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4. REGIONI E AUTONOMIE LOCALI NELLA RIFORMA DEL TITOLO V DELLA COSTITUZIONE di Silvio Gambino Qualche premessa teorica e comparatistica in tema di rapporti fra Stato e territorio nel costituzionalismo contemporaneo Le forme di Stato rispetto al decentramento territoriale dei poteri non sempre e non facilmente risultano comparabili fra loro. Inscrivendosi in una diversità di esperienze storico-politiche, tuttavia, le stesse ritrovano un punto comune di riferimento intorno a tre principali modelli ideal- tipici: quello dello Stato unitario, quello dello Stato federale e quello dello Stato confederale, quest’ultimo, in verità, costituendo più un’astratta categoria tipologica che un riferimento organizzativo a modelli storici di decentramento territoriale del potere effettivamente oggi esistenti. Gli U.S.A. costituiscono il comune, principale, punto di riferimento – l’archetipo – del modello federale, mentre in Europa ha visto la sua originaria affermazione il modello di Stato unitario, che, in seguito, in modo graduale e differenziato da Paese a Paese, ha conosciuto, in modo vieppiù crescente nel tempo, il decentramento di poteri dal centro verso la periferia, prima di tipo esclusivamente amministrativo (deconcentrazione, decentramento amministrativo) ed in seguito, soprattutto a partire dalle 65

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4.REGIONI E AUTONOMIE LOCALI

NELLA RIFORMA DEL TITOLO V DELLA COSTITUZIONE

di Silvio Gambino

Qualche premessa teorica e comparatistica in tema di rapporti fra Stato e territorio nel costituzionalismo contemporaneo

Le forme di Stato rispetto al decentramento territoriale dei poteri non sempre e non facilmente risultano comparabili fra loro. Inscrivendosi in una diversità di esperienze storico-politiche, tuttavia, le stesse ritrovano un punto comune di riferimento intorno a tre principali modelli ideal-tipici: quello dello Stato unitario, quello dello Stato federale e quello dello Stato confederale, quest’ultimo, in verità, costituendo più un’astratta categoria tipologica che un riferimento organizzativo a modelli storici di decentramento territoriale del potere effettivamente oggi esistenti. Gli U.S.A. costituiscono il comune, principale, punto di riferimento – l’archetipo – del modello federale, mentre in Europa ha visto la sua originaria affermazione il modello di Stato unitario, che, in seguito, in modo graduale e differenziato da Paese a Paese, ha conosciuto, in modo vieppiù crescente nel tempo, il decentramento di poteri dal centro verso la periferia, prima di tipo esclusivamente amministrativo (deconcentrazione, decentramento amministrativo) ed in seguito, soprattutto a partire dalle costituzioni del secondo dopoguerra, di tipo legislativo (regionalismo).

Gli aspetti fondamentali del modello di Stato unitario, come è noto, sono dati da un rigido accentramento e dalla centralizzazione amministrativa nonché dalla fondazione di un sistema autoritativo esclusivo dello Stato, fondato sul principio gerarchico. Sotto tale profilo, l’archetipo è costituito dal modello francese, che si presenta con forti differenziazioni rispetto all’assetto organizzatorio dei rapporti fra centro e periferia sperimentato già da vecchia data dal costituzionalismo inglese (di tipo consuetudinario), con il riconoscimento di forme di autonoma rilevanza politica agli organismi territoriali esponenziali delle realtà territoriali.

La centralizzazione e l’uniformità amministrativa, che sono fra gli aspetti che maggiormente caratterizzano le esperienze europee di Stato unitario (a partire dal caso francese), si fondano sull’argomentazione (logica e politica) secondo cui tali profili organizzatori esprimono, integrano e perfezionano l’unificazione politica degli stati, divenendone perciò un elemento indefettibile. Unità, centralizzazione e uniformità costituiscono, così,

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altrettanti profili caratterizzanti la rete istituzionale dei rapporti fra potere politico centrale e cittadini nella realtà delle amministrazioni territoriali, fra autorità amministrative centrali e amministrazioni locali e che, quasi ovunque, come le singole realtà nazionali testimoniano, si riflette nel disconoscimento e/o compressione dei livelli di governo locale e, quando previsti in sede costituzionale, nella loro amministrazione attraverso formule di governo standardizzate ed uniformi sul territorio (prescindendo cioè dalle diversità culturali e politiche delle diverse realtà regionali e locali).

Tali elementi costituiscono una premessa generale sulla forma statale unitaria e sulle relative caratteristiche organizzatorie e funzionali, anche se occorre sottolineare come tale modello costituzionale e amministrativo, nella realtà, costituisce più un ideal-tipo che un modello rigidamente osservabile nella evoluzione degli stati contemporanei (almeno di quelli europei). In tale modello, caratterizzato sia dalla centralità di un sistema rigido ed uniforme nella circolazione del comando giuridico e amministrativo (dall’alto verso il basso), sia da elementi di flessibilità, dovuti al ruolo di snodo fra centro e periferia svolto da autorità centrali, si sono collocate le due principali modalità razionalizzatrici sperimentate nella forma di Stato unitario che ne costituisce, in Europa, l'archetipo: la deconcentrazione e il decentramento amministrativo. Di quest’ultima modalità amministrativa si deve ricordare come la stessa si sia caratterizzata (e si connoti tuttora) quale tendenza imposta dall’evoluzione dei nuovi e più complessi compiti affidati allo Stato in campo economico e sociale, che tuttavia non mette in questione la nozione di Stato unitario. Essa consiste sostanzialmente nell’individuazione di una serie di compiti, anche se non sempre definiti chiaramente ed organicamente, e nel loro affidamento, come ‘affari locali’, alla cura dei ‘nuovi’ enti territoriali distinti dallo Stato ed amministrati da organi elettivi. A tale fondamentale profilo organizzatorio si è conformato lo Stato ad amministrazione centralizzata, che ha garantito il processo di unificazione politica europea dei singoli Stati-nazione e, al loro interno, la formazione ed il consolidamento di quei centri di potere politico-comunitari, come i partiti politici, che si sono evoluti nel tempo come nuove istituzioni (talora con processi di costituzionalizzazione molto spinti, come nel caso della R.F.T.).

Fino al primo decennio del secolo scorso, tale modello di Stato, unitario, accentrato e forte, riesce (in qualche modo) ad assolvere alle funzioni per cui era stato pensato. L’ampliamento delle funzioni d’intervento attivo nel processo economico (‘Stato imprenditore’), prima, e di soddisfazione delle crescenti domande sociali (‘Stato sociale’), in seguito, mettono in crisi (quasi ovunque) tale modello, rendendo necessaria una revisione dei fini dello Stato ed una ridefinizione nelle stesse modalità di esercizio dei pubblici poteri in un’ottica appunto che è stata definita sussidiaria.

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Ciò avverrà, nel modo più solenne e garantito, nelle costituzioni del secondo dopoguerra (soprattutto in quella italiana e nella Legge fondamentale di Bonn), che recepiranno tali esigenze soprattutto nella costituzionalizzazione dei ‘diritti sociali’ accompagnato da una tutela accordata agli istituti ed ai soggetti economici diversa rispetto a quella prevista nelle prime costituzioni liberali.

Ciò si esprimerà anche nella ridefinizione dei livelli territoriali di governo, improntati, in modo più o meno intenso in Europa, al riconoscimento costituzionale del pluralismo istituzionale territoriale, accompagnato dal principio del decentramento come regola dell’azione pubblica. Un decentramento che è amministrativo e politico il quale si ispira, nel fondo, al principio federale secondo il modello nord-americano (divisione del Paese in Länder con funzioni di partecipazione alla legislazione federale).

Sia, dunque, che si pensi al riconoscimento delle regioni e delle autonomie locali (con relative funzioni ed organizzazione del governo) nei testi costituzionali del secondo dopoguerra (Italia e R.F.T., sia pure con diverso grado), sia a quelle che hanno trovato una loro attuazione, più tardiva, nell’ultimo decennio (Spagna, Belgio, Portogallo, Francia, Gran Bretagna), appare evidente in ognuna di tali esperienze di decentramento politico e di regionalismo un processo di superamento della classica, originaria, modellistica degli stati unitari (centralizzati e accentrati), con il decentramento di poteri e di funzioni nella direzione di strutture amministrative fornite di (maggiore o minore) autonomia normativa e organizzativa e dalla dimensione territoriale tendenzialmente superiore ai livelli tradizionali dell'amministrazione locale.

Le esperienze di decentramento politico e amministrativo e le stesse modalità di attuazione del regionalismo e del decentramento politico, peraltro, sottolineano la circostanza che nuovi centri di potere politico-comunitario sono venuti a concorrere, se non proprio a sostituirsi, nel processo di centralizzazione del potere politico. Ai soggetti istituzionali di governo territoriale, infatti, si aggiunge lo stesso sistema dei partiti, che si presenta (sarebbe meglio dire si presentava) organizzato e centralizzato e che, nelle diverse esperienze statuali (e particolarmente in Italia) riesce a condizionare (e talora anche a determinare) l’indirizzo politico di governo e in taluni contesti lo stesso indirizzo politico-costituzionale. Le regioni e le autonomie politiche territoriali infra-regionali, istituite per decentrare verso i cittadini la gestione del potere politico e amministrativo, in modo da renderlo più partecipato e controllato, a causa della forte presenza dei partiti e della relativa ingerenza nella vita istituzionale-costituzionale, vedono così sottrarsi le decisioni di indirizzo politico e politico-amministrativo, divenendo, nella

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migliore delle ipotesi, meri livelli di articolazione territoriale dell’attività amministrativa dello Stato.

Avviando a conclusione tale inquadramento generale del processo evolutivo della forma statuale contemporanea e dei relativi rapporti fra centro e periferia, appare opportuno sottolineare come l’analisi recente del decentramento politico e amministrativo non appare caratterizzarsi per un approccio essenzialmente o prevalentemente teorico, come avveniva nell’analisi della dottrina giuridica che per prima hanno affrontato la questione delle tipologie della forma dello Stato moderno.

Nella presente fase di ‘riforma dello Stato’ accentrato, nelle diverse esperienze europee (sia pure con intensità e forme differenziate) essa suggerisce che non esiste un modello di decentramento politico ottimale e definito, quindi riferibile a tutti gli stati. Sotto tale profilo, le regioni e le autonomie politiche territoriali (minori) costituiscono la risposta ad un profondo bisogno di cambiamento nelle procedure istituzionali (sussidiarietà e leale collaborazione fra i diversi livelli di governo) e nell’organizzazione dei rapporti fra lo Stato contemporaneo e i cittadini (razionalizzazione amministrativa nell’ottica della trasparenza ed in quella partecipativa), sia per quanto concerne la partecipazione politica che l’amministrazione dei servizi.

È rispetto a questo quadro d’insieme dell’esperienza, teorica ed evolutiva, del decentramento che svolgeremo la nostra riflessione sulle recenti tendenze registrate soprattutto in Italia (a partire dalla metà degli anni ‘90), fino alle scelte adottate a seguito della revisione costituzionale del Tit. V. (ordinamento regionale).

Per rendere maggiormente chiaro il contenuto del processo di revisione costituzionale in materia, occorrerà dunque procedere all’analisi dei nuovi assetti definiti dal legislatore di revisione (statuto costituzionale delle regioni e degli enti autonomi della Repubblica, fonti e forma di governo, per come ridisegnati dagli artt. 114, 117 e 118 Cost.,)

Le istituzioni regionali (e le autonomie locali): princìpi e disciplina costituzionale

La Costituzione italiana del 1948 aveva operato, rispetto allo Statuto albertino, una trasformazione radicale nell’assetto fondamentale delle istituzioni politiche, prefigurando un’ampia distribuzione territoriale del potere politico, superando, in tal modo, la forma di Stato unitaria ed accentrata, di matrice napoleonica, in favore di una forma di Stato fondata sul decentramento politico (Comuni, Province e Regioni) come attuazione del principio del pluralismo istituzionale.

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Per comprendere la forma di Stato disegnata dai costituenti, tuttavia, occorre leggere le disposizioni contenute nel Tit. V della Costituzione alla luce del principio autonomistico sancito nell'art. 5 Cost., ma anche alla luce degli altri princìpi fondamentali contenuti nella Carta costituzionale (dall'art. 1 all'art. 12). L’art. 5 della Costituzione sancisce che “la Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento”. Altre disposizioni costituzionali disciplinano l'ambito dell'autonomia riconosciuta agli enti territoriali (Comuni, Province e Regioni). Altre ancora sono state abrogate (dalla l.c. n. 3/2001), come l'art. 128, secondo il quale l'ambito dell'autonomia delle Province e dei Comuni era fissato da leggi generali della Repubblica, che, al contempo, ne determinavano le funzioni; mentre l'autonomia delle Regioni nell'esercizio dei relativi poteri e funzioni, invece, era assicurata, secondo l'art. 115 Cost. (esso stesso abrogato dalla l.c. n. 3/2001), secondo i princìpi fissati nella Costituzione.

Il ricorso da parte del costituente post-bellico al principio di autonomia territoriale consente di inquadrare il più generale modello del pluralismo istituzionale italiano nell'ambito delle forme di Stato unitarie fondate sul decentramento. Quest’ultimo può essere può o meno intenso a seconda dei diversi ordinamenti statali e, all'interno di ciascun ordinamento, in ragione del grado di attuazione della Costituzione.

La ratio dell’art. 5 Cost., a sua volta, va rinvenuta nell’individuazione di due princìpi che s’integrano reciprocamente: quello dell’unità e della indivisibilità della Repubblica nonché quello del riconoscimento e della promozione delle autonomie locali. Infatti, mentre il principio di unità fissa un limite rigido all’autonomia degli enti locali e delle istituzioni regionali, differenziando in tal modo l'organizzazione complessiva della forma di Stato rispetto a quella federale (fondata, appunto, sull'originarietà e, pertanto, sulla sovranità degli stati membri che compongono lo Stato federale), il principio dell'autonomia locale assume una configurazione positiva, ponendosi come modello di organizzazione territoriale dei poteri, che vengono riconosciuti, qualora già esistenti, o promossi quando non ancora istituiti.

Tuttavia, l’autonomia territoriale, in uno Stato unitario a base regionale ed autonomistica, come quello italiano, non si configura come autonomia assoluta – categoria, quest'ultima, che diverrebbe equivalente a quella di sovranità – né si limita alla mera autarchia. Inquadrato nell’ambito della sovranità originaria ed esclusiva dello Stato, il concetto di autonomia territoriale (regionale e locale) s'identifica con il potere di adottare propri statuti (e regolamenti), nonché di esercitare poteri (legislativi ed

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amministrativi) e funzioni (competenze) nel rispetto di princìpi fissati dalla Costituzione.

La Costituzione è chiara nell’affermazione (artt. 5 e 114, II co.) del principio di autonomia territoriale. Tale principio si colloca sul piano dei rapporti fra ordinamenti, dalla ricomposizione del cui pluralismo istituzionale allo interno dell’unico ordinamento repubblicano viene a costituirsi "la Repubblica". Tale era il disegno dei costituenti del 1948 ed è (ancora) il disegno dei legislatori di revisione costituzionale del Tit. V, negli anni 1999-2001.

