresso da unasensazione penosa, e incapace di conservare vicino a leila mia serenità e la mia libertà di spirito . . . . . . . . . .. . . . . . Per quanto belle possano essere le sue bracciae la sua mano, mai avrei potuto sopportare le sue carez-ze senza una certa ripugnanza, un certo fremito interioreche mi toglie di solito l’appetito. – Non parlo qui chenella mia qualità di cane!»

Ho provato la stessa sensazione dell’arguto Bergan-za davanti a quasi tutti i ritratti di donne, passati o pre-senti, di Flandrin, Lehmann e Amaury-Duval, nono-stante le belle mani, dipinte proprio bene, che vi sannofare, e la galanteria di certi particolari. La stessa Dulci-nea del Toboso, passando per la bottega di questi signo-ri, ne uscirebbe diafana e pudibonda come un’elegia, esmagrita dal tè e dal burro estetici.

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Eppure non è cosí, – non ci stanchiamo di ripeterlo,– che Ingres intende le cose: Ingres, il grande maestro!

Nel ritratto secondo l’altro metodo, Dubufe padre,Winterhalter, Lépaulle e Frederica O’Connell, con ungusto più sincero della natura e un colore piú severo,avrebbero potuto conseguire una fama legittima.

Dubufe avrà per molto tempo ancora il privilegio deiritratti eleganti; il suo gusto naturale e quasi poeticoserve a nascondere i suoi difetti innumerevoli.

È poi da notare che la gente che si scaglia tanto con-tro il borghese, a proposito di Dubufe, è la stessa che siè lasciata incantare dalle teste di legno di Pérignon.Quante cose si sarebbero perdonate a Delaroche, sefosse stato possibile prevedere la fabbrica Pérignon!

Winterhalter attraversa veramente un periodo didecadenza. –Lépaulle è sempre lo stesso, pittore eccel-lente a volte, sempre nudo di gusto e di buon senso. –Occhi e bocche deliziosi, braccia ben tornite, – concerte acconciature da far fuggire la gente per bene!

La O’Connell sa dipingere con libertà e vivacità; mail suo colore manca di consistenza. È l’infausto difettodella pittura inglese, trasparente sino all’eccesso, e conuna fluidità, sempre, oltre misura.

Un esempio eccellente del genere di ritratti di cuiintendevo poc’anzi delineare lo spirito informatore è lafigura di donna di Haffner, – immersa nel grigio e splen-dente di mistero, – che all’ultimo Salon aveva mobili-tato le speranze di tutti gli intenditori. Ma Haffner nonera ancora un pittore di genere, mentre cercava di allea-re e fondere Diaz, Decamps e Troyon.

Si direbbe che la Gautier cerchi di ammorbidire unpo’ la sua maniera. Ma sbaglia.

Tissier e Guignet hanno conservato una pennellata eun colore solidi e sicuri. In generale, i loro ritratti hannoil pregio di piacere soprattutto per l’aspetto, che è laprima impressione e la più importante.

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Victor Robert, autore di un’immensa allegoria del-l’Europa, è certamente un buon pittore, dotato di unamano sicura; ma l’artista che fa il ritratto di un uomocelebre non deve accontentarsi di un impasto felice esuperficiale, dal momento che il suo è anche un ritrattointeriore. Granier de Cassagnac è molto più brutto, o,se si preferisce, molto piú bello. Intanto il naso è piúlargo, e la bocca, mobile e irritabile, e di una malizia edi una finezza che sono sfuggite al pittore. Granier deCassagnac ha l’aria più minuta e atletica, anche visto difronte. La posa esagera piuttosto che esprimere la forzaautentica che ne viene dal suo carattere. Qui non vi ètraccia di quel portamento marziale e altero col qualeegli affronta la vita e tutti i suoi problemi. Basta aver-lo visto esplodere fulmineo nei suoi accessi di collera,con scatti di penna o rovesciamento di sedie, o sempli-cemente averli letti, per capire che egli non è qui nellasua interezza. «Le Globe», che sfuma nella mezzatinta,è una cosa puerile, – oppure lo si doveva collocare inpiena luce!

Ho sempre avuto l’idea che Boulanger sarebbe dive-nuto un ottimo incisore; ma è un artigiano ingenuo eprivo di invenzione che guadagna molto a lavorare sul-l’opera altrui. I suoi quadri romantici sono pessimi, isuoi ritratti buoni, – chiari, solidi, di una pittura sciol-ta e semplice; e, fatto singolare, hanno spesso l’ariadelle buone incisioni eseguite dai ritratti di Van Dyck:con le ombre dense e le luci bianche delle acquefortivigorose. Ogni volta che Boulanger ha voluto andare piúin su, è caduto nel pathos. Credo che la sua sia un’in-telligenza onesta, posata e ferma, che solo le lodi sper-ticate dei poeti hanno potuto mettere fuori strada.

Che dire di Cogniet, questo amabile eclettico, que-sto pittore di tanta buona volontà e di un’intelligenzacosí inquieta che, per rendere perfettamente il ritrattodi Granet, ha escogitato di impiegare il colore che appar-

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tiene alla pittura di Granet, – il quale è generalmentescuro, come tutti sanno da tanto tempo?

La Mirbel è la sola artista che sappia trarsi d’impac-cio nel risibile problema del gusto e del vero. Questa sin-cerità particolare, oltre che il fascino della presentazio-ne, fa sí che le sue miniature abbiano intera l’importanzadella pittura.

x

Dello chic e del banale

Lo chic, questa parola orrenda e stravagante di for-mazione moderna, di cui ignoro persino l’ortografia24,ma che sono costretto a usare, giacché viene consacratadagli artisti per esprimere un mostro moderno, signifi-ca: assenza di modello e di natura. Lo chic è l’abuso dellamemoria; anzi è piuttosto una memoria della mano chenon una memoria del cervello; e vi sono degli artistidotati di una memoria profonda dei caratteri e delleforme, – Delacroix o Daumier, – i quali non hannonulla da spartire con lo chic.

Lo si può anche paragonare al lavoro di quei maestricalligrafi, in possesso di una bella mano e d’una buonapenna appuntita per il carattere inglese o corsivo, chesanno tracciare senza paura, ad occhi chiusi, a guisa diparaffo, una testa del Cristo o il cappello dell’impera-tore.

Il significato della parola poncif, che è il banale, hapiù d’una analogia con il termine chic. Comunque, laparola si riferisce piú in particolare alle espressioni delvolto e agli atteggiamenti.

Vi sono rabbie banali, stupori banali, come a esem-pio lo stupore espresso da un braccio orizzontale col pol-lice divaricato.

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Nella vita e nella natura s’incontrano cose e esseribanali, che sono cioè il compendio delle idee volgari ecorrenti che ci facciamo di tali esseri e cose: ecco per-ché i grandi artisti ne hanno orrore.

Tutto ciò che è convenzionale e tradizionale ha chefare con lo chic e il banale.

Quando un cantante si porta la mano sul cuore, il suogesto di solito vuol dire: io l’amerò per sempre! – Ma sestringe i pugni con lo sguardo al suggeritore o al piancito,il senso è: deve morire, il traditore! – Questo è il banale.

xi

Di Horace Vernet

Sono questi i severi principî che guidano nella ricer-ca del bello questo artista cosí nostro e nazionale, le cuicomposizioni adornano la capanna del povero contadi-no e la soffitta dello studente spensierato, la sala dei piùmiserabili bordelli e i palazzi dei nostri re. So bene chequest’uomo è un Francese, e che un Francese in Fran-cia è cosa santa e sacra, – e anche all’estero, a quantomi dicono; ma appunto per questo io lo detesto.

Nel senso più corrente, Francese vuol dire operetti-sta, e operetta significa un uomo a cui Michelangelo dàla vertigine e Delacroix ispira uno stupore animale, comefa il tuono con certe bestie. Tutto ciò che sa di abisso,sia in alto che in basso, lo fa fuggire per prudenza. Ilsublime gli fa sempre l’effetto di una sommossa, e nonsi accosta neppure a Molière se non tremando e solo per-ché lo hanno persuaso che era un autore comico.

Cosí, con l’eccezione di Horace Vernet, tutte le per-sone serie di Francia detestano il Francese. A questopopolo turbolento non occorrono idee ma fatti, raccon-ti storici, canzonette e il «Moniteur»25! Tutto qui: mai

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che abbia bisogno di astrazioni. Ha fatto cose grandi, masenza intenzione. Gliele hanno fatte fare.

H. Vernet è un militare che si è messo a fare pittu-ra. – Detesto questa sua arte improvvisata al rullo deltamburo, le sue tele spennellate al galoppo, la sua pit-tura buttata giú a colpi di pistola, come odio l’esercito,la forza armata, e tutto quello che porta il clamore dellearmi in un luogo di pace. La sua straordinaria popola-rità, che non è destinata a durare piú a lungo della guer-ra, per diminuire a mano a mano che i popoli saprannocrearsi altri diletti, – questa popolarità, ripeto, questavox populi, vox Dei, per me è un’oppressione.

