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Questo intervento, il cui carattere è volutamente frammentario, na- sce da un’intervista realizzata a Venezia nel mese di febbraio 2010. I l prImo argomento che vorrei toccare relativamen- te a Dido and Aeneas di Purcell, riguarda la questio- ne dell’incompiutezza, delle parti mancanti. Si trat- ta di un problema tutt’ora vivo, che si ripresenta ogni volta che quest’opera viene interpretata. È infatti possibile ravvisare una discrepanza abbastanza rilevan- te tra il libretto e la partitura: al- cune parti di testo, ad esempio un prologo, non risultano musi- cate, o perlomeno la musica non è stata rinvenuta e non si è nem- meno in grado di stabilire se Purcell l’abbia realmente scrit- ta. Il punto più dolente di que- sta questione riguarda il finale del secondo atto, durante il qua- le, in un recitativo molto nobi- le e drammatico, Enea annuncia la sua partenza a Didone. L’at- to finisce con uno stacco net- to, venendo così a rompere que- gli schemi di simmetria – essen- ziali non solo nel lavoro di Pur- cell ma anche in tutta l’opera di quel periodo – ravvisabili inve- ce negli altri atti, che prevedono parti corali e altre danzate. Ta- le stravolgimento delle simme- trie ha sempre lasciato profon- de perplessità, alle quali non si è mai riusciti a dare ri- sposte efficaci. Un problema ulteriore scaturisce dal fat- to che la partitura di cui si dispone è un manoscritto non autografo, che risale a quasi cinquant’anni dopo la data della vera rappresentazione dell’opera, che avvenne nel 1689 nel collegio femminile di Chelsea. Unita alla rottu- ra della simmetria, tale mancanza ha sempre inquietato non solo i critici ma anche e soprattutto i musicisti. Tra le molte proposte di soluzione vor- rei ricordare quella pensata da Benjamin Britten, probabilmen- te la più importante e autorevo- le. Nel 1950 circa, Britten propo- se di colmare la lacuna utilizzan- do musiche dello stesso Purcell estratte da altri suoi lavori, che potessero però convenire dal punto di vista tonale e inserirsi a creare un finale più ar- monioso. Nell’attuazione del progetto, Britten ci mise del suo – ad esempio rivide i bassi e l’armonia – e la sua solu- zione fu molto criticata, addirittura suscitando una dia- triba che finì stampata nelle colonne del «Times». Fu dun- que un’operazione controversa, accettata e discussa, che è possibile andare a verificare e valutare grazie a un’inci- sione discografica molto rara. L’idea di inserire delle parti che concludano in maniera più armoniosa il secondo at- to è una soluzione corrente, che si trova anche in molti altri interpreti. Fra questi vorrei ricordare almeno quella realizzata dall’orchestra delle cosiddette Arts Florissants di Parigi diretta da William Christie, particolarmente au- torevole sul piano dello stile e della qualità. Ma non vo- glio qui addentrarmi in maniera eccessiva in questioni fi- lologiche, che sono infinite e circa le quali esiste un’enor- me letteratura. Il destino di Dido and Aeneas fu piuttosto travagliato, cu- rioso e interessante. Rappresentata un’unica volta men- tre Purcell era ancora in vita, cadde presto nel dimentica- toio. Fu negli anni successivi che il maestro inglese assur- se alla fama, grazie a lavori quali King Arthur o The Fairy- Queen, che vennero considerati dal pubblico risultati più elevati rispetto a Dido and Aeneas. Bisognerà attendere il 1700 per assistere alla ripresa di quest’opera, che avverrà in una maniera molto singolare. Messa in scena al Linco- ln’s Inn Fields di Londra, fu rappresentata incastonando- ne i tre atti tra l’uno e l’altro dei cinque che compongono la pièce di Shakespeare Misura per misura. E per riempire il «buco» dell’atto mancante, si decise di musicare il prologo, lavoro che, come già ri- levato, Purcell non aveva mai re- alizzato. In questa forma l’ope- ra riscosse un certo successo, as- Purcell, un continente da scoprire Il destino travagliato di «Dido and Aeneas» di Enzo Restagno Venezia – Teatro La Fenice Dido and Aeneas di Henry Purcell maestro concertatore e direttore Attilio Cremonesi Orchestra e Coro del Teatro La Fenice regia, scene, costumi e coreografia Saburo Teshigawara nuovo allestimento Fondazione Teatro La Fenice 14, 16, 18 marzo, ore 19.00 20, 21 marzo, ore 15.30 10 — focus on focus on

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Questo intervento, il cui carattere è volutamente frammentario, na-sce da un’intervista realizzata a Venezia nel mese di febbraio 2010.

Il prImo argomento che vorrei toccare relativamen-te a Dido and Aeneas di Purcell, riguarda la questio-ne dell’incompiutezza, delle parti mancanti. Si trat-

ta di un problema tutt’ora vivo, che si ripresenta ogni volta che quest’opera viene interpretata. È infatti possibile ravvisare una discrepanza abbastanza rilevan-te tra il libretto e la partitura: al-cune parti di testo, ad esempio un prologo, non risultano musi-cate, o perlomeno la musica non è stata rinvenuta e non si è nem-meno in grado di stabilire se Purcell l’abbia realmente scrit-ta. Il punto più dolente di que-sta questione riguarda il finale del secondo atto, durante il qua-le, in un recitativo molto nobi-le e drammatico, Enea annuncia la sua partenza a Didone. L’at-to finisce con uno stacco net-to, venendo così a rompere que-gli schemi di simmetria – essen-ziali non solo nel lavoro di Pur-cell ma anche in tutta l’opera di quel periodo – ravvisabili inve-ce negli altri atti, che prevedono parti corali e altre danzate. Ta-le stravolgimento delle simme-trie ha sempre lasciato profon-de perplessità, alle quali non si è mai riusciti a dare ri-sposte efficaci. Un problema ulteriore scaturisce dal fat-to che la partitura di cui si dispone è un manoscritto non autografo, che risale a quasi cinquant’anni dopo la data della vera rappresentazione dell’opera, che avvenne nel 1689 nel collegio femminile di Chelsea. Unita alla rottu-ra della simmetria, tale mancanza ha sempre inquietato non solo i critici ma anche e soprattutto i musicisti. Tra le molte proposte di soluzione vor-rei ricordare quella pensata da Benjamin Britten, probabilmen-te la più importante e autorevo-le. Nel 1950 circa, Britten propo-se di colmare la lacuna utilizzan-do musiche dello stesso Purcell estratte da altri suoi lavori, che potessero però convenire dal