Cosicché, la forma di Stato delineata dalla Costituzione nel Tit. V, come “radicato” prima nell’art. 5 Cost. ed ora anche nell'art. 114 Cost., deve essere considerata, sotto il profilo ordinamentale, come un unico ordinamento composto da una pluralità di 'ordinamenti territoriali minori', fra di loro equiordinati e dunque connotati da una pari dignità costituzionale. Le Regioni, le Province ed i Comuni (ma anche le Città metropolitane e la stessa città di Roma quale capitale della Repubblica) devono essere considerati sia come ordinamenti ricomposti nell’ordinamento unitario costituzionalmente garantito (uno e indivisibile) dall’art. 5, sia come autonomi soggetti istituzionali “esponenziali” dei rispettivi ordinamenti e delle rispettive collettività territoriali. In quest’ultimo senso, la Costituzione fa riferimento ad essi con il termine di 'enti autonomi'.

Tali enti sono individuati in apertura del Tit. V che, mentre all’art. 114 del previgente testo costituzionale stabiliva “La Repubblica si riparte in Regioni, Province e Comuni”, nel novellato testo prevede che "La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato". Pertanto, le autonomie territoriali indicate dall’art. 114 Cost. (specificativo ed attuativo dell’art. 5 Cost.), unitamente allo Stato, sono qualificate dalla Costituzione come enti ed ordinamenti autonomi, che l’ordinamento repubblicano ("la Repubblica") “riconosce e promuove”, e rispetto ai quali l’art. 114, I e II co., Cost. opera una indicazione, che li equipara, rivestendoli di pari rango costituzionale.

Se l’art. 114 Cost. configura una equiordinazione costituzionale tra gli enti autonomi della Repubblica, non altrettanto si può desumere dall'insieme degli articoli previsti nel Tit. V Cost., che denotano un elevato grado di ‘ambiguità’ costituzionale. Dall'art. 115 all'art. 133 Cost., infatti, la più parte delle novellate disposizioni costituzionali sono dedicate all’istituto regionale. Le Regioni, così, dispongono di una posizione maggiormente 'valorizzata' dal punto di vista della disciplina costituzionale rispetto a quella delle Province, dei Comuni e delle Città metropolitane. Il rilievo costituzionale di questi ultimi consiste principalmente nel loro essere parte necessaria, indefettibile, dello ordinamento, non potendo essere soppressi dal legislatore ordinario.

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L'impianto regionalistico ed autonomistico della Costituzione del 1948 si riconduce alle motivazioni ideali e culturali di alcune componenti della Assemblea costituente ed in particolare delle componenti cattoliche. A loro volta, le componenti d’ispirazione marxista sottolineavano la necessità di conservare centralità allo Stato rispetto al pluralismo istituzionale e rispetto al decentramento territoriale, in quanto ritenevano le 'grandi riforme economiche e sociali' indispensabili al superamento della 'questione meridionale', richiamata dal costituente nel previgente art. 119, III co., Cost. ("per valorizzare il Mezzogiorno e le Isole"). Dall'unità d'Italia in poi, infatti, quest'ultima si presentava come una 'questione nazionale' irrisolta. Così, mentre per le forze politiche della sinistra, l'opzione costituzionale a favore dell'introduzione delle Regioni nel sistema costituzionale italiano avrebbe potuto indebolire le lotte nazionali per le riforme economiche e sociali, le componenti cattoliche, al contrario, assumevano che le Regioni potevano costituire una concretizzazione dei princìpi e dei valori dell'autonomismo (art. 5 Cost.) e del 'personalismo comunitario' (art. 2 Cost.). Il decentramento politico-territoriale (soprattutto con la previsione, per la prima vota, nell'ordinamento costituzionale, delle regioni) costituiva in tale ottica un presidio nei confronti di ogni possibile arretramento autoritario della vita democratica ed istituzionale del Paese.

Le regioni nella Costituzione del 1948

L'analisi delle opzioni complessive di decentramento territoriale dei poteri accolte nell'ordinamento regionale (e locale) attualmente vigente è possibile se consideriamo l'architettura istituzionale-costituzionale disegnata nella Costituzione del 1948, ora in gran parte modificata, nella parte de qua, dalla revisione del Titolo V della Costituzione, a seguito delle leggi di revisione costituzionale nn. 1/99, 2/2001 e 3/2001.

In quella architettura istituzionale peculiare attenzione era assegnata a situazioni territoriali di tipo particolari dal punto di vista delle caratteristiche etno-linguistiche, storiche e dello sviluppo economico. L'art 116 Cost. prevedeva cinque diversi casi regionali cui venivano attribuite "forme e condizioni particolari di autonomia, secondo statuti speciali adottati con leggi costituzionali". Tali casi erano le cinque Regioni a statuto speciale (Sicilia, Sardegna, Trentino-Alto Adige, Friuli Venezia Giulia e Valle d'Aosta). Gli statuti di tali regioni presentano natura giuridica e caratteristiche notevolmente diverse da quelle delle regioni a statuto ordinario. Mentre gli statuti delle Regioni a statuto speciale erano (e sono) vere e proprie leggi costituzionali approvate con le procedure della legge costituzionale, di cui all’art. 138 Cost., e dunque costituiscono “parti speciali” della Costituzione,

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gli statuti ordinari costituivano fonti sub-costituzionali vincolati dal dettato costituzionale nel procedimento (ex art. 123 Cost.) ed anche, in buona parte, nel contenuto. Pertanto, la Costituzione si applicava integralmente alla Regioni ordinarie, mentre per le Regioni speciali essa doveva (e deve tuttora) essere integrata dagli statuti che avevano (ed hanno) pari grado gerarchico e che in parte (non completamente) si sostituivano (e si sostituiscono) alle disposizioni del Titolo V.

Le Regioni (speciali ed ordinarie), oltreché di autonomia statutaria, godevano anche di altre forme di autonomia ed in particolare di autonomia legislativa (art. 117 Cost.), amministrativa (art. 118 Cost.), finanziaria (art. 119, II c., Cost.) e patrimoniale (art. 119, III c., Cost.).

L’attribuzione di poteri legislativi alle Regioni (speciali e ordinarie) costituiva uno degli elementi più innovativi introdotti dall’ordinamento repubblicano, sulla base del quale la forma di Stato italiana si qualificava come forma di 'Stato regionale'. In linea generale, le Regioni avevano funzioni legislative ed amministrative in alcune determinate materie indicate dall’art. 117 Cost.; in particolare, le materie attribuite alle Regioni a statuto ordinario erano quelle tassativamente indicate dall’art. 117 Cost., mentre per le Regioni a statuto speciale sono quelle indicate dai rispettivi statuti (che potevano individuare materie di competenza piena o esclusiva).

I diversi tipi di competenza legislativa riconosciuti alle Regioni sono stati individuati ricorrendo alla tripartizione in: a) competenza piena o esclusiva (disponibile solo per le Regioni speciali che potevano (e possono) individuare materie nelle quali le disposizioni legislative regionali sostituiscono, rispettando alcuni limiti, le disposizioni legislative statali contrastanti); b) competenza concorrente (estesa a tutte le Regioni, che sulla base dei princìpi contenuti nelle leggi-quadro nazionali, potevano concorrere a disciplinare le materie attribuite dall’art. 117 Cost.; c) competenza attuativa (a sua volta articolata in competenza attuativa delegata dallo Stato alle Regioni ordinarie e integrativo-attuativa, riconosciuta come propria delle Regioni a statuto speciale).

Inoltre, nell’esercizio della loro autonomia legislativa, le Regioni incontravano alcuni limiti che, in linea generale, erano riconducibili a cinque diversi fini: salvaguardia dell’unità dell’ordinamento giuridico; garanzia dello indirizzo politico nazionale; rispetto degli obblighi internazionali; rispetto dell'interesse nazionale; rispetto dell'interesse di altre Regioni.

L’art. 119, II co., Cost. si limitava a stabilire che alla Regione erano “attribuiti tributi propri e quote di tributi erariali”, allo scopo di coprire le “spese necessarie ad adempiere le loro funzionali normali”. La Costituzione, dunque, prevedeva per le Regioni una finanza autonoma nel senso dell’autosufficienza ed implicitamente escludeva una finanza derivata, quale è

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quella che, al contrario, si è attuata nella realtà concreta (a partire dai primi anni ‘70), in virtù della disciplina legislativa alla quale il I co. rinviava.

L'art. 118, I c., Cost. poneva una regola di rilievo significativo, per la quale alle Regioni spettavano funzioni amministrative nelle stesse materie in cui alle medesime era riconosciuto potere legislativo (c.d. 'parallelismo amministrativo'). La stessa disposizione prevedeva una riserva di legge per l'identificazione di materie "di interesse esclusivamente locale" che potevano essere attribuite agli enti locali, nonché l'istituto della delega e dell'avvalimento degli uffici degli enti locali per l'esercizio delle funzioni amministrative.

La forma di governo regionale era disciplinata dettagliatamente negli artt. 121, 122 e 123 Cost., secondo un modello ispirato all'uniformità piuttosto che alla differenziazione. Le disposizioni costituzionali in tema di forma di governo regionale erano obiettivamente limitative dell’autonomia formalmente riconosciuta alle Regioni, in conseguenza del procedimento di approvazione degli statuti (art. 123 Cost.), che di fatto li subordinava al controllo del Parlamento (e nel caso degli statuti speciali addirittura alla sovrana volontà di questo). L’organizzazione delle Regioni prevedeva: a) un Consiglio regionale, quale organo rappresentativo con potestà legislative e regolamentari (art. 121 Cost.), eletto con modalità stabilite con leggi della Repubblica (art. 122, II co.); b) una Giunta regionale, quale organo esecutivo, eletta dal Consiglio (art. 122, V co.); c) un Presidente della Regione, che rappresentava la Regione, promulgava le leggi e i regolamenti, dirigeva le funzioni amministrative delegate dallo Stato alla Regione (art. 121, IV co.) ed era eletto anch’esso dal Consiglio tra i suoi componenti (art. 122, V co.). In linea teorica, le opzioni possibili sulla base degli artt. 121 e 122 Cost. in tema di forma di governo regionale erano tre: governo parlamentare, governo del premier e governo direttoriale. Nell’attuazione dell’ordinamento regionale, sin dall’avvio della esperienza regionale, ha prevalso la prima opzione, che, nella concreta realtà, si è venuta a caratterizzare nel senso di una forma di governo parlamentare a tendenza assembleare, frutto del clima politico (anni ‘70) in cui l’istituto regionale ha trovato attuazione.

Gli ordinamenti regionali (e locali) erano sottoposti ad un sistema di controlli (artt. 125, 127, 130 Cost.) che sindacava la legittimità e il merito di atti legislativi o amministrativi posti in essere all’interno di quegli ordinamenti, nonché operava un controllo sugli organi (artt. 126, 128).

Una ultima caratteristica della disciplina costituzionale delle autonomie territoriali era (ed è tuttora) costituita dal fatto che le Regioni (ma non i Comuni o le Province), oltre ad operare nelle funzioni loro assegnate, sono chiamate a partecipare alla vita dello Stato, nel senso che in più disposizioni

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(artt. 57, 71, 75, 83, 121, 138 Cost.) è loro attribuito un ruolo specifico nella composizione e nel funzionamento di organi centrali dello Stato.

Ciò dimostra il rilievo ordinamentale che il costituente del '48 assegnava all’istituto regionale, pur in un quadro unitario e di tendenziale uniformità amministrativa (o almeno con garanzie di uniformità). Si devono ricordare in tal senso: a) la partecipazione all’elezione del Presidente della Repubblica (art. 83, II c., Cost.); b) il potere di iniziativa legislativa (art. 71,I c. e 121,II c., Cost.); c) il potere di richiedere il referendum abrogativo di leggi ordinarie (art. 75, I c., Cost.); d) la partecipazione al processo di revisione costituzionale (art. 138, II c., Cost.); e) la partecipazione del Presidente della Regione a statuto speciale alle sedute del Consiglio dei Ministri quando si discutono proposte e/o delibere che riguardano la propria Regione; f) il parere regionale sulle modifiche delle circoscrizioni regionali e degli enti locali (artt. 132 e 133 Cost.).

4. Le Regioni e gli enti locali fra modello costituzionale e sistema politico: una specificità italiana (ma non solo)

Unitamente all'ordinamento regionale, il titolo V della Costituzione rinviava la disciplina dell'ordinamento locale (Comuni, Province ed altri enti locali) alle 'leggi generali della Repubblica' (art. 128 Cost.).

Tale ordinamento aveva la sua prima disciplina nell'ordinamento pre-costituzionale, con i tt.uu. del 1915 e del 1934, a loro volta ispirati al disegno organizzatorio configurato dalla legislazione del 1865, che definiva una organizzazione di governo locale di tipo diarchico, fondata, da un lato, sul Consiglio, organo del potere deliberativo e, dall’altro, sul Sindaco, nella sua qualità di vertice dell’esecutivo. Tuttavia, l’esperienza politico-istituzionale delle amministrazioni locali ha dato luogo ad un progressivo capovolgimento dell’assetto originario, nel senso di un tendenziale svuotamento dei poteri del Consiglio a tutto vantaggio del ristretto 'comitato esecutivo' rappresentato dalla Giunta. Tale processo diventa irreversibile con l'affermarsi del sistema dei partiti, che diverrà completo nella Costituzione del secondo dopo-guerra.

Il Parlamento ha proceduto alla riforma dell’ordinamento locale, in attuazione dell'art. 128 e della IX Disp. Trans. e Fin. della Costituzione, con grande ritardo, emanando la l. n. 142/90 e tutta una serie di altre leggi di riforma, poi coordinate nel TUEL (Testo unico degli enti locali), adottato con d.lgs n. 267/2000.

La legge n. 142 del 1990 si caratterizza per una serie importante di innovazioni istituzionali che consistono principalmente: a) nella

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redistribuzione funzionale delle competenze amministrative tra gli organi degli enti locali, b) nell'attribuzione di poteri normativi di rango statutario e regolamentare in capo agli enti stessi, c) nella introduzione di principi di separazione fra indirizzo politico-amministrativo e gestione con la connessa valorizzazione delle funzioni dirigenziali, d) nella introduzione di forme nuove di gestione dei servizi pubblici locali, e) nella introduzione di istituti di partecipazione e controllo dei cittadini, in breve, f) nella previsione di un "efficiente sistema delle autonomie al servizio dello sviluppo economico, sociale e civile".

La forma di governo locale, e soprattutto il rapporto Giunta-Consiglio, è caratterizzata dalla netta separazione tra i due organi, con il riconoscimento del Consiglio come organo di indirizzo e di controllo e della Giunta quale organo esecutivo degli indirizzi generali con funzione di attività propositiva e di impulso. Ciò ha comportato un’inversione di tendenza riducendo alcune delle attribuzioni esercitate di fatto, prima della riforma, dalla Giunta, in quanto tutte le funzioni attribuite direttamente al Consiglio dalla legge, rappresentando 'atti fondamentali', non possono essere più esercitate dalla Giunta per motivi di urgenza, ad eccezione delle variazioni di bilancio.

Per quanto riguarda, invece, il modello di ripartizione delle funzioni tra Sindaco e Giunta all’interno dell’organo esecutivo, la l. n. 142/90 (ed ora il TUEL) attribuisce al Sindaco (e al Presidente della Provincia) la rappresentanza dell’ente, nonché la sovraintendenza al funzionamento dei servizi e degli uffici e dell’esecuzione degli atti. La legge di riforma non opera una dettagliata elencazione delle attribuzioni del Sindaco (e del Presidente), rinviando alle leggi, allo statuto ed ai regolamenti dell’ente locale l’individuazione delle funzioni del Sindaco e della Giunta.