Odio quest’uomo perché i suoi quadri non sono perniente pittura, bensí una masturbazione svelta e fre-quente, un’irritazione dell’epidermide francese; – cosìcome odio l’altro grand’uomo la cui ipocrisia austera èvenuta sognando il consolato e ha risarcito il popolo delsuo amore soltanto con brutti versi, – versi che non sonopoesia, versi storti e mal costruiti, zeppi di barbarismi edi solecismi, ma anche di spirito civico e di patriottismo.

Lo odio perché è nato con la camicia26, e perché l’ar-te per lui è cosa chiara e facile. – Ma lui vi racconta lavostra gloria, ed è questo che conta più di tutto. – Via!che cosa importa tutto questo al viaggiatore appassio-nato, allo spirito cosmopolita che preferisce il bello allagloria?

Per definire Horace Vernet in modo chiaro, diremoche egli è l’antitesi assoluta dell’artista; egli sostituiscelo chic al disegno, la grancassa al colore e gli episodi all’u-nità; fa dei Meissonier grandi come l’universo.

D’altro canto, per adempiere alla sua missione uffi-ciale, Horace Vernet possiede due qualità eccellenti,l’una in difetto, l’altra in eccesso: assenza di passione ememoria da almanacco27! Chi meglio di lui sa quanti bot-toni ci sono in un’uniforme, la piega che assume unaghetta o una scarpa sformata da molte marce; il punto

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delle buffetterie in cui il bronzo delle armi lascia un’om-bra di verderame? Di qui un pubblico sterminato e lasua soddisfazione! Tanti pubblici quanti sono i diversimestieri necessari per fabbricare abiti, giubbe, sciabole,fucili e cannoni! E tutte codeste corporazioni raccoltedinanzi a un Horace Vernet per l’amore comune dellagloria! Quale spettacolo!

Siccome mi capitò di rimproverare una volta ad alcu-ni tedeschi di avere un debole per Scribe e Horace Ver-net, questi mi risposero: «Noi ammiriamo profonda-mente Horace Vernet perché è il rappresentante piúcompleto del suo secolo». – Alla salute!

Si dice che Horace Vernet andasse a trovare PeterCornelius, e lo colmasse di complimenti. Ma attese alungo d’essere ricambiato; giacché Peter Cornelius sicongratulò con lui una sola volta durante tutta la visita,– sulle molte coppe di champagne che riusciva a man-dar giú senza risentirne. – Vera o falsa, la storia ha unasua verosimiglianza poetica.

E poi si dice che i tedeschi sono un popolo ingenuo!Molti che sostengono la maniera indiretta in fatto di

stroncature, e che non amano piú di me Horace Vernet,mi possono rimproverare di essere poco abile. Tuttavianon è imprudente essere brutali e andar dritti al fatto,quando in ogni frase l’io adombra un noi, un noi immen-so, un noi silenzioso e invisibile, – quello di tutta unanuova generazione, nemica della guerra e delle imbecil-lità nazionali; una generazione vigorosa di salute, per-ché giovane, e che già spinge in coda, gioca di gomito esi fa largo, – seria, beffarda e minacciosa28!

Due altri illustratori e grandi innamorati dello chicsono Granet e Alfred Dedreux; ma essi esercitano le lorodoti di improvvisazione in generi molto diversi: Granetnella religione, Dedreux nella vita della moda. Il primoraffigura il monaco e il secondo il cavallo; ma l’uno è

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scuro, l’altro chiaro e brillante. Alfred Dedreux ha ilvantaggio di saper dipingere, e le sue pitture hanno l’a-spetto vivo e fresco delle decorazioni teatrali. È da sup-porre che egli si occupi maggiormente della natura neisoggetti che sono la sua specialità, visto che i suoi studidi cani in corsa sono piú solidi e reali. Quanto alle sueChasses [Cacce], ciò che è comico in loro è che i canidominano tutto e potrebbero mangiare ognuno quattrocavalli. Tornano in mente i famosi montoni dei Vendeursdu Temple [I Mercanti del Tempio], l’opera di Jouvenet,dietro ai quali scompare Gesù Cristo.

xii

Dell’eclettismo e del dubbio

Siamo, come si vede, nell’ospedale della pittura. Toc-chiamo piaghe e malattie; e questa non è una delle menostrane e contagiose.

Nel nostro secolo come in quelli passati, oggi comeieri, gli uomini forti e valenti si dividono, ciascuno inrapporto al proprio gusto e al proprio temperamento, lediverse regioni dell’arte, e vi operano in assoluta libertàsecondo la legge necessaria del lavoro come piacere. Gliuni vendemmiano facilmente e a piene mani nelle vignedorate e autunnali del colore; gli altri arano con pazien-za e scavano con fatica il solco profondo del disegno.Ognuno di loro ha compreso che il proprio dominio eraun sacrificio, e che solo a questa condizione egli potevaregnare con sicurezza sino ai confini che lo delimitano.E ciascuno reca sulla propria corona un’insegna le cuiparole sono leggibili a tutti. Non c’è uno che dubitidella propria sovranità, e in questa convinzione incrol-labile risiede la loro serenità, la loro gloria.

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Lo stesso Horace Vernet, il campione detestabiledello chic, ha il merito di non essere un cultore del dub-bio. È un uomo dal temperamento felice e giocoso, chevive in un paese artificiale ove attori e quinte sono fattidello stesso cartone; ma regna da padrone nel suo regnodi parate e di balocchi.

Il dubbio, che è oggi nel mondo morale la causa primadi tutte le affezioni morbose, e le cui devastazioni sonopiù grandi che mai, dipende da cause maggiori che mipropongo di esaminare nel penultimo capitolo, sotto iltitolo Delle scuole e degli operai. Il dubbio ha generatol’eclettismo, perché solo negli uomini del dubbio era ilbuon volere della salvazione.

In ogni tempo, l’eclettismo si è sempre creduto supe-riore alle dottrine del passato, perché essendo l’ultimovenuto poteva ripercorrere gli orizzonti piú lontani. Maproprio questa imparzialità dimostra l’impotenza deglieclettici. Gli uomini che con tanta larghezza si conce-dono alla riflessione, non sono esseri completi: gli mancauna passione.

Gli eclettici non hanno pensato che l’attenzioneumana è tanto più intensa quanto piú si restringe e cir-coscrive da se stessa il proprio campo di osservazione.Un abbraccio troppo ampio non stringe nulla.

Sono le arti quelle dove l’eclettismo ha avuto le con-seguenze piú manifeste e tangibili, in quanto l’arte, peressere profonda, esige una idealizzazione costante chenon si ottiene se non in virtú del sacrificio, – ed è unsacrificio involontario.

Per quanto possa essere abile, un eclettico è un uomodebole; poiché egli è senza amore. Non ha quindi unideale né un’intenzione risoluta: né stella né bussola.

Egli mette insieme quattro procedimenti diversi cheproducono solo un effetto nero, una negazione.

È un bastimento che si vorrebbe sospinto da quattroventi.

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Ma un’opera realizzata da un punto di vista esclusi-vo, con tutti i suoi difetti, esercita sempre un fascinoacuto su chi ha una natura simile a quella dell’artista.

L’opera di un eclettico non lascia invece memoria.Un eclettico non sa che compito principale di un arti-

sta è quello di sostituire l’uomo alla natura e di portareuna protesta contro di essa. Non è una protesta calco-lata, fredda, come un codice o una retorica, ma è vio-lenta e istintiva, come il vizio, la passione, il desiderio.Per questo un eclettico non è un uomo.

Il dubbio ha spinto alcuni artisti a invocare l’ausiliodelle altre arti. Gli esperimenti di mezzi contradditto-ri, l’inserto di un’arte in un’altra, l’immissione dellapoesia, dello spirito e del sentimento nella pittura, tuttequeste miserie moderne costituiscono i difetti propridegli eclettici.

xiii

Di Ary Scheffere delle scimmie del sentimento

Un esempio disastroso di tale metodo, se cosí si puòchiamare l’assenza di metodo, è Ary Scheffer.

Dopo avere imitato Delacroix e avere scimiottato icoloristi, i disegnatori francesi e la scuola neo-cristianadi Overbeck, Ary Scheffer si rese conto, – certo un po’tardi, – di non essere nato pittore. Da allora dovettericorrere ad altri mezzi; e chiese aiuto e tutela alla poe-sia.

Ma è un errore ridicolo per due ragioni: per comin-ciare la poesia non è il fine immediato del pittore; equando essa viene a mescolarsi con la pittura, l’opera,certo, acquista maggior valore, ma non può celarne ledebolezze. Cercare la poesia preordinata nella conce-

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zione di un quadro è il mezzo piú sicuro per non tro-varla. Essa deve emergere all’insaputa dell’artista, comerisultato della pittura stessa, in quanto risiede nell’ani-ma dello spettatore, e il genio consiste nel risvegliarla.La pittura interessa solo per il colore e la forma, e nonsomiglia alla poesia se non in quanto la poesia suscita nellettore idee di pittura.

