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1. DAL PROGETTO ALL’AFFIDAMENTO DEI LAVORI
I livelli di progettazione previsti dalla normativa italiana sono tre (Preliminare, Definitivo ed
Esecutivo), cui di fatto se ne aggiungono uno prima e uno dopo (corrispondenti allo Studio di
fattibilità ed al Progetto Costruttivo). Ognuno di questi livelli presenta contenuti e modalità
istruttorie proprie. Da quando è in vigore il cosiddetto “ appalto integrato”, la Legge ha stabilito
che l’appalto dei lavori possa essere fatto con il Progetto Definitivo delegando all’impresa
vincitrice la redazione del Progetto Esecutivo. Ancor più la Legge “obiettivo” (relativa ad alcuni
grandi progetti di rilevante importanza) ha anticipato addirittura al Progetto Preliminare la facoltà
di effettuare la gara d’appalto, delegando all’appaltatore la redazione sia del Progetto Definitivo
che quello Esecutivo. Si tratta di tentativi di accorciare per via legislativa l’iter istruttorio dei
progetti senza cambiare tuttavia l’impianto normativo che ne condiziona l’approvazione e che
costituisce il vero motivo dei tempi lunghi di una qualsiasi istruttoria indipendentemente da chi
possa essere il soggetto proponente. C’è chi ritiene che queste procedure abbiano addirittura
allungato i tempi, nella misura in cui l’impresa non abbia interesse ad investire nella
progettazione fino a che non abbia la certezza di eseguire i lavori (cosa che avviene a Progetto
Esecutivo approvato).
Il meccanismo con cui avviene la gara è quello della richiesta di un’offerta da parte dell’Ente
appaltante alle imprese in possesso dei requisiti per partecipare alla gara. Dal momento che
alle imprese viene richiesto non solo di eseguire i lavori, ma anche di sviluppare le fasi di
progettazione necessarie a completare l’iter progettuale, i requisiti devono corrispondere anche
a questo aspetto (eventualmente designando già in fase di gara il progettista prescelto).
L’offerta può essere soltanto di tipo economico o anche tecnico. Nel primo caso, che era la
norma quando si poteva fare la gara solo sul Progetto Esecutivo e che oggi invece è sempre
più raro, la competizione avviene sulla base del prezzo offerto. In questa circostanza il computo
metrico, risultante dal progetto posto a base di gara, è uguale per tutti. Ogni impresa quindi
redige la propria analisi dei prezzi in funzione della propria organizzazione. Ad es. una delle
voci di analisi è sicuramente il mc di calcestruzzo, che non è un prodotto elementare che si
trova sul mercato, ma un semilavorato che viene preparato in cantiere utilizzando sabbia,
cemento ed acqua nelle quantità previste dal Capitolato e quindi gettato in opera con l’ausilio
delle casseforme e della armatura. Oltre ad acquistare sul mercato i componenti di base e
trasportarli in cantiere, l’impresa deve organizzarsi per la confezione, per il getto in opera, per la
stagionatura, per il disarmo delle casseforme e delle centinature e per la rifinitura finale. Tutta
questa organizzazione si traduce nel computo di tre voci elementari: mano d’opera, attrezzature
e trasporto, le quali, ognuna con la propria incidenza, contribuiscono al “costo”, per ogni
impresa, del mc di calcestruzzo, che, con l’aggiunta della quota parte di spese generali e di
utile, si trasforma nel prezzo “offerto” da ogni impresa per un mc di calcestruzzo. Moltiplicando il
prezzo di ogni impresa per le stesse quantità elencate nel computo metrico a base di gara, si
ottiene il prezzo offerto per tutti i mc di calcestruzzo previsti in progetto. La stessa procedura si
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applica a tutte le altre voci individuate dal computo metrico, fino ad arrivare al prezzo totale
offerto da ogni impresa per la realizzazione del progetto. Generalmente, dal momento che l’ente
appaltante ottiene il finanziamento sulla base del costo previsto dal progetto a base di gara, non
si possono accettare offerte in aumento, in quanto la differenza non avrebbe la copertura
finanziaria, e quindi ci si limita a chiedere un’offerta in ribasso rispetto al valore posto a base di
gara. La procedura cambia sostanzialmente se, invece della sola offerta economica, viene
richiesta anche l’offerta tecnica, che, a sua volta, può essere articolata o in una richiesta di
migliorie da apportare al progetto posta a base di gara o anche nella redazione di un progetto di
gara alternativo. La prassi più diffusa è quella delle migliorie, in quanto normalmente il progetto
posto a base di gara ha già ottenuto delle approvazioni che si traducono in altrettanti vincoli di
varia natura (urbanistico, espropriativo, paesaggistico, ambientale ecc). L’offerta tecnica quindi
deve trovare delle soluzioni, economicamente più vantaggiose per l’Ente appaltante, che non
mettano in discussione le approvazioni già ricevute o, ancora meglio, che diano una risposta
esaustiva alle “prescrizioni” e/o “raccomandazioni” eventualmente contenute in quelle
approvazioni. Infatti non sempre le approvazioni si esprimono su una sola fase progettuale
(ved. ad es. la Conferenza dei Servizi), ma anche se il parere fosse unico, attraverso il
meccanismo delle prescrizioni e/o raccomandazioni, si attiva la “verifica di ottemperanza” nella
fase di progetto successiva. Un esempio classico è il parere di compatibilità ambientale, che la
Legge prescrive che venga dato sul progetto definitivo con l’eccezione dei progetti inseriti nella
legge obiettivo che invece prevede la procedura sul progetto preliminare. È evidente che se il
parere contiene prescrizioni e/o raccomandazioni (come avviene quasi sempre), nella fase
successiva di progettazione debba essere espletata la verifica di ottemperanza. Ne consegue
che le migliorie richieste in fase di gara diventino uno strumento per interpretare quelle
prescrizioni e/o raccomandazioni. In definitiva si può dire che l’appalto integrato si inserisca
nell’iter istruttorio di un progetto, affiancando l’impresa all’Ente appaltante nel corso del
procedimento, e l’offerta tecnica costituisca lo strumento per selezionare l’impresa anche in
funzione del contributo ipotizzabile nel processo approvativo oltre a quello economico. Questo
meccanismo, che oggi è il più diffuso, consente una certa discrezionalità alla commissione
aggiudicatrice, che appunto deve “valutare” l’offerta tecnica (anche se rimane l’alea dell’offerta
economica, che invece non è soggetta ad alcun giudizio e che viene aperta soltanto dopo
l’assegnazione dei punteggi sull’offerta tecnica). A garanzia dell’Ente appaltante nei riguardi di
offerte troppo al ribasso, la legge ha previsto il meccanismo di verifica delle cosiddette “offerte
anomale”, che può portare, in caso di mancata o insufficiente giustificazione, alla esclusione
dalla gara di quelle offerte che presentano un valore anomalo rispetto alla media di tutte le
offerte presentate.
Dopo l’aggiudicazione della gara, l’Ente appaltante può decidere se far procedere subito alla
progettazione esecutiva o se far aggiornare il progetto definitivo in base alle prescrizioni e/o
raccomandazioni per sottoporlo nuovamente al vaglio degli enti interessati. Questa scelta
normalmente dipende dalla qualità e quantità delle prescrizioni e/o raccomandazioni ricevute.
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La cantieribilità di un progetto dipende infatti dalla conclusione dell’iter approvativo e quindi è
proprio quest’ultimo che condiziona le scelte fino all’inizio dei lavori.
Uno dei pareri più vincolanti per l’approvazione di un progetto è proprio quello di compatibilità
ambientale, che, a seconda dell’importanza del progetto viene rilasciato dal Ministero
dell’Ambiente di concerto con quello dei Beni Culturali o dalla Regione competente. Questo
parere è il risultato di un’istruttoria nota con il nome di VIA (Valutazione di Impatto Ambientale),
per essere assoggettato alla quale, il Proponente deve presentare oltre al Progetto Definitivo
anche il SIA (Studio di Impatto Ambientale), redatto, secondo quanto previsto dalla normativa
vigente, in tre quadri di riferimento (Programmatico, Progettuale ed Ambientale).