Il legislatore di riforma della l. n. 142, ed in seguito il legislatore della l. n. 81/93 (legge di riforma del sistema elettorale locale) hanno optato per una forma di governo limitativa degli spazi di autonomia statutaria.

L'esperienza attuativa degli statuti locali (1990/97) si è caratterizzata lungo le seguenti linee: a) rafforzamento delle funzioni del Sindaco quale espressione di una maggioranza consiliare e soprattutto di un mandato elettorale diretto, b) conseguente razionalizzazione nei rapporti fra Sindaco, Giunta e organi burocratici di vertice (segretario comunale e dirigenti), c) previsione di forme ulteriori di organizzazione interna degli organi.

Riformata l'organizzazione del governo locale, il legislatore di riforma ha proceduto a redistribuire le funzioni amministrative fra lo Stato e le autonomie territoriali, perseguendo e rafforzando le soluzioni istituzionali avviate con la l. n. 142/90, che aveva 'scongelato' le potenzialità autonomistiche dell'ordinamento territoriale italiano.

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In tale linea, la l. n. 59/97 (c.d. riforma Bassanini 1) ha proceduto anche ad un complessivo riordino dell’organizzazione amministrativa dello Stato, delle Regioni e degli enti locali 'a Costituzione invariata'. La l. n. 59/97, in tal senso, opera una inversione del criterio di ripartizione di competenza e gestione delle funzioni amministrative tra Stato ed autonomie territoriali, con ciò superando in modo definitivo il 'parallelismo' previsto dall'art. 118 Cost.

In questa legge si positivizza, per la prima volta, nell'ordinamento italiano il principio di sussidiarietà, inteso come criterio di redistribuzione delle funzioni a livello locale imputando le responsabilità pubbliche alle autorità territorialmente e funzionalmente più vicine ai cittadini interessati. Tale principio assume una funzione di direttiva per l’attribuzione della generalità dei compiti e delle funzioni amministrative a Comuni, Province e Comunità montane, secondo le rispettive dimensioni territoriali, associative ed organizzative.

5. L’architettura istituzionale ed il sistema normativo nel nuovo Tit. V Cost.

Le leggi costituzionali di revisione del titolo V hanno rimodellato l'intera architettura istituzionale, nonché il sistema delle fonti dell'ordinamento repubblicano. In relazione al profilo definitorio, tali riforme non possono ricondursi a modelli federali, limitandosi, in realtà, a costituire una 'architrave' costituzionale necessaria per consolidare e per assicurare “armonia” alla lunga serie di interventi legislativi che nel decennio 1990/2000 hanno interessato l’ordinamento regionale (e quello delle autonomie locali).

In questo senso, la definizione più convincente del nuovo ordinamento territoriale è quella di “Repubblica delle autonomie”. A differenza delle prime due regionalizzazioni (1972 e 1977) ed a differenza anche della terza regionalizzazione (l. 59/1997 e relativi decreti attuativi), le riforme costituzionali territoriali costituiscono attuazione dei princìpi costituzionali relativi alla autonomia ed al pluralismo. Tali princìpi, nelle nuove forme della valorizzazione della competenza legislativa delle Regioni e della stessa autonomia normativa locale, inverano il principio democratico e pluralistico, nonché quello, agli stessi riconnesso, dell’efficacia-responsabilizzazione-trasparenza dei pubblici poteri.

Le riforme si presentano, dunque, come uno ‘sviluppo’ dei princìpi costituzionali e non certo come un superamento del principio dell’unità e della indivisibilità, che costituirebbe una soluzione impraticabile costituzionalmente, attesa la natura inviolabile ed inderogabile dei princìpi medesimi.

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Le innovazioni apportate dalle riforme sono notevoli, in quanto sono stati ‘attualizzati’ valori e princìpi che già la Costituzione del ‘48 conteneva, ma che erano rimasti imprigionati in una forma eccessivamente debitrice allo Stato liberale ottocentesco. Rispetto ai princìpi costituzionali, la dinamica delle ‘riforme territoriali’ ed il relativo ordinamento delle fonti si devono ricondurre, pertanto, ad una piena attuazione della Costituzione, dopo un ‘congelamento’ pluridecennale cui la stessa è stata sottoposta nella ‘costituzione materiale’ del Paese (le Regioni ordinarie, infatti, pur previste in Costituzione, sono state concretamente attivate solo a partire dal 1972 e poi, in modo completo, a partire dal 1977).

La nuova formulazione dell’art. 114 Cost. costituisce un nuovo patto costituzionale, secondo il quale la Repubblica non si riparte più in Regioni, Province e Comuni (come si prevedeva nel testo costituzionale previgente), bensì “è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato” (con una evidente inversione del soggetto legittimante l’esercizio dei poteri).

La modifica dell’art. 114 Cost., unitamente a quella dell’art. 118 Cost., rende esplicito e pienamente operante quanto era stato già materialmente introdotto nell’ordinamento dalle cc.dd. riforme Bassanini (leggi nn. 59/1997, 127/1197, 191/1998, 50/1999). Con tali modifiche costituzionali, inoltre, si realizza la formale costituzionalizzazione del principio, di origine comunitaria, di “sussidiarietà”.

In relazione al sistema normativo che deriva dalla nuova architettura istituzionale, la Repubblica, alla luce della revisione costituzionale, pertanto, deve intendersi come un ordinamento generale di cui lo Stato è parte e di cui Regioni, Province, Città metropolitane e Comuni sono componenti costitutive con pari dignità costituzionale.

Rispetto a tale innovato quadro costituzionale, il legislatore di revisione costituzionale ha rimodulato la stessa nozione di 'interesse nazionale' (di cui all'art. 117, I co., del previgente testo), con la previsione di istituti di garanzia posti a tutela di beni costituzionali quali l’unità giuridica o economica, la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni in materia di diritti civili e sociali, l'incolumità e la sicurezza pubblica, nonché il rispetto degli obblighi di derivazione comunitaria e internazionale (art. 120, II co.). Tali disposizioni esplicitano l’intento del legislatore di revisione di preservare, rimodulandolo, l’'interesse nazionale' e di garantire il principio fondamentale (art. 5 Cost.), secondo cui la Repubblica è “una ed indivisibile”.

La previsione di istituti e misure di garanzia dell'unità nazionale si accompagna con la previsione di norme ed istituti di garanzia del pluralismo istituzionale e cooperativo, come il principio della 'sussidiarietà' e quello della 'leale collaborazione', da farsi valere specificamente in sede di esercizio dei

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poteri sostitutori (di cui all’art. 120 Cost.). La revisione costituzionale (art. 120, II co., ultimo periodo) affida alla legge ordinaria dello Stato la disciplina delle modalità e delle sedi nelle quali le esigenze unitarie, da una parte, e quelle autonomistiche, dall’altra, possono e devono trovare il confronto ed il necessario bilanciamento. A tale legge, infatti, è riservata la fissazione delle procedure “atte a garantire che i poteri sostitutivi siano esercitati nel rispetto del principio di sussidiarietà e del principio di leale collaborazione”.

5.1. Fonti regionali (Statuto, leggi, regolamenti regionali)

La nuova architettura istituzionale e normativa della Repubblica delle autonomie prima delineata ha riguardato in modo particolarmente significativo il sistema normativo regionale e i relativi limiti, modificando la natura ed il rango delle fonti atto regionali.

La potestà statutaria, innanzitutto, è stata significativamente ampliata e valorizzata, dal momento che la revisione costituzionale (l. cost. n. 1/1999) non solo ha soppresso le previgenti procedure di approvazione parlamentare ma ha eliminato anche il vincolo dell'approvazione parlamentare della deliberazione statutaria regionale con legge della Repubblica. Ciò fa sì che, nell’esercizio della potestà statutaria, il legislatore regionale registri l'unico vincolo della “armonia con la Costituzione” (art. 123 Cost.).

L’eliminazione della fase parlamentare e l’imputabilità piena degli statuti al sistema delle fonti regionali (trattasi, oramai, di legge regionale a tutti gli effetti pur se atipica) costituiscono una delle più vistose modifiche introdotte dalla riforma, differenziando sensibilmente la “posizione“ degli statuti regionali rispetto agli atti di organizzazione previsti in altri ordinamenti (come ad es. nel caso delle Comunità spagnole e dei Länder tedeschi).

Il delicato compito di “garanzia“ del principio unitario, che potenzialmente potrebbe essere messo in crisi da scelte eccentriche dello statuente regionale, viene affidato, per un verso al giudice costituzionale e, per altro, al corpo elettorale regionale. La Corte costituzionale, dunque, ai sensi del novellato art. 123 Cost., dovrà sindacare le violazioni poste in essere dagli statuti regionali alla Costituzione repubblicana qualora adita dal Governo della Repubblica (entro trenta giorni dalla loro pubblicazione). Parimenti, lo Statuto è sottoposto a referendum popolare qualora ne faccia richiesta (entro tre mesi dalla sua pubblicazione) un cinquantesimo degli elettori della Regione o un quinto dei componenti il Consiglio regionale.

Essendo questo l'unico limite positivizzato nel nuovo testo costituzionale, l’oggetto della disciplina statutaria è da individuare nelle sei materie indicate dal novellato art. 123 della Costituzione:

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i «principi fondamentali di organizzazione e funzionamento» dell’ente Regione;

l’«iniziativa su leggi e provvedimenti amministrativi regionali»;i «referendum su leggi e provvedimenti amministrativi della Regione»;la «pubblicazione delle leggi e dei regolamenti regionali»;il «Consiglio delle autonomie locali, quale organo di consultazione tra la

Regione e gli enti locali»;la «forma di governo regionale».

5.1.1. Statuti e forma di governo regionale (forme di investitura del Presidente della Giunta regionale, rapporti fra legislativo ed esecutivo, indebolimento del ruolo del Consiglio)

L’innovazione più significativa della potestà statutaria, come si è già ricordato, risiede nella possibilità di determinare la forma di governo che si reputa maggiormente idonea al modello politico-organizzativo dell’ordinamento di ciascuna Regione. Si tratta di una forma di governo di complessa definizione quando si rifletta agli inevitabili impatti che sulla stessa hanno le regole elettorali (sistema di elezione), rimesse alla determinazione del legislatore regionale sia pure nei “limiti dei princìpi fondamentali” posti con leggi statali. Tale potestà legislativa regionale si estende alla durata degli organi elettivi nonché agli status di ineleggibilità e di incompatibilità dei membri degli organi regionali (art. 122, I co., Cost.).

La novellata Costituzione italiana definisce in termini abbastanza chiari un modello di governo regionale che è, tuttavia, valevole solo in via transitoria, ossia fino alla data di entrata in vigore dei nuovi statuti regionali ed all’emanazione della legge statale di princìpi in materia di sistema elettorale regionale.

Il modello di rapporti interistituzionali prefigurato dalle novelle costituzionali ruota attorno alle disposizioni di cui al V co. dell’art. 122 Cost. ed al III co., I cpv, dell’art. 126 Cost.. Nel primo si prevede che «il Presidente della Giunta regionale, salvo che lo Statuto regionale disponga diversamente, è eletto a suffragio universale e diretto» e che «il Presidente eletto nomina e revoca i componenti della Giunta». Nel secondo viene stabilito che la «approvazione della mozione di sfiducia nei confronti del Presidente della Giunta eletto a suffragio universale e diretto, nonché la rimozione, lo impedimento permanente, la morte o le dimissioni volontarie dello stesso comportano le dimissioni della Giunta e lo scioglimento del Consiglio».

Parimenti rilevanti sono poi l’art. 121, IV co., Cost., che annovera tra le funzioni del Presidente – a prescindere dalle modalità di investitura – la

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direzione e la responsabilità della politica della Giunta, con una evidente analogia con quanto previsto dall’art. 95 Cost. per il Presidente del Consiglio dei ministri, e l’art. 121, II co., Cost., che non prevede più la riserva consiliare del potere regolamentare, che passa, così, nella disponibilità dell'esecutivo regionale (spettando allo Statuto di definire la sua allocazione fra Giunta e/o Presidente della Giunta).

Tali disposizioni, che operano in via transitoria e che, in futuro, potrebbero fungere da linee guida per gli statuenti regionali nella determinazione di forme di governo ad investitura diretta degli esecutivi, delineano scenari di neo-parlamentarismo o semi-parlamentarismo con “governi di legislatura”, in cui il capo del governo e l’assemblea legislativa traggono la propria legittimazione dalla medesima fonte, attraverso la contemporanea, duplice, elezione da parte del corpo elettorale. I due organi, legati da un patto di legislatura, nascono e cadono insieme secondo il noto brocardo “aut simul stabunt aut simul cadent”, per cui il voto di sfiducia nei confronti del Presidente e lo scioglimento anticipato del Consiglio determinano sempre la rielezione contemporanea dei due organi.

Le novellate disposizioni costituzionali non prevedono espressamente, ma neanche escludono che il Presidente eletto a suffragio universale e diretto, congiuntamente ai membri da esso nominati ma presumibilmente in solitudine, debba presentarsi dinanzi al Consiglio per ottenerne esplicitamente la fiducia. Certo è che, in ogni caso, tra Consiglio e Giunta s’instaura e si svolge un rapporto di fiducia (presunta o espressa, implicita o esplicita); ne costituiscono sicura testimonianza i commi 2 e 3 del novellato art. 126 Cost., che disciplinano la mozione di sfiducia nei confronti del Presidente della Giunta regionale (e che costituisce vincolo inderogabile per lo statuente regionale).

Invero, mentre il II co. disciplina tout court la mozione di sfiducia nei confronti del Presidente, sia se è eletto direttamente dal corpo elettorale sia se è eletto in modo indiretto (presumibilmente dal Consiglio), il III co. del nuovo art. 126 Cost. disciplina anche gli effetti che derivano dall’approvazione della mozione di sfiducia nel caso del Presidente eletto a suffragio universale e diretto; tali effetti sono appunto la dimissione della Giunta ed il contestuale scioglimento del Consiglio.

La previsione di cui all’art. 126, II co., Cost. – mozione di sfiducia al Presidente della Giunta – restringe lo spettro delle scelte dello statuente regionale in tema di relazione fra gli organi della Regione ad ipotesi comunque di governo parlamentare (sia pure fortemente razionalizzate, nelle pur numerose implementazioni che tale modello conosce ed anche in ragione del sistema elettorale prescelto).

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Rimangono, inoltre, vincoli assolutamente non derogabili che impongono cambiamenti di un certo spessore anche per lo statuente meno propenso all’innovazione: il Presidente della Giunta «dirige la politica della Giunta e ne è responsabile», con il che si sancisce la sua preminenza funzionale tanto nei confronti dei componenti la Giunta che nei confronti del Consiglio; si rimuove l’anomala attribuzione del potere regolamentare all’assemblea legislativa con evidenti ricadute sulla complessiva funzione legislativa di quest'ultima e, più in generale, sul sistema delle fonti.