In secondo luogo, ed è una conseguenza di quanto siè detto, va notato che i grandi artisti, sotto la guidainfallibile del loro istinto, hanno tratto dai poeti solosoggetti di colori molto vivaci e appariscenti. E cosípreferiscono Shakespeare all’Ariosto.

Ora, volendo scegliere un esempio clamoroso dellastupidità di Ary Scheffer, si esamini il soggetto del qua-dro che ha per titolo Saint Augustin et sainte Monique[Sant’Agostino, e santa Monica]. Un onesto pittore spa-gnolo avrebbe naturalmente, assistito dalla duplice devo-zione dell’arte e della religione, dipinto come megliopoteva l’idea generale che si era fatta di sant’Agostinoe di santa Monica. Ma qui il caso è diverso; giacché sideve soprattutto esprimere, – con pennelli e colori – iltesto seguente: «Cercavamo tra noi quale potrà esserequesta vita eterna che l’occhio non ha visto e l’orecchionon ha inteso, dove non giunge il cuore dell’uomo!» È ilcolmo dell’assurdo. Sembra di vedere un ballerino cheesegua un assioma matematico!

In altri tempi, il pubblico aveva qualche simpatia perAry Scheffer; nei suoi quadri poetici ritrovava i ricordipiù cari dei grandi poeti, e questo gli bastava. Il successoeffimero di Ary Scheffer fu un omaggio alla memoria diGoethe. Ma gli artisti, anche quelli che non vanno oltreun’originalità mediocre, da anni vengono mostrando alpubblico una pittura vera, eseguita con mano sicura esecondo le regole piú semplici dell’arte: cosí è accadutoche a poco a poco gli spettatori si siano stancati della pit-tura invisibile, ed oggi nei riguardi di Scheffer si mostra-

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no crudeli e ingrati, come ogni pubblico. E, accidenti,non gli si può dar torto.

D’altro canto, la sua pittura è cosí infelice, cosí triste,indecisa e sporca, che molti hanno scambiato i quadri diAry Scheffer con quelli di Henry Scheffer, un altroGirondino dell’arte. Quanto a me, essi mi fanno l’effet-to delle tele di Delaroche, dilavate dagli acquazzoni.

Un metodo semplice per conoscere la misura di unartista sta nell’esaminare il suo pubblico. E. Delacroixpuò contare sui pittori e i poeti; Decamps, sui pittori;Horace Vernet sui militari delle caserme, e Ary Schef-fer, sulle donne estetiche, che si vendicano delle loroperdite bianche dandosi alla musica religiosa29.

Le scimmie del sentimento sono, in genere, pessimiartisti. Se non fosse cosí, farebbero qualcosa di diversodal sentimento.

I piú validi tra loro sono quelli che intendono solo ilpiacevole.

E siccome il sentimento è cosa infinitamente varia-bile e molteplice, al pari della moda, vi sono scimmiesentimentali di vario genere.

La scimmia del sentimento punta soprattutto sul cata-logo. Si tenga presente che il titolo del quadro non nespiega mai il soggetto, massime in quei pittori che, conun gradevole amalgama di orrori, mescolano il senti-mento allo spirito. Allargando il metodo, si può alloragiungere al rebus sentimentale.

A modo di esempio, quando si legge nel catalogo:Pauvre fileuse! [Povera filatrice!], può darsi benissimoche il quadro rappresenti la femmina di un baco da setao di un bruco schiacciato da un bambino. L’infanzia èspietata.

Aujourd’hui et demain [Oggi e domani]. – Che cos’èmai? Forse la bandiera bianca e il tricolore; forse ancheun deputato eletto e poi trombato. No, – si tratta di una

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vergine promossa al rango di cortigiana, – che si trastullacon i gioielli e le rose, e che adesso, avvizzita ed ema-ciata, soffre sulla paglia le conseguenze della sua legge-rezza.

L’Indiscret [L’Indiscreto]. – Vi prego di cercare. –Ecco la rappresentazione di un signore mentre sorpren-de un album libertino tra le mani di due fanciulle chearrossiscono.

L’ultimo della serie rientra nella categoria dei quadridi sentimento stile Luigi XV, che, a quanto credo, sisono infilati nel Salon sulla scia de La Permission de dixheures [Il Permesso delle dieci]30.

Come si vede, siamo a un tutt’altro ordine di senti-menti: meno mistici.

Di norma, i quadri sentimentali sono ricavati dalleultime poesie di un mezzacalza qualsiasi, sul generemalinconico e lugubre; oppure sono una traduzione pit-torica dei piagnistei del povero contro il ricco, sul gene-re recriminatorio; o infine vengono mutuati dalla sag-gezza dei popoli, sul genere spirituale; ricorrendo qual-che volta ai testi di Bouilly, o di Bernardin deSaint-Pierre, ed è il genere moralistico.

Ma ritorniamo intanto a qualche esempio di quadrosentimentale: L’Amour à la campagne [L’Amore in cam-pagna], piacere, tranquillità, riposo, e L’Amour à la ville[L’Amore in città], grida, disordine, sedie e libri rove-sciati: una metafisica alla portata dei semplici.

La Vie d’une jeune fille en quatre compartiments [LaVita di una fanciulla in quattro riquadri]. – Avverti-mento per le donne che hanno un’inclinazione allamaternità.

L’Aumône d’une vierge folle [L’Elemosina di una vergine fol-le]. – La ragazza da un soldo guadagnato col sudore della fron-te al solito savoiardo che monta la guardia all’entrata di Felix31.Dentro, i ricchi del momento si rimpinzano di ghiottonerie. –Tutto questo proviene chiaramente dalla letteratura Marion

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Delorme32, che consiste nel predicare le virtù degli assassini e delleprostitute.

Che uomini d’ingegno sono i francesi e come si dannoda fare per credere l’incredibile! Libri, quadri, roman-ze, niente è inutile, nessun mezzo è lasciato cadere daquesto popolo pieno di fascino, allorché ha bisogno d’in-ventarsi delle panzane.

xiv

Di alcuni dubbiosi

Il dubbio assume un’infinità di forme: un Proteo cheil più delle volte non conosce se stesso. Cosí gli uominidel dubbio variano all’infinito, obbligandomi a metterenello stesso fascio individui diversi che non hanno incomune che l’assenza di un’individualità ben definita.

Ve ne sono di seri e pieni di tanta buona volontà:sono proprio da compiangere.

Cosí Papety, che taluni, specie gli amici, al suo ritor-no da Roma avevano preso per un colorista, ha compo-sto un quadro di aspetto orridamente spiacevole, – Solondictant ses lois [Solone in atto di dettare le leggi]; – e chericorda, – forse perché collocato troppo in alto perchése ne possano studiare i particolari, – l’appendice grot-tesca della scuola imperiale.

Sono ormai due anni che Papety presenta nello stes-so Salon quadri di un tenore radicalmente diverso.

Glaize compromette i suoi esordi con opere di unostile comune e di una composizione confusa. Ogniqual-volta deve fare qualcosa che non sia uno studio didonna, finisce per perdersi. Egli crede che si possa dive-nire coloristi attraverso la scelta esclusiva di certi toni.Anche i commessi vetrinisti e i costumisti teatrali hanno

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l’amore dei toni ricchi; ma ciò no basta a creare il gustodell’armonia.

In Le Sang de Vénus [Il Sangue di Venere], la Vene-re è piacevole, delicata e di giusta movenza; la ninfaaccovacciata che le sta di fronte è invece di un banaleorrendo.

Le stesse riserve circa il colore si possono muovere aMatout. Bisogna poi aggiungere che un artista il qualesi è presentato in passato come disegnatore, e il cuiingegno si applicava soprattutto alla concertata armoniadelle linee, deve evitare di dare a una figura movenzedi collo e di braccia improbabili. Se la natura lo impo-ne, il pittore idealista, che voglia essere fedele ai propriprincipî, non deve aderire al suo invito.

Chenavard è un artista oltremodo sapiente e metico-loso, del quale si è notato, qualche anno fa, Le Martyrede saint Polycarpe [Il Martirio di san Policarpo], dipintoin collaborazione con Comairas. Il quadro rivelava unavera scienza della composizione, e una approfonditaconoscenza di tutti i maestri italiani. Anche quest’anno,Chenavard ha dato prova di gusto nella scelta del sog-getto e di abilità nel disegno; ma quando ci si misura conMichelangelo, non sarebbe opportuno fare meglio alme-no nel colore?

Guignet si porta costantemente due uomini in testa,Salvator Rosa e Decamps. Salvator Guignet dipinge alnero di seppia. Guignet Decamps è un’entità a cui ladualità sottrae qualcosa. – Les Condottières après un pil-lage [I Condottieri dopo un saccheggio] sono eseguitisecondo la prima maniera; Xerxès [Serse] si avvicina allaseconda. – D’altro canto, il quadro è composto abba-stanza bene, se non fosse per il gusto dell’erudizione edella curiosità, che imbarazza e diverte lo spettatoredistogliendolo dal pensiero principale; era lo stesso difet-to dei Pharaons [Faraoni].

