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1 1. IL NUOVO TESTAMENTO Il Nuovo Testamento costituisce la seconda parte della Bibbia cristiana, non accettata dagli Ebrei, che non riconoscono in Gesù di Nazareth il Messia atteso. Mentre l'AT è andato componendosi nel corso di secoli, in cui svariate tradizioni sono state tramandate e poi messe per iscritto, la produzione letteraria del NT si è concentrata in qualche decennio appena, nello spazio di tempo compreso fra il 49 d.C. e la fine del I sec. d.C. In questo breve tempo hanno preso forma i 27 libri che compongono il NT, secondo diverse tipologie di generi letterari: - i vangeli: si tratta di racconti che ci narrano le vicende su Gesù, dalle sue origini (nel caso di Mt e Lc) fino alla sua resurrezione. Ai vangeli possiamo unire gli Atti degli Apostoli, perché questo libro si pone in continuità con il vangelo secondo Luca, come se fosse il secondo tomo di un'unica grande opera; - l'epistolario paolino. È composto da 13 lettere, che sono riconosciute come opera dell'apostolo Paolo. Il fatto che la paternità della metà degli scritti neotestamentari sia paolina evidenzia la straordinaria importanza che questo personaggio ebbe nei primi decenni del cristianesimo e sulla quale torneremo; - lettere cattoliche. È un gruppo di 7 lettere (lettera di Giacomo, due lettere di Pietro, tre lettere di Giovanni e la lettera di Giuda) la cui paternità è attribuita ad alcuni degli apostoli. La dicitura cattoliche non è da intendersi in senso confessionale, ma letterale. L'aggettivo greco katholikos significa «universale» ed è in questa accezione che deve essere inteso qui. Queste lettere sono definite in tal modo perché non sono indirizzate espressamente (come le lettere paoline) a una comunità o a una persona in particolare, ma hanno come loro destinatario la Chiesa intera; - completano la composizione del NT altri due scritti, non riconducibili alla ripartizione precedente: la lettera agli Ebrei e l'ultimo libro della Bibbia, l'Apocalisse di San Giovanni. La lingua utilizzata per tutti questi scritti è il greco; non il greco dell'età classica (l'attico che si studia nei nostri licei), ma il greco ellenistico, che ne costituisce uno sviluppo ulteriore. 1.1. I vangeli e gli Atti Prima di trattare singolarmente ciascuno dei quattro vangeli, cerchiamo di comprendere, anzitutto, cosa siano i vangeli e come si è arrivati a questi racconti.

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1. IL NUOVO TESTAMENTO

Il Nuovo Testamento costituisce la seconda parte della Bibbia cristiana, non accettata dagli

Ebrei, che non riconoscono in Gesù di Nazareth il Messia atteso. Mentre l'AT è andato

componendosi nel corso di secoli, in cui svariate tradizioni sono state tramandate e poi messe per

iscritto, la produzione letteraria del NT si è concentrata in qualche decennio appena, nello spazio di

tempo compreso fra il 49 d.C. e la fine del I sec. d.C. In questo breve tempo hanno preso forma i 27

libri che compongono il NT, secondo diverse tipologie di generi letterari:

- i vangeli: si tratta di racconti che ci narrano le vicende su Gesù, dalle sue origini (nel

caso di Mt e Lc) fino alla sua resurrezione. Ai vangeli possiamo unire gli Atti degli

Apostoli, perché questo libro si pone in continuità con il vangelo secondo Luca, come se

fosse il secondo tomo di un'unica grande opera;

- l'epistolario paolino. È composto da 13 lettere, che sono riconosciute come opera

dell'apostolo Paolo. Il fatto che la paternità della metà degli scritti neotestamentari sia

paolina evidenzia la straordinaria importanza che questo personaggio ebbe nei primi

decenni del cristianesimo e sulla quale torneremo;

- lettere cattoliche. È un gruppo di 7 lettere (lettera di Giacomo, due lettere di Pietro, tre

lettere di Giovanni e la lettera di Giuda) la cui paternità è attribuita ad alcuni degli

apostoli. La dicitura cattoliche non è da intendersi in senso confessionale, ma letterale.

L'aggettivo greco katholikos significa «universale» ed è in questa accezione che deve

essere inteso qui. Queste lettere sono definite in tal modo perché non sono indirizzate

espressamente (come le lettere paoline) a una comunità o a una persona in particolare,

ma hanno come loro destinatario la Chiesa intera;

- completano la composizione del NT altri due scritti, non riconducibili alla ripartizione

precedente: la lettera agli Ebrei e l'ultimo libro della Bibbia, l'Apocalisse di San

Giovanni.

La lingua utilizzata per tutti questi scritti è il greco; non il greco dell'età classica (l'attico che

si studia nei nostri licei), ma il greco ellenistico, che ne costituisce uno sviluppo ulteriore.

1.1. I vangeli e gli Atti

Prima di trattare singolarmente ciascuno dei quattro vangeli, cerchiamo di comprendere,

anzitutto, cosa siano i vangeli e come si è arrivati a questi racconti.

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2.1.1. Il termine «vangelo» e la nascita dei vangeli

Il termine greco euanghelion non ha sempre avuto non ha sempre avuto il medesimo

significato che oggi gli attribuiamo. Possiamo riconoscere una evoluzione in tre fasi:

1. nel greco antico e classico il termine indicava una generica buona notizia, soprattutto

nell'ambito politico-militare in relazione a una vittoria. In epoca imperiale gli euanghelia

sono i lieti annunci che proclamano la nascita o la salita al trono di un imperatore, con il

quale è associato l'inizio di una nuova era di prosperità. Il significato generale di «buona

notizia» si ritrova anche negli usi che di questo termine fa la traduzione greca della

Settanta (cf. 2Sam 4,10; 18,20.22.25.27; 2Re 7,9). Nel libro di Isaia il termine indica una

buona notizia particolare: quella della salvezza che Dio avrebbe operato alla fine dei

tempi (Is 40,9; 52,7; 61,1). In questo primo uso possiamo trovare due aspetti presenti nel

significato di euanghelion: oralità dell'annuncio di tale notizia e positività del suo

contenuto;

2. nei primi decenni del cristianesimo il termine passò ad indicare il contenuto centrale

della predicazione cristiana. Gesù è stato il primo a predicare il Vangelo, ossia il

messaggio della salvezza (Mc 1,15). Questo uso è attestato soprattutto nelle lettere

paoline: per Paolo il Vangelo è l'annuncio fondamentale della morte, sepoltura,

resurrezione e apparizioni post-pasquali del Signore. In tal modo, da evangelizzatore,

Gesù diventa oggetto della predicazione del Vangelo;

3. a partire dalla seconda metà del I sec. il termine passa infine a indicare i racconti sulla

vita di Gesù che iniziano a sorgere proprio in questo periodo. È l'accezione che diamo

oggi al nostro termine.

Ma come si giunse a questi racconti scritti? Spesso oggi si pensa che i vangeli siano sorti dal

nulla e, poiché sono successivi alcuni decenni alla morte di Gesù, essi non possano essere stati

fedeli a quello che era stato effettivamente il ministero di Gesù. Il trentennio che trascorse fra la

morte di Gesù e la stesura del primo vangelo, tuttavia, non è da intendere come uno spazio vuoto, in

cui non vi fu nulla che riguardasse Gesù, come se quest'ultimo fosse stato dimenticato. Il prologo

del vangelo di Luca ci conferma questo dato:

«Poiché molti hanno cercato di raccontare con ordine gli avvenimenti che si sono compiuti fra noi, come ce

li hanno trasmessi coloro che ne furono testimoni oculari fin da principio e divennero ministri della Parola,

così anch'io ho deciso di fare ricerche accurate su ogni circostanza, fin dagli inizi, e di scriverne un resoconto ordinato per te, illustre Teofilo, in modo che tu possa renderti conto della solidità degli

insegnamenti che hai ricevuto» (Lc 1,1-4).

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È possibile riconoscere tre fasi fondamentali nello sviluppo storico che ha portato alla

nascita dei vangeli:

1. anzitutto vi sono i fatti della vita di Gesù, che i testimoni oculari, negli anni

immediatamente successivi alla morte di Gesù, trasmisero oralmente. Abbiamo già

accennato alla rilevanza della trasmissione orale in antichità;

2. nel suo prologo Luca fa riferimento ad alcuni racconti scritti su Gesù e la sua vita che

circolano già fra i primi cristiani. Gli studiosi hanno ricostruito le seguenti fonti: 1) il

canovaccio della passione. I primi eventi della vita di Gesù a essere messi per iscritto

furono indubbiamente quelli della passione, perché la morte e la resurrezione di Gesù

furono considerati gli eventi centrali della salvezza operata da Gesù; 2) le lettere di

Paolo. La stesura delle lettere paoline fu precedente rispetto a quella dei vangeli e queste

lettere contengono riferimenti ad alcuni detti di Gesù, di cui poi troviamo riscontro nei

vangeli; 3) la nota fonte Q (dal tedesco Quelle = «fonte»). Si tratta di uno scritto che

raccoglieva la gran parte dei detti di Gesù presenti nei vangeli di Matteo e Luca, che

utilizzarono questa fonte inserendola nei loro vangeli, come attestano le impressionanti

corrispondenze verbali fra questi due vangeli;

3. l'ultima fase è il tempo degli evangelisti, quando ciascuno di questi scrittori raccolse il

materiale trasmesso su Gesù (orale e scritto) e lo organizzò in racconti organici della vita

di Gesù.

Il primo vangelo a essere composto fu quello di Marco fra il 65 e il 70 d.C. Circa un

decennio dopo fu la volta di Matteo e Luca, che redassero i loro vangeli basandosi sia sullo scritto

di Marco sia sulla fonte Q. Infine, probabilmente nell'ultimo decennio del I sec., fu scritto il vangelo

secondo Giovanni, il quale sembra raccontare in maniera piuttosto indipendente dagli altri vangeli,

contenendo materiale che gli altri tre vangeli non riportano. Ecco perché, mentre i primi tre vangeli

sono definiti Sinottici (dal greco syn-opsis = «sguardo simultaneo») perché riportano racconti e detti

simili di Gesù, il quarto vangelo è di solito considerato a parte.

Non di rado, oggi i vangeli sono considerati come delle biografie di Gesù. Il genere

letterario della biografia era molto diffuso in età ellenistica (come dimostrano le Vite dei Filosofi di

Diogene Laerzio, o le Vite dei Cesari di Svetonio o le Vite parallele di Plutarco). Queste biografie

erano scritte per due motivi fondamentali: da una parte esse volevano celebrare il personaggio di cui

venivano raccontate le gesta, in modo tale che potesse essere lodato anche fra i posteri; dall'altra, le

biografie volevano indicare quel determinato personaggio come modello di virtù da seguire. Di

questi personaggi venivano raccontate di solito le origini e la nascita, la sua educazione e le sue

gesta. Ora, alla luce di questa breve descrizione delle biografie di quel tempo, è molto difficile che i

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vangeli siano biografie. Anzitutto perché i racconti evangelici non ci forniscono informazioni

sull'educazione di Gesù, come anche solo Matteo e Luca riportano i racconti sulla nascita e le

origini di Gesù (non così Marco e Giovanni). Inoltre, i vangeli non furono scritti per esaltare la

figura di Gesù o per indicarlo semplicemente come un maestro etico. Piuttosto, i vangeli furono

scritti perché il messaggio della salvezza, inaugurato di Gesù, potesse essere sempre più conosciuto

e accolto. Possiamo definire i vangeli come racconti kerygmatici, che intendono essere annunci su

Gesù come Signore e Salvatore del mondo. Ciascuno dei quattro vangeli, nella sua originalità,

dovuta alle circostanze storiche in cui prende forma, contribuisce a mettere in luce un aspetto, una

peculiarità, di quel mistero inesauribile che è la persona di Gesù e la salvezza da lui compiuta.

Insieme, essi costituiscono un mosaico che ricompone la profonda identità di Gesù, della Chiesa e

di ogni discepolo.