Nel sistema delineato dal novellato testo della Costituzione, comunque, il Consiglio regionale perde il ruolo di snodo centrale nell’assetto relazionale tra i poteri (almeno rispetto all'esperienza trentennale delle forme di governo regionali, tutte ispirate alla forma parlamentare), sia che della novella costituzionale si dia una lettura presidenzialista sia che si sfruttino al minimo le potenzialità maggioritarie.

L’assemblea legislativa regionale, dunque: a) perde la sua primaria funzione di determinatore/codeterminatore dell’indirizzo politico ed il monopolio normativo poiché i regolamenti non sono più espressamente ad essa riservati; b) in caso di elezione diretta del Presidente, la qualifica di unico organo legittimato direttamente dal voto popolare e lo ius vitae ac necis nei confronti della Giunta e del suo Presidente (a meno di non sciogliere se stesso); c) la mancata previsione espressa di incompatibilità tra la carica di consigliere e quella di assessore riduce la possibilità per i consiglieri di accedere al governo regionale potendo essere scelti assessori esterni.

Appare evidente, pertanto, come il Consiglio regionale perda le attribuzioni che le sono state riconosciute dalla Costituzione repubblicana del ’48 e formalmente non ne acquisti di nuove; invece, il Presidente ed il governo della Regione acquistano tutta una serie di attribuzioni che nella prima fase statuente non avevano.

Ciò che, a prima vista, potrebbe sembrare una vera e propria deminutio capitis dei consigli regionali, tuttavia, se opportunamente convogliata in sede di attuazione statutaria, potrebbe recuperare agli stessi quella centralità che, in passato, era solo presunta. In altri termini, se i tre perni attorno a cui dovrà ruotare il Consiglio regionale – partecipazione, legislazione e controllo – saranno strutturati su una matrice razionale, potrà risultarne potenziato il suo ruolo istituzionale.

Quanto detto risulta tanto più verosimile in riferimento alla definizione di uno 'statuto regionale delle opposizioni' che, a partire da un certo grado di istituzionalizzazione della funzione oppositoria, dovrà essere poi modulato a seconda della formula di governo e dal sistema elettorale prescelto. Nelle more dell'attuazione di tali adempimenti istituzionali, punto di riferimento obbligato per i consigli impegnati a riscrivere gli statuti regionali, rimane

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l’attuale legislazione nazionale in materia di rappresentanza elettorale regionale. Questa ultima, sia pure in modo differenziato nel panorama delle regioni italiane, tuttavia, non pare abbia assicurato tutte le opportunità connesse alla logica maggioritaria di fondo prevista nelle legge regionale, presentandosi come una delle spiegazioni della stessa incertezza dell'attuale fase di attuazione statutaria (si ricorda come, a due anni, dal novellato testo costituzionale, ancora nessuno statuto regionale risulta essere stato approvato).

Data la fluidità ed, in un certo senso, la non piena prevedibilità delle linee di scorrimento del contenuto “eventuale” dei nuovi statuti, è ragionevole prevedere un modello-tipo di statuto (costituzionale) dell’opposizione, contenente i principi direttivi della disciplina positiva e del ruolo e delle attribuzioni che vi afferiscono. Un elemento costitutivo affinché l’opposizione assuma il ruolo di soggetto istituzionale di diritto positivo è la razionalizzazione della relazione fiduciaria (formula, composizione e programma) che, nel delineare la figura della maggioranza di indirizzo, per ciò stesso pone le premesse per l'identificazione formale della funzione del gruppo (o dei gruppi) di opposizione. La mozione motivata di fiducia iniziale avrebbe lo scopo di enucleare, nel programma, la parte qualificante che giustifica l’instaurazione del rapporto di fiducia e che vincola in eguale misura esecutivo–maggioranza di indirizzo alla sua attuazione ed opposizione al suo controllo.

Non meno rilevante è il potenziamento degli strumenti conoscitivi ed ispettivi del consigli (nonché il potenziamento dei mezzi materiali necessari alla comunicazione); difatti, proprio nella carenza di capacità di informazione, che si risolve sempre in una perdita di contatti con la società civile, è stato individuato il progressivo decadere delle assemblee legislative come organi decisionali autonomi, e la loro conseguente subordinazione all’esecutivo, perché è evidente che un legislatore che operi ex informata conscientia ricorre in misura minore ai canali informativi governativi. Va da sé che tali strumenti devono essere pensati nella piena disponibilità dei gruppi di opposizione o quanto meno prevedere che ad essi ne sia affidata la presidenza. Ancora, per le funzioni pubbliche deve valere in pieno il principio della pubblicità, al fine di rendere conoscibili le responsabilità del governo e perché possa conseguentemente esser fatta valere. Con riguardo allo strumento della inchiesta consiliare, infine, ricorre la garanzia dell’opposizione quando la facoltà di attivare l’inchiesta è riconosciuta alla minoranza e non dipende dal voto maggioritario dell'Assemblea. All’opposizione dovrebbe essere concessa la facoltà di designare una quota minoritaria garantita per le nomine così come la presidenza di commissioni di vario rilievo.

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5.1.2. Il referendum (confermativo/oppositivo) nel procedimento di approvazione degli Statuti regionali

Un'altra questione da richiamare riguarda il grado di rigidità della fonte statutaria e la possibilità offerte alle opposizioni di rilanciare i termini del dibattito sulla massima fonte regionale.

L'eliminazione della fase parlamentare costituisce, come si è già ricordato, forse la più importante, certamente la più vistosa, delle modifiche introdotte dall’art. 123 Cost. L’attuale testo, infatti, prevede che, per l’approvazione del nuovo statuto, sia necessario il voto favorevole della maggioranza assoluta del Consiglio regionale e che tale deliberazione debba ripetersi per due volte a distanza di almeno due mesi l’una dall’altra. La laconicità della disposizione non chiarisce se la seconda approvazione debba consistere in un voto riguardante l’intero testo oppure se si debba (o si possa) procedere alla votazione articolo per articolo e, in questa seconda eventualità, se sia possibile o meno proporre emendamenti.

Pur essendo il procedimento di modifica degli statuti regionali complessivamente più agevole di quello previsto dall’art. 138 Cost. in virtù della natura monocamerale dell’organo consiliare cui spetta la competenza, la soluzione adottata dai regolamenti parlamentari sembra essere la più logica e, dunque, pare auspicabile una decisione in tal senso anche da parte dei Consigli regionali. Sussiste, però, al proposito una differenza, tutt’altro che trascurabile: mentre l’art. 138 Cost., escludendo la possibilità di ricorrere allo strumento referendario nel caso il progetto di legge costituzionale o di revisione costituzionale ottenga il voto favorevole dei due terzi dei componenti delle Camere, ha permesso modifiche costituzionali anche in assenza di una legge attuativa del referendum intervenuta poi solo nel 1970, nel caso degli statuti regionali è invece sempre possibile richiedere il referendum, indipendentemente dal consenso ottenuto in Consiglio qualora ne facciano richiesta un cinquantesimo degli elettori della Regione o un quinto dei componenti il Consiglio regionale. Pertanto l’approvazione di una nuova legge referendaria regionale prima del completamento dell'iter consiliare dei nuovi statuti e delle leggi statutarie si configura come un adempimento necessario per la loro corretta approvazione. In caso contrario si potrebbe ipotizzare il ricorso, nei limiti della loro compatibilità, alle leggi referendarie regionali vigenti ed alle norme che in tema di referendum sono contenute nei vecchi statuti, che rimangono, comunque, vigenti fino all’entrata in vigore dei nuovi.

Riguardo agli statuti ordinari qualche perplessità è stata anche manifestata dalla dottrina in ordine alla «modesta rappresentatività dei soggetti legittimati a chiedere il referendum sullo statuto» e all’«assenza di ogni richiesta di quorum di partecipazione per la valida espressione della volontà popolare».

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Questa facilità potrebbe dare luogo a richieste referendarie anche da parte di forze estremamente minoritarie non rappresentate in Consiglio; d’altra parte, non pare potersi negare la portata garantista per le opposizioni consiliari, visto che la disposizione costituzionale permette ad un quinto dei componenti il consiglio di attivare la procedura referendaria.

Dai lavori preparatori delle l. cost. n. 1 del 1999 emerge comunque che, il referendum fu introdotto con queste modalità per scoraggiare le revisioni statutarie che si potrebbero verificare all’inizio delle varie legislature regionali a seguito della naturale alternanza delle maggioranze politiche in seno al Consiglio. Tale timore di periodiche riforme statutarie ci sembra condivisibile, poiché la doppia approvazione a maggioranza assoluta non è una garanzia sufficiente, soprattutto alla luce della particolare predilezione che molte forze politiche sembrano nutrire per i sistemi elettorali di tipo maggioritario, e che, quindi, lascia presagire una scelta in questo senso abbastanza diffusa e generalizzata.

5.1.3. La potestà legislativa e regolamentare delle Regioni

Unitamente alla potestà statutaria è stata novellata anche la potestà legislativa mediante un significativo rafforzamento dei relativi contenuti materiali ed una ridefinizione dei relativi limiti.

Rispetto al previgente ordinamento costituzionale, infatti, la riforma ha operato un nuovo riparto della competenza legislativa generale, operando, così, un cambiamento ordinamentale che produce effetti sull’intero sistema delle fonti primarie nazionali, venendo ad incidere problematicamente sullo stesso art. 70 Cost., secondo il quale “la funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere”.

Tale effetto ordinamentale ha un duplice rilievo. Innanzitutto, esso produce la perdita, da parte dello Stato, della competenza legislativa generale ed ordinaria, a favore di una equiordinazione fra fonti legislative statali e regionali, che fa pensare ad un orientamento dottrinario risalente circa la loro riferibilità ad 'ordinamenti parziali' fra loro giustapposti. Tale tesi, tuttavia, appare meno convincente rispetto a quella della 'pluralità degli ordinamenti' (Santi Romano), in quanto non viola il principio unitario dell’ordinamento e risulta maggiormente coerente con un’interpretazione logica e sistematica della riforma regionale alla luce dell’art. 5 Cost.

Rispetto al regime previgente, un altro rilevante effetto ordinamentale, relativamente ai rapporti fra ordinamento interno ed ordinamento comunitario, è dato dalla costituzionalizzazione del processo di

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comunitarizzazione del sistema delle fonti, tanto statali quanto regionali, ora sottoposte agli stessi limiti dell’art. 117, I co., Cost.

Una conseguenza diretta di tale costituzionalizzazione è la ridefinizione costituzionale del ruolo delle Regioni nei confronti dell’Unione europea, con la valorizzazione ormai definitiva della fonte normativa regionale nella attuazione e nell’esecuzione degli atti normativi comunitari.

Per realizzare tali innovazioni nell’ordinamento delle fonti, lo strumento utilizzato dal legislatore di revisione è quello dell’inversione del riparto delle competenze legislative fra Stato e Regioni. Invero, non si tratta solo di una semplice inversione del riparto, dal momento che si è in presenza di una riallocazione della potestà legislativa generale, con la previsione di un sistema di limiti astrattamente identici per l’una e l’altra fonte legislativa.

La nuova ripartizione disciplinata nei primi quattro commi dell'art. 117 Cost. opera una distinzione tra tre tipologie di ambiti materiali di normazione legislativa.

La prima tipologia individuata dal II co. dell'art. 117 Cost. consiste nella potestà esclusiva dello Stato e si esercita su un ambito materiale tassativamente definito (lettere a-s).

La seconda tipologia è definita dalla stessa lettera del III co. come 'legislazione concorrente', secondo cui la potestà legislativa concorrente spetta alle Regioni "salvo che per la determinazione dei princìpi fondamentali riservata alla legislazione dello Stato".

La terza tipologia è definibile come potestà legislativa esclusiva (o residuale) delle Regioni, valendo nel relativo esercizio gli stessi limiti previsti per la legge statale.

La legge di revisione costituzione introduce, infine, un ulteriore ambito materiale di normazione legislativa regionale mediante il ricorso, da parte delle Regioni che ne esprimono la volontà, a procedure che consentano "ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia" nelle materie di potestà legislativa concorrente ed in talune bene identificate materie di potestà esclusiva dello Stato (art. 116, III co., Cost.).

La connessione esistente fra equiordinazione delle fonti legislative ordinarie (statali e regionali) e costituzionalizzazione della comunitarizzazione delle fonti medesime costituisce una tra le più importanti innovazioni in relazione al nuovo ruolo delle Regioni nei confronti dell’attuazione del diritto comunitario.

Tanto richiamato in materia di sistema delle fonti e di allocazione della potestà legislativa a livello regionale, s’impone ora almeno di richiamare le forme di disciplina costituzionale in materia di potestà regolamentare.

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Il nuovo riparto normativo opera un ridimensionamento della potestà regolamentare statale, limitandola – ai sensi dell’art. 117, VI co., Cost. – alle sole materie di competenza esclusiva e prevedendo una facoltà di delega alle Regioni nelle stesse materie.

La competenza regolamentare statale, incidendo su materie riguardate da riserva di legge statale, pone complesse questioni (interpretative ed attuative) tanto in sede di rapporto fra fonti relative alle materie trasversali (comunitarie, statali e regionali, ad es. in materia di ambiente, ecosistema, norme generali sull’istruzione, tutela della concorrenza, ecc.), tanto con riferimento alla stessa permanenza di apparati amministrativi statali in settori di competenza regionale (concorrente e residuale). E' da chiedersi, in tal senso, se dovrà prevalere il criterio di gerarchia o quello di competenza nella risoluzione di eventuali antinomie fra regolamenti statali e regolamenti regionali. Ciò anche in considerazione della nuova allocazione della competenza regolamentare in capo agli esecutivi regionali, che determina una valorizzazione di tale strumento normativo.

Pare ammissibile, in materia de qua, la ricostruzione dottrinaria che ipotizza la necessità di riservare in capo ai consigli regionali l'ambito regolamentare relativo agli ambiti materiali coperti da riserva assoluta di legge.

Un problema di ordine generale con riferimento alla tematica dei controlli preventivi, infine, è posto dall’asimmetria in tema di esercizio della potestà regolamentare (sia pure differenziata) di Regioni ed enti autonomi rispetto alla potestà regolamentare governativa, che rimane assoggettata ai controlli di legittimità di cui alla l. n. 400/1988.

Mentre per gli atti regolamentari governativi continuano a trovare applicazione le disposizioni costituzionali e legislative a tutela del principio di legalità e della riserva di legge, al contrario, il nuovo testo costituzionale ha lasciato senza copertura la materia dei controlli sui regolamenti regionali.

5.1.4. I limiti alla potestà legislativa regionale (in particolare in materia di contenuti essenziali dei diritti civili e sociali)

Rispetto all'innovato quadro costituzionale dell'articolazione della Repubblica, il legislatore di revisione costituzionale, come si è già detto, ha rimodulato implicitamente la stessa nozione di 'interesse nazionale' (di cui all'art. 117, I co., del previgente testo costituzionale), con la previsione di istituti di garanzia posti a tutela di beni costituzionali quali l’unità giuridica o economica, la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni in materia di diritti civili e sociali, l'incolumità e la sicurezza pubblica, nonché il rispetto degli

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obblighi di derivazione comunitaria e internazionale (art. 120, II co., Cost.). Tali disposizioni, infatti, esplicitano l’intento del legislatore di revisione di preservare l’interesse nazionale, rimodulandolo, e di garantire il principio fondamentale (art. 5 Cost.), secondo cui la Repubblica è “una ed indivisibile”.