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Brune e Gigoux sono ormai delle vecchie affermateconoscenze. Persino ai suoi tempi buoni, Gigoux non èstato che un illustratore di buon respiro. Dopo numerosiinsuccessi, ci ha fatto vedere alla fine un quadro che, senon è originalissimo, ha perlomeno una sua bellezza dilineamento. Le Mariage de la sainte Vierge [Il Matrimoniodella Vergine] sembra l’opera di uno di quei tanti mae-stri della decadenza fiorentina, preso all’improvviso dalproblema del colore.

Brune ricorda i Carracci e i pittori eclettici del secon-do periodo: una maniera solida, ma quasi senza vita; –nessun difetto vistoso, senza d’altro canto alcuna qua-lità grande.

Se vi sono pittori dubbiosi che suscitano interesse, vene sono anche di grotteschi che il pubblico rivede ognianno con la gioia maligna, propria dei perdigiornoannoiati a cui il brutto in eccesso procura qualchemomento di distrazione.

Bard, l’uomo dalle follie fredde, sembra decisamen-te soccombere sotto il peso che si era imposto. Torna ditanto in tanto alla sua maniera naturale, che è quella ditutti. Mi è stato detto che l’autore de La Barque deCaron [La Barca di Caronte] sia stato allievo di HoraceVernet.

Biard è un uomo universale. Il che sembrerebbe indi-care che egli non dubita di niente al mondo, e che nes-suno piú di lui è sicuro di quel che fa; ma si noti che inquesta orrifica produzione, – quadri storici, quadri diviaggi, quadri di sentimento, quadri spirituali, – mancaun genere. Biard ha fatto marcia indietro dinanzi alquadro sacro. Non è ancora abbastanza convinto dellasua validità.

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xv

Del paesaggio

Nel paesaggio, come nel ritratto e nel quadro stori-co, si possono fare talune classificazioni sulla base deidiversi metodi: vi sono paesaggisti coloristi, paesaggistidisegnatori e immaginativi; naturalisti che idealizzanosenza saperlo, e fanatici del banale, che si dedicano a ungenere particolare e strano, chiamato paesaggio storico.

Al tempo della rivoluzione romantica, i paesaggisti,sull’esempio dei piú celebri Fiamminghi, si dedicaronounicamente allo studio della natura; e fu questo a sal-varli, a conferire un particolare splendore alla scuola delpaesaggio moderno. La loro abilità consisteva soprat-tutto in un’adorazione senza limiti dell’opera visibile,sotto tutti i suoi aspetti e in ogni suo particolare.

Più filosofi e intellettuali, altri attesero soprattuttoallo stile, cioè all’armonia delle linee fondamentali,all’architettonica della natura.

Quanto al paesaggio di fantasia, che è l’espressionedell’immaginativa umana, l’egoismo dell’uomo che sisostituisce alla natura, esso ricevette poca attenzione.Questo genere inconfondibile, di cui Rembrandt,Rubens, Watteau, e alcuni libri di strenne inglesi for-niscono i piú cospicui esempi, e che è in piccolo l’ana-logo delle stupende decorazioni dell’Opéra, rappresen-ta il bisogno naturale del meraviglioso. È l’immagina-zione del disegno introdotta nel paesaggio: giardini favo-losi, orizzonti immensi, corsi d’acqua piú limpidi diquelli veri, che scorrono contro le leggi della topografia,rocce gigantesche costruite in proporzioni ideali, nebbiefluttuanti come un sogno. Il paesaggio di fantasia, o per-ché era un prodotto poco francese, o perché la scuolaaveva anzitutto bisogno di ritemprarsi alle sorgenti pura-mente naturali, ha avuto da noi pochi cultori.

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Circa il paesaggio storico, di cui voglio dire qualcheparola a mo’ d’ufficio funebre, esso non è né la liberafantasia, né la mirabile soggezione dei naturalisti, giac-ché è la morale applicata alla natura.

Quale mostruosità e contraddizione! La natura nonha altra etica che il fatto, in quanto è essa stessa l’etica;e nondimeno il problema è di ricostruirla e ordinarlasecondo regole piú sane e piú pure, che non si trovanonel mero entusiasmo dell’ideale, ma in codici bizzarriche gli iniziati nascondono a tutti.

Cosí la tragedia, – un genere dimenticato dagli uomi-ni, e di cui si ritrova qualche segno superstite solo allaComédie-Française, il teatro piú deserto del mondo, –la tragedia consiste nel ritagliare alcuni modelli eterni,che sono l’amore, l’odio, l’amore filiale, l’ambizione,ecc., e, sospendendoli a dei fili, farli camminare, salu-tare, sedere e parlare secondo un protocollo misteriosoe sacro. Mai, nemmeno a forza di cunei e martelli, fare-te entrare nel cervello di un poeta tragico l’idea dell’in-finita varietà, e neanche se lo percuotete o lo ammaz-zate, vi riuscirà di persuaderlo che ci vogliono moralidiverse. Avete mai visto dei personaggi tragici chemangiano e bevono? È evidente che costoro si sonocostruiti la morale a fronte dei bisogni naturali e si sonocreati il proprio temperamento, laddove la maggior partedegli uomini si trova a subirlo. Ho sentito dire da unpoeta che ha il suo posto alla Comédie-Française che iromanzi di Balzac gli davano una stretta al cuore e gliprovocavano disgusto; e che, per parte sua, non conce-piva come degli innamorati potessero vivere d’altro senon del profumo dei fiori e delle lacrime dell’aurora.Sarebbe tempo, credo, che intervenisse a questo puntoil governo; in quanto se gli uomini di lettere, che, ognu-no con il suo ideale e il suo lavoro, e per i quali non esi-ste la domenica, sfuggono per natura alla tragedia, vi èun certo numero di persone a cui si è fatto credere che

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la Comedie-Française era il santuario dell’arte, che nellaloro commovente buona volontà risultano truffati ungiorno su sette. Non è forse ingiusto permettere ad alcu-ni cittadini di abbrutirsi e di covare idee false? Ma sem-bra che la tragedia e il paesaggio storico siano piú fortidegli Dei.

Ora si può capire che cosa sia un buon paesaggio tra-gico. È una manipolazione di modelli d’alberi, fontane,tombe e urne cinerarie. I cani sono ritagliati su un certomodello di cane storico; un pastore storico non può con-cedersene altri se non vuole essere disonorato. Ognialbero immorale che si è permesso di crescere da solo ea modo suo viene immancabilmente abbattuto; ogni sta-gno di rospi o girini viene prosciugato senza pietà. I pae-saggisti storici che provano dei rimorsi per qualche pec-cato naturale di poco conto, s’immaginano l’infernosotto forma di un paesaggio vero, di un cielo puro e diuna natura libera e ricca: una savana o una foresta ver-gine, per fare un esempio.

Paul Flandrin, Desgoffe, Chevandier e Teytaud sonoquelli che hanno assunto il carico glorioso di lottarecontro il gusto di una nazione.

Ignoro quale sia l’origine del paesaggio storico. Ma ècerto che non va ricercata in Poussin, il quale, agli occhidi costoro, è uno spirito pervertito e degenerato.

Aligny, Corot e Cabat hanno cura grande dello stile.Ma ciò che in Aligny è una premeditazione violenta efilosofica, diventa in Corot un’abitudine spontanea, ungesto naturale dell’intelletto. È un peccato che que-st’anno Corot abbia esposto unicamente un paesaggiocon alcune vacche che vanno ad abbeverarsi presso unostagno nella foresta di Fontainebleau. Ma Corot è piùun armonista che un colorista; e le sue composizioni,lontane da ogni pedanteria, hanno un aspetto che sedu-ce per la stessa semplicità del colore. In quasi tutte le sue

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opere è il dono particolare dell’unità, di cui ha semprebisogno la memoria.

Aligny ha inciso all’acquaforte alcune vedute bellis-sime di Corinto e di Atene, che esprimono perfetta-mente l’idea corrente di questi soggetti. Del resto, que-gli armoniosi poemi di pietra si adattavano benissimo altalento serio e idealista di Aligny, non meno che almetodo usato per trasporli.

Cabat ha abbandonato del tutto la via nella qualeaveva raggiunto un prestigio cosí notevole. Senza asso-ciarsi alle fanfaronate tipiche di certi paesaggisti natu-ralisti, egli era in passato molto più spontaneo e bril-lante. Ma è davvero fuori strada quando non si fida piùdella natura, come una volta. Cabat è artista di un talen-to troppo grande perché ogni sua composizione nonabbia un carattere speciale; ma questo giansenismo del-l’ultima ora, questa riduzione di mezzi, questa priva-zione volontaria, non aggiungono nulla alla sua gloria.

In genere, l’influenza di Ingres non può produrre nelpaesaggio risultati positivi. La linea e lo stile non sosti-tuiscono la luce, l’ombra, i riflessi e l’atmosfera croma-tica, – elementi tutti che sostengono una parte troppoimportante nella poesia della natura perché questa si sot-tometta a tale metodo.