punto di vista tonale e inserirsi a creare un finale più ar-monioso. Nell’attuazione del progetto, Britten ci mise del suo – ad esempio rivide i bassi e l’armonia – e la sua solu-zione fu molto criticata, addirittura suscitando una dia-triba che finì stampata nelle colonne del «Times». Fu dun-que un’operazione controversa, accettata e discussa, che è possibile andare a verificare e valutare grazie a un’inci-sione discografica molto rara. L’idea di inserire delle parti che concludano in maniera più armoniosa il secondo at-to è una soluzione corrente, che si trova anche in molti altri interpreti. Fra questi vorrei ricordare almeno quella realizzata dall’orchestra delle cosiddette Arts Florissants di Parigi diretta da William Christie, particolarmente au-torevole sul piano dello stile e della qualità. Ma non vo-glio qui addentrarmi in maniera eccessiva in questioni fi-lologiche, che sono infinite e circa le quali esiste un’enor-me letteratura.

Il destino di Dido and Aeneas fu piuttosto travagliato, cu-rioso e interessante. Rappresentata un’unica volta men-

tre Purcell era ancora in vita, cadde presto nel dimentica-toio. Fu negli anni successivi che il maestro inglese assur-se alla fama, grazie a lavori quali King Arthur o The Fairy-Queen, che vennero considerati dal pubblico risultati più elevati rispetto a Dido and Aeneas. Bisognerà attendere il 1700 per assistere alla ripresa di quest’opera, che avverrà in una maniera molto singolare. Messa in scena al Linco-ln’s Inn Fields di Londra, fu rappresentata incastonando-

ne i tre atti tra l’uno e l’altro dei cinque che compongono la pièce di Shakespeare Misura per misura. E per riempire il «buco» dell’atto mancante, si decise di musicare il prologo, lavoro che, come già ri-levato, Purcell non aveva mai re-alizzato. In questa forma l’ope-ra riscosse un certo successo, as-

Purcell,un continenteda scoprireIl destino travagliatodi «Dido and Aeneas»

di Enzo Restagno

Venezia – Teatro La FeniceDido and Aeneas di Henry Purcell

maestro concertatore e direttore Attilio CremonesiOrchestra e Coro del Teatro La Fenice

regia, scene, costumi e coreografia Saburo Teshigawaranuovo allestimento Fondazione Teatro La Fenice

14, 16, 18 marzo, ore 19.0020, 21 marzo, ore 15.30

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solvendo anche a uno scopo didascalico: l’argomento di Misura per misura, infatti, era piuttosto scabroso, e quindi per una sorta di lezione di moralità funzionò bene l’in-serimento di una pièce musicale come Dido and Aeneas.

La storia dell’opera si dipana dunque lunga e contrasta-ta. Il pieno recupero di questo lavoro, la coscienza com-pleta del suo grande valore musicale la si acquista molto più tardi, agli inizi del Novecento, periodo in cui pren-dono il via interpretazioni importanti da parte non solo di grandi musicisti ma anche di grandi registi, tra cui ad esempio Gordon Craig.

La Dido di Purcell è stata definita l’opera più bella che mai sia stata scritta tra Monteverdi e Mozart. Non è poco ed è probabilmente vero: il pubblico infatti l’ama moltis-simo. La musica che la compone è meravigliosa, e Purcell ebbe il dono unico di saper far cantare la lingua inglese. E ci riuscì stupendamente, grazie anche all’esperienza com-positiva di una lunghissima serie di Song, di canzoni, nelle quali si può cogliere la straordinaria operazione di meta-

bolizzazione che il compositore compì dei modelli italia-ni. Nel 1660 circa erano stati tradotti in inglese i cosiddet-ti Principi sulla tecnica del canto del Caccini, il che testimonia come l’arte di far cantare la parola, di partire dalla sua pu-ra fonicità e ampliarla nel canto fosse stata un’invenzione del nostro Paese. Nel 1680 Purcell ha oramai ventun’anni ed è già un grande musicista, dotato di un orecchio sensi-bilissimo nel cogliere questi stimoli, che lo portano a im-padronirsi ad esempio della tecnica della ripetizione del-le parole allungando l’arcata espressiva della frase, tratto tipico della musica italiana fin dagli inizi. Questo invece non si riscontra nei Song che Purcell aveva scritto in pre-cedenza seguendo la tradizione popolare inglese, che era più semplice e al tempo stesso più vivace dal punto di vi-sta ritmico. E in questi due contenitori di stile vanno a collocarsi le grandi pagine liriche di Dido and Aeneas: da un lato abbiamo il Song di origine popolare, quello appun-

to più ritmico, mentre dall’altro è possibile ravvisare il ge-nere dei Song declamati di origine italiana, in cui si verifi-ca un’attenta opera di meditazione sul potere sonoro del-la parola in sé. Le arie più nobili, come ad esempio il gran-de lamento di Didone, sono tutte caratterizzate da questo uso della lingua e quindi dall’abile ripetizione modellata sull’esempio italiano, che già allora a Londra si era impo-sto in maniera significativa.

La grandezza e il talento di Purcell sono unici anche nel saper cogliere quelli che sono gli aspetti atmosferici: ba-sti pensare al secondo atto, alle scene della caccia, a quel-le che si svolgono nei campi, dove si apprezzano sia una sorta di sublime leggerezza, che circola in una musica lie-ve, volatile, leggerissima, sia momenti in cui tutto va a intensificarsi.