A tal fine, nel riparto delle competenze, il novellato testo costituzionale ha assegnato alla competenza della legislazione esclusiva dello Stato "la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni in materia di diritti civili e sociali". Parimenti, ha previsto che le materie di legislazione concorrente (art. 117, III co., Cost.) conoscano il limite dei princìpi fondamentali, egualmente riservati alla legislazione dello Stato. Lo stesso limite, a ben vedere, si estende alla potestà legislativa esclusiva (o 'residuale') delle Regioni (art. 117, IV co., Cost.), secondo un criterio di interpretazione logico-sistematica, che rigetta l'esercizio delle competenze regionali ai sensi del IV co. senza l'applicazione alla stessa: a) degli stessi limiti di cui all'art. 117, I co., Cost. (rispetto della Costituzione, vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e degli obblighi internazionali), laddove il 'rispetto della Costituzione', sulla base di una interpretazione sistematica e per princìpi, deve intendersi come rispetto di tutti i princìpi fondamentali e delle disposizioni costituzionali in materia di diritti fondamentali; b) dei limiti alla legislazione regionale posti dalle esigenze di unità giuridica e politica e, pertanto, anche dei 'livelli essenziali delle prestazioni in materia di diritti civili e sociali', i quali, per dettato costituzionale, "devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale".

Diversamente da quanto previsto nel previgente ordinamento regionale, il novellato Tit. V Cost. prevede un rapporto esplicito e diretto fra il 'nuovo' regionalismo italiano e le novellate tecniche di disciplina dei diritti sociali e civili. Rispetto al testo del previgente art. 117 Cost., la nuova formulazione della disciplina prevede (e consente) ambiti competenziali in materie che hanno riflessi (non scevri di problematicità interpretative) sui diritti fondamentali, sia sociali che civili. La quantità e la qualità della nuova allocazione delle competenze a livello regionale è pienamente comparabile a quella operata nei sistemi federali (e perfino confederali, come quello elvetico), differenziandosene per le sole tecniche istituzionali dell’allocazione e della relativa legislazione attuativa e integrativa.

Nell’assegnare alla legislazione esclusiva dello Stato la “materia” – ma che, non di rado, a ben vedere, costituisce una funzione, come ha già ricordato la Corte cost. in due importanti sentenze (n. 282/2002 e n. 407/2002) – della “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali”, la novellata disposizione costituzionale si prefigge di assicurare – in modo esplicito – la garanzia del principio di

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eguaglianza di fronte alla legge “su tutto il territorio nazionale”, che è da intendersi, qui, soprattutto, come eguaglianza di fronte alla Costituzione.

Il legislatore di revisione, cioè, si muove in un quadro teorico-costitu-zionale nel quale assume come definitivamente superato il modello (giacobino) dell’uniformismo e del centralismo, al quale ha corrisposto, nella prassi, una legislazione regionale sostanzialmente omologa (legislazione ‘fotocopia’ e talora non sempre metaforicamente). Rispetto ad un simile orizzonte teleologico, si ponevano, come possibili, l’eventuale lesione del principio di eguaglianza dei cittadini (eguaglianza interpersonale) anche all’interno di ogni singola Regione e (soprattutto) la diseguaglianza con riferimento al luogo di residenza (eguaglianza interterritoriale).

Mentre rispetto alla prima situazione appariva sufficiente la previsione di cui all’art. 3, I co., Cost., potevano risultare senza copertura costituzionale le eventuali diseguaglianze interterritoriali, in considerazione della realtà socio-politica del Paese, tuttora caratterizzata da una persistente 'questione meridionale', e da un forte divario socio-economico fra Nord e Sud del Paese. E’ soprattutto rispetto a tale possibile diseguaglianza che costituisce garanzia del diritto di 'cittadinanza sociale' la richiamata previsione di cui alla lettera m), nonché la previsione dell'ulteriore limite costituito dai princìpi fondamentali riservati alla legislazione dello Stato.

Tuttavia, se alle possibili lesioni del principio di eguaglianza interpersonale ed interritoriale (anche in ragione delle previsioni di cui al novellato art. 116 Cost.) il legislatore di revisione costituzionale ha posto rimedio con le disposizioni di cui alla lettera m) dell’art. 117, II co., Cost., deve sottolinearsi come nella stessa ottica (di garanzia della ‘cittadinanza sociale’) operi l’intero sistema dei princìpi fondamentali (e fra questi in particolare il principio personalistico e solidaristico, di cui all’art. 2 Cost.) e delle disposizioni costituzionali in materia di diritti fondamentali, in quanto patrimonio costituzionale indisponibile alla stessa revisione costituzionale.

Nell’attuazione del principio di solidarietà, infatti, alla "Repubblica" (intesa come l'insieme di tutti i pubblici poteri, nazionali e territoriali) spetta di far valere, a titolo di solidarietà e di coesione sociale, tutte quelle garanzie che concorrono, con il principio di eguaglianza sostanziale, a superare le diseguaglianze originabili nel sistema economico e sociale, rimuovendone gli squilibri e favorendo l’effettivo esercizio dei diritti della persona.

Al legislatore (statale e regionale) ed al rimanente sistema autonomistico della Repubblica, nell’esercizio dei poteri normativi di cui sono attributari, e nel rispetto del principio di sussidiarietà e di leale collaborazione, compete di assicurare la tutela dell’unità giuridica e dell’unità economica ed in particolare la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, prescindendo dai confini territoriali dei governi locali (art.

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120, ult. co., Cost.), potendo lo Stato-Governo, in tal senso, sostituirsi agli organi delle Regioni, delle Città metropolitane, delle Province e dei Comuni nelle ipotesi normative fissate in Costituzione (art. 120, II co.) e nel rispetto delle procedure di legge relative a tale controllo sostitutorio.

Se ne conclude che, se pure la previsione di cui all’art. 117 Cost., II co., lettera m), in via di principio, poteva non apparire strettamente necessaria ai fini della tutela dei diritti fondamentali costituzionali – nel novellato ordinamento regionale e locale, infatti, trovano piena applicazione, come si è già ricordato, i princìpi fondamentali posti a tutela dell’unità e dell’indivisibilità della Repubblica e delle relative garanzie costituzionali – tale disposizione costituzionale trova la sua motivazione nell’esigenza di rendere esplicito che il quadro costituzionale dei princìpi fondamentali non ha registrato modifiche sostanziali.

In tale quadro, l’ordinamento costituzionale registra i soli limiti – ormai pienamente costituzionalizzati nell’art. 117, I co., Cost. – posti dal rispetto della Costituzione e dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali. Si tratta di una norma – quest’ultima – che esplicita, in modo meno precario di quanto non fosse consentito dalla vaghezza delle formule di cui all'art. 10 ma soprattutto all'art. 11 Cost., il vincolo della conformazione agli obblighi posti dal diritto internazionale e dal diritto comunitario. Si tratta – soprattutto nel caso di quest'ultimo – di un diritto nato per assicurare l’unità del mercato a livello europeo ed a tal fine la libertà di circolazione delle merci, delle persone e dei capitali, che, in prosieguo, si è aperto al riconoscimento dei princìpi di libertà, di democrazia, di rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, e dello Stato di diritto, in quanto princìpi e tradizioni costituzionali comuni agli stati membri (art. 6 TUE).

Tanto brevemente richiamato, può ora sottolinearsi come le questioni interpretative sollevate dall’art. 117 Cost, II co., lettera m) concernono non tanto – come si è detto – la ratio della disposizione citata quanto piuttosto i relativi contenuti, e quindi la tipologia dei diritti civili e sociali (categoria per la prima volta entrata nel lessico costituzionale), da garantirsi su tutto il territorio nazionale nei “livelli essenziali” delle relative prestazioni.

La legislazione concorrente nelle nuove materie di cui risulta attributaria – significativamente implementate rispetto al previgente art. 117 Cost. – e quella attribuita residualmente, cioé, dovrà esercitarsi – con le possibili differenziazioni di status delle Regioni – senza mettere in questione lo statuto della cittadinanza, che dovrà restare ‘nazionale’ e ‘sociale’, assicurando, in tal modo, da una parte, i livelli essenziali di prestazioni in materia di diritti civili e sociali e, dall’altra, l’inderogabilità dei doveri di solidarietà politica, economica e sociale tra i soggetti e le diverse aree del Paese.

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Nel suo fondarsi su una divaricazione 'innaturale' tra materie (e potestà/funzioni), da un lato, ed interessi, dall’altro, il riparto operato dal legislatore di revisione costituzionale appare complesso, confuso e perfino (forse) “ingenuo” nella sua “pretesa” di fermare il moto irreversibile degli interessi a base dell’ordinamento. Ancora una volta, così, saranno lo sforzo dell’interprete ed il giudice delle leggi a (dover) comporre in un quadro di compatibilità costituzionali le opzioni differenziate (nel tempo e nello spazio) del legislatore statale e di quello regionale. Fondamentale ai fini di tale ricomposizione (dottrinaria e giurisprudenziale), risulterà la previsione di cui alla lettera m) dell'art. 117, II co., Cost., dal momento che “la linea divisoria delle competenze, sottile come la lama di un rasoio, … (è) rappresentata dal (e ricostruedendosi tutta quanta attorno al) carattere essenziale delle prestazioni” (A. Ruggeri).

L’interpretazione dei contenuti materiali dell’art. 117 Cost. in materia di diritti (civili e sociali) rinvia, tuttavia, ad uno sguardo d’insieme, a letture fra loro fortemente differenziate, a seconda che prevalga o meno una direzione culturale ed istituzionale di discontinuità rispetto alla disciplina della materia nel previgente ordinamento.

La questione nasce dalla individuazione dei limiti cui risulta sottoposta la potestà legislativa regionale concorrente – alla cui soluzione provvede in modo esplicito il legislatore di revisione costituzionale quando limita tale potestà alla determinazione dei “princìpi fondamentali” con leggi dello Stato – ma soprattutto dalla questione circa l’estensibilità o meno di tale regime di vincoli alla stessa potestà legislativa residuale o esclusiva delle Regioni.

A tale fine, pare pienamente convincente quell’orientamento dottrinario che invoca la finalità garantistica di tutela del bene costituzionale dell’unità, ed in particolare la protezione delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali prescindendo dai confini territoriali dei governi locali, come titolo di legittimazione della potestà legislativa statale a giustificare l’eventuale intervento, oltre che attraverso princìpi fondamentali anche attraverso una specifica disciplina. In conclusione, siamo in presenza di un nuovo quadro costituzionale e legislativo, nel quale si apre per le Regioni un nuovo ambito regolativo e di garanzie in ordine alla materia dei diritti (civili e sociali) ma, al contempo, si conferma per lo Stato la competenza ad intervenire in tale disciplina regionale sia attraverso la statuizione di princìpi fondamentali della materia sia attraverso regole legislative.

Pur potendo la riforma costituzionale apparire come operante nel segno della sostanziale continuità, dunque, l’angolo di osservazione dei diritti civili e sociali dischiude un quadro ordinamentale autonomistico valorizzato nell’ambito dei suoi poteri e fra questi – diversamente da quanto era previsto nel previgente ordinamento – da ambiti normativi che si estendono alla stessa

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materia dei diritti civili e sociali. Tali poteri, tuttavia, conoscono un limite negativo nel loro esercizio, nel senso che le Regioni, sia nell’esercizio della potestà legislativa concorrente che in quella residuale/esclusiva, conoscono il limite della conformazione ai vincoli dei princìpi fondamentali e delle stesse regole legislative statali poste a garanzia dei beni fondamentali di cui alla lettera m) e all’art. 120, II co., Cost.

Tuttavia, è da dirsi che in materia sono state proposte interpretazioni fra loro contrapposte. In una prima (su cui torneremo per prenderne le distanze), l’essenzialità di cui alla lettera m) viene interpretata come “contenuto minimo essenziale” (I. Massa Pinto), e ciò attingendo alla giurisprudenza della Corte costituzionale che, secondo tale approccio, ne ricaverebbe la relativa formula per via interpretativa, quando il giudice delle leggi è chiamato a giudicare sulla ‘ragionevolezza’ dei bilanciamenti politici sottesi alla discrezionalità del legislatore. Conforterebbe una tale lettura lo stesso approccio comparatistico e comunitario nel quale si rinviene, come clausola generale, quella del “contenuto minimo essenziale” dei diritti fondamentali; è il caso, ad es., dell’art. 19 della LFB, dell’art. 53.1 della Costituzione spagnola, dell’art. 18.3 della Costituzione portoghese, dell’art. 52.1 della Carta europea dei diritti fondamentali.

Più motivata e convincente appare l’altra lettura, che, con interpretazione logico-sintattica e sistematica del novellato testo costituzionale, nella quale, accanto alle disposizioni della lettera m), colloca quelle dell’art. 119 Cost., V co., e dell’art. 120 Cost., II co., ed in linea con le più autorevoli interpretazioni della Costituzione, sottolinea l’irriducibilità (anche semantica) del termine “essenziale” a quello di “minimo”. Il termine “essenziale”, in questa ottica, va piuttosto letto come formula relazionale. Come si fa bene osservare, “il concetto di prestazione essenziale è un concetto relativo, cioè dipende dalla persona cui si dirige la prestazione e dipende anche dal tipo di situazione in cui ci si ritrova” (M. Luciani). Una conferma di tale interpretazione è rinvenibile nella considerazione secondo cui la natura dei “livelli essenziali delle prestazioni” non riguarda solo i diritti sociali ma include anche quelli civili, che, per consolidata dottrina – benché diritti che ‘costano’ – non possono conoscere una riduzione/degradazione dei relativi contenuti. In quanto diritti soggettivi – diritti attinenti allo status libertatis – essi si qualificano come diritto oggettivo e, pertanto, pongono obblighi e divieti ai pubblici poteri tali da assicurare al soggetto la pienezza della situazione giuridica protetta e la relativa giustiziabilità (nelle forme classiche della tutela risarcitoria).

D’altra parte, la disposizione costituzionale di cui all’art. 120 Cost., II co., nel suo farsi carico delle ricadute organizzativo-amministrative di tali prestazioni, che sono erogate, oltre che dallo Stato, dalle Regioni e dagli altri

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enti autonomi della Repubblica, e nell’individuare la tutela dei “livelli essenziali” delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali su tutto il territorio nazionale, conforta una lettura dell’‘essenzialità’ non ridotta al “contenuto minimo”, con ciò confermando una possibile, convincente, lettura di un non scomparso ‘interesse nazionale’, da ritenersi come vero e proprio titolo abilitativo statale ad intervenire su tutte le materie (ri-allocate ai sensi dell’art. 117 Cost.). Certo, come si è già ricordato, non siamo in presenza della stessa nozione di ‘interesse nazionale’ di cui al previgente ordinamento regionale, in quanto l’interesse ‘nazionale’ di cui ora trattasi è l’interesse tipizzato nelle sue fattispecie, anche se queste ultime, a loro volta, meritevoli di interpretazione.

Tuttavia, nel fondo, ed a conferma degli orientamenti appena richiamati, rimane che le chiavi di volta di questo difficile equilibrio stanno nel valore della solidarietà e negli strumenti della perequazione finanziaria.

