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27 APRILE 1945 IL RUOLO DELLA GUARDIA DI FINANZA NELLA CATTURA DI MUSSOLINI A DONGO 1. Premessa – 2. La cattura e la fucilazione di Mussolini. – 3. La partecipazione della Guardia di finanza all’insurrezione generale. – 4. Il ruolo dei finanzieri nella cattura di Mussolini e dei gerarchi fascisti. – 5. Il memoriale Buffelli. – 6. L’arresto dei gerarchi che intendevano espatriare attraverso il valico di Oria. – 7. L’oro di Dongo. – 8. Conclusioni. 1. Premessa L’insurrezione generale ordinata dal Comitato di Liberazione Alta Italia il 24 aprile 1945 fu caratterizzata da una partecipazione eterogenea. Ad essa infatti, presero parte, oltre ai patrioti già da tempo combattenti contro il nazifascismo, i partigiani dell’ultima ora che si sollevarono soltanto nei giorni finali della lotta ed una larga rappresentanza popolare che diede il suo apporto con lo sciopero generale oppure scendendo in piazza a sostegno della Resistenza. A quei drammatici eventi partecipò anche la Guardia di Finanza, i cui comandi al nord erano da tempo segretamente collegati con i patrioti. Il 25 aprile ed i giorni successivi, quindi, il Corpo ebbe parte di rilievo negli avvenimenti 1 . Le diverse provenienze sociali, politiche e militari dei partecipanti alla insurrezione generale si riflettono anche sulle fonti attraverso le quali, ormai a distanza di oltre mezzo secolo, lo storico deve ricostruire il reale evolversi degli accadimenti. Da parte fascista non esistono, ovviamente, relazioni ufficiali perché il crollo del regime fu repentino e drammatico ed i responsabili delle istituzioni e dei reparti militari, ove non passati per le armi, furono tutti catturati ed imprigionati. Le fonti di quella parte quindi consistono nei memoriali dei sopravvissuti e negli atti dei procedimenti penali e amministrativi cui furono sottoposti i fascisti e quindi godono di scarsa attendibilità essendo ispirati da sentimenti giustificazionisti, oppure di esaltazione di episodi bellici in cui i protagonisti pongono in luce solo gli aspetti positivi della loro condotta, trascurando ogni descrizione di fatti moralmente deprecabili, quali deportazioni, saccheggi, incendi per rappresaglia, fucilazioni ed eccidi. 1 Cfr. verbale del 28/11/1944 con il quale la Guardia di Finanza di Milano si poneva agli ordini del CLNAI (Archivio Storico del Museo Storico della G. di F. – d’ora in poi ASMSGF – fascicolo 675, l’Italia settentrionale, busta nr.2, documento nr.3.

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27 APRILE 1945 IL RUOLO DELLA GUARDIA DI FINANZA NELLA CATTURA DI MUSSOLINI A DONGO

1. Premessa – 2. La cattura e la fucilazione di Mussolini. – 3. La partecipazione della Guardia di finanza all’insurrezione generale. – 4. Il ruolo dei finanzieri nella cattura di Mussolini e dei gerarchi fascisti. – 5. Il memoriale Buffelli. – 6. L’arresto dei gerarchi che intendevano espatriare attraverso il valico di Oria. – 7. L’oro di Dongo. – 8. Conclusioni.

1. Premessa

L’insurrezione generale ordinata dal Comitato di Liberazione Alta Italia il 24 aprile 1945 fu caratterizzata da una partecipazione eterogenea. Ad essa infatti, presero parte, oltre ai patrioti già da tempo combattenti contro il nazifascismo, i partigiani dell’ultima ora che si sollevarono soltanto nei giorni finali della lotta ed una larga rappresentanza popolare che diede il suo apporto con lo sciopero generale oppure scendendo in piazza a sostegno della Resistenza. A quei drammatici eventi partecipò anche la Guardia di Finanza, i cui comandi al nord erano da tempo segretamente collegati con i patrioti. Il 25 aprile ed i giorni successivi, quindi, il Corpo ebbe parte di rilievo negli avvenimenti1. Le diverse provenienze sociali, politiche e militari dei partecipanti alla insurrezione generale si riflettono anche sulle fonti attraverso le quali, ormai a distanza di oltre mezzo secolo, lo storico deve ricostruire il reale evolversi degli accadimenti. Da parte fascista non esistono, ovviamente, relazioni ufficiali perché il crollo del regime fu repentino e drammatico ed i responsabili delle istituzioni e dei reparti militari, ove non passati per le armi, furono tutti catturati ed imprigionati. Le fonti di quella parte quindi consistono nei memoriali dei sopravvissuti e negli atti dei procedimenti penali e amministrativi cui furono sottoposti i fascisti e quindi godono di scarsa attendibilità essendo ispirati da sentimenti giustificazionisti, oppure di esaltazione di episodi bellici in cui i protagonisti pongono in luce solo gli aspetti positivi della loro condotta, trascurando ogni descrizione di fatti moralmente deprecabili, quali deportazioni, saccheggi, incendi per rappresaglia, fucilazioni ed eccidi.

1 Cfr. verbale del 28/11/1944 con il quale la Guardia di Finanza di Milano si poneva agli ordini del CLNAI (Archivio Storico del Museo Storico della G. di F. – d’ora in poi ASMSGF – fascicolo 675, l’Italia settentrionale, busta nr.2, documento nr.3.

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Anche la parte vincitrice ha lasciato fonti da valutare con diffidenza. Le brigate e le divisioni partigiane operavano nella clandestinità e quindi limitavano la documentazione delle loro attività, per ovvi motivi, al minimo indispensabile. Al termine della guerra ben pochi di questi reparti si presero la briga di stendere relazioni sui fatti ed in quei pochi casi, tesero sempre a far apparire le gesta dei propri appartenenti in una luce il più eroica possibile, demonizzando nel contempo l’avversario. Anche la successiva memorialistica di origine partigiana risente, com’è anche naturale, dell’esigenza di glorificare la guerra patriottica, anche perché negli anni successivi alla conclusione del conflitto, la Resistenza divenne argomento di polemica politica che aveva notevole peso nella vita del Paese2. Unica entità militare che continuò a funzionare prima e dopo la liberazione, tra l’altro con accresciuto prestigio, fu la Guardia di Finanza. Nel normale andamento burocratico della Guardia di Finanza era ricompresa la produzione di relazioni sui fatti di notevole importanza che vedevano coinvolti i finanzieri. Lo storico quindi oggi dispone di valido materiale documentario, redatto nell’immediatezza dei fatti e perciò sufficientemente attendibile, essendo i finanzieri per loro costume restii ad enfatizzare comportamenti ed avvenimenti di cui erano stati protagonisti3. Anche negli eventi di Dongo, che segnarono la fine del regime fascista e dei suoi capi, passati per le armi, alcuni finanzieri dei reparti locali furono al centro di quei drammatici accadimenti, talvolta in posizione di rilievo e le loro relazioni, che sono custodite nell’archivio storico del Museo del Corpo, consentono di ricostruire con sufficiente attendibilità alcuni aspetti delle ultime ore di vita di Mussolini e dei gerarchi catturati il 27 aprile 1945.

2. La cattura e la fucilazione di Mussolini.

Il Duce lasciò la sua residenza di Gragnano il 19 aprile, mentre le armate angloamericane infrangevano la linea gotica e dilagavano verso nord, per portarsi a Milano, ove il giorno successivo in una riunione con alcuni ministri in Prefettura ordinò la smobilitazione dei ministeri ed il trasferimento del governo. Dove, non lo sapeva nemmeno lui4.

2 Basti pensare che i movimenti dedicatisi alla lotta armata in Italia negli anni ’70 e ’80 (Brigata Rosse, Prima Linea, etc.) si ispiravano nei metodi di lotta, ma anche in parte nell’ideologia, alla Resistenza. 3 Ad esempio, ancora oggi l’opinione pubblica è in gran parte ignara della parte di rilievo avuta dalla legione della G. di F. di Milano nella liberazione del capoluogo lombardo. 4 La ricostruzione delle ultime ore di Mussolini segue quella, molto documentata, di G. F. Bianchi, Mussolini aprile 1945, l’Epilogo, Editoriale Nuova, Milano, 1979

