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6 DOMENICO ALVINO UNGARETTI RISCRITTORE DI VIRGILIO? L’ipotesi che Ungaretti, nei Cori descrittivi di stati d’animo di Didone, abbia riscritto l’episodio virgiliano, non pare molto praticata negli studi ungarettiani, nonostante il fatto che la sua verosimiglianza poggia su non pochi indizi. Sembra comune invece l’idea che essi costituiscano un poema intorno a un’idea propria, quella dell’autunno 1 o del perire inevitabile, concepito come parte costitutiva di un’opera anch’essa unitaria, La Terra promessa, che invece, rimasta poi in frammenti, figura come raccolta di brani indipendenti. Nelle note curate personalmente da lui in collaborazione con Ariodante Marianni, Ungaretti stesso dichiara: Sono 19 cori che vogliono descrivere drammaticamente il distacco degli ultimi barlumi di giovinezza da una persona, oppure da una civiltà, poiché anche le civiltà nascono, crescono, declinano e muoiono. Qui si è voluto dare l’esperienza fisica del dramma con riapparizioni di momenti felici, con trasognate incertezze, con pudori allarmati, in mezzo al delirare di una passione che si guarda perire e farsi ripugnante, desolante, deserta. (Ungaretti 1990: 566) Verrebbe così a mancare una condizione indispensabile perché un testo T 3 sia considerato riscrittura di un testo T 2 , vale a dire la condizione dell’intenzionalità. Ma il critico non può stare all’intento dichiarato dal poeta: che può essere anche persuaso di averlo avuto, ma può anche in corso d’opera averlo accantonato, deviando verso attingimenti magari più alti e numerosi di quelli che s’era proposto. Spetta al critico allora di rintracciare, sulla base dei dati che si possono ricavare dall’opera, la storia autentica della sua genesi e della sua evoluzione. Ché se ha la fortuna di avere strumenti 1 Cfr.: «Era l’autunno che intendevo cantare nel mio poema, un autunno inoltrato, dal quale si distacchi per sempre l’ultimo segno di giovinezza, di giovinezza terrena, l’ultimo appetito carnale». (Ungaretti 1990: 546)

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DOMENICO ALVINO

UNGARETTI RISCRITTORE DI VIRGILIO?

L’ipotesi che Ungaretti, nei Cori descrittivi di stati d’animo di Didone, abbia riscritto l’episodio virgiliano, non pare molto praticata negli studi ungarettiani, nonostante il fatto che la sua verosimiglianza poggia su non pochi indizi. Sembra comune invece l’idea che essi costituiscano un poema intorno a un’idea propria, quella dell’autunno1 o del perire inevitabile, concepito come parte costitutiva di un’opera anch’essa unitaria, La Terra promessa, che invece, rimasta poi in frammenti, figura come raccolta di brani indipendenti. Nelle note curate personalmente da lui in collaborazione con Ariodante Marianni, Ungaretti stesso dichiara:

Sono 19 cori che vogliono descrivere drammaticamente il distacco degli ultimi barlumi di giovinezza da una persona, oppure da una civiltà, poiché anche le civiltà nascono, crescono, declinano e muoiono. Qui si è voluto dare l’esperienza fisica del dramma con riapparizioni di momenti felici, con trasognate incertezze, con pudori allarmati, in mezzo al delirare di una passione che si guarda perire e farsi ripugnante, desolante, deserta.

(Ungaretti 1990: 566) Verrebbe così a mancare una condizione indispensabile perché un

testo T3 sia considerato riscrittura di un testo T2, vale a dire la condizione dell’intenzionalità. Ma il critico non può stare all’intento dichiarato dal poeta: che può essere anche persuaso di averlo avuto, ma può anche in corso d’opera averlo accantonato, deviando verso attingimenti magari più alti e numerosi di quelli che s’era proposto. Spetta al critico allora di rintracciare, sulla base dei dati che si possono ricavare dall’opera, la storia autentica della sua genesi e della sua evoluzione. Ché se ha la fortuna di avere strumenti 1 Cfr.: «Era l’autunno che intendevo cantare nel mio poema, un autunno inoltrato, dal quale si distacchi per sempre l’ultimo segno di giovinezza, di giovinezza terrena, l’ultimo appetito carnale». (Ungaretti 1990: 546)

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adeguati, gli diventano possibili rilievi che mutano il concetto dell’opera, non solo nella memoria letteraria, ma nella considerazione stessa che n’ebbe o ne ha l’autore.

Tornando al nostro caso: sottoporre all’esame l’ipotesi se quest’opera sia una riscrittura di quella virgiliana, a prescindere da una risposta positiva o negativa, può fruttare il recupero, per entrambe, di valenze poetiche, propaggini del sentimento, aperture di fantasia destinate altrimenti a rimanere inosservate. Nostro intento è di porre questioni, evidenziare aspetti, somiglianze e diversità, discutendone spassionatamente, delegando casomai al lettore il compito di trarre eventuali conclusioni in un senso o l’altro, qualora dai dati raccolti gli risulti questa possibilità, e non resti pago degli aspetti nuovi e delle prospettive nuove aperte eventualmente dall’indagine.

Bisognerà innanzitutto provvedersi di un principio che consenta di vedere se un testo T3 sia codificabile come riscrittura di un precedente testo T2, intendendo questo T2 come un testo originalmente costruito in funzione poetica. Questo principio asserisce che l’ipotesi è verificata se esso T2 è almeno parzialmente riconoscibile in T3 e se ne diviene una componente semantica indispensabile2, ove

2 Si vedano i due principi identificativi della riscrittura, che riportiamo qui per comodità del lettore: (Alvino 1999: 79) 1° principio d’identificazione: la riscrittura

quale (macro-) operazione di poesia: «Se un testo (A) è un sistema di simulazione secondario di secondo grado (T2) o di grado superiore (T3, T4, T5... Tn)2, dicesi riscrittura una (macro-)operazione della poesia che lo converta in dimensione linguistico-espressiva di un testo (B) che diviene sistema di simulazione di grado immediatamente superiore. In tal caso, il testo (A) dicesi ipotesto, il testo (B) ipertesto»;

(Alvino 1999: 85) 2° principio d’identificazione: la riscrittura come testo realizzato:

«Una forma, le cui singole realizzazioni siano testi (B) che si richiamino intenzionalmente ad altri diversi e ben distinti testi (A), è riscrittura se sono soddisfatte ambedue le seguenti condizioni: 1) T (A) è almeno parzialmente riconoscibile in T (B); 2) T (A) istituisce in T (B) una connotazione semanticamente orientata, che a) non si rileva in assenza della condizione 1; b) diviene componente semantica indispensabile di (B)». Precisiamo, in termini più correnti, che il simbolo T sta per testo in generale; T1, per un testo di ordinaria comunicazione; T2, per un testo codificato come poetico, il quale è sempre elaborato a partire da T1; T3, può stare o per un testo poetico che sia un’elaborazione o riscrittura di T2 (e via seguitando, T4

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“indispensabile” significa che il senso3 di T3 non è accessibile se non attraverso T2. Dandosi questo caso, il T2 si usa chiamare ipotesto e il T3 ipertesto. La riconoscibilità dell’uno nell’altro pare che debba riscontrarsi prima di tutto sul piano dell’elocutio, cioè risolversi in una corrispondenza d’ordine frasale, e solo secondariamente sul piano della compositio, in corresponsioni e richiami tra fabule, intrecci, figure e ordini concettuali, pur tra loro necessariamente diversi.Qui, però, fra ipertesto ed ipotesto, non esistono sul piano elocuzionale che poche e discutibili somiglianze, né ad un primo esame sembra che sulla loro scorta sarebbero individuabili sicure corrispondenze tra fabule e intrecci. Sembra invece che l’ipotesto sia riconoscibilissimo in base alla sola sequenza degli stati d’animo della regina fenicia, come parte del disegno diegetico universalmente noto come opera di Virgilio (Traglia 1983:161), e il solo che della vicenda di Elissar-Didone sia rimasto nella memoria letteraria, essendo sepolte in uggiosi lambicchi eruditi le versioni previrgiliane4. È unicamente in quell’ordito che tale sequenza trova la sua forma propria; solo in quel disegno i lettori se la rappresentano5, e in quella loro rappresentazione l’Ungaretti la sorprende e ne muove il congegno adattandolo alla sua idea.

un’elaborazione o riscrittura di T3, T5 di T4, T6 di T5 ecc.) o un insieme di T2 organizzati a formare tra loro un testo unitario (canzoniere o poema). 3 Diciamo ‘senso’ qui provvisoriamente e solo per restare ad una terminologia più familiare e di più immediata comprensibilità. Ma la Critica operazionale cerca di fare a meno di questo termine venerando, perché esso conserva al suo interno l’idea della duplicità propria del ‘segno’ saussuriano, mentre la critica operazionale si costruisce sulla base dell’unitarietà segnica. In linguaggio operazionale, qui invece di «componente semantica indispensabile» si dovrebbe pressappoco dire «componente indispensabile a promuovere e ad individuare le operazioni della poesia». 4 Cfr. (Lamacchia 1979:441 s., n. 21; Traglia 1980:54 ss.) quella riportata da Timeo (Tauromenio 356 ca.-260 ca. a. C.) nelle sue Storie, e quella che si presume riportata da Nevio nel Bellum Poenicum, sulla base del fr. 6, molto problematico. La versione di Timeo è riportata intera nell’epitome del l. XVIII, 6 delle Historiae Philippicae di Pompeo Trogo, dovuta a Giustino (sec. III d. C.). In proposito, cfr. Paratore 1947:VII. 5 «E chi per Macrobio e per gli altri scrittori africani, da Tertulliano a sant’ Agostino, ha creato questa favola se non Virgilio?» (Traglia 1983:161).

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Vi sono poi esplicite dichiarazioni al riguardo da parte di Ungaretti, che per esempio dice a proposito del Palinuro:

«L’Eneide è sempre presente nella Terra promessa, e con i luoghi che furono i suoi» (Ungaretti 1990: 566). Altri indizi si possono trarre dalla biografia del poeta. Per

esempio, nel ’32, cioè nel momento in cui la chiusura del Sentimento

del tempo volgeva all’idea de La Terra, che era della «bellezza perenne inesorabilmente legata al perire» Ungaretti, tornando in Egitto, si soffermava lungo la Via Appia sui luoghi virgiliani. Altri dettagli utili, si possono ricavare dall’autocommento ungarettiano. Si viene a sapere, per esempio, che quell’idea prese nella sua mente aspetto di Enea, che «è bellezza, giovinezza, ingenuità in cerca sempre di una terra promessa», ove la bellezza illumini non più fuggitivamente (Ungaretti 1990: 428-9). Quella terra è inoltre identificata l’Italia, la stessa che gli dèi avevano promesso ad Enea, come si legge in Virgilio, e che era promessa a lui, in una sorta di miraggio che gli crebbe nell’animo, da ragazzo, ascoltando i nei racconti che ne faceva la madre ad Alessandria, «dopo cena, recitato il rosario», sicché la sua infanzia «ne fu tutta meravigliata» (Ungaretti 1990: 95). Ma il dato più importante che si ricava da quelle note, perché riguarda singolarmente i Cori, è che la vicenda di Didone rappresentava, in una vita umana fatta di fallimenti e slanci, di morti e resurrezioni, di continui naufragi6, benché ogni volta si risorga con uno spirito nuovo7, il momento del perire di quella bellezza, che lascia dietro di sé una desolazione intollerabile (Ungaretti 1990: 428-9).