Possiamo, così, concludere sottolineando come il rischio di uno “scivolamento verso il basso” dei contenuti della nuova disciplina delle prestazioni essenziali in materia di diritti civili e sociali, e con esso di un difficile limite da opporre all’“arbitrio delle maggioranze” nel tempo, può e deve essere superato attingendo sia alle più avanzate (e convincenti) interpretazioni della Costituzione, magis ut valeat, sia ad una giurisprudenza costituzionale che, nelle tecniche giurisdizionali fin qui utilizzate, ha saputo dare prova di equilibrio (ma anche di prudenza) nel bilanciamento dei beni costituzionali di volta in volta coinvolti nel processo costituzionale, comprensivo sia della necessaria gradualità nell'attuazione legislativa, sia dello stesso rispetto della discrezionalità del legislatore.

Né, d’altronde, potrebbe essere altrimenti in uno Stato caratterizzato da una Costituzione rigida, nel quale la materia dei ‘contenuti essenziali’ si ricollega in modo stretto ed indissolubile a quella dei princìpi supremi e dei diritti inviolabili dell’uomo, come la giurisprudenza (soprattutto sent. Corte cost. n. 1146/1988) e la dottrina costituzionale concordemente assumono quando richiamano la sottrazione della relativa disciplina costituzionale allo stesso potere di revisione costituzionale. La questione, così richiamata sia pure nei suoi termini essenziali, non pone problemi interpretativi quando si faccia riferimento al ‘contenuto essenziale’ dei diritti di libertà, che, qualificandosi, necessariamente come “diritti fra diritti” e pertanto non come concetti assoluti, non può essere predeterminato a priori ma solo ex post, in ragione dello scrutinio costituzionale della irragionevolezza delle disposizioni legislative eventualmente limitatrici.

La questione, al contrario, resta posta con riferimento alla delicata e complessa questione dell’individuazione del ‘contenuto essenziale’ dei diritti sociali, per la cui giuridica esistenza si richiede come condizione necessaria

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l’interpositio legislatoris e l’adozione di misure organizzative necessarie alla relativa implementazione.

Pur nel rispetto del principio di gradualità e del bilanciamento con altri beni o interessi costituzionali, è ragionevole chiedersi se la garanzia costituzionale riguardi il ‘contenuto essenziale’ dei diritti con riferimento alla mera esistenza degli stesso, oppure, in senso contrario, se tale tutela non debba anche estendersi anche al quantum dei diritti medesimi. Lo scrutinio della copiosa giurisprudenza costituzionale fa propendere per la prima soluzione, limitandosi tale controllo costituzionale a non mettere in questione la necessaria discrezionalità del legislatore nel dare attuazione ai princìpi ed ai diritti fondamentali; è vero, tuttavia, che tale discrezionalità conosce il limite della “riserva del ragionevole e del possibile” (A. Baldassarre), per cui, come osserva la stessa Corte, “la determinazione legislativa di ciò che ha da essere l’indennizzo equo (e noi possiamo intendere come contenuto essenziale del diritto) potrebbe essere oggetto di censura in sede di giudizio di legittimità costituzionale solo in quanto risultasse tanto esiguo da vanificare, riducendolo ad un nome privo di concreto contenuto, il diritto all’indennizzo stesso” (sent. Corte cost. n. 27/1998). Se ne può trarre la conclusione, non certo esaltante per lo orientamento sviluppato in questo paragrafo, che la stessa giurisprudenza costituzionale in materia di contenuto essenziale dei diritti sociali non sempre pare assicurare una tutela più salda e stabile di quanto non riesca a fare con le sue scelte politiche il legislatore (un tempo solo statale, oggi anche regionale).

Ma – per riprendere il ragionamento sviluppato in precedenza – se la Costituzione, come sappiamo, è un insieme di valori articolati e positivizzati in princìpi fondamentali ed in disposizioni di protezione, è ad una lettura/interpretazione necessariamente “per princìpi” e non solo “per regole” che l’interprete, ed a fortiori il giudice delle leggi, deve ricorrere se non vuole disattendere il mandato costituzionale cui lo stesso è chiamato nel rendere vivente un patrimonio costituzionale di garanzie, che, pur diffondendosi in un’eterogeneità di disposizioni, solo attraverso una interpretazione sistematica ed evolutiva può conoscere la sua piena ricostruzione e con essa la relativa vigenza, in una parola, la 'Costituzione vivente' (G. Zagrebelsky).

Tale orientamento, come si può cogliere, assegna all’interprete (dottrina e giudice costituzionale) un vero e proprio ruolo di garante dei contenuti essenziali dei diritti fondamentali, intesi non come astratte categorie metafisiche ma come il “prodotto di una congerie di atteggiamenti pratici rispetto a criteri di condotta” (G. Zagrebelsky), cioè come risultato di una lettura stratificata e consolidata della Costituzione, ponendo in tal modo un paletto verso il basso nell’individuazione del ‘contenuto essenziale’ dei diritti. Un paletto che – nel rispetto di princìpi e disposizioni inviolabili (e pertanto

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inderogabili) – deve valere tanto per il legislatore (statale e regionale) nella sua discrezionalità politica, tanto per il giudice costituzionale nel bilanciamento secondo ragionevolezza.

5.1.5. Prospettive (ulteriori e problematiche) della riforma della riforma: la c.d. devolution all'italiana

La revisione del Tit. V non risulta compiuta se si riflette che il Governo ha approvato due successivi progetti di (ulteriore) revisione del Tit. V Cost. Il primo di tale progetti di legge costituzionale, a cui è limitata questa riflessione (non apparendo ancora chiara e definitiva la volontà della maggioranza parlamentare nel confermare le linee progettuali di una ulteriore riforma rispetto a quella c.d devolution proposta dal Ministro Bossi), consiste nella integrazione, all'interno dell'art. 117 Cost., di una nuova disposizione attributiva di competenze esclusive alle Regioni (in materia di sanità, istruzione e di polizia locale).

Una nuova, breve, premessa appare utile all'analisi che svolgeremo. Ancorché nella pubblicistica corrente, in Italia, si tende a definire il processo di riforme con il termine di federalismo, occorre ribadire che il regionalismo italiano dopo le riforme costituzionali non è di tipo federalistico, perché di quest’ultimo modello non ha i profili strutturali né la legittimazione (sovranità degli Stati membri). Da un punto di vista tecnico-formale, pertanto, il modello di Stato disegnato dai revisori costituzionali non è federalistico, né in verità tale si autodefinisce. Per parlarsi veramente di federalismo, saremmo dovuti essere in presenza di altrettanti Stati sovrani (Stati membri, Laender) e di una seconda Camera con funzioni di rappresentanza istituzionale delle Regioni/Stati e di partecipazione di questi stessi alla revisione costituzionale. Al contrario, il modello accolto guarda ad un regionalismo forte, valorizzato in particolare nelle competenze concorrenti delle Regioni, con la previsione di un criterio di residualità per la competenza legislativa regionale, nonché di un'ampia potestà normativa e statutaria concernente l’organizzazione politica dell’ente (che esclude, come si è detto, la sola forma presidenziale, in presenza della previsione della mozione di sfiducia all’esecutivo da parte del legislativo, che è criterio strutturalmente identificativo delle forme di governo parlamentari).

In tale quadro normativo generale, una parte della dottrina italiana si interroga sui rapporti fra nuovo (e più rafforzato) decentramento territoriale dei poteri e principio di eguaglianza dei cittadini (intesa, in particolare, come eguaglianza interpersonale ed interterritoriale). Ciò rileva, in Italia, con particolare riferimento ad una non risolta questione meridionale e, più in generale, ad un regionalismo caratterizzato da Regioni (economicamente e

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fiscalmente) deboli – le Regioni del Sud – e Regioni ricche – le Regioni del Centro-Nord del Paese –. Peraltro, occorre ricordare che nel testo di revisione costituzionale scompare una disposizione prevista nel previgente articolo 119, III co., Cost., volta particolarmente a “valorizzare il Mezzogiorno e le Isole” mediante contributi speciali fissati con legge dello Stato. In sostituzione, il novellato testo costituzionale (art. 119, V co., Cost.), continua a prevedere “interventi speciali in favore di determinati Comuni … Regioni” per favorire finalità di sviluppo economico, di coesione e di solidarietà sociale. Il significato della riforma appare, dunque, principalmente “simbolico”; scompare il Mezzogiorno, assumendosi la necessarietà di un intervento pubblico a fronte di una generica disposizione costituzionale nella quale, alla previgente chiarezza semiologia dei termini “Mezzogiorno e Isole”, si sostituisce un anodino e anonimo “in favore di determinati Comuni … Regioni”. Ma, se già il vigente testo trascura, ut sic, “Mezzogiorno e Isole”, la questione appare più problematica sol che ci interroghiamo sugli effetti applicativi della disposizione di revisione costituzionale prevista nel progetto di legge cost. c.d. Bossi.

La devolution del disegno di legge di revisione costituzionale del 2002, colta (dalla componente leghista della attuale maggioranza parlamentare) come una ulteriore tappa del cammino verso un federalismo autentico, si attesta su livelli decisamente diversi rispetto al processo devolutivo recentemente attuato in Gran Bretagna. Aggiungendo un ulteriore comma all'art. 117 Cost., il pdl cost., difatti, conferisce alle Regioni, per via costituzionale e non legislativa, competenze legislative esclusive in alcune materie, ritenute, dai promotori di questo progetto, fondamentali per i rapporti tra i poteri pubblici ed i cittadini. La trasformazione della competenza legislativa regionale da concorrente in esclusiva produce, così, l'effetto di sopprimere, nelle materie indicate dal IV co. dell'art. 117 Cost., il limite dei princìpi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato, limite che, ancora oggi, continua, come si è detto in precedenza, a presiedere l'esercizio della potestà legislativa regionale nelle materie in questione.

Se, quindi, il legislatore regionale acquisisce, con la devolution, competenze legislative svincolate dal limite dei princìpi fondamentali, è importante altresì sottolineare che tale acquisizione è subordinata ad una preventiva azione di "attivazione" che deve essere esperita dalle Regioni. Ne deriva un processo "ascendente", un processo che parte dal basso, in quanto tale, profondamente diverso dalla devolution britannica, nella quale le competenze sono trasferite dal centro alla periferia. La devolution 'all'italiana', che emerge dagli interventi in Parlamento del Ministro Bossi e dalla relazione che accompagna il disegno di legge, presenta, insomma, tratti propri e caratteristiche specifiche che appaiono ancora più evidenti se si guarda al contesto politico-costituzionale in cui il progetto di riforma va ad inscriversi:

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contesto in cui la Costituzione cessa di essere vista e vissuta come la "Costituzione di tutti"; la sua revisione se, da un lato, diventa il terreno di scontro politico fra forze di governo e di opposizione, dall'altro, si realizza, nella maggior parte dei casi, attraverso maggioranze estremamente risicate.

Il progetto di devoluzione ora in discussione, difatti, oltre ad essere presentato in contrapposizione alla riforma del Titolo V (realizzata nella precedente legislatura) con l'intento di realizzare il federalismo disatteso dalla 1. cost. n. 3/2001, non solo non è supportato dal consenso del mondo delle autonomie locali ma non gode neppure di quello delle autonomie regionali, se si fa eccezione, sia pure con alcune riserve, per le regioni con maggioranze politiche di centro-destra. Al di là delle riflessioni sulle nuove logiche che sottendono le revisioni della Costituzione - sotto il profilo del carattere di auto-attribuzione delle competenze, nonché del carattere esclusivo delle competenze e delle materie interessate - il pdl cost. in esame spinge, in conclusione, ad interrogarsi se esso sia, per richiamare una efficace espressione di L. Vandelli, "una bolla di sapone oppure una bomba che rischia di far esplodere la forma di Stato italiana" delineata dalla Carta fondamentale della Repubblica.

Analizzando il disegno di legge sulla devolution a partire dal carattere di auto-attribuzione delle competenze ("le regioni attivano la competenza legislativa esclusiva per le seguenti materie..."), non può non rilevarsi come l'auto-attribuzione o la mancata auto-attribuzione da parte delle Regioni della competenza esclusiva in alcune materie determina, con il grado della loro autonomia, anche un processo di differenziazione tra le regioni omologabile, secondo i promotori di questo disegno, al caso spagnolo. In realtà, la devolution italiana è lungi dal riproporre il riparto di competenze tra Stato e comunità autonome realizzato in Spagna e configura un'esperienza del tutto nuova nel panorama del costituzionalismo contemporaneo. A differenza di quanto avviene in Spagna, dove la de-costituzionalizzazione del riparto delle competenze ha rimesso la disciplina di alcune materie agli statuti di autonomia delle comunità autonome, vale a dire a delle leggi organiche approvate dal Parlamento, nella devolution italiana manca, infatti, di un punto d'incontro tra la volontà della Regione e quella dello Stato.

Se è chiaro che non si trovano nel diritto comparato altre esperienze di auto-attribuzione come quella prevista nel pdl sulla devolution, non altrettanto chiara è, tuttavia, l'esatta portata del processo di attivazione che le Regioni sono chiamate ad effettuare. In altri termini, ci si chiede se il contenuto della proposta preveda che Regioni "debbano" o solo "possano" attivare la competenza legislativa esclusiva. E' evidente che a seconda dell'interpretazione che se ne darà si determineranno spinte verso l'uniformità o spinte verso la differenziazione.

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L'attivazione delle competenze da parte delle Regioni, sia essa facoltativa od obbligatoria, si rivela strettamente connessa alla valenza attribuita all'"esclusività" delle competenze che le Regioni vanno ad acquisire. Tale esclusività, difatti, se, da un canto, svincola il legislatore regionale dai princìpi fondamentali della materia, dall'altro, continua a sottoporlo ai vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali e, ovviamente, dal limite del rispetto della Costituzione; un limite, quest'ultimo, che non si esaurisce nel rispetto della sua parte prima e che si lega a quel II co. dell'art. 117 Cost., che riserva allo Stato competenze legislative esclusive in tutta una serie di materie ed àmbiti (che, come rilevato dalla stessa Corte costituzionale, interferendo con le competenze regionali e determinando, quindi, sovrapposizioni di fonti normative che impongono raccordi e procedimenti, vanno dalla 'determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali' e dall'ordinamento civile e penale, alla tutela dell'ambiente ed a quello della concorrenza).

E' evidente, insomma, che l'attivazione delle competenze legislative di tipo esclusivo da parte delle Regioni libera le stesse solo e soltanto dal limite dei princìpi fondamentali della materia, con la conseguenza che la competenza legislativa regionale ex art. 117 Cost., IV co., Cost., è del tutto simile a quella derivante dal II co. dell'art.117 Cost. La devolution all'italiana si risolverebbe, in questa ipotesi, in una bolla di sapone, "bolla di sapone", tuttavia, destinata a trasformarsi in "bomba" qualora la competenza legislativa esclusiva delle Regioni nelle materie di cui al IV co. dell'art. 117 Cost. venga intesa come un tertium genus che va ad affiancarsi a quella concorrente ed a quella residuale. In questo caso, è evidente che i limiti trasversali del II co. dell'art. 117 sono destinati a soccombere, con effetti dirompenti sulla forma di Stato delineata dalla Costituzione della Repubblica.