2.1.2. Il vangelo secondo Marco

La più antica testimonianza su questo scritto risale già agli inizi del II sec., quando Papia,

vescovo di Gerapoli, riporta in un suo scritto che questo vangelo fu scritto da un certo Marco, che

non era stato discepolo di Gesù, ma che viene presentato come «interprete» di Pietro. Di un

personaggio di nome Marco ci parlano anche diversi testi del Nuovo Testamento (At 12,12.25;

13,13; Fm 24; Col 4,10; 2Tm 4,11; 1Pt 5,13), che ce lo presentano come un discepolo originario di

Gerusalemme, che in seguito fu collaboratore degli apostoli Pietro e Paolo. È probabile che si tratti

dello stesso Marco che compose il vangelo. I diffusi riferimenti a un clima di persecuzione lungo il

vangelo fanno pensare che il vangelo di Marco sia stato scritto durante la prima grande

persecuzione, organizzata in modo sistematico, sofferta dai cristiani: la celebre persecuzione di

Nerone del 64 d.C. Questo conferma il dato trasmesso dalla tradizione cristiana, secondo cui il

vangelo secondo Marco fu scritto a Roma, come confermano anche i numerosi latinismi presenti nel

greco di questo vangelo. Lo scopo per il quale Marco, fra il 65 e il 70 d.C., avvertì l'esigenza di

scrivere questo vangelo fu quello di fortificare la fede dei suoi destinatari, messa a dura prova dalla

persecuzione in atto. Il discepolo di Gesù è colui che segue il suo Maestro sulla via dura e difficile

della sofferenza: a tale modello si sarebbero dovuti conformare i cristiani di Roma, mantenendo

salda la loro fedeltà a Gesù.

Cerchiamo di evidenziare i contenuti principali del vangelo più antico. La più grande

preoccupazione di Marco è quella di mostrare la vera identità di Gesù. Il lettore del vangelo non

deve cercare di comprendere chi è Gesù unicamente a partire dai numerosi miracoli che questo

vangelo presenta. Certamente, essi mostrano la straordinaria potenza di Gesù, ma rischiano di

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presentarlo esclusivamente un Messia potente, secondo le attese di Israele, il cui Messia sarebbe

stato un capo politico e nazionalistico che avrebbe sconfitto i nemici del popolo. Invece, invitando

ripetutamente a mantenere il riserbo sui prodigi da lui compiuti (si parla, a tal proposito, di segreto

messianico, che è uno degli elementi caratteristici di questo vangelo), Gesù vuole evitare che si

diffonda una simile idea sulla sua persona. Per l'evangelista Marco la vera identità di Gesù si rivela

nel momento della croce, quando un centurione romano lo riconosce come Figlio di Dio. È in quel

momento di sofferenza e morte che Gesù si rivela pienamente nella sua identità più profonda. Per

Marco Gesù è soprattutto il Figlio di Dio crocifisso, che per giungere alla glorificazione celeste,

deve passare necessariamente attraverso l'umiliazione della sofferenza e della morte.

A un tale Messia sono chiamati a conformarsi tutti coloro che vogliono seguirlo come

discepoli. Il vangelo più antico è chiamato anche «vangelo del discepolo», perché presenta diversi

insegnamenti di Gesù sul discepolato. Ogni seguace di Gesù è chiamato a ricalcare le orme del suo

Maestro: come Gesù, anch'egli è chiamato ad annunciare il Vangelo della venuta del Regno di Dio,

a compiere esorcismi e miracoli, a soffrire per la propria missione. Nella visione di Marco i

discepoli sono, perciò, coloro che, dopo la morte e resurrezione di Gesù, saranno chiamati a

proseguire la missione del loro Maestro. C'è un ultimo aspetto dei discepoli che merita di essere

segnalato. Durante gli eventi che conducono alla morte di Gesù, i discepoli abbandonano il loro

Maestro fuggendo. Questo loro fallimento nella sequela sarà riscattato da Gesù Risorto, che

ristabilirà con loro un rapporto di comunione (Mc 16,7). Il discepolato, allora, non è primariamente

uno sforzo umano, ma un dono e una chiamata di Gesù, cui ogni discepolo è chiamato a rispondere

nella propria libertà.

Infine un ultimo aspetto di questo vangelo è la presenza numerosa di racconti di esorcismo.

Più degli altri vangelo, Marco intende sottolineare che con Gesù ha inizio il regno di Dio, che pone

fine al dominio di Satana e del male nel mondo. I miracoli e gli esorcismi che Gesù compie

anticipano la condizione che vi sarà alla fine dei tempi, quando il male sarà definitivamente

sconfitto.

2.1.3. Il vangelo secondo Matteo

Nel corso della storia della Chiesa è stato definito il vangelo «ecclesiale», perché è stato

quello più utilizzato nella liturgia e più commentato. Esso è attribuito a Matteo, che fece parte del

gruppo dei Dodici. Tuttavia, se fu l'apostolo Matteo (dunque, un testimone oculare) a scrivere

questo vangelo, perché egli si servì come fonte del vangelo di Marco? Inoltre, considerando che il

vangelo di Matteo fu scritto fra l'80 e il 90 d.C., si dovrebbe supporre che l'apostolo abbia raggiunto

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un'età veneranda che difficilmente veniva raggiunta a quel tempo. Perciò, è molto probabile che

questo vangelo non fu scritto materialmente da Matteo, ma fu redatto da alcuni cristiani che erano

legati alla predicazione di questo apostolo o appartenenti alla comunità di cui Matteo faceva parte.

L'ambiente in cui questo scritto nacque era una comunità di cristiani provenienti che si erano

convertiti dal giudaismo. Diversi indizi presenti nel testo indicano questo: il grande uso di citazioni

dell'AT, i riferimenti a diverte tradizioni giudaiche. Nonostante questa forte presenza di elementi

giudaici, il vangelo di Matteo è quello che contiene i rimproveri più duri di Gesù proprio contro le

autorità religiose del popolo giudaico. Questo può riflettere la situazione storica in cui questo

vangelo fu scritto, quella successiva al 70, quando il cristianesimo, fino ad allora considerata una

setta del giudaismo, iniziò a prendere sempre più le distanze dalla sua matrice giudaica. Questa

estrema vicinanza al mondo giudaico fa pensare che Matteo abbia scritto il suo vangelo per le

comunità presenti nell'area siro-palestinese, dove ovviamente era più forte la presenza giudaica. Gli

studiosi considerano Antiochia di Siria (uno dei centri più importanti dell'Impero romano e con

un'alta densità di comunità giudaiche) come il luogo più probabile per la composizione di questo

vangelo. Lo scopo per il quale Matteo scrisse il suo vangelo fu proprio quello di definire l'identità

cristiana rispetto al giudaismo, mostrando come Gesù avesse sancito una netta linea di

demarcazione fra queste due realtà. Se è vero che il cristianesimo era nato in seno al giudaismo, è

anche vero che ormai esso ne ha preso le distanze, aprendosi anche a credenti che erano divenuti

cristiani senza aver abbracciato in precedenza la religione giudaica.

Quattro sono i contenuti del vangelo di Matteo che possiamo mettere in evidenza. Anzitutto,

Matteo delinea nel suo racconto una vera e propria teologia della storia. Mediante l'uso di tante

citazioni dell'AT, egli mostra che con Gesù hanno trovato compimento le tante profezie delle

Scritture ebraiche: Gesù è realmente il Messia di Israele. Tuttavia, la salvezza che Gesù è venuto a

operare non è destinata soltanto a Israele, ma a tutti gli uomini; anzi, proprio la chiusura di Israele,

mediante l'ostilità delle autorità religiose, porta Gesù (e i suoi discepoli, in futuro) a rivolgersi a

coloro che non erano giudei. Matteo insiste sull'universalità della salvezza: non a caso, Gesù risorto,

alla fine del vangelo, invia i suoi discepoli ad andare in tutto il mondo e a battezzare tutti gli

uomini. Quest'apertura ai pagani non significa l'esclusione di Israele dalla salvezza: i Giudei restano

destinatari della salvezza, a patto che si convertano e accolgano il messaggio di Gesù.

Nella presentazione di Gesù, Matteo sottolinea l'identità divina di Gesù. Più volte egli è

presentato come l'Emmanuele, che significa «Dio con noi» (cf. Mt 1,23; 18,20; 28,20): Gesù è colu

nel quale Dio si rende presente venendo ad abitare in mezzo agli uomini. Un altro elemento che

sottolinea la divinità di Gesù è il fatto che, nel corso del vangelo, diversi personaggi si prostrano

davanti a lui: la proskynesis, nella mentalità giudaica, era un atto riservato solo a Dio. Infine, Gesù

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viene spesso chiamato in questo racconto come Kyrios (= «Signore»), che è il termine con il quale

la traduzione greca dell'AT indica Dio. Oltre a presentarlo come personaggio dai tratti divini,

Matteo considera Gesù come il Messia di Israele, di discendenza davidica, come sottolineato

dall'uso del titolo figlio di Davide.

Un altro tema molto importante del vangelo di Matteo è quello della Chiesa, a cui

l'evangelista dedica uno dei cinque grandi discorsi che scandiscono la sua narrazione (Mt 18). Per

Matteo la Chiesa è una realtà fatta dai discepoli di Gesù chiamati a essere «piccoli» e «fratelli».

Piccoli devono esserlo di fronte a Dio: essi devono riporre la loro totale fiducia in Dio, come fanno

i bambini verso i loro genitori. Fratelli connota invece la relazione orizzontale fra i cristiani: la

concretizzazione più autentica di questa fratellanza si rivela nel perdono, al quale il cristiano deve

essere sempre disposto perché egli è il primo a essere perdonato sempre da Dio. La comunità

cristiana deve farsi attenta a coloro che stanno al di fuori di essa e andare alla loro ricerca, come fa

un pastore con le sue pecorelle.

L'ultimo aspetto che Matteo sottolinea riguarda l'etica. Essa si fonda sul compiere la volontà

di Dio, che il discepolo può realizzare non semplicemente ascoltando la parola di Gesù o avendo il

suo nome sulle labbra. L'evangelista rimarca l'importanza dell'agire concreto, del «fare» quelle

opere buone che permettono al discepolo di essere giusto. La giustizia, per Matteo, non è quella

concepita dai farisei come semplice osservanza dei comandamenti, ma si estende a quell'amore per i

più piccoli e persino per i propri nemici che costituiscono il nucleo centrale dell'etica di Gesù. Su

questo tema fondamentale è il celebre «Discorso della Montagna» (Mt 5-7), da molti interpretato

come l'insegnamento etico fondamentale dei vangeli, all'interno del quale ritroviamo il celeberrimo

testo delle Beatitudini e quello su Padre Nostro.

2.1.4. Il vangelo secondo Luca

Tutti gli studiosi sono oggi concordi nel ritenere il vangelo secondo Luca come la prima

parte di un dittico, di una grande opera storiografica, che comprende anche gli Atti degli Apostoli,

come torneremo a dire. Fin dall'antichità il terzo vangelo è stato attribuito a Luca, che fu compagno

e collaboratore dell'apostolo Paolo, come lo stesso libro degli Atti ci rivela quando il narratore passa

a raccontare le vicende alla prima persona plurale (At 16,10-17; 20,5-15; 21,1-18; 27,1-28,16).

Secondo la tradizione era originario di Antiochia di Siria e questo spiegherebbe la sua grande

conoscenza della cultura greca, che si dimostra soprattutto nella qualità del greco del suo vangelo,

uno dei migliori di tutto il NT. Luca scrive il suo vangelo, al pari di Matteo, fra l'80 e il 90 d.C., ma

a differenza dell'altro, il suo racconto è destinato a cristiani che non erano giunti al cristianesimo

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passando per il giudaismo: non a caso, l'evangelista cerca di evitare tutte le espressioni semitiche,

che sarebbero risultate incomprensibili ai suoi destinatari di cultura greca.

Nel proemio del suo vangelo Luca chiarisce la motivazione per la quale egli scrive il suo

vangelo a questo destinatario, Teofilo, che potrebbe essere un personaggio reale (Teofilo era un

nome molto diffuso a quel tempo) o fittizio (etimologicamente significa «amico di Dio»): egli vuole

rinsaldare la fede del suo destinatario. Per far questo egli si propone di redigere un resoconto

preciso e ordinato degli avvenimenti della vita di Gesù. La finalità di Luca è, dunque, catechetica.

Sul piano dei contenuti, anche Luca delinea nel suo vangelo una storia della salvezza, come

già Matteo. Mentre quest'ultimo insiste sul fatto che Gesù costituisce il compimento delle promesse

dell'AT, Luca è il più attento fra gli evangelisti a inserire le vicende di Gesù nel quadro storico del

suo tempo (Lc 1,5; 2,1-2; 3,1-2). Luca non fa questo soltanto perché vuole essere preciso sul piano

storico. Per Luca la storia umana è il luogo dove Dio realizza la salvezza, entrando nelle vicende

concrete degli uomini. L'evangelista suddivide la storia in tre fasi: 1) il tempo delle promesse,

precedente a Gesù, che si conclude con la venuta di Giovanni Battista. È il tempo in cui i profeti

preannunciano la salvezza che si sarebbe compiuta con Gesù; 2) il tempo di Gesù, che per Luca

costituisce il centro del tempo; 3) il tempo della Chiesa, che avrà la funzione di estendere nella

storia successiva la salvezza operata da Gesù. Queste tre fasi non sono da intendere come

compartimenti stagni, ma come tre fasi di un unico grande disegno divino sull'intera storia

dell'umanità. Oltre a essere una salvezza per tutti i tempi, quella operata da Dio per mezzo di Gesù è

anche una salvezza per tutti i popoli. Forse per la sua origine non-giudaica (a differenza degli altri

evangelisti), Luca è colui che mostra maggiormente l'adesione alla fede di diversi uomini e donne

provenienti dai Gentili (= non giudei). L'universalità della salvezza non è intesa da Luca soltanto sul

piano etnico, ma tale universalità comprende anche le classi sociali più emarginate del suo tempo:

poveri, pubblicani, peccatori, stranieri e donne.

