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1 1. DAL PROGETTO ALL’AFFIDAMENTO DEI LAVORI I livelli di progettazione previsti dalla normativa italiana sono tre (Preliminare, Definitivo ed Esecutivo), cui di fatto se ne aggiungono uno prima e uno dopo (corrispondenti allo Studio di fattibilità ed al Progetto Costruttivo). Ognuno di questi livelli presenta contenuti e modalità istruttorie proprie. Da quando è in vigore il cosiddetto “ appalto integrato”, la Legge ha stabilito che l’appalto dei lavori possa essere fatto con il Progetto Definitivo delegando all’impresa vincitrice la redazione del Progetto Esecutivo. Ancor più la Legge “obiettivo” (relativa ad alcuni grandi progetti di rilevante importanza) ha anticipato addirittura al Progetto Preliminare la facoltà di effettuare la gara d’appalto, delegando all’appaltatore la redazione sia del Progetto Definitivo che quello Esecutivo. Si tratta di tentativi di accorciare per via legislativa l’iter istruttorio dei progetti senza cambiare tuttavia l’impianto normativo che ne condiziona l’approvazione e che costituisce il vero motivo dei tempi lunghi di una qualsiasi istruttoria indipendentemente da chi possa essere il soggetto proponente. C’è chi ritiene che queste procedure abbiano addirittura allungato i tempi, nella misura in cui l’impresa non abbia interesse ad investire nella progettazione fino a che non abbia la certezza di eseguire i lavori (cosa che avviene a Progetto Esecutivo approvato). Il meccanismo con cui avviene la gara è quello della richiesta di un’offerta da parte dell’Ente appaltante alle imprese in possesso dei requisiti per partecipare alla gara. Dal momento che alle imprese viene richiesto non solo di eseguire i lavori, ma anche di sviluppare le fasi di progettazione necessarie a completare l’iter progettuale, i requisiti devono corrispondere anche a questo aspetto (eventualmente designando già in fase di gara il progettista prescelto). L’offerta può essere soltanto di tipo economico o anche tecnico. Nel primo caso, che era la norma quando si poteva fare la gara solo sul Progetto Esecutivo e che oggi invece è sempre più raro, la competizione avviene sulla base del prezzo offerto. In questa circostanza il computo metrico, risultante dal progetto posto a base di gara, è uguale per tutti. Ogni impresa quindi redige la propria analisi dei prezzi in funzione della propria organizzazione. Ad es. una delle voci di analisi è sicuramente il mc di calcestruzzo, che non è un prodotto elementare che si trova sul mercato, ma un semilavorato che viene preparato in cantiere utilizzando sabbia, cemento ed acqua nelle quantità previste dal Capitolato e quindi gettato in opera con l’ausilio delle casseforme e della armatura. Oltre ad acquistare sul mercato i componenti di base e trasportarli in cantiere, l’impresa deve organizzarsi per la confezione, per il getto in opera, per la stagionatura, per il disarmo delle casseforme e delle centinature e per la rifinitura finale. Tutta questa organizzazione si traduce nel computo di tre voci elementari: mano d’opera, attrezzature e trasporto, le quali, ognuna con la propria incidenza, contribuiscono al “costo”, per ogni impresa, del mc di calcestruzzo, che, con l’aggiunta della quota parte di spese generali e di utile, si trasforma nel prezzo “offerto” da ogni impresa per un mc di calcestruzzo. Moltiplicando il prezzo di ogni impresa per le stesse quantità elencate nel computo metrico a base di gara, si ottiene il prezzo offerto per tutti i mc di calcestruzzo previsti in progetto. La stessa procedura si

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1. DAL PROGETTO ALL’AFFIDAMENTO DEI LAVORI

I livelli di progettazione previsti dalla normativa italiana sono tre (Preliminare, Definitivo ed