Ancora una volta senza sprofondare nelle sabbie mobi-li della filologia, vorrei infine porre l’attenzione sull’ele-mento soprannaturale che caratterizza l’opera. Si pensi al momento in cui, poiché così gli viene ingiunto da un

messaggero celeste, Enea viene costretto a riprendere il mare e ad abbandonare Didone. Uomo di fede e coraggio, china il capo e ubbidisce, sia pur a malincuo-re. In realtà tutto ciò è un perfi-do gioco tramato dalle streghe, che incombono in primo pia-no con cori che inneggiano e di-chiarano quella che è la loro na-tura: queste creature – conside-rate fautrici di complotti terribi-li, mortali, che avranno esiti fu-nesti – godono nel fare il male, e le disgrazie altrui sono per lo-ro fonte di benessere e soddisfa-zione. La presenza delle streghe è tipica della tradizione teatrale inglese, non esclusiva ma mol-to diffusa: si pensi ad esempio all’importanza che queste figure hanno nel Macbeth di Shakespea-re e poi, a tanti anni di distanza, anche in quello di Verdi. Le per-fide intenzioni di questo mondo soprannaturale rispecchiano di fatto vicende politiche: le stre-ghe sarebbero infatti il simbolo

dei papisti, delle congiure del clero romano ai danni del-la riformata Inghilterra. In quegli anni il clima religio-so era ancora caratterizzato da una forte turbolenza e da molte tensioni. Ma se all’epoca di Shakespeare tutto ciò veniva visto come qualcosa di drammatico e di terribile, nell’opera di Purcell, non volendo insistere e sostare trop-po a lungo in questa visione negativa, vi è piuttosto una sorta di scivolamento verso un registro che si muove tra il comico e il grottesco. E grazie all’uso di stravolgimen-ti timbrici, facendo cantare per esempio la regina delle streghe in un registro spesso molto grave, Purcell scri-ve in questo senso delle pagine davvero straordinarie. ◼

Nelle immagini:Dido and Aeneas, bozzetti di Hein Heckroth, Münster, 1926.

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Il poeta e commediografo Nahum Tate nacque in Ir-landa intorno al 1652 da Faithful e Katherine Tea-te (Nahum soppresse la «e» dalla grafia del cogno-

me). Non molto è noto della sua infanzia, se non che pro-babilmente dovette viaggiare spesso fra Inghilterra e Ir-landa con il padre, poeta e prelato protestante dalle for-

ti simpatie puritane. Nahum Tate venne educato nel pre-stigioso Trinity College di Dublino, che più tardi ricordò in un’ode, musicata da Purcell nel 1694. Stabilitosi a Lon-dra, Tate entrò presto nei circoli letterari più importanti della capitale. Le sue doti di poeta e traduttore e la sua fe-deltà nei confronti dei sovrani che si erano nuovamente insediati sul trono d’Inghilterra, dopo la Rivoluzione pu-ritana, gli guadagnarono l’attenzione della corte e gli per-misero di mettere a frutto i propri talenti. Attraverso il suo principale mecenate, il conte di Dorset, Tate entrò in rapporto con il più importante scrittore inglese del tem-po, John Dryden, con il quale collaborò scrivendo alcune

versioni delle Eroidi e delle Epistole di Ovidio.Ovidio sembra essere stato una delle maggiori fonti

d’ispirazione per Tate, che tradusse anche i Rimedia amo-ris, alcuni libri delle Metamorfosi, e il frammento del poe-metto Medicamina faciei feminae. L’influenza di Ovidio, uno degli autori classici più venerati dalla cultura inglese del-la Restaurazione e del primo Settecento, si fa sentire an-che nel libretto Dido and Aeneas, che – certo – è tratto dal quarto libro dell’Eneide di Virgilio ma pone tutta la sua at-tenzione sul tema ovidiano, svolto nella settima epistola delle Eroidi, dell’amore elegiaco e tragico di Didone, an-ziché sul destino dinastico di Enea.

Tate aveva iniziato la sua carriera di commediografo, undici anni prima del Dido and Aeneas, proprio parten-do da una riscrittura dell’episodio di Didone ed Enea, con Brutus of Alba, or The Enchanted Lovers (Bruto di Alba, ovvero Gli amanti incantati, 1678), tragedia che narra le vi-cende di Bruto, nipote di Enea e mitico primo re di Bri-

tannia, ma si concentra soprattutto sui compli-cati amori dell’eroe per una nobildonna. Per i suoi successivi lavori te-atrali, dopo l’insucces-so di una seconda trage-dia, The Loyal General (Il generale fedele, 1679), Ta-te decise di concentrarsi soprattutto sugli adatta-menti da Shakespeare. Il bardo inglese, da quan-do Dryden lo aveva ri-lanciato sulle scene con la sua versione dell’An-tonio e Cleopatra, intitolata All for Love (Tutto per amo-re, 1677), era diventato oggetto delle attenzioni dei commediografi della Restaurazione che lo vo-levano adeguare al gusto raffinato e razionalista dei canoni neoclassici. I tre adattamenti di Tate, dal Riccardo II, King Lear e Coriolano, sono inegua-li per successo e risulta-ti. Il primo venne censu-rato per ben due volte a causa di un fortuito ma quantomai improvvido impigliarsi del testo nel-

le feroci discussioni sulla successione dinastica che sta-vano dividendo l’Inghilterra, alla ricerca di un legittimo erede di Carlo II, regnante senza figli. Al suo involonta-rio sostegno della ribellione antimonarchica, Tate pose poi rimedio con una riscrittura fortemente politica del Coriolano, The Ingratitude of a Commonwealth (L’ingratitudine di un Commonwealth, 1682), trasformando l’eroe del dramma shakespeariano in un’allegoria del duca di York, il più di-retto successore a Carlo II e futuro sovrano d’Inghilter-ra con il nome di Giacomo II. Come detto, Tate non fe-ce mai mancare il suo tributo di fedeltà al sovrano legit-timo, anche se ben presto smise di appoggiare Giaco-

Nahum Tate,poeta ovidianoe sentimentaleUn ritratto del librettistadi «Dido and Aeneas»

di Flavio Gregori

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mo a causa delle sue aspirazioni assolutiste e filocattoli-che, per sostenere invece la causa di Guglielmo d’Oran-ge, divenuto Guglielmo III d’Inghilterra dopo la «rivolu-zione gloriosa» del 1688 che depose Giacomo. La nuova e convinta fedeltà a Guglielmo, salutato da Tate come il difensore delle libertà costituzionali, gli procurò nel 1692 l’elezione alla carica di poeta di corte o «poeta laureato», la massima onorificenza per uno scrittore inglese.