Al cupo risentimento per l’amore tradito, s’aggiunge nella regina fenicia, uno scontento di sé per il lungo tempo perduto nella forzata astinenza, in nome di una fedeltà voluta serbare ad un’ombra vana, quella di un marito imbelle che invece di serbarsi a lei, mettendola in grado di liberare la piena della sua femminilità istintuale, si fece sorprendere «incautus»‘che non si guardava’, e si lasciò rinchiudere

6 «…et aliquando naufragium facimus…nullus portus nisi mortis est» (Sen. Pol.: 9,6). 7 Cfr.: «Caram te, vita, beneficio mortis habeo» (Sen. Marciam: 20, 3).

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nella morte dal perverso cognato. Arresa alla mercé di quell’ombra, era vissuta lasciando invano esalare le sue voglie, defluire in perdita il suo mestruo con tutto il suo potere generativo, mentre si disseccava a poco a poco il suo naturale narcisismo, l’amore della propria persona, nel quale Freud riponeva il segreto della bellezza femminile (Deutsch 19772: 457). Questo rancore riottoso verso il marito defunto è deducibile da un richiamo a Sicheo, contenuto in uno dei discorsi che Didone rivolge alla sorella Anna:

Ille meos, primum qui me sibi iunxit, amores Abstulit... ”quello che per primo mi si congiunse, (quello che fu) le mie voglie d’amore si portò via…” (END 1967, IV, 28-9)

Così più o meno – vogliam mostrare in traduzione – rimpasta il

discorso la poesia. Noteremo che qui, l’ille iniziale, qualora il verso si consideri nella sua autonomia costituzionale8, perde di forza illocutiva9 e accende nella memoria il brillio dello sguardo innamorato. Infatti, nel verso virgiliano, è aperto il tempo luminoso del primo innamoramento, quel tempo pieno di voglie si affaccia per un attimo nello sguardo, mentre si offre alla contemplazione

8 Difatti, ciò che distingue un verso da una riga di prosa o, in altre parole, ciò che lo istituisce come verso, è una certa autonomia, non solo musicale e ritmica, ma anche semantica e figurativa. Il principio vale sempre, anche nel caso dell’enjambement, che per natura parrebbe dovere esserne eccettuato. Proprio nei tre versi virgiliani qui in corso d’esame, se ne considera un esempio, che mi pare sufficientemente dimostrativo. 9 Sulla scorta di Austin, si qualifica come illocutivo o illocutorio un atto linguistico che realizza o tende a realizzare l’azione che nomina: lo sono, per es., i verbi performativi (Austin 1955: 66 ss.). Ma più oltre Austin aggiunge (ivi: 76): «Quello che effettivamente introduciamo con l’uso della terminologia delle illocuzioni è un riferimento, non alle conseguenze (almeno in senso ordinario) della locuzione, ma alle convenzioni di forza illocutoria, nella loro relazione alle particolari circostanze dell’occasione in cui l’enunciato viene proferito». Nel nostro caso, l’ille è un deittico, non nomina un’azione, ma è un’azione, quella di indicare, e la sua forza sta nell’indicare esattamente, nel tirare a vista violentemente, escludendo ogni altro possibile oggetto, nel caricare di responsabilità rappresentativa.

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intenerita della donna ridiventata giovane, fuori della greve ombra del presente. Ma subito l’incipit del verso successivo è un colpo di taglio, «abstulit», che recide quell’idea, quella pura immagine del primo (primum) tempo amoroso e, per la sua prossimità a quell’abstulit, ne riceve di nuovo la forza illocutiva momentaneamente sospesa, se ne ricarica e sdegnosamente la scaglia nella frase successiva, che raddensata in una sorta di freddo fluido che pigramente viaggia verso il nulla definitivo:

abstulit; ille habeat secum servetque sepulcro’ portò via lui se le tenga pur care e al sicuro nel sepolcro,

ove la traduzione cerca sempre di rendere l’impasto particolare che ne fa la poesia. Questa lettura trova conferma subito dopo nella risposta di Anna:

solane perpetua maerens carpere iuventa, nec dulcis natos, Veneris nec praemia noris? e passerai sempre sola la tua giovinezza, senza né dolci figli conoscere né gioie di Venere?

(END 1967, IV: 30-3) Qui l’insidia del deserto, con la sua arsura soffiata attraverso le porte cittadine, tocca l’animo della regina, prefigurando il futuro destino di solitudine e desolazione.

È possibile che qui Ungaretti abbia trovato il punto d’attacco, lo snodo nel quale, con una certa coerenza diegetica, la Didone virgiliana cede il campo alla nuova che viene prendendo forma in lui. Se in Virgilio essa è una donna colta nel pieno possesso delle sue qualità e dei suoi attributi femminili, Ungaretti ne rappresenta un’età successiva, quella del climaterio, quando terminata la sua funzione al servizio della specie, la donna ha finito la sua esistenza, raggiungendo la sua fine naturale e la sua morte parziale. Con i processi regressivi genitali, declinano le secrezioni interne che sono

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alla base della bellezza, e i caratteri sessuali secondari perdono la femminilità. Il processo biologico è avvertito interiormente già prima, e la donna sente incombere la decadenza fisica e spirituale (Deutsch, 19772: 440-42). È appunto il tempo in cui quella prospettiva di deserto, che s’è veduta nelle parole di Anna, è divenuta realtà. Il deserto ha vinto sia sulla città sia sull’animo della regina, invadendolo col suo disfacimento e con la sua desolazione. Come la sua città10, lei non è più «se non cosa in rovina e abbandonata». Perde perfino le macerie. Perde perfino le sue macerie nei suoi occhi opachi e secchi. Il suo paesaggio interiore è abitato unicamente da rimpianti, rimorsi e orribili sensi di colpa, che si aggirano nel suo animo simili alle àrdee che, cineree, svolano «tra paludi e cespugli» là dove prima era la sua città.

In questa condizione di deserto psicologico, il rammarico uggioso contro il marito si allarga a un’indignazione rancorosa verso l’intero mondo che l’ha defraudata della sua femminilità. (Deutsch, 19772: 457). È anche questo l’ombra nera ferita da bagliori sinistri che Didone solleva in alto sulle fiamme del rogo, per abbatterla su Enea, l’ultimo che la abbandonava – come suo padre, come il fratello, come Sicheo – dandosela a gambe dopo aver tradito la sua fiducia e deluso quell’amore che aveva fatto risorgere in lei, ravvivando i «veteris vestigia flammae»:

Sequar atri ignibus absens et, cum frigida mors anima seduxerit artus, omnibus umbra locis adero. Coi fuochi del rogo fumanti t’inseguirò di lontano; e morta, dovunque tu vada, vedrai la mia ombra.

(END 1967, IV: 384-6)

10 Si realizza qui l’intento di Ungaretti, quale risulta dalla citazione posta ad apertura di questo saggio.

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Proviamo ora a confrontare questi versi con l’incipit ungarettiano: Dileguandosi l’ombra, In lontananza d’anni, Quando non laceravano gli affanni

(Ungaretti 1990: 244), I due testi hanno in comune quel solo elemento, che è l’ombra, la

quale, benché sul piano denotativo assuma una funzione diversa tra l’un testo e l’altro, sul piano connotativo pare che recuperi una certa corrispondenza, se non similarità. Perché cos’altro può essere l’ombra che si dilegua nel testo ungarettiano? Solo che essa qui è diventata quella che aduggia l’ultima stagione della vita, l’età del climaterio, che il poeta nuovo le accorda, cancellando dal suo destino terrestre l’episodio della sua tragica fine. Se quest’esame è condivisibile, sono così soddisfatte – almeno in questo caso – tutte le condizioni poste dal nostro secondo principio d’identificazione: non solo, infatti, un testo è riconoscibile nell’altro, ma vi istituisce anche una connotazione semanticamente orientata, che non si rivelerebbe altrimenti.

Ma questo incipit, sul piano dell’elocutio, sembra richiamare anche un altro verso virgiliano:

«umentemque Aurora polo dimoverat umbram» ‘L’Aurora aveva dal cielo le umide ombre rimosso’

(END 1967, IV: 7). Apparentemente anche qui i due testi hanno quel solo elemento in

comune, che però, sul versante denotativo, condivide la diversità che oppone tra loro i contesti: mentre il verso virgiliano, infatti, inscena l’avvento aurorale11 che dissolve l’umbram, vale a dire il buio della notte

11 In tre casi infatti (END 1967, VI, 535; VII, 26; XII, 77), Virgilio usa, per l’aurora, addirittura un aggettivo omerico, «roseo», solo che lo applica alla quadriga o alla biga o alle ruote, invece che alle dita, come fa Omero. Inoltre la formula, benché svari fra cinque o sei tipi, non è che si adatti al contesto in base a una qualche ratio poetica, ma segue solo la volubile fantasia del poeta, e tale volubilità consente ad alcuni di questi tipi di ripetersi uguali («umentemque Aurora polo dimoverat umbram»

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e l’umidità che l’accompagna; l’ipertesto ha a che fare con l’età critica della donna, descritta qui sopra. In questa fase, per resistere al destino di decadimento che sente incombere su di lei, la donna si volge al passato, alla mitica adolescenza, nell’illusione di ringiovanire imitandone gli atteggiamenti e riprovandone le emozioni. Si avrebbe a che fare in questo caso, con quel tipo di riscrittura che Genette chiama «continuazione prolettica», vale a dire «una continuazione in avanti (che esprime cioè il dopo)» (Genette 1997: 206). Chissà però se Genette avrebbe difficoltà a considerarla tale, stante il fatto che essa ha reso necessario accantonare un diegema che nell’ipotesto è nientemeno che la morte della protagonista. Dato questo dubbio, proviamo a riprendere l’esame da un altro punto di vista.

Sia in Virgilio, sia in Ungaretti, l’aurora segna innanzitutto il trapasso dalla notte al giorno, ma mentre il verso di Virgilio è insidiato dal dubbio che esso sia solo una di quelle riprese formulari stancamente ripetitive, che il Mantovano usava al seguito di una convenzione tràdita, se mai appena un poco rilucidate e messe lì a segnare quel trapasso, nel poeta italiano esso appare subito travalicato, e dall’evento astronomico si trova a rappresentare l’idea di trapasso in sé, che è sempre da un di qua a un di là, da un prima a un poi, da un istante a quello successivo.

s’incontra uguale due volte (END, III: 589; IV: 7) ) o solo un poco variati per ragioni metriche, e allora accade che l’Aurora (o, in sua vece, quando la crastina dies, quando la luce, quando il carro di Fetonte) o rosseggia mettendo in fuga le stelle (III: 521), o lascia il letto di Oceano o Titone (IV: 129, 585; IX, 460; XI, 1), o sorprende qualcuno che indugia mentre dovrebbe darsela a gambe (IV: 568), o figura come madre di qualcuno (I, 751) o come punto cardinale (VII, 606; VIII: 686; IX, 111), o come ora del giorno (X, 241) o è portata dai cavalli di Fetonte (V: 105). E in nessuno di questi casi sembra che la poesia se ne giovi in qualche modo. Solo quando la luce riporta l’orbe terrestre e le fatiche umane riscoprendole coi suoi raggi (V: 65; XI, 182) interviene la poesia, che balugina un diverso andamento ontologico, tale che con la luce del sole, che allora è detta «alma» (< alo), venga all’essere – o ne scompaia – addirittura il mondo, l’essere essendo sic et simpliciter il dominio del visibile, con tutte le conseguenze che se ne traggano di ordine filosofico e scientifico e psicologico. La stessa cosa non manca in Ungaretti: per es., in Popolo, appressandosi l’aurora, il poeta dice che «Brulicano già gridi/ d’un vento nuovo// Alveari nascono nei monti/ di sperdute fanfare// Tornate antichi specchi/ voi lembi celati d’acqua… nel chiaro calmo/ s’allineano le vele» (Ungaretti 1990: 16).

