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1) Introduzione
Ogni scuola di pensiero parte, a seconda delle proprie convinzioni, da ipotesi interpretative diverse
e giunge a formulazioni teoriche proprie. Sulla base di un approccio teorico che potremmo definire
più tipicamente neoclassico, la crisi odierna ha avuto origine, in primo luogo, dal crollo del mercato
immobiliare USA – i cosiddetti mutui subprime – per poi estendersi, in un secondo momento,
all’economia reale; codesta impostazione mira ad evidenziarne il carattere prettamente finanziario.
Un secondo approccio concettuale, ricongiungibile invece al filone classico, ha rivolto la propria
attenzione al carattere strutturale della crisi in atto, individuandone la genesi nelle cause più
propriamente economico/produttive, mettendo in risalto quindi le criticità conseguenti da un
eccesso di investimenti.
Qualunque sia il filone di pensiero a cui appartiene il lettore, crediamo che comprendere i
meccanismi all’origine della stagnazione presente, sia la necessaria premessa per un suo
auspicabile, ma non semplice, superamento. Inoltre, siamo convinti del fatto che non sia compito
dei soli economisti porsi inevitabili interrogativi sul futuro del dollaro – attualmente, attorno alla
soglia di 1,45 sull’euro – nel suo ruolo, sia di valuta di transazione del commercio internazionale,
sia di riserva di valore, dopo la fine, nel 1971, degli accordi di Bretton Woods con l’abolizione del
sistema monetario del Gold Exchange Standard(1).
Di fronte alla più grande crisi economica dai tempi del 1929, ci siamo posti l’obiettivo di analizzare
il quadro economico congiunturale degli Stati Uniti d’America, nel contesto della recessione
globale. Per fare questo, abbiamo esaminato l’andamento delle principali variabili
macroeconomiche statunitensi – il Pil, la Bilancia dei Pagamenti, La Bilancia Federale, la Capacità
Produttiva e i Profitti, la Disoccupazione – parallelamente alle scelte di politica monetaria
implementate dalla Federal Reserve, nell’arco temporale dettato dal passaggio politico
dall’Amministrazione Bush a quella Obama.
2) Il quadro macroeconomico USA
Il Prodotto Interno Lordo
Il prodotto interno lordo reale(2) USA, nel corso del terzo trimestre dell’anno 2009, è aumentato
del 2,2% (la prima stima aveva indicato +3,5%, la seconda +2,8%) rispetto allo stesso periodo
dell’anno precedente (Pil annuale). Si tratta del primo trimestre con il segno positivo dopo
quattro consecutivi con segno negativo (2008q3: -2,7%; 2008q4: -5,4%; 2009q1: -6,4% il
peggior valore dal 1980q2; 2009q2: -0,7%), un fenomeno che non si era mai verificato dalla
fine della Seconda Guerra Mondiale, ad oggi. Bisogna di fatti andare a ritroso nel tempo, sino
alla Grande Depressione degli anni 1929/33, per individuare dei valori ancor più negativi.
Inoltre, mentre il Pil reale USA nel 2008 ha indicato un andamento prossimo alla stagnazione
(+0,4%), secondo il Fondo Monetario Internazionale, il tasso di crescita del 2009 è stimato
essere attorno al -2,7% (il più basso dal 1946).
Fonte: Economic Indicators
Espresso in termini assoluti, il prodotto interno lordo(3) USA 2008, si è attestato poco sopra i
14,4 trilioni di dollari; tenendo conto che il Pil mondiale 2008 è stato di 60,9 trilioni di dollari –
per la prima volta dal 1945, stimato in calo dell’1,1% nell’anno in corso – si desume che gli
Stati Uniti hanno contribuito per il 23,6% della ricchezza globale prodotta annualmente(4). E’
interessante osservare come tale percentuale fosse del 50% nel 1945, del 32,3% nel 2001 ed è
destinata a calare ulteriormente nell’immediato futuro, dal momento che i ¾ della crescita
economica mondiale del triennio 2008/10 verranno dalla Cina(5). Passando da un piano
squisitamente quantitativo ad uno più propriamente qualitativo, si evidenzia come la variabile
dei consumi sia quella da esaminare con maggior attenzione, in quanto probabile fonte di
squilibrio interno: in primo luogo infatti, essa rappresenta ben il 70% della composizione del Pil
statunitense (è il 35% del reddito nazionale della Cina(6)), ma è rispetto ai deficit espressi dai
cosiddetti “bilanci gemelli” – Bilancia Federale e Bilancia Commerciale – che, come vedremo
nel paragrafo successivo, il rapporto tra consumi e output desta le maggiori preoccupazioni
nell’immediato futuro.
La Bilancia dei Pagamenti
Nel 2008, le Partite Correnti USA (ottenibili sommando la Bilancia Commerciale, la Bilancia
dei Servizi, la Bilancia dei Lavori e Trasferimenti i Unilaterali) hanno evidenziato una passività
di 706,068 miliardi di dollari mentre il Conto Capitale (cioè, la somma dei capitali in entrata e
in uscita da uno Stato) ha messo in evidenza – al netto dei derivati finanziari – un attivo di
533,965 miliardi di dollari. In quest’ultimo, secondo le prime stime del Council of Economic
Advisers, nel corso del III trimestre del 2009, è in crescita, sia l’aumento dei deflussi di capitale
(da 27,2 miliardi di dollari del II trimestre 2009, ai 240,1 miliardi di dollari del III trimestre
2009), sia gli afflussi di capitale (passati dal calo di 178,9 miliardi di dollari del II trimestre
2009, all’aumento di 127 miliardi di dollari del III trimestre 2009 ), al netto dei Treasury
securities.
Fonte: Economic Indicators
Nel corso del decennio 1999(7)/2009, i continui avanzi in Conto Capitale si sono resi necessari,
al fine di colmare il susseguirsi dei deficit delle Partite Correnti americane; dal II trimestre del
2007 però – in corrispondenza dell’inversione della politica monetaria da parte della Federal
Reserve (abbassamento costante dei tassi di interesse, sino al livello attuale prossimo allo zero)
– si osserva un calo in valore assoluto degli afflussi di capitale dall’estero che – al momento –
essendo in parte controbilanciato da un analogo calo dei deflussi non pregiudica ancora l’avanzo
del Conto Capitale statunitense (riteniamo sia ancora prematuro individuare nei dati del solo III
trimestre 2009 un’inversione di tendenza rispetto ad un ragionamento che si basa invece su di
un arco temporale di medio periodo).
Fonte: Economic Indicators
Prendendo in esame le varie voci che compongono le Partite Correnti USA – a partire da quella
più importante cioè, la Bilancia Commerciale – si osserva come quest’ultima presenti valori di
segno negativo senza interruzione, dal 1976 ad oggi. Il deficit commerciale è calato, in agosto, a
30,71 miliardi di dollari, da 31,85 in luglio; più precisamente, nello stesso mese, le esportazioni
americane sono salite dello 0,2% a 128,22 miliardi di dollari mentre le importazioni sono calate,
per la prima volta da maggio, scendendo dello 0,6% a 158,93 miliardi di dollari.
Se da un lato, è indubbio che tale disavanzo sia in costante calo a partire dal III trimestre del
2008 (le prime stime relative al III trimestre 2009 però sembrano addirittura contraddire tale
tenue miglioramento) dall’altro, questa riduzione del debito commerciale non ci pare essere
dovuta ad un aumento rilevante delle esportazioni Usa – le quali, in teoria, avrebbero dovute
essere favorite dal deprezzamento del dollaro – bensì è da attribuirsi al crollo delle importazioni
causato presumibilmente, sia dall’aumento della disoccupazione, sia dall’interruzione, a seguito
della “crisi dei mutui”, del meccanismo che permetteva a decine di milioni di statunitensi, alle
prese con salari reali decrescenti, l’acquisto di merci importate attraverso le più svariate forme
di indebitamento.
Inoltre, siffatta circostanza ci suggerisce la formulazione di un’ulteriore ipotesi, (la cui
importanza meriterebbe però una trattazione a sé, in quanto attiene al tema della divisione
internazionale del lavoro) e cioè, il ruolo dei processi di deindustrializzazione e
delocalizzazione riguardante tutti i paesi a capitalismo avanzato, con conseguente spostamento
verso Oriente (Cina su tutti) di molte delle loro lavorazioni: basti pensare che oggi, Ford e GM
producono negli USA meno del 32% del loro output complessivo mentre Fiat, Renault e
Volkswagen producono nei paesi d’origine rispettivamente il 34,9%, il 34,7% ed il 33,6% della
loro produzione totale(8).
Passando alle voci minoritarie che compongono le Partite Correnti americane, un ruolo
importante nell’arginare il passivo dell’interscambio con l’estero – almeno dal punto di vista
della contabilità statistica nazionale – lo hanno svolto la Bilancia dei Servizi e la Bilancia dei
Redditi: entrambe in costante avanzo dal 1999 ad oggi, esse hanno significativamente
aumentato i propri surplus rispettivamente dagli anni 2003 e 2006, sino ad oggi; più
precisamente, nel corso del III trimestre del 2009, la Bilancia dei Servizi USA ha mostrato un
sovrappiù pari a 34,760 miliardi di dollari, mentre la Bilancia dei Redditi si è limitata ad una
eccedenza di 23,709 miliardi di dollari. Al contrario, i Trasferimenti Unilaterali, in costante
deficit nel corso dell’ultimo decennio, anche nel III trimestre del 2009 hanno rilevato un valore
negativo pari a 34,365 miliardi di dollari.
Da ultimo, comprendere la corretta evoluzione delle tendenze numeriche e di merito riguardanti
le Partite Correnti ed il Conto Capitale – che insieme alle Riserve Ufficiali compongono la
Bilancia dei Pagamenti di una Stato – è indispensabile, affinché si cerchi di capire l’andamento
del dollaro nei confronti delle divise straniere (euro, in primis), indipendentemente dai sistemi
di cambio che regolano attualmente le diverse valute.
La Finanza Federale
Il deficit americano per l’anno fiscale 2009, conclusosi il 30 settembre, è salito al record di
1.417,1(9) miliardi di dollari ed è più che triplicato rispetto ai 458,6 miliardi di dollari del
precedente anno fiscale. Secondo le stime del Congressional Budget Office, l’ufficio bilancio
del Congresso americano, si tratta di un valore pari al 9,9% (10) del prodotto interno lordo USA,
la quota più alta dal 1945. Pur ritenendo opportuno mettere in evidenza l’indicazione
indubbiamente negativa di quest’ultima variabile macroeconomica, non va dimenticato che
nessun contributo di natura analitica fornisce, nel nostro tempo, giustificazioni indiscutibili in
merito ad un presunto parametro ottimale del debito da raggiungere, così come di una soglia di
non ritorno non oltrepassabile. Del resto, anche l’ex Ministro delle Finanze tedesco – Theo
Waigel – incalzato dalle domande sulle proprietà di equilibrio dei parametri(11) fiscali di
Maastricht, ammise che, benché privi di fondamento, essi “serviranno comunque a far fare un
bel colpo di dieta agli stati europei”(12).
Fonte: Economic Indicators
Il debito pubblico americano per l’anno 2009 è attualmente valutato nella cifra di 11.873,8
miliardi di dollari, in aumento rispetto ai 9.985,8 miliardi di dollari del 2008, ma ancora
inferiore alla stima di 14.087,3 miliardi di dollari che si ritiene possa essere raggiunta nell’anno
2010. Inoltre, nell’arco del quadriennio 2007/10, si sottolinea una crescita esponenziale
dell’indebitamento pubblico in rapporto all’output(13), il quale passerà dal 63,6% del 2007, al
99,6% del 2010. A questo ammontare va aggiunto che la Cina, investendo in titoli del debito
pubblico Usa circa un terzo del totale delle proprie riserve(14) in valuta pregiata, detiene intorno
ai 700 miliardi di dollari di Us Treasury bond(15). Anche in questo caso, occorre ribadire che in
economia non esiste un’unica definizione plausibile di sostenibilità delle finanze pubbliche –
quindi del debito – il cui aumento può portare a conclusioni diametralmente opposte qualora si
formulino diverse ipotesi in relazione, sia al comportamento dei singoli individui, sia al
funzionamento dei mercati.
E’ probabile, come ci suggerisce l’attuale vivace dibattito(16) tra economisti di diverso
orientamento teorico, che gli Stati Uniti dovranno – entro breve tempo – decidere se lasciare
aumentare l’inflazione, in modo che essa possa erodere progressivamente i passivi, oppure se
adottare la classica ricetta di tagli alla spesa ed aumenti di tasse con tutte le conseguenze che
comunque entrambe le opzioni imporranno, in particolar modo per quanto attiene il valore
futuro del dollaro. Senza dubbio alcuno, non si tratta di una scelta facile, soprattutto se si
considera che la somma di tutti gli indebitamenti americani, siano essi pubblici o privati, si
aggira intorno alla cifra(17) astronomica di poco inferiore al 400% del Pil USA.
La Capacità Produttiva e i Profitti
Dal mese di luglio 2009, la capacità produttiva degli impianti relativi all’insieme del settore
industriale americano(18) è debolmente salita sino al 71,3% di novembre 2009, rispetto al minimo
di 68,3% toccato nel mese di giugno 2009 (era al 78,7% nello stesso periodo del 2008). Si tratta
di valori indubbiamente molto critici e sintomatici della crisi in corso, ma comunque in tenue
crescita(19) per il quinto mese consecutivo. Così come lo scoppio della bolla finanziaria viene
fatto risalire all’agosto del 2007, come si può osservare dal grafico sottostante, anche il costante
peggioramento del settore dell’industria statunitense ha un’origine temporale affine, dal
momento che l’utilizzo degli impianti è continuamente diminuito, passando dall’82,1% (agosto
2007), al minimo di 68,3% (giugno 2009).
Fonte: Economic Indicators
Ci sembra opportuno precisare come non tutte le attività produttive(20) nel suddetto arco
temporale siano state in decrescita; infatti, come emerge dal grafico che segue, è interessante
constatare come la produzione finale di impianti operanti nel settore militare e dello spazio non
sia affatto calata. Ciò, è probabilmente riconducibile alle scelte della passata Amministrazione
Bush che, ancora alla fine del proprio mandato, destinava ¼ del Bilancio federale 2009
all’esercito(21).
Fonte: Economic Indicators
Riprendendo l’esempio del settore delle automobili già utilizzato nel paragrafo riguardante la
Bilancia dei Pagamenti, si osserva come negli stati Uniti la produzione di autovetture (22) nel
2009 sarà di appena il 45% dell’output potenziale cioè, 5 milioni di auto in meno rispetto al
2007. Inoltre, secondo il CSM Worldwide l’utilizzazione degli impianti delle prime 12 case
automobilistiche mondiali, scesa al 72,2% nel 2008, si ridurrà al 64,7% nell’anno in corso.
Questa condizione, senza dubbio aggravata dal calo della domanda globale, ha però all’origine
una causa precisa, come emerge chiaramente dalle parole dell’Amministratore Delegato di Fiat,
Sergio Marchionne, il quale giunge ad affermare come “la sovraccapacità produttiva – eccesso
di investimenti con conseguente calo dei profitti(23) – è un problema generale”. E ancora: “La
capacità produttiva, a livello mondiale, è di oltre 90 milioni di vetture l’anno, almeno 30
milioni in più rispetto a quanto il mercato sia in grado di assorbire in condizioni normali. Circa
un terzo di questa capacità produttiva è installata in Europa, dove il basso grado di utilizzo
degli impianti è destinato, a causa del calo della domanda, a scendere a circa il 65% nel
2009”(24). Questa condizione conduce lo stesso Marchionne a ritenere come la sopravvivenza
della casa automobilistica italiana possa avvenire solo grazie ad una serie di forti alleanze, in
virtù di un processo di concentrazione e centralizzazione dei capitali, che porterà il numero delle
maggiori case automobilistiche mondiali dalle attuali 15 circa, a 5/6 grandi gruppi.
L’esempio dell’automobile, quasi certamente estendibile ad altri settori della produzione
americana nonché valido per descrivere la recessione di vari paesi industrializzati appartenenti
all’Uem, mostra chiaramente come la crisi finanziaria di oggi abbia all’origine un insieme di
criticità strutturali dalle quali è stata determinata e con le quali si è successivamente
autoalimentata.
Fonte: Economic Indicators
Dal grafico in alto, si nota come, nel corso del 2007, la somma dei profitti derivanti da attività
finanziarie e non finanziarie (l’insieme cioè, degli utili originati nei settori di manufacturing,
utilities, whole-sale e retail) mostrino un calo ascrivibile a tutte le componenti, oltre ad un vero
e proprio crollo nel 2008 che li riporta ai livelli di guadagno paragonabili a quelli della fine
dell’anno 2003. Da un punto di vista qualitativo invece, è interessante esaminare come gli
interessi e le rendite siano ininterrottamente aumentati – in valore assoluto – tra gli anni
1999/2006 mentre i profitti delle utilities, ed in particolar modo quelli del settore manifatturiero,
avevano mostrato una prima energica diminuzione già nel quinquennio 1999/2003. La
medesima crescita dei profitti evidenziata nel III trimestre del 2009 (i profitti totali sono
cresciuti di 157,9 miliardi di dollari se calcolati prima delle tasse e di 142,8 miliardi di dollari
dopo le tasse rispetto al trimestre precedente) si contraddistingue principalmente, ma non solo,
per un rialzo degli utili di carattere finanziario. Una spiegazione di tale andamento potrebbe
essere quella di chi ritiene che le corporate americane abbiano utilizzato(25) i fondi statali, al fine
di investirli nuovamente in attività ad alto rischio o semplicemente speculative. Nel medio
periodo, si osserva che, mentre nel 1999, i profitti finanziari al netto della tassazione
ammontavano a 189,3 miliardi di dollari e quelli non finanziari manifatturieri a 148,8 miliardi di
dollari, nel 2008, i primi hanno totalizzato 278,9 miliardi di dollari mentre i secondi 175,5
miliardi di dollari; se ne desume un aumento del 47% per quelli derivanti dal settore finanziario,
a fronte di un aumento del 18% del comparto industriale.
In conclusione, nel contesto macroeconomico venutosi a creare, il forte indebitamento totale
americano, l’eccesso di investimenti e il contemporaneo calo dei profitti si è sempre più legato
alla concessione di mutui subprime – i cosiddetti prestiti ninja(26) – anche a chi non poteva
fornire alcuna garanzia, diffondendo nel sistema bancario e finanziario internazionale, attraverso
lo strumento delle cartolarizzazioni(27), gli squilibri reali.
Nel prossimo futuro, il divario che si è generato tra ciò che l’economia americana è in grado di
produrre e ciò che è in grado di vendere potrebbe portare ad una fase contraddistinta da una
prolungata stagnazione economica, se non si interverrà sul versante della domanda aggregata.
Non a caso, il piano(28) di Obama – 825 miliardi di dollari, di cui meno del 60% in spesa
pubblica ed il resto in tagli fiscali – approvato nel gennaio 2009, è stato ritenuto da più parti
come inadeguato, al fine di colmare tale scarto produttivo.
La Disoccupazione
Il tasso di disoccupazione negli Stati Uniti è salito in dicembre al 10%. Nel mese, i disoccupati
sono aumentati di 85mila unità(29). Più precisamente, il tasso ufficiale di disoccupazione(30)
sarebbe ben superiore al 10%, se non fosse che 571.000 lavoratori hanno abbandonato la ricerca
di un impiego e, pertanto non sono conteggiati tra i disoccupati. Infatti, sono così tanti i
lavoratori che, dopo inutili ricerche, hanno smesso di cercare lavoro che, rispetto ad un anno, tra
la forza lavoro americana risultano 615.000 lavoratori in meno. Alla luce dei dati di gennaio
2010, dall’inizio della recessione occupazionale – nel dicembre 2007 – ad oggi sono stati persi
più di 8,4 milioni di impieghi con un calo della percentuale degli occupati dal 63 al 58,5% della
popolazione (gli impieghi caduti del 3% nel 2009, dato mai visto da 1949) .
Sebbene rispetto ad inizio 2009, quando la perdita di impieghi era vicina alle 700mila unità al
mese, il rapporto di dicembre confermi una decelerazione del peggioramento in atto nel mondo
del lavoro, preoccupa il fatto che il trend sia tornato alla crescita rispetto a novembre.
Il quadro però diviene più cupo se al totale dei disoccupati si sommano quanti hanno un lavoro
solo saltuario o part-time; in questo caso, la percentuale sale al 16,5% della forza lavoro totale,
un livello che indubbiamente allarma in un’ottica futura. Inoltre, nello stesso periodo di tempo,
la settimana media di lavoro è scesa di 0,1 ore a 33 ore. Ciò, significa che gli occupati sono al
momento sottoutilizzati e quand’anche ci fosse una ripresa dell’economia, questa non
porterebbe ad una diminuzione del numero dei disoccupati, almeno nel breve periodo.
Uno sforamento della disoccupazione oltre quota 10% già entro la fine di quest’anno era
peraltro stato messo in preventivo da mesi dalla stessa Banca centrale americana, in quanto
l’occupazione tende sempre a beneficiare con qualche mese di ritardo dell’ipotetica ripresa della
crescita. Questo nel caso in cui si sia in presenza di una disoccupazione ciclica, la quale potrà
essere assorbita, nel medio periodo, da una espansione della domanda aggregata; se fossimo
invece, anche in presenza di un fenomeno in parte strutturale(31) ed in parte tecnologico(32), allora
la fuoriuscita dalla mancanza di lavoro necessiterebbe di interventi rivolti a modificare l’aspetto
qualitativo della domanda e/o dell’offerta di lavoro.
Questa situazione ci riporta alla memoria la spiegazione che J.A. Schumpeter diede per
descrivere le cause della prima Grande Depressione, avvenuta tra gli anni 1873 e 1898, e cioè
con la spinta dei prodotti provenienti in gran copia da un apparato produttivo che i due
precedenti decenni avevano grandemente allargato.
3) La politica monetaria
Il Quantitative Easing della Fed
Il 17 dicembre 2008(33), la Fed ha deciso di ridurre il costo del denaro ai minimi di sempre, in
una forchetta compresa fra lo 0% e lo 0,25%, per i Federal Funds e dall’1,25% allo 0,5%, per il
discount rate.
Da allora, la struttura bilaterale dei saggi di interesse è rimasta immutata ed anche nell’ultima
riunione del dicembre scorso, il Fomc – l’organismo operativo in campo monetario della Banca
centrale americana – ha ritenuto di non dovere intervenire nel breve periodo. Inoltre, vista la
fragilità con cui si sta presentando la ripresa economica, non è assurdo immaginare che i tassi
persisteranno all’attuale livello per almeno l’intero primo semestre del 2010.
Fonte: Economic Indicators
Il processo di creare base monetaria da parte della Federal Reserve – cioè, la politica monetaria
antideflattiva del cosiddetto “quantitative easing” – ha come obiettivo l’immissione sul mercato
di grandi masse di nuovo denaro quando i tassi d’interesse sono prossimi allo zero e un istituto
centrale ha pochi margini di manovra sul costo del denaro. L’obiettivo è quello di mantenere
pienamente approvvigionato il mercato del credito stante in una situazione di palese difficoltà –
credit crunch – anche attraverso la possibilità di riacquisto di propri Titoli di Stato in corso di
emissione, così come di quelli già in mano a privati.
Come emerge chiaramente dall’andamento dell’aggregato monetario M2(34) rappresentato nel
grafico che segue, nonostante una lievissima flessione verificatasi nel mese di agosto, l’effetto
immediato di questa politica valutaria, a differenza di quella che sfrutta solo la leva dei tassi
d’interesse, è stato un ulteriore aumento dei volumi della divisa Usa – un surplus di biglietti –
con conseguente allargamento della massa monetaria presente nel sistema.
Fonte: Economic Indicators
Nel caso in cui quest’ultima strategia venisse mantenuta oltre il breve periodo, essendo il
dollaro la principale valuta di riserva di valore, nonché quella con cui si finanzia il commercio
internazionale, si porrebbe all’orizzonte l’inevitabile tema di chi dovrà pagare, in termini di
costi economici aggiuntivi, queste nuove emissioni di dollari.
Il Quantitative Easing della Bce
Nell’agosto del 2007, allo scoppio della crisi, il tasso di rifinanziamento principale degli Stati
Uniti d’America era del 5,25% mentre quello della Uem era del 4%. Da lì a poco, se da una
sponda dell’Atlantico si darà inizio ad una serie di 9 tagli consecutivi del costo del denaro che
porteranno quest’ultimo prossimo allo zero, in un arco di tempo che va da settembre 2007 a
dicembre 2008, dall’altra l’Istituto centrale europeo inizierà una propria politica monetaria
improntata al credit easing solo a partire dall’ottobre del 2008, non prima però di avere tentato
un approccio restrittivo al credito, visto l’aumento del tasso di sconto dal 4% al 4,25%, nel
luglio del 2008 cioè, nel pieno del crollo del Dow Jones.
L’ipotesi di un restringimento della politica monetaria da parte dell’Eurosistema, dovuta alla
presumibile fine dell’effetto calmieratore dell’import di merci a basso costo dai paesi
emergenti(35), appare insufficiente come spiegazione, così come non era credibile pensare che le
conseguenze di Wall Street non avessero esiti altrettanto nefasti per le borse dei paesi
dell’Unione europea. Inoltre, l’implementazione di una vigile politica antinflazionistica avrebbe
reso ancora più critico un riequilibrio tra il dollaro e l’euro. Pertanto, la giustificazione di tale
scelta parrebbe riflettere gli interessi di una parte dell’Uem (Germania, in primis), al fine di
definire regole e sistemi di valutazione – agenzie di rating (36) – in maniera indipendente dai
criteri anglosassoni. Infatti, individuando l’economia produttiva come asse portante
dell’economia tedesca(37), l’influenza del sistema finanziario anglosassone verrebbe così ridotta,
facendo leva sulla dimensione della Uem ed il forte valore della sua moneta.
E’ a partire da questo contesto che la Bce inizia la propria politica espansiva fatta di 7 tagli
consecutivi dei saggi di interesse, credit easing ed altre operazioni(38), in un arco di tempo che va
dall’ottobre del 2008 sino ad oggi. Precisamente il 7 Maggio 2009, il Consiglio Direttivo
dell’Istituti centrale ha deciso di procedere all’acquisto diretto di obbligazioni, i cosiddetti
covered bonds(39), o obbligazioni garantite, sulla scia della strategia di quantitative easing già
avviata dalla Fed e dalla Banca d’Inghilterra (BoE) per un valore di circa 60 miliardi di euro.
La Bce quindi, fonda il proprio credit easing con una delle più solide obbligazioni in
circolazione: ha scartato le obbligazioni societarie emesse da imprese private (come potevano
essere i bond di Fiat, Enel, Telecom Italia) e non ha seguito nemmeno l’esempio della Banca
d’Inghilterra acquistando propri titoli di Stato, bensì obbligazioni bancarie garantite(40). E’
importante specificare come i covered bond possano essere di due tipi: primari o secondari. La
differenza sta nel fatto che nei primari, l’acquisto del bond da parte della Banca centrale avviene
al momento dell’emissione del medesimo da parte di un istituto di credito, mentre nei secondari
si acquistano quelli già esistenti in circolazione. Non è un problema di poco conto in quanto, se
la Bce adotterà la prima ipotesi, allora favorirà paesi come l’Italia che non hanno ancora
effettuato emissioni, se invece sceglierà la seconda strategia, si favoriranno paesi come
Germania, Spagna, Francia ed Irlanda, i quali hanno già messo in circolazioni codesti strumenti
finanziari (su un mercato totale europeo da 1.500 miliardi di euro, 900 sono stati generati in
Germania, 280 in Spagna, 200 in Francia e 65 in Irlanda);
Da ultimo, il credit easing della Bce potrebbe non creare ulteriore base monetaria, a differenza
di quanto fatto dalla BoE e della Fed, in quanto si sta pensando ad una parallela operazione di
sterilizzazione che corrisponderebbe nei fatti ad una diminuzione dei collocamenti in asta da
parte dell’Eurosistema per un ammontare di un valore analogo alla liquidità immessa nel
circuito attraverso l’acquisto dei bond medesimi. Si tratterebbe allora, non di un’espansione del
bilancio aggregato di Francoforte, ma di una propria riallocazione di portafoglio.
Le risposte istituzionali agli aspetti finanziari della crisi
L’aver concesso mutui subprime anche a chi non poteva fornire alcuna garanzia è stato possibile
altresì grazie alla politica monetaria espansiva e di bassi tassi di interesse della Federal Reserve
la quale, alimentando la bolla immobiliare, ha consentito anche a famiglie a basso reddito di
contrarre debiti relativamente vantaggiosi. Ovviamente, questo circolo vizioso è stato possibile
fino a quando il valore degli immobili è stato in ascesa; per dirla con le parole di J. Stiglitz: “La
bolla immobiliare ha alimentato i consumi, si tiravano fuori soldi dalla casa come da un
bancomat a ritmo frenetico, mentre i tassi di risparmio delle famiglie precipitavano(41)”.
Parlando delle dinamiche economiche inerenti alla crisi attuale dei mercati azionari quello che
troppo spesso non si considera è la dimensione numerica del problema. Secondo la Banca per i
Regolamenti Internazionali, al 31 dicembre 2007, il valore nominale di tutti i contratti derivati
era di 596.004 miliardi di dollari (oltre i 596 trilioni di dollari) e, ad oggi, sulla base delle
dinamiche di crescita esponenziale degli ultimi anni, tale valore si stima presumibilmente non
inferiore ai 700.000 miliardi di dollari (700 trilioni di dollari). Solo i famigerati CDS – credit
default swaps – cioè, le assicurazioni sulle insolvenze di credito, alla fine dello scorso anno
ammontavano a 57.894 miliardi di dollari (58 trilioni di dollari circa), sostanzialmente il 100%
del Pil mondiale, secondo i dati della Banca Mondiale.
Di fronte a queste cifre, quali sono state le più importanti politiche ad oggi attivate, o in procinto
d’essere approvate, dalle principali istituzioni americane ed internazionali?
In primo luogo, il Tesoro Usa, come aveva fatto solamente nel lontano 1932, ha formulato un
piano di emergenza – il famigerato piano Paulson, inizialmente stimato attorno ai 700 miliardi
di dollari – basato su due cardini:
Il riacquisto di obbligazioni “tossiche” dalle banche;
Una successiva serie di nazionalizzazioni parziali del sistema del credito.
E’ stato così, sia per la Investment bank Bear Stearns e per il colosso assicurativo AIG, salvati
grazie al denaro del contribuente, sia per la Merril Lynch, acquisita a prezzo di favore dalla
Bank of America, nonchè per le due note banche d’affari, Goldman Sachs e Morgan Stanley, il
cui statuto è stato radicalmente modificato vista la repentina trasformazione in semplici istituti
commerciali voluta dall’Amministrazione federale. In secondo luogo, nel giugno del 2009, il
governo del Presidente Obama ha adottato delle misure di riforma della finanza volte a
rafforzare il ruolo della Fed, tra le quali:
Le grandi banche americane (eccetto le piccole, le cosiddette regionali, che sono e rimangono sotto
la supervisione della Fdic) passano sotto il controllo della Fed;
Il diritto della Fed di eseguire pagamenti intervenendo direttamente nel mercato finanziario;
I fondi coperti – hedge found – devono registrarsi presso la Sec(42).
Come si può desumere, si aumentano i controlli nel loro complesso creando una sorta di super
Federal Reserve, ma non si interviene direttamente, né sulla dimensione dei mercati finanziari,
né sulla tipologia degli strumenti finanziari in circolazione. Lo stesso incontro del G20 di due
mesi prima, nonostante i 4.000 miliardi di dollari di asset tossici stimati in quei giorni dal Fmi –
di cui 3.100 riguardanti gli Stati Uniti e 900 l’Europa – non è riuscito ad andare oltre i seguenti
intenti:
Porre un limite ai paradisi fiscali;
Limitare i bonus dei manager di società in perdita;
Il proposito di porre a regolamentazione i vari hedge fund.
Se da un lato, si tratta di una serie di scelte importanti e necessarie, verosimilmente dall’altro
esse ci appaiono insufficienti, stanti le dimensioni della crisi in corso. Essendo anch’esso (così
come abbiamo già evidenziato per le delocalizzazioni) un tema che meriterebbe una trattazione
a parte, ci limiteremo nel suggerire al lettore quelli che riteniamo debbano essere i tre cardini su
cui debba poggiare una reale riforma della finanza e cioè:
La dimensione del mercato finanziario globale;
La divisione dei vari mercati finanziari;
La comunicabilità tra i vari mercati (cioè, il movimento dei capitali).
Lo stesso Fondo Monetario Internazionale, per bocca del suo Direttore Dominique Strauss-
Kahn, si è limitato ad insistere sulla necessità di perseguire massicci stimoli fiscali e
sull’importanza di risanare i bilanci bancari come prerequisito per la ripresa, senza soffermarsi
con forza sulle cause della finanza ad alta leva e bassa congruità patrimoniale oltre che sul
carattere unicamente speculativo di alcuni strumenti finanziari presenti nel mercato. Pur
nonostante, il 2 luglio 2009, il Fmi ha approvato la prima emissione(43) di obbligazioni della sua
storia, avendo l’obiettivo di sostenere i paesi colpiti dalla crisi globale. Queste le principali
caratteristiche della prima asta:
L’emissione è stata esplicitamente richiesta dai paesi del cosiddetto BRIC (Brasile, Russia,
India e Cina);
Brasile, Russia ed India sottoscriveranno una cifra pari a 10 miliardi di dollari, mentre la
Cina acquisterà obbligazioni per un valore pari a 50 miliardi di dollari;
Maggiore influenza del BRIC – potere decisionale – all’interno dell’istituzione del Fmi
attraverso la revisione delle quote del Fondo (anticipata a Gennaio 2011);
I Bond del Fmi saranno denominati in Diritti Speciali di Prelievo (Sdr), la valuta di riserva
del Fmi composta da un paniere di 4 valute (dollaro, euro, sterlina e yen);
I Bond potranno essere scambiati tra le banche centrali ed avranno una durata massima di 5
anni.
Le peculiarità di questa emissione ci suggeriscono un paio di considerazioni: la prima, fa
esplicito riferimento ai recenti rapporti di forza – tuttora in corso di definizione – tra le vecchie
potenze mondiali e quelle emergenti di fronte al sorgere di nuovi equilibri internazionali, quindi
al superamento di quelli preesistenti la crisi. La seconda invece, ci ricorda come tale assetto
non potrà che nascere da uno scontro tra capitali – già da tempo in atto – la cui spiegazione non
è unicamente rintracciabile nella sola finanza, bensì anche nella geopolitica; come scrive
giustamente Oscar Giannino(44), “Lehman Brothers – l’unica delle 5 più grandi Investment bank
a non essere stata salvata dallo Stato USA – era la maggiore piattaforma di bond e polizze
assicurative piazzate in tutto il mondo. Solo in Europa, per circa 600 miliardi di dollari, al
contrario di Merril Lynch i cui prodotti abbondavano nella pancia dei fondi pensione
americani”. Non c’è che dire: un segnale chiaro e ben preciso.
4) Conclusioni
Gli elementi di criticità relativi all’economia statunitense che vi abbiamo proposto nel corpo del
testo sono, a nostro giudizio, ben sintetizzati nell’andamento del cambio dollaro/euro, vicino
alla soglia psicologica di 1,35 nonostante la forte recessione che sta affrontando l’intera Uem.
Riteniamo inoltre, che il contenuto politico di tale paradigma, così come i suoi effetti, non sia
circoscrivibile, né alle due sponde dell’Atlantico, né alle pur importanti scelte di politica
industriale, bensì attenga geograficamente ed economicamente all’intero sistema, visto il ruolo
simultaneo di riserva di valore e di valuta per il commercio internazionale che ricopre
attualmente il dollaro.
Ad oggi, si stima che il 64% delle riserve di tutte le banche centrali mondiali sia denominato
nella valuta americana a fronte del 26% ricoperto da quella europea (nel 2008, secondo il
rapporto della Banca Centrale di Russia, l’euro ha superato il dollaro nelle rispettive quote delle
riserve internazionali). Nonostante questo dato, non sarà superfluo ricordare come il 16 giugno
2009, presso Ekaterinburg, l’incontro dei capi di stato di Brasile, Russia, India e Cina ha posto
esplicitamente il problema di un sistema finanziario globale maggiormente diversificato quindi,
meno ancorato al biglietto verde. Inoltre, i membri del cosiddetto BRIC, il cui Pil è passato dal
7,5% del Pil mondiale, nel 1999, al 15% del Pil mondiale, nel 2009, hanno sollevato il tema
della riforma complessiva delle Istituzioni finanziarie internazionali, le quali dovranno riflettere
maggiormente i cambiamenti intervenuti nell’economia mondiale, nel corso dell’ultimo
decennio. La stessa vittoria dei democratici, il 30 agosto, in Giappone, pare abbia avviato il
paese del sol levante, detentore di oltre 600 miliardi di dollari di Treasury bond US, verso una
maggior autonomia politica dagli USA, oltre ad una più forte volontà di integrazione economica
con l’Asia (Cina in primo luogo).
Un ulteriore fattore di incertezza è dato dal fatto che i Fondi Sovrani – strumenti finanziari
posseduti da stati sovrani che amministrano e gestiscono fondi pubblici investendoli in un
ampio ventaglio di asset – stanno, in parte, dirottando le proprie risorse non più verso l’acquisto
di buoni del tesoro Usa (se non in quelli di breve periodo), bensì nel finanziamento di opere
pubbliche nazionali, nell’acquisizione di partecipazioni di aziende estere (soprattutto in
compagnie petrolifere) ed in investimenti infrastrutturali in aree ricche di materie prime. A titolo
di esempio, si pensi solo che dall’inizio della crisi finanziaria nel 2007, le banche centrali
Occidentali hanno elargito ai rispettivi istituti di credito oltre 1.000 miliardi di dollari; ma questi
soldi non hanno ancora finanziato attività effettive. Al contrario, la Cina nella forma di un
programma – che si basa su due assi istituzionali: un sistema bancario controllato dallo Stato ed
il comparto dell’industria pubblica, primariamente concentrato nei rami della siderurgia,
chimica, cemento – ha deciso di investire, nel novembre del 2008, qualcosa come 586 miliardi
di dollari articolati su due anni, pari al 7% del proprio Pil per ciascun anno, i cui esiti non si
sono fatti attendere: Il Pil cinese è cresciuto del 6,1%, nel I trimestre 2009, del 7,9%, nel
secondo trimestre e dell’8,9%, nel III trimestre, con una media del +7,7% dall’inizio dell’anno
in corso, in linea con l’obiettivo dell’8% che si era dato il governo di Pechino. Ed è proprio “Il
Sole 24 Ore”, in data 22 ottobre, a ricordarci come “il progresso più significativo sia legato al
+52,6% degli investimenti nelle infrastrutture, segno del forte ruolo pubblico di sostegno
all’economia cinese(45)”.
Il 6 ottobre scorso, “The Independent” ha pubblicato un articolo dal forte significato
geoeconomico, il quale ha suscitato molto clamore. Il titolo d’altronde, è assai emblematico: “Il
crollo del dollaro”. Secondo il quotidiano britannico Cina, Russia, Francia e Giappone, insieme
a una serie di paesi arabi starebbero trattando per sostituire il dollaro come moneta di
riferimento nel commercio di petrolio. L’intenzione sarebbe quella di utilizzare un paniere di
valute tra cui lo yen giapponese, il yuan cinese, l’euro oltre ad una nuova valuta unitaria
concordata in via di istituzione tra i paesi del Golfo. In ogni caso, già dal mese di marzo, la Cina
non fece mistero di volere ricorrere al transitorio uso di un paniere di valute – Sdr – a cui
ancorare anche lo yuan, per poi sviluppare, in un secondo momento, la nota proposta di J.M.
Keynes, rifiutata dagli USA a Bretton Woods, di una moneta di riferimento sovranazionale: il
Bancor.
Gli effetti di una tale scenario, a nostro avviso ancora difficilmente concretizzabile, sarebbero
comunque dirompenti, ad esempio in termini di potere di signoraggio. Quest’ultimo, per la
verità, non è già più ad appannaggio esclusivo ed incontrastato degli Stati Uniti d’America,
dopo la nascita della moneta unica; per dirla con le parole di Guido Carli, “la realizzazione del
trattato di Maastricht significherebbe la sottrazione agli Stati Uniti di quasi la metà del potere
di signoraggio di cui dispongono”.
Verosimilmente, il modo migliore per presupporre scenari futuri credibili sarebbe quello di
capire come uscire da una crisi economico-finanziaria che non ci pare volgere al termine; anzi,
l’impressionante crescita del valore dell’oro (al nuovo record di 1195,13$/oncia, il 26
novembre), nonostante un forte calo della domanda mondiale per gioielleria avutasi nel II
trimestre del 2009, significa che il metallo prezioso, lungi dall’essere quel “residuo di tempi
barbarici” di cui parlava J.M. Keynes, sta tornando ad assumere il ruolo di valuta rifugio, di
moneta mondiale (nel corso del solo mese di aprile 2009, le riserve auree cinesi sono aumentate
del 75%, passando da 600t a 1.054t).
In conclusione, il futuro dell’economia americana e del dollaro dipenderà in definitiva dalla
politica che saranno capaci di mettere in campo gli Stati Uniti: infatti, come aveva già capito
Quintino Sella, se un paese è politicamente debole, è difficile che la sua moneta sia forte.
5) Bibliografia
1) “Sui Principi di Economia Politica e della Tassazione” – David Ricardo – (1815/21);
2) “Prospettive economiche per i nostri nipoti” – J.M. Keynes – Madrid, 1930;
3) “Storia dell’analisi economica” – J.A. Schumpeter – (1914/1950);
4) “L’età dello spreco” – Giorgio Lunghini – Roma/Bari, 1994;
5) “Sulle proprietà di equilibrio dei parametri fiscali di Maastricht” – E. Brancaccio – Mimeo, 2001;
6) “Cinquant’anni di vita italiana” – Guido Carli – 1993;
7) “World Economic Outlook” – International Monetary Found – October 2009;
8) “Economic Indicators” – Council of Economic Advisers – December 2009;
9) “Report” – Economi Policy Institute – 2 ottobre 2009;
10) National Bureau of Economic Research; www.nber.org
11) National Bureau of Economic Analyses; www.bea.gov
12) National Bureau of Labour Statistics; www.bls.gov
13) “Il Sole 24 ore”; www.ilsole24ore.com
14) “La Repubblica”; www.repubblica.it
15) “Financial Times”;
16) “ The Independent”.