Anche sul versante delle materie interessate dalla devolution (assistenza e organizzazione sanitaria; organizzazione scolastica, gestione degli istituti scolastici e di formazione, salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche; definizione della parte dei programmi scolastici e formativi di interesse specifico della Regione; polizia locale), numerosi sono gli spunti di riflessione e di problematicità. Al di là delle questioni interpretative, il dato più significativo della devolution all'italiana si colloca però nel rapporto tra questo progetto di revisione costituzionale e l'art. 119 Cost. il quale, al suo III co., stabilisce che "le risorse derivanti dalle fonti di cui ai commi precedenti consentono ai Comuni, alle Province, alle Città metropolitane e alle regioni di finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite". In questo rapporto è possibile individuare il vero elemento di asimmetria insito nel disegno devolutivo di cui si tratta, visto che – proprio sulla base del comma III dell'art. 119 Cost. che non prevede l'intervento di fondi statali – non tutte le Regioni disporranno delle risorse per attivare tali competenze. Così, se

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alcune Regioni attivano quelle competenze avendo le risorse per farlo, altre, che non ne dispongono, continueranno a rimanere nel vecchio sistema. Fino a che punto lo Stato sarà in grado di garantire l'esistenza in vita di un simile sistema asimmetrico, attraverso quali risorse, resta un problema aperto.

E pertanto un primo possibile scenario è quello di una possibile asimmetria nelle prestazioni assicurate dallo Stato sociale per le sole Regioni che godono di autonomia fiscale (in Italia sono solo quattro). Per le altre Regioni, le garanzie dello Stato sociale (soprattutto istruzione e salute) sono solo quelle assicurate dalla competenza legislativa statale che, avendo natura trasversale (come ha già ricordato la Corte nelle sentenze n. 282 e n. 407 del 2002), si estendono anche alle competenze regionali, sia quelle concorrenti (III co.), sia quelle residuali (IV co.), sia quelle esclusive (V co.) che saranno introdotte nel testo costituzionale qualora il progetto di legge costituzionale (c.d. Bossi) venga approvato.

Come si vede dall’analisi ancorché essenziale del quadro normativo (in questa sede per non complicare ulteriormente omettiamo di parlare del regionalismo asimmetrico previsto ai sensi dell’articolo 116, III co., Cost.), non manca materia di riflessione per un’idea di cittadinanza attiva e avvertita che si interroghi sulle più recenti ed inopinate utilizzazioni partigiane della Costituzione.

5.2. Fonti locali

Il nuovo quadro normativo, con riferimento alle autonomie locali, non modifica l’assetto formale dei poteri normativi di cui gli stessi sono titolari. Rispetto al previgente art. 128 Cost., l’art. 114, II co., Cost. assicura la diretta garanzia costituzionale della potestà statutaria di tutti gli enti autonomi. Nell’art. 117, VI co., Cost., inoltre, si garantisce agli enti locali la potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite.

Lo statuto degli enti locali conserva la sua natura giuridica di atto amministrativo generale; tuttavia, esso non trova più la sua fonte di legittimazione in una legge generale della Repubblica, che ne fissa i principi, bensì direttamente in Costituzione.

Il TUEL (Testo unico degli enti locali, adottato con dlgs n. 267/2000), nelle parti non attinenti alla disciplina delle materie di competenza esclusiva statale di cui all’art. 117, II c., lettera p), Cost., deve ritenersi viziato da incostituzionalità sopravvenuta, non rientrando nella competenza statale di intervenire in materia di ordinamento degli enti locali. Lo stesso TUEL, tuttavia, conserva una sua validità con riferimento alla legge regionale

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competente a disciplinare le parti dell’ordinamento locale che non rientrino nell’ambito della lettera p) dell’art. 117, II co., Cost.. Tale legge regionale, dunque, non potrà che assumere la natura di mera legge di princìpi.

Altro è affermare che, in assenza di una nuova disciplina sulla base della legge statale (attuativa della competenza esclusiva di cui all’art. 117, II co. lettera p), Cost. o della legge regionale di principio), il TUEL sia qui e subito riguardato da effetto abrogativo con la conseguenza di un’illegitimità costituzionale sopravvenuta che ne pregiudicherebbe la vigenza. Valgano in generale per risolvere tali possibili antinomie i generali criteri della successione delle leggi nel tempo e della forza abrogativa, che opera solo fra fonti pariordinate. Ne segue, pertanto che, per il generale principio dell’autocompletamento dell’ordinamento giuridico, solo una eventuale sentenza di accoglimento della Corte costituzionale, che ne sancisca l’incostituzionalità, o l’intervento del legislatore, rispettivamente nazionale e regionale, ognuno nell’ambito di sua competenza, può determinare l’effetto caducativo di una simile disciplina, come di tutte le altre che siano riguardate dalla nuova ripartizione delle competenze fra Stato e Regioni.

Tanto richiamato circa la natura e la forza giuridica dello statuto degli enti locali alla luce del novellato art. 114, II co., Cost. e della abrogazione dell’art. 128 Cost, s’impone ora di riflettere sulla seconda potestà normativa riconosciuta agli enti locali dall’art. 117, VI co., Cost., nella parte in cui prevede che “i Comuni, le Province e le Città metropolitane hanno potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite”. La disposizione ha effetti su di un insieme di rapporti fra fonti: quello fra regolamenti locali e statuti locali, quello fra regolamenti locali e legge regionale, quello fra regolamenti locali e potestà regolamentare regionale, quello fra regolamenti locali e legge statale, ed infine quello fra regolamenti statali e regolamenti regionali.

Quanto al primo rapporto, dalla revisione costituzionale non derivano cambiamenti sostanziali tali da modificare la natura dei regolamenti locali. Nella loro natura di atti amministrativi generali, essi sono subordinati allo statuto, che è competente, nell’ambito della materia allo stesso residuato dalla legge statale (di cui alla lettera p dell’art. 117, II co., Cost.) ed alle eventuali leggi regionali (di cui all’art. 117 Cost., IV co., Cost.), a fissare le modalità di organizzazione dell’ente medesimo, in particolare nei suoi rapporti fra organi.

Egualmente agevole appare la lettura dei rapporti fra regolamenti locali e legge statale, assunto che quest’ultima gode di una competenza esclusiva nella disciplina delle materie concernenti sia la legislazione elettorale, sia gli organi di governo, sia le funzioni fondamentali degli enti locali.

Un profilo di discontinuità rispetto all’ordinamento previgente concerne i rapporti fra regolamenti locali e legge regionale. Il previgente ordinamento

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assegnava all’esclusiva competenza della legge statale l’intera disciplina dell’ordinamento delle autonomie locali. Tale legge, per assicurarne la autonomia, si qualificava come mera legge di princìpi, rimanendo esclusa alla stessa ogni disciplina di dettaglio, la cui competenza ricadeva nella materia statutaria. Il nuovo riparto normativo disegnato dalla revisione costituzionale capovolge tale assetto, residuando alla legge statale, come si è già detto, i soli ambiti materiali di cui alla lettera p) dell’art. 117, II co., Cost..

Ne consegue, pertanto, che in ordine a tutte le altre componenti dello ordinamento locale (ad es. regime dei controlli, forme associative, ecc.) è innovativamente ‘riconosciuta’ una competenza regionale di tipo residuale (sia legislativa che regolamentare), atteso che in sede di legislazione concorrente manca ogni riferimento competenziale alla materia dell’ordinamento locale.

I problemi di rapporto e di garanzia degli ambiti normativi costituzionalmente assegnati, rispettivamente, alla potestà regolamentare delle Regioni e degli enti locali, si pongono con riferimento alla sussistenza di una competenza regolamentare regionale nella materia dello svolgimento delle funzioni ‘attribuite’ degli enti locali. In altri termini, a fronte della potestà regolamentare generale (residuale) delle Regioni, pare doversi individuare lo specifico ambito materiale di competenza regolamentare locale, ai sensi del VI co. dell’art. 117 Cost., nella “organizzazione e (nel)lo svolgimento delle funzioni loro attribuite”, da intendersi come limitate al rilievo organizzatorio e funzionale interno all’ente medesimo, ed in particolare con riferimento ai rapporti interni fra organi, fra uffici e con la popolazione. Al contrario, in riferimento ai rapporti esterni dell’ente, relativamente dunque ai rapporti inter-istituzionali, alla competenza statale può subentrare la competenza regolamentare della Regione limitatamente alle materie di propria competenza.

Un’ultima conseguenza della riforma è da individuarsi nella limitazione della potestà legislativa regionale ai soli princìpi relativi allo svolgimento delle funzioni proprie (‘legge leggera’ o limitata “ai sommi princìpi”). Di conseguenza, rimane preclusa alla stessa ogni possibilità di disciplina di dettaglio, pena l’incostituzionalità per lesione della sfera di autonomia locale.

Questione del tutto particolare è la vexata quaestio delle funzioni degli enti locali ‘fondamentali’, ‘proprie’, ‘attribuite’ e ‘conferite’ sulla base della lettera del nuovo testo costituzionale, con riferimento all’ambito materiale di normazione locale. L’art. 118 Cost, letto in combinato con l’art. 117, II co., lett. p) Cost. e con l’art. 117, VI co., Cost., origina importanti problemi interpretativi che impongono tanto uno sforzo ricostruttivo della dottrina, tanto una vera e propria negoziazione fra centro e periferia, tanto, ed infine, una chiarificatrice giurisprudenza costituzionale, che, tuttavia, rischia di

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dover 'riscrivere' la stessa riforma costituzionale con riferimento alla spettanza delle funzioni amministrative.

Le interpretazioni prevalenti delle funzioni ‘fondamentali’ degli enti locali si basano su una possibile equazione fra funzioni ‘fondamentali’ e funzioni ‘proprie’. La dottrina ha notato come tale equazione assegna alla legge statale la determinazione di tali funzioni, spettando alla legge regionale la assegnazione delle sole funzioni ‘conferite’. Tale orientamento, tuttavia, non trova il conforto dell’art. 118, II co., Cost., che identifica la competenza legislativa in materia di funzioni ‘conferite’ tanto alla legge statale quanto a quella regionale. Rispetto a tale ipotesi ricostruttiva, più conforme al dato positivo costituzionale appare la lettura che vede nelle funzioni “fondamentali” quelle caratterizzate dalla indefettibilità, a sua volta debitrice della caratterizzazione storica e funzionale degli enti locali, ed ascrivibili a “ponderate scelte di politica legislativa” (per come storicamente consolidate, evolute e modificate nel tempo). La questione, come si vede, rileva soprattutto in ragione del fatto che le diverse, possibili, letture che si daranno delle funzioni “fondamentali” da parte del legislatore statale sono tali, nel fondo, da portare ad un ridimensionamento sostanziale dell’ambito di potestà legislativa regionale, costituendo una sorta di ‘titolo abilitativo trasversale’ di interferenza e di condizionamento della stessa. Alcune leggi appaiono necessarie in tal senso per dare compiuta attuazione alla riforma costituzionale: a) la legge di trasferimento delle funzioni statali ai sensi dell’art. 118 Cost. (nel rispetto della riserva di legge di cui all’VIII Dispos. Trans. e Fin. della Costituzione), b) la legge sulle procedure di partecipazione delle Regioni alla formazione degli atti normativi comunitari, c) la legge sulla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, d) la legge di attuazione dell’autonomia finanziaria, con fissazione dei princìpi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario e l’istituzione del fondo perequativo, e) la legge sulle procedure relative ai poteri sostitutivi governativi, nel rispetto dei principi di sussidiarietà e di leale collaborazione, f) la modifica, infine, dei regolamenti parlamentari, con l’attuazione delle disposizioni di cui all’art. 11 della l. cost. 3/2001 in materia di integrazione della Commissione parlamentare per le questioni regionali con i rappresentati delle Regioni e delle autonomie locali.

5.3. L’autonomia finanziaria delle autonomie territoriali

Il nuovo regime dell’autonomia finanziaria territoriale pone significative problematiche interpretative con riferimento al rapporto tra il nuovo modello di decentramento istituzionale ed i princìpi fondamentali dell’ordinamento costituzionale, con particolare riguardo al principio di uguaglianza formale e

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sostanziale ed al principio di solidarietà “interpersonale” ed “interterritoriale”. In tale ambito, la realizzazione effettiva del nuovo regionalismo e la garanzia dell’eguale posizione costituzionale dei soggetti in materia di diritti (e di servizi), dipendono, in misura rilevante, dal modello di finanziamento delle autonomie regionali e locali concretamente realizzato sulla base dei princìpi posti dal nuovo art. 119 Cost..

La 'Costituzione finanziaria' non definisce puntualmente le relazioni finanziarie tra i diversi livelli di governo, limitandosi a regolarli in via di principio, e riservando alla legislazione statale la relativa disciplina di attuazione. In altri termini, la mancata definizione del peso di ciascuna fonte di entrata regionale rende elastico il modello costituzionale dei rapporti finanziari intergovernativi. Ne consegue che parametri costituzionali tanto generali assegnano al legislatore statale una funzione ampiamente discrezionale.

L'art. 119 costituzionalizza il principio della territorialità dell’imposta; pertanto, ciascuna Regione – come ogni altro ente autonomo della Repubblica – finanzia integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite con risorse proprie, ovvero per mezzo di tributi propri, di compartecipazioni al gettito di tributi erariali e mediante un meccanismo di correzione volto a perequare le differenti capacità fiscali interterritoriali (delle Regioni e degli enti autonomi della Repubblica).

Gli effetti redistributivi del disegno costituzionale di finanza regionale suscitano interrogativi, posto che, pur prevedendosi meccanismi perequativi (indefiniti nell’entità e nel peso specifico), non è assente un possibile rischio di ulteriore polarizzazione tra aree territoriali ‘ricche’ e ‘povere’, che può incrementare il grado di diseguaglianza interterritoriale e interpersonale.

Il nuovo testo dell’art. 119 Cost. prevede l’attribuzione dell’autonomia finanziaria di entrata e di spesa ai Comuni, alle Province, alle Città metropolitane ed alle Regioni (I co.), i quali “stabiliscono e applicano tributi ed entrate propri, in armonia con la Costituzione e secondo i principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario”; dispongono, altresì, di “compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibili al loro territorio” (II co.). Accanto a tali flussi si prevede, inoltre, l’istituzione di “un fondo perequativo senza vincoli di destinazione, per i territori con minore capacità fiscale per abitante” (III co.). Con tale disposizione di chiusura, si stabilisce che i flussi finanziari derivanti da risorse autonome (tributi propri e compartecipazioni) e dal fondo perequativo consentono alle autonomie territoriali di “finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite” (IV co.). A tali previsioni generali si affiancano assegnazioni complementari per cui “lo Stato destina risorse aggiuntive ed effettua interventi speciali” in favore di determinati enti territoriali, finalizzati a “promuovere lo sviluppo

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economico, la coesione e la solidarietà sociale, per rimuovere gli squilibri economici e sociali, per favorire l’effettivo esercizio dei diritti della persona, o per provvedere a scopi diversi dal normale esercizio delle loro funzioni” (V co.).

Rispetto alla previgente formulazione costituzionale s’inverano significative implicazioni costituzionali. In primo luogo, si rileva la volontà del legislatore di riforma di ampliare la sfera della potestà legislativa tributaria regionale, seppure nell’ambito dei princìpi generali posti dalla legislazione statale nelle materie del coordinamento finanziario e del sistema tributario, e comunque nella considerazione dell’autonomia riconosciuta agli altri enti territoriali. Peraltro, in base al III co. dell'art. 117 Cost., il coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario, unitamente all’armonizzazione dei bilanci pubblici, rientrano nell’ambito materiale oggetto di potestà legislativa concorrente; la potestà legislativa relativa a tale materia deve, pertanto, conformarsi alla Costituzione e rispettare i vincoli posti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali (art. 117, I co., Cost.).