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Il ministro Pavolini aveva riproposto di ritirarsi nel “Ridotto alpino repubblicano” della Valtellina, che però, nonostante se ne parlasse da qualche mese, non aveva pratica esistenza. Il generale Graziani, che conosceva la verità, aveva gridato al segretario del partito che continuava a magnificare la consistenza del Ridotto: “E’ ignobile mentire fino all’ultimo momento !”. Il 25 aprile, il cardinale Schuster organizzò un incontro in arcivescovado per far incontrare i dirigenti del CLNAI5 con Mussolini, al fine di prevedere un ordinato passaggio di poteri alle autorità dell’Italia liberata. Mentre il convegno era in corso e la discussione verteva sulla resa incondizionata delle truppe repubblicane alle quali sarebbe stato garantito il trattamento previsto dalle convenzioni internazionali, intervenne il maresciallo Graziani, che era stato messo al corrente in quel momento che i tedeschi stavano trattando la resa separata, per proporre un tempo di attesa per far coincidere la cessazione delle ostilità da parte dei tedeschi con quella delle truppe della RSI. Mussolini, impressionato dalla rivelazione e sentendosi tradito proprio dai tedeschi decideva di abbandonare la riunione per una breve riflessione, dichiarando che sarebbe ritornato entro un’ora. Rientrato in prefettura, ordinava invece – non si conoscono i motivi - la partenza per Como, con una piccola autocolonna, con alcuni ministri e personalità della RSI, scortata da un drappello di SS al comando del tenente Benzen, che aveva il compito di proteggerlo ma anche di impedirgli, se del caso con le armi, di espatriare in Svizzera, come sembra fosse sua intenzione. Il 26 l’autocolonna si spostò a Menaggio e da lì tentò una puntata verso la Svizzera, subito sventata dagli uomini delle SS. Nella serata, giunse Pavolini, praticamente da solo, che subì anche una sfuriata del Duce che gli chiese ragione del mancato arrivo dei 30.000 fascisti in armi da lui promessigli il giorno prima. Durante la notte sul 27 passava per Menaggio un’autocolonna della Flack, la contraerea tedesca, diretta in Alto Adige, al comando del tenente colonnello Fallmeyer. I fuggiaschi decidevano di unirsi ai tedeschi e di partire con loro. Pochi chilometri più avanti, a Musso, la colonna venne bloccata dai partigiani della 52^ brigata Garibaldi “Luigi Clerici”, comandata da Pier Luigi Bellini delle Stelle detto “Pedro”, che aveva come Capo di SM Luigi Canali detto “Neri” e come commissario politico Michele Moretti, detto “Pietro Gatti”.

5 Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia.

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Questa parte della vicenda non è controversa: i partigiani ed i tedeschi trattarono per un accordo sul transito dei soli germanici, previo controllo nel corso dei quali Urbano Lazzaro,detto Bill, un finanziere della tenenza di Dongo che faceva parte della resistenza scoprì Mussolini che aveva cercato di mimetizzarsi indossando un pastrano della Wehrmacht6. Il Duce fu catturato alle 15 del 27 aprile; subito dopo egli venne portato al municipio di Dongo e verso le 17 fu trasferito nella caserma della Guardia di Finanza nella vicina località di Germasino e affidato al brigadiere Giorgio Buffelli, anch’egli organico alla Resistenza. I partigiani non si sentivano ancora padroni della situazione e temevano che gruppi isolati di armati fascisti potessero tentare colpi di mano per liberare il loro Duce. Occorreva un altro trasferimento con modalità più riservate. Nella notte, quindi, “Pedro”, con la partigiana “Gianna”, con Michele Moretti e con “Neri” prelevò il Duce, al quale venne ricongiunta Claretta Petacci, su sua esplicita richiesta. Con la testa fasciata per essere reso irriconoscibile, Mussolini venne trasportato con un’automobile, seguita da un’altra con altri partigiani e la Petacci verso un nuovo luogo di detenzione: una baita di San Maurizio di Brunate, sopra Como. Una decina di chilometri prima, a Moltrasio, “Neri” apprese che a Como erano arrivati gli alleati e decise di ritornare sui suoi passi, per non correre il rischio di dover consegnare il prigioniero agli angloamericani. “Neri” portò quindi i prigionieri a Bonzanigo a casa di una famiglia di contadini che egli conosceva, i De Maria. Era ormai l’alba del 28 e Mussolini e la Petacci vennero lasciati a dormire con due giovani partigiani (“Lino” e “Sandrino”) di guardia. Intanto la notizia della cattura era giunta a Milano la sera del 27, tramite la Guardia di finanza che nella Lombardia era da tempo parte integrante del CLNAI. La sorte del Duce fu decisa quella sera stessa dalla componente comunista del Corpo Volontari della Libertà e del CLNAI. Solo ad esecuzione avvenuta quest’ultimo legittimerà con un proprio documento l’accaduto. Lo stesso Leo Valiani, membro di rilievo del Comitato, era all’oscuro di quanto stava maturando. Al momento della cattura del Duce emersero subito due tendenze: quella sostenuta dalla fazione comunista del CLNAI, che faceva capo a Luigi Longo e Sandro Pertini, che era per la fucilazione immediata, e quella che faceva riferimento agli altri partiti ed al generale Cadorna, che sostenevano l’esigenza di rispettare i patti e affidare Mussolini agli angloamericani, in applicazione dell'articolo 29 dell'armistizio di

6 Al termine della guerra il finanziere Lazzaro verrà decorato con medaglia di bronzo al V.M. per le sue gesta durante la lotta partigiana ed anche per la cattura del Duce e promosso al grado superiore per meriti di guerra. E’ anche autore di importanti pubblicazioni sugli avvenimenti di cui è stato protagonista. Si citano:

- Il compagno Bill, SEI, Torino, 1989; - Dongo, mezzo secolo di menzogne, A. Mondatori ed., Milano, 1993; - L’oro di Dongo, A. Mondatori ed., Milano, 1995.

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Cassibile che prescriveva al Governo italiano di consegnare Mussolini ed i gerarchi fascisti agli alleati. Longo e Pertini, scavalcando quindi gli altri membri del CLNAI, decisero che fosse il colonnello Valerio (Walter Audisio) a partire per la missione, dopo che l’incarico era stato rifiutato dal comandante della legione della Guardia di Finanza, Alfredo Malgeri e da tre capi partigiani dell’Oltrepò pavese, Italo Pietra, Luchino Dal Verme e Alfredo Cavallotti7. A Valerio, ritenuto non del tutto affidabile, fu affiancato su richiesta di Pietro Secchia, Aldo Lampredi, che aveva un passato di emissario del Komintern e di combattente della guerra civile in Spagna.8 All’alba del 28, con Lampredi e con 13 uomini delle brigate dell’Oltrepò pavese, Audisio si portò a Como per incontrare, in prefettura il CLN locale. Qui Valerio trovò forti resistenze per farsi consegnare Mussolini, dal momento che i comaschi erano per il rispetto integrale dell’art. 29 dell’armistizio, per cui fu costretto a telefonare a Longo a Milano, che gli pose l’aut aut: “o fate fuori lui o sarete fatti fuori voi”9. Valerio allora agì d’iniziativa, e senza curarsi del CLN e di Lampredi, requisì un autocarro con il quale con la sua scorta giunse a Dongo verso le 14. Nella località lariana incontrò Lampredi, che vi era giunto per altre vie, e Bellini delle Stelle, comandante della 52ª brigata. Valerio aveva fretta e tagliò corto alle obiezioni legalitarie dei partigiani di Dongo: si fece consegnare la lista dei fascisti arrestati ed appose a fianco di 15 di essi una crocetta, che significava pena di morte. Secondo la versione ufficiale, elaborata a posteriori dal Partito Comunista e fatta propria acriticamente dal CLNAI, il Colonnello Audisio partì poi con Lampredi e Moretti per Bonzanigo per prelevare, a casa De Maria, Mussolini e la Petacci, e fucilarli davanti ad un cancello di una villa di Giulino di Mezzegra, che aveva scelto come luogo ideale per l’esecuzione, mentre si recava all’incontro con il Duce. Vi sono altre due versioni della morte di Mussolini. La prima, sostenuta da Giorgio Pisanò afferma che Mussolini fu ucciso la mattina del 28 nella camera da letto di casa De Maria per essersi opposto ad un tentativo di stupro a danno di Claretta Petacci effettuato da due partigiani. Gli indizi addotti da Pisanò sono però poco convincenti.

7 Fabrizio Bernini, Così uccidemmo il Duce, CDL Edizioni, 1998, pag.62. 8 Rivelazioni di Massimo Caprara, segretario personale di Togliatti, a Stefano Lorenzetto. Il Giornale, 25 aprile 2004,

pag.15. 9 I. Montanelli, M. Cervi, L’Italia della guerra civile, Rizzoli ed., 1984, pag.329.

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Credito maggiore, soprattutto rispetto alla relazione ufficiale, può essere concessa alla versione di Fabrizio Bernini10 secondo la quale Audisio prelevò il Duce nella casa di Bonzanigo facendogli credere di essere venuto a liberarlo e lo uccise in un viottolo limitrofo all’abitazione, assieme alla Petacci che aveva cercato di frapporsi tra le armi che sparavano e Mussolini. I cadaveri furono poi trasferiti davanti al cancello di villa Belmonte ove sui corpi ormai esamini furono esplosi altri colpi di mitra. La scarica fatale che troncò la vita di Mussolini e della Petacci partì alle 16,10 del 28 aprile. Non si saprà mai il nome di colui che sparò la raffica mortale: lo stesso Valerio ha fornito più versioni, in molti punti tra loro contrastanti. La relazione ufficiale del partito comunista indica Valerio come colui che ha fatto fuoco, dopo aver letto la sentenza, usando il mitra di Moretti, dato che il suo si era inceppato e che anche la pistola di Lampredi non funzionava. Fosse stato o no l’uccisore di Mussolini, Valerio, lasciati sul posto i cadaveri custoditi da “Lino” e “Sandrino”, tornò a Dongo per eseguire le sentenze di morte contro 15 gerarchi fascisti custoditi nel municipio11. Nonostante l’opposizione di Pier Bellini delle Stelle e del sindaco di Dongo Giuseppe Rubini, appartenente al CLN, che si dimise per protesta, l’esecuzione ebbe luogo sulla piazza della cittadina, davanti alla folla. Valerio, che di sua iniziativa aveva ordinato l’esecuzione di Dongo, ebbe anche l’idea di esporre i cadaveri di Mussolini e dei suoi collaboratori a Milano, in Piazzale Loreto, ove un anno prima erano stati fucilati dai fascisti quindici partigiani per rappresaglia ad azione partigiana che aveva coinvolto civili. Caricò quindi i cadaveri di Pavolini e degli altri su di un autocarro, prelevò strada facendo anche quelli di Mussolini e della Petacci e li scaricò la notte del 29 aprile sotto i tralicci di un distributore di carburante in quella piazza di Milano. La mattina dopo i cadaveri furono esposti, con una macabra scenografia che poi fu considerata disgustosa dalla gran parte dell’opinione pubblica, nazionale e mondiale, aggiungendo ad essi le spoglie di altri quattro fascisti fucilati a Milano e quelle di Achille Starace, dimenticato segretario del PNF dell’anteguerra, passato