Esecutivo), cui di fatto se ne aggiungono uno prima e uno dopo (corrispondenti allo Studio di

fattibilità ed al Progetto Costruttivo). Ognuno di questi livelli presenta contenuti e modalità

istruttorie proprie. Da quando è in vigore il cosiddetto “ appalto integrato”, la Legge ha stabilito

che l’appalto dei lavori possa essere fatto con il Progetto Definitivo delegando all’impresa

vincitrice la redazione del Progetto Esecutivo. Ancor più la Legge “obiettivo” (relativa ad alcuni

grandi progetti di rilevante importanza) ha anticipato addirittura al Progetto Preliminare la facoltà

di effettuare la gara d’appalto, delegando all’appaltatore la redazione sia del Progetto Definitivo

che quello Esecutivo. Si tratta di tentativi di accorciare per via legislativa l’iter istruttorio dei

progetti senza cambiare tuttavia l’impianto normativo che ne condiziona l’approvazione e che

costituisce il vero motivo dei tempi lunghi di una qualsiasi istruttoria indipendentemente da chi

possa essere il soggetto proponente. C’è chi ritiene che queste procedure abbiano addirittura

allungato i tempi, nella misura in cui l’impresa non abbia interesse ad investire nella

progettazione fino a che non abbia la certezza di eseguire i lavori (cosa che avviene a Progetto

Esecutivo approvato).

Il meccanismo con cui avviene la gara è quello della richiesta di un’offerta da parte dell’Ente

appaltante alle imprese in possesso dei requisiti per partecipare alla gara. Dal momento che

alle imprese viene richiesto non solo di eseguire i lavori, ma anche di sviluppare le fasi di

progettazione necessarie a completare l’iter progettuale, i requisiti devono corrispondere anche

a questo aspetto (eventualmente designando già in fase di gara il progettista prescelto).

L’offerta può essere soltanto di tipo economico o anche tecnico. Nel primo caso, che era la

norma quando si poteva fare la gara solo sul Progetto Esecutivo e che oggi invece è sempre

più raro, la competizione avviene sulla base del prezzo offerto. In questa circostanza il computo

metrico, risultante dal progetto posto a base di gara, è uguale per tutti. Ogni impresa quindi

redige la propria analisi dei prezzi in funzione della propria organizzazione. Ad es. una delle

voci di analisi è sicuramente il mc di calcestruzzo, che non è un prodotto elementare che si

trova sul mercato, ma un semilavorato che viene preparato in cantiere utilizzando sabbia,

cemento ed acqua nelle quantità previste dal Capitolato e quindi gettato in opera con l’ausilio

delle casseforme e della armatura. Oltre ad acquistare sul mercato i componenti di base e

trasportarli in cantiere, l’impresa deve organizzarsi per la confezione, per il getto in opera, per la

stagionatura, per il disarmo delle casseforme e delle centinature e per la rifinitura finale. Tutta

questa organizzazione si traduce nel computo di tre voci elementari: mano d’opera, attrezzature

e trasporto, le quali, ognuna con la propria incidenza, contribuiscono al “costo”, per ogni

impresa, del mc di calcestruzzo, che, con l’aggiunta della quota parte di spese generali e di

utile, si trasforma nel prezzo “offerto” da ogni impresa per un mc di calcestruzzo. Moltiplicando il

prezzo di ogni impresa per le stesse quantità elencate nel computo metrico a base di gara, si

ottiene il prezzo offerto per tutti i mc di calcestruzzo previsti in progetto. La stessa procedura si

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applica a tutte le altre voci individuate dal computo metrico, fino ad arrivare al prezzo totale

offerto da ogni impresa per la realizzazione del progetto. Generalmente, dal momento che l’ente

appaltante ottiene il finanziamento sulla base del costo previsto dal progetto a base di gara, non

si possono accettare offerte in aumento, in quanto la differenza non avrebbe la copertura

finanziaria, e quindi ci si limita a chiedere un’offerta in ribasso rispetto al valore posto a base di

gara. La procedura cambia sostanzialmente se, invece della sola offerta economica, viene

richiesta anche l’offerta tecnica, che, a sua volta, può essere articolata o in una richiesta di

migliorie da apportare al progetto posta a base di gara o anche nella redazione di un progetto di

gara alternativo. La prassi più diffusa è quella delle migliorie, in quanto normalmente il progetto

posto a base di gara ha già ottenuto delle approvazioni che si traducono in altrettanti vincoli di

varia natura (urbanistico, espropriativo, paesaggistico, ambientale ecc). L’offerta tecnica quindi

deve trovare delle soluzioni, economicamente più vantaggiose per l’Ente appaltante, che non

mettano in discussione le approvazioni già ricevute o, ancora meglio, che diano una risposta

esaustiva alle “prescrizioni” e/o “raccomandazioni” eventualmente contenute in quelle

approvazioni. Infatti non sempre le approvazioni si esprimono su una sola fase progettuale