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Questo modo di vedere fa la sua comparsa già ne L’allegria, che raccoglie poesie in gran parte composte nel pieno dell’esperienza bellica, in cui si stava «come d’autunno/ sugli alberi/ le foglie», ed ogni notte il poeta soldato si chiedeva se gli riuscisse di portarla a termine. In questa condizione, veniva a mancare la certezza di arrivare alla nuova aurora («mi morirà/ questa notte?») (Al. Ungaretti 1990: 72, 73), la certezza senza la quale non è possibile la vita dell’uomo.

Tutto ciò considerato, è pensabile che quel modo di concepire l’aurora in Ungaretti sia maturato dalla sua esperienza personale, e soltanto a posteriori il poeta, una volta postosi in quello «stato psicologico strettamente dipendente dalla sua biografia»(ivi: 511), si sia trovato lo sguardo direzionato a vedere anche l’aurora di Virgilio a muovere lo slancio, volta a volta deluso, verso una terra promessa sempre sospirata e mai raggiunta, slancio che nella regina fenicia era quello verso la realizzazione del suo sogno d’amore. In altre parole Ungaretti, nel verso virgiliano, può avere veduto ben altro che una stanca ripresa formulare. Vediamo se è possibile venirne a capo.

In Virgilio questo verso ricorre invariato due volte, e tutt’e due le volte inarca uno scenario imponente che incombe su una creatura devastata, messa in tale arnese che una desolazione interna pare continuarsi di fuori, una desolazione comminata da un potere misterioso e sovrastante. Il primo di questi esseri è Achemenide, il compagno di Ulisse dimenticato nella spelonca di Polifemo:

Postera iamque dies primo surgebat eoo umentemque Aurora polo dimoverat umbram cum subito e silvis macie confecta suprema ignoti nova forma viri miserandaque cultu procedit supplexque manus ad litora tendit. Sorgeva il mattino del giorno seguente, l’aurora Aveva disperso l’umida ombra dai cieli, quando una strana, ignota figura di uomo, squallido, smunto, stremato, vien fuori dai boschi verso la spiaggia, con mani distese a noi supplicando. (END 1967: III, 589-92)

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Si veda come la contiguità sintagmatica variamente reiterata nel terzo esametro («cum-subito»; «subito-e-silvis»; «e-silvis-macie-confecta»), insinui, sotto quella di superficie, una storia diversa: e cioè che l’apparizione di Achemenide uscente dalla selva sia un evento, oltre che subitaneo, proditorio: il povero ‘eroe’ sembra “spinto a venir fuori di sotto” (sub-itus) dalla selva, che il comune immaginario raffigura quale dominio dell’ombra; da questa selva (dall’ombra!), sembra venir fuori anche la macies, quella consunzione estrema (confecta suprema) che dissecca la persona, facendone uno spettacolo di straniamento, di repellente e di miserevole. Questo tipo di diegema, nel quale una storia si acquatta sotto un’altra, e che proponiamo di chiamare contectio diegetica o diegema di contectio, performa appunto il potere superiore che, acquattato all’interno stesso dell’essere vivente, trama subdolamente a suo danno. Ma nella contectio diegetica è coinvolta anche la selva, che fa anch’essa da nascondimento a quel potere misterioso, e che può rappresentare la natura o semplicemente il mistero insondabile in cui quel potere s’intana. Viene così a farsi chiaro il nome che gli compete, non certo un nome entitario, data l’essenza inconoscibile, ma sì un nome fattitivo, di fatum, ‘il detto’, il decretato, senza nessuna possibilità di sapere che cosa sia, o se sia qualcosa di propizio o di ostile, il che esclude ogni possibilità di difesa. Non so se serva a rincalzare questa simbologia della selva, ma si consideri che a rappresentare quel potere occulto nel mondo romano sono le Chere, le Moire o le corrispondenti Parche, la Tyche e le molte Sibille, tutte divinità femminili animate da forze oscure e violente, e anche i luoghi in cui operano sono sempre tenebrosi e impervii, dove il sacro (sacer) si mostra nelle forme più orride.

E si consideri un altro possibile rincalzo della contectio concernente sia la selva sia l’uomo. È sorprendente la somiglianza di questo luogo virgiliano con ciò che racconta Ungaretti in un suo discorso preposto alle note della sua opera. Vi racconta che trovandosi in Argentina, in una landa sconvolta dal continuo mutare di letto da parte dei due fiumi Rio Dulce e Rio Salado...

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Attraversò in quel momento la pista di corsa un cobai spaurito: «Aspetti», mi disse l’etnologo Wagner che mi accompagnava, «ora arriva il serpente che l’animalino sta fuggendo». E soggiunse: «Sbucano i serpenti, s’annunziano le piogge». Ci fermammo un po’ più oltre e in quella desolazione ci fu offerto uno spettacolo degno di ricordo. Un uomo, un poveretto (ignoti forma viri) che non aveva che i suoi calzoni di tela lacera (miserandaque cultu), uscì dalla sua tana, fatta di tronchi (e

silvis procedit) e qualche latta di scatole e qualche straccio applicati alla meglio: uscì sostenendo nelle braccia un’anfora funeraria. Conteneva uno scheletro; e chi sa come in un recipiente tanto stretto sarà stato possibile introdurre il cadavere che, disincarnato com’era, era ridotto a parere una lisca di pesce (macie confecta suprema). Esaminando l’anfora, scorsi un ornato dal quale era facile dedurre che la greca è la stilizzazione di due mani che si stringono (supplexque manus ad litora

tendit). Strano che la greca sia andata poi a finire sui berretti dei generali.

(Ungaretti 1990: XCII) Abbiamo, per comodità di confronto, inserito i riferimenti virgiliani

in parentesi. Da ambedue i brani viene il lezzo di un potere occulto, di un’ombra, che sconvolge tutto, smagrisce e disossa, consuma. Le stesse mani che sulla greca implorano aiuto o si stringono in mutuo conforto, sopra i berretti dei generali sono, da quel potere, voltate a segnale di un’altra distruzione, mossa dall’interno stesso dell’uomo, dalla cecità dello spirito. Questa cecità è ribadita da altri segni, indecifrabili, che subito seguono, da supposizioni che il poeta è costretto a lasciare in sospeso. Il brano si conclude significativamente con le parole: «E m’inchinavo tra questi pensieri verso il diseredato scavatore di anfore» (Ungaretti 1990: XCII-III) che subito, in lampo antifrastico, dati i soggetti innocenti, richiama dall’Evangelio l’annuncio solenne, la buona novella che «i miti erediteranno la terra» (Matteo, 5,5).

Ma ecco la seconda ricorrenza del verso formulare: Postera Phoebea lustrabat lampade terras umentemque Aurora polo dimoverat umbram cum sic unanimam adloquitur male sana sororem.

(END 1967, IV, 7-8).

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Deve certo avere qualche senso il fatto che quel verso ricorra immutato ambedue le volte. È plausibile supporre che Ungaretti vi abbia veduto un tecnema identificativo, che identifichi cioè la medesima ombra a gravare sia su Achemenide sia su Didone, come poi su tutti i Troiani che si vedranno annichiliti, le ossa diacce, avanti la Sibilla cumana12. Per vedere quali dispositivi operazionali egli abbia intravisto nel verso di Virgilio, non occorre altro che interrogare quel verso.

Là, umentem è attribuito ad umbram, e tuttavia la sua contiguità sintagmatica ad Aurora, benché fuori di concordanza, partecipa l’umidità anche ad essa, sicché la poesia estende a tutto l’avvento aurorale il carattere dell’umido. L’aurora esce umida lei stessa da quel rimuovere l’umida ombra notturna, e sull’immenso fondale celeste che s’inarca tra umentem e umbram posti alle due estremità del verso, inscena la sua luce quale vasto ammanto d’umido oro ad

avvolgere la terra, con brividi, ove (cum, mentre) si continuano immensamente i brividi in cui era presa la regina da quella, per lei colpevole, passione amorosa. Tale umidore avvolgente è dalla poesia reso percepibile come gelido che penetri le ossa ed anima13. Nel contempo, attraverso il medesimo avvento aurorale, quel gelido è raffigurato come discendente a pioviggine sulla regina, e poi giù dentro lei, dall’intero complesso cosmico.

L’ipotesi che nella formula di ripresa virgiliana, Ungaretti abbia intraveduto questi dispositivi operazionali, riceve rincalzo da una poesia molto più antica, Lindoro di deserto, risalente all’Allegria:

Dondolo di ali in fumo Mozza il silenzio degli occhi. Col vento si spippola il corallo Di una sete di baci Allibisco all’alba Mi si travasa la vita

12 «Gelidus Teucris per dura cucurrit/ ossa tremor» (END 1967, V: 54-5). 13 Cfr. n. prec.

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in un ghirigoro di nostalgie Ora specchio i punti di mondo che avevo compagni e fiuto l’orientamento Sino alla morte in balia del viaggio Abbiamo le soste di sonno Il sole spegne il pianto Mi copro di un tepido manto di lind’oro Da questa terrazza di desolazione in braccio mi sporgo al buon tempo

(Ungaretti 1990: 24)

Si può senz’altro convenire che «il silenzio degli occhi» è il vuoto del visibile, dinanzi al quale la contemplazione resta muta. Esso vuoto è interrotto dalle «ali in fumo», che sembrano essere ciò che resta di speranze bruciate, ma il fumo è anche ciò che offusca la visione, come l’ombra, quel potere avverso che si nega alla conoscenza umana e sconvolge uno ad uno i disegni della vita, per esempio quelli amorosi. L’alba trova il poeta spoglio di quei disegni, senza nient’altro da investire nel momento successivo, che è quanto dire senza nulla più da vivere. Egli è fatto livido gelidamente come morto, e lo fa tale anche il testo, con lo scialbo nel colore albale addensato – se mi si perdona un poco d’impressionismo, senza ridere – nel cumulo di ‘a’ e illividito dal verde delle due ‘i’ punteggianti il letto molle di liquide e di sonore («Allibisco all’alba»). Finale di risata. Dunque, essendo impedita nel presente, la vita va a cercarsi indietro, sul filo d’annuvolate nostalgie. L’odissea della conoscenza, «del conoscersi quale essere dal nulla[…] sempre ha per punto di partenza il passato, sempre torna a conchiudersi nel passato, sempre riparte dalla medesima aurora mentale, sempre nella medesima aurora della mente si conchiude» (Ungaretti 1990: 546)14. Solo a partire dai momenti trascorsi che ne

14 «cito enim nos omnis voluptas relinquit, quae fluit et transit et paene antequam veniat aufertur. Itaque in praeteritum tempus animus mittendus est, et quicquid nos

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furono i supporti, egli può a fiuto ritentare l’orientamento, riprendere il viaggio che l’imbozzola, lo imprigiona come l’aria, perché fuori d’esso è la sua morte e la fine d’esso è la fine sua. È un viaggio dal prima al poi, un protendersi da un istante all’altro, come un forzato, incessantemente, senza una sosta se non per il sonno, tutto ansiosamente teso al raggiungimento della meta, con lacrime anche, per la dolorante stanchezza, e che solo il sorgere del sole – dispone la fantasia – metterà fine alle sue lacrime. Così, la dorata luce aurorale qui diventa l’illusione calda in cui di momento in momento il poeta si ravvolge, mentre da un tempo desolato si protende verso un felice tempo sempre imminente, sempre così vicino e così lontano, come un’età dell’oro o un buon tempo definitivo.