Nella fazione contraria, i naturalisti e i coloristi, sonodi gran lunga piú popolari e hanno suscitato molto piùscalpore. Un colore ricco e copioso, cieli tersi e lumino-si, una sincerità particolare che gli fa accettare tutto ciòche viene dalla natura, costituiscono le loro qualità prin-cipali: solo che alcuni di essi, come Troyon, si compiac-ciono oltre misura nei giochi e nelle piroette del pen-nello. Conosciuti sempre in anticipo, e acquisiti labo-riosamente, finendo poi in un monotono trionfo, questiespedienti interessano a volte lo spettatore più dellostesso paesaggio. Accade allora persino che un allievoimprevisto, come Charles Le Roux, spinga ancora piú

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oltre la sicurezza e l’audacia; giacché vi è solo una cosainimitabile: la cordiale semplicità.

Coignard ha dipinto un grande paesaggio di una bellafiguratività, che ha suscitato molto interesse nel pub-blico; – in primo piano, un branco di vacche, e sullosfondo, gli inizi di una foresta. Gli animali hanno unaloro bellezza e risultano ben dipinti, l’insieme del qua-dro mostra una buona tenuta; ma, a mio avviso, gli albe-ri non sono abbastanza robusti da sopportare un cielodi quel genere. Viene da supporre che se si sopprimes-sero le vacche, il paesaggio diverrebbe veramente brut-to.

Français è uno dei paesaggisti più notevoli. Sa stu-diare la natura e infondervi un profumo romantico dibuona tempera. La sua Étude de Saint-Cloud [Studio diSaint-Cloud] è una cosa deliziosa e piena di gusto se sitolgono le pulci di Meissonier che sono invece un erro-re di gusto e richiamano troppo l’attenzione come un di-vertimento per gli sciocchi. Del resto sono dipinte conquella particolare perfezione che l’artista pone in tuttequeste minuzie33.

Flers purtroppo ha mandato solo pastelli. Una perdi-ta, sia per lui che per il pubblico.

Heroult è di quei pittori che hanno soprattutto il pro-blema della luce e dell’atmosfera. Egli sa rendere assaibene i cieli chiari e ridenti e le mobili brume squarcia-te da un raggio di sole. Nulla gli è ignoto della poesiache nasce dai paesi nordici. Ma il suo colore, alquantomolle e fluido, risente la pratica dell’acquarello: così,mentre ha saputo evitare le spavalderie degli altri pae-saggisti, egli non sempre peraltro possiede una fermez-za di tocco conveniente.

Joyant, Chacaton, Lottier e Borget vanno in generea cercare i propri soggetti nei paesi lontani, e i loro qua-dri hanno il fascino delle letture di viaggi.

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Non sono contrario agli specialismi: ma non vorreiperò che se ne abusasse come fa Joyant, il quale non èmai uscito da Piazza San Marco, né ha mai oltrepassa-to il Lido. Se la specialità di Joyant richiama l’attenzio-ne piú di altre, si deve certo alla perfezione monotonache vi infonde, e che nasce sempre dagli stessiprocedimenti. Ho l’impressione che Joyant non sia riu-scito mai a fare progressi.

Borget ha varcato le frontiere della Cina, e ci haammannito paesaggi messicani, peruviani e indiani.Senza essere un pittore di prim’ordine, egli dispone tut-tavia di un colore brillante e facile. I suoi toni sono fre-schi e puri. Con minor arte, e pensando meno ai pae-saggisti e dipingendo di piú da viaggiatore, Borget otter-rebbe forse risultati più interessanti.

Chacaton, che si è votato esclusivamente all’Orien-te, è da un pezzo un pittore dei piú abili con quadri alle-gri e luminosi. Peccato però che sembrino quasi sempredei Decamps e dei Marilhat ridotti e sbiaditi.

Lottier, anziché cercare il grigio e la nebbia dei climicaldi, preferisce rilevarne la crudezza e lo sfavillio incan-descente. I suoi panorami inondati di sole sono di unaverità mirabilmente crudele. Si direbbero fatti coldagherrotipo del colore.

Vi è un artista che, piú di tutti costoro, e anche degliassenti piú famosi, soddisfa, a mio giudizio, le condi-zioni del bello nel paesaggio, un artista poco noto algrande pubblico, e che antichi insuccessi e sorde anghe-rie hanno tenuto lontano dal Salon. Sarebbe tempo, misembra, che Rousseau, – si è già intuito che mi riferiscoproprio a lui, – si presentasse di nuovo al pubblico, orache altri paesaggisti lo hanno a poco a poco abituato anuove forme.

È difficile far intendere attraverso le parole il talen-to di Rousseau come quello di Delacroix, col quale egliha d’altra parte piú di un rapporto. Rousseau è un pae-

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saggista nordico. La sua pittura emana una profondamalinconia. Ama le campagne dominate dall’azzurro, icrepuscoli, i tramonti strani e umidi, le grandi piante tracui si stendono le brezze, i giochi vasti di ombre e diluce. Il suo colore è splendido, ma non squillante. I suoicieli sono unici per la loro mollezza lanosa. Se si pren-dono certi paesaggi di Rubens e di Rembrandt, e vi siinnesta qualche reminiscenza di pittura inglese, imma-ginando che unifichi e armonizzi tutto questo un amoreserio e profondo della natura, si riesce ad avere forseun’idea della magia di questi quadri. In essi Rousseautrasferisce molta parte della sua anima, allo stesso mododi Delacroix, da naturalista che sente il richiamo costan-te dell’ideale.

Gudin compromette sempre di piú la sua fama. Manmano che il pubblico fa esperienza di buona pittura, sidistacca dagli artisti piú popolari, quando essi non pos-sono piú dargli la stessa dose di piacere. SenonchéGudin appartiene alla categoria di coloro che ricopronole proprie ferite con una carne artificiale, alla schiera deicattivi cantanti di cui si dice che sono dei grandi atto-ri, e dei pittori poetici.

Jules Noël ha dipinto una bellissima marina, di uncolore chiaro e stupendo, raggiante e festoso. Una gran-de feluca, strana di forme e di colori, posa all’ancora inun grande porto, dove si accoglie e si muove tutta la lucedell’Oriente, forse con un eccesso di coloritura e undifetto di unita. – Ma Jules Noël ha certamente troppotalento per non averne ancora di piú, ed è senza dubbiouno di quelli che si propongono di progredire ogni gior-no. – D’altronde, il successo che riscuote la sua teladimostra che, in tutti i generi, il pubblico oggi è pron-to a fare buona accoglienza a ogni nome nuovo.

Kiörboë è uno di quei vecchi e fastosi pittori chesapevano decorare cosí magistralmente le nobili sale da

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pranzo, che immaginiamo gremite di cacciatori affama-ti e superbi. La pittura di Kiörboë è gioiosa e possente,il suo colore fluido e armonioso. – Il dramma del Piègeà loup [La tagliola per i lupi] non si capisce tanto facil-mente, forse perché la tagliola non è interamente inluce. E la parte posteriore del cane che arretra abbaian-do non è dipinta con adeguato vigore.

Saint-Jean, che fa le delizie e la gloria, dicono, dellacittà di Lione, non otterrà mai se non un mediocre suc-cesso in un paese di pittori. La sua minuzia eccessiva èdi una pedanteria esagerata. – Ogni qualvolta vi parle-ranno della spontaneità di un pittore lionese, non lascia-tevi ingannare. – Da un pezzo il colore generale deiquadri di Saint-Jean è giallo e piscioso. Si direbbe cheSaint-Jean non ha mai visto dei frutti veri, e che non sene preoccupa, perché li fa molto meglio a macchina: nonsoltanto i frutti della natura hanno un altro aspetto, masono anche meno rifiniti e meno elaborati dei suoi.

Non è questo il caso di Arondel, il cui merito prin-cipale è una onesta e autentica spontaneità. Nondime-no la sua pittura contiene qualche difetto evidente;senonché le parti felici sono perfettamente riuscite; altresono troppo scure, da far pensare che l’autore non sirenda conto, quando dipinge, di tutti gli inevitabiliinconvenienti del Salon, dalla pittura circostante, alladistanza dello spettatore, e alla modificazione nel reci-proco effetto dei toni a causa di tale distanza. Per di più,non basta dipingere bene. Tutti quei fiamminghi cosífamosi sapevano disporre la selvaggina e lavorarci sopraa lungo come si lavora un modello; il punto era di tro-vare linee felici e armonie di toni ricche e chiare.

P. Rousseau, del quale si sono notati piú volte i qua-dri coloratissimi e sfarzosi, è veramente cresciuto. Eraun eccellente pittore, non vi ha dubbio; ma adesso guar-da la natura con maggiore attenzione, e si studia di ren-dere le fisionomie. Ho visto di recente, da Durand-

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Ruel, alcune anatre di Rousseau di una stupenda bel-lezza, proprio con i caratteri e gli atteggiamenti di que-sti volatili.