(ved. ad es. la Conferenza dei Servizi), ma anche se il parere fosse unico, attraverso il

meccanismo delle prescrizioni e/o raccomandazioni, si attiva la “verifica di ottemperanza” nella

fase di progetto successiva. Un esempio classico è il parere di compatibilità ambientale, che la

Legge prescrive che venga dato sul progetto definitivo con l’eccezione dei progetti inseriti nella

legge obiettivo che invece prevede la procedura sul progetto preliminare. È evidente che se il

parere contiene prescrizioni e/o raccomandazioni (come avviene quasi sempre), nella fase

successiva di progettazione debba essere espletata la verifica di ottemperanza. Ne consegue

che le migliorie richieste in fase di gara diventino uno strumento per interpretare quelle

prescrizioni e/o raccomandazioni. In definitiva si può dire che l’appalto integrato si inserisca

nell’iter istruttorio di un progetto, affiancando l’impresa all’Ente appaltante nel corso del

procedimento, e l’offerta tecnica costituisca lo strumento per selezionare l’impresa anche in

funzione del contributo ipotizzabile nel processo approvativo oltre a quello economico. Questo

meccanismo, che oggi è il più diffuso, consente una certa discrezionalità alla commissione

aggiudicatrice, che appunto deve “valutare” l’offerta tecnica (anche se rimane l’alea dell’offerta

economica, che invece non è soggetta ad alcun giudizio e che viene aperta soltanto dopo

l’assegnazione dei punteggi sull’offerta tecnica). A garanzia dell’Ente appaltante nei riguardi di

offerte troppo al ribasso, la legge ha previsto il meccanismo di verifica delle cosiddette “offerte

anomale”, che può portare, in caso di mancata o insufficiente giustificazione, alla esclusione

dalla gara di quelle offerte che presentano un valore anomalo rispetto alla media di tutte le

offerte presentate.

Dopo l’aggiudicazione della gara, l’Ente appaltante può decidere se far procedere subito alla

progettazione esecutiva o se far aggiornare il progetto definitivo in base alle prescrizioni e/o

raccomandazioni per sottoporlo nuovamente al vaglio degli enti interessati. Questa scelta

normalmente dipende dalla qualità e quantità delle prescrizioni e/o raccomandazioni ricevute.

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La cantieribilità di un progetto dipende infatti dalla conclusione dell’iter approvativo e quindi è

proprio quest’ultimo che condiziona le scelte fino all’inizio dei lavori.

Uno dei pareri più vincolanti per l’approvazione di un progetto è proprio quello di compatibilità

ambientale, che, a seconda dell’importanza del progetto viene rilasciato dal Ministero

dell’Ambiente di concerto con quello dei Beni Culturali o dalla Regione competente. Questo

parere è il risultato di un’istruttoria nota con il nome di VIA (Valutazione di Impatto Ambientale),

per essere assoggettato alla quale, il Proponente deve presentare oltre al Progetto Definitivo

anche il SIA (Studio di Impatto Ambientale), redatto, secondo quanto previsto dalla normativa

vigente, in tre quadri di riferimento (Programmatico, Progettuale ed Ambientale).

Quando nel 1988 furono emanate le norme tecniche per la redazione del SIA, si immaginava

che, essendo unico il momento di Valutazione, il SIA dovesse comprendere e rappresentare

tutte le fasi del progetto. Da questo presupposto è nata l’idea dei tre quadri di riferimento. Il

Quadro di riferimento Programmatico avrebbe dovuto esporre non solo tutte le correlazioni in

atto e/o programmate del progetto in argomento sia con il territorio interessato che con qualsiasi

altro intervento connesso, ma anche le motivazioni che giustificano l’opera e gli eventuali

inconvenienti dell’opzione zero.