10 F. Bernini, Così uccidemmo il Duce, cit, pag.70. 11 Nel gruppo dei 15 vi erano almeno 5 personaggi che ben poco avevano a che fare con la politica fascista. Si trattava di Goffredo Coppola, rettore dell’Università di Bologna e Presidente dell’Istituto nazionale di cultura fascista, di Nicola Bombacci, comunista, amico d’infanzia del Duce, che era stato anche amico di Lenin, di Ernesto Daquanno, direttore dell’agenzia Stefani, di Pietro Calistri, un capitano dell’Aeronautica non si sa come finito nella colonna della Flack e di Marcello Petacci, fratello di Claretta.

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per le armi a Piazzale Loreto, in mezzo ad una folla isterica che si accaniva contro le spoglie del Duce e dei gerarchi.

3. La partecipazione della Guardia di Finanza all’insurrezione generale.

Nei primi mesi del 1945 i militari del Corpo stanziati in Lombardia collaboravano, ormai quasi alla luce del sole, con la Resistenza, nonostante fossero inseriti nell’organizzazione statale della Repubblica Sociale Italiana. All’indomani dell’armistizio dell’8 settembre 1943, mentre le Forze Armate si sbandavano, la Guardia di finanza rimaneva sul posto e continuava ad assolvere i compiti di istituto, in applicazione dell’art.56 della legge di guerra12 che prevedeva tale comportamento nell’interesse della popolazione civile, le cui esigenze di tutela erano da ritenersi prevalenti rispetto all’indiretta collaborazione che così veniva offerta al nemico13. Il Comando Generale del Corpo aveva emanato una circolare esplicativa14, che era stata anche approvata dal Capo del governo, gen. Badoglio, per effetto della quale i finanzieri avrebbero dovuto a qualsiasi costo rimanere nelle sedi di servizio e continuare a disimpegnare i loro compiti, soprattutto il concorso al mantenimento dell’ordine e della sicurezza pubblica, anche se per gli eventi bellici si fossero trovati in zone controllate dal nemico. La circolare ebbe un’importanza fondamentale nelle scelte che i finanzieri dovettero compiere all’indomani della proclamazione dell’armistizio e le disposizioni in essa contenute consentirono la sopravvivenza della Guardia di Finanza, che rimase integra, mentre le strutture civili e militari dello stato si dissolvevano. Istituita la Repubblica Sociale Italiana, tutti gli enti militari e civili ancora in funzione nell’Italia occupata dai tedeschi, e quindi anche la Guardia di Finanza, passarono alla dipendenza del nuovo governo fascista. La gran parte degli appartenenti al Corpo accettò a malincuore di rimanere ancora al servizio del nuovo regime fascista, ma rimase sul posto nello spirito della citata circolare 897 per salvaguardare, per quanto possibile, gli interessi della popolazione civile, anch’essa in gran parte contraria ai nazisti e dai loro alleati fascisti. Lo spirito di avversione agli occupanti si espresse con l’adesione, via via sempre crescente, alla Resistenza che si era resa interprete dell’aspirazione a conseguire gli ideali di libertà, di pace e di democrazia della grande maggioranza del popolo italiano.

12 R.D. 8 luglio 1938 nr.1415 13 Pierpaolo Meccariello, La G. di F. nella 2^ Guerra Mondiale, Museo storico della G. di F., Roma 1992, pag.365. 14 Circolare nr.897/RO, del 28 agosto 1943.

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Esponente di maggior rilievo di questi sentimenti dei finanzieri dell’Italia settentrionale fu il comandante della legione del Corpo di Milano, colonnello Alfredo Malgeri che si mise a disposizione del CLNAI, convincendo gran parte dei sui sottoposti ad appoggiare, anche in modo esplicito, i partigiani combattenti. Fu per questi motivi che il generale Cadorna, comandante del Corpo Volontari della Libertà (CVL) braccio armato del CLNAI, quando il 25 aprile 1945 ordinò l’insurrezione generale, ricorse al col. Malgeri ed ai suoi uomini per la liberazione di Milano, città simbolo e capitale della Resistenza, non avendo a disposizione altre forze, essendo le brigate partigiane ancora dislocate sulle prealpi, a due giorni di cammino dal capoluogo lombardo. Fu sempre il col. Malgeri, che il 27 aprile ricevette, attraverso i canali di comunicazione della Guardia di Finanza, la notizia della cattura di Mussolini e dei gerarchi fascisti a Dongo, ad opera della 52^ brigata partigiana. L’ufficiale ebbe anche l’incarico, dai membri comunisti del CLNAI, di provvedere al trasferimento a Milano dei prigionieri e contestualmente gli venne consigliato di far inscenare un finto tentativo di fuga di Mussolini, per avere l’occasione di trucidarlo. Egli però riuscì a sottrarsi all’incarico, eccependo che non aveva nessuna autorità sui reparti partigiani che avevano catturato il Duce, e che quindi non avrebbe potuto farsi consegnare il prigioniero.

4. Il ruolo dei finanzieri nella cattura e nella custodia di Mussolini e dei gerarchi fascisti.

E’ stato già illustrato come alle ore 6 del 27 aprile 1945 la colonna della Flack alla quale si era aggregato Mussolini ed il suo seguito fosse fermata nella località del “Puncett”, sulla tortuosa strada che lungo il lago di Como collega Musso con Dongo, da un posto di blocco della 52^ brigata partigiana Garibaldi, comandata da Pier Luigi Bellini delle Stelle “Pedro” e di cui era vice commissario “Bill”. Era quest’ultimo un finanziere passato alla Resistenza dopo aver militato nel IX battaglione mobilitato, stanziato in Slovenia che l’8 settembre 1943 riuscì a ritornare avventurosamente in Italia e poi fu assegnato alla compagnia della Guardia di finanza di Chiavenna. Il 5 maggio 1944 si rifugiò in Svizzera, essendosi rifiutato di giurare fedeltà alla R.S.I. e fu internato in un campo di lavoro elvetico, ma a settembre chiese di rientrare in Italia. Fu accompagnato da gendarmi svizzeri in prossimità del confine in corrispondenza della Valchiavenna, e dovette subito sfuggire ad un agguato della Milizia confinaria repubblicana che era stata preavvisata dalle autorità di confine elvetiche. Riuscì fortunosamente ad evitare di essere colpito dai fascisti che sparavano contro di lui ed a raggiungere i partigiani che operavano sul monte Berlinghera, sul versante occidentale del lago di Como. Accolto con diffidenza, dovette dimostrare sul campo, in un’ardita

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azione contro i fascisti a Sorico, il suo valore per entrare a pieno titolo nella Resistenza. Divenne l’elemento di punta della brigata partigiana, conquistandosi l’importante incarico di vice commissario politico, e partecipò, sempre con ruoli di prestigio a diversi combattimenti con i nazifascismi. Nelle giornate dell’insurrezione generale fu al comando del battaglione partigiano che catturò i presidi fascisti e tedeschi di Domaso, Gravedona e Dongo15. I fatti successivi sono descritti in una relazione custodita presso l’Archivio del Museo Storico del Corpo16. Il 27 mattina, appena giunta la notizia che il posto di blocco a poche centinaia di metri a sud di Dongo aveva bloccato una colonna di automezzi tedeschi, mentre il comandante della brigata “Pedro” conduceva le trattative con il comandante germanico che si concluderanno dieci ore dopo con il via libera per i soli militari della Flack, organizzò a difesa l’abitato di Dongo e fece minare il ponte immediatamente prima del paese, per rendere impossibile un’azione di forza intesa a sfondare il posto di sbarramento dei partigiani. Nel frattempo i tedeschi avevano ottenuto il libero transito, a condizione di non trasportare con sé nessun italiano. Al finanziere Lazzaro fu affidato il compito di controllare gli automezzi della colonna che, ad uno ad uno, furono costretti a sfilare tra i partigiani e ad arrestarsi sulla piazza di Dongo per l’ispezione. La descrizione dettagliata del controllo degli automezzi è del Maresciallo Capo Francesco Di Paola, comandante della brigata della Guardia di Finanza di Dongo. Nelle giornate dell’insurrezione generale il Di Paola prestava servizio per il mantenimento dell’ordine pubblico, alle dipendenze della 52^ brigata partigiana, ed il 27 aprile si incaricò della materiale ricognizione degli automezzi tedeschi in transito, sotto la supervisione del vicecommissario Bill. Egli si accinse al controllo, aiutato dai partigiani, alle ore 14. La relazione così procede17: “Io iniziai la visita per mio conto senza mai stancarmi di raccomandare ai patrioti che mi erano vicino di eseguire le visite minuziosamente, guardando bene tra le valigie e cassette di cui erano cariche le macchine. Nonostante però le raccomandazioni ognuno agiva per proprio conto e non si vide altro che una grande confusione specialmente quando furono trovati i primi italiani vestiti da tedeschi (come il ministro Romano, Coppola ecc.). Tutti gli armati e borghesi scendevano e salivano sui camion ma senza risultati positivi appunto perché le

15 U. Lazzaro, Il compagno Bill, cit., pagg. 1-106. 16 ASMSGF fasc. 675, busta 2, doc. 271. 17 ASMSGF fasc. 675, busta 2, doc. 265.