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Perché la scultura è noiosa

L’origine della scultura si perde nella notte dei tempi;questo ne fa un’arte da Caraibi.

Infatti, vediamo che tutti i popoli erano abilissiminell’intagliare feticci assai prima di accostarsi alla pit-tura, la quale e un’arte di ragionamento profondo, il cuigodimento richiede per sé un’iniziazione particolare.

La scultura si avvicina assai piú alla natura, e per que-sto anche i nostri contadini, mentre provano piacere allavista di un pezzo di legno o di pietra ingegnosamentetornito, restano poi istupiditi davanti alla pittura piúbella. È uno strano mistero inafferrabile alla mano.

La scultura presenta varie difficoltà che derivano peruna logica necessaria dai suoi mezzi di esecuzione. Bru-tale e positiva al pari della natura, essa è insieme vaga eintangibile, in quanto mostra troppe facce in una volta.Invano lo scultore si sforza di porsi da un punto di vistaunico; girando attorno alla figura, lo spettatore può sce-gliere cento punti di vista differenti, meno quello buono,e accade spesso, cosa umiliante per l’artista, che unmovimento di luce, un effetto di lume, rivelino una bel-lezza diversa da quella a cui egli aveva pensato. Un qua-dro è solo e unicamente ciò che vuole essere; non è pos-sibile guardarlo se non nella sua luce. La pittura ha unsolo punto di vista, esclusiva e dispotica: e per questol’espressione pittorica è tanto piú forte.

Ecco perché è cosí difficile intendersi di sculturaquanto farla malamente. Ho sentito dire da Préault, lo

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scultore: «Capisco Michelangelo, Jean Goujon, Ger-main Pilon; ma di scultura non ci capisco niente». – Èchiaro che egli voleva parlare della scultura degli scal-pellatori, quella che usiamo dire dei Caraibi.

Uscita dai tempi primitivi, la scultura, nel suo piùrigoglioso sviluppo, altro non è che un’arte comple-mentare. Non si chiede più di sbozzare ingegnosamen-te delle figure che si possono spostare, ma di associarsicon umiltà alla pittura e all’architettura, e assecondarele loro intenzioni. Le cattedrali s’innalzano verso il cielo,e colmano le infinite profondità dei propri abissi consculture che fanno carne e corpo col monumento; – scul-ture dipinte, si noti bene, – i cui colori puri e semplici,ma distribuiti in una gamma tutta particolare, si armo-nizzano col resto completando l’effetto poetico dell’o-pera sovrana. Versailles accoglie il suo popolo di statuesotto le ombre che le fanno da sfondo, o sotto boschet-ti d’acque vive che riversano su di esse i mille diaman-ti della luce. In tutte le grandi epoche, la scultura è uncomplemento; al principio e alla fine, è un’arte isolata.

Non appena la scultura si fa guardare da vicino, nonvi sono minuzie né inezie a cui lo scultore non si con-ceda, le quali vincono largamente il confronto con tuttii calumè e i feticci. Da quando è divenuta un’arte dasalotto e da camera da letto, si vedono farsi avanti iCaraibi del merletto, come Gayrard, e i Caraibi dellaruga, del pelo e della verruca, come David.

Poi ecco i Caraibi dell’alare, della pendola, del cala-maio, ecc., come Cumberworth, la cui Marie è unadonna tutto fare, al Louvre e da Susse34, statua o cande-labro; – come Feuchère, che possiede il dono di unadisperante universalità: figure colossali, portafiammiferi,motivi di oreficeria, busti e bassorilievi, quello è capa-ce di tutto. – Il busto che ha scolpito quest’anno di unattore assai noto non è piú somigliante di quello del-l’anno scorso; siamo sempre nel campo delle approssi-

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mazioni. L’uno somigliava a Gesù Cristo e l’altro, ora,secco e meschino, non rende affatto la fisionomia origi-nale, angolosa, beffarda e mutevole del modello. – D’al-tro canto, non è da credere che a questi scultori facciadifetto la sapienza. Sono eruditi come degli autori dioperette e degli accademici; e si giovano di tutte le epo-che e di tutti i generi, essendo versati in tutte le scuo-le. Trasformerebbero volentieri le tombe di Saint-Denisin scatole per sigari o per cachemire, e tutti i bronzi fio-rentini in monete da due soldi. Ma chi volesse avere piúampi ragguagli sui principî di questa scuola ilare e sfar-fallona, dovrebbe rivolgersi a Klagmann, il quale è,credo, il maestro di questo laboratorio sterminato.

La prova più lampante dello stato pietoso della scul-tura, è che ne esce sovrano il Pradier. Costui in ogni casosa fare la carne, e possiede delicatezze particolari di cesel-lo; ma non l’immaginazione necessaria alle grandi com-posizioni, né la fantasia del disegno. Pradier è un talen-to freddo e accademico. Ha passato la vita a impinguaretorsi antichi, e a sistemarvi sul collo pettinature damantenute. La Poesie légère [La Poesia leggera] sembratanto più fredda quanto piú è manierata; ma l’esecuzio-ne non è cosí doviziosa come nelle prime sue opere, e datergo, è uno spavento da vedere. Pradier ha eseguito inol-tre due figure di bronzo – Anacreon [Anacreontel e laSagesse [Sapienza] –, che sono imitazioni impudenti del-l’antico, a prova che senza questa nobile stampella ilnostro scultore incespicherebbe ad ogni passo.

Il busto è un genere che richiede minore immagina-zione e facoltà meno alte della grande scultura, ma nongià meno delicate. È un’arte più intima e riposta, conun successo di un’evidenza meno pubblica. Come acca-de nel ritratto condotto alla maniera dei naturalisti,occorre comprendere perfettamente il carattere prima-rio del modello ed esprimerne la poesia, dal momentoche sono pochi i modelli che ne siano del tutto privi.

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Quasi tutti i busti di Dantan sono eseguiti secondo imigliori precetti, con un timbro singolare, dove il par-ticolare non esclude un’esecuzione ampia e agevole.

Il primo difetto di Lenglet, invece, è una certa timi-dezza, un’ingenuità, una sincerità fuor di misura nellavoro, che da alla sua opera un’apparenza di secchez-za; ma, in compenso, è impossibile prestare a una figu-ra umana un carattere piú autentico e vero. Questo pic-colo busto, raccolto, severo e accigliato, ha il trattosuperbo delle grandi opere romane, l’idealizzazione con-seguita nella stessa natura. Aggiungo che nel busto diLenglet si riconosce un altro segno tipico delle figureantiche, vale a dire un’attenzione profonda.

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Delle scuole e degli operai

Avete mai provato, voi che con la vostra curiosità daperdigiorno vi siete spesso cacciati in una sommossa, lastessa mia gioia nel vedere un tutore della pubblica quie-te, – vigile o guardia, quelli del vero esercito, – picchiareun repubblicano? E al pari di me, vi siete detti fra voi:«Picchia, picchia un po’ piú forte, picchia ancora, guar-dia del mio cuore; perché in questa picchiatura divina,io ti adoro e ti giudico simile a Giove, il grande giusti-ziere. L’uomo che picchi è un nemico delle rose e deiprofumi, un fanatico degli utensili: un nemico di Wat-teau, un avversario di Raffaello, un nemico accanito dellusso, delle arti e delle lettere, un iconoclasta giurato,carnefice di Venere e di Apollo! Non vuole più lavora-re, lui, umile, anonimo operaio, alle rose e ai profumi ditutti; vuole essere libero, l’ignorante, ed è incapace diimpiantare un laboratorio di fiori e di nuove essenze.Picchia di santa religione sulle scapole dell’anarchico35!»

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Cosí, i filosofi e i critici devono percuotere senzapietà le scimmie artistiche, operai emancipati che odia-no la forza e la sovranità del genio.

Si confronti il presente con il passato; e uscendo dalSalon o da una chiesa decorata di fresco, si vada a ripo-sare gli occhi in un museo antico per considerarne subi-to le differenze.

Da una parte, disordine, mesci-mesci di stili e dicolori, cacofonia di toni, trivialità smisurate, una prosadi gesti e di atteggiamenti, una nobiltà di convenzione,banalità allineate di ogni sorta, e tutto questo chiaro evisibile, non soltanto nei quadri che si succedono via via,ma persino dentro lo stesso quadro: in poche parole, –un’assenza completa di unità, col risultato di una faticaspaventosa per la mente e per gli occhi.

Dall’altra, invece, il rispetto che fa togliere il berrettoai bambini, e ti prende il cuore, come la polvere delletombe e dei sotterranei prende alla gola, è l’effetto, nondella vernice ingiallita e della patina del tempo, ma del-l’unità, di una unità profonda. Una grande pittura vene-ziana stona meno accanto a un Giulio Romano, di quan-to non accada a certi nostri quadri, e non dei peggiori,quando figurano l’uno accanto all’altro.

Questa magnificenza di costumi, questa nobiltà digesti, una nobiltà spesso manierata, ma grande e altera,questa assenza di espedienti e di procedimenti contrad-dittori, sono tutte qualità implicite in una parola: lagrande tradizione.