Quando nel 1988 furono emanate le norme tecniche per la redazione del SIA, si immaginava
che, essendo unico il momento di Valutazione, il SIA dovesse comprendere e rappresentare
tutte le fasi del progetto. Da questo presupposto è nata l’idea dei tre quadri di riferimento. Il
Quadro di riferimento Programmatico avrebbe dovuto esporre non solo tutte le correlazioni in
atto e/o programmate del progetto in argomento sia con il territorio interessato che con qualsiasi
altro intervento connesso, ma anche le motivazioni che giustificano l’opera e gli eventuali
inconvenienti dell’opzione zero.
Nonostante il SIA dovesse accompagnare solo il Progetto Definitivo nella procedura di VIA, si
riteneva che le suddette informazioni (tipiche del Progetto Preliminare) fossero dovute per
inquadrare meglio il progetto nello scenario di riferimento, nonostante appunto la fase del
Progetto Preliminare fosse già conclusa. In teoria né il Ministero dell’Ambiente, né quello dei
Beni Culturali, hanno fra i propri compiti, quello di programmare un’opera e quindi il Quadro di
riferimento Programmatico non dovrebbe entrare nelle loro competenze. Per questo motivo
assume più un carattere conoscitivo che di merito nell’espressione del parere di compatibilità
ambientale. Ciononostante l’importanza di questo quadro è fondamentale, proprio per
giustificare gli eventuali impatti che non si è riusciti a minimizzare e/o mitigare.
Mentre il Quadro di riferimento Programmatico evidenzia le giustificazioni e la necessità
dell’opera, quello di riferimento Progettuale affronta le modalità di progettazione ed esecuzione
dell’opera. Anche in questo caso le competenze dei due Ministeri suddetti sono di riflesso, in
quanto è evidente che le ricadute ambientali delle scelte progettuali siano immediate. Al
riguardo c’è chi sostiene che le analisi ambientali debbano precedere ed orientare le opzioni
progettuali fin dall’inizio, alla scala di riferimento più consona man mano che si scende nei
dettagli. Così ad esempio si può partire dalla scelta modale, che può privilegiare una modalità
di trasporto rispetto ad un’altra, per proseguire nella scelta di corridoio a parità di relazione fra i
due terminali ed arrivare infine alla scelta di tracciato vero e proprio. È evidente che ogni volta
cambi la scala di riferimento e quindi la modalità di analisi del territorio dal punto di vista
ambientale. In questa fase quindi si parla, più che di singoli impatti, di vulnerabilità del territorio
nel ricevere l’infrastruttura. Il progettista quindi viene orientato non solo dalla rappresentazione
fisica del territorio attraverso le carte topografiche, ma anche da quella ambientale attraverso le
carte tematiche, ognuna delle quali rappresenta le vulnerabilità del territorio per ogni
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componente ambientale. Il Quadro di Riferimento Progettuale quindi non è altro che la
documentazione del percorso di ottimizzazione progettuale/ambientale, lasciando al successivo
Quadro di riferimento Ambientale la documentazione degli impatti previsti e/o mitigabili/o
compensabili. Il secondo aspetto innovativo introdotto nel Quadro di riferimento Progettuale è
quello della cantierizzazione. Innovativo, in quanto fino ad allora questa materia era di esclusiva
competenza dell’impresa aggiudicatrice. La consapevolezza che gli impatti ambientali prodotti
durante la fase di realizzazione possono essere più significativi di quelli riferiti alla fase di
esercizio (quasi sempre è cosi!), ha indotto il legislatore ad introdurre questo argomento nel
Quadro di riferimento Progettuale e quindi a spostarlo dalle competenze dell’impresa a quelle
del Progettista già nella fase del Progetto Definitivo (o in quella del Preliminare per la legge
obiettivo). Ne consegue che nel SIA debbano essere riportate tutte le notizie relative alle
modalità costruttive: cave e discariche, percorsi dei mezzi d’opera, aree di cantiere, opere
provvisionali, interventi di mitigazione, durata dei lavori, ecc.
Il Quadro di riferimento Ambientale, infine, è quello che affronta in dettaglio gli impatti ambientali
dell’opera per ogni componente ambientale. L’analisi viene svolta confrontando le singole azioni
di progetto con i singoli ricettori sensibili individuali sul territorio per ogni componente
ambientale. Attraverso idonei processi di simulazione si valutano gli effetti che l’opera può
produrre. La valutazione può essere discrezionale o analitica (soprattutto quando esistono
precisi limiti di legge che vanno rispettati). Come già detto, nonostante il processo di
ottimizzazione e l’analisi dettagliata per ogni singola componente ambientale, è quasi
impossibile progettare una infrastruttura di trasporto senza produrre impatti ambientali. Ne
consegue che occorre prevedere già nella fase di progetto quegli interventi di mitigazione e/o
compensazione che possano far accettare gli impatti previsti. Si tratta di due ordini di interventi
significativamente diversi. La mitigazione è un provvedimento ineludibile ogni qual volta le
scelte progettuali non siano riuscite ad evitare gli impatti. Tipico esempio è la barriera anti
rumore, che non si può considerare un’opera stradale o ferroviaria, ma che in entrambi i casi
può risolvere in modo efficace il problema dell’inquinamento acustico sovrapponendosi al
progetto infrastrutturale come una sorta di filtro fra sorgente e ricettore. Diversamente la
compensazione interviene ogni qualvolta l’impatto non risulta mitigabile. Tipico esempio è la
compromissione di un’area naturale che può essere compensata creandone un’altra che possa
assolvere le stesse funzioni della precedente.
Normalmente gli enti preposti al rilascio del “Parere” di compatibilità ambientale entrano nel
merito della questione esprimendo una serie di “prescrizioni” e/o “raccomandazioni”, vincolanti
per una positiva chiusura della istruttoria.
Ne consegue che l’approvazione del Progetto Esecutivo diventi a tutti gli effetti l’atto finale di un
lungo iter progettuale, dopo il quale è veramente possibile aprire il cantiere ed iniziare i lavori.
Dal momento che sempre più l’impresa aggiudicataria ha convenienza a subappaltare i lavori a
fornitori specialisti di ogni categoria di opere (pali di fondazione, movimenti i terra, strutture in
calcestruzzo, pavimentazione, armamento, ecc.), la stessa impresa può considerare opportuno
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sviluppare il cosiddetto “Progetto Costruttivo”, che appunto affronta quegli argomenti che non
erano stati considerati nel Progetto Esecutivo e che non riguardano gli enti terzi che erano
intervenuti nell’approvazione del progetto. Non interessando quindi la collettività, ma
esclusivamente l’impresa a sua discrezione, si comprende perché questa fase progettuale non
sia prevista dalla normativa.
2. CAVE E DISCARICHE
Qualsiasi progetto di una infrastruttura stradale o ferroviaria comporta sempre lo scavo di una
quantità di materiale che deve essere definita nel computo metrico. Lo scavo può essere
necessario sia per la sagomatura del corpo stradale o ferroviario sia per l’impianto delle
fondazioni di ogni opera d’arte ma anche per l’approvvigionamento dei materiali idonei sia alla
realizzazione del rilevato che alla confezione del calcestruzzo e del conglomerato bituminoso.
Come si può capire, nonostante si tratti sempre di “scavo”, a seconda della tipologia di
materiale e della sua destinazione di uso, gli oneri sono ben diversi. Ne consegue quindi che
per il progettista non sia affatto sufficiente individuare lo scavo e la relativa quantità, ma debba
caratterizzare il materiale in base alla quantità ed individuare siti e percorsi sia per la cavazione
che per la discarica.
Il primo volume da computare è lo scavo di sbancamento per la sagomatura della sede stradale
o ferroviaria, la cui quantità deriva direttamente dal calcolo dei movimenti di terra e quindi dalle
sezioni correnti del progetto. La prima separazione più immediata è quella fra terra e roccia, in
quanto prevedono una diversa modalità di scavo e quindi un costo diverso. La seconda
ripartizione riguarda l’idoneità del materiale scavato al riutilizzo nell’ambito del progetto stesso.
Al riguardo occorrono due verifiche: una relativa alla caratterizzazione del materiale ed un’altra
relativa alle possibilità di impiego (rilevato e aggregati lapidei per conglomerato cementizio e
bituminoso). Qualsiasi sia il possibile impiego occorre che ci sia rispondenza ai requisiti del
Capitolato e che ci sia la domanda.