Tornando agli adattamenti da Shakespeare, se i due so-pra menzionati furono un fiasco per Tate, il primo a causa della censura, l’altro per la fredda accoglienza del pubbli-co, la riscrittura di Re Lear gli procurò invece un enorme successo. Come gli altri commediografi neoclassici, Ta-te si era incaricato di rifinire i testi shakespeariani secon-do i canoni estetici e sociali allora imperanti. Come egli stesso scrive nella dedica del suo King Lear (1680-1681), Tate aveva trovato «un mucchio di gio-ielli sparpagliati e sporchi» e si era prefisso di levigarli, dotando-li di uno stile più regolare, di una maggiore sim-metria nella distri-buzione dell’azio-ne, e di una mo-ralità poetica fondata sul-la giustizia distributi-va. Inoltre aveva au-mentato a dismisu-ra il ruolo dei sen-t i m e n -t i melo-dramma-tici, al pun-to da inven-tare di sana pianta una lo-ve story fra Ed-mund e Corde-l ia, trasformare Edgar in un tipico li-bertino della Restaura-zione che tenta di sedurre e violentare la giovane eroina, e infine introdurre un happy ending in cui Lear sopravvive e abdica al trono in fa-vore di Edgar, che a sua volta sposa l’amata Cordelia fa-cendola regina. Non deve sorprendere che in epoche suc-cessive il Lear sarebbe diventato uno degli esempi per ec-cellenza di come il neoclassicismo sfigurava le opere di Shakespeare per adattarle ai propri gusti. Il termine Ta-tification, «tatificazione», sarebbe divenuto sinonimo per descrivere la ridicola pretesa di «migliorare» le opere del grande bardo. Tuttavia alcune soluzioni melodrammati-che adottate da Tate erano, e restano interessanti.

In Dido and Aeneas, libretto composto per le allieve del-la scuola femminile di Josias Priest a Chelsea ma forse già in parte messo in scena per le celebrazioni per l’incoro-nazione di Guglielmo III (1688), il sentimentalismo pa-tetico è portato ai massimi risultati: la regina di Cartagine

diviene la vera eroina del testo, un personaggio traboc-cante di passione dolorosa e portavoce di una pietas pie-na di misericordia, dunque dalla parte della civiltà e non del mondo «barbaro» come accadeva in Virgilio. Infat-ti, in Tate la barbarie è trasferita nel mondo misterioso e malvagio delle streghe che preparano la distruzione del regno di Cartagine. Forse le streghe – come fa intendere l’epilogo al dramma composto da Thomas D’Urfey – po-trebbero essere un’allusione satirica alla nefasta influen-za dei sobillatori papisti che avevano traviato il re da po-co deposto, Giacomo II (Enea), facendogli dimenticare l’amore dovuto alla sua nazione (Didone). Che questa in-terpretazione politica delle streghe sia accettabile o me-no, esse restano una delle invenzioni più strabilianti del testo di Tate, insieme al patetismo della regina. Nelle loro parole e nei loro gesti risuonano infatti gli echi di quella

cultura bassa e carnevalesca che costitu-isce il controcanto della ricercatez-

za classicheggiante della Re-staurazione. Dido and Aene-

as così riesce a raggiun-gere vette liriche fat-

te di voluttà, ele-gia, abbandono,

e al contempo a scendere nel-le strade, fra le grida po-polane: una t e n s ione fra il pathos e il bathos sperimen-t a t a d a Tate an-che in al-cune com-medie che

molto devo-no all’imper-

tinenza robu-sta della farsa, a

cui egli dedica an-che un saggio fon-

damentale (1693). Dopo aver scr it to

un’importante versione dei salmi di David e essersi dedica-

to a una vasta raccolta antologica di poesie su argomenti religiosi, fra il 1696 e

il 1705, Tate ebbe la sventura di concludere la sua vita in malattia e fra insormontabili problemi economici. Rin-chiuso in prigione per debiti, vi morì abbandonato da tut-ti, il 30 luglio 1715. Alla sua morte seguì un’immeritata fama di «poetastro», attribuitagli con durezza eccessiva dagli scrittori settecenteschi e dal disprezzo ottocente-sco per le sue versioni da Shakespeare. Ma i suoi testi mi-gliori, tra cui proprio Dido and Aeneas, riscattano ampia-mente Nahum Tate da tanta fama negativa, che talvol-ta sembra uscita da un intruglio delle sue streghe malva-gie e schiamazzanti anziché da un giudizio equanime. ◼Sopra: John Dryden e William Shakespeare.Nella pagina precedente: Andrea Sacchi (1599-1661)Didone abbandonata ( foto Maicar Förlag GML).

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la dolorosa storIa dI Didone, narrata nel IV libro dell’Eneide, è probabilmente la più sofferta e stra-ordinaria di tutta la letteratura classica, che pure

più volte si è concentrata sulle vicende tragiche di amori sfortunati e declinati al femminile, basti pensare all’addio di Andromaca a Ettore, cantato nel XXII libro dell’Ilia-de, o alla parabola drammatica di Medea, abbandonata dall’uomo per il quale aveva a sua volta abbandonato tut-to, patria, famiglia e identità.

Ma la regina cartaginese, nella sua folle corsa verso la morte, possiede qualcosa in più, qualcosa che immediata-mente suscita l’adesione emotiva del lettore contempora-neo. Incarna un sentimento assoluto, incapace di media-zioni, irreversibile, che si trasforma nel suo opposto, cioè in un odio altrettanto assoluto e irreversibile.