Già ne L’Allegria dunque, anzi già nel Porto Sepolto, che poi ne costituì la seconda parte e che fu scritto subito nel ’15 come un diario della vita di trincea15, fin da quel volume era conchiuso il quadro della primitiva Weltanschauung. Essa fu poi messa a dimora in poesia – nell’accurata interezza che oramai era possibile, potendovi convogliare il frutto di tutte le esperienze che l’avevano alimentata – negli Ultimi

cori per La Terra Promessa, composti a Roma dal ’52 al ’60, e perciò non inclusi in quell’opera. Erano intanto occorsi gli eventi gravi (la tragedia bellica, la morte del fratello e di Antonietto, l’occupazione di Roma (Ungaretti 1990: 551) ) che originarono Il dolore e prima ancora il Sentimento del tempo, anche se il sentimento del tempo, cioè il sentimento dello sgretolarsi di tutto, era già implicito in quella Weltanschauung. Anzi, credo si possa dire senz’altro che s’era venuto formando, non a Roma, ove egli fece l’esperienza del barocco saltato in aria, «sbriciolato in mille briciole», e della natura che bruciava al sole d’estate, ma già durante l’adolescenza, in Alessandria, la città che «si consuma e s’annienta d’attimo in attimo», anche in conseguenza della dimestichezza che il poeta ebbe con la morte costantemente, durante la sua infanzia:

umquam delectavit reducendum et frequenti cogitatione pertractandum est : longior fideliorque est memoria voluptatum quam praesentia» (Sen. Pol.: 10,3). 15 Non dal ’25 al ’33, come si dice, quando il poeta cominciò ad immaginare la Canzone, o nel ’35, quando nacque l’idea de La Terra.

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«sentimento della morte, sino dal primo momento, e attorniato da un paesaggio annientante: tutto si sgretola, tutto, credo di averlo già detto: tutto non ha che una durata minima, tutto è precario. Ero in preda, in quel paesaggio, di quella presenza, di quel ricordo, di quel richiamo, costante, della morte» (Ungaretti 1990: 499);

già da allora s’era venuto formando un nucleo sentimentale unico a due poli, che erano da una parte il senso d’inarrestabile disfacimento e consunzione e, dall’altra conseguentemente, quello di precarietà irreparabile che attimo per attimo faceva, quanto incerto, tanto più bramato l’attingimento di quello successivo, più selvaggio l’impetus

vitae, «quell’esaltazione quasi selvaggia dello slancio vitale, che è moltiplicato dalla prossimità e dalla quotidiana frequentazione della morte»(Ungaretti 1990: 520, 531). Dunque fu la stessa incertezza a rafforzare la fede profonda in un attingimento del poi e insieme in una Provvidenza che lo garantisse, fede questa alla quale dall’infanzia era stato educato dalla madre, e che nella sua «persona dissimulandosi non cessava d’attendere» anche nel lungo tratto di sospensione16 durato fino al ’28 (Ungaretti 1990: 539). Dice ne I fiumi:

Il mio supplizio è quando non mi credo in armonia Ma quelle occulte mani che m’intridono mi regalano la rara felicità

16 Se ne hanno diverse tracce. Per es., in San Martino del Carso, prima c’era questa che il De Robertis chiama strascicatura: «Ma nel cuore/ nessuna croce manca/ Innalzata/ di sentinella/ a che!», dove, con la sopravvivenza dell’anima oltre la morte, si mette in dubbio anche l’esistenza di Colui che la dovrebbe garantire.

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Quelle «occulte mani», annota il poeta stesso, «sono le mani eterne (si domanda il lettore: le stesse dell’anfora e della greca, nell’episodio del ‘tombarolo’?) che foggiano assidue il destino d’ogni essere vivente», destino, pertanto, non dato una volta per tutte ab origine, come il fato degli antichi, ma costruito via via attraverso un’opera creativa continua, che non consente di prevedere nel presente ciò che accadrà nell’attimo venturo. Una tessitura ininterrotta, che fa i conti anche con l’opera umana, che Egli chiama a partecipare alla costruzione dell’universo, di «questo mondo umano considerato come continua invenzione dell’uomo» (Ungaretti 1990: LXIX), opera alla quale Egli riconosce un arbitrio incondizionato, che può imporre deviazioni, causare impacci e rendere necessari aggiustamenti nel disegno provvidenziale. Dio insomma fa i conti con la cecità umana, «col suo costante fallire che si rinnova ogni giorno con una medesima morte ed una medesima aurora» (Ungaretti 1990: 550).

Trattasi di ciò che altri hanno chiamato l’ombra, e alla quale Ungaretti stesso allude quando parla di muri, alberature, arborescenze che intralciano la vista dell’evento aurorale. Ma siccome è il fallire umano ad entrare in conto, occorre una caparbia fede, una speranza inesausta, una certezza definitiva, che quell’attimo è raggiungibile17, non per nulla ciò è promesso in Dio, di cui è data una storia dove tutto va a buon fine, e Lui stesso è pronto a morire in croce pur di onorare le sue promesse. Questo ci assicura che in quell’attimo ci è riservata una terra, finalmente un Eden provvisto d’ogni cosa necessaria a fare la perfetta felicità. E questa felicità è immaginata dal poeta come una consonanza piena con il respiro universale, o con Dio insomma.

È così che la vita, nonostante i continui fallimenti e naufragi, nel pensiero ungarettiano diviene un continuo slancio fiducioso da un attimo all’altro, un élan vital molto simile a quello bergsoniano. La disamina fin qui dovrebbe già aver mostrato come questa Weltanschauung sia incoccata come freccia all’arco nella vicenda virgiliana di Didone. Vale perciò la pena di vedere più in dettaglio 17 «Le mete non saranno mai raggiunte, ma noi sentiamo che ci sono, che forse le potremmo raggiungere» (Ungaretti 1990: 556).

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come nasca questa visione della vita, che avrà tanta importanza nella poesia ungarettiana. S’è accennato già che essa deve essere nata nel poeta adolescente, proprio lì ad Alessandria, città subito là fuori insidiata dal Sahara, come la Cartagine di Didone, e perciò assediata e assillata di miraggi. Per forza gli doveva nascere «il gusto e la passione di slanciarsi, di tuffarsi, d’imbozzolarsi in miraggi» (Ungaretti 1990: 503). Tale gusto o passione deve essere stata l’origine di una più generale propensione psicologica ad evocare immagini sia dalla riserva memoriale propria sia da quella letteraria e, combinandole con attuali esperienze, inscenarne visioni con sempre più attenuati i limiti di presente di passato e di futuro, in una visione della realtà già allora mobile e sbilanciata in avanti, in una progressio

indefinita. Presumibilmente questa fu la storia evolutiva di quell’idea di

tempo che, restata a lungo in gestazione, deve essere poi salita a chiara consapevolezza quando, nel ’13, gli avvenne di seguire i corsi di Bergson alla Sorbona18. Là ebbe modo di udire forse che la mobilità della propria visione era l’assoluto, perché essa resta in tutte le cose, tolte che siano le qualità aggiuntive e contingenti, e tolta essa è tolta la cosa, anzi l’esistenza stessa, che ne consiste. «Ogni realtà è una tendenza, se si è d’accordo a chiamare tendenza un mutamento di direzione già nel momento della nascita» (Bergson, 1970: 83). Ecco perché forse l’ispirazione d’Ungaretti «dal Sentimento in poi parte dal ricordo, cioè da momenti interamente scomparsi, assenti», come dichiara lui stesso a commento della poesia Ritorno, de L’Allegria

(Ungaretti 1990: 526): perché in quel continuo divenire che rende la durata sempre «eterogenea rispetto a se stessa»(Bergson, 1970: 103), l’istante vivo e presente n’è quasi consumato e risulta inafferrabile. Al poeta «perso in queste vane corse» di tale inarrestabile mobilità, la quiete appare come un corpo acerbo di ragazza verso il quale s’avvii in sogno e la mano che essa gli porge «di quanto m’avanzo

18 «Tutta la mia poesia è un modo platonico di sentire le cose, ed essa ha del resto due maestri nel campo dello spirito, da una parte Platone e i Platonici, e dall’altra Bergson: sono i due maestri che mi hanno sempre accompagnato quando io ho dovuto pensare» (Ungaretti 1990: 360-1).

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s’allontana» fino a che gli vola via dagli occhi, in un continuo mutare d’apparenze, come è detto in Alla noia e in Sirene di Sentimento

(Ungaretti 1990: 108, 109): poesie nelle quali – nonché in altre analoghe – il pensiero bergsoniano è restituito dalle operazioni della poesia, dunque assimilato all’ispirazione del poeta, che vi carica su il senso della consumazione e della morte, presente anche in Bergson, sotto specie di dissipazione e disgregazione, che sono il prezzo da pagare per le scelte che incessantemente ci tocca fare nella nostra storia personale e collettiva (Bergson, 1907: 579-80).

In quegli incontri luminosi, dunque, anche l’idea di tempo, ancora vaga, ancora “imbozzolata” in quell’infantile gioco di miraggi, gli si chiarì nel modo che lui stesso descrive in una nota alla poesia Ti

svelerà, di Sentimento del Tempo: La durata interna è composta di tempo e di spazio, fuori del tempo cronologico; l’universo interno è un mondo dove la reversibilità è di regola. Quel tempo non scorre mai in un’unica direzione, non s’orienta mai nel medesimo modo; si può risalirne il corso, non si sa fino a quale fonte inaccessibile, ma tuttavia immediatamente presente in noi. La memoria trae dall’abisso il ricordo per restituirgli presenza, per rivelare al poeta se stesso»

(Ungaretti 1990: 537).

In Bergson, infatti, la conoscenza intuitiva coglie direttamente nella coscienza, ove si rispecchia la vita stessa dell’universo, non una simultaneità di stati né una successione di cose nettamente distinte tra loro, ma una durata in cui gli stati di coscienza, come le entità e gli eventi naturali, «si organizzano tra loro, si compenetrano, si arricchiscono sempre più e potrebbero, ad un io che ignorasse lo spazio, dare il senso della pura durata» (Bergson, 1889: 103).

Questa è l’idea di tempo che si chiarisce in Ungaretti. Non è più il tempo esteriore, spazializzato nei tre ambiti distinti e irreversibili inventato dalla scienza per potervi piegare il mondo alle misure proprie, ma un tempo il cui ambito privilegiato è l’interiorità umana, in cui tramite la memoria le cose e gli eventi non hanno più confini netti né si consegnano al passato irrevocabilmente uno dopo l’altro,

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ma durano in un certo modo l’uno nell’altro, si richiamano o s’annunciano, si mescolano, risolvendosi in una continua evoluzione creatrice, in un élan vital che attraversa e coinvolge l’intero cosmo. È un tempo tale che si può percorrere in avanti partecipando dello slancio creativo, o ripercorrere all’indietro, come avvenne a Proust, al recupero delle passate esperienze, di cui resta traccia nelle attuali, a guidarle opportunamente, convogliandole in quello slancio. In tutto questo movimento è inevitabile che ci siano perdite. La nostra, come quella universale, è una crescita a stelo, che richiede continue potature di rami laterali, come avviene delle diverse personalità che nell’evoluzione ontogenetica si succedono in ciascuno dall’infanzia alla maturità. «La strada che percorriamo nel tempo è cosparsa delle macerie di ciò che stavamo per essere, di ciò che potevamo diventare» (Bergson, 1907: 580). Questo in Bergson viene rappresentato drammaticamente, né in Ungaretti appare come tranquilla durata psicologica dell’esperienza (Ungaretti 1990: XCVI-VII). Ma mentre in Bergson è lo scotto da pagare per poter pianificare la vita pur nel divenire inevitabile (Bergson 1934: 1385), per Ungaretti in quell’idea impetuosa del tempo, che riconoscerà anche in Leopardi, «tutto si confonde in un unico piano, precipitandosi contro di noi» (Ungaretti 1990: LXXXII).