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visite venivano fatte superficialmente. Visto tale confusione iniziai per mio conto un servizio di osservazione per studiare le mosse dei tedeschi che occupavano gli autocarri. Giunto presso un autocarro già visitato parecchie volte notai che l’atteggiamento dei militari tedeschi che vi erano a bordo era sospetto fino al punto di farmi pensare con certezza che su quel automezzo si trovava qualche gerarca nascosto. Allora subito ordinai al partigiano Negri Giuseppe da Dongo di salire su quel autocarro ed eseguire una minuziosa perquisizione indicandogli anche di guardare bene sotto i materiali che si trovavano dietro il posto di guida perché vi era qualche cosa che assomigliava alla figura di un uomo. Il Negri obbedì e salito sul camion iniziava la perquisizione mentre io sorvegliavo sempre le mosse dei soldati tedeschi. Quando il Negri si avvicinò al punto dove io precedentemente gli avevo indicato ed alzate le coperte, mi accorsi che i militari suddetti dichiararono qualche cosa al Negri, ma non mi fu possibile capire le vere parole che poi seppi che gli avevano dichiarato che ivi era un loro camerata ubriaco. Il Negri non si convinse delle dichiarazioni dei militari tedeschi e alzata la coperta vide Mussolini. Fingeva di nulla e continuava la perquisizione fino a guardare bene tutto il camion. Terminata la perquisizione scese ed io subito gli chiesi il risultato della visita da me ordinata, ma il Negri era talmente confuso fino al punto di rispondermi balbettando qualche parola e precisamente “c’è su il bello”. Intanto io ancora insistentemente gli chiedevo che cosa aveva visto, insieme ci portammo verso la piazza. In quel momento appariva Bill – Lazzaro Urbano – ex Guardia di Finanza, al quale il Negri si fece incontro gridando “Bill su quel camion c’è Mussolini”. Io, Bill e alcuni uomini ci precipitammo verso il camion. Bill salì sull’automezzo e scorto Mussolini lo invitò a scendere. Mussolini lo seguì e si portò verso la parte posteriore del camion per scendere. I soldati tedeschi rimasero fermi al loro posto, mentre Mussolini li guardava e quasi con lo sguardo li invitava a reagire, come poi si è saputo che Mussolini era convinto che alla sua scoperta i militari tedeschi dovevano fare uso delle armi. Mussolini fu accompagnato presso il comando della 52^ Brigata Garibaldi che si trovava in un locale del Municipio di Dongo. Dopo Mussolini furono catturati tutti gli altri ministri al suo seguito e accompagnati pure al Comando della 52^ Brigata”. In seguito Bill, mentre stava accingendosi a riprendere le ispezioni agli autocarri tedeschi, dopo aver accompagnato il Duce in municipio, su indicazione di un partigiano, individuava Marcello Petacci, che con la compagna Rita Ricossa, i due figlioletti e la sorella Claretta, cercava di oltrepassare in autovettura il posto di blocco, spacciandosi per il console spagnolo di Milano. Il finanziere, però, scorrendo i documenti presentati, si accorse che erano falsi e pertanto fece rinchiudere tutti nel municipio, ove vennero anche collocati i numerosi bagagli al seguito. La circostanza avrà in seguito notevole importanza perché Claretta Petacci portava con sé valori e documenti di Mussolini, che confluiranno nella misteriosa vicenda

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del cosiddetto “oro di Dongo”, nella quale sia il finanziere Lazzaro sia il brigadiere Antonio Scappin, avranno parte non secondaria. Ritornato un’altra volta in Municipio, “Bill” esaminò i documenti ed i valori contenuti nelle due borse, l’una sequestrata al Duce, e l’altra rinvenuta sull’autoblinda dei fascisti bloccata prima di Dongo, dopo che era sfilata l’intera autocolonna tedesca. Subito dopo Bill si premurò di portare il bagaglio con i documenti ed i valori a Domaso, li depositò presso la filiale della Cariplo, e proseguì il viaggio fino a “Ponte del passo” sul fiume Mera, allo sbocco nel lago di Como. Qui trovò la colonna della Flack nuovamente bloccata dai partigiani della zona, agli ordini del brig. Antonio Scappin, comandante della brigata di Gera Lario, i cui uomini da tempo avevano aderito alla Resistenza18. Il Lazzaro colà rivide anche il Ten.Col. Fallmeyer irritato per il contrattempo, ma il finanziere, lungi dal farsi intimidire, rilanciò, pretendendo il completo disarmo dei tedeschi, perché con il tentativo di portare con sé Mussolini ed altri gerarchi, era venuto meno ai patti stipulati con Pedro. Dopo trattative che coinvolsero anche il comando della divisione partigiana di Morbegno, i tedeschi si arresero, consegnarono le armi ed in contropartita ebbero il via libera per raggiungere il confine svizzero a Villa di Chiavenna. La relazione del brig. Scappin19 è la più completa sui fatti del 27 e 28 aprile 1945, ma riporta, oltre agli avvenimenti di cui il sottufficiale è stato testimone diretto, anche particolari appresi da altri. Scappin alle ore 17,30 del 28 si trovava nella sala del municipio di Dongo, ove erano detenuti Mussolini ed i gerarchi catturati. Bill, scortolo, gli ordinò di partire subito per l’estremo alto lago per adottare le misure di sicurezza lungo il tragitto che la colonna tedesca doveva percorrere. Giunto a Gera Lario si mise in collegamento, attraverso i telefoni della centrale elettrica Comacina con la legione della Guardia di Finanza di Milano e diede la notizia dell’arresto del Duce20 e del suo seguito a Dongo21.

18 Della brigata di Gera Lario faceva parte il brig. Benedetto Nanula, padre di Gaetano, futuro Comandante in Seconda della G. di F., che in quegli anni risiedeva con la famiglia nella località lariana. 19 ASMSGF, fasc. 675, busta 2, doc. 273. 20 Lo Scappin nella sua relazione quando cita il Duce usa burocratica deferenza chiamandolo “il sig. Mussolini”. 21 La circostanza è confermata dal Col. Malgeri che nel suo volume “L’occupazione di Milano e la liberazione” così si esprime: “La prima notizia della cattura di Mussolini mi perviene a Milano nel tardo pomeriggio del 27 aprile, mentre sono a conferire con il neo commissario per la provincia, Riccardo Lombardi. E’ una notizia imprecisa, vaga, comunicatami da un finanziere, venuto appositamente, non so da dove.” (op. cit., pag.142).

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Due ore dopo veniva nuovamente chiamato al telefono, per ricevere l’ordine da parte del CLNAI di “vigilare Mussolini, senza fargli del male, anzi di usargli un trattamento buono e (testualmente - n.d.a.) piuttosto che fargli del male lasciarlo andare”. Il brigadiere rimase perplesso, ma si premurò di inviare un messaggio scritto in tal senso a mezzo staffetta al comandante della 52^ brigata a Dongo22. I destinatari della comunicazione, Bill e Pedro, furono sconcertati dall’ordine ricevuto, ma decisero di non tenere conto della seconda parte della comunicazione. Probabilmente si trattava di un messaggio in codice, stravolto durante la trasmissione, che ribadiva il primo intendimento di alcuni membri del CLNAI di inscenare l’uccisione di Mussolini durante un finto tentativo di fuga, come era stato proposto a Malgeri la stessa sera del 27 aprile. A Dongo, intanto, la popolazione dei paesi vicini stava affluendo nella piazza della cittadina per vedere il Duce prigioniero. Anche nel Municipio la situazione si faceva insostenibile per l’incessante andirivieni di partigiani e curiosi. Per di più correvano voci incontrollate sul possibile arrivo di forti colonne di fascisti armati, intenzionati ad un’azione di forza per liberare Mussolini. Il brig. Giorgio Buffelli, della brigata di Dongo, che aveva partecipato a tutte le fasi dell’operazione, dalla costituzione del posto di blocco al “Puncett”, alla cattura e custodia del Duce, propose allora a Pedro di trasportare il prigioniero nella caserma della brigata di Germasino, sulle montagne di Dongo, che si trovava ai margini del paese, in una posizione ben difendibile. Il comandante della 52^ accettò di buon grado e fu subito organizzato il trasporto del detenuto, a cui fu messo accanto il federale di Como Paolo Porta. A Germasino i due furono posti sotto la custodia del comandante della brigata del Corpo, brig. Antonio Spadea23, il quale provvide all’alloggiamento ed alla cena dei prigionieri e dei giovani partigiani incaricati della difesa della caserma.