Come è a tutti noto, Enea, nel suo viaggio da Tro-ia all’Italia, dove il volere divino lo spingeva per fonda-re quella che sarebbe diventata in futuro la grande città di Roma, approda sulle coste libiche, accolto con amici-zia e antico senso dell’ospitalità da colei che, donna sola, governa quei luoghi marini. Il «pio» Enea narra alle sue orecchie bendisposte l’epopea sua e del suo popolo, le pe-ripezie di un viaggio che ha le caratteristiche di una mi-

grazione, oltre a richiamare alla memoria la saga crude-le che ha visto opporsi le truppe degli occupanti Achei e l’esercito assediato di Priamo. Didone ascolta, viene ra-pita dal racconto, e progressivamente, senza avvederse-ne, si innamora di quell’eroico figlio di Venere. Sospin-ta dalla sorella Anna – una delle tante figure sororali che compongono la mitologia grecoromana, e che, come in-segnano le coppie Antigone/Ismene ed Elettra/Crisote-mi, condividono, o cercano di condividere il destino fu-nesto delle eroine cui sono legate – a rinunciare alla pre-gressa vedovanza e a unirsi per sempre allo straniero, Di-done apre gli argini alla passione, che ancora cercava di reprimere dentro di sé. Virgilio ci offre una descrizione del suo stato d’animo che, nella sua enorme potenza liri-ca, delinea un quadro quasi «patologico»:

Arde l’infelice Didone e vaga per tutta la città,invasata; quale una cerva colpita da una freccia,che un pastore inseguendola incauta trafisse con dardida lontano nei boschi cretesi, e le lasciò dentro l’alato ferro,ignaro; quella percorre in fuga le selve e le balzedittee; ma non si distacca dal fianco l’asta mortale.Ora conduce Enea con sé attraverso le mura,e mostra le ricchezze sidonie e la città preparata;comincia a parlare, e a metà del discorso s’arresta;ora sul calare del sole desidera un nuovo convito,e chiede, folle, di udire ancora una volta i travaglidi Troia, e ancora una volta pende dalle labbra del narratore.Poi, appena si congedano, e la luna a sua volta oscurandosinasconde la luce, e le stelle calanti conciliano il sonno,si tormenta sola nel vuoto palazzo, e giace sui tappetiabbandonati; lui, lontana, lontano ascolta e vede;o tiene in grembo Ascanio, presa dall’immaginedel padre, per cercare di ingannare così l’indicibile amore.1

I sintomi dell’innamoramento, magistralmente messi in evidenza dal poeta, sono colti da Giunone, tradiziona-le nemica della stirpe dardanide, che escogita un imeneo clandestino tra la monarca sidonia e il figlio di Anchise, silenziosamente celebrato in una spelonca presso la qua-le i due amanti si erano messi al riparo dalla tempesta. Ma la moglie di Giove non si limita a ordire un matrimonio che dovrebbe fatalmente distogliere Enea dal suo compi-to principale, erigere un nuovo regno in terra italica e rin-verdire i fasti del popolo troiano: la dea infatti sparge la Fama ai quattro venti, la incarica di descrivere i due inna-morati abbandonati a «reciproche mollezze»2 e in preda a una «turpe passione»3. Senza riassumere la trama nei par-ticolari, trattandosi di una vicenda da tutti conosciuta, ci limitiamo a dire che Enea è indotto dal destino – sotto forma di emissario celeste – a lasciare il regno offertogli dalla regina e, nella sua pietas, obbedisce agli dei e si ap-presta a partire. E, come si può notare nei versi seguen-ti, l’eroe non brilla certo per il suo coraggio, tentando un po’ maldestramente di nascondere la decisione presa, e mettendo in atto una tecnica di dissimulazione adopera-ta con successo da suoi predecessori illustri come Odis-seo e Giasone:

Enea ammutolì smarrito a tale visione.I capelli si drizzarono per l’orrore, la voce si arrestò nella gola.Arde di fuggire e di lasciare le dolci terre, attonito all’alto ammonimento e all’ordine degli dei.Ahi, che fare? con quali parole oserà

Didone,regina illusae abbandonata

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circuire la regina in delirio? come inizierà il discorso?Divide il veloce animo di qua, di là,e lo trae in diverse parti e lo volge a ogni espediente.Questa a lui che esitava sembrò la decisione migliore:chiama Mnesteo e Sergesto e il forte Seresto:apprestino in silenzio la flotta e raccolgano i compagnisulla riva, preparino gli attrezzi e dissimulino la causadi quei mutamenti; egli frattanto, mentre la dolcissimaDidone, ignara, non pensa che un amore così grande s’infranga,tenterà la via, il momento più agevole di parlarle,il modo più adatto all’impresa.4

Ma questo comportamento si rivela infine vano e inuti-le, perché gli occhi innamorati di Didone comprendono immediatamente il proposito del novello sposo. E qui si apre forse la più bella e moderna parte di questo strepito-so canto d’amore. Dimenticata la propria regalità, la pul-cherrima Dido mette da parte orgoglio e nobiltà, si umilia e giunge a supplicare ciò che supplicano tutti gli amanti abbandonati: tempo. Un tempo che in cuor suo sa già che le verrà negato, ma che per lei è essenziale per procrasti-nare indefinitamente il momento dell’addio:

Va’, sorella, e implorail superbo nemico: non io con i Danai in Aulide giuraidi distruggere il popolo troiano, o mandai la flotta a Pergamo,né violai le ceneri e i Mani del padre Anchise;perché negli orecchi crudeli non accoglie le mie parole?Dove corre? Conceda un estremo dono all’amantesventurata: aspetti una facile fuga e favorevoli venti.Non imploro l’antico connubio, che egli tradì,e neppure che si privi del bel Lazio e rinunzi al regno;poco tempo chiedo, requie e intervallo al furore,finché la mia sorte m’insegni a soffrire vinta.Quest’ultima grazia imploro – abbi pietà della sorella –;

quando me l’avrà concessa, la ricambierò con l’aggiunta [ della morte.5

Il IV libro dell’Eneide è insomma il canto di Didone, la parabola immutabile di un amore assoluto e impossibile, che sfocerà nell’unica alternativa alla mercè dell’aman-te tradita, cioè la morte, dopo aver maledetto Enea e tra-sformato il suo sentimento in un odio perenne e indele-bile. Il poeta delle Bucoliche ne forgia un ritratto straordi-nario, che analizza ed evidenzia tutti i contrastanti stati d’animo, le incertezze prima, il dolore in seguito. Da una

parte la visceralità della passione, dall’altra motivazioni che si sforzano di essere razionali, e che – proprio per questo – sono rifiutate con sdegno. Virgilio ci consegna una donna sola, disperata, preda di una sofferenza indi-cibile e ingiusta. Tutto il resto passa in secondo piano, co-sì come le pressanti richieste e lamentele dei pretendenti e gli obblighi inderogabili cui è chiamato Enea. Al centro di questi più di settecento versi non c’è una vicenda poli-tica – anche se è chiaro a tutti che la separazione tra Dido-ne ed Enea diverrà la causa dell’infinita guerra tra Roma e Cartagine – ma il ritratto dolente di una solitudine in-sopportabile, cui soltanto la morte può porre fine. (l.m.) ◼

1. Eneide, Quarto Libro, vv. 69-85. Nelle citazioni si segue la traduzione di Lu-ca Canali tratta da: Virgilio, Eneide, Mondadori, Milano 1991. 2. V. 193.3. V. 194.4. Vv. 279-294.5. Vv. 424-436.