Abbiamo già più volte accennato all’idea che, a rappresentare il varco, la linea dello slancio dal prima al poi, il balzo istintivo da un istante a quello imminente19, Ungaretti eleggerà l’immagine dell’aurora, che rimuove le tenebre della notte ed apre il nuovo giorno. Ma ogni balzo è seguito da un fallimento o naufragio, onde fin da L’Allegria, composta a cavallo della grande guerra20, e che prima si chiamava Allegria di Naufragi, sull’aurora già s’addensano ombre, già prende il sopravvento la notte, che ad Alessandria era, per lui bambino, una «perenne ossessione che andrà sempre più

19 «Il poeta d’oggi ha il senso acuto della natura, è poeta che ha partecipato e che partecipa a rivolgimenti fra i più tremendi della storia. Da molto vicino ha provato e prova l’orrore e la verità della morte. Ha imparato ciò che vale l’istante nel quale conta solo l’istinto» (Ungaretti 1990: LXXVII). 20 «Io sono stato in guerra dove agonia e morte erano continue», (ivi: 556).

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incorporandosi, animandola, nella sua poesia», un incubo di grida e di abbai di cani, «una roccia di gridi», che è quanto resta in lui della sua infanzia, come dirà ne Il Dolore (Ungaretti 1990: 503, 201).

Ecco già la notte, dunque, e l’ombra, a turbare l’aurora. La Terra

Promessa, che doveva riguardare il giovanile slancio verso la bellezza imperitura21, finì per riguardare invece la frattura di quello slancio, frattura che in questo saggio abbiamo denominato abruptio impetus. Si noti che, in Lindoro di deserto, l’ombra viene dall’alto. Anche in Virgilio essa è rimossa dal cielo («polo dimoverat umbram»): là sotto – performativamente22, nel verso di sotto – è posta lei, la Didone, schiacciata, stremata (male sana), proprio come Achemenide fatta segno ad una cospirazione persecutoria uni-versale, che si scatena contro di lei, la isola dal mondo, la relega nell’estrema solitudine in cui si usa abbandonare la vittima designata, o un colpevole, escludendolo dallo sguardo amorevole, dall’udienza gentile. È sola e impaurita. Non sa a chi domandare aiuto, la sorella stessa alla quale si rivolge (adloquitur) è unanimam, dice il poeta, ha un’anima sola con lei23, si è identificata a lei, sicché in sostanza è a se stessa che rivolge il suo discorso, è a se stessa che confida gl’incubi che la tengono sospesa («quae me suspensam insomnia terrent»).

Per quale colpa? Non certo per la sua passione d’amore vissuta come dementia e furor: si vedrà a momenti che l’amore, per il Mantovano, è piuttosto una colpa lieve, meritevole di perdono, e comunque insufficiente a provocare una guerra di dimensioni tali.

21 Il poeta dice che l’idea gli era maturata nel ’35, di sulla composizione di Auguri per

il proprio compleanno, la terzultima del Sentimento, che parla dell’autunno. 22 Per la critica operazionale, una performance è una costruzione che, prima ancora d’essere referenziale, vale a dire riferirsi al mondo della cosiddetta realtà, è di ordine testuale. Nel presente caso, come nella reale accadenzialità il destino dell’uomo è sottoposto a potenze superiori, così nel testo i termini che ciò dicono sono disposti l’uno sotto l’altro in modo corrispondente. 23 Ma meglio sarebbe intendere la parola latina appunto come quella che indica il fenomeno che la moderna psicologia ha chiamato ‘identificazione’, che è un processo importante per la fortificazione dell’io. Il verso stesso («cum sic unanimam adloquitur male sana sororem»), così compatto nella sua pronuncia legata, performa questa identificazione.

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Bisognerebbe avere commesso una colpa cosmica per aizzarsi una guerra cosmica, colpa che nella sua irrisoria minimezza lei non può avere commesso in alcun modo. Né è possibile pensare che, nell’idea di Virgilio, l’infelice fine della regina cartaginese e la sua sorte ultraterrena siano il castigo toccatole per non avere portato a compimento i munera di sovrana a lei assegnati dal destino (D’Elia 1983:210), perché la schiera nella quale Enea, nella sua discesa agli inferi, incontrerà Didone nei Campi del Pianto (lugentes campi) è quella dei morti per amore, «quos durus amor crudeli tabe peredit» (END 1967, VI, 442). Perciò la sua colpa è sicuramente quella d’essere morta per amore. Ma qui i morti per amore sono presentati non tanto come colpevoli, ma piuttosto come vittime sulle quali si è abbattuta la feroce crudeltà del dio; colpa, che non merita castigo neppure con l’aggravante della dementia o del furor. Insomma, per il poeta mantovano, Didone è sostanzialmente una vittima incolpevole, e come tale designata senza possibilità d’appello là dove si determinano e si rapportano fra loro i destini di galassie, sistemi stellari, mondi, moltitudini e individui.

Come si vede, qui di nuovo cresce la verosimiglianza dell’ipotesi intertestuale. Ma ora supponiamo che, sulla base di questo suo modo di considerare la vicenda narrata nell’Eneide, Ungaretti applichi sul verso virgiliano tecnemi fortemente trasformativi, dando luogo ad un processo operazionale così pressappoco riassumibile:

l’‘ombra’ va ad occupare l’intero spazio esistenziale, si accampa unica in un presente vuoto e, nel gerundio (gero), si performa come agire. Ma il suo è un agire tale da negarsi attuandosi, è insomma un dileguo: l’ombra si dilegua. L’autonomia del verso blocca questo dileguo perpetuamente in atto, senza possibilità alternative. Nel verso seguente questo dileguo si dispone nella direzione del passato, a ritroso giù per la lunga china degli anni («in lontananza d’anni»), è un dileguarsi arretrando dal nunc all’ante, al prius, fino a un tempo libero dagli attuali affanni, libero dall’ombra che, dileguando, schiude l’era favolosa dell’età infantile.

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Ciò che resta in Ungaretti della Didone virgiliana è l’ombra di lei, caduto ogni attributo mondano, ogni apparenza posticcia. È un’ombra che dis-allontana la serena età infantile, cancellando dietro di sé tutto il tempo, l’essere stesso cioè mentre avanza dileguando a ritroso lungo la traccia memoriale, fino a che dissolta in nulla scopre il tempo limpido, il tempo della felicità preadamitica, dalla quale saremmo caduti dando inizio alla storia (Ungaretti 1990: 560-1), o scopre il tempo dell’infanzia, che vi corrisponde nell’ontogenesi e che «torna a udirsi vivo tra il fogliame del sentimento, della memoria e della fantasia» (Ungaretti 1990: 535).

Ora non bisogna stare lì a fare il calcolo acribico della verosimiglianza di una visuale simile, perché la verosimiglianza abita la poesia sempre come ospite provvisoria. Si guardi, invece, a questo passare potente dell’essere, nello spazio del visibile, cancellandosi dietro sé. È nientedimeno che la sacra rappresentazione del mistero che ci trasporta lungo la vita, nelle sue occhiaie sempre vuote del dove e del quando. Come ciechi, dunque, abbandonati al buio, sotto un cielo vuoto?

È utile a questo punto richiamare un passo nel quale Ungaretti dice che la sua poesia «interamente, sino dal principio, è poesia di fondo religioso» (Ungaretti 1990: 533); e un altro, ove dice che l’uomo, con la sua frenesia di agire anche come artista, risponde ad una vertigine datagli dalla sensazione, non del vuoto, ma dell’assenza radicale dell’essere, di Dio?, si domanda, e poco più oltre, dice la ragione di quest’assenza:

quest’uomo ch’io sono, prigioniero nella sua propria libertà, poiché come ogni altro essere vivente è colpito dall’espiazione d’un’oscura colpa, non ha potuto non fare sorgere la presenza d’un sogno d’innocenza. D’innocenza preadamitica, quella dell’universo prima dell’uomo. Sogno dal quale non si sa quale battesimo potrebbe riscattarci, togliendoci di dosso la persecuzione della memoria.

(Ungaretti1990: 535-6).

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Questa idea dell’assenza di Dio deve essere comparsa certamente nel periodo di poca fede, ma venne rapportata all’idea della ‘caduta’ presumibilmente dopo il recupero della fede. Si veda, per esempio, in Un Grido e Paesaggi, la poesia Gridasti: Soffoco, del ’40 o ’39, che è una straziante rievocazione della morte del piccolo Antonietto. Pochi versi prima il poeta ha implorato Antonietto di provare ancora ad accrescere forza all’anima dell’addolorato padre, se vuole che questo padre s’innalzi fino a lui, «dove il vivere è calma, è senza morte»: parole da cui si deduce con facilità la fede in un Dio d’amore che in ultimo libera le sue creature dalla sofferenza e dalla morte. Ma in chiusura ci s’imbatte in questi versi:

Spaventato tra me e me m’ascoltavo: È troppo azzurro questo cielo australe, Troppi astri lo gremiscono, Troppi, e per noi non uno familiare… (Cielo sordo, che scende senza un soffio, Sordo che udrò continuamente opprimere Mani tese a scansarlo…) (Ungaretti 1990: 264)

Spaventato, egli si sorprende a pensare ad un Cielo sordo e ostile, da cui è bene che l’uomo si guardi, perché può esserne colpito proditoriamente da un momento all’altro. E appunto questa è la sorte della Didone virgiliana che, per quanto compia i sacrifici prescritti, le divinità alla fine tramano contro di lei, l’ingannano. Venere le spedisce Cupido sotto mentite spoglie. La fanno morire sacrificandola ai loro scopi. Suona sarcastico il tardivo intervento della sposa di Giove che, per quanto «omnipotens» e «longum miserata dolorem», manda giù dal cielo Iride, non a sciogliere l’infelice amante da quel dolore che lei stessa, la dea, ritiene sia durato già a lungo, non a liberarla da quella morte che lei stessa, la dea, giudica prematura, né per restituirla alla vita piena degli stessi gioiosi colori che Iride nel volo sciorina alla luce del sole: era giunta dunque l’ora del tramonto, la fine del giorno e della vita, per lei che moriva dunque – è inutile negarlo, sa di beffa il verso che lo nega («Nam quia nec fato merita

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nec morte peribat») – moriva davvero innocente, e per volontà del destino nell’indifferenza degli dei. Avevano consacrato già il suo capo a Dite (il negarlo sa di beffa, in quei due versi menzogneri24); Iride veniva a precipitarla nel buio definitivo, a troncarle con un colpo secco l’ultimo capello che la teneva legata al mondo, perché il suo calore scivolasse via e la vita sparisse nei venti.

A mettere allo scoperto questa doppiezza degli dei nella vicenda della Didone virgiliana è un luogo dell’ipertesto, l’allocuzione allo scherno da noi qui sotto commentata («Scherno, spettro solerte…»). I due testi, anzi, si chiariscono a vicenda, il che è di regola nel commercio intertestuale. Ne viene nuovamente rafforzata l’ipotesi riscritturale, mentre acquista evidenza anche una similarità ideologica tra i due poeti, ambedue oscillanti tra la fede in una trascendenza e una disillusione che a volte si scopre fin riottosa. Ciò nonostante, Ungaretti è sempre il fervido credente che si rivela in tante sue poesie, perfino ne Il Dolore ve ne sono, tra le quali una è una supplica appassionata a Cristo, che è chiamato «Maestro e fratello e Dio», Santo che soffre «per liberare dalla morte i morti» (Ungaretti 1990: 230). E, da cristiano che confida in un Dio di assoluta bontà e giustizia, egli non può ammettere che Didone sia oggetto di una persecuzione gratuita da parte di Dio. Può essere, per lui, solo una persecuzione della memoria, quel poco che ne resta dell’innocenza perduta.