Circa la presentazione di Gesù, Luca è l'unico evangelista a utilizzare per Gesù il titolo di

Soter (= «Salvatore»). Per l'evangelista, Gesù è l'inviato di Dio venuto a realizzare la salvezza. Ma,

oltre a questo significato religioso, questo titolo assume anche un certo significato politico. Infatti,

diversi sovrani ellenisti assumevano il titolo di soter per esaltare la propria potenza e benevolenza

verso i propri sudditi. Indicando Gesù come Soter, Luca vuole ribadire che l'uomo non può ricercare

la salvezza confidando in altri uomini, anche i più potenti; essa, invece, resta un dono che solo Dio

può concedere.

Grande spazio è dato da Luca anche allo Spirito Santo. Come farà in seguito la teologia

cristiana, Luca non concepisce lo Spirito Santo come un'energia impersonale. Spesso, Luca presenta

lo Spirito Santo come una forza dai tratti personali, che guida le vicende di Gesù (nel vangelo) e poi

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quelle della Chiesa (nel libro degli Atti): in tal modo lo Spirito è ciò che dà continuità alla missione

di Gesù e quella dei suoi discepoli.

Infine, il vangelo di Luca può essere concepito come un prontuario di indicazioni concrete

per il discepolo, concentrate soprattutto nella grande sezione del viaggio di Gesù verso

Gerusalemme (Lc 9,51-19,44), che costituisce la parte principale dell'intero vangelo. Quattro sono

gli atteggiamenti richiesti al discepolo: 1) il pentimento per i propri peccati, che apre alla

misericordia di Dio. Non a caso Luca è l'evangelista che inserisce nel suo vangelo le pagine più

belle sulla misericordia del Signore (come la parabola del figliol prodigo o l'episodio del buon

ladrone); 2) la preghiera. Luca è l'evangelista che più di tutti ci presenta spesso Gesù in preghiera,

come modello per i suoi discepoli, oppure inserisce nel vangelo diversi insegnamenti di Gesù sulla

preghiera; 3) la libertà dalle ricchezze. Luca è molto attento al tema della ricchezza, che, se

posseduta in maniera egoistica e nella chiusura ai più poveri, costituisce uno dei più grandi ostacoli

per una fede autentica; 4) la gioia, che il discepolo deve vivere a motivo della salvezza ricevuta.

2.1.5. Il vangelo secondo Giovanni

Fin dai primi secoli è emersa la grande differenza fra questo vangelo e i vangeli sinottici.

Uno dei Padri della Chiesa vissuto agli inizi del III sec., Clemente d'Alessandria, afferma che,

mentre nei primi tre vangeli erano stati esposti gli eventi «materiali» della vita di Gesù, il quarto

costituiva un «vangelo spirituale». L'idea che sorse da questa affermazione era che la narrazione del

quarto vangelo dovesse essere meno storica e più di natura simbolica. Nel corso dei secoli questo

pregiudizio è stato superato, sebbene sia sufficiente una semplice lettura per rendersi conto delle

grandissime differenze che vi sono fra il quarto vangelo e i Sinottici. I contenuti del vangelo di

Giovanni sono nettamente differenti rispetto al materiale incluso nei Sinottici, che invece, come

abbiamo detto, è molto simile. Il messaggio centrale di Gesù nei Sinottici, la venuta del Regno di

Dio, sembra eclissarsi nel vangelo di Giovanni, dove invece Gesù tende più a parlare di se stesso in

prima persona. Anche lo schema fondamentale del ministero di Gesù è differente: mentre nei

Sinottici Gesù sale solo una volta a Gerusalemme durante il suo ministero (in occasione della

Pasqua nella quale trova la sua morte), nel quarto vangelo egli vi si reca più volte. Altra

caratteristica che distingue il quarto vangelo dagli altri è la minore presenza di racconti e una

maggiore diffusione di ampi discorsi di Gesù, che rendono più faticosa la lettura di questo vangelo

rispetto agli altri. Nonostante queste differenze, vi sono anche diversi punti di contatto con gli altri

vangeli, che aumentano soprattutto nella conclusione del racconto, ossia nel racconto della passione

di Gesù.

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La tradizione cristiana ha attribuito questo vangelo all'apostolo Giovanni, uno dei Dodici.

Tuttavia, essendo stato composto questo vangelo nell'ultimo decennio del I sec., una tale paternità

dovrebbe presupporre un Giovanni centenario. Anche in questo caso, è meglio presupporre che un

gruppo di discepoli, che si rifaceva alla testimonianza e all'annuncio di questo apostolo, abbia poi

successivamente composto questo vangelo. Come dimostra anche l'Apocalisse, anch'essa attribuita

a Giovanni, il gruppo che si rifaceva all'eredità dell'apostolo Giovanni visse e operò in Asia Minore,

attorno al grande centro di Efeso, dove probabilmente vide la luce questo vangelo. Anche quest'area

è densamente abitata da gruppi giudaici, con i quali la comunità cristiana a cui l'autore scrive

sembra essere ormai entrata in contrasto: addirittura, in Gv 9,22-34, nell'episodio del cieco nato, si

allude all'espulsione dalla sinagoga, che i cristiani subirono ad opera dei Giudei soprattutto negli

ultimi decenni del I secolo.

Come per il vangelo di Luca, anche Giovanni afferma in modo esplicito la finalità per la

quale egli scrive il suo vangelo (Gv 20,31): anche in questo caso questo racconto evangelico è

scritto per rafforzare la fede dei suoi destinatari.

Rispetto agli altri vangeli, il vangelo di Giovanni presenta delle caratteristiche letterarie che

rafforzano la sua peculiarità rispetto agli altri e lo rendono di difficile lettura: il linguaggio è spesso

carico di significati simbolici; il vocabolario, pur essendo esiguo, esprime una ricchezza

contenutistica che ne rende difficile l'interpretazione; frequenti sono spesso le ripetizioni che,

mentre nella moderna letteratura sono spesso interpretate come imperfezioni della narrazioni, nel

quarto vangelo sono ricercate come tecnica di argomentazione mediante la quale si cerca di chiarire

a più riprese una determinata idea.

Per quanto riguarda i contenuti, il vangelo di Giovanni è quello che maggiormente insiste sul

mistero della Trinità. Dio è presentato come il Padre di Gesù, mentre questi è il Figlio che egli ha

inviato nel mondo perché potesse essere rivelato agli uomini. Tale rivelazione di Dio avviene nel

mistero inaudito e sconvolgente dell'incarnazione, come richiamato fin dal prologo del vangelo (Gv

1,14): il Verbo di Dio si è fatto carne ed è venuto ad abitare in mezzo agli uomini per rivelare il

Padre. Alla luce di questa presentazione di una relazione intima e stretta fra Gesù e Dio, Padre suo,

è evidente che il quarto vangelo è quello che più insiste sulla divinità di Gesù: uno degli elementi

che sottolinea questo fatto è la presenza di tante auto-affermazioni di Gesù con l'espressione «Io

Sono», che richiama il nome di Dio rivelato a Mosè nel libro dell'Esodo. Un altro elemento che

avvicina Gesù a Dio è la gloria. Nell'AT la gloria di Dio non era altro che la sua presenza; ora tale

gloria divina abita in Gesù e, in maniera paradossale, secondo Giovanni, essa si rivela nel momento

meno glorioso della vita di Gesù, ovvero la sua croce. La crocifissione, secondo il nostro

evangelista, è il momento in cui il Padre glorifica il Figlio, in cui Gesù manifesta la sua divinità. E

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questo perché la croce di Gesù è il momento supremo in cui Dio rivela il suo amore infinito per gli

uomini.

Circa lo Spirito Santo, anche per Giovanni, come abbiamo visto già in Luca, lo Spirito

assume tratti personali ed è colui che permette ai discepoli di proseguire l'opera di Gesù. Giovanni

lo presenta in modo singolare come il Paraclito. Questo termine ha diversi significati. Tale figura

era colui che, in un processo, prendeva le difese di un accusato. Lo Spirito è colui che, in situazioni

avverse, assiste, consola, esorta e incoraggia i discepoli di Gesù in quella testimonianza a Gesù che

implica in maniera inevitabile la dura opposizione di quello che Giovanni chiama mondo, termine

che si riferisce al male che si oppone al piano salvifico di Dio.

Per Giovanni, il compito fondamentale dei discepoli sarà quello di rendere testimonianza a

Gesù, nell'annuncio del messaggio evangelico e, soprattutto, con la testimonianza dell'amore

fraterno. Non a caso, la sera precedente della passione, Giovanni non racconta l'ultima cena, ma

narra la lavanda dei piedi e il lungo discorso di Gesù nel quale più volte Gesù ribadisce ai suoi

discepoli il comandamento nuovo dell'amore vicendevole. L'amore tra fratelli che condividono la

stessa fede costituisce, per Giovanni, la testimonianza più evidente che si può rendere a Gesù,

poiché egli è colui che è venuto a rivelare l'Amore autentico, quello del Padre per gli uomini.

Infine, un ultimo concetto caro al vangelo di Giovanni è quello di vita eterna. Essa è la vita

stessa posseduta da Dio che, grazie alla missione del Figlio, viene donata ora ai credenti, per mezzo

del dono dello Spirito. Per ricevere la vita eterna è richiesta agli uomini una sola condizione: la fede

in Dio e in colui che egli ha mandato, Gesù. Il concetto di zoe, termine con il quale Giovanni indica

la vita eterna, esprime l'idea di una vita piena, beata, felice, che trascende i confini terreni e sfocia

nella comunione eterna con Dio.

2.1.6. Gli Atti degli Apostoli

Come abbiamo già accennato, parlando del vangelo secondo Luca, il libro degli Atti

costituisce il secondo tomo di un'unica grande opera progettata da Luca. Basta vedere il proemio del

libro degli Atti per rendersene subito conto. Anche questo libro è indirizzato a Teofilo, lo stesso

destinatario del vangelo di Luca. Inoltre, in questo proemio l'autore fa riferimento al primo libro che

egli ha scritto, in cui egli ha raccontato tutte le vicende riguardanti Gesù dagli inizi fino al giorno

della sua ascensione: sono esattamente i "confini" del terzo vangelo. E, non a caso, la narrazione del

libro degli Atti riprende proprio dal racconto dell'ascensione di Gesù, che funge da cerniera fra i due

libri. L'abitudine di dividere un'opera in più libri era diffusa nella letteratura antica, specie per opere

di ampio respiro: tale suddivisione permetteva non solo di ripartire e ordinare meglio il materiale da

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trattare, ma faceva fronte al grande problema di non poter trascrivere un'opera ampia su un unico

rotolo di papiro o un'unica pergamena. Lo scopo di Luca mediante questo secondo tomo è evidente:

dopo la missione di Gesù, egli vuole narrare la storia della missione della comunità cristiana, che

prosegue l'opera di Gesù. Per far questo, Luca redige un testo che si avvicina alle opere

storiografiche del suo tempo. Un passo chiave per la comprensione dell'intero libro è At 1,8,

quando, prima di ascendere al cielo, il Risorto affida ai suoi discepoli la missione di rendergli

testimonianza a Gerusalemme, in tutta la Giudea, in Samaria e fino agli estremi confini della terra.

Si tratta esattamente del programma narrativo che l'autore segue in tutto il libro degli Atti.

Quest'ultimo non vuole presentare le vicende degli apostoli (in particolare di Pietro e di Paolo) per

fornire una biografia di costoro o per celebrare le loro gesta (come era tipico del genere letterario

delle praxeis = «Atti»). Luca era interessato a presentare in quest'opera il grande viaggio della

Parola di Dio che, dopo Pasqua, da Gerusalemme si diffonde in tutto il Mediterraneo, che all'epoca

corrispondeva al mondo conosciuto. È questo il grande progetto di Luca: mostrare come il

messaggio della salvezza è giunto agli estremi confini della terra a tutti gli uomini.