Sopra: Francesco Solimena, Didone riceve Enea (1720 circa, olio su tela, 207 x 310 cm National Gallery, Londra).Nella pagina a fianco: Peter Paul Rubens, La morte di Didone, (circa 1640, olio su tela, Museo J.P. Getty, Los Angeles).

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Un maestro orIentale dI oggi per un capolavoro occidentale di ieri: quello che potrebbe sembrare un

incontro singolare è in realtà frutto dell’at-trazione reciproca di due mondi che pos-sono esistere, in quanto ovest ed est, solo l’uno in virtù dell’altro. Un incontro perfet-to per Venezia, porta aperta sul mondo.

Saburo Teshigawara, giapponese ben no-to in Europa da Berlino dove ha una base operativa importante al nostro Paese, ha ac-colto l’invito del Teatro La Fenice di Vene-zia per allestire in marzo, firmando in toto regia, coreografia – per sette dei suoi dan-zatori – scene, costumi e luci, un’opera am-maliante come Dido and Aeneas di Henry Purcell, a quanto si sa rappresentata per la prima volta nel 1689 con le ragazze della Jo-sias Priest’s Boarding School a Chelsey, ce-nacolo londinese intitolato al suo direttore, ballerino, didatta e coreografo di cui si con-serva la scrittura di un garbato minuetto. Non è superfluo chieder-si per quali motivazio-ni quest’opera di circa un’ora, in tre atti, su libretto che Nahum Tate, uomo di teatro dublinese, noto anche per l’impegno come dram-maturgo dei drammi shakespeariani, trasse dal quarto libro dell’Eneide di Virgilio, ab-bia ispirato in anni recenti uno scelto ma-nipolo di coreoautori contemporanei dando luogo a versioni quanto mai pregevoli, e tutte molto interessanti, nella loro diversità peculiare.

Nel 2006 è toccato all’inglese-scozzese Wayne McGregor, un ta-lento definito in Gran Bretagna «ballet outsider», gran campione di destrutturazioni corporali, portare in scena la sua lettura coreo-registica es-senziale, luminosa, di Dido and Aeneas, storia della passione tragicamente inter-rotta tra la regina africana di Cartagine e il suo nobile amante, figlio della mi-tica Troia, opera allegorica, dove la rottura amorosa può essere let-

ta anche come rottura politica. Senza dubbio, un debutto molto fortunato alla Scala di Milano, mescolando i bal-lerini al coro, riproposto l’anno scorso alla Royal Opera House Covent Garden di Londra, con una caratteristica distintiva: la danza interviene, astratta e pura, atletica e flessibile, negli intermezzi strumentali.

Nel 2005, sotto la direzione di Attilio Cremonesi, lo stesso apprezzato esperto di musica barocca chiama-to ora alla guida dell’orchestra dalla Fenice, e con musi-ca aggiuntiva di Purcell, era stata l’immaginosa tedesca Sasha Waltz, sul crinale tra danza e teatrodanza, ad af-frontare a Berlino l’opera di Purcell muovendo cinquan-ta tra ballerini, cantanti – ogni voce con il suo danza-tore corrispondente – e musicisti, a partire da un inci-

pit visualmente folgorante, con evoluzio-ni in una vasca colma d’acqua. La Waltz

non esita a inserire episodietti narra-tivi, anche umoristici, e usa l’«arma-mentario» tipico del Tanztheater, co-me il cross-dress, vale a dire i costumi scambiati per uomini e donne, la pa-rola gridata, il corpo contorto.

Ma prima ancora era stato l’eccentrico «bad boy» statunitense Mark Morris a fir-

mare nel 1989 a Bruxelles, dove era succeduto a Maurice Béjart mi-grato a Losanna, una incisiva edizione moderna di Dido and

Aeneas dove lui stesso era inter-prete tanto della Regina quanto

della Strega con l’intero cast di bal-lerini – ognuno come doppio in scena dei

cantanti e dei coristi in buca – in gonna pareo nera unisex stile Martha Graham, la «Madre»

leggendaria del modern Usa. Anche qui i ruoli maschili e femminili vengono in-

dossati al di là del «genere» per farsi universali.

Ma cosa attrae artisti contempo-ranei di punta come quelli cita-

ti a dare corpo a un’opera ba-

Saburo Teshigawara,un viaggiatorenello spazio,nel tempo, nel corpoIl coreografo giapponese affronta l'opera di Purcell

di Elisa Guzzo Vaccarino

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rocca potente – e lontana secoli da noi – come Dido and Aeneas?

Un fatto evidente: l’opera pre-romantica appare assai più consona alla sensibilità odierna rispetto a un Otto-cento appunto romantico estraneo a una cultura laica, postilluminista e multietnica come quella che intreccia Occidente e Oriente ai giorni nostri, globali, «liquidi», trasversali al tempo e allo spazio.

Saburo Teshigawara, nato a Tokyo nel 1953, è una per-sonalità emblematica, in questo senso. Formato a più ar-ti, scultura, mimo e danza classica occidentale, è danza-tore, coreografo, fotografo e videomaker e dal 1985 diret-tore della compagnia Karas, cioé corvi, fondata insieme alla danzatrice Kei Myiata, mirando alla «ricerca di una

nuova forma di bellezza, tra terra e cielo» con un linguag-gio di danza proprio, che non somiglia né a quello della tradizione classica giapponese, Kabuki o Nô, né al Butoh nipponico, la «danza delle tenebre», moderna e postato-mica, né prende a prestito tout court gli idiomi coreutici euro-americani.