5. Il memoriale Buffelli. Dal momento della sua cattura, alle ore 15 e fino verso le ore 23,30 quando gli venne concesso di coricarsi, Mussolini fu guardato a vista dal brigadiere Buffelli, che prese l’iniziativa, anche, di intavolare una discussione con il prigioniero sui temi della guerra e del fascismo. Buffelli ha lasciato una relazione ufficiale24 redatta in data 15 giugno 1945, quindi nell’immediatezza degli eventi di cui fu attore e testimone, un’altra relazione

22 La circostanza è confermata da Bill, nel suo volume “Il compagno Bill”, cit., pag. 143. 23 ASMSGF fasc. 675, busta 2, doc. 274.

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ufficiale, a distanza di un anno, il 10 febbraio 194625 ed infine un memoriale nell’aprile 199326. Il racconto dei fatti nei tre documenti non differisce che per alcuni particolari, peraltro di scarsa importanza, e quindi assume notevole valore storico. La parte più interessante, che segue la narrazione degli avvenimenti sul posto di blocco del “Puncatt”, la cattura dei fascisti a Dongo e la loro prima detenzione nel Municipio, è il resoconto dei suoi colloqui con Mussolini sull’autovettura che lo trasportava a Germasino e nella caserma della Guardia di Finanza, dai quali è possibile desumere le linee dell’autodifesa che Mussolini preparava in vista del processo al quale riteneva sarebbe stato sottoposto. Il primo scambio di battute tra i due ebbe luogo mentre il Duce veniva invitato a scendere dall’autocarro tedesco sul quale cercava di sfuggire al controllo dei partigiani. Buffelli era nei pressi e si premurò di stendere la mano per aiutarlo a saltare a terra assicurandolo nel contempo che nessuno gli avrebbe fatto del male. Egli lo guardò e rispose: “No, non ho paura, lo so che non mi faranno del male.” Com’è noto, alcune ore dopo, Buffelli consigliò al comandante della 52^ brigata di sottrarre il prigioniero alla curiosità della folla che affluiva nella piazza di Dongo e di trasportarlo nella caserma della Guardia di Finanza di Germasino, che meglio si prestava alla difesa da eventuali ritorni in forza dei fascisti. Prima di salire sulla macchina che doveva provvedere al trasporto, Mussolini fu scosso da violenti brividi di freddo per cui gli fu offerto un pastrano militare tedesco, ma egli rifiutò sbottando: “Ne ho abbastanza di questi tedeschi. Non voglio più vedere la loro divisa.” Durante la salita verso Germasino, Buffelli era seduto sugli strapuntini posteriori della prima autovettura, tra Mussolini ed il federale di Como Paolo Porta. Per rompere il silenzio che era calato, il brigadiere provocò il Duce con la battuta: “Questa è la seconda volta che vi fanno prigioniero”, ottenendo in risposta: “Caro ragazzo, altare polvere, polvere altare.” Seguì una conversazione sui luoghi che stavano attraversando e sulla meta del viaggio. Giunti a Germasino, i due prigionieri vennero sistemati nell’ufficio del comandante della brigata della Guardia di Finanza. Mentre Pier Luigi Bellini delle Stelle stava per ripartire per Dongo, Mussolini, con fare imbarazzato, lo pregò di portare i suoi saluti “ad una persona che è stata

24 ASMSGF fasc. 675, busta 2, doc. 271. 25 ASMSGF fasc. 675, busta 2, doc. 272. 26 ASMSGF Fondo UGA – 2/20 – 1° - fasc. 7.

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anch’essa fermata a Dongo”. Pedro ne chiese il nome, ma in un primo tempo il Duce non volle rispondere. Si convinse, poi, a sussurrare il nome della Petacci. Rimasto solo con Porta e Buffelli, il prigioniero, che passeggiava incessantemente per la stanza nell’intento di riscaldarsi (fuori pioveva a dirotto e faceva freddo) si dimostrò incline a conversare. Iniziò col chiedere notizie sul luogo in cui si trovavano. Buffelli di buon grado rispose. Rotto il ghiaccio iniziarono una conversazione prima su temi di poca importanza e poi, dopo che il sottufficiale ebbe preso una certa confidenza, sul motivo per cui era stato arrestato dai partigiani. Buffelli ritenne di rispondergli che non era stato arrestato, ma fermato “perché era un italiano e noi non intendiamo più che gli italiani vadano in Germania a farsi scannare per i tedeschi”. Mussolini si arrestò di scatto, fissò l’interlocutore con il suo sguardo magnetico e sbottò: “d’altronde di che cosa mi si può incolpare?”All’obiezione che a lui andavano addebitate tutte le rovine della guerra, rispose che “il popolo ha voluto la guerra, il Re l’ha firmata” e che comunque lui era contrario. “Se tu ben ricordi”, soggiunse, “nel giugno 1940 tutti gli italiano volevano la guerra ed a me fu detto tante volte: cosa aspetti ad entrare? Non vedi che il momento è buono? Vuoi entrare per ultimo e far la parte dell’avvoltoio?” Buffelli lo contraddisse ricordandogli che la parte dell’avvoltoio era stata fatta con la Francia e che comunque allearsi con Hitler era stato un errore. “Hitler non deve dimenticare” gli rispose “che ogni forza umana ha un limite, al di là del quale la natura si ribella e deve tener presente che un proverbio tedesco dice: nessuna pianta sale in cielo”. Cambiando discorso disse: “Ora che la guerra è finita che cosa faranno ai fascisti?” Il sottufficiale disse che non lo poteva sapere, ma che comunque ciascuno avrebbe risposto delle sue azioni. In ogni caso gli appartenenti alle brigate nere se la sarebbero vista brutta, a causa delle efferatezze di cui erano stati protagonisti. “Eppure gli ordini che ricevevano non erano quelli” rispose lui. In quel momento il federale Porta, che usciva spesso dalla stanza per fumare senza infastidire il Duce, rientrò e si intromise nella conversazione confermando che gli ordini impartiti non prevedevano soprusi e rappresaglie. Prima di uscire dalla stanza per rendersi conto di ciò che avveniva all’esterno, Buffelli disse ai prigionieri: “ In Italia una cosa si doveva lasciare libera: la libertà di stampa e di parola; se voi aveste preso un gran sacco in cui mettere tutti i nomi degli italiani, e fra questi naturalmente anche il mio ed ogni tanto ne aveste pescato uno per sentire un po’ cosa si diceva e se questo uno fosse stato il mio, vi avrei detto io cosa c’era di nuovo, specie poi in merito alla porcheria che ho avuto modo di vedere in Albania al principio della guerra.”

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Rientrato al termine di un giro di ispezione, Buffelli ebbe la soddisfazione di sapere da Porta che in sua assenza si era parlato della sua ingenua e semplicistica ricetta per far conoscere ai vertici ciò che realmente pensava la popolazione. Ripresa la conversazione sui temi politici, Mussolini, su sollecitazione del suo interlocutore ammise che Roosvelt era un grande statista, a differenza di Hitler che giudicava il presidente degli Stati Uniti “un grande criminale”. Richiesto un giudizio su Stalin e la Russia affermò di aver “sorvolato la Russia per giorni senza vederne i confini. Un paese grande, immenso, che non finisce mai, composto di un agglomerato di razze. Per essere capaci di governarlo occorre essere dei grandi uomini.” Rifiutò di parlare degli avvenimenti del 25 luglio e dell’8 settembre 1943. Alla richiesta di chiarimenti sulle sue affermazioni nel discorso al teatro Lirico di Milano nel dicembre 1944 circa l’effetto determinante sulla fine della guerra delle nuove armi di Hitler, rispose: “Si tratta delle telearmi. esse saranno delle armi potentissime tra una trentina d’anni, oggi non c’è più nulla da fare”. Buffelli allora gli contestò di aver illuso gli italiani quando era chiaro che la guerra era persa ed egli rispose: “quando ti avrò detto che mancava solo che uno delle SS dormisse con me, perché il servizio fosse completo, tu avrai capito in quale situazione mi trovavo.” Buffelli allora, accortosi che il Duce non amava rievocare questi avvenimenti, gli chiese di narrargli le vicende della sua liberazione da Campo Imperatore. “Quando fui liberato dal Gran Sasso”, gli rispose, “fui portato in Germania, da Hitler. Dopo qualche tempo, quando mi rimisi in salute, Hitler mi dice: ed ora che intendi fare? Intendo darmi alla politica, rispondo, ma di quello che è cosa militare non mi sento più. Hitler diviene furioso e mi dice: sta bene, ricorda che questa è una guerra di partito, qui c’è di mezzo il nazionalsocialismo ed il fascismo. Ad ogni modo sappi che io per il nemico ho del piombo e per i traditori del gas! Ed egli intendeva gasare tutta l’Italia”. Alla domanda se la Germania avrebbe potuto ancora risorgere rispose: “ Ma potrebbero aver interesse a fare una Germania forte, scatenando un’altra guerra.” Cambiando ancora discorso, chiese a Buffelli: “ Secondo te cosa mi faranno adesso?” egli rispose che non lo sapeva, comunque secondo lui non gli avrebbero fatto del male, ma gli avrebbero chiesto delle spiegazioni. “Ad ogni modo”, aggiunse, “al tribunale avrò molte cose da dire e dimostrerò che in questi diciotto mesi io ho salvato l’Italia da sciagure peggiori”. Dopo che gli era stata servita una frugale cena, il colloquio tra i due riprese sul tema della cattura a Dongo. “Avete giocato una bella carta fermandoci”, riprese, “i