Alle scuole si contrappongono cosí gli operai eman-cipati.

Vi erano ancora delle scuole sotto Luigi XV, e ven’era una sotto l’Impero, – una scuola, come dire unafede, ossia l’impossibilità del dubbio. Vi erano allievilegati da principî comuni, che obbedivano a un capo chedettava legge e lo aiutavano sempre nei suoi lavori.

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Il dubbio, l’assenza di fede e di ingenuità, è un vizioproprio di questo secolo in cui nessuno obbedisce; el’ingenuità, per cui il temperamento prevale sulla manie-ra, è un privilegio divino negato a quasi tutti.

Pochi sono gli uomini che hanno il diritto di regnare,giacché sono pochi gli uomini con una grande passione.

E siccome oggi tutti vogliono regnare, nessuno sagovernarsi.

Oggi che ognuno è lasciato a se stesso, un maestro sitrova ad avere molti allievi sconosciuti di cui non èresponsabile, e il suo dominio, inconsapevole e invo-lontario, si estende molto al di là della sua bottega, sinoa regioni dove il suo pensiero non può essere compreso.

Coloro che sono più vicini alla parola e al verbo delmaestro conservano la purezza della dottrina, e fanno,per obbedienza e per tradizione, ciò che il maestro fa peril destino della sua struttura mentale.

Ma al di fuori di questa cerchia familiare, si formauna vasta comunità di mediocri, scimmie di razze diver-se e incrociate, popolo fluttuante di meticci che passa-no ogni giorno da un paese all’altro, arraffando da ogniparte gli usi che gli tornano comodi, e cercando di for-marsi un carattere con un sistema di imprestiti con-traddittori.

Vi sono di quelli che ruberanno un frammento di unquadro di Rembrandt, e lo mescoleranno a un’opera com-posta secondo un significato diverso senza modificarlo,senza digerirlo e senza trovare il mastice per incollarlo.

Ve ne sono che cambiano in poche ore dal bianco alnero: ieri, coloristi di chic, coloristi senza amore né ori-ginalità; domani, empi imitatori di Ingres, senza trovarvipiù gusto né fede.

Chi rientra oggi nella classe delle scimmie, anche seabilissimo, non è e non sarà mai che un pittore medio-cre, mentre una volta sarebbe stato un eccellente ope-raio. Ne viene che egli è perduto per sé e per gli altri.

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Per questo sarebbe stato meglio nell’interesse dellaloro salvezza, e persino della loro fortuna, che i debolifossero sottomessi alla ferula di una fede vigorosa; vistoche i forti sono rari, e bisogna essere nel tempo presen-te Delacroix o Ingres per stare a galla ed emergere dalcaos di una libertà sfibrante e sterile.

Le scimmie sono i repubblicani dell’arte, e lo statoattuale della pittura è il risultato di una libertà anarchi-ca che esalta l’individuo, per debole che sia, a detri-mento delle associazioni, cioè delle scuole.

Nelle scuole, che altro non sono se non la forza d’in-venzione organizzata, gli individui veramente degni diquesto nome assorbono i deboli; e questo è veramentegiusto, se una larga produzione equivale a un pensierocon mille braccia.

Questa glorificazione dell’individuo ha comportatouna divisione inarrestabile del territorio dell’arte. Lalibertà assoluta e divergente del singolo, la divisionedegli sforzi e la frantumazione della volontà umanahanno prodotto questa debolezza, dubbio e povertà d’in-venzione; alcuni eccentrici, sublimi e angosciati, non rie-scono a compensare questo disordine in cui pullulanotante mediocrità. L’individualità, – che è una piccola pro-prietà, – ha divorato l’originalità collettiva; e, come si èdimostrato, in un celebre capitolo di un romanzo roman-tico36, che il libro ha ucciso il monumento, si può dire cheoggi il pittore ha soppresso la pittura.

xviii

Dell’eroismo della vita moderna

Molti vogliono attribuire la decadenza della pitturaalla decadenza dei costumi37. Questo pregiudizio di arti-sti, che si è diffuso tra il pubblico, è una pessima giu-

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stificazione invocata dagli stessi pittori, interessati comeerano a rappresentare fedelmente il passato, essendo ilcompito più facile, e avendovi una sua parte anche lapigrizia.

È vero che la grande tradizione è andata perduta, ela nuova non è ancora nata.

Che altro era la grande tradizione, se non l’idealiz-zazione normale e consueta della vita antica; vitamaschia e guerriera, stato di difesa di ogni individuo chevi portava l’abito dei gesti severi, degli atteggiamentimaestosi o violenti. Si aggiunga lo sfarzo pubblico chesi rifletteva nella vita privata. La vita antica, costituitasoprattutto per il piacere degli occhi, rappresentava quasiogni cosa; e questo paganesimo del quotidiano ha con-tribuito in modo mirabile alle arti.

Ma prima di ricercare quale possa essere il lato epicodella vita moderna, e dimostrare con qualche esempiocome la nostra epoca non sia meno fertile delle antichedi motivi sublimi, si può sostenere che siccome ognisecolo e ogni popolo ha avuto la propria bellezza, noidobbiamo avere per forza la nostra. E ciò è nell’ordinedelle cose.

Ogni bellezza ha in sé, come qualsiasi fenomeno pos-sibile, qualcosa di eterno e qualcosa di transitorio, – diassoluto e di particolare. La bellezza assoluta ed eternanon esiste, o meglio non è che un’astrazione distillatadall’intera superficie delle diverse bellezze. L’elementospecifico di ogni bellezza viene dalle passioni, e come noiabbiamo le nostre passioni, cosí abbiamo la nostra bel-lezza.

Se si escludono Ercole sul monte Eta, Catone l’Uti-cense e Cleopatra, i cui suicidi non sono suicidi moder-ni38, quali suicidi si vedono nei quadri antichi? In tuttele esistenze pagane, votate al desiderio, non è possibiletrovare il suicidio di Jean-Jacques, e neppure lo stranoe meraviglioso suicidio di Raphaël de Valentin.

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Quanto all’abito, al tegumento dell’eroe moderno, –benché sia passato il tempo in cui gli imbrattatele sivestivano da mamamusci e fumavano in spingarde, – glistudi dei pittori e la società sono ancora pieni di genteche vorrebbe rendere poetico Antony39 con un mantel-lo greco o una tunica di due colori.

Eppure, non ha una sua bellezza e un suo fascinonativo, quest’abito cosí vilipeso? Non è l’abito inelut-tabile della nostra epoca, un’epoca sofferente che portaanche sulle spalle magre e nere il simbolo di un luttosenza fine? Si noti bene che l’abito nero e la finanzieranon possiedono soltanto una loro bellezza politica, e-spressione dell’uguaglianza universale, ma anche unaloro bellezza poetica, in cui si esprime l’anima colletti-va; – un’immensa sfilata di beccamorti, beccamorti poli-tici, beccamorti innamorati, beccamorti borghesi. Tuttinoi celebriamo un qualche funerale.

Una livrea uniforme di desolazione è il segno dell’u-guaglianza; e agli eccentrici, che con i loro colori crudie violenti davano subito nell’occhio, bastano oggi certesfumature nel disegno, nel taglio, ancor più che nel colo-re. Non hanno forse una propria grazia misteriosa le pie-ghe arricciate che si attorcigliano come serpenti intornoa una carne mortificata?

Eugène Lami e Gavarni, che pure non sono artistisupremi, lo hanno capito perfettamente: – l’uno, poetadel dandismo ufficiale; l’altro, poeta del dandismoavventuroso e d’occasione! Rileggendo i capitoli duDandysme di Jules Barbey d’Aurevilly, il lettore puòchiaramente vedere che il dandismo è un fenomenomoderno, dovuto a cause altrettanto nuove.

Che la turba dei coloristi contenga la sua protesta:poiché, quanto piú difficile è un’impresa, tanto più è glo-riosa. I grandi coloristi sanno fare del colore con unabito nero, una cravatta bianca e un fondo grigio.

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Per tornare alla questione principale ed essenziale,che è quella di sapere se possediamo una bellezza parti-colare, inerente a passioni nuove, osservo che la maggiorparte degli artisti che hanno affrontato i soggetti moder-ni si sono limitati ai temi pubblici e ufficiali, alle nostrevittorie e al nostro eroismo politico. Ma bisogna aggiun-gere poi che essi lo fanno di contraggenio, e comandatidal governo che li paga. Eppure non mancano soggettiprivati, con ben altro eroismo.

Lo spettacolo della vita elegante e delle innumeri esi-stenze vaganti che si aggirano negli ipogei di una gran-de città, – criminali e puttane mantenute, – «La Gazet-te des tribunaux» e «Le Moniteur» dimostrano chebisogna solo aprire gli occhi per conoscere il nostro eroi-smo.