Teshigawara, maestro orientale del corpo che lievita nella musica e nel respiro, come una «scultura d’aria» me-scola suoni e luci, velocità e lentezza, tecnologia e arti-gianato sapiente, senza etichette, fin dal suo Absolute Ze-ro del 1998, un «poema in danza» denso e trasparente su musiche di Händel, Gurdieff, Mozart, Toru Takemitsu, un capolavoro personalissimo che lo ha proiettato all’at-tenzione generale. Da quel momento ogni sua produzio-ne si è fatta ammirare per rigore, eleganza, purezza, spes-so nell’essenzialità del bianco e nero, con un’attenzione raffinata alle luci – non a caso due suoi pezzi, Light Behind Light e Luminous, vi alludono – e con un uso sorprendente della materia – basta pensare alle sue camminate sui cocci di vetro crocchianti, fragili e pericolosi insieme, in Glass Tooth, recentemente ospite di RomaEuropa, l’ultima città italiana in ordine cronologico a invitare Karas dopo Civi-tanova e Ferrara, che l’hanno chiamato ripetutamente nei loro bei teatri. Una speciale atmosfera di sospensione del-la normale dimensione temporale è la cifra autoriale spe-cifica di Saburo Teshigawara, che mostra tutta la fascina-zione del movimento umano al di là del mero esercizio

cinetico, atletico, virtuosistico, per attingere a un incan-tamento ipnotico, di spettacolarità cristallina.

Oltre ai titoli firmati negli anni 2000 per il suo gruppo, come Green con caprette in scena, Bones in Pages tra pare-ti di libri, Kazahana con tende-pioggia, Scream and Whisper, programma misto a contrasti tematici e formali, Black Water sull’enigmaticità di ciò che è invisibile, Substance, in-stallazione poetica danzata, Miroku con la nevicata finale di carta bianca nel buio, Double Silence con i suoi salti-voli tra nuvole di polvere chiara, Mirror and Music da intende-re come duplicazioni del mondo, Obsession, duetto ispira-to al Buñuel di Un chien andalou, Teshigawara ha ricevuto commissioni da altre compagnie di primo piano. La lista è significativa: il Ballett Frankfurt del campione postclas-

sico William Forsythe, nel 1994, con White Clouds under the Heels, poi la compagnia di Monaco di Baviera nel 1999 per cui ha riscritto una asciutta Sagra della Primavera stra-vinskiana, il balletto di Ginevra nel 2002 con Para-Dice e nel 2006 con Vacant e l’Opéra di Parigi nel 2003 con Air. È sicuro, dunque, che il coreografo di Tokyo saprà tro-vare un approccio originale a Purcell in un teatro d’opera glorioso come quello veneziano, ma anche a un piccolo brano con funzioni di ouverture, un quarto d’ora regola-to sul divertissement elettro-acustico per nastro registra-to Le rire (1964) di Maderna, nato a Venezia novanta an-ni fa e scomparso nel 1953 a Darmstadt, culla della stra-ordinaria scuola musicale, che evoca immediatamente la corrente multinazionale detta «seriale» e compositori co-me Luigi Nono, Karlheinz Stockhausen, Pierre Boulez, Luciano Berio.

Per questo brano lo stesso Saburo si farà interprete in prima persona al centro del suo piccolo gruppo, incar-nando e contrappuntando le risate, lo sciabordio d’ac-qua, i rumori di cani e pennuti, che si annidano in que-sto animato mix di suoni intessuti con la stessa libertà di spirito che distingue la leggerezza profonda di un raffi-nato performer-creatore, come Saburo Teshigawara. ◼Nelle immagini: Dido and Aeneas nelle interpretazioni di Sasha Waltz (Ferrara, Teatro Comunale, 2006), Wayne McGregor (Milano, Teatro alla Scala, 2006), e Mark Morris (Washington, George Mason University Center, 2008); nella pagina a fianco, Saburo Teshigawara.

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«la sUa IspIrazIone sI rivela franca, nuda, incisiva, talvolta d’una rudezza primitiva, che dà nel sec-co e nello sche-

matico; tal’altra d’una ricchezza tutta interiore, martellata da assidui tra-vagli spirituali, pulsante d’intensa vitalità». Così scriveva Antonio Capri nel 1933 a proposito del-la Dido and Aeneas (1688-1689) di Henry Purcell. Abbiamo chiesto ad At-tilio Cremonesi, che di-rigerà l’opera al Teatro La Fenice, se condivide questo giudizio.

Pensa che questa citazio-ne si presti bene a descrivere l’opera di Purcell?

Non conosco altra ope-ra nella quale vengano espresse emozioni così contrastanti in poco più di un’ora di musica. Pur-cell e il suo librettista Ta-te sono riusciti in questo capolavoro a trasmette-re le informazioni salien-ti dei primi quattro libri dell’Eneide di Virgilio, così come alcuni episodi delle Metamorfosi di Ovi-dio. Proprio pensando a ques’ultimo, ogni vol-ta che leggo il testo e la musica affidati a Belin-da, sono convinto che essa fosse innamorata di Enea, e che questo amo-re venisse corrisposto.

Nella direzione, cosa punta a mettere in evidenza?

Data la «densità » d’emozioni di cui è ca-rica questa partitura – si passa dall’esaltante gio-ia alla più cruda dispera-zione, dalla promessa di un amore eterno alla morte – è mia intenzione rendere intelligibile il processo che ac-compagna tutti quegli estremi affetti, sostenendo, e in

parte esaltando, i ruoli secondari. Il coro, nelle sue molte-plici vesti di spettatore imparziale, catalizzatore d’even-ti, «macchina» infernale e doglioso consenso famigliare davanti alla morte di Dido, gioca un ruolo musicale e psi-cologico estremo.

Cosa pensa della versione che ne fece Benjamin Britten nel 1951 per il Festival of Britain?

Ahimé, purtroppo non la conosco. Anni fa avevo stu-diato la sua versione del Fairy Queen di Purcell e ne ero ri-masto impressionato.

Che traccia ha lasciato, nelle Sue successive interpretazioni del-la Dido, la collaborazione nel 2006 con la «coreautrice» Sasha Waltz?

Negli ultimi dieci anni ho lavorato con diversi coreo-grafi e ognuno di loro ha lasciato una traccia importante

nel mio modo di vedere e sentire la musica, e percepire il teatro. Sasha Waltz è un’artista straordinaria, con la qua-le ho potuto condividere tutte le mie idee su quest’ope-

Emozioniin partitura Attilio Cremonesidirigealla Fenice la «Dido»

di Patrizia Parnisari

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ra. Durante le prove di quella produzione avevo l’impres-sione di vedere realizzato attraverso le sue coreografie il mondo sonoro che avevo immaginato. Questa è la prima volta, da allora, che mi accingo a lavorare al Dido and Ae-neas con un altro coreografo .