Il protagonista che guida questo viaggio è lo Spirito Santo: non a caso, la missione degli

apostoli inizia con il grandioso evento della Pentecoste, quando lo Spirito discende sugli apostoli e

vince la loro paura. Da quel momento ha inizio la grande missione e avventura della Chiesa che,

guidata dallo Spirito Santo, annuncia la Parola. Particolare attenzione è dedicata, nella prima parte,

all'apostolo Pietro, protagonista della diffusione della Parola a Gerusalemme e in Samaria.

Dell'attività di Pietro si sottolinea in particolare un evento: la conversione del centurione Cornelio,

ottenuta proprio grazie a Pietro, che rappresenta la prima conversione di un pagano al cristianesimo.

Luca racconta questo evento per ben tre volte nel libro degli Atti, sottolineandone la straordinaria

importanza. D'altronde, come abbiamo detto per il suo vangelo, sappiamo quanto per l'evangelista

Luca sia importante l'universalismo della salvezza.

Un altro evento che Luca racconta per ben tre volte lungo il libro degli atti è la cosiddetta

"conversione" di Saulo, un fariseo osservante che, come è noto, diventerà Paolo, l'altro grande

protagonista del libro degli Atti. Più che una conversione, questo evento costituisce un'autentica

vocazione, perché abilita Paolo come apostolo inviato in tutto il mondo a portare il messaggio di

Gesù. Difatti, la seconda parte del libro degli Atti è interamente dedicata ai viaggi di Paolo, prima di

concludersi (capp. 21-28) con il processo e le ultime vicende di questo apostolo. Il libro degli Atti

descrive tre viaggi che Paolo compie in diverse regioni del Mediterraneo: grazie a questi viaggi,

l'annuncio di Gesù si diffonde rapidamente in tutto l'impero romano e sempre più pagani si

avvicinano alla fede. Questo fatto provoca degli scompensi in seno alla comunità cristiana. In

particolare, sorge l'interrogativo se i nuovi cristiani provenienti dal paganesimo dovessero osservare

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anche i comandamenti giudaici della Legge. La questione viene risolta nella cosiddetta "assemblea

di Gerusalemme", dove gli apostoli, riuniti insieme a Paolo ed altri missionari, decidono che non si

debba imporre ai Gentili che abbracciano la fede tutti gli obblighi della religione giudaica.

Dopo questi tre viaggi missionari, Paolo sarà arrestato a Gerusalemme proprio da alcuni

giudei, che lo accusano di aver rinnegato la sua fede originaria. Essendo cittadino romano, Paolo

decide di appellarsi all'imperatore, perché sia lui a decidere della sua sorte. Per questo egli viene

trasferito a Roma. Ma, in maniera sorprendente, con l'arrivo di Paolo a Roma, la narrazione di Luca

si interrompe e il racconto degli Atti non ci dice nulla del martirio che l'Apostolo subirà proprio a

Roma. Talora alcuni studiosi hanno pensato che il libro degli Atti sia stato scritto prima della morte

di Paolo; ma, come abbiamo detto per il vangelo, Luca scrive fra l'80 e il 90, quando Paolo è ormai

morto da alcuni decenni. Allora perché Luca non completa la sua opera con il racconto del destino

di Paolo a Roma? La risposta è coerente con quello che abbiamo indicato come lo scopo della sua

opera. Luca non vuole scrivere una biografia di Paolo o di Pietro. Egli intende mostrare il grande

viaggio della Parola di Dio fino agli estremi confini. Con l'arrivo di Paolo a Roma questo viaggio si

compie, poiché, in quanto capitale del più grande impero allora conosciuto, Roma può essere

considerata davvero come "gli estremi confini della terra". Il programma narrativo, preannunciato

per bocca del Risorto in At 1,8 giunge così a compimento. Luca, dunque, ha presentato la

straordinaria diffusione del Vangelo nei primi decenni del cristianesimo come la salvezza divina

che raggiunge tutti gli uomini.

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1.2. L'epistolario paolino

La figura di Paolo ha avuto uno straordinario influsso nella storia del cristianesimo, al punto

da essere considerato l'inventore o il fondatore del cristianesimo. Sebbene questo giudizio sia

esagerato, non si può nascondere il fondamentale ruolo che l'Apostolo ha svolto per la diffusione

del cristianesimo mediante la sua instancabile attività missionaria. Con Paolo, infatti, la nuova fede

cristiana, prima di lui rimasta relegata nei confini palestinesi, s'impone in diversi centri urbani del

Mediterraneo, conoscendo un'adesione senza precedenti. In ciascuna delle città in cui si reca, Paolo

fonda comunità cristiane, con le quali resterà in contatto per guidarle nelle difficoltà che

inevitabilmente si affacciano nei primi anni della loro esistenza. Proprio a tale scopo egli scrive le

lettere che sono state conservate nel NT che, dunque, non vogliono essere astratti trattati di dottrina

cristiana, ma risposte ai problemi concreti che sorgevano all'interno delle comunità paoline.

L'importanza di Paolo è confermata anche dal fatto che, attorno al suo nome, si svilupparono nella

tradizione cristiani casi di pseudo-epistolografia. Infatti, delle 13 lettere che il NT attribuisce

all'Apostolo, solo 7 sono certamente di mano paolina, mentre le altre sei furono scritte con grande

probabilità da discepoli di Paolo o da cristiani che avevano conosciuto bene il suo pensiero

teologico. Questa è la classificazione di solito proposta, sulla base di motivi stilistico-retorici e

contenutistici:

- lettere autoriali. Si tratta delle sette lettere autentiche di Paolo: 1Tessalonicesi, 1-

2Corinzi, Galati, Romani, Filemone, Filippesi. Furono scritte nel periodo compreso fra il

49 e il 64 d.C.;

- lettere deutero-paoline. Sono tre lettere scritte con grande probabilità dopo la morte di

Paolo (fra il 65 e il 75 d.C.), da alcuni suoi discepoli: 2Tessalonicesi, Colossesi, Efesini.

Non bisogna giudicare il fenomeno della pseudo-epistolografia con la sensibilità

moderna che porterebbe a considerarli come dei falsi. In antichità, questo fenomeno era

abbastanza usuale, e voleva sottolineare quanto importante fosse una determinata figura,

al punto da aver suscitato una tradizione dopo di lui;

- lettere «pastorali». Si tratta di tre lettere scritte a nome di Paolo e rivolte a due dei

collaboratori più stretti dell'Apostolo (1-2Timoteo e Tito). Furono scritte verso la fine

del I sec. Sono chiamate «pastorali» perché costituiscono dei piccoli vademecum per le

guide (i pastori) delle comunità cristiane.

Non dobbiamo pensare, come destinatari di queste lettere, a grandi comunità, come le grandi

assemblee che si radunano oggi nelle nostre chiese. Le comunità paoline erano piccole comunità,

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che si riunivano nelle case dei membri più abbienti della comunità per pregare insieme, celebrare

l'Eucarestia e condividere fraternamente il pasto (l'agape). La maggioranza dei membri delle

comunità paoline apparteneva agli strati più umili della popolazione (con una buona presenza di

schiavi), sebbene non mancassero individui con una posizione sociale ed economica rilevante.

Ma chi fu Paolo? Nato a Tarso di Cilicia (Turchia) più o meno nello stesso periodo della

nascita di Gesù, ricevette dai genitori il doppio nome (quello giudaico Saulo, quello romano Paolo),

oltre a ereditare dal padre la cittadinanza romana (che gli garantiva particolari diritti, fra cui quello a

un regolare processo). Ricevette prima in patria e poi a Gerusalemme una rigida formazione

farisaica, che lo portò in seguito ad opporsi e a perseguitare il nascente gruppo cristiano, da lui

considerato come una setta eretica del giudaismo. La svolta decisiva della sua vita si ebbe sulla via

di Damasco, dove si stava recando per condurre in catene a Gerusalemme i cristiani di quella città.

Su quella strada Paolo visse una straordinaria esperienza del Risorto, che lo portò a diventare il più

grande missionario cristiano di tutti i tempi. Abbiamo già parlato della fine della vita di Paolo,

descritta nel libro degli Atti, fino al suo arrivo a Roma. Dopo l'arrivo nella capitale, né gli Atti né le

sue lettere ci danno informazioni certe sul suo destino. Secondo la tradizione cristiana, egli morì

decapitato (era la pena comminata ai cittadini romani) a Roma sulla via Laurentina, nelle vicinanze

del luogo in cui oggi sorge la nota Abbazia delle Tre Fontane.

Dopo aver introdotto il personaggio di Paolo, ci sembra opportuno anche introdurre

brevemente il genere letterario da lui utilizzato: l'epistolografia. In epoca ellenistica, le lettere erano

utilizzate come prezioso mezzo di comunicazione. Esse si aprivano con il cosiddetto praescriptum,

in cui erano esplicitati il mittente e i destinatari della lettera e i saluti. Bisogna notare, tuttavia, che il

mittente non coincideva necessariamente con colui che scriveva la lettera: infatti, non di rado i

mittenti (e anche Paolo fa questo) si servivano di segretari epistolari, ai quali dettavano la lettera o

almeno spiegavano i principali contenuti che volevano comunicare. Di solito, al termine della

lettera, nel cosiddetto poscritto, il mittente autenticava la lettera con il suo autografo. Molto

importante era la figura del latore della lettera che di solito aveva non solo il compito di consegnare

lo scritto a destinazione, ma (come nel caso delle lettere paoline) di leggere la lettera ai destinatari,

cercando di spiegare le intenzioni del mittente qualora fossero sorte delle domande fra i destinatari.

Egli fungeva quindi come una sorta di interprete.

1.2.1. La prima lettera ai Tessalonicesi

Si tratta dello scritto più antico di tutto il NT, composto attorno al 50 d.C. Tessalonica

(odierna Salonicco) era stata evangelizzata da Paolo durante il suo secondo viaggio missionario. Era

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una città importante, essendo la capitale della provincia romana della Macedonia, e aveva una

collocazione geografica strategica, trovandosi su una celebre strada romana, la Via Egnazia, che

collegava l'Asia Minore con la costa albanese, da dove si salpava per l'Italia.

La lettera è incentrata attorno a due polarità fondamentali. Anzitutto, Paolo si dilunga sul

ricordo della sua esperienza missionaria nella città, ringraziando i membri della comunità

dell'accoglienza che gli hanno riservato. Si tratta di informazioni preziose per noi, perché ci dicono

molto sullo stile missionario di Paolo. Quando arrivava in una nuova città da evangelizzare,

l'Apostolo condivideva la vita dei suoi membri, non dedicandosi soltanto all'annuncio, ma

svolgendo la sua professione di fabbricante di tende ed evitando di farsi mantenere da qualcuno.

Questo atteggiamento era comprensibile a motivo della presenza di tanti maestri (si pensi ai sofisti)

e guide religiose che spesso si arricchivano svolgendo la loro attività. Perché non sia gettato alcun

discredito su di lui e sul Vangelo che egli intende annunciare, Paolo si guadagna da vivere con le

sue mani.

Queste riflessioni sulla sua condotta in mezzo ai Tessalonicesi lo favoriscono nel passare

all'altro grande tema di questa lettera. Certamente, uno dei contenuti più importanti del Vangelo

predicato da Paolo era quello relativo all'escatologia (= relativo alle cose ultime). Nella sua

predicazione Gesù aveva insegnato che egli sarebbe tornato alla fine dei tempi e fra le comunità

cristiane dei primi decenni del cristianesimo quest'attesa era particolarmente forte, come se il

ritorno del Signore fosse imminente. Questa percezione fu anche condivisa dai credenti di

Tessalonica, molti dei quali ritennero inutile dedicarsi a qualsiasi attività nel mondo se la fine della

storia era ormai vicina. Nella lettera Paolo spegne questi entusiasmi "apocalittici", invitando i suoi

destinatari a lavorare e a dedicarsi regolarmente alle attività quotidiane. Oltre a questa prima

problematica, l'attesa di una fine imminente aveva generato un'altra preoccupazione. I Tessalonicesi

erano convinti che la fine sarebbe arrivata così presto che il Signore, tornando, avrebbe trovato in

vita tutti i membri della comunità. Ma quando alcuni di loro iniziarono a morire, i credenti di

Tessalonica furono colti da una grande preoccupazione: che sorte avrebbero avuto i loro morti se il

Signore Gesù non era ancora tornato? In uno degli insegnamenti più importanti sulla vita eterna,

Paolo afferma che al ritorno del Signore egli avrebbe preso con sé vivi e morti, e tutti sarebbero

stati per sempre con il Signore.

In conclusione, Paolo ricorda che il destino ultimo del cristiano è vivere per sempre con il

Signore in una vita che continua dopo la morte. Questa prospettiva, tuttavia, non de-responsabilizza

l'uomo: egli deve impegnarsi nel mondo, perché è proprio nella fedeltà al Signore in questa vita che

si pongono le promesse per la comunione eterna con lui.