Un ministro, perseguitato dalla curiosità impertinen-te dell’opposizione, con quella superba e sovrana elo-quenza che gli è propria, ha dichiarato, una volta pertutte, il suo disprezzo e il suo disgusto per tutte le oppo-sizioni ottuse e importune, – la sera sul Boulevard desItaliens si sentono in giro discorsi del genere: «Eri allaCamera oggi? hai visto il ministro? Per D... ! era stu-pendo! non ho mai visto niente di piú fiero!»

Esiste dunque una bellezza e un eroismo moderno!E poco più in là: «È K... – o F... – che ha avuto l’in-

carico di fare questa medaglia; ma non saprà farla; nonpuò capire certe cose!»

Vi sono dunque artisti piú o meno capaci di com-prendere la bellezza moderna.

Oppure: «Il sublime B...! I pirati di Byron sonomeno grandi e meno sdegnosi. Ci crederai se ti dico cheha dato uno spintone all’abate Montès, ed è corso sullaghigliottina gridando: “Lasciatemi tutto il mio corag-gio!”»

Questa frase allude alla macabra bravata di un cri-minale, gran protestatario, vigoroso e ben piantato, il cui

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feroce coraggio non ha chinato la testa neppure davan-ti alla macchina suprema!

Tutte queste parole, che vi vengono alle labbra,dimostrano che credete in una bellezza nuova e parti-colare, che non è né quella di Achille né quella di Aga-mennone.

La vita parigina è fertile di soggetti poetici e mera-vigliosi. Il meraviglioso ci avvolge e ci bagna come l’at-mosfera; ma non lo vediamo.

Il nudo, cosa cosí cara agli artisti è tanto necessarioal successo, è frequente e indispensabile non meno chenel mondo antico: – a letto, nel bagno, nell’anfiteatro.I mezzi e i motivi della pittura sono del pari vari ecopiosi: ma c’è un elemento nuovo, che è la bellezzamoderna.

In effetto gli eroi dell’Iliade non vi arrivano che allacaviglia, o Vautrin, Rastignac, Birotteau, – e tu, Fon-tanarès, che non hai osato raccontare al pubblico i tuoidolori sotto il frac funebre e spiegazzato che tutti indos-siamo; – e tu, Honoré de Balzac, tu il più eroico, il piúsingolare, il piú romantico e il più poetico di tutti i per-sonaggi che hai tratto dalla tua carne.

1 [La collezione di Luigi Filippo che sarà esposta al Louvre fino al1848, Particolarmente ricca di pitture spagnole].

2 So bene che la critica attuale ha altre pretese; e per questo rac-comanderà sempre il disegno ai coloristi e il colore ai disegnatori. Chegusto oltremodo ragionevole e sublime!

3 A proposito dell’individualismo rettamente interpretato, si vedanel Salon del 1845 l’articolo su William Haussoullier. Nonostante tuttii rimproveri che mi sono stati fatti al riguardo, non rinuncio al mio con-vincimento; ma bisogna capire l’articolo.

4 [Raoul Rochette (1789-1854) archeologo ufficiale, segretario per-petuo dell’Académie des Beaux-Arts].

5 Stendhal.6 Fatta eccezione per il giallo e l’azzurro da cui deriva; ma io qui

mi riferisco soltanto ai toni puri. Infatti questa regola non vale per i

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coloristi trascendenti che conoscono a fondo la scienza del contrap-punto.

7 Kreisleriana.8 Metto appestati invece di massacro, per spiegare ai critici disat-

tenti i toni dell’incarnato, che cosí spesso sono stati oggetto di cen-sura.

9 Per ingenuità del genio bisogna intendere la scienza del mestierecombinata con lo gnóthi seautón, ma la scienza modesta, che lascia laparte migliore al temperamento.

10 È quello che Thiers chiamava l’immaginazione del disegno.11 [Dipinto da Paul Delaroche tra il 1838 e il 184].12 [Dipinto da Ingres nel 1827].

13 Inferno, Dante, canto IV, traduzione di Pier Angelo Fiorentino,la sola buona per i poeti e i letterati che non sanno l’italiano.

14 [Frédérick Lemaître (18oo-1876) attore drammatico e comico, sar-castico e cinico, creò il personaggio di Robert Macaire (cfr. p. 14o e p.166). William Charles Macready (1793-1873) attore tragico inglese cherecitò a Parigi nel 1844-45].

15 [Di Watteau].16 Mi è stato detto che Delacroix ha fatto in passato per il suo Sar-

danapale un grosso numero di meravigliosi studi di donne, nelle posepiú voluttuose.

17 Due quadri essenzialmente d’amore, del resto mirabili, di questiultimi tempi, sono la grande Odalisque e la petite Odalisque di Ingres.

18 Sedebant in fornicibus pueri puellaeve sub titulis et lychnis, illifemineo compti mundo sub stola, hae parum comptae sub puerorumveste, ore ad puerilem formam Composito. Alter venibat sexus sub alte-ro sexu. Corruperat omnis caro viam suam. – Meursius.

19 Niente di assoluto: – cosí, l’ideale del compasso è la peggioredelle sciocchezze; – né di completo: – cosí occorre tutto completare,e ritrovare ogni singolo ideale.

20 Dico la contraddizione e non il contrario, perché la contraddi-zione è invenzione dell’uomo.

21 Histoire de la peinture en Italie, cap. ci. Queste cose si stampava-no nel 1817! [Personaggio del Vicario di Wakefield di Goldsmith].

22 [Cfr. Alcuni caricaturisti francesi, p. 172].23 [Nelle Fantasie alla maniera di Callot di Hoffmann].24 H. de Balzac ha scritto una volta: le chique.25 [Cioè il giornale ufficiale].26 Espressione di Marc Fournier, che può valere per quasi tutti i

romanzieri e gli storici alla moda, che non sono altro che gazzettieri,come Horace Vernet.

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27 La vera memoria, considerata da un punto di vista filosofico, nonconsiste, a mio avviso, che in un’immaginazione vivissima, facile all’e-mozione, e perciò suscettibile di evocare a sostegno di ogni sensazio-ne le scene del passato, infondendovi, come per incantesimo, la vita eil carattere propri di ciascuna di esse; tale è almeno la tesi che ho sen-tito sostenere da uno dei miei antichi maestri, che aveva una memoriaprodigiosa, benché non riuscisse a ritenere né una data né un nomeproprio. – Quel maestro aveva ragione, e certo ben diversa è l’incidenzadelle parole e dei discorsi che sono penetrati profondi nell’anima e dicui si è potuto cogliere il senso intimo e misterioso, che non quella diparole imparate a memoria. – Hoffmann.

28 Cosí si può cantare davanti a tutte le tele di Horace Vernet:Vous n’avez qu’un temps à vivre,Amis, passez-le gaiement.

[Amici che una sola vita avete | su con la gioia, via piú che potete].Allegria squisitamente francese.

29 A coloro che possono essere rimasti scandalizzati dalle mie piecollere, raccomando la lettura dei Salons di Diderot. Tra vari esempidi carità rettamente intesa, troveranno che il grande filosofo, a pro-posito di un pittore che gli era stato raccomandato, perché aveva dasfamare parecchie bocche, sostiene che bisogna abolire o i quadri o lafamiglia.

30 [Di Eugène Giraud, che conobbe larga diffusione attraverso leriproduzioni].

31 [Pasticceria parigina della rue Vivienne].32 [Dramma di Victor Hugo].33 Ho finalmente trovato un uomo che ha saputo esprimere la sua

ammirazione per i Meissonier nel modo piú ragionevole, e con unentusiasmo del tutto simile al mio. Si tratta di Hippolyte Babou. E sonod’accordo con lui che bisognerebbe appenderli tutti ai fregi del Gym-nase. – «Geneviève o la jalousie paternelle [Genoveffa, o la Gelosiapaterna] è uno stupendo piccolo Meissonier che Scribe ha attaccato aifregi del Gymnase». – «Courrier français», appendice del 6 aprile. –Il fatto mi è parso tanto sublime da farmi ritenere che Scribe, Meis-sonier e Babou non potevano che trarre uguale profitto da questa miacitazione.

34 [Notissima bottega parigina, in Place de la Bourse, che vendevacolori, cornici, ma anche oggetti vari, piccole sculture, ecc.].

35 Sento spesso la gente lamentarsi del teatro moderno; manca dioriginalità, dicono, perché non ci sono piú tipi. E il repubblicano! dovelo mettete? Non è una necessità di ogni commedia che vuol essere alle-gra, e non è forse un personaggio che ha preso il posto del marchese?

36 [Ceci tuera cela, nel libro V di Notre-Dame de Paris di VictorHugo].

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37 È un errore confondere questa decadenza con la prima: l’una con-cerne il pubblico e i suoi sentimenti, mentre l’altra non riguarda che ipittori.

38 Il primo si uccide perché le bruciature delle vesti gli divengonointollerabili; il secondo perché non può fare piú nulla per la libertà, ela voluttuosa regina perché perde il trono e l’amante; ma nessuno si sop-prime per cambiare pelle in vista della metempsicosi.

39 [Personaggio del dramma omonimo di Alexandre Dumas].

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