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tedeschi avevano l’ordine di far uso immediatamente delle armi”.Alla richiesta di quale era la meta della colonna dei fascisti rispose: “Ieri sera al comandante delle SS a Cernobbio feci presente la difficoltà di passare lungo la sponda del lago controllata dai partigiani, ma egli mi disse: ti debbo condurre in Germania ad ogni costo, pena la testa. La nostra meta era la Germania, via Stelvio, come prima tappa Merano. Anzi, il comandante delle SS mi disse: non è il caso di aver paura, l’altro giorno è passato per la stessa strada il mio capitano ed è arrivato a Merano. In tutti i casi con i miei 150 (e qui disse un nome che ora non ricordo e che voleva significare uomini della morte) tu arriverai dappertutto. Scossi il capo”, continuò, “e feci notare che per arrivare in Germania via Stelvio bisognava passare posti controllati dai partigiani.” Mentre Mussolini continuava a passeggiare Buffelli ebbe un’idea: quando il Duce gli passò accanto prese una penna e mezzo foglio protocollo e gli chiese di scrivere due righe autografe. Egli si inalberò e sbottò: “Che è questo, un verbale di interrogatorio?” Il sottufficiale allora lo rassicurò spiegandogli che si trattava di una dichiarazione che attestasse che era stata la 52^ brigata a fermarlo, affinché in un futuro non sorgessero controversie sulla circostanza. Rabbonito, anche perché al Duce dispiaceva non accontentare il sottufficiale, prese la penna e chiese cosa doveva scrivere. Sotto dettatura vergò con la sua calligrafia: “La 52^ brigata Garibaldina mi ha catturato oggi 27 aprile nella piazza di Dongo”27. Aggiunse poi, a richiesta del Buffelli “Il trattamento usatomi durante e dopo la cattura è stato corretto” Indi lo firmò e lo consegnò all’interlocutore che se lo mise in tasca.

27 L’originale del biglietto è custodito presso l’Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia, Milano. Il Museo Storico della Guardia di Finanza ne espone una copia e custodisce la trattazione relativa alla consegna dello scritto al CLNAI. (ASMSGF, fondo UGA – busta 2/20 – I – fasc. 7) Subito dopo la guerra iniziò a circolare uno scritto autografo di Mussolini, datato “Germasino 28 aprile 1943 notte”, pubblicato più volte e da ultimo a cura del Comitato R.S.I. sotto il titolo “Benito Mussolini, Testamento Spirituale con uno studio di Dario Susmel”, Arti Grafiche Barbieri, via S. Rocco, 6, Milano. Lo scritto è da considerare apocrifo, perché a Germasino Mussolini non ebbe mai il tempo di appartarsi per redigere le sue “ultime volontà”. Egli fu sempre a diretto contatto con Buffelli ed altri militari della brigata di Germasino, che avrebbero senz’altro reso testimonianza sulla compilazione di un così importante documento. D’altra parte a Mussolini erano stati tolti tutti gli oggetti personali, compresa la penna stilografica, e quindi per scrivere aveva necessità di dipendere sia per la carta sia per la penna dai suoi custodi. Il Duce, peraltro, avrebbe potuto scrivere l’atto nella casa De Maria, prima di coricarsi, ritenendo erroneamente di essere ancora a Germasino, ma anche questa possibilità è oltremodo improbabile, perché avrebbe dovuto richiedere il materiale da scrittura ai De Maria od ai partigiani di custodia, che invece mai hanno fatto cenno a questo importante particolare. Anche le circostanze nelle quali è emerso il preteso “testamento” sono molto sospette: il testo fu reso noto per la prima volta da “Il Pubblico”, settimanale di Roma, nel 1945. Secondo il giornale tre partigiani, dopo la fucilazione del Duce, mentre trasportavano a Como con un’autovettura i valori personali del dittatore, litigarono tra loro e uno di essi venne ucciso. Il cadavere, sepolto nei pressi del lago, fu più tardi riesumato e nelle tasche della giacca venne trovato il testamento vergato da Mussolini. L’originale del documento era poi passato per varie mani, fino a giungere al Presidente del Consiglio, on. Alcide De Gasperi. Comunque, nessuno è mai riuscito a fornire la minima prova della veridicità di questi fantasiosi racconti. In conclusione si può affermare che effettivamente la dichiarazione di Mussolini al brig. Buffelli è l’ultimo documento scritto del Duce. La documentazione che ne prova l’autenticità è custodita in ASMSGF, Fondo UGA – busta 2/20 – I – fasc.7.

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Nel seguito della conversazione Mussolini ebbe modo di chiarire che le trattative per la capitolazione dei fascisti all’arcivescovado di Milano, il 25 aprile, erano fallite perché si pretendeva da lui la resa senza condizioni; affermò poi che il giorno prima (26 aprile) gli era stato detto che aveva tre ore per passare in Svizzera, ma che aveva rifiutato. Chiese poi notizie sul ferimento di Pavolini prima della cattura: Buffelli gli rispose: “Certo se si fosse arreso di buon grado, anche a lui come agli altri, non sarebbe successo nulla. Il fatto che era comandante delle brigate nere per noi non ha importanza, quando uno è arrestato è protetto dalla legge e nessuno gli può torcere un capello”. Il Duce allora osservò “ Eh… le guardie di finanza hanno un’altra disciplina ed un’altra educazione”. Il discorso cadde poi sulle feroci rappresaglie dei tedeschi sui civili italiani. Mussolini, sempre passeggiando, come se parlasse a se stesso, così rifletteva: “Coi sistemi di forza non si governeranno mai i popoli … … e pensare … .. quante volte mi sono recato da Garehn (recte Rahn – n.d.a.28), quante volte ho chiamato presso di me l’ambasciatore tedesco, dicendogli che se non la smettevano con i sistemi delle rappresaglie mi sarei ritirato per non portare il peso della responsabilità. Le rappresaglie fanno lo stesso effetto di una macchia d’olio messa su una tovaglia … . si stende e si allarga senza beneficio alcuno… ” A questo punto sembrò che volesse aggiungere altro, ma tacque e passò a parlare di argomenti meno importanti. Intanto si erano fatte le 23,30 e a quell’ora Mussolini chiese di coricarsi. Fu accontentato e gli fu preparato un letto, con rete metallica, due materassi, lenzuola e diverse coperte nella cella di sicurezza della caserma. Buffelli, prima di lasciarlo ebbe un gesto di grande gentilezza, procurandogli una coperta fuori uso per scendiletto, che fu molto apprezzato dal prigioniero. Le vicende successive sono note: poco dopo mezzanotte salì a Germasino Pedro con Pietro Gatti e prelevò Mussolini per portarlo, attraverso un tragitto tortuoso a Bonzanigo, a casa De Maria. Buffelli ebbe ancora un ruolo negli accadimenti del giorno dopo, perché comandava il posto di blocco al “Puncett” che era rimasto presidiato per prevenire tentativi ulteriori dei nazifascismi. Qui, verso le 14 del 28 fu bloccato il colonnello Valerio con la sua scorta, in arrivo da Milano per fucilare Mussolini ed i suoi gerarchi. Il brigadiere lo accompagnò sulla piazza di Dongo, ove il colonnello con fare sgarbato gli ordinò di chiamare il comandante della 52^ brigata. Buffelli risentito rifiutò di ottemperare, e Valerio si adirò e cercò di imporgli il silenzio facendo valere il suo grado militare.

28 Rudolph Rahn, plenipotenziario tedesco presso la RSI, di fatto il proconsole di Hitler in Italia.

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Il sottufficiale gli tenne testa ribattendo che egli riconosceva come superiori solo quelli della piazza di Dongo. Richiamato dal trambusto uscì dal municipio Bellini delle Stelle, che pose termine alla disputa prendendo contatto diretto con il nuovo venuto. Il memoriale Buffelli si conclude con la descrizione della fucilazione dei gerarchi fascisti nella piazza di Dongo, di cui fu testimone e della sua attività nei giorni seguenti che consistette nella raccolta e nella consegna dei militari tedeschi prigionieri agli alleati.

6. L’arresto dei gerarchi che intendevano espatriare attraverso il valico ad Oria. Della colonna di Mussolini e dei gerarchi fascisti che avevano raggiunto Menaggio la mattina del 26 aprile facevano parte il ministro delle Corporazioni Angelo Tarchi e l’ex ministro degli Interni, vero uomo forte del regime, Guido Buffarini Guidi. I due subito compresero che rimanere al seguito del Duce era un’opzione senza futuro per cui decisero nel primo pomeriggio di tentare il passaggio in Svizzera. Con due autovetture e quattro agenti di pubblica sicurezza di scorta, si avviarono poco dopo le ore 14 sulla strada che da Menaggio conduce a Porlezza con l’intento di proseguire verso il valico confinario di Oria Valsolda e quindi, attraversata la frontiera, raggiungere Lugano. Mussolini, avvertito della fuga, con fare deluso, ordinò di non ostacolare i due. Tarchi, nel dopoguerra tenterà di sostenere la tesi che era stato inviato proprio da Mussolini su quell’itinerario, per verificare se il passaggio era libero dai partigiani, ma la sua versione verrà smentita dai superstiti del seguito del Duce. A Porlezza, nella mattinata del 26 aprile, la Guardia di finanza, che era compattamente agli ordini del CLN locale, unitamente a numerosi partigiani aveva occupato la cittadina ottenendo la resa della compagnia della Guardia repubblicana confinaria, compresi i distaccamenti di Buggiolo, Corrido e Gressogno29. Contemporaneamente, partigiani e finanzieri al comando del maresciallo capo Francesco Suraci costringevano alla resa, dopo violenta azione di fuoco, il forte presidio tedesco del valico di confine di Oria30. Nell’ambito delle azioni per assumere pienamente il controllo del territorio, il comandante della Tenenza di Porlezza tenente Amerindo Ferrara disponeva numerosi posti di blocco sulle strade attorno alla località. Uno di questi doveva essere collocato a S. Pietro, località sulla statale che da Menaggio adduce al lago di Lugano ed essere presidiato da finanzieri e partigiani.