È questa l’ombra che si dilegua nell’incipit ungarettiano? La memoria che perseguita la regina Didone, incorporata in lei, a far tutt’uno con lei, con l’essere, che si solleva, individuandosi nella sua forma? Vediamo un momento questo concetto dell’Ombra, come lo presenta la Valcarenghi. Essa è il lato oscuro della psiche, «quella parte dell’inconscio che la psicologia analitica ha definito come Ombra

[…] nell’inconscio di entrambi i sessi abitano sia il potenziale creativo sia il potenziale distruttivo del pensiero femminile», perché «il rischio del pensiero femminile è nel disordine mentale, nell’indifferenziazione caotica e in crudeli tratti castranti[…] È questa 24 «nondum illi flavom Proserpina vertice crinem / abstulerat Stygioque caput damnaverat Orco»

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una situazione angosciosa e paralizzante, spesso sottovalutata, che genera sfiducia in se stesse, sensi di colpa e di conseguenza un’ampia varietà di sintomi» (Valcarenghi 2003: 12, 19; Jung 1979 XI: 82-84; Trevi 1986)25. Ci sono donne che, ferite nel loro narcisismo, diventano aggressive e vendicative, e il loro masochismo si trasforma in sadismo, che le fa violente anche contro se stesse, fino a giungere al suicidio (Deutsch 1977:189). Questa è l’Ombra che si agita nella Didone virgiliana, è questa che la fa aggirare per le strade come una lupa in calore, con quelle smanie sacrificali e quella sete di sangue sempre insoddisfatta, per grande che sia il numero delle vittime sacrificate; è questa che la rende simile ad una malvagia strega (Traglia 1983:156)26 che scaglia maledizioni, ordisce malefici e come una baccante invasata percorre con grida sinistre le vie della città.

Questa figura di strega perversa è legata alla simbologia della luna, l’astro che muta d’aspetto e reca ombra e luce, vita e morte, custodisce e alimenta il segreto degli innamorati ed apre il passo al malfattore. C’è insieme bene e male, sogno e perversione. C’è una luna propizia che rappresenta «la sensibilità dell’essere intimo, abbandonato all’incantesimo silenzioso del suo giardino segreto» (Chevalier 1986: s.v.); e c’è una “luna nera”, quella che rappresenta gli aspetti orrifici della natura e dell’animo umano, «il dominio misterioso del doppio […] l’immaginazione malsana che esce dall’inconscio […] la nevrastenia […], il furto […] gli inganni, le

25 È stato Jung a denominare ombra ciò che lui definisce il nostro «sotterraneo dell’anima». Vi è riposto il sacro e il morto, ma anche il primitivo e l’infantile che permangono in noi a disfare i nostri disegni e a deviare prospettive anche a nostra insaputa. Ma è anche il terreno fertile, che produce il nuovo, il guizzo stimolante, il tratto distintivo necessario all’individuazione del sé rispetto all’altro e alla sua valorizzazione come persona unica e irripetibile. L’ombra non coincide necessariamente con il male né con l’inconscio, perché vi è una parte di ombra anche nell’io e nel super-ego. Quando coincide con l’inconscio, con l’Es freudiano, allora l’ombra diventa pericolosa e può produrre il male e il mostruoso. Essa va quanto prima integrata nell’insieme della struttura psichica, e da essa riconosciuta come una sua parte costitutiva, per poterne disporre utilmente. 26 Didone stessa, mentre allestisce il proprio rogo, perché la sorella si allontani senza sospetto, le dice di voler tentare dei riti magici per riconquistare l’amore di Enea. Inoltre, la figura di Didone maga era già in una precedente versione del mito.

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trappole, il ricatto» (ivi: passim), insomma, la perversione, le manovre circonventive e plagiarie quali vorrebbero essere le pratiche di magia nera, i culti satanici, gli anatemi ed altre sozzure simili, alle quali una stupidità lungamente tradita ha assegnato come luogo naturale l’animo esulcerato della donna. Questo, fin dal «momento in cui l’uomo diventa il depositario della razionalità e la donna si trasforma nella sua antitesi, nell’emblema dell’oscuro, dell’irrazionale, dell’istintivo; diventa portatrice di un’indistinta minacciosità da tenere costantemente a bada con un sistema di regole e pratiche sociali capaci di garantirne l’emarginazione, o almeno di contenere la forza eversiva che le deriva soprattutto dal suo essere madre, e quindi matrice» (Slepoj 2003: 134). Anche «gli dei nascono e muoiono nel suo grembo» (Michelet 1972: 22), anche la divinità lunare dunque, Ecate, in cui a poco a poco viene ipostatizzata la donna-strega. Infatti, è al lume della luna, temuta e onorata, su una deserta landa ben rischiarata ai confini di un bosco (ivi: 43) che si riuniscono le streghe a celebrare il Sabba o la Messa nera. Anche la metamorfosi del lupo mannaro è legata alla vicenda lunare, nonché altre maligne e malaugurose figure create dalla fantasia popolare27.

E una luna nera è anche nel testo virgiliano: Poi quando vanno via e la luna a sua volta oscurandosi attenua il suo lume e le stelle al tramonto conciliano il sonno, sola piange nella casa vuota e si getta sul letto vuoto di lui: lontana lei, vede e sente lui lontano[…] (END 1967, IV: 80-83).

Prima di scendere in Averno, la Sibilla chiama a gran voce Ecate28, cioè la Luna nera, che ha in potere il cielo e l’Erebo («voce vocans Hecaten caeloque Ereboque potentem» (END 1967, VI: 247), mentre Enea sacrifica un’agnella nera alla Notte, madre delle vendettose

27 Una, per esempio, è la Malanima irpina, che di notte scivola sotto le fessure delle porte e si distende sulle donne dormienti, in modo da schiacciarle. 28 Era una dea feroce e terribile, che a Sparta esigeva sacrifici umani. Era rappresentata in cielo dalla Luna, in terra da Diana cacciatrice e nell’Erebo da Proserpina.

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Eumenidi, e una vacca sterile a Proserpina, sposa di Dite e regina dell’Averno. La spelonca che immette nel regno di Dite, è una «vastità immane (fatta di) scoscendimenti scogliosi, negrore d’acque lacustri, tenebre di boschi, fumi che oscurano il cielo»: non poteva che essere illuminata da una luce incerta e maligna come quella lunare:

Ibant obscuri sola sub nocte per umbram Perque domos Ditis vacuas et inania regna, Quale per incertam lunam sub luce maligna Est iter in silvis, ubi caelum condidit umbra Iuppiter et rebus nox abstulit atra colorem. Oscuri andavano sotto una notte deserta per l’ombra e le vuote case e i larvali regni di Dite, come sotto una luna incerta e d’invida luce va un cammino per selve, e Giove ricopre dell’ombra il cielo e nera la notte ha tolto il colore alle cose29.

(END 1967, VI, 268-72) L’ombra, qui, è ampiamente riflessa in tutto il corpo testuale, in cui si performa un paesaggio da vera e propria Luna nera. Bene lo evidenzia il D’Elia:

L’oscurità della notte (che è <metafisica> e psicologica prima che fisica) coinvolge i due pellegrini (Enea e Sibilla): la loro solitudine nelle vuote dimore e nei regni inani si riflette e ingigantisce nell’ombra della notte. La stupenda similitudine intensifica la Stimmung:30 nel regno di Ecate-Diana-Luna andare è come vedere scomparire il colore e la consistenza delle cose risucchiate nell’ombra che un lucore lunare rende surreale, ma le cose che scompaiono sono anche le vite umane risucchiate dalla morte. (D’Elia, 1983: 226-7).

29 La traduzione è mia. 30 Stimmung, ted.: disposizione o stato d’animo.

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È una Luna nera nel cui simbolo si condensa l’Ombra cambiandosi in un incubo sempre sospeso alle soglie della coscienza, tra sonno e sogni che neanche il sopirsi d’altre inquietudini riesce a conciliare; quell’ombra che lancia oscuri presagi, e ci fa lontani da noi, allontanando la nostra felicità; quella luna atra che in un brano di Consolo (Consolo 2003:48) cade giù a falde, si frantuma, venendo chiaramente a rappresentare la «dimensione caotica, inconscia e disgregante, distruttiva e autodistruttiva, del principio naturale femminile» (Valcarenghi 2003:46)31, a fronte di un universo solare, che è invece «concordanza, armonia prestabilita, ordine migliore» che, s’intende, in un mondo patriarcale come quello di Virgilio, può essere garantito solo dal principio maschile:

Ma la Luna la Luna la Luna, la maculata Luna è dissonanza, è creatura atonica, scorata, caduta dalla traccia del suo cerchio, vagante negli spazi desolanti. È saturnina la Luna, atra, melanconica, sospesa nell’attesa infinita della fine che non arriva mai (Consolo 2003: 71).

In Virgilio è presente anche una diversa ombra – il lettore attento

già ne avrà colto indizi disseminati in questo saggio. Questo tipo d’ombra è quella che impersona quel potere occulto (dio, fato, destino, il diavolo stesso al quale le streghe offrono le Messe nere) che l’uomo sente incombere su di sé, carico di minaccia, e dal quale fa dipendere il suo male e il suo bene. Dato il suo mistero, la sua sede è

31A prova, si può vedere in Consolo come questa luna sia apostrofata con nomi di ruoli femminili («madre, sorella, sposa, guida delle notti»), maestra perciò e mèntore solo in combini occulti o in oscuri moti istintuali, o anche nel guardare «nello squarcio,[…] dietro le scene del teatro» ciò che suscita «orrore, nausea, afflizione, melanconia, depressione»), fino ad esaurire quasi tutta la gamma delle modalità esistenziali che la mentalità patriarcale assegna alla donna (Consolo 2003: 68).

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bene immaginata nei luoghi tenebrosi d’ombre e pieni d’incombenti pericoli, come la notte, i boschi, precipizi, caverne, crateri vulcanici. Esso alligna e ingigantisce nelle menti sprovvedute, la cui conoscenza procede per impulsi intuitivi, s’inabissa nelle cose e ne riemerge con nuove visioni: come il pensiero femminile, che «si addentra in meandri spesso oscuri dove pensieri, idee, ricordi e suggestioni s’intrecciano fino a tornare alla luce con un nuovo sapere» (Valcarenghi 2003: 12). Un potere simile sembra che offuschi piuttosto che chiarire la conoscenza delle cose, ed è facile pensare che sia esso a confondere la visione dell’avvenire, che in Ungaretti la poesia raffigura nell’avvento aurorale32. Ecco la ragione per la quale la configurazione ungarettiana dell’aurora è sempre intralciata dall’ombra:

un’aurora non edenica, non di perfetta felicità, in qualche modo contaminata dalla storia[…], perché ci sono tutti quei muri che si frappongono fra noi e la conoscenza assoluta, che crescono di continuo, via via che la civiltà avanzando s’allontana dalla natura[…]: c’è insomma quella specie di cecità che noi abbiamo nel nostro spirito, per cui non arriviamo a conoscere che una parte della realtà, la meno vera[…]e tu tutte le difficoltà che nel nostro essere va intrecciando il muoversi della storia nella serie dei secoli (Ungaretti 1990: 552-3). Si è sempre nella condizione di aurora contaminata, il cui rinascere

avviene sempre attraverso alberature e arborescenze che ostacolano la visione (Ungaretti 1990: 552). Di conseguenza, l’esperire umano è sempre uno sporgersi «entro trasparenze[…] come dall’interno di frastagli cristallini» (Ungaretti 1990: 555).

32 Al tema dell’aurora sono dedicate, o vi fanno riferimento, molte poesie come, in

Sentimento del tempo, Nascita dell’aurora, Lago luna alba notte, O notte; ne L’Allegria: Rose

in fiamme, oltre a Lindoro di deserto, già di sopra esaminata, e dove si è sorpresa addirittura, in una chiara enunciazione del poeta, una precisa concordanza con l’operazione della poesia qui evidenziata: «Il sole spegne il pianto/ Mi copro di un tepido manto/ di lind’oro». La stessa Canzone, prima della pubblicazione, ebbe nei manoscritti il titolo di Aurora o Dell’aurora, e del resto Ungaretti stesso, nelle sue

Lezioni alla Columbia University, la commenta come una fenomenologia dell’aurora.