Nonostante il SIA dovesse accompagnare solo il Progetto Definitivo nella procedura di VIA, si

riteneva che le suddette informazioni (tipiche del Progetto Preliminare) fossero dovute per

inquadrare meglio il progetto nello scenario di riferimento, nonostante appunto la fase del

Progetto Preliminare fosse già conclusa. In teoria né il Ministero dell’Ambiente, né quello dei

Beni Culturali, hanno fra i propri compiti, quello di programmare un’opera e quindi il Quadro di

riferimento Programmatico non dovrebbe entrare nelle loro competenze. Per questo motivo

assume più un carattere conoscitivo che di merito nell’espressione del parere di compatibilità

ambientale. Ciononostante l’importanza di questo quadro è fondamentale, proprio per

giustificare gli eventuali impatti che non si è riusciti a minimizzare e/o mitigare.

Mentre il Quadro di riferimento Programmatico evidenzia le giustificazioni e la necessità

dell’opera, quello di riferimento Progettuale affronta le modalità di progettazione ed esecuzione

dell’opera. Anche in questo caso le competenze dei due Ministeri suddetti sono di riflesso, in

quanto è evidente che le ricadute ambientali delle scelte progettuali siano immediate. Al

riguardo c’è chi sostiene che le analisi ambientali debbano precedere ed orientare le opzioni

progettuali fin dall’inizio, alla scala di riferimento più consona man mano che si scende nei

dettagli. Così ad esempio si può partire dalla scelta modale, che può privilegiare una modalità

di trasporto rispetto ad un’altra, per proseguire nella scelta di corridoio a parità di relazione fra i

due terminali ed arrivare infine alla scelta di tracciato vero e proprio. È evidente che ogni volta

cambi la scala di riferimento e quindi la modalità di analisi del territorio dal punto di vista

ambientale. In questa fase quindi si parla, più che di singoli impatti, di vulnerabilità del territorio

nel ricevere l’infrastruttura. Il progettista quindi viene orientato non solo dalla rappresentazione

fisica del territorio attraverso le carte topografiche, ma anche da quella ambientale attraverso le

carte tematiche, ognuna delle quali rappresenta le vulnerabilità del territorio per ogni

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componente ambientale. Il Quadro di Riferimento Progettuale quindi non è altro che la

documentazione del percorso di ottimizzazione progettuale/ambientale, lasciando al successivo

Quadro di riferimento Ambientale la documentazione degli impatti previsti e/o mitigabili/o

compensabili. Il secondo aspetto innovativo introdotto nel Quadro di riferimento Progettuale è

quello della cantierizzazione. Innovativo, in quanto fino ad allora questa materia era di esclusiva

competenza dell’impresa aggiudicatrice. La consapevolezza che gli impatti ambientali prodotti

durante la fase di realizzazione possono essere più significativi di quelli riferiti alla fase di

esercizio (quasi sempre è cosi!), ha indotto il legislatore ad introdurre questo argomento nel

Quadro di riferimento Progettuale e quindi a spostarlo dalle competenze dell’impresa a quelle

del Progettista già nella fase del Progetto Definitivo (o in quella del Preliminare per la legge

obiettivo). Ne consegue che nel SIA debbano essere riportate tutte le notizie relative alle

modalità costruttive: cave e discariche, percorsi dei mezzi d’opera, aree di cantiere, opere

provvisionali, interventi di mitigazione, durata dei lavori, ecc.

Il Quadro di riferimento Ambientale, infine, è quello che affronta in dettaglio gli impatti ambientali

dell’opera per ogni componente ambientale. L’analisi viene svolta confrontando le singole azioni

di progetto con i singoli ricettori sensibili individuali sul territorio per ogni componente

ambientale. Attraverso idonei processi di simulazione si valutano gli effetti che l’opera può

produrre. La valutazione può essere discrezionale o analitica (soprattutto quando esistono

precisi limiti di legge che vanno rispettati). Come già detto, nonostante il processo di

ottimizzazione e l’analisi dettagliata per ogni singola componente ambientale, è quasi

impossibile progettare una infrastruttura di trasporto senza produrre impatti ambientali. Ne

consegue che occorre prevedere già nella fase di progetto quegli interventi di mitigazione e/o