Il progetto ideale (sia dal punto di vista ambientale che da quello economico) sarebbe quello in
cui ci fosse una perfetta compensazione fra scavo e riutilizzo dello stesso materiale nel progetto
per cui non si dovrebbe ricorrere né a cavazione né a discarica. Ma è ovvio che affinché ciò
avvenga si debbono sviluppare una serie di condizioni che è quasi impossibile avere
contemporaneamente. Innanzitutto occorre che il materiale scavato sia idoneo al reimpiego in
rilevato se di natura terrosa o nei conglomerati di natura lapidea. Poi occorre che ci sia
equilibrio fra i volumi da scavare e quelli da riutilizzare. Infine sarebbe opportuno che ci fosse
contiguità fra il sito di scavo e quello di impiego in modo da evitare trasporti onerosi ed
inquinanti. Tutto ciò implica uno studio del tracciato, sia del punto di vista planimetrico che
altimetrico, che tenga conto di tale esigenza. Quando le strade si costruivano a mano (prima
della meccanizzazione dei cantieri) si trattava di un’esigenza imperativa, che addirittura cercava
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di compensare nella stessa sezione spostando il materiale da scavo a riporto soltanto
trasversalmente. La realtà di oggi è ben diversa. Innanzitutto è probabile che il materiale terroso
proveniente dallo scavo non sia idoneo per il rilevato. Nel caso di idoneità è anche possibile che
ci sia esubero del volume di scavo rispetto a quello di rilevato. Questo in parte può essere
addebitabile alla sempre maggiore presenza di tratti in galleria sia nei progetti stradali che in
quelli ferroviari. Soprattutto per quest’ultimi le velocità di progetto costringono a tracciati sempre
più rigidi, che quindi hanno più probabilità, in un territorio accidentato, di dover andare in
galleria. Il caso limite è costituito dalle tratte di valico che si sviluppano totalmente in galleria.
Ogniqualvolta quindi si presenti esubero di materiale scavato, si pone il problema di dove
andarlo a riporre. Un’opzione, che in genere trova consenso, è quella di riempire per risanare e
riqualificare ex cave non operative nella misura in cui si trovino ad una distanza accettabile e
siano raggiungibili dalla viabilità. Salvo casi eccezionali di possibile utilizzo di linee ferroviarie
e/o di mezzi navali, nella quasi totalità dei casi si tratta di un trasporto su gomma, che occorre
valutare in termini quantitativi, distribuiti per la durata dei lavori, anche ai fini della compatibilità
con i flussi di traffico già esistenti sulla rete e con l’eventuale presenza di ricettori sensibili lungo
l’itinerario previsto.
Così come è probabile che il materiale di scavo sia in esubero o non sia idoneo, è altrettanto
probabile che gli aggregati lapidei necessari per il confezionamento del conglomerato sia
cementizio che bituminoso non possano essere reperiti nel materiale di scavo e quindi debbano
essere presi da idonea cava con problemi di trasporto analoghi a quelli visti per la discarica, che
si sviluppano in direzione opposta (da cava a cantiere e dal cantiere al sito in opera).
L’identificazione delle cave, delle discariche e degli itinerari per raggiungerle, come già detto,
era un problema dell’impresa prima dell’emanazione della procedura di VIA (dicembre 1988),
dopo la quale è diventato un problema del progettista, che richiede una non facile ricerca del
consenso, sia da parte degli enti locali che delle autorità ambientali delegate al rilascio del
parere di compatibilità prima ed al successivo controllo in corso d’opera.
A seconda delle circostanze, il problema può richiedere lo studio di un’area anche abbastanza
ampia ed il relativo monitoraggio ambientale ante operam. Se si pensa che una dumper o un
camion da cantiere porta circa 20 mc di materiale e che la sezione di una galleria stradale o
ferroviaria può andare dai 50 ai 100 mq, si comprende facilmente la quantità di viaggi che può
essere prodotta da un cantiere. Ovviamente l’incidenza di questo flusso di traffico potrà essere
marginale rispetto ai flussi correnti se si tratta di grande viabilità di tipo autostradale, o, al
contrario, prevalente se si svolge su viabilità minore. In questo secondo caso è più probabile la
presenza di ricettori sensibili agli inquinamenti sia atmosferico che acustico/vibrazionale, che
quindi devono essere valutati attentamente. La procedura prevede il rilievo ante operam e la
simulazione, tramite modello, in corso d’opera, che verrà controllata durante i lavori da apposito
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monitoraggio. Se si dovessero superare i limiti di accettabilità previsti dalla legge, allora occorre
prevedere e progettare gli appositi interventi di mitigazione.
2. BIS DECRETO ATTUALMENTE VIGENTE SULL’UTILIZZAZIONE DELLE TERRE E
ROCCE DA SCAVO (n. 161 del 10 agosto 2012)
Come già detto, qualsiasi progetto di una strada o di una ferrovia non può non prevedere lo
“scavo” di una certa quantità di materiale. Con il termine “scavo” si intende coprire una serie di
attività che possono essere presenti nei cantieri stradali e ferroviari:
- Scavo di sbancamento
- Scavo a sezione obbligata
- Scavo di fondazione
- Scavo in cava
- Scavo in galleria
- Perforazione, trivellazioni, sondaggi, palificazioni, ecc.
Il materiale di scavo viene generato in un “sito di produzione” e spostato in un “sito di
destinazione” dove viene messo a dimora. Può capitare che si ritenga opportuno la creazione di
un “sito di deposito intermedio” dove allocare provvisoriamente il materiale (o parte di esso) in
attesa del trasferimento. Questa necessità è dovuta alla differenza di produttività fra
l’attrezzatura di scavo e quella di trasporto. Il Progettista deve redigere il “Piano di utilizzo” del
materiale di scavo previsto in progetto nell’ambito del Progetto Definitivo che viene sottoposto
alla procedura di VIA.
Il Piano di utilizzo deve essere preceduto dalla “caratterizzazione ambientale” del materiale di
scavo, mirato ad accertare la sussistenza dei requisiti di qualità ambientale del suddetto
materiale di scavo.
Per progetti di strade e ferrovie, il campionamento mediante scavi esplorativi e/o sondaggi deve
avvenire almeno ogni 500m lineari di tracciato (2000m in caso di Progettazione Preliminare). In
galleria è sufficiente una interdistanza di 1000m per un Progetto Definitivo e di 5000m per un
Progetto Preliminare, stando attenti che venga campionata ogni singola variazione significativa
di litologia. Sia nel caso di scavi esplorativi che di sondaggi, la campionatura deve consentire la
caratterizzazione dal piano campagna al fondo scavo. In caso di presenza di falda occorre
campionare anche l’acqua sotterranea. I risultati delle analisi sui campioni dovranno essere
confrontati con le “Concentrazioni Soglia di Contaminazione” (CSC) tabellate nel Decreto
legislativo n. 152 del 2006 e s.m.i..
Solo nel caso in cui tale confronto dia esito positivo, il materiale di scavo può essere utilizzato
come “sottoprodotto”, altrimenti deve essere trattato come “rifiuto”.
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Il Piano di utilizzo non solo dà conto di tutte le indagini caratterizzanti svolte, ma individua
esattamente il percorso di ogni mc di scavo previsto in progetto.
3. CAVE E DISCARICHE
Qualsiasi progetto di una infrastruttura stradale o ferroviaria comporta sempre lo scavo di una
quantità di materiale che deve essere definita nel computo metrico. Lo scavo può essere
necessario sia per la sagomatura del corpo stradale o ferroviario sia per l’impianto delle
fondazioni di ogni opera d’arte ma anche per l’approvvigionamento dei materiali idonei sia alla
realizzazione del rilevato che alla confezione del calcestruzzo e del conglomerato bituminoso.
Come si può capire, nonostante si tratti sempre di “scavo”, a seconda della tipologia di
materiale e della sua destinazione di uso, gli oneri sono ben diversi. Ne consegue quindi che
per il progettista non sia affatto sufficiente individuare lo scavo e la relativa quantità, ma debba
caratterizzare il materiale in base alla quantità ed individuare siti e percorsi sia per la cavazione
che per la discarica.
Il primo volume da computare è lo scavo di sbancamento per la sagomatura della sede stradale
o ferroviaria, la cui quantità deriva direttamente dal calcolo dei movimenti di terra e quindi dalle
sezioni correnti del progetto. La prima separazione più immediata è quella fra terra e roccia, in
quanto prevedono una diversa modalità di scavo e quindi un costo diverso. La seconda
ripartizione riguarda l’idoneità del materiale scavato al riutilizzo nell’ambito del progetto stesso.
Al riguardo occorrono due verifiche: una relativa alla caratterizzazione del materiale ed un’altra
relativa alle possibilità di impiego (rilevato e aggregati lapidei per conglomerato cementizio e
bituminoso). Qualsiasi sia il possibile impiego occorre che ci sia rispondenza ai requisiti del
Capitolato e che ci sia la domanda.
Il progetto ideale (sia dal punto di vista ambientale che da quello economico) sarebbe quello in
cui ci fosse una perfetta compensazione fra scavo e riutilizzo dello stesso materiale nel progetto
per cui non si dovrebbe ricorrere né a cavazione né a discarica. Ma è ovvio che affinché ciò
avvenga si debbono sviluppare una serie di condizioni che è quasi impossibile avere
contemporaneamente. Innanzitutto occorre che il materiale scavato sia idoneo al reimpiego in
rilevato se di natura terrosa o nei conglomerati di natura lapidea. Poi occorre che ci sia
equilibrio fra i volumi da scavare e quelli da riutilizzare. Infine sarebbe opportuno che ci fosse
contiguità fra il sito di scavo e quello di impiego in modo da evitare trasporti onerosi ed
inquinanti. Tutto ciò implica uno studio del tracciato, sia del punto di vista planimetrico che
altimetrico, che tenga conto di tale esigenza. Quando le strade si costruivano a mano (prima
della meccanizzazione dei cantieri) si trattava di un’esigenza imperativa, che addirittura cercava
di compensare nella stessa sezione spostando il materiale da scavo a riporto soltanto
trasversalmente. La realtà di oggi è ben diversa. Innanzitutto è probabile che il materiale terroso
proveniente dallo scavo non sia idoneo per il rilevato. Nel caso di idoneità è anche possibile che
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ci sia esubero del volume di scavo rispetto a quello di rilevato. Questo in parte può essere
addebitabile alla sempre maggiore presenza di tratti in galleria sia nei progetti stradali che in
quelli ferroviari. Soprattutto per quest’ultimi le velocità di progetto costringono a tracciati sempre
più rigidi, che quindi hanno più probabilità, in un territorio accidentato, di dover andare in
galleria. Il caso limite è costituito dalle tratte di valico che si sviluppano totalmente in galleria.
Ogniqualvolta quindi si presenti esubero di materiale scavato, si pone il problema di dove
andarlo a riporre. Un’opzione, che in genere trova consenso, è quella di riempire per risanare e
riqualificare ex cave non operative nella misura in cui si trovino ad una distanza accettabile e
siano raggiungibili dalla viabilità. Salvo casi eccezionali di possibile utilizzo di linee ferroviarie
e/o di mezzi navali, nella quasi totalità dei casi si tratta di un trasporto su gomma, che occorre
valutare in termini quantitativi, distribuiti per la durata dei lavori, anche ai fini della compatibilità
con i flussi di traffico già esistenti sulla rete e con l’eventuale presenza di ricettori sensibili lungo
l’itinerario previsto.
Così come è probabile che il materiale di scavo sia in esubero o non sia idoneo, è altrettanto
probabile che gli aggregati lapidei necessari per il confezionamento del conglomerato sia
cementizio che bituminoso non possano essere reperiti nel materiale di scavo e quindi debbano
essere presi da idonea cava con problemi di trasporto analoghi a quelli visti per la discarica, che
si sviluppano in direzione opposta (da cava a cantiere e dal cantiere al sito in opera).
L’identificazione delle cave, delle discariche e degli itinerari per raggiungerle, come già detto,
era un problema dell’impresa prima dell’emanazione della procedura di VIA (dicembre 1988),
dopo la quale è diventato un problema del progettista, che richiede una non facile ricerca del
consenso, sia da parte degli enti locali che delle autorità ambientali delegate al rilascio del
parere di compatibilità prima ed al successivo controllo in corso d’opera.
A seconda delle circostanze, il problema può richiedere lo studio di un’area anche abbastanza
ampia ed il relativo monitoraggio ambientale ante operam. Se si pensa che una dumper o un
camion da cantiere porta circa 20 mc di materiale e che la sezione di una galleria stradale o
ferroviaria può andare dai 50 ai 100 mq, si comprende facilmente la quantità di viaggi che può
essere prodotta da un cantiere. Ovviamente l’incidenza di questo flusso di traffico potrà essere
marginale rispetto ai flussi correnti se si tratta di grande viabilità di tipo autostradale, o, al
contrario, prevalente se si svolge su viabilità minore. In questo secondo caso è più probabile la
presenza di ricettori sensibili agli inquinamenti sia atmosferico che acustico/vibrazionale, che
quindi devono essere valutati attentamente. La procedura prevede il rilievo ante operam e la
simulazione, tramite modello, in corso d’opera, che verrà controllata durante i lavori da apposito
monitoraggio. Se si dovessero superare i limiti di accettabilità previsti dalla legge, allora occorre
prevedere e progettare gli appositi interventi di mitigazione.
Per tutti gli scavi previsti in progetto (di sbancamento,di fondazione,ecc) e'
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obbligatorio applicare il Decreto n.161 del 10 agosto 2012, che prevede dapprima la "Caratterizzazione ambientale" del suddetto materiale e conseguentemente la redazione del "Piano di utilizzo". La caratterizzazione ambientale del materiale proveniente dagli scavi deve avvenire durante la redazione del Progetto Definitivo e del SIA, sottoponendo ad analisi chimico/fisica campioni del terreno prelevati almeno ogni 500 m lineari di tracciato a quota del piano di campagna,del fondo dello scavo previsto e ad una quota intermedia. In galleria l'interdistanza può essere portata a 1000 m. I risultati delle analisi sui campioni devono essere confrontati con le " Concentrazioni Soglia di Contaminazione"(CSC). Nel caso di superamento di tale soglia, il materiale relativo diventa automaticamente "RIFUTO" e quindi non può essere utilizzato per alcun motivo e portato a discarica autorizzata. Nel caso si renda necessaria la previsione di un deposito temporaneo nelle immediate vicinanze del sito di scavo, occorre prendere le stesse precauzioni che contraddistinguono la discarica autorizzata (impermeabilizzazione del piano di appoggio del cumulo e protezione dagli agenti atmosferici). Se invece la soglia di contaminazione non viene superata,allora il materiale di scavo viene definito " SOTTOPRODOTTO" e può quindi essere utilizzato nell'ambito del Progetto in funzione del Piano di utilizzo,che definisce : - l'ubicazione dei siti di produzione dello scavo ed il relativo volume; - l'ubicazione dei siti di utilizzo; - l'ubicazione di eventuali siti di deposito intermedio di attesa; - l'individuazione dei percorsi previsti e delle modalità di trasporto dai siti di produzione a quelli di utilizzo e/o deposito. Ai fini dell'utilizzo sono necessarie due ulteriori condizioni : - la caratterizzazione geotecnica del sottoprodotto; - la determinazione delle caratteristiche e delle quantità necessarie in ogni sito di riporto previsto in progetto. In sintesi lo schema operativo e' il seguente : RIFIUTO > DISCARICA AUTORIZZATA SCAVO { MATERIALE LAPIDEO SOTTOPRODOTTO { GRANULARE > 200
TERRA > CLASSIFICA AASHO { FINE < 200 (0,074mm) CLASSIFICA. AASHO A1 ghiaie < 15% passante al 200 A3 sabbie < 10% passante al 200. ( MATERIALI IDONEI ) A2 < 35% passante al 200 A24 sabbie limose A25 sabbie limose ---------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------
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A26 sabbie argillose A27 sabbie argillose A4/A5 limi > 35% passante al 200 (MATERIALI NON IDONEI) A6/A7 argille > 35% passante al 200
Se la somma di A1,A3,A24,A25 e' maggiore della somma degli R, allora la parte idonea del
sottoprodotto deve essere utilizzata nel Progetto, mentre l' A26,A27,A4,A5,A6,A7, oltre alla
parte idonea eccedente, devono essere collocati in siti idonei individuati nel SIA ed
approvati in sede di VIA. Se invece le terre di scavo idonee sono inferiori a quelle
necessarie per R, allora vanno individuate sempre nel SIA le possibili cave di prestito ed
approvate in sede di VIA.
Per la realizzazione dei vari R è necessario procedere a strati di altezza massima di 30 cm,
ognuno dei quali deve essere opportunamente "costipato", affinché il rilevato, una volta
terminato, possa rimanere "stabile". Il costipamento è un'azione meccanica mirata alla
diminuzione/scomparsa del volume di vuoti della terra. Prima di iniziare la lavorazione in
situ, e' necessario trovare in laboratorio l'umidità ottima per raggiungere la massima densità
possibile. Il diagramma della prova è rappresentato da una curva a campana il cui vertice
individua l'umidità necessaria per raggiungere la max densità. Il che dimostra che il velo
idrico deve servire solo a lubrificare i singoli granuli senza entrare in contropressione.
Da tutto quanto detto, ne consegue come siano differenti le logiche che sovrintendono alla
produzione dello scavo da quelle relative alla formazione del rilevato, per cui diventa
essenziale il coordinamento ai fini dell'ottimizzazione del risultato tecnico/economico.
In questo ambito risulta fondamentale un'oculata scelta dei mezzi da impiegare.
Il primo e più diffuso mezzo per lo scavo di sbancamento è il cosiddetto APRIPISTA
(BULLDOZER) che, dotato di notevole potenza riesce a rompere e spostare il terreno
esistente attraverso la lama frontale. Se la superficie fosse particolarmente dura, allora si fa
precedere il RIPPER che e' dotato posteriormente di uno o più denti in grado di strappare il
terreno (tipo aratro). Man mano che si formano i cumuli, interviene la PALA meccanica che
provvede a sollevare la terra attraverso un cucchiaio per caricarla sul mezzo di trasporto
giudicato più idoneo in funzione del tipo di itinerario da seguire (AUTOCARRO o DUMPER).
La pala può anche essere usata direttamente per lo scavo in quelle situazioni in cui il
bulldozer avrebbe difficoltà ( tipo scarpate e simili).
Al ciclo classico di scavo come evidenziato, si può sostituire, se le distanze sono limitate
(<2km) un mezzo tipico dei lavori stradali : lo SCRAPER che accomuna le funzioni di scavo,
trasporto e deposito nello stesso mezzo (ovviamente in quantità ridotte).
Dopo la stesa degli strati di R si procede al costipamento con il COSTIPATORE a rulli
dentati e/o lisci.
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Nella progettazione di ponti e viadotti, la soluzione strutturale può dipendere anche dalle
modalità con cui è possibile organizzare il cantiere e dalle attrezzature che ogni impresa
può avere, direttamente o indirettamente, a disposizione.
Questo spiega perché questa voce sia una delle più frequenti nell’ambito delle migliorie
proposte dalle imprese che partecipano alle gare. Infatti senza incidere minimamente sul
tracciato, sugli espropri, sugli aspetti urbanistici e funzionali, si esaltano le capacità
dell’impresa in ambito esclusivamente tecnologico.
Come già detto il parametro dirimente è la luce dell’opera, intesa come distanza fra due
appoggi.
Le opere d’arte cosiddette “minori” sono in genere i tombini, i sottopassi ed i cavalcavia. I
primi hanno una funzione idraulica per consentire al flusso idrico di attraversare il corpo
stradale senza recare alcun danno. E’ evidente quindi che debbano essere collocati nella
posizione giusta (in cui l’andamento naturale del terreno fa convergere l’acqua dal bacino
sotteso. Qualsiasi tracciato stradale o ferroviario infatti taglia sempre il bacino idrico
attraversato in una parte a monte e a valle ed il tombino è appunto la struttura che ripristina
la continuità idraulica fra monte e valle. Le dimensioni del tombino sono regolate quindi
dalla portata idraulica prevista. Normalmente i più piccoli possono avere una forma circolare
o ovoidale, mentre all’aumentare delle dimensioni si preferisce la forma quadrata o
rettangolare. L’impresa può scegliere la soluzione prefabbricata o quella realizzata in opera
(o anche una mista).
Quando l’opera di attraversamento del corpo stradale non serve più soltanto all’acqua ma
anche al passaggio di veicoli e pedoni, allora si passa dal tombino al sottopasso. Anche per
quest’ultimo l’impresa si pone il problema della scelta fra getto in opera e prefabbricazione,
la quale può cominciare a convenire se la luce dell’impalcato comincia ad avere una
dimensione superiore a qualche metro. Nei sottopassi carrabili si deve tener presente il
problema dell’eventuale traffico esistente sulla strada e/o ferrovia da attraversare. Se si
tratta di una strada si può anche ipotizzare una deviazione provvisoria, mentre se si tratta di
una ferrovia non è ipotizzabile alcuna deviazione, salvo casi veramente eccezionali.
Nel novero delle opere d’arte minori rientrano anche i cavalcavia, che propongono una
tematica speculare a quella dei sottopassi. In questo caso è la strada (o raramente la
ferrovia) attraversata, che scavalca il tracciato in progetto. Ovviamente se quest’ultima ha
una dimensione trasversale importante rispetto ad una viabilità minore attraversata, è
evidente che convenga deviare altimetricamente quest’ultima, per problemi sia di minor
costo che di funzionalità (minor velocità di progetto). I moderni cavalcavia normalmente
scavalcano la strada in progetto con un’unica luce, verificando anche che non pongano
limiti alla distanza di visibilità sottostante.
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In generale quindi la tematica delle opere d’arte minori riguarda gli attraversamenti idrici,
stradali, ferroviari o di qualsiasi altra infrastruttura presente sul territorio (acquedotti,
metanodotti, ecc.). Proprio perché minori e diffusi lungo il tracciato, difficilmente giustificano
un cantiere ad hoc.
Diversamente per le opere d’arte maggiori che comprendono ponti e viadotti. I primi sono in
genere più impegnativi in quanto comportano l’attraversamento di un fiume, la cui portata
idrica determina la luce, coniugata con la possibilità eventuale di posizionare pile in alveo.
Al riguardo sono state escogitate diverse soluzioni, che hanno sempre in comune la
cantierizzazione sulle sponde del fiume. Oggi una delle scelte più diffuse è quella del
cosiddetto ponte “strallato”, in cui l’impalcato è sorretto da “stralli” che partono o da un unico
pilone/antenna su ogni sponda o da due piloni/antenne posti su entrambe le sponde.
Molto più articolata è la gamma dei viadotti, termine con cui si configurano strutture
progettate non per attraversare un fiume ma per adeguare il tracciato all’andamento
naturale del terreno. In questo ambito la soluzione più diffusa è quella delle travi appoggiate
su pile che si ripetono ad intervalli regolari. La ricerca della luce ottimale è quella di minor
costo fra la lunghezza delle travi ed il conseguente numero di fondazioni per le pile. Ma
oltre alla luce, determinante può essere la modalità di organizzazione del cantiere. Data per
scontata la prefabbricazione delle travi, si deve scegliere la modalità di varo in verticale o in
orizzontale. Nel primo caso il varo avviene con gru dal piano campagna sottostante, nel
secondo caso con “carroponte” a partire dalla sommità di una delle due spalle. Ovviamente
la scelta è possibile soltanto se l’altezza delle pile non supera il campo operativo delle gru,
altrimenti non c’è alternativa al varo orizzontale. Conseguenziale risulta la posizione del
cantiere di prefabbricazione delle travi o di assemblaggio delle stesse se prodotte altrove.
4. CAVE E DISCARICHE
Qualsiasi progetto di una infrastruttura stradale o ferroviaria comporta sempre lo scavo di una
quantità di materiale che deve essere definita nel computo metrico. Lo scavo può essere
necessario sia per la sagomatura del corpo stradale o ferroviario sia per l’impianto delle
fondazioni di ogni opera d’arte ma anche per l’approvvigionamento dei materiali idonei sia alla
realizzazione del rilevato che alla confezione del calcestruzzo e del conglomerato bituminoso.
Come si può capire, nonostante si tratti sempre di “scavo”, a seconda della tipologia di
materiale e della sua destinazione di uso, gli oneri sono ben diversi. Ne consegue quindi che
per il progettista non sia affatto sufficiente individuare lo scavo e la relativa quantità, ma debba
caratterizzare il materiale in base alla quantità ed individuare siti e percorsi sia per la cavazione
che per la discarica.
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Il primo volume da computare è lo scavo di sbancamento per la sagomatura della sede stradale
o ferroviaria, la cui quantità deriva direttamente dal calcolo dei movimenti di terra e quindi dalle
sezioni correnti del progetto. La prima separazione più immediata è quella fra terra e roccia, in
quanto prevedono una diversa modalità di scavo e quindi un costo diverso. La seconda
ripartizione riguarda l’idoneità del materiale scavato al riutilizzo nell’ambito del progetto stesso.
Al riguardo occorrono due verifiche: una relativa alla caratterizzazione del materiale ed un’altra
relativa alle possibilità di impiego (rilevato e aggregati lapidei per conglomerato cementizio e
bituminoso). Qualsiasi sia il possibile impiego occorre che ci sia rispondenza ai requisiti del
Capitolato e che ci sia la domanda.
Il progetto ideale (sia dal punto di vista ambientale che da quello economico) sarebbe quello in
cui ci fosse una perfetta compensazione fra scavo e riutilizzo dello stesso materiale nel progetto
per cui non si dovrebbe ricorrere né a cavazione né a discarica. Ma è ovvio che affinché ciò
avvenga si debbono sviluppare una serie di condizioni che è quasi impossibile avere
contemporaneamente. Innanzitutto occorre che il materiale scavato sia idoneo al reimpiego in
rilevato se di natura terrosa o nei conglomerati di natura lapidea. Poi occorre che ci sia
equilibrio fra i volumi da scavare e quelli da riutilizzare. Infine sarebbe opportuno che ci fosse
contiguità fra il sito di scavo e quello di impiego in modo da evitare trasporti onerosi ed
inquinanti. Tutto ciò implica uno studio del tracciato, sia del punto di vista planimetrico che
altimetrico, che tenga conto di tale esigenza. Quando le strade si costruivano a mano (prima
della meccanizzazione dei cantieri) si trattava di un’esigenza imperativa, che addirittura cercava
di compensare nella stessa sezione spostando il materiale da scavo a riporto soltanto
trasversalmente. La realtà di oggi è ben diversa. Innanzitutto è probabile che il materiale terroso
proveniente dallo scavo non sia idoneo per il rilevato. Nel caso di idoneità è anche possibile che
ci sia esubero del volume di scavo rispetto a quello di rilevato. Questo in parte può essere
addebitabile alla sempre maggiore presenza di tratti in galleria sia nei progetti stradali che in
quelli ferroviari. Soprattutto per quest’ultimi le velocità di progetto costringono a tracciati sempre
più rigidi, che quindi hanno più probabilità, in un territorio accidentato, di dover andare in
galleria. Il caso limite è costituito dalle tratte di valico che si sviluppano totalmente in galleria.
Ogniqualvolta quindi si presenti esubero di materiale scavato, si pone il problema di dove
andarlo a riporre. Un’opzione, che in genere trova consenso, è quella di riempire per risanare e
riqualificare ex cave non operative nella misura in cui si trovino ad una distanza accettabile e
siano raggiungibili dalla viabilità. Salvo casi eccezionali di possibile utilizzo di linee ferroviarie
e/o di mezzi navali, nella quasi totalità dei casi si tratta di un trasporto su gomma, che occorre
valutare in termini quantitativi, distribuiti per la durata dei lavori, anche ai fini della compatibilità
con i flussi di traffico già esistenti sulla rete e con l’eventuale presenza di ricettori sensibili lungo
l’itinerario previsto.
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Così come è probabile che il materiale di scavo sia in esubero o non sia idoneo, è altrettanto
probabile che gli aggregati lapidei necessari per il confezionamento del conglomerato sia
cementizio che bituminoso non possano essere reperiti nel materiale di scavo e quindi debbano
essere presi da idonea cava con problemi di trasporto analoghi a quelli visti per la discarica, che
si sviluppano in direzione opposta (da cava a cantiere e dal cantiere al sito in opera).
L’identificazione delle cave, delle discariche e degli itinerari per raggiungerle, come già detto,
era un problema dell’impresa prima dell’emanazione della procedura di VIA (dicembre 1988),
dopo la quale è diventato un problema del progettista, che richiede una non facile ricerca del
consenso, sia da parte degli enti locali che delle autorità ambientali delegate al rilascio del
parere di compatibilità prima ed al successivo controllo in corso d’opera.
A seconda delle circostanze, il problema può richiedere lo studio di un’area anche abbastanza
ampia ed il relativo monitoraggio ambientale ante operam. Se si pensa che una dumper o un
camion da cantiere porta circa 20 mc di materiale e che la sezione di una galleria stradale o
ferroviaria può andare dai 50 ai 100 mq, si comprende facilmente la quantità di viaggi che può
essere prodotta da un cantiere. Ovviamente l’incidenza di questo flusso di traffico potrà essere
marginale rispetto ai flussi correnti se si tratta di grande viabilità di tipo autostradale, o, al
contrario, prevalente se si svolge su viabilità minore. In questo secondo caso è più probabile la
presenza di ricettori sensibili agli inquinamenti sia atmosferico che acustico/vibrazionale, che
quindi devono essere valutati attentamente. La procedura prevede il rilievo ante operam e la
simulazione, tramite modello, in corso d’opera, che verrà controllata durante i lavori da apposito
monitoraggio. Se si dovessero superare i limiti di accettabilità previsti dalla legge, allora occorre
prevedere e progettare gli appositi interventi di mitigazione.
5. OPERE TEMPORANEE
In questa categoria rientrano tutte quelle opere, che è necessario realizzare per il periodo
strettamente necessario alla esecuzione dell’opera principale e che quindi si possono e si
devono demolire una volta completati i lavori. Il caso classico è quello della deviazione di un
corso d’acqua per la realizzazione di un’opera di attraversamento. Ma anche la centinatura di
un’importante opera d’arte, può costituire un manufatto altrettanto impegnativo sia nella
realizzazione che nella successiva demolizione. Allo stesso modo temporanea è l’installazione
del cantiere, di cui si è già detto per l’espletamento di tutti i servizi necessari (uffici, alloggi,
officine, impianti di confezionamento dei conglomerati cementizi e bituminosi, ricovero dei mezzi
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d’opera, stoccaggio dei materiali e dei manufatti prefabbricati). Si tratta di aree di un certo
rilievo, che a fine lavori devono essere ripristinate nello stato quo ante. Gli oneri del ripristino
sono spesso sottovalutati sia dal progettista che dalle stesse imprese con la conseguenza della
difficoltà di realizzazione a fine lavori. In generale tutte le attività previste in questo paragrafo
costituiscono un “costo” per l’impresa, che a sua volta non viene ribaltato sulla Amministrazione
Committente, proprio perché “opere temporanee”. È quindi importante che vengano valutate
attentamente sia in fase di progettazione che in quella di offerta dell’impresa, per poterne
calcolare l’incidenza sulle lavorazioni che invece vengono computate e compensate dalla
Committenza. Si tratta di un aspetto molto delicato, che può avere ricadute sulla qualità dei
lavori. Mentre infatti sono chiari i rapporti fra impresa e committenza per tutto ciò che viene
eseguito e quindi compensato “a misura”, non si può dire altrettanto per tutto ciò che occorre
fare pur senza l’inserimento nella contabilità dei lavori. Tutto ciò riguarda l’effettiva
organizzazione dell’impresa, che il progettista può solo ipotizzare prima dell’appalto, mettendosi
nelle condizioni medie di mercato, ma che ogni impresa risolve in base alle proprie attrezzature
e caratteristiche organizzative. Lo stesso manufatto finale, che è quello pensato dal progettista
prima dell’appalto, può essere realizzato in modi diversi, producendo una redditività diversa,
che è quella che alimenta la concorrenza fra le imprese.
In definitiva si può dire che sotto la dizione “opere temporanee” si possa includere un’ampia
gamma di interventi, alcuni dei quali già previsti dal progettista in fase di redazione del progetto
per l’appalto, altri funzionali alle modalità realizzative scelte dall’impresa. Al contrario delle
opere permanenti, quelle temporanee hanno l’onere della demolizione e del ripristino dello stato
quo ante.
6. INTERVENTI DI COMPENSAZIONE E MITIGAZIONE AMBIENTALE
Sia per le opere stradali che per quelle ferroviarie le maggiori preoccupazioni dal punto di vista
ambientale derivano dalla fase di realizzazione piuttosto che da quella di esercizio. Quando si
arriva all’apertura al traffico infatti l’unica categoria di impatto su cui si deve intervenire è quella
del rumore (che include anche le vibrazioni). Ben diversa invece la situazione quando sono
operativi i cantieri: si può dire che in quella fase nessuna categoria di impatto possa essere
esclusa. La realizzazione di qualsiasi manufatto comporta inevitabilmente la variazione
dell’assetto idrogeomorfologico, dell’habitat naturale, degli ecosistemi, nonché inquinamento
atmosferico, acustico ed idrico.
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Il termine “comporta inevitabilmente” deve essere attentamente interpretato non come una sorta
di franchigia, quanto piuttosto come una manifestazione residuale di tutti i tentativi fatti durante
la progettazione per minimizzare gli effetti del cantiere. Solo così la collettività può accettare
che, dopo tutti gli sforzi fatti per rendere il progetto il migliore possibile, si ponga mano agli
interventi di compensazione e mitigazione ambientale. In questa ottica è evidente che si debba
trattare di interventi “fuori opera”, che vanno concordati con le Amministrazioni competenti nei
limiti di spesa posti dalle leggi vigenti. In passato sotto questa voce sono stati allocati interventi
mirati soprattutto ad una compensazione di tipo “sociale” nei riguardi degli Enti locali attraversati
dalla nuova opera, facendosi carico delle svariate esigenze minimali da questi espresse. Oggi
la tendenza è quella di riservare i limitati finanziamenti, concessi dalla legge, ad interventi
prioritariamente ambientali. Se è vero che il “consumo” di suolo è insito in qualsiasi cantiere
stradale o ferroviario, allora è evidente che la “naturalizzazione” di aree antropizzate (ex cave o
simili) nelle vicinanze del cantiere, può costituire una compensazione esemplare.
Analogamente può dirsi per il “ripascimento costiero”, che evidentemente non ha nulla a che
vedere con un cantiere stradale o ferroviario, ma può rivelarsi un’ottima compensazione nel
caso in cui il materiale di scavo in eccedenza risulti idoneo a quell’impiego. Altrettanto
compensativa può considerarsi la realizzazione di aree “umide”, in prossimità di corsi d’acqua
da attraversare, per favorire il ricovero dell’avifauna. La casistica può essere molto ampia e
dipende da caso a caso. In questa sede si vuole soltanto evidenziare come oggi
l’autorizzazione ad aprire un cantiere, che è già stato progettato nel miglior modo possibile,
dipenda anche da questi interventi.
Diversa invece è la tematica della “mitigazione”. Mentre infatti la “compensazione” si rivolge ad
interventi fuori opera, che in teoria nulla avrebbero a che vedere con una strada o ferrovia, la
“mitigazione” fa parte del progetto dell’opera e mira a rendere il progetto ancora più accettabile
dal punto di vista ambientale, di quanto non sia stato possibile con il progetto stesso. L’esempio
classico di un intervento di mitigazione ambientale è la barriera antirumore. E’ evidente che il
progettista in presenza di ricettori sensibili abbia già cercato di allontanare quanto più possibile
il tracciato stradale o ferroviario. Purtroppo lo spazio è quello che è, così come i vincoli sul
territorio, per cui non sempre è possibile risolvere il problema dell’inquinamento acustico con la
distanza. Dal momento che la protezione dei ricettori sensibili è un obbligo di legge, allora al
progettista non resta che progettare un’opera di mitigazione, che si sovrappone al corpo
stradale o ferroviario, per impedire che l’impatto acustico sul ricettore superi i limiti di legge. Un
altro esempio calzante è la vasca di depurazione a valle del sistema di raccolta delle acque di
piattaforma prima che queste vengano versate nel reticolo idrico naturale. Anche in questo caso
c’è un obbligo di legge per cui non è ammissibile che qualsiasi sversamento accidentale da un
veicolo che trasporti sostanze inquinanti e/o tossiche, possa ripercuotersi nel corpo idrico più
immediato.
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Si tratta di esemplificazioni che dovrebbero da un lato rendere chiara la differenza fra
“compensazione” e “mitigazione” e dall’altro sensibilizzare il progettista alla necessità di andare
“oltre il progetto” nel senso stretto del termine.
7. CANTIERI SOTTO TRAFFICO
In un Paese in cui la rete infrastrutturale è ormai abbastanza consolidata, diventa sempre più
frequente l’appalto di lavori di riqualificazione e/o ampliamento di tratte già esistenti e quindi
aperte al traffico. Si tratta di una problematica molto attuale sia in campo stradale che
ferroviario. Gli interventi di riqualificazione possono riguardare diversi aspetti di una
infrastruttura. Se per esempio il tracciato esistente presenta elementi che non consentano in
sicurezza adeguate velocità di progetto quali raggi di curvatura planimetrici troppo ridotti o
livellette troppo accentuate o raccordi altimetrici non idonei, allora l’intervento di riqualificazione
richiede necessariamente la deviazione del traffico su una sede provvisoria o su un itinerario
alternativo in quanto i lavori riguardano l’intero corpo stradale o ferroviario. Se invece si tratta
soltanto di adeguare la capacità a parità di tracciato, come nel caso di aggiunta di una corsia o
di raddoppio del binario, allora si può anche pensare di realizzare i lavori in presenza di traffico
(in ogni caso con opportune restrizioni). Il secondo caso è il più frequente ma anche il più
complesso, in quanto è necessario operare in spazi molto ridotti e con norme di sicurezza
particolarmente restrittive, molto simili a quelle che si seguono durante gli interventi di
manutenzione.
L’ampliamento di una sede stradale o ferroviaria implica necessariamente l’allungamento delle
opere d’arte piccole e grandi (tombini, ponticelli, viadotti, cavalcavia, ecc.), che normalmente
sono distribuiti lungo la sede esistente. Può capitare che le suddette opere, se realizzate molti
anni prima, si presentino, al momento dell’ampliamento, in condizioni di degrado o addirittura
che risultino sottodimensionate dal punto di vista idraulico in funzione dei criteri normativi vigenti
al momento. In questi casi non si tratta più di un semplice ampliamento di un’opera già
esistente, ma di una vera e propria riqualificazione con tutte le conseguenze che è facile
immaginare. D’altra parte le opere idrauliche piccole e grandi di una strada o ferrovia, sono
quelle più facilmente soggette a degrado proprio perché destinate a supportare il peso degli
eventi pluviometrici. E’ evidente che in questi casi i condizionamenti sul traffico siano molto più
incisivi di quanto possa essere lavorando fuori sagoma, anche se in adiacenza. I restringimenti
di carreggiata su strada o i rallentamenti in ferrovia diventano molto più invadenti, in quanto si
tratta di riqualificare opere che stanno sotto la carreggiata o il binario esistente e quindi per
forza di cose, se si vuole mantenere il traffico, occorre procedere a sezione parzializzata,
spostando a tappe la sede carrabile.
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Una situazione ancora diversa è quella delle gallerie, il cui ampliamento sotto traffico è stato
sperimentato, ma con tempi e costi non sostenibili. Di conseguenza la pratica più diffusa è
quella di realizzare un nuovo fornice a fianco dell’esistente e spostare il traffico a lavori conclusi
senza di fatto incidere sul traffico in esercizio. Si può quindi dire che le gallerie costituiscano
quasi sempre una variante in affiancamento rispetto a quella esistente e quindi non si possano
considerare in senso stretto “opere sotto traffico”, il che costituisce un indubbio vantaggio.
Differente invece il caso dei viadotti, in cui in genere si riesce a realizzare l’allargamento in
adiacenza, posizionando un giunto longitudinale che colleghi l’impalcato vecchio a quello nuovo
e quindi il traffico può continuare a scorrere sulla sede esistente pur con i necessari
restringimenti. Ovviamente, come già detto per le opere minori, se si dovessero riscontrare
situazioni di degrado tali da consigliare il rifacimento completo, allora varrebbero le stesse
considerazioni svolte per le gallerie (ex novo in affiancamento).
Si ribadisce che, mentre una volta si preferiva scegliere per tutto il tracciato la soluzione in
variante in quanto gli standard plano altimetrici esistenti erano completamente fuori norma,
oggi, vista l’importanza acquisita dal consumo di suolo (che è una risorsa sempre più limitata),
quasi tutte le Amministrazioni preferiscano restare quanto più possibile sul sedime esistente,
anche nel caso di adeguamento a norma del tracciato. E’ questo il caso quasi generalizzato
delle terze corsie autostradali, dove le eventuali misure di correzione del tracciato (aumento di
raggi di curvatura, inserimento di clotoidi) o di micro varianti (per l’affiancamento dei nuovi
fornici nelle gallerie) vengono sviluppate nell’ambito del sedime esistente cui ovviamente si
aggiungono i necessari ampliamenti. E’ facile immaginare come e quanto la carreggiata
stradale debba adeguarsi ai necessari spostamenti per consentire le modifiche previste nel
progetto di riqualificazione, e quali limiti alla circolazione sia necessario introdurre.
8. PIANO DI MONITORAGGIO AMBIENTALE (PMA)
La legge vigente (n. 163 del 12-04-2006) pone l’obbligo al Progettista di redigere nell’ambito del
Progetto Definitivo, anche il Piano di Monitoraggio Ambientale (PMA) che l’impresa dovrà
effettuare prima, durante e dopo i lavori di realizzazione. Si raccomanda al riguardo di
consultare le Linee Guida redatte dalla Commissione VIA del Ministero dell’Ambiente.
In pratica il Monitoraggio Ambientale costituisce il vero strumento di controllo, con il quale sia il
Ministero dell’Ambiente che le Amministrazioni locali possono verificare attraverso i risultati
delle misure di campo quei parametri che caratterizzano le componenti ambientali, che in fase
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di progettazione sono risultate coinvolte dall’opera. Si tratta di una innovazione fortemente
significativa che ha una valenza che va ben al di là dell’opera, in quanto consente una verifica
ambientale cosi dettagliata del territorio coinvolto, che sarebbe stata inimmaginabile senza la
realizzazione dell’opera e quindi indirettamente costituisce una sorta di compensazione
primaria.
L’articolazione temporale in tre fasi: immediatamente prima dell’inizio dei lavori, durante
l’esecuzione e dopo la conclusione dei lavori consente, a parità di postazione di rilevamento,
non solo di conoscere la situazione ante operam, ma di avere un confronto immediato sulle
variazioni imputabili al cantiere.
L’articolazione spaziale invece dipende, per ogni componente ambientale, sia dalle
caratteristiche delle azioni di progetto sia dalla sensibilità del territorio alla ricezione degli impatti
previsti. Ne consegue che la fascia coinvolta possa essere più o meno ampia a seconda di
come si sviluppa il progetto e di come sia articolato il territorio in cui si inserisce.
E’ interessante notare come il MA costituisca una sorta di Direzione Lavori Ambientale, che
consente di intervenire tempestivamente sull’andamento dei lavori, ogni volta che si registri il
superamento di qualche valore di soglia o delle differenze non giustificate rispetto ai valori ante
operam.
Il PMA è stato introdotto dal Decreto Legislativo 163 del 2006, affinché si possa realizzare un
effettivo controllo degli impatti sull'ambiente di una qualsiasi opera, attraverso il rilievo e la
misura di determinati parametri che caratterizzano le Componenti Ambientali. Il PMA è stato
concepito non tanto per verificare la rispondenza degli impatti a quanto previsto nel SIA, quanto
piuttosto per consentire di intervenire tempestivamente ogni qualvolta si registri un
superamento delle soglie di accettabilità. Le motivazioni che possono determinare queste
emergenze sono le più varie. Dall'esecuzione dei lavori in modi e tempi differenti da quanto
previsto in progetto, alla modifica dell'assetto territoriale quale si aveva al momento del
progetto, a eventuali varianti in corso d'opera e così via. Considerato che il ciclo di vita del
progetto è sempre pluriennale, è altamente probabile che le condizioni al contorno possano
cambiare nel tempo. In definitiva il legislatore ha voluto introdurre con il suddetto Decreto una
sorta di Direzione Lavori Ambientale, che articolata nel tempo e nello spazio. Nel tempo in
quanto si estende alle tre fasi di ante opera, in corso d'opera e post operam. Nello spazio in
quanto si estende alla fascia di territorio, che cambia per ogni Componente Ambientale, in
funzione del dominio di impatto, a sua volta funzione della singola azione di progetto e della
tipologia e posizione del ricettore. Dal momento che le infrastrutture di trasporto sono
generalmente strette e lunghe, occorre sin dalla redazione del SIA fare un'opportuna cernita dei
ricettori più significativi per evitare una raccolta dati superflua o ripetitiva.
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9. PIANO DI SICUREZZA E COORDINAMENTO
Ancora oggi il settore delle costruzioni rappresenta uno di quelli a maggior rischio di infortuni
per gli addetti ai lavori. Per questo motivo il legislatore ha imposto fin dal 1990 con la legge n.55
la redazione del Piano di sicurezza e coordinamento di tutte le unità operanti in un cantiere.
La tipologia dei rischi, che deve affrontare un Piano di Sicurezza, può essere articolata in
quattro gruppi:
- utilizzo delle attrezzature di cantiere;
- uso di sostanze e materiali potenzialmente nocivi;
- ambiente di lavoro;
- particolari tecnologie previste.
Il rischio viene normalmente definito come il prodotto delle probabilità che si verifichi un evento
dannoso per l’entità del danno associato.
Per ridurre il rischio si può agire sia sul primo fattore (probabilità di accadimento), per mezzo di
opportune misure preventive, sia sul secondo fattore (gravità del danno), per mezzo di misure
protettive. E’ lo stesso principio della sicurezza attiva e passiva. La prima tende ad eliminare o
contenere le cause del sinistro, la seconda mira a contenere gli effetti del sinistro.
Ne consegue che il primo strumento di salvaguardia della sicurezza di un cantiere sia
l’organizzazione dei lavori. E’ evidente che la sovrapposizione temporale e spaziale di
lavorazioni diverse, possibilmente affidate ad unità distinte, costituisca uno dei maggiori fattori
di rischio. Non a caso si chiama Piano di sicurezza e “coordinamento” e la pianificazione delle
varie fasi lavorative costituisce il fulcro del documento.
Le schede di analisi dei rischi possibili per ogni tipo di lavorazione, incluse le misure di
prevenzione e protezione, sono ormai di uso comune.
10. PIANO DI MANUTENZIONE
La manutenzione delle infrastrutture sia stradali che ferroviarie è un concetto che si è andato
evolvendo nel corso degli anni soprattutto in funzione delle caratteristiche dell’ente gestore e
delle conseguenti disponibilità finanziarie. In questo contesto si evidenzia una differenza
sostanziale fra le infrastrutture a pedaggio o a tariffa e quelle libere. E’ evidente infatti che il
flusso finanziario delle prime non possa avere paragoni con quello delle altre. Tutto questo si
ripercuote sulle strategie di manutenzione ma anche su quelle di primo impianto. D’altra parte
sia le strade che le ferrovie sono soggette a standard di sicurezza ineludibili, per cui non può
essere ammissibile una situazione di degrado che metta a rischio la circolazione. Allo stesso
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tempo non è accettabile che prevalga l’analisi finanziaria dell’ente gestore rispetto a quella
economica degli utenti e della collettività. Se infatti potrebbe sembrare interessante la scelta
strategica di una sorta di manutenzione permanente per mantenere a livello di efficienza
l’infrastruttura con costi spalmati nel tempo, non si può non considerare il peso dell’inefficienza
(ritardi e rallentamenti) cui costringono i cantieri di manutenzione.
Logica conseguenza di quanto si è espresso è che il “Piano di manutenzione” sia in effetti già
condizionato al momento delle scelte progettuali, che non possono più basarsi sul concetto di
“vita utile” ma piuttosto considerare un processo di ottimizzazione orientato a mantenere il
livello di servizio costantemente al di sopra di una soglia prestabilita. Ne consegue un’evidente
interazione fra progetto e manutenzione, che potrebbe portare in teoria ad una vita utile
“infinita”. Ma per applicare un concetto di questo genere è evidente che l’ente gestore debba
avere conoscenza dei flussi finanziari prevedibili su un arco temporale molto ampio. Cosa
possibile, con qualche margine di approssimazione, nel caso di pedaggio o tariffa, ma non
altrettanto disponibile negli altri casi in cui l’Amministrazione competente può fare affidamento
solo sul budget assegnato nell’anno finanziario di riferimento. Questa è obiettivamente una
delle maggiori difficoltà per la redazione di un Piano di manutenzione che non può basarsi su
un flusso di cassa certo o probabile.
Oggi sono disponibili diversi modelli di deterioramento soprattutto per le parti maggiormente
soggette ad usura come le pavimentazioni con particolare riferimento agli strati superficiali (che
non a caso si chiamano “di usura”). Con questi modelli è possibile ottimizzare i costi (di
impianto, di manutenzione, dei rallentamenti, degli incidenti) anche per un periodo di tempo
lungo e quindi pianificare al meglio non solo per l’ente gestore ma per tutta la collettività. Dati
come input i flussi di traffico previsti (leggeri e pesanti) e le caratteristiche dei materiali
impiegati, ne consegue il tipo di manutenzione necessaria.