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Non mancano altri riscontri testuali che confermano e integrano questo modo di vedere. Così a volte l’alba ha lividi, la clessidra del tempo è mossa da una mano in ombra (Ungaretti 1990: 252), e da ombre deve distaccarsi la speranza (Ungaretti 1990: 253): al che la poesia insinua che la speranza non ha basi certe, è minata dal timore di non avverarsi mai. In un componimento che s’intitola Finale, alludendo a una fine, che è senz’altro quella della vita, il poeta parla del mare: ad ogni verso lo nega, consumandolo, approssimandolo alla fine, e dopo lo ripone in essere come soggetto di movimento («lo muovono nuvole»); ma è un’apparenza, in realtà il movimento è delle nuvole, che lo attraversano come ombre; ed ecco qui: la poesia lo raffigura come luogo d’attraversamento e transito (trans + ire), di valico verso un approdo, e vi sovrappone omologamente l’idea della vita come viaggio da un prima a un poi, sospinta da forze sconosciute, od ombre, che la rendono incolore, per macilenza, inclinata a morte, se non ha l’ausilio dei sogni (Ungaretti 1990: 254), la «volontà di vivere nonostante tutto, stringendo i pugni, nonostante il tempo, nonostante la morte».

Paradossalmente, proprio il sentimento costante della presenza della morte, del naufragio continuo dal quale ogni attimo rinasce, è alla base dell’intero libro de L’Allegria, che prima s’intitolava appunto Allegria di Naufragi (Ungaretti 1990: 517-8). Presumibilmente, è anche per reazione a questo sentimento – così acuto e pervasivo nell’età del climaterio – che si origina il fenomeno della regressione verso l’età infantile. Ritorniamo all’incipit ungarettiano dei Cori:

L’allora, odi, puerile Petto ergersi bramato E l’occhio tuo allarmato Fuoco incauto svelare dell’Aprile Da un’odorosa gota.

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In virtù di tecnemi sinestetici, così ravvicinato e vivo la poesia rende il tempo della fanciullezza33, da potervi udire il proprio “puerile petto ergersi”, e in contempo il proprio occhio d’allora sommuoversi, per pudore “allarmato” che l’odorosa gota, incautamente infiammandosi, manifestasse un segno impudico della passione. Come si vede, è un indugio dilettoso della memoria in quel tempo così germinativo di vita, nostalgicamente rievocato. Ciò che si può trovare di simile nel testo virgiliano, il solo luogo a questo più o meno corrispondente, può essere il citato richiamo a Sicheo in un’allocuzione rivolta alla sorella Anna. (END 1967, IV, 28-9). Anche là Didone rievoca un tempo felice, ma esso si riaffaccia alla memoria solo fuggevolmente, e subito è gettato via, sepolto nella tomba di chi glielo ha tolto, lasciandosi uccidere stupidamente e abbandonando lei proprio nel massimo turgore, diventato incontenibile, della sua femminilità.

La successiva allocuzione allo scherno perché sgomberi il «cuore roso», prima ancora che sul filo delle riflessioni che il poeta stesso fa su un luogo della Canzone, è bene interpretabile in rapporto alla sdegnosa rinuncia della Didone virgiliana. Ecco l’allocuzione:

Scherno, spettro solerte Che rendi il tempo inerte E lungamente la sua furia nota: il cuore roso, sgombra!

Il rifiuto della storia d’amore vissuta con Sicheo, qui diventa un «germe d’ira», per reazione alla caducità di cui si rivela ammalata la perfetta armonia nel tempo adolescenziale34 (Ungaretti 1990: 564). L’illusione di una sua eterna durata non è che un inganno della natura che si prende gioco delle sue creature, uno scherno appunto «del brutto poter che ascoso/ a comun danno impera». Siamo sulla 33 Anche il Monologhetto che apre Un grido e Paesaggi rifluirà verso la fanciullezza: «Solo ai fanciulli i sogni s’addirebbero:/ posseggono la grazia del candore/ che da ogni guasto sana, se rinnova/ o se le voci in sé svaria d’un soffio» (Ungaretti 1990: 262). 34 Nella Canzone, v. 24, Ungaretti dice «in breve salma».

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linea leopardiana, come conferma più volte il poeta stesso. In Didone, il cinismo della sorte (o degli dèi, o dell’Ombra) mostra, nella sua efferatezza, un sottile cinismo, collocando di proposito la Fenissa nella condizione sociale più alta (END 1967, IV: 655-7), perché più crudele e oltraggioso risulti lo scherno finale. Quello scherno è sempre lì, come uno spettro solerte, pronto a lacerare l’illusione nel momento stesso in cui è data.

Questo accanimento della sorte o degli dèi trova anch’esso una corrispondenza nell’ipotesto, anche se appare dislocato nell’aldilà, che per altro era dagli antichi immaginato somigliantissimo, o comunque strettamente collegato, al mondo terreno:

Nec procul hinc partem fusi mostrantur in omnem lugentes campi: sic illos nomine dicunt. Hic quos durus amor crudeli tabe peredit secreti celant calles et murtea circum silva tegit; curae non ipsa in morte relinquont. Di lì non lontano e sparsi dovunque si trovano i Campi del Pianto: con questo nome li chiamano. Là quelli che Amore feroce consunse d’un male crudele sentieri invisibili celano e tutta una selva all’intorno li copre di mirti; né in morte le ansie li lasciano mai35.

(END 1967, VI: 440-44).

Nell’ipertesto ungarettiano la sofferenza amorosa diventa una specie particolare della pena comminata all’uomo per quella colpa oscura. In Virgilio la colpa può essere costituita, non solo da una mancanza, ma anche da un eccesso d’amore, che per sua natura dovrebbe portare a desiderare il bene della persona amata. Ma diventa anch’esso una culpa quando assume la forma di dementia o furor e infrange gli ordini divini. Solo che a Virgilio, appare ingiusta la punizione per una colpa, infondo, meritevole di perdono. Se è comminata una pena così grave, essa non può che riguardare, non il peccato d’amore, per quanto possa contenere di furor o dementia, ma una colpa altrettanto grave, che dev’essere atavico, dato che se n’è persa la 35 Traduzione mia.

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memoria, e inespiabile, giacché la sua pena dura tutta la vita e si ripresenta eterna e con più orrore nell’aldilà (D’Elia, 1982: 151-5). E anche qui appare il sospetto di una caduta ancestrale da un originario stato di perfetta felicità, di cui – l’Ungaretti suppone a sua volta – reca notizia incerta una sottesa memoria, che ci perseguita per la vita. Ne è risparmiata solo l’età adolescenziale, leopardianamente avvolta in un’illusione di perpetua felicità, che poi nell’età adulta si rivolta a scherno giocato dalla natura alle spalle del vivente. Il tempo con la sua ben nota furia distruttiva, è inerte, non può nulla contro la persistente pena, che poi diventa la memoria persistente e altrettanto tormentosa di quell’antica felicità.

Memoria sottesa, oscura colpa, notizia confusa… Bisogna venire a discorrere della notte. Essa, in Virgilio, solo un paio di volte si dispiega come un sereno spettacolo di bellezza naturale (END 1967, III: 512-20 e VII: 137-8): per lo più è agitata e insonne, di per se stessa atra e umida, portatrice di mali e foriera di sventure e inquietudini. È madre di furie crudeli e presenta fosche ali. Nel seguente brano, il contesto notturno in cui Virgilio inserisce Didone, assimilandovela, è decisamente un contesto di natura selvaggia e bestiale, nonostante il silenzio limpido nel quale appaiono assopite le cose:

cum tacet omnis ager, pecudes pictaeque volucres quaeque lacus late liquidos quaeque aspera dumis rura tenent, somno positae sub nocte silenti. At non infelix Dido Phoenissa neque umquam Solvitur in somnos oculisve aut pectore noctem Accipit: ingeminant curae rursusque resurgens Saevit amor magnoque irarum fluctuat aestu. ‘ogni coltivo tace, le bestie, gli iridi uccelli le creature che abitano i laghi limpidi e i terreni di rovi aspri, una volta messe giù dal sonno nel silenzio della notte. Ma non la Fenissa, infelice cuore, mai si adagia, o nei sogni si discioglie o la notte accumula negli occhi o nel cuore: gli affanni raddoppiano, sempre si leva su daccapo l’amore e infierisce e ondeggia in una gran tempesta d’ire’.

(END 1967, IV: 525-31)36. 36 Ibidem

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È indubbiamente una notte seminata di feroce violenza (di Ombra!). L’omologia tra essa e l’animo di Didone è indotta da un tecnema, che proponiamo di chiamare tecnema della negatio amovenda. Ecco di che si tratta: in «neque umquam/ solvitur in somnos oculisve aut pectore noctem/ accipit» (‘né mai si abbandona ai sogni né accoglie la notte negli occhi o nell’animo’), il ve che rende negativa anche la frase congiunta, è un segno così esile, da essere facilmente rimosso dalla poesia, in altri termini si cancella da sé nella mente del lettore (amovetur), e di conseguenza la frase, divenuta affermativa, asserisce che Didone accoglie in sé quella notte piena di feroci insidie e vi si assimila, si lascia occupare dall’Ombra, quella stessa Ombra che infosca la notte così descritta.

Ma più ancora l’operazione della poesia, indotta dalla negatio

amovenda, aggetta verso un’immagine visiva: come un fondale palustre su per la mossa trasparenza dell’acqua, così in Didone il roveto ardente dell’istinto, il vortice iroso della passione si avventa a luce anche attraverso i divieti e le censure che vi getta sopra la coscienza morale. E questa volta l’Ombra si leva su con violenza e occupa interamente la regina cartaginese alterandone gravemente la figura regale che di lei è nota fra i sudditi e i popoli circonvicini37.

Ed ecco qui una bella operazione intertestuale: il lettore di Ungaretti, attraversato il cataclisma psicologico del testo virgiliano, vede quella notte trasformarsi sotto i suoi occhi nella notte della vita, e la furente Didone ingrigire nella defectio aetate, quella del declino dei sensi e delle passioni. Ci era parso, nell’incipit, di vederne il dileguo; ora il poeta si domanda se, dileguando essa, si dilegui anche la notte come spegnimento di giovinezza:

Ma potrà, mute lotte Sopite, dileguarsi da età, notte? (Ungaretti 1990: 247)

37 Cfr. (END 1967, IV: 321-3): «te propter eundem/ exstinctus pudor et, qua sola ad sidera adibam/ fama prior», “sempre per te ho tradito/ il pudore e la fama onde prima da sola salivo alle stelle” (Trad. mia).

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Prima di rispondersi, Didone si sospende un poco nell’avvento della sera. Ad occhi socchiusi si lascia attraversare dai fremiti che, parendo comunicarsi a lei dalle erbe a mo’ di energie naturali, la illudono per un momento di un’eternità loro o, che è lo stesso, della sorte propria:

La sera si prolunga Per un sospeso fuoco E un fremito dell’erbe a poco a poco Pare infinito a sorte ricongiunga (Ungaretti 1990: 244).