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1.2.2. La prima lettera ai Corinzi

Quella di Corinto fu certamente una delle comunità che diede più filo da torcere a Paolo, per

la grande quantità di problemi che vi si generarono dopo l'attività missionaria di Paolo, svoltasi

probabilmente attorno al 51 d.C. Corinto era una delle città più importanti del tempo, per la

strategica posizione del suo porto, che veniva utilizzato come scalo per passare dall'Adriatico

all'Egeo (dopo aver percorso un breve tratto a piedi). Era una città ricca, con un'economica

fortemente influenzata dai commerci. Ma, come tutti i principali scali portuali dell'antichità, era una

città non numerose problematiche sociali. In particolare, la città era nota per la nutrita presenza di

prostitute e una concezione altamente licenziosa della sessualità, tanto che, in un suo scritto, il

commediografo greco Aristofane (V-IV sec. a.C.) aveva potuto utilizzare il verbo korinthiazein nel

significato di "prostituirsi". Non a caso, una delle problematiche che Paolo si trova ad affrontare

nella lettera che egli recapita a Corinto è proprio un caso scandaloso di incesto, in cui un uomo

conviveva con la sua matrigna.

Paolo scrive questa lettera in risposta a una serie di problemi che gli vengono segnalati come

presentatisi a Corinto dopo che egli aveva lasciato la città. Non possiamo soffermarci su tutte queste

problematiche, ma due ci sembrano particolarmente rilevanti.

Il più grande problema che si era creato a Corinto era una forte divisione all'interno della

comunità, con la formazione di diversi sotto-gruppi che si opponevano l'uno con l'altro. Alcuni dei

membri della comunità si riteneva al di sopra degli altri, considerando i propri doni e le proprie

capacità come superiori rispetto a quelli di cui disponevano gli altri. In particolare, questa divisione

si manifesta nella celebrazione dell'Eucarestia e nel pasto comunitario successivo, quando alcuni,

specie i più indigenti, vengono completamente trascurati. Le parole e i toni di Paolo qui si fanno

molto duri. Egli afferma che non si può mangiare degnamente del corpo del Signore (l'Eucarestia)

se si offende l'«altro corpo del Signore», che è la Chiesa. L'Apostolo presenta, infatti, la comunità

cristiana come un corpo in cui tutte le membra, pur nella loro diversità e pur svolgendo mansioni

differenti, sono tutte preziose e costituiscono un corpo solo. Chi rompe l'unità della Chiesa non può

essere in comunione con il Signore: la profonda unità fra Gesù e la Chiesa è una risposta ancora

oggi a ogni tendenza a separare Cristo dalla sua Chiesa. Nessun dono o capacità è superiore agli

altri, ma ogni dono deve essere messo a disposizione della comunità, perché tutti possano goderne.

Se vi è un comportamento che rende superiori, è quello dell'amore, che Paolo descrive nel celebre

inno all'amore del cap. 13 di questa lettera:

Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sarei come bronzo che rimbomba o

come cimbalo che strepita. E se avessi il dono della profezia, se conoscessi tutti i misteri e avessi tutta la conoscenza, se possedessi tanta fede da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sarei nulla. E

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se anche dessi in cibo tutti i miei beni e consegnassi il mio corpo per averne vanto, ma non avessi la carità,

a nulla mi servirebbe.

La carità è magnanima, benevola è la carità; non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia d'orgoglio, non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode

dell'ingiustizia ma si rallegra della verità. Tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. La carità non

avrà mai fine.

L'altro grande problema che Paolo deve affrontare in questa lettera è quello della

comprensione della morte e resurrezione del Signore. Nella cultura greca l'idea di un essere divino

che aveva subito una morte infamante come quella di croce e l'idea stessa di resurrezione creavano

non pochi problemi nella loro accettazione. In particolare, Paolo ha sentito che alcuni membri della

comunità di Corinto affermano che non vi può essere resurrezione dei morti. Rispondendo a queste

obiezioni, Paolo ricorda che non vi può essere fede cristiana senza riferimento alla morte e

resurrezione del Signore. Egli afferma la paradossalità della croce, nella quale Dio rivela la sua

potenza per confondere i sapienti di questo mondo. E inoltre, egli ribadisce la resurrezione di Gesù,

che è il primogenito di tanti altri fratelli, dei membri della comunità cristiana, che un giorno

risorgeranno anch'essi. In tal modo Paolo ricorda ai cristiani di tutti i tempi che il nucleo della fede

cristiana è la morte e resurrezione di Gesù.

1.2.3. La seconda lettera ai Corinzi

La grande problematicità della situazione a Corinto impose a Paolo di scrivere, a distanza di

poco tempo, un'altra lettera a quella comunità, perché, nel frattempo, erano sorte in essa ulteriori

tensioni.

Due sono le preoccupazioni di Paolo in questa lettera. Anzitutto, egli deve preoccuparsi di

difendere la sua attività di missionario. Da quanto l'Apostolo scrive, si può dedurre che a Corinto si

erano infiltrati nella comunità alcuni avversari di Paolo, che avevano screditato la persona e

l'operato dell'Apostolo. Il principale scopo per cui Paolo indirizza questa lettera è difendere il suo

impegno per la diffusione del Vangelo, ricordando le fatiche, le avversità e talora anche le

persecuzioni che ha dovuto subire. Egli afferma che, pur avendo egli vissuto particolari esperienze

di rivelazione e di apparizione del Signore, i tratti del vero apostolo non si riconoscono da questi

segni di potenza, ma dalla debolezza e dalle sofferenze che l'attività di apostolo comporta. Più volte

nella lettera Paolo si vanta delle sofferenze che il ministero gli ha riservato, sia perché esse lo

conformano maggiormente a quello che era stato il destino di sofferenza di Gesù, sia perché in tal

modo può rivelarsi in lui la potenza di Dio, cui va attribuito il merito di tutto il ministero da lui

svolto.

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L'altra grande questione affrontata dalla lettera è quella della colletta per i poveri della

chiesa di Gerusalemme. In quegli anni era scoppiata una grave carestia in Palestina e la comunità

madre di Gerusalemme si era ritrovata in grandi ristrettezze economiche. Di fronte a questa

situazione, Paolo aveva preso l'iniziativa di organizzare una colletta in denaro, cui parteciparono i

cristiani delle comunità da lui fondate. I capitoli 8-9 di questa lettera sono un grande insegnamento

sulla condivisione come stile che deve regnare sempre tra i cristiani: come Gesù si fece povero per

arricchire noi partecipandoci la condizione di figli di Dio, così il cristiano che ha di più è chiamato a

condividere quanto ha con chi è nell'indigenza. Queste parole dell'apostolo Paolo sono senza dubbio

di grande attualità.

1.2.4. La lettera ai Galati

La comunità che Paolo fonda in Galazia (corrispondente all'altopiano centrale dell'attuale

Turchia) costituisce un'eccezione rispetto alle altre comunità da lui istituite. Infatti, mentre di solito

l'attività missionaria dell'Apostolo si concentrava sui più importanti centri urbani, quella nella

regione montuosa e poco abitata della Galazia fu una deviazione imprevista che Paolo fece durante

il suo secondo viaggio missionario, probabilmente dovuta a un non meglio definito problema di

salute che costrinse Paolo a fermarsi per un certo tempo (siamo fra il 49 e il 52 a.C.). La lettera ai

Galati fu inviata alle varie comunità fondate nella Galazia qualche anno dopo, in risposta al grande

problema che si era venuto a creare.

Visto con le lenti contemporanee, il contenuto della lettera ai Galati non sembra così

significativo per i cristiani di oggi. In realtà, non è così. La magna charta della libertà cristiana

(come è stata definita questa lettera) presenta un messaggio notevolmente attuale. La grande

problematica scoppiata in Galazia è l'arrivo in questa regione di altri missionari cristiani, di origine

giudaica, che vogliono costringere i credenti di questa regione (tutti provenienti dal paganesimo) a

sottomettersi alla Legge giudaica e a osservarne comandamenti e tradizioni, considerati decisivi per

la salvezza. Dinanzi a questo tentativo di "giudaizzazione", Paolo scrive con toni molto forti che la

salvezza è donata al cristiano unicamente per la sua fede in Gesù, e non per l'osservanza delle

pratiche giudaiche. La salvezza è primariamente un dono gratuito che il cristiano riceve dal Signore.

Ecco perché Paolo si fa banditore del Vangelo della libertà da ogni tentativo di rendere il cristiano

schiavo di pratiche non necessarie alla salvezza. Sono i germi della celebre dottrina della

«giustificazione per sola fede», che sarà poi ripresa da Lutero.

Essere giustificati per la fede, tuttavia, non significa sminuire il valore delle opere. Nella

lettera ai Galati Paolo non parla delle opere in generale, ma delle particolari pratiche giudaiche che i

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suoi avversari volevano imporre alle sue comunità. La fede per Paolo si rende operante nell'amore.

Libertà non significa vivere nel più totale libertinismo. Non vi può essere libertà sganciata dalla

verità, da valori assiologici fondamentali: un contenuto tutt'altro che obsoleto! Ecco perché Paolo,

al cap. 5, presenta due elenchi: quello delle opere della carne, che conducono il cristiano alla morte

allontanandolo dalla salvezza, e il «frutto dello Spirito» (amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza,

bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé), che costituiscono lo spazio in cui vivere in maniera corretta

e felice la libertà dal peccato che il Signore ci ha ottenuto con il suo sacrificio sulla croce.

1.2.5. La lettera ai Romani

È di solito considerata come il capolavoro di Paolo e ha avuto una grande importanza nella

storia del cristianesimo: basti pensare all'enorme influsso che essa esercitò sul giovane monaco

Martin Lutero, che definì il contenuto di questa lettera come il «Vangelo puro». Fra tutte le lettere

paoline, quella ai Romani costituisce un'eccezione per un motivo molto rilevante: Paolo non aveva

fondato la comunità di Roma. Il cristianesimo era giunto a Roma diversi anni prima che l'Apostolo

scrivesse questa lettera. Il fatto che Paolo non conoscesse la comunità, se non per sentito dire,

implica che, a differenza delle lettere viste finora, l'Apostolo non intende trattare qui problematiche

inerenti la vita di quella comunità. Piuttosto, si può pensare che questa lettera fu scritta da Paolo per

presentare i contenuti centrali della sua predicazione del Vangelo a una comunità nella quale si

stava per recare. Al cap. 15 della lettera, infatti, Paolo manifesta il vivo desiderio di portare a

termine la sua predicazione spingendosi al confine occidentale del mondo allora conosciuto: la

Spagna. E, provenendo dall'Oriente, egli avrebbe fatto tappa a Roma prima di proseguire verso

Occidente. Quali sono i contenuti principali di tale presentazione, che fanno assomigliare questa

lettera a una sorta di trattato (sebbene non possa essere definita propriamente come tale)?

I primi capitoli della lettera affrontano in maniera più estesa e argomentata, rispetto alla

lettera ai Galati, la questione della giustificazione, ossia della salvezza. Tutti gli uomini, sia i Giudei

sia i Gentili, sono peccatori davanti a Dio e possono essere giustificati, salvati, solo in virtù

dell'opera realizzata da Gesù, che il cristiano è chiamato ad accogliere nella fede. Dunque, non vi è

giustificazione dalle opere della Legge, ma soltanto nella fede in Gesù Cristo. Nei capp. 5-8 Paolo

tratta le conseguenze antropologiche della salvezza operata da Gesù. Il cristiano è liberato dal

peccato e possiede, in virtù del battesimo, lo Spirito Santo. Questo, tuttavia, non implica che egli

viva ormai totalmente libero dal peccato. La vita cristiana è lotta, combattimento contro quella

tendenza al peccato che, nonostante la salvezza operata da Gesù, resta nell'uomo e che spesso lo

spinge ad agire contro la sua volontà di restare fedele a Dio. Guidato dallo Spirito, il cristiano in tal

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modo è chiamato a orientare la libertà al bene, nella prospettiva di quella salvezza piena e definitiva

che si avrà quando tutta la creazione sarà finalmente liberata da ogni conseguenza del peccato.

Un'ampia sezione è dedicata alla problematica di Israele. Se la Legge non è più necessaria

per la salvezza e questa è stata estesa a tutti gli uomini, che ne è di Israele, che invece (almeno nella

maggioranza dei suoi membri) ha rifiutato il messaggio cristiano? Le parole di Paolo in merito, ai

capp. 9-11, sono davvero commoventi e mostrano il profondo legame dell'Apostolo con le sue

origini giudaiche. Egli afferma che, alla fine, anche Israele sarà salvato dal Signore. E se

attualmente l'opposizione di Israele al Vangelo ha segnato l'estensione della salvezza ai Gentili

(perché, sperimentando l'avversione dei Giudei, i missionari cristiani si erano rivolti ai pagani),

quale effetto meraviglioso avrà la salvezza di Israele in futuro! Israele resta il popolo eletto,

destinatario delle promesse di Dio: l'universalità dell'annuncio cristiano non esclude, ma abbraccia,

i Giudei nell'unica salvezza ottenuta da Gesù.