compensazione che possano far accettare gli impatti previsti. Si tratta di due ordini di interventi

significativamente diversi. La mitigazione è un provvedimento ineludibile ogni qual volta le

scelte progettuali non siano riuscite ad evitare gli impatti. Tipico esempio è la barriera anti

rumore, che non si può considerare un’opera stradale o ferroviaria, ma che in entrambi i casi

può risolvere in modo efficace il problema dell’inquinamento acustico sovrapponendosi al

progetto infrastrutturale come una sorta di filtro fra sorgente e ricettore. Diversamente la

compensazione interviene ogni qualvolta l’impatto non risulta mitigabile. Tipico esempio è la

compromissione di un’area naturale che può essere compensata creandone un’altra che possa

assolvere le stesse funzioni della precedente.

Normalmente gli enti preposti al rilascio del “Parere” di compatibilità ambientale entrano nel

merito della questione esprimendo una serie di “prescrizioni” e/o “raccomandazioni”, vincolanti

per una positiva chiusura della istruttoria.

Ne consegue che l’approvazione del Progetto Esecutivo diventi a tutti gli effetti l’atto finale di un

lungo iter progettuale, dopo il quale è veramente possibile aprire il cantiere ed iniziare i lavori.

Dal momento che sempre più l’impresa aggiudicataria ha convenienza a subappaltare i lavori a

fornitori specialisti di ogni categoria di opere (pali di fondazione, movimenti i terra, strutture in

calcestruzzo, pavimentazione, armamento, ecc.), la stessa impresa può considerare opportuno

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sviluppare il cosiddetto “Progetto Costruttivo”, che appunto affronta quegli argomenti che non

erano stati considerati nel Progetto Esecutivo e che non riguardano gli enti terzi che erano

intervenuti nell’approvazione del progetto. Non interessando quindi la collettività, ma

esclusivamente l’impresa a sua discrezione, si comprende perché questa fase progettuale non

sia prevista dalla normativa.

2. CAVE E DISCARICHE

Qualsiasi progetto di una infrastruttura stradale o ferroviaria comporta sempre lo scavo di una

quantità di materiale che deve essere definita nel computo metrico. Lo scavo può essere

necessario sia per la sagomatura del corpo stradale o ferroviario sia per l’impianto delle

fondazioni di ogni opera d’arte ma anche per l’approvvigionamento dei materiali idonei sia alla

realizzazione del rilevato che alla confezione del calcestruzzo e del conglomerato bituminoso.

Come si può capire, nonostante si tratti sempre di “scavo”, a seconda della tipologia di

materiale e della sua destinazione di uso, gli oneri sono ben diversi. Ne consegue quindi che

per il progettista non sia affatto sufficiente individuare lo scavo e la relativa quantità, ma debba

caratterizzare il materiale in base alla quantità ed individuare siti e percorsi sia per la cavazione

che per la discarica.

Il primo volume da computare è lo scavo di sbancamento per la sagomatura della sede stradale

o ferroviaria, la cui quantità deriva direttamente dal calcolo dei movimenti di terra e quindi dalle

sezioni correnti del progetto. La prima separazione più immediata è quella fra terra e roccia, in

quanto prevedono una diversa modalità di scavo e quindi un costo diverso. La seconda

ripartizione riguarda l’idoneità del materiale scavato al riutilizzo nell’ambito del progetto stesso.

Al riguardo occorrono due verifiche: una relativa alla caratterizzazione del materiale ed un’altra

relativa alle possibilità di impiego (rilevato e aggregati lapidei per conglomerato cementizio e

bituminoso). Qualsiasi sia il possibile impiego occorre che ci sia rispondenza ai requisiti del

Capitolato e che ci sia la domanda.

Il progetto ideale (sia dal punto di vista ambientale che da quello economico) sarebbe quello in

cui ci fosse una perfetta compensazione fra scavo e riutilizzo dello stesso materiale nel progetto

per cui non si dovrebbe ricorrere né a cavazione né a discarica. Ma è ovvio che affinché ciò

avvenga si debbono sviluppare una serie di condizioni che è quasi impossibile avere

contemporaneamente. Innanzitutto occorre che il