Pur essendo probabilmente Dido and Aeneas la più antica ope-ra inglese, rimane una delle poche del periodo a venire ancora oggi rappresentata. Perché?

Prima di tutto devo dire che oggi non siamo più sicu-ri del fatto che Dido and Aeneas sia la più antica opera in-glese. Di sicuro è pero una delle pochissime, di quel pe-riodo, il cui testo venne completamente musicato. Per in-tenderci: la forma teatrale più amata dagli inglesi era la «semiopera», ovvero la commedia nella quale venivano inseriti alcuni episodi musicali, poiché, secondo il gusto inglese, «solamente gli Dei o Semidei o le figu-re allegoriche cantano, gli uomini parlano». Tra queste rarissime opere pervenute-ci, il Dido è senz’ombra di dubbio la composizione più geniale.

Per quale motivo questo tipo di opera viene eseguita così rara-mente? È un problema che riguarda principalmen-te il gusto del pubblico, o ci sono anche motivi le-gati a particolari dif-ficoltà musicali e po-ca consuetudine a fre-quentare quel perio-do storico-musicale?

Negli ultimi de-cenni l’interesse del pubblico ver-so il repertorio «antico» è cresciu-to costantemente. Il Dido and Aeneas di Purcell si è ritaglia-to uno spazio all’in-terno dei cartelloni dei più importanti teatri al mondo, anche se natural-mente non ha, ne forse avrà mai, lo stesso successo che hanno una Traviata o una Boheme.

Di Henry Purcell si è spesso affermato che la sua musica rivela un eclettismo stilistico che non sempre riesce a fondersi in perfetto equilibrio for-male. Forse però ciò non è vero in quest’opera d’intensa vitalità e vi-gore tragico. Lei pensa che la musica del compositore inglese difetti per qualche aspetto nella Dido?

Onestamente non riesco a trovare nessun difetto in questa composizione. Naturalmente lo stile inglese di quell’epoca ci è meno consono di quello italiano, ma da-vanti a un’opera d’arte di tale intensità non posso che ri-manere a bocca aperta. Persino alcune danze, che se-condo gli ultimi studi musicologici potrebbero non es-sere di Purcell, sono diventate per me assolutamente insostituibili.

Il profondo influsso su Purcell della musica italiana e soprattutto della scuola veneziana, in cosa si palesa in quest’opera?

Ricordo il mio stupore quando, alcuni anni fa, lessi il commento di un cronista dell’epoca secondo il quale lo

stile di Purcell, a partire da un determinato momento della sua attività, fu fortemente influenzato dalla musica italiana. Onestamente non saprei dove trovare quell’in-fluenza. L’unico parallelo che mi sento di tracciare è quello tra Purcell e Monteverdi: a mio giudizio solamen-te questi due compositori riuscirono a profondere tanta bellezza, ricchezza, genialità e amore nei loro recitativi.

Ci sono, al contrario, caratteri fortemente nazionali? Quanto del-la tradizione musicale inglese è presente?

L’energia, lo swing, la sensualità di molte danze par-lano, a mio giudizio, un linguaggio prettamente ingle-se. La meravigliosa scrittura contrappuntistica dei co-ri ci rammenta invece la mai estinta tradizione corale anglosassone.

Quali tra i personaggi dell’opera l’affascina di più musicalmen-te e perché?

Il ruolo di Dido è quello che mi affa-scina musicalmente più di tutti gli al-

tri.Dal punto di vista del libret-to, invece, sono particolar-

mente affascinato dalle fi-gure di Enea e della Stre-

ga: Enea perché da un lato mente sapendo di mentire e dall’altro perchè vittima sacri-ficale di una guer-ra giocata tra gli dei dell’Olimpo; la strega, a tratti, mi rammenta la Giu-none del l’Enei-de, pronta a tut-to pur d’evitare che Enea, arriva-to in Italia, fon-di Roma e la stirpe

dalla quale discen-derà l’uomo che di-

struggerà l’amatissi-ma Cartagine. E mi fa

pensare anche a Venere, che appare a Enea con le

sembianze di Mercurio, per redarguirlo ed esortarlo a tran-

ciare la relazione con Dido e la-sciare Cartagine.

Su cosa punta principalmente l’allestimento di Saburo Teshigawara? C’è una sintonia d’intenti?

Ho incontrato Teshigawara per la prima volta lo scor-so ottobre, e in quell’occasione non abbiamo potuto par-lare a lungo. In questi mesi però siamo rimasti spesso in contatto. Sono sicuro che lavoreremo bene insieme. ◼

Sopra: Henry Purcell ritratto da John Closterman (1660–1711), senza data; nella pagina a fianco: Dido and Aeneas nell’interpretazione ancora di Sasha Waltz (Ferrara, Teatro Comunale, 2006)

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CAMPONOGARAVIGONOVO

DOLOSTRA

PAESAGGIOCON UOMINI 2010

CAMPAGNA LUPIA › CAMPONOGARA › DOLO › FIESSO D’ARTICO MIRANO › NOALE › PIANIGA › SALZANO › STRA › VIGONOVO

TEATRO • DANZA • LETTERATURA • POESIA

Fiesso d’ArticoDolo Salzano VigonovoPianigaMiranoCampagna lupia StraCamponogara Noale

Casello 11 TeatroI DIALOGHI DI FEDERICO RuIysCH E DELLE suE MuMMIE

Tiziano Scarpa I VERsI DELLE BEsTIE

Erri De Luca - Gianmaria Testa CHE sTORIA E’ QuEsTA

Marta Cuscunà E’ BELLO VIVERE LIBERI!

AnagoorMAGNIFICAT DI ALDA MERINI

Stefano RotaPATANOsTRADA LA TERRA

Itineraria H2 ORO

Vasco MirandolaL’uOMO CHE AMAVA LE DONNE

Giuliana Urciuoli EX

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Giuliana MussosEX MACHINE

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Alessandro BertiL’ ABBANDONO ALLA DIVINA PROVVIDENZA

Vasco MirandolaLA PAROLA sOsPEsA

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MosikauN PAEsE DI sTELLE E sORRIsI

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