Probabilmente Paolo si sentì in dovere di dedicare una così ampia sezione a Israele a causa

della robusta presenza di cristiani provenienti dal giudaismo nelle comunità cristiane di Roma.

1.2.6. La lettera a Filemone

Fra le lettere autoriali è l'unica rivolta non a una comunità, ma a un singolo: Filemone. Essa

viene scritta per risolvere una questione molto particolare, legata a quest'uomo e al suo schiavo,

Onesimo. Filemone era un uomo benestante, probabilmente originario di Colossi. Paolo non aveva

evangelizzato personalmente questa città, ma aveva certamente conosciuto Filemone, che aveva

verso di lui un debito di riconoscenza perché probabilmente Paolo aveva contribuito a istruirlo nella

fede. Uno schiavo di Filemone, Onesimo, era recentemente fuggito dalla casa del suo padrone e

aveva trovato rifugio presso Paolo. La legge romana, per un'evenienza del genere, era severissima.

Il padrone dello schiavo avrebbe potuto denunciare lo schiavo e coloro che lo avevano aiutato o

protetto durante la fuga e per questi la pena sarebbe stata quella capitale. Si comprende, allora, il

grande rischio che Paolo corre scrivendo a Filemone che Onesimo si trova presso di lui. L'Apostolo

chiede a Filemone la grazia per Onesimo, il quale era divenuto cristiano come il suo padrone.

Nonostante egli possa imporre a Filemone questa volontà come un ordine, in virtù dell'autorità di

apostolo di cui egli godeva e del debito di riconoscenza che questi aveva nei suoi confronti, Paolo

rivolge al padrone una richiesta accorata perché non solo riaccolga il suo schiavo in caso, ma anche

lo tratti come un fratello, in virtù della loro comune fede in Cristo. Sia chiaro: Paolo non si sta

facendo portavoce o banditore dell'affrancamento di Onesimo dalla schiavitù, né sta scrivendo in

questo breve biglietto un piccolo trattato anti-schiavista. Era impensabile per qualsiasi uomo del I

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sec., anche per qualsiasi cristiano, Paolo compreso, pensare di poter proporre l'abolizione della

schiavitù, così importante nella struttura sociale ed economica dell'intero Impero romano. Tuttavia

la comune fede in Cristo esige quella fratellanza che neppure il rapporto padrone-schiavo annulla:

l'essere discepoli di Cristo è più importante di una tale relazione sociale.

1.2.7. La lettera ai Filippesi

L'ultima delle lettere autoriali, scritta probabilmente mentre Paolo si trova già ai suoi

«arresti domiciliari» a Roma, è quella indirizzata ai Filippesi. Come Tessalonica, anche Filippi si

trovava in Macedonia ed era stata la prima comunità cristiana fondata da Paolo su suolo europeo. Si

trattava di una città fortemente romanizzata, dove la comunità cristiana incontrò avversione da parte

delle istituzioni politiche della città. In tal modo, la situazione personale dell'Apostolo e quella della

comunità destinataria della lettera vengono, in un certo senso, a coincidere. Forse fu proprio per

questa particolare empatia che quella di Filippi fu l'unica comunità dalla quale Paolo accettò doni

per il suo sostentamento, contravvenendo al suo solito principio di lavorare con le proprie mani

durante la sua missione evangelizzatrice.

È su questo sfondo che va compresa l'intera lettera, attraversata sullo sfondo dalla tematica

della morte che aleggia sia su Paolo che sui suoi destinatari. Nonostante questa situazione, Paolo

riguarda con gioia alla missione svolta e, pur preferendo ormai lasciare questo mondo per essere per

sempre con il Signore, si dichiara disposto a restare in vita qualora egli possa ulteriormente lavorare

con frutto alla diffusione del Vangelo, sopportando ogni avversità. Nelle fatiche e nelle sofferenze

sopportate per la fede il modello è Cristo che (come cantato nel celebre inno cristologico di questa

lettera), pur essendo uguale a Dio, aveva deciso di umiliare se stesso. In questo particolare inno (Fil

2,6-11) si dichiara dapprima la parabola discendente del Figlio di Dio dalla gloria divina

all'abbassamento umano, fino alla morte più infamante, quella di croce; ma proprio questa kenosis

(«svuotamento») diventa per Gesù motivo di glorificazione, che viene innalzato dal Padre al rango

di Kyrios («Signore»), titolo che rimanda alla condizione divina.

Presentandosi come imitatore di Cristo, anche Paolo presenta ai Filippesi se stesso come

modello: anch'egli nella sua esistenza, pur essendo un fariseo irreprensibile e godendo del privilegio

di appartenere al popolo eletto, ha lasciato perdere tutto questo considerandolo spazzatura, pur di

guadagnare Cristo, ossia pur di aderire alla fede in lui e svolgere la sua missione, per condividere un

giorno con lui la cittadinanza celeste. Da Cristo a Paolo e, ora, da Paolo ai suoi destinatari: essi

devono ulteriormente farsi imitatori suoi e di Cristo nella loro situazione di tribolazione e

persecuzione che soffrono a Filippi, per poter anch'essi condividere la stessa corona di gloria cui il

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Signore ha chiamato lui e loro. È questo il filo conduttore di questa lettera, che si caratterizza anche,

in modo paradossale, per un altro motivo: quello della gioia. Nonostante le persecuzioni e le

sofferenze che saranno chiamati ad affrontare, i Filippesi sono esortati a vivere costantemente nella

gioia, affrontando ogni avversità nella prospettiva di quella gloria promessa dal Signore. Solo

mediante la gioia perseverante in mezzo alle persecuzioni dell'autorità statale, essi potranno rendere

al Vangelo una testimonianza coraggiosa e contagiosa anche per i loro concittadini.

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1.3.Le lettere cattoliche

Sebbene non sia esplicitatati i loro destinatari nel loro prescritto, anche le lettere cattoliche

non sono scritti avulsi da un contesto storico, ma affrontano problematiche che alcune comunità

cristiane vivevano sul finire del I sec. Questo gruppo di scritti comprende lettere più brevi rispetto a

quelle paoline, talora così brevi da non contenere contenuti rilevanti, al punto che nei primi secoli la

loro canonicità non fu sempre riconosciuta in maniera unanime. Fra questi scritti ci soffermiamo

sulle tre lettere cattoliche principali: la lettera di Giacomo, la prima lettera di Pietro e la prima

lettera di Giovanni.

1.3.1. La lettera di Giacomo

Considerata da Lutero come «lettera di paglia» e non accettata nel canone perché in

apparente contraddizione con la dottrina della giustificazione per la sola fede, questa lettera ha

rivestito una certa importanza in ambito cattolico. Rispetto alle epistole paoline, quella di Giacomo

non può essere ascritta propriamente al genere epistolare, in quanto mancano quegli elementi

fondamentali che caratterizzavano a quel tempo una lettera, come i saluti finali o qualsiasi

riferimento al rapporto fra mittente e destinatari. Essendo uno scritto di tipo esortativo, la lettera di

Giacomo si può assimilare più a un'omelia che a una lettera. Discusso è anche il suo autore. Egli

non è da identificare con Giacomo, figlio di Zebedeo, che appartenne al gruppo dei tre apostoli

(insieme a Pietro e Giovanni) più vicino a Gesù. L'autore è stato di solito identificato con Giacomo,

figlio di Alfeo e il «fratello del Signore», che ebbe un ruolo di importanza primaria all'interno della

comunità di Gerusalemme.

Due sono i principali contenuti di questa lettera. Anzitutto, essa ribadisce il ruolo

fondamentale delle opere in vista della salvezza. La fede, infatti, è morta se non si manifesta nelle

opere e queste sono il modo migliore che il cristiano ha per mostrare la propria fede. Da questo

punto di vista, Giacomo sembra rispondere alla dottrina della giustificazione per la fede che

abbiamo trovato in Paolo, soprattutto in Gal e Rm. In realtà, come abbiamo visto, Paolo non aveva

eliminato il ruolo delle opere, ma aveva parlato della giustificazione per la fede in contrapposizione

alle pratiche giudaiche. Quello che Giacomo sembra contrastare è piuttosto un'interpretazione

erronea della dottrina paolina della giustificazione, che rischiava di generare un lassismo morale,

dal momento che la sola fede in Cristo era ritenuta condizione sufficiente per la salvezza.

Il secondo contenuto fondamentale della lettera riguarda il trattamento dei più poveri della

comunità. Giacomo invita i cristiani del suo tempo a non fare preferenze di persone nella comunità,

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compiacendo i più ricchi e potenti e trascurando i più indigenti. Anzi, proprio questi ultimi sono da

trattare con grande onore. Durissime sono le parole che Giacomo rivolge contro coloro che

sfruttano i lavoratori e non danno loro la giusta retribuzione: costoro andranno incontro al più

severo giudizio divino.

1.3.2. La prima lettera di Pietro

Attribuita al primo degli apostoli, Pietro, questa lettera è rivolta a diverse comunità cristiane,

al punto da essere considerata una lettera «enciclica». Lo scritto contiene una grande istruzione a

coloro che, mediante il battesimo sono diventati cristiani, al punto da essere considerata una grande

istruzione battesimale. Mediante il battesimo i credenti hanno ricevuto in dono una vita nuova, non

più immersa nelle cose effimere cui erano rivolti un tempo (probabilmente i destinatari provenivano

dai Gentili). Oltre a una conversione morale che il battesimo implica a livello personale, esso ha

conseguenze anche ecclesiali: il battesimo inserisce il credente nella comunità cristiana, considerata

come il popolo santo di Dio.

La comunità cristiana, tuttavia, vive in questo mondo in una condizione di estraneità e

persecuzione rispetto al mondo. Il cristiano è chiamato a non conformarsi a questo mondo e a

ricordare che la sua vera patria è quella celeste, in quella vita eterna che il cristiano riceve già in

germe nel battesimo. Inoltre, nelle persecuzioni, il cristiano è invitato a sopportare pazientemente le

avversità che sorgono in virtù della sua fede, come Cristo ha pazientemente sopportato la sua

passione. Tuttavia, nonostante quanto abbiamo detto, l'atteggiamento che il cristiano deve tenere nel

mondo non è quello della timidezza, ma quello di una testimonianza coraggiosa e, soprattutto,

intelligente: egli deve essere sempre pronto a dare ragione a tutti della speranza che la fede ha

infuso nel suo cuore. È questo un compito a cui ciascun credente, anche oggi, deve adempiere, in un

contesto dove troppo spesso, in maniera assolutamente sbagliata, la fede viene assimilata a

ignoranza.

1.3.3. La prima lettera di Giovanni

Il nome dell'autore di questo scritto non è menzionato in maniera esplicita, ma la vicinanza

di linguaggio, stile e contenuti con il quarto vangelo ha suggerito da sempre la sua attribuzione

all'apostolo Giovanni. In realtà, più che Giovanni in prima persona, l'autore fu più probabilmente un

membro della comunità cristiana che era stata fondata o aveva avuto a che fare con la testimonianza

di Giovanni. Come periodo di stesura, dobbiamo pensare allo stesso in cui fu composto il quarto

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vangelo, ossia sul finire del I secolo, come dimostra anche gli avversari che l'autore di questo scritto

si trova a fronteggiare.

Da un punto di vista tematico le polarità attorno alle quali ruota l'intera lettera sono due. Da

una parte, l'autore combatte un gruppo di avversari della sua comunità, che negano che Cristo sia

venuto nella carne. Questa avversione all'incarnazione di Gesù fa pensare ai primi gruppi gnostico-

cristiani, che, in nome di un rifiuto di ogni dimensione materiale e corporea, non accettavano

minimamente l'idea che Cristo avesse potuto prendere carne umana. È lo stesso problema cui

all'inizio del II sec. diversi Padri della Chiesa si trovano a fronteggiare. Contro costoro, Giovanni

sostiene il carattere decisivo dell'incarnazione per la salvezza, definendo addirittura come

«anticristi» coloro che negano questa verità. La centralità dell'incarnazione è un principio

fondamentale della dottrina cristiana fin dai primi decenni di vita della Chiesa: come in seguito

affermerà Tertulliano, davvero caro cardo salutis («la carne è il cardine della salvezza»).