Dal combinato disposto di tali disposizioni discende un duplice ordine di considerazioni che attengono, per un verso, alla potestà tributaria delle Regioni e, per altro, agli obblighi di natura sovranazionale. Riguardo al primo, si prospetta un problema connesso alla definizione del grado e dell’intensità della potestà legislativa regionale in materia finanziaria con riguardo al profilo tributario/impositivo, e dunque relativamente agli spazi di autonomia per determinare i tributi locali.

Deve rilevarsi, da un lato, che l’ambito materiale concernente il “sistema tributario e contabile dello Stato” è riservato alla competenza legislativa esclusiva statale (art. 117, II co., lett. e, penultimo periodo, Cost.), a conferma del carattere unitario dell’ordinamento tributario (art. 53); dall’altro, che la materia del “coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario”, come sancito dal III co. dell’art. 117 Cost., rientra nella competenza concorrente. In tal senso, si può prevedere un coinvolgimento dei livelli di governo territoriale alle decisioni legislative nazionali.

In definitiva, il profilo tributario dell’autonomia regionale deve, comunque, informarsi al principio generale dell’unità dell’ordinamento ed ai princìpi stabiliti con legge statale in ordine alla configurazione dei tributi (in base alle riserve di legge di cui agli artt. 2, 23 e 53 Cost.), mentre alle Regioni, oltre al concorso nelle decisioni politico-legislative, spetta il disegno di un “sistema tributario” – da definire con legge regionale –, ovvero di “stabilire e applicare tributi ed entrate propri”.

Con riferimento al principio della comunitarizzazione della Costituzione, si deduce che le politiche di bilancio, quelle monetarie, del debito pubblico e

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fiscali devono conformarsi ai princìpi ed alle regole dell’Unione Europea, posti a base delle modalità di raccolta delle risorse finanziarie, come anche della spesa e dei relativi controlli finalizzati a preservare l’equilibrio finanziario complessivo.

Pertanto, per le richiamate materie, l’esercizio della potestà legislativa statale-regionale risulta condizionata dal vincolo comunitario. Pare evidente che l’autonomia finanziaria degli enti autonomi, di cui all’art. 119, I co., Cost., deve conformarsi ai vincoli della normativa comunitaria.

Inoltre, con la previsione di compartecipazioni al gettito di 'indeterminati' tributi erariali riferibili al loro territorio s’introduce una regionalizzazione dell’imposta di riferimento, con la quale si prevede che il gettito tributario complessivo deve prima essere ripartito su base regionale e poi assegnato – data l’aliquota di compartecipazione – alle singole Regioni ed enti locali. Con tale disposizione, si assicura certezza e sufficienza finanziaria alle aree territoriali connotate da elevate capacità fiscali; di converso, con la locuzione “riferibile al loro territorio” prende corpo la maggiore innovazione della riforma in quanto indica come ripartire il gettito di un tributo statale tra le Regioni. Tale espressione, pertanto, concorre ad esprimere il nuovo sistema di relazioni finanziarie tra centro e periferia, in breve, il modello di finanziamento dei governi territoriali, fondandosi sul principio secondo cui le risorse derivanti dalle compartecipazioni al gettito di tributi erariali affluiscono alle Regioni al cui territorio il gettito è riferibile.

Tale ultima indicazione concorre ad individuare le struttura perequativa, nonché ad adattare i princìpi posti dall’art. 119 Cost. ai diversi regimi di competenza regionale e al relativo finanziamento.

A tale disposizione si affianca l’istituzione, con legge statale, di un “fondo di perequazione, senza vincoli di destinazione” (III co.) per alcune autonomie territoriali, sulla base dell’esclusivo criterio rappresentato dalla “minore capacità fiscale per abitante”, senza definire ulteriori criteri che meglio definirebbero il costo dei servizi.

Altresì, per finalità costituzionali, e comunque per scopi “diversi dal normale esercizio delle loro funzioni”, il legislatore costituzionale con la nuova formulazione ha previsto la possibilità in capo allo Stato di destinare “risorse aggiuntive” e di effettuare “interventi speciali” (V co.) a favore di enti territoriali, qualora ricorrano determinate condizioni, mentre nel previgente testo potevano assegnarsi a singole Regioni, con legge, dei “contributi speciali” finalizzati “a scopi determinati, e particolarmente per valorizzare il Mezzogiorno e le Isole”.

Alla luce di tali disposizioni, assume rilievo primario la corrispondenza tra le funzioni esercitate dalle autonomie territoriali e la dotazione di risorse necessarie a finanziarle, in ragione della rottura del principio del parallelismo

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tra funzioni legislative e funzioni amministrative. Una volta posta la corrispondenza tra la devoluzione delle risorse e l’integrale finanziamento delle funzioni loro attribuite, l'art. 119 Cost. pare delineare un modello di riparto finanziario “variabile”, in quanto un impianto così configurato richiede una continua rimodulazione non più dipendente dal riferimento ad un costante riparto della potestà legislativa.

Peraltro, nonostante nell'art. 119 non vi sia alcun espresso riferimento alla “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale” (art. 117, II co., lett. m, Cost.), tale problematica appare centrale, sicché si pongono delicate problematiche interpretative ed attuative circa l'adeguatezza del modello di finanziamento disegnato in ordine alle esigenze perequative.

Ne discende che la determinazione dei “livelli essenziali” su tutto il territorio nazionale e la relativa garanzia sono condizionati dall’entità dei fondi destinati a fini perequativi e dalla possibilità di poter decidere sulla perequazione delle risorse finanziarie degli enti autonomi.

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transizione. In tema di attuazione della riforma del Titolo V", in Le Regioni, 2002, n. 2/3; M. Dogliani, "Il nuovo assetto delle competenze normative", in in AA.VV. ( a cura di G. Berti – G.C. De Martin), Le autonomie territoriali … cit.; T. Martines – A. Ruggeri – C. Salazar, Lineamenti di diritto regionale, Milano 2002; M. Luciani, "Le nuove competenze legislative delle regioni a Statuto ordinario. Prime osservazioni sui principali nodi problematici della legge cost. n. 3/2001", Intervento Convegno A.I.C., Bologna 14 gennaio 2002; L. Paladin L., Diritto regionale, Padova 2000; S. Panunzio, Audizione del Presidente A.I.C. al Senato della Repubblica sulla revisione del Titolo V, parte II della Costituzione, 20 novembre 2001, in Senato della Repubblica, Indagine conoscitiva I Commissione Affari Costituzionali, 7° resoconto stenografico, seduta di martedì 20 novembre 2001; C. Pinelli, L’ordinamento repubblicano nel nuovo impianto del Titolo V, in AA.VV. (a cura di S. Gambino), Il nuovo ordinamento regionale, Milano, 2003; G. Rolla, Diritto regionale e degli enti locali, Milano 2002; A. Ruggeri, Le fonti del diritto regionale: ieri, oggi, domani, Torino, 2001; L. Torchia, "La potestà legislativa residuale delle regioni", in Le Regioni, 2002, n. 2/3.

Sui limiti alla potestà legislativa regionale derivanti dalla conformazione agli obblighi posti dal diritti internazionale e comunitario: U. Allegretti, “Autonomia regionale e unità nazionale”, in Le Regioni, 1995, p. 15; G. Berti, “Commento art. 5”, in G. Branca (a cura di), Commentario della Costituzione, Roma-Bari, pp. 277 ss.; A Spadaro, “Sui principi di continuità dello ordinamento, di sussidiarietà e di cooperazione fra Comunità/Unione europea, Stato e Regioni”, in Rivista trimestrale di diritto pubblico, 1994, pp. 1041 ss.; A Pizzorusso, “Delle fonti del diritto”, in Commentario del Codice civile, Bologna-Roma, 1977, p. 277; A. Ruggeri, “Potestà legislativa primaria e potestà “residuale” a confronto (nota minima a Corte cost. n. 48 del 2003”, consultabile sul sito federalismi.it, 2003; L. Paladin, Le fonti del diritto italiano, Bologna, 1996, p. 325; V. Crisafulli, “Legge di nazionalizzazione, decreti delegati di trasferimento e ricorsi regionali”, in Giurisprudenza costituzionale, 1964, pp. 118 ss.; P. Caretti, “L’assetto dei rapporti tra competenza legislativa statale e regionale, alla luce del nuovo Titolo V della Costituzione: aspetti problematici, in Le Regioni, 2001, p. 1229; G. Caia, “Il problema del limite dell’interesse nazionale nel nuovo ordinamento”, consultabile sul sito federalismi.it, 2003; A. Anzon, I poteri delle Regioni dopo la riforma costituzionale, Torino, 2002, pp. 155 ss.

Sui limiti alla potestà legislativa regionale derivanti dall'obbligo del rispetto dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, da garantire su tutto il territorio nazionale: G.U. Rescigno, “I diritti civili e sociali fra legislazione esclusiva dello Stato e delle Regioni”, in AA.VV. (a cura di S. Gambino), Il nuovo ordinamento regionale in Italia.

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REGIONI E AUTONOMIE LOCALI. LA RIFORMA DEL TIT V COST. 107

Competenze e diritti, Milano, 2003; A. Ruggeri, “Neo-regionalismo e tecniche di regolazione dei diritti sociali”, in Diritto e società, 2001, n. 2; A. Ruggeri, “La riforma costituzionale del Titolo V e i problemi della sua attuazione, con specifico riguardo alle dinamiche della normazione ed al piano dei controlli”, in Il nuovo Titolo V della parte II della Costituzione (Seminario A.I.C. del 14/1/2002, in www.associazionedeicostituzionalisti.it; M. Luciani, “La tutela costituzionale dei livelli essenziali di assistenza”, in “I livelli essenziali di assistenza nella Costituzione. Doveri dello Stato, diritti dei cittadini”, Lega delle autonomie, Roma, 12 marzo 2002 (paper); I. Massa Pinto, “Contenuto minimo essenziale dei diritti costituzionali e concezione espansiva della Costituzione”, in Diritto pubblico, 2001, n. 3; I. Massa Pinto, “La discrezionalità politica del legislatore fra tutela costituzionale del contenuto essenziale e tutela ordinaria caso per caso dei diritti nella più recente giurisprudenza della Corte costituzionale”, in Giur. cost., 1998, 2; O. Chessa, “La misura minima essenziale dei diritti sociali: problemi e implicazioni di un difficile bilanciamento”, in Giur. cost., 1998; O. Chessa, “Bilanciamento ben temperato o sindacato esterno di ragionevolezza? Note sui diritti inviolabili come parametro del giudizio di costituzionalità”, in Giur. cost., 1998, n. 6; G. Zagrebelsky, Il diritto mite, Torino, 1992.

Sulla potestà regolamentare delle Regioni: C.E. Gallo, Le fonti del diritto nel nuovo ordinamento regionale. Una prima lettura, Torino, 2001; V. Onida, "Regolamenti regionali", in Enc. giur. Treccani, XXVI, Roma, 1991; G. Tarli Barbieri, "La potestà regolamentare delle Regioni dopo la legge cost. n. 1/1999", in Le Regioni, 2000; R. Bin, "La funzione amministrativa nel nuovo Titolo V della Costituzione", in Le Regioni, 2002; P. Caretti, "Fonti statali e fonti locali dopo la riforma del titolo V della Costituzione", in Le Regioni, 2002; A. Ruggeri, "La ricomposizione delle fonti in sistema, nella Repubblica delle autonomie, e le nuove frontiere della normazione", in Le Regioni, 2002.

Sulla forma di governo regionale: V. Angiolini, Gli organi di governo della Regione, Milano, 1983; R. Bin R., "Reinventare i Consigli", in Il Mulino, 2000, n. 3; A. D’Atena, "La nuova autonomia statutaria delle Regioni", in Rass. parl., 2000; U. De Siervo, Gli statuti delle Regioni, Milano, 1974; C. Fusaro, "La legge elettorale e la forma di governo regionale", in AA.VV. (a cura di A. Barbera – L. Califano), Saggi e materiale di diritto regionale, Bologna, 1997; T. Groppi, "Quale garante per lo Statuto regionale", in AA.VV., La potestà statutaria delle Regioni nella prospettiva della riforma della Costituzione. Temi rilevanti e profili comparati, Milano, 2001; T. Martines – A. Ruggeri, Lineamenti di diritto regionale, Milano, 1997; T. Martines – A. Ruggeri – C. Salazar, Lineamenti di diritto regionale, Milano, 2002; L. Paladin, Diritto regionale, Padova, 2000; L. Paladin, Le fonti del diritto italiano, Bologna, 1996; A. Spadaro, "I “contenuti” degli

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Statuti regionali (con particolare riguardo alle forme di governo)", in AA.VV (a cura di A. Ruggeri – G. Silvestri), Le fonti di diritto regionale alla ricerca di una nuova identità, Milano, 2001; G. Tarli Barbieri, "I referendum su leggi e provvedimenti amministrativi della Regione", in AA.VV (a cura di M. Carli), Il ruolo delle Assemblee legislative. Vol. I, La nuova forma di governo delle Regioni, Torino, 2001; R. Tosi, "Le «leggi statutarie» delle Regioni ordinarie e speciali: problemi di competenza e di procedimento", in AA.VV., Le fonti di diritto regionale … cit.

Sullo Stato regionale asimmetrico e differenziato: L. Antonini, Il regionalismo differenziato, Milano, 2000; G. D’Ignazio, “Asimmetrie e differenziazioni regionali dopo la riforma del titolo V della Costituzione”, in AA.VV. (a cura di S. Gambino), Il ‘nuovo’ ordinamento regionale, Milano, 2003; J.F. Lopez Aguilar, Lo Stato autonomico spagnolo, Padova, 1999; F. Palermo, “Il regionalismo differenziato”, in AA. VV. (a cura di T. Groppi – M. Olivetti), La Repubblica delle autonomie, Torino, 2001; P. Pernthaler, Lo Stato federale differenziato, Bologna, 1998.

Sulle Regioni di diritto speciale previste dall'art. 116 Cost, I co., cfr. A. D’ATENA, “Dove va l’autonomia regionale speciale?”, in Rivista di diritto costituzionale, 1999; M. Luciani, “Le regioni a statuto speciale nella trasformazione del regionalismo italiano (con alcune considerazioni sulle proposte di revisione dello Statuto della Regione Trentino Alto Adige)”, in Rivista di diritto costituzionale, 1999; G. Moschella, “L’incerta prospettiva delle Regioni speciali”, in AA. VV. (a cura di S. Gambino), Il ‘nuovo’ ordinamento regionale, Milano, 2003; A. Pizzorusso, “Regioni speciali: motivazioni storiche ed esigenze attuali”, in Quaderni regionali, 1988; A. Ruggeri, “Elezione diretta dei Presidenti regionali, riforma degli statuti, prospettive della ‘specialità’”, in Rivista di diritto costituzionale, 1999, p. 231 e dello stesso A. "L'autonomia legislativa della Regione siciliana dopo la riforma del titolo V, e le prospettive della specialità", in Idem, "Itinerari" di una ricerca sul sistema delle fonti, Torino, 2003, vol. II.