Quel fremito d’erbe le risveglia e ravviva analoghe sensazioni vissute al tempo d’Enea. Esse si riverberano nella materia testuale tramite tecnemi sinestetici modulati in base a vive sensazioni, com’era nell’intento di Ungaretti. Per esempio, la ninfa Eco, che nella mitologia era condannata a ripetere le parole altrui, le ultime, quasi che, insieme alle parole, anche la sua persona, la sua concretezza corporale si risolva tutta nel suono della sua voce, e lo stesso significato si dissolva dietro di lei; questa ninfa richiama Didone che se ne va anche lei con dentro le sole ultime parole di Enea, quasi in esse rinchiusa, come Eco nella vuota sonorità. La luce lunare dalla quale è fatta nascere la ninfa («Lunare[…] nacque/ Eco»), performa il paesaggio interiore che quelle parole incantevoli soffondono nella Fenissa: di luce tenue che avvia alla incertitudine del sogno, sul bordone anche di quello sciabordio d’acque, nel quale esse parole si fondono, ma con brividi, per il freddo che ne contraggono, ma per i presentimenti altresì dei patemi da soffrire di lì a poco, per il gelo che Enea avrebbe opposto all’amore di lei.

Ogni suono sembra scendere sotto le soglie, in questa eclissi del dominio sonoro, che ravvivatosi un’ultima volta in un sussurrio ebbro del rivo, si dissolve nella sua ombra, in quell’eco che, attenta a ripetere le parole altrui, le smarrisce irreparabilmente.

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Lunare allora inavvertita nacque Eco, e si fuse al brivido dell’acque. Non so chi fu più vivo, il sussurrio sino all’ebbro rivo o l’attenta che tenera si tacque (Ungaretti 1990: 244-5).

Questo ammanco fino a scomparsa del dominio sonoro, nel

seguente brano interpreta l’ammanco delle energie vitali nell’età del climaterio:

Tutto tace; ma grido Il grido, sola, del mio cuore, Grido d’amore, grido di vergogna Del mio cuore che brucia Da quando ti mirai e m’hai guardata E più non sono che un oggetto debole Grido e brucia il mio cuore senza pace Da quando più non sono Se non cosa in rovina e abbandonata38 (Ungaretti 1990: 245).

La donna appare in preda all’abruptio impetus, la sua femminilità è

in pieno disfacimento. Ne è contagiata anche la sera, che la Didone virgiliana prolungava fino a notte alta, in conversarî pretestuosi con l’amato Enea, bevendone a lunghi sorsi l’amore:

Nec non et vario noctem sermone trahebat infelix Dido longumque bibebat amorem. (END 1967, I: 748-9).

Allora la notte era lo spazio del sogno, che ora è rimpiazzato dall’Ombra della defectio aetatis. Ciò che la poesia raffigura sono

38 Si fa notare, per quel che può valere, che un’espressione molto simile a questa si trova nel Corano, nella sûra di Maria, XIX, v. 23: «Ora, i dolori del parto la costrinsero a rifugiarsi presso il tronco di una palma, ed essa esclamò ‘Oh, fossi io morta prima che ciò avvenisse e fossi come una cosa dimenticata, del tutto dimenticata!’» (Corano 1965: 276).

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schianti di cose che si spezzano in un intrico impenetrabile, una marcescenza irreversibile, collocata in un dilà definitivo, in cui la vita non è più che un andare cieco e senza orientamento:

Solo ho nell’anima coperti schianti, Equatori selvosi, su paduli Brumali grumi di vapore dove Delira il desiderio, Nel sonno, di non esser mai nati. (Ungaretti 1990: 245).

L’unico desiderio rimasto è quello di non essere mai nati. In una

condizione simile, può essere di qualche sollievo solo il vagheggiamento dell’età puberale, con le precipitose impazienze, l’ansiosa brama di lanciarsi oltre i limiti, i colori, i profumi, che in dilettoso impasto sensoriale confluivano nel felice presentimento di una maggiore succulenza, il cui godimento, per un vago timore, veniva rimandato a più tardi, ad una più disinibita disposizione sensuale:

Non divezzati ancora, ma pupilli Cui troppo in fretta crescano impazienze, L’ansia ci trasportava lungo il sonno Verso quale altro altrove? Si colorì e l’aroma prese a spargere Così quella primizia Che per tenere astuzie Schiudendosi sorpresa nella luce Offrì solo la vera succulenza Più tardi, già accaniti noi alle veglie. (Ungaretti 1990: 245).

In quella primavera dei sensi la notte è cancellata, sostituita da una

veglia tutta fiondata in una bramosa aurienza sensuale, mentre ora si cammina nella completa oscurità dei sensi, in una sterile e definitiva solitudine, che esclude ogni possibilità di compagnia, magari

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solamente di uno che si limiti a stare lì accanto (Enea39), anche se freddo e distaccato (Ungaretti 1990: 246). È la morte della speranza, di quella speranza che per Dante è possibile solo se è sostenuta da una fede. E perciò, spentasi la speranza è spenta la fede, l’élan vital, vale a dire il meccanismo della vita, che abbiamo denominato abruptio

impetus: è una legge naturale, nient’altro. Non c’entrano più i contrasti, le lotte sostenute, i dispiaceri, insomma, tutte quelle cose che dipendono dal nostro comportamento.

C’è un caso in cui, quell’abruptio impetus sembra dato in praesentia, evocato, fatto apparire direttamente. Ma bisogna fare una premessa.

Oggetto di trasformazione intertestuale è anche il modulo enunciativo. Nell’Eneide, Didone passa tra gli eventi come una deità statuaria che impone la sua presenza al mondo circostante. Da una parte c’è lei, dall’altra c’è il mondo, l’uno di fronte all’altro. Di conseguenza, il modulo enunciativo di Didone deve per forza essere un’allocutio. Anche nel poemetto ungarettiano la situazione è allocutiva, con la differenza che locutore e allocutore coincidono: Didone parla a se stessa, alla propria interiorità, o ai pochi fantasmi rimasti che vi si aggirano, ma che talvolta si confondono con lei stessa, sicché non si è mai sicuri se rivolge il discorso a se stessa o ad uno di loro, nel quale inconsciamente s’identifica. Chiameremo questo modulo ungarettiano tecnema dell’identità inclusiva. E’ per esso che l’abruptio impetus sembra dato in praesentia. Ecco il caso:

Viene dal mio al tuo viso il tuo segreto; Replica il mio le care tue fattezze; Nulla contengono di più i nostri occhi E, disperato, il nostro amore effimero Eterno freme in vele di un indugio. (Ungaretti 1990: 246)

39 Ma si osservi che, nel brano citato, il noi non si riferisce a Didone e ad Enea, come si può pensare, magari attribuendo il tempo rievocato al periodo precedente il loro amore. Si tratta invece del periodo adolescenziale, come chiarisce Ungaretti stesso e come persuade il contesto medesimo («puerile petto», «odorosa gota», «l’occhio tuo allarmato», ove ‘tuo’ è da Didone diretto a se stessa).

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Qui l’allocutore è sempre Enea, ma la locutrice, Didone, intreccia un andirivieni di riferimenti personali tra sé e l’altro, in un rapporto di reciprocità così fitto da generare fra loro un continuo scambio d’identificazioni. Il lettore in questo modo, se non sta più che attento, finisce col perdere le coordinate distintive. I due sono così uniti da sentirsi l’uno l’altra e l’altra l’uno, e ciascuno sa il segreto dell’altro, perché ci s’immedesima carnalmente, tanto da farne l’aspetto proprio, risolvendosi completamente in lui, senza residui della propria ipseità. L’identificazione è così profonda e totale da poter garantire una storia sentimentale dalla durata infinita, mentre il loro amore, quello d’Enea almeno, si è esaurito nello spazio di un attimo, e se ebbe un’eternità, questa ebbe una consistenza, per così dire, intensiva, contenuta tutta in quell’attimo (il verso lo rappresenta concretizzato nella struttura ossimorica), e solo nel ricordo può fremere eternamente. Quell’attimo non fu che un breve indugio della vita, che poi riprese la sua solita andatura.

È probabile che a base di questo indugio colmo d’eternità (operazione della poesia che denominiamo della finita infinitas) ci sia il verso virgiliano:

Tempus inane peto, requiem spatiumque furori. “chiedo solo un momento, una tregua, un respiro al mio furore”40.

(END 1967, IV: 433). Chi rammenta questo verso, nella Didone di Ungaretti vede

smorire il furore che agitava la donna virgiliana in preda all’Ombra41, e restare una donna delusa e umiliata, indifferente a tutto:

Nemmeno più contrasto col macigno, antica notte che sugli occhi porto. (Ungaretti 1990: 246).

40 Traduzione mia. 41 Cfr. «invisam quaerens quam primum abrumpere lucem» (END 1967 IV: 631).

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Qui, per il nesso appositivo, l’«antica notte» viene a mescolarsi, identificarsi, col macigno. Ora, il rapporto apposizionale è notoriamente interpretato come una copula, come un è. Ma attenzione all’è. La poesia opera in quell’è schiudendovi l’essere della notte, dell’Ombra: la notte (l’Ombra) è quel macigno che è divenuta Didone. Ma l’operazione della poesia non è ancora questa: anche qui si ha pressappoco l’operazione della finita infinitas: quell’è, come presente indeterminato, equivale a un tempo indeterminato, che è poi l’essere della regina fatta Ombra nella sua indeterminatezza qualitativa (corpo e anima) e temporale (vita terrena e ultraterrena); e questo essere indeterminato ha la natura del macigno, compattamente immarcescibile, indegradabile; vale a dire che Didone è ormai definitivamente soggetta all’Ombra, che le riempie gli occhi e le s’incorpora stabilmente, e perciò essa è l’Ombra. Casomai l’indeterminatezza dovesse intendersi come protesa solamente nell’avvenire, la poesia, tramite l’aggettivo ‘antico’, la estende al passato (e anche oltre) della donna attempata, che così si aggrigia, non solo nel ‘qui’ e ‘ora’, ma in tutto il suo essere indeterminato, il cui statuto entitario è un’attesa in perpetuo dissolvimento. Lo performa lo scricchiolio della foglia del platano che cade infinitamente sulle selci lungo il rombo di un fiume, quello delle vite che passano rumorose nel tempo del mondo. È un infinito cancellarsi nell’anonimato, lei Didone, e per giunta come un rumore molesto che si rimuove. Non serve più adornarsi se non per la morte. Tale sia, nella sera della sua vita, un «bagliore roseo», lasciato ambiguo tra il rutilare del rogo e l’ultima iridescenza del suo pallente incarnato (Ungaretti 1990: 247).

Ancora un’altra operazione della poesia. Ai seguenti versi virgiliani:

Si tangere portus

infandum caput ac terris adnare necessest et sic fata Iovis poscunt, hic terminus haeret: at bello audacis populi vexatus et armis,

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Se pure è fisso destino che un porto egli tocchi e approdi a una terra, e così stabilisce un decreto di Giove, e se la sua meta è immutabile: sia pure; ma anche sia travagliato da guerre furiose’

(END 1967, IV: 612-15), presumibilmente corrispondono gli ungarettiani:

A bufera s’è aperto, al buio un porto che dissero sicuro. Fu golfo costellato E pareva immutabile il suo cielo; ma ora, com’è mutato!

(Ungaretti 1990: 247)

La mutazione subita dal porto felice rappresentato dalle nozze, è data dall’ultimo dei versi virgiliani citati, che diviene così indispensabile per la comprensione dei corrispondenti versi ungarettiani. È un porto «vexatus bello et armis», e perciò anch’esso infestato dall’ombra, che però sembra uscita dalla persona di Didone, che oramai la considera dall’esterno, come una cosa smessa e divenuta inoffensiva.

Finiremo qui la disamina, appena notando l’ultima, stupenda operazione della poesia, benché non intertestuale. Nei due ultimi versi, non si sa a chi sia diretta l’allocuzione della grande protagonista, se a se stessa o ad Enea. Si ripresenta il tecnema dell’identità inclusiva. Movendo da esso nel poeta nuovo la poesia conclude la storia con la fusione dei due protagonisti. Ma non per amore. Questa volta, nell’orrore dell’inferno spirituale, attraversato dal rimorso, spaventoso, degli errori commessi:

Deposto hai la superbia negli orrori, nei desolati errori.

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