29 ASMSGF, fasc. 675, busta 2, doc. 186. 30 ASMSGF, fasc. 675, busta 2, doc. 223 e 224.

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Mentre i patrioti affluivano sul luogo prescelto, il finanziere Rino Dei Cas, si spinse in avanti con la bicicletta, per poter segnalare in anticipo l’arrivo di forze ostili. Si era appena fermato, qualche centinaio di metri avanti l’ostruzione stradale, quando verso le ore 15 del 26 aprile vide sopraggiungere due autovetture, dalle quali peraltro fuoriuscivano i mitra degli occupanti. Audacemente, il finanziere si poneva in mezzo alla strada, fermava le autovetture e facendo credere agli autisti che lungo i bordi della strada erano appostati numerosi partigiani pronti a far fuoco, le costringeva a procedere a passo d’uomo, da lui scortate, fino alla località dove nel frattempo era stato allestito il posto di blocco. Si trattava delle due autovetture con le quali i ministri Tarchi e Buffarini Guidi, con quattro agenti di scorta, cercavano di guadagnare la Svizzera. Tutti furono poi condotti nella caserma del Corpo, ove fu anche redatto un inventario degli ingenti valori che i due portavano con se, e fu steso anche un accurato verbale di fermo e sequestro31. Tre giorni dopo i due ministri assieme ai numerosissimi militari delle formazioni fasciste, catturati e custoditi dalla Guardia di Finanza, furono consegnati ad emissari delle forze armate alleate. Com’è noto, Angelo Tarchi riuscì a scampare in circostanze rocambolesche all’esecuzione e tentò senza successo di rientrare nella vita politica nazionale negli anni della ricostruzione, mentre Buffarini Guidi, dopo essere stato processato dalla Corte di Assise straordinaria di Milano, fu fucilato il 10 luglio 1945 mentre si trovava in stato di incoscienza per aver ingerito poco prima numerose pastiglie di barbiturici.

7. L’oro di Dongo. Tornata la tranquillità dopo le tragiche giornate del 27 e 28 aprile 1945, la cittadina lariana fu al centro di un affaire politico, finanziario e criminale, passato alla storia con la denominazione di “oro di Dongo”. Si trattava di denaro e di un’ingente quantitativo di oro a disposizione del governo della RSI che veniva portato al seguito della colonna di fascisti fuggiaschi fermata a Musso - con destinazione Valtellina - ma anche di valori personali, oro e gioielli in possesso delle varie personalità, ed anche di ufficiali tedeschi aggregatisi alla colonna della Flack. Una parte del denaro e dei preziosi fu sequestrata a Mussolini ed ai gerarchi all’atto della cattura, ma molti valori furono saccheggiati dai partigiani e dalla

31 ASMSGF, fasc. 675, busta 2, doc. 191.

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popolazione di Musso mentre le autovetture sostavano sulla strada per Dongo. Altre valige cariche di oro, valuta e gioielli furono nascoste sugli autocarri dei tedeschi che avevano avuto il via libera, ma furono in parte razziate, in parte gettate nelle acque del lago quando l’autocolonna fu nuovamente fermata per un controllo al ponte del Passo sul fiume Mera, alla testata del lago di Como, ed in parte scoperte dalla polizia di frontiera svizzera di Ville di Chiavenna e restituite ai partigiani allorquando i tedeschi riuscirono a riparare nella Confederazione elvetica. Non si saprà mai il valore complessivo dei beni caduti nelle mani dei partigiani e dispersi in molti rivoli in quelle ore fatali. Per iniziativa di “Pedro”, ”Bill”, “Moretti” e “Neri” fu steso un inventario delle cose sequestrate a Dongo32 e fu operata una ricerca ed un recupero, con metodi piuttosto spicci, che consentì il rientro di una parte delle cose razziate. Tutti i valori sequestrati furono poi portati alla sede del partito comunista di Como e da allora non se ne seppe più nulla. Secondo recenti rivelazioni di Massimo Caprara, segretario personale di Togliatti, segretario del P.C.I. all’epoca33, Dante Gorreri, segretario della federazione di Como, consegnò il tesoro all’avvocato Renato Cigarini di Milano che provvide a depositarlo nelle banche elvetiche e poi ad utilizzarlo mensilmente per le esigenze organizzative del partito. L’intera questione si tinse ulteriormente di giallo in quanto “Neri” (Canali Luigi) e la sua amante “Gianna” (Tuissi Giuseppina) ed altre sei persone furono eliminate in tempi diversi perché avevano minacciato di rivelare la destinazione finale del tesoro. Purtroppo, con l’oro scomparvero preziosi documenti tra cui quelli portati personalmente da Mussolini, che ancora oggi si cercano. Sulla vicenda dell’oro fu imbastito un procedimento penale che tra rinvii, annullamenti e trasferimenti per legittima suspicione approdò alla Corte di assise di Padova solo nel 1957 e dodici anni di distanza dai fatti, che fu sospeso dopo alcuni mesi per la morte di un giurato, rinviato a nuovo ruolo, ma mai ripreso perché provvidenziali amnistie consentirono di chiudere il caso senza una sentenza definitiva. L’istruttoria dibattimentale aveva consentito di appurare che il tesoro di Dongo ammontava a nove miliardi di lire del 1957, pari a circa 200 miliardi del 2001 e quindi a 100 milioni di euro e che la parte maggiore dei valori era affluita probabilmente al partito comunista (che ha sempre negato di essersene

32 L’inventario in seguito fu fatto sparire e di esso non si trovò più traccia. 33 Stefano Lorenzetto, Il Giornale, 25 aprile 2004, pag.15. Secondo Caprara, il tesoro ammontava a un miliardo di lire dell’epoca, 150 mila franchi svizzeri, 16 milioni di franchi francesi, 66 mila dollari, 2 mila sterline, 10 mila pesetas, 100 chili di oro, 40 chili di argenteria, 4 mila monete d’oro, anelli con brillanti e l’orologio Rolex d’oro di Marcello Petacci.

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appropriato) mentre una percentuale inferiore risultava razziata e mai più recuperata34. Anche in questa vicenda ebbero un ruolo il finanziere Lazzano ed il brigadiere Scappin. Seduto accanto a Mussolini nella sala al pianterreno del municipio di Dongo, Bill aveva esaminato il contenuto della borsa che il Duce portava con sé: si trattava di documenti che concernevano la questione di Trieste, altri si riferivano alle possibili vie di fuga del governo della R.S.I. in Svizzera ed all’attività partigiana nelle zone di confine. Altri documenti e lettere riguardavano la corrispondenza Mussolini – Hitler, il processo di Verona contro i protagonisti della seduta del Gran Consiglio del fascismo del 20 luglio, nonché le domande di grazia, inevase, dei condannati a morte. Nella borsa infine si trovava un fascicolo che raccoglieva una serie di maldicenze sul conto di Umberto di Savoia ed infine 160 sterline d’oro e 10 assegni bancari per un totale di un milione e settecentomila lire35. La borsa fu depositata dal Lazzaro presso la filiale della Cassa di Risparmio delle Province Lombarde di Domaso insieme ad altro bagaglio contenente assegni, denaro e valori sequestrato ad un partigiano che li aveva sottratto dall’autoblinda al posto di blocco e nel quale erano stati immessi documenti, denaro e oggetti di valore presi ai gerarchi arrestati a Dongo. Il Lazzaro ebbe tra le mani un’altra borsa contenete importanti documenti: quando Marcello Petacci stava per essere fucilato dai partigiani agli ordini di Bill, perché il col. Valerio lo credeva Vittorio Mussolini, figlio del Duce, il condannato disse al finanziere che nella camera dell’albergo di Dongo, ove si trovava la sua convivente con i due figlioletti, avrebbe trovato i documenti che comprovavano la sua vera identità. Il Lazzaro salì dalla convivente, Zita Ritossa, ed ebbe da lei una borsa con dei documenti. Ritornato dal Petacci, questi asserì che la borsa non era sua. Egli disse allora a Bill che nel garage dove era ricoverata la sua automobile, avrebbe trovato un’altra borsa con documenti relativi ad un suo brevetto e lettere a lui indirizzate. L’esame del contenuto della seconda borsa valse a chiarire l’equivoco sull’identità del Petacci, che scampò alla fucilazione in quel momento, ma che fu giustiziato egualmente più tardi su ordine del col. Valerio36. Entrambe le borse furono portate dal finanziere nel municipio di Dongo, ma di esse se ne persero le tracce.

34 Veggasi al riguardo, U. Lazzaro, L’oro di Dongo, cit., che riporta un resoconto completo del dibattimento svoltosi presso la Corte d’Assise di Padova, dal 29 aprile al 23 luglio 1957. 35 U. Lazzaro, L’oro di Dongo, cit., pag. 36 - 37. 36 U. Lazzaro, L’oro di Dongo, cit. , pag. 98.

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Successivamente Bill ipotizzò, in ciò confortato dalla testimonianza di un partigiano (Lorenzo Bianchi) che aveva sbirciato i documenti, che nella prima borsa, trovata nella camera della Ritossa, fosse contenuto il carteggio Churchill – Mussolini. La supposizione si basa sul fatto che Claretta Petacci aveva con sé, consegnatole da Mussolini per metterlo in salvo, l’importante complesso di documenti e che poi la Petacci, per seguire il Duce nel suo tragico destino, l’aveva consegnato al fratello e che quindi la prima borsa che Marcello disconobbe come sua, contenesse il carteggio. Questa circostanza spiega anche perché Churchill, durante il suo chiacchierato soggiorno sul lago di Como nell’estate del ’45, asseritamene per riposarsi e dedicarsi alla pittura, si recò anche presso la caserma sede del comando del circolo (corrispondente all’attuale Comando di Gruppo – n.d.a.) della Guardia di Finanza di Menaggio per incontrarvi il comandante, Ten.Col. Luigi Villani, da cui dipendevano tutti i reparti del Corpo della sponda occidentale del lago di Como, compresa la tenenza di Dongo. Anche il brigadiere Antonio Scappin ebbe a che fare con documenti, denaro e valori recuperati dai gerarchi e dalla colonna della Flack in fuga verso il confine svizzero. Già il mattino del 28 aprile due pescatori di Sorico avevano rinvenuto, nel punto in cui il fiume Mera si immette nel lago, una valigia semigalleggiante, che conteneva mezzo chilogrammo di rottami d’oro, mentre sul fondo del fiume, sparsi in circa dieci metri quadrati, si trovavano altri pezzi d’oro. Raccolti gli oggetti evidentemente scaricati dalla colonna dei tedeschi in fuga i pescatori li consegnarono al brig. Scappin, che a sua volta, su ordine di Bill, li depositò presso la filiale della Cariplo di Domaso. Il ritiro dei documenti e dei valori dalla filiale della Banca ebbe luogo il 2 maggio su pressione della 52^ brigata Garibaldi, che intendeva ricongiungerli alla parte maggioritaria dell’ “oro di Dongo” già consegnata fina dal 29 aprile alla federazione del partito comunista di Como. Lazzaro intendeva, invece, consegnare almeno i documenti al C.L.N.A.I. di Milano e dopo il ritiro dalla banca divise i valori dai documenti e nascose i primi nella cantina di un partigiano del luogo, certo Venini di Domaso ed i secondi, con la collaborazione del brig. Scappin sotto l’altare della chiesa di Gera Lario37. L’oro e il denaro furono poi prelevati da Bellini delle Stelle e portati anch’essi alla federazione comunista di Como. Il comandante della 52^ brigata voleva che anche

37 U. Lazzaro, L’oro di Dongo, cit., pag. 83.

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i documenti fossero ricongiunti a Como al resto dell’ “oro di Dongo”, ma Lazzaro e Scappin, unici a conoscere il nascondiglio della chiesa di Gera Lario resistettero e tramite il col. Malgeri contattarono il gen. Cadorna, comandante generale del CLNAI, per consegnargli le due valige. Il trasporto a Milano fu curato dal brig. Scappin38 che però dovette darne preventiva notizia al comando della 52^ brigata Garibaldi. Fu così che Scappin il 16 maggio venne affiancato nel viaggio dal commissario politico della 52^ Michele Moretti che con il pretesto che la consegna al C.L.N.A.I. doveva avvenire per via gerarchica obbligò il brigadiere a consegnare i documenti di Mussolini al comando della piazza militare di Como, ove essi scomparvero. Il gen. Cadorna dichiarò in seguito che qualche tempo dopo trovò sul suo tavolo, senza riuscire a conoscerne la provenienza, una cartella aperta ed evidentemente manomessa, contenente documenti relativi al processo di Verona. Tutte le circostanze esposte nelle relazioni dal fin. Lazzaro e dal brig. Scappin risulteranno poi confermate dalla sentenza della Sezione istruttoria della Corte d’appello di Milano, unico atto giudiziario che lumeggia con sufficiente chiarezza la tormentata vicenda dell’ “oro di Dongo”39.

8. Conclusione.

Le vicende or ora narrate inducono ad alcune considerazioni sui comportamenti delle forze che hanno sostenuto la Resistenza e che hanno dato luogo all’insurrezione generale del 25 aprile 1945 nella zona dell’alto Lario. I protagonisti della cattura di Mussolini e degli avvenimenti immediatamente successivi, che ha rappresentato il punto culminante e nello stesso tempo l’epilogo della guerra partigiana al nazifascismo, sono stati la 52^ brigata partigiana Garibaldi “Luigi Clerici”, la popolazione insorta e la Guardia di Finanza, unica forza armata regolare alle dipendenze del CLNAI. Il primo degli attori, la 52^ brigata era inquadrata formalmente nel CLNAI di Milano, ma di fatto, come tutte le brigate Garibaldi dipendeva dalla componente comunista dell’anzidetto Comitato, che faceva capo a Luigi Longo. anche se gli elementi di punta della “Luigi Clerici”, Pier Luigi Bellini delle Stelle, (Pedro) comandante,Aldo Lampredi (Pietro Gatti) commissario politico e Urbano Lazzaro (Bill) vicecommissario politico, ad eccezione di Lampredi, non avevano una forte coloritura politica, il reparto doveva conformarsi senza riserve alle direttive politiche provenienti da Milano e quindi ebbe scarsa autonomia nella gestione

38 ASMSGF, fasc. 675, busta 2, doc. 272. 39 La sentenza è riportata in allegato alla citata opera “L’oro di Dongo” di U. Lazzaro, pag.225 e seg.

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successiva all’arresto di Mussolini e dei gerarchi. La 52^ fu costretta a piegarsi alla decisione di eliminare fisicamente il capo del fascismo ed i suoi fedelissimi presa altrove al fine di recidere con un atto rivoluzionario ogni possibile continuità tra regime fascista preesistente e la nuova Italia democratica che il partito comunista vagheggiava a più o meno lunga scadenza di trascinare nella rivoluzione proletaria e nell’orbita sovietica. In questa ottica va letta la frettolosa decisione di eliminare al più presto il Duce, anche in violazione dell’art.29 dell’armistizio di Cassibile, dandone incarico, dopo che il col. Malgeri aveva rifiutato l’incarico, a Walter Audisio (col. Valerio). Per questi motivi “Pedro” aveva ben poche possibilità di opporsi alla soluzione prescelta e dopo alcune timide riserve, lasciò campo libero al col. Valerio. La popolazione dell’alto Lario tenne un comportamento contraddittorio negli avvenimenti: indubbiamente gli abitanti di Dongo e delle località limitrofe furono compattamente al fianco dei partigiani dando loro largo sostegno logistico e convinto appoggio morale. Per contro la popolazione diede cattiva prova di sé partecipando attivamente al saccheggio dei valori trasportati dai gerarchi fuggiaschi, dando luogo ad episodi di isteria collettiva contro i fascisti prigionieri nel municipio di Dongo e poi durante la fucilazione sul lungo lago, ed infine creando confusione e disordine nella cittadina, tanto da rendere insicura la permanenza di Mussolini a Dongo, che per questo motivo fu trasferito a Germasino. Il terzo dei protagonisti, la Guardia di Finanza, si comportò con equilibrio ed equanimità, rifuggendo da eccessi e da smanie di protagonismo, purtroppo frequenti in quei momenti allorquando molti esaltati, per il solo motivo di un possesso di un’arma nel momento dello sfaldamento del vecchio sistema istituzionale e prima dell’insediamento delle nuove autorità democratiche, erano pervasi da delirio di onnipotenza e si dedicavano ad uccisioni indiscriminate, saccheggi ed a smargiassate per impressionare i comuni cittadini. I finanzieri, nel caos e nella confusione imperante a Dongo nel pomeriggio del 27 aprile, tennero i nervi saldi e cercarono di disciplinare le frenetiche attività precedenti e successive all’arresto di Mussolini. Qui si distinsero il maresciallo Di Paola ed il brigadiere Buffelli, che dimostrò anche la sua umanità nei colloqui con il Duce nella caserma di Germasino. Un ruolo importante lo ebbe il finanziere Lazzaro (Bill) vice commissario politico della 52^, che cercò di opporsi decisamente acchè Mussolini ed i gerarchi fossero passati per le armi prima di essere consegnati al CLNAI di Milano. Non riuscì nel suo intento perché venne bruscamente estromesso da Audisio dal luogo ove venivano prese decisioni così drammatiche.

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L’aspirazione a comportamenti ispirati alla legalità di Bill a lui connaturale prestando egli servizio nella Guardia di finanza emerge soprattutto nel suo scrupolo di cercare di evitare la dispersione degli ingenti valori trasportati dai fascisti in fuga, inventariando per quanto possibile i beni sequestrati, recuperando quelli che saccheggiatori cercavano di asportare e depositandoli nella banca di Domaso. E’ questa la degna conclusione dell’attività della Legione di Milano durante la Resistenza che ha grandemente contribuito alla concessione della Medaglia d’Oro al Valor Militare alla Bandiera del Corpo e che ha sicuramente giovato ad un maggiore prestigio della Guardia di finanza nel nuovo regime democratico.