L'altro grande tema della lettera è quello dell'amore. Nella prima lettera di Giovanni

troviamo la celebre definizione dell'identità di Dio: «Dio è amore». Riprendendo il comandamento

nuovo che Gesù dà nel quarto vangelo la sera prima della sua morte, Giovanni esorta i suoi

destinatari a vivere nell'amore fraterno, per due ragioni fondamentali. Anzitutto, perché l'amore

verso il prossimo è prova dell'amore verso Dio: difatti, nessuno può amare Dio, che non vede, se

non ama il suo fratello, che invece è visibile; scindere queste due dimensioni significherebbe vivere

un amore non autentico verso Dio. Inoltre, nella visione dell'autore della lettera, l'amore diventa la

modalità più efficace della testimonianza cristiana: da come i cristiani si ameranno fra loro, il loro

annuncio potrà risultare credibile e attrarre alla fede coloro che ne sono lontani.

1.4. Altri scritti

1.4.1. La lettera agli Ebrei

Attribuita per lungo tempo all'apostolo Paolo, la lettera agli Ebrei non può essere considerata

una lettera e non è certamente rivolta ad Ebrei. Circa l'autore, lo scritto non può essere opera di

Paolo: sia da un punto di vista formale che contenutistico, la lettera agli Ebrei è distante

dall'epistolario paolino. Più che una lettera, inoltre, il testo è una sorta di omelia o trattato, perché

manca completamente dei soliti tratti epistolari (come, ad esempio, il prescritto). Infine, i destinatari

non possono essere Ebrei, ma sono cristiani, che conoscevano bene le tradizioni religiose e cultuali

giudaiche, facendo pensare a una comunità di credenti provenienti dal giudaismo. Poiché la lettera

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sembra presupporre che la liturgia del tempio di Gerusalemme sia ancora attiva, probabilmente essa

fu scritta prima della sua distruzione nell'anno 70.

L'intera lettera verte attorno a un'unica tematica: il sacerdozio di Cristo e la sua funzione di

mediazione per la salvezza dei credenti. L'autore pone a confronto il sacerdozio dell'antica alleanza

(quello dei sacerdoti ebrei) e il sacerdozio di Gesù. Anzitutto, una prima differenza risiede nel fatto

che esso non è ereditario: mentre i sacerdoti ebrei ottenevano il sacerdozio in virtù della loro

appartenenza alla tribù di Levi, Gesù non è stato sacerdote in questo senso, appartenendo egli alla

tribù di Giuda. Un'altra differenza sta nei sacrifici offerti: mentre i sacerdoti antichi dovevano

offrire ogni giorno sacrifici animali nel tempio, Gesù ha offerto un unico sacrificio, una volta per

tutte, un sacrificio talmente perfetto da rendere non necessario qualsiasi altro sacrificio: non si tratta

di un sacrificio animale, ma del sacrificio di se stesso sulla croce. È proprio in virtù di questo

sacrificio che Cristo è potuto diventare sommo sacerdote. Infine, un'ultima differenza risiede anche

nella differenza della mediazione svolta da queste due tipologie di sacerdoti. I sacerdoti dell'antica

alleanza vivevano separati dagli altri uomini, non dovevano contaminarsi soprattutto con gli

emarginati e i peccatori. Invece, il sommo sacerdote Gesù svolge la sua funzione di mediazione fra

Dio e gli uomini divenendo simile agli uomini, assumendo su di sé i loro peccati: non un sacerdote

separato dagli uomini, ma un sacerdote pienamente immerso nell'umanità, che condivide

pienamente la loro sorte. Grazie alla sua funzione di mediazione, Gesù è divenuto archegos

(«pioniere») che apre una strada per tutti i credenti, una strada che conduce direttamente nella

dimora celeste divina, che costituisce il vero santuario dove si celebra il vero culto.

Quale situazione l'autore vuole affrontare dove insistendo su questi contenuti? Perché

l'autore scrive questo testo? Probabilmente egli si sta rivolgendo a cristiani provenienti dal

giudaismo, che avvertivano nostalgia per le solenni liturgie del tempio e rischiavano di ritornare

indietro al giudaismo. L'autore ribadisce che Cristo e la sua offerta sulla croce costituiscono il

sacrificio autentico e il culto perfetto, celebrato una volta per tutte. L'antica liturgia ha perso così

significato ed efficacia ed è perciò inopportuno rimpiangerla in modo nostalgico.

1.4.2. L'Apocalisse di S. Giovanni

L'ultimo libro della Bibbia è uno dei più difficili da comprendere. Il termine «Apocalisse»

deriva dal greco apokalypsis, che significa «rivelazione». Infatti, il libro presenta alcune rivelazioni

ricevute dall'apostolo Giovanni, che costituiscono una vera e propria interpretazione della

situazione che la comunità dell'autore sta affrontando. Spesso questo libro è stato frainteso come

annuncio di disastri e sventure. In realtà, dietro il linguaggio altamente simbolico e difficile del

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libro dell'Apocalisse, è contenuto uno dei messaggi più colmi di speranza di tutto l'AT. Ma quale

situazione si trova a vivere la comunità giovannea?

La situazione che emerge dal libro dell'Apocalisse è una violenta persecuzione che i cristiani

stanno subendo ad opera dell'autorità imperiale romana. Poiché il libro, come il resto degli scritti

giovannei (vangelo e lettere), si colloca sul finire del I sec., è molto probabile che il riferimento è

alla persecuzione dell'imperatore Domiziano, che riguardò diverse province dell'Impero, fra cui

anche l'Asia Minore ed Efeso, probabile luogo in cui vivono i cristiani cui l'apostolo si rivolge. In

questa situazione, il libro dell'Apocalisse intende presentare che Dio ha grandioso progetto salvifico

sulla storia, che culmina con la morte e resurrezione dell'Agnello, immagine utilizzata per Gesù:

grazie a tale salvezza, il male è stato già sconfitto, sebbene la vittoria definitiva, quando non vi sarà

più persecuzione, né sofferenza, né morte, si avrà negli ultimi tempi, nella Gerusalemme celeste,

allegoria della sorte finale e gloriosa della Chiesa. Dunque, più che essere un insieme di predizioni

spaventose sul futuro, il libro dell'Apocalisse si configura come un'interpretazione della storia piena

di speranza.

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1. FONTI EXTRA-BIBLICHE SU GESÙ

I vangeli sono certamente le fonti principali per conoscere la figura di Gesù. Tuttavia, vi

sono anche altre fonti, al di fuori della Bibbia, che possono contribuire a delineare la figura di Gesù,

confermando talora alcuni aspetti che emergono dai racconti evangelici. Nessuno studioso serio

oggi mette in discussione la storicità della figura di Gesù di Nazareth. Tuttavia, poiché non di rado,

sulla rete o su giornali che poco hanno di scientifico, continuano ad apparire affermazioni in cui

l'esistenza storica di Gesù viene messa in discussione, riteniamo opportuno presentare brevemente

questi testi extra-biblici, evidenziando cosa essi ci dicono a proposito di Gesù. Fra queste fonti

seguiamo una classificazione fondata sulla provenienza culturale-religiosa: giudaica, greco-romana,

cristiana.

1.1.Fonti giudaiche

Il principale testo di un autore giudaico su Gesù, che tanti fiumi di inchiostro ha fatto versare

agli studiosi, è il celebre Testimonium Flavianum. Si tratta di un testo contenuto nelle Antichità

giudaiche dello storiografo giudeo del I sec. Flavio Giuseppe. In quest'opera, in cui l'autore

sintetizza l'intera storia del popolo ebraico dalle origini ai suoi tempi, è già importante che, per

quanto breve, vi sia un riferimento a Gesù. È il segno di una certa attenzione che il personaggio di

Gesù suscitò anche fra i Giudei che, come sappiamo, non si rivelarono molto accoglienti verso Gesù

e la sua predicazione. Di seguito proponiamo il testo:

«Vive in questo periodo Gesù, uomo saggio, sempre che si debba definirlo uomo. Fu infatti autore di azioni

prodigiose, maestro di quegli uomini che accolgono la verità con piacere; attirò molti giudei, molti anche

della grecità. Questi era Cristo. E dopo che Pilato gli inflisse come pena la croce mediante azione legale

avviata dai primi tra noi, quelli che sulle prime lo amarono non cessarono di farlo. Apparve loro infatti il

terzo giorno di nuovo in vita, avendo i profeti divini detto su di lui questi e infiniti prodigi. Fino ad ora e

attualmente il gruppo dei cristiani, che ha preso il nome da lui, non è scomparso» (Ant. Iud. 18,63-64)

Gli studiosi delle opere di Flavio Giuseppe discutono se questo passo possa essere

considerato autentico o se esso abbia subito alcune interpolazioni successive da parte di copisti

cristiani. Effettivamente, ci sono alcune affermazioni che difficilmente un autore giudeo avrebbe

potuto condividere e mettere per iscritto: l'affermazione della messianicità di Gesù («Egli era il

Cristo»), come anche la dichiarazione relativa alla resurrezione di Gesù, cui i Giudei non

prestavano fede, come ci dice anche l'ultimo capitolo del vangelo di Matteo, dove l'evangelista

afferma che, dopo la resurrezione, i Giudei fecero circolare la notizia di un furto del cadavere.

Tuttavia, sebbene purgato da queste interpolazioni cristiane, il Testimonium Flavianum deve essere

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considerato per il resto opera autentica dello storiografo giudaico, che dunque in diverse

affermazioni concorda con le affermazioni del vangelo. Anzitutto parla di Gesù come uomo saggio

e come maestro di verità: un quadro coerente con gli insegnamenti di Gesù riportati dai vangeli, e

con il successo che essi riscontrarono. In secondo luogo allude anche alle opere prodigiose

compiute da Gesù, forse un'allusione ai numerosi miracoli di cui i vangeli sono testimonianze.

Infine, ci informa della collaborazione fra autorità religiose giudaiche e Pilato, procuratore romano,

in occasione della condanna a morte di Gesù.

A differenza della testimonianza positiva di Flavio Giuseppe, le altre fonti a nostra

disposizione su Gesù in ambito giudaico sono di solito negative e appartengono tutte agli scritti dei

rabbini, i maestri ebrei che dalla fine del I sec. in poi dominano il mondo culturale e religioso del

giudaismo. Questo fatto è estremamente naturale, poiché (come abbiamo già menzionato) dopo il

70 i rapporti fra il giudaismo e le comunità cristiane si fanno sempre più aspri. Dunque, sebbene

parlino di Gesù, queste fonti sono poco attendibili sul piano storico, sia perché influenzate da questa

visione negativa del cristianesimo, sia perché successive di diversi secoli alla vicenda storica di

Gesù. L'esempio più noto delle testimonianze rabbiniche è un passo del Talmud babilonese (un testo

sacro ebraico che raccoglie gli insegnamenti di diversi maestri e rabbini), dove si dice che Gesù fu

«appeso» alla vigilia di Pasqua, fu condannato a morte per aver praticato la magia e aver in tal

modo fuorviato Israele. È evidente la polemica anti-cristiana da queste accuse, mosse peraltro da un

testo del III-IV sec. d.C. Se l'accusa di magia risalisse ai tempi di Gesù, è molto probabile che ne

avremmo già trovata traccia nell'opera di Flavio Giuseppe. L'unico fondamento storico di questo

testo sta probabilmente nel riferimento alla crocifissione di Gesù, avvenuta a ridosso della festa

ebraica della Pasqua.

1.2.Fonti greco-romane

A questa seconda tipologia di fonti possono essere attribuiti diversi testi, di cui segnaliamo i

più importanti.

Il più antico è quello di uno storico di nome Thallos che, nel 55 d.C. circa, scrive una storia

del Mediterraneo orientale dalla caduta di Troia al periodo a lui contemporaneo. La sua opera è

andata per lo più perduta, ma ce ne restano citazioni consistenti nella Chronografia di Sesto Giulio

Africano, che scrive attorno al 220 d.C. Parlando della morte di Gesù, Thallos allude a un'eclissi di

sole che avrebbe accompagnato la sua crocifissione, esattamente secondo il racconto che di essa

abbiamo dei vangeli. Si tratta di una fonte esigua, che ci fornisce solo quest'informazione su Gesù.

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Ma essa dimostra come la tradizione sulla morte di Gesù sia molto antica e circolò fin dai primi

anni della storia cristiana.

Nei suoi Annales (116-117 d.C.), considerata dagli storici moderni la migliore fonte

d'informazione sulla storia del I sec. d.C., Tacito descrive il famoso incendio di Roma, la cui

responsabilità Nerone attribuì ai cristiani, facendo riferimento anche al fondatore di questo gruppo:

«Allora per mettere a tacere ogni diceria, Nerone dichiarò colpevoli e condannò ai tormenti più raffinati

coloro che il popolo chiamava cristiani, odiosi per le loro nefandezze. Essi prendevano nome da Cristo, che

stato suppliziato ad opera del procuratore romano Ponzio Pilato, sotto l'impero di Tiberio; repressa per

breve tempo, quella funesta superstizione ora riprendeva forza non soltanto in Giudea, luogo d'origine di

quel male, ma anche nell'Urbe, in cui tutte le atrocità e le vergogne confluiscono da ogni parte e trovano

seguaci» (Annales 15,44,2-3)

Le notizie forniteci dallo storico latino sono attendibili, anche in virtù degli incarichi politici

che Tacito svolse (fu governatore della provincia d'Asia) e che gli consentirono di disporre di

informazioni su questo nuovo gruppo. Non è escluso che egli sia riuscito a entrare in contatto, in

maniera indiretta, con alcuni cristiani e ad acquisire informazioni su di essi. Fra tutti gli scrittori

romani, Tacito è quello che ci fornisce le informazioni più dettagliate su Gesù. Su Gesù Tacito ci

conferma ulteriormente il dato evangelico sulla passione, avvenuta su condanna del governatore

romano Pilato. Ci soffermiamo sulle due informazioni che lo storico romano ci offre a proposito di

Gesù. Anzitutto egli parla di Gesù chiamandolo Cristo, utilizzando questo che in origine era un

titolo come un nome proprio. La scelta di questo appellativo, piuttosto che il ricorso al nome

proprio "Gesù", è funzionale al fatto che, nel contesto, egli sta parlando dei christianoi e perciò, per

indicare in questa figura il fondatore di questo nome, egli adopera il termine Cristo. In secondo

luogo, egli richiama la condanna a morte di Gesù. Tacito non parla di crocifissione, ma utilizza

l'espressione supplicio adfectus erat («era stato messo a morte»). Questa scelta linguistica fatta

dallo storico romano è funzionale a quanto egli sta narrando: nello stesso testo, infatti, egli ha

riferito la medesima espressione al destino dei cristiani per mano di Nerone. In tal modo, Tacito

stabilisce un collegamento fra la sorte di questo gruppo e quella del suo fondatore, collegamento

che non si sarebbe potuto stabilire se egli avesse parlato di crocifissione in riferimento a Gesù.

Tacito non fa menzione nemmeno del reato commesso da Gesù che ha condotto alla sua

crocifissione, sebbene i suoi lettori avrebbero probabilmente compreso che si trattava di un reato

contro Roma. Tiberio fu imperatore fra il 14 e il 37 d.C., Pilato fu governatore dal 26 al 36 d.C.: i

dati storici sembrano confermare il periodo in cui tradizionalmente gli eventi della morte e

resurrezione di Gesù sono stati collocati. Tacito non fornisce altre informazioni su Gesù,

probabilmente non perché non ne fosse a conoscenza, ma perché non rientravano nel suo interesse.

Allo storico romano interessava soltanto mostrare che questo gruppo seguiva un uomo condannato a

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morte da Roma e che, dunque, meritava di essere perseguitato dalle autorità imperiali (sebbene

Tacito non nutra particolare simpatia per Nerone). Ciò che colpisce è che, pur essendo uno storico

attento a vagliare l'attendibilità delle sue informazioni, Tacito non mostra alcun motivo per dubitare

dell'esistenza di Gesù e dei fatti che lo riguardavano.

Un altro testo è contenuto nella Vita dei Cesari, scritta da un altro storiografo latino,

Svetonio, attorno al 120 d.C. Nella parte riservata all'imperatore Claudio così scrive: «Poiché i

Giudei, istigati da Cresto, provocavano costantemente tumulti, Claudio li espulse da Roma» (Vita

di Claudio 25,4). Tutti gli studiosi concordano che questo «Cresto» cui si fa riferimento qui è Gesù,

che dunque viene presentato come oggetto di discussione e disputa fra i giudei. Il fatto che qui vi sia

una "e" al posto della "i" di "Cristo" dipende da un tipico fenomeno del greco ellenistico, chiamato

itacismo, in cui iota ed eta vengono pronunciate in modo molto simile. La confusione fra queste

lettere è attestata anche in altri scritti dell'antichità greco-romana e in numerose iscrizioni relative ai

cristiani e datate III-IV sec. si parla di Chrestianoi e non di Christianoi; inoltre già diversi autori

cristiani del II-III sec. (Giustino, Tertulliano, Lattanzio) annotano che spesso i pagani confondono

persino il nome esatto del loro fondatore, parlando di Cresto. Da notare come Svetonio non

distingue fra giudei e cristiani, perché al tempo dell'imperatore Claudio i cristiani sono ancora

considerati come una setta interna al giudaismo. Il fatto che la figura di Gesù provochi vivaci

discussioni in seno al giudaismo ne mostra la straordinaria importanza, oltre ad attestare la storicità

della figura di Gesù. Ulteriori informazioni avvalorano l'attendibilità delle informazioni fornite da

Svetonio. Altre fonti romane (e anche il testo degli Atti degli Apostoli 18,2) confermano che

l'imperatore Claudio ordinò l'allontanamento dei giudei da Roma nel 49 d.C. Inoltre, le grandi

polemiche che la figura di Gesù suscitò nel mondo giudaico ci sono confermate anche dai testi

neotestamentari, dove spesso i giudei si oppongono alla diffusione del messaggio cristiano. Nella

sua funzione di segretario dell'imperatore, è probabile che Svetonio trasse quest'informazione

direttamente dagli archivi imperiali.

Un altro testo romano che allude a Gesù è la Lettera 96 del libro X delle Epistulae di Plinio

il Giovane, scritta mentre egli si trova a svolgere la funzione di governatore della provincia del

Ponto in Asia Minore. La lettera potrebbe risalire al 112 d.C. In questa lettera, destinata

all'imperatore Traiano, egli esordisce in questo modo: «È mio costume, o signore, portare a tua

conoscenza tutte le questioni che mi lasciano perplesso, poiché nessuno meglio di te potrebbe

guidarmi nelle mie esitazioni o illuminarmi nella mia ignoranza». Plinio passa poi a sottoporre

all'imperatore il caso di questo particolare gruppo, con il quale egli è entrato in contrasto e che

prende il nome di cristiani, e che egli sta facendo processare e condannare a morte. Ma, data la

diffusione di questo fenomeno, egli sente la necessità di chiedere consiglio all'imperatore e scrive

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pertanto questa lettera: "In seguito, proprio come conseguenza dei procedimenti giudiziari, ed è

cosa solita, aumentarono le denunce e mi si presentarono parecchi altri casi. Si è resa di dominio

pubblico un'accusa anonima con i nomi di molte persone; io ho ritenuto mandare assolti quelli che

negavano di essere o di essere stati cristiani quando, mentre pronunciavo io per primo la formula,

invocavano gli dèi e facevano atti di adorazione alla tua immagine [...] e per di più maledicevano

Cristo; tutti atti cui è invece impossibile costringere quelli che sono veramente cristiani. Altri, il cui

nome era stato fatto da un delatore, affermarono di essere cristiani e subito dopo lo negarono; lo

erano sì stati, ma avevano cessato di esserlo. Anche costoro adorarono tutti sia la tua immagine

che le immagini degli dèi, e maledissero Cristo. Affermavano, d'altra parte, che la loro colpa o il

loro errore si riduceva essenzialmente alla consuetudine di riunirsi in un giorno determinato prima

dell'alba per cantare fra loro un inno in onore di Cristo come se fosse un dio e di impegnarsi con

solenne giuramento non a compiere qualche misfatto, ma a non commettere furti, rapine, adulterio,

a non tradire la parola data, a non rifiutare di restituire una cosa ricevuta in custodia". Alla lettera

del suo governatore, Traiano risponderà concordando con il modo di procedere di Plinio. Per il

nostro tema, si deve notare che Plinio cita per ben tre volte il nome Cristo e, rispetto agli altri autori

romani, fa riferimento per la prima volta alla presunta identità divina che Gesù avrebbe secondo

questo gruppo. È un dato interessante, che ci permette di considerare come fin dai primissimi

decenni del cristianesimo l'identità divina fosse affermata e creduta fra i cristiani; inoltre diversi

testi del NT costituiscono degli inni antichi in cui si canta la divinità di Cristo (Fil 2,5-11; Col 1,15-

20; Ap 5,11.13).

Nella sua opera La morte di Peregrino lo scrittore satirico Luciano di Samosata (II sec.)

racconta le vicende di questo pittoresco personaggio, Peregrino, del quale egli mette in evidenza le

stravaganze culturali e morali e che presenta come un imbroglione e un ciarlatano. A un certo

punto, Luciano parla del cristianesimo in questi termini: «Durante questo periodo Peregrino venne

a conoscenza della portentosa dottrina dei cristiani, frequentando in Palestina i loro sacerdoti e

scribi. Essi presero a venerarlo come un dio, se ne servivano come legislatore e lo avevano elevato

a loro protettore ufficiale, o almeno come vice-protettore, secondo solo a quello che essi venerano

tuttora, l'uomo che fu crocifisso in Palestina per aver portato nel mondo questa nuova forma di

iniziazione. Quei poveretti sono persuasi, infatti, di essere immortali e di vivere per l'eternità, per

cui disprezzano la morte e i più vi si consegnano di buon grado. Inoltre, quel loro primo legislatore

li ha convinti di essere tutti fratelli gli uni degli altri; in seguito a ciò essi abbandonano gli dèi

greci e adorano quel sofista crocifisso e vivono secondo le sue leggi». Anche questo testo, per

quanto critico nei confronti di Gesù, richiama il fatto della crocifissione, oltre a far riferimento alla

sapienza di Gesù («sofista») e al suo insegnamento, in particolare quello relativo al comandamento

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dell'amore fraterno. Inoltre appare esplicito il richiamo al nucleo centrale del messaggio cristiano: la

fede nella resurrezione. Vediamo come Luciano, per quanto irrisorio nei confronti della fede

cristiana, ne richiami di fatto i punti principali, sul piano dottrinale e morale. L'appellativo di sofista

applicato a Gesù è denigratorio: nel II sec., tale etichetta era un insulto verso chi insegnava soltanto

per interesse personale.

Sulla stessa linea si pone la lettera che il filosofo storico siriano Mara bar Serapion (II sec.)

indirizza a suo figlio dal carcere, insistendo sul valore della sapienza, nella quale bisogna vivere. In

questa descrizione del saggio, Mara ricorda come parecchi saggi dell'antichità sono, tuttavia, stati

condannati a morte, fra i quali Socrate, Pitagora e il «saggio re dei giudei, messo a morte dal suo

popolo». Gesù non è menzionato espressamente per nome, ma è evidente il riferimento a lui. Anche

quest'ultima fonte insiste, dunque, sulla morte di Gesù, oltre a ricordare Gesù come maestro di

sapienza.

1.3.Fonti cristiane apocrife

Negli ultimi decenni si è assistito a una grande riscoperta di quelli che sono chiamati

vangeli apocrifi, ossia quegli scritti su Gesù che la Chiesa non ha riconosciuto come canonici.

Dobbiamo fare una premessa fondamentale: rispetto ai quattro vangeli canonici, questi scritti sono

nettamente posteriori (dal II sec. in poi) e non possono essere posti sullo stesso piano dei vangeli

canonici. Essi potrebbero contenere qualche tradizione storica su Gesù, ma tale possibilità resta

difficile da dimostrare. Possono essere classificati in tre gruppi:

1. vangeli giudeo-cristiani. Composti in ambiente giudeo-cristiano, questi vangeli, di cui ci

sono pervenuti solo alcuni frammenti, insistono maggiormente sull'umanità di Gesù;

2. vangeli gnostici. La maggior parte di questi scritti furono ritrovati nella località egiziana di

Nag-Hammadi nel 1945. Si tratta di vangeli impregnati delle dottrine gnostiche cui abbiamo

fatto riferimento, tutti successivi al II secolo. Da un punto di vista letterario, non si tratta di

racconti, come nel caso dei vangeli canonici, ma piuttosto di raccolte di detti che insistono

nel presentare Gesù come portatore di una rivelazione esoterica riservata soltanto a pochi

eletti;

3. vangeli dell'infanzia e della passione. Si tratta di testi che cercano di colmare le lacune

presenti nei vangeli canonici a proposito l'infanzia di Gesù e sui fatti della sua morte e

resurrezione. È evidente si tratta di racconti talora romanzati, con tratti eccessivamente

fantasiosi. Anch'essi furono composti dal II sec. in poi.

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In conclusione, sebbene questo terzo gruppo di fonti debba essere considerato quando si va a

considerare la figura storica di Gesù, bisogna prendere questi testi con grande cautela, perché pochi

sono i dati storici che vi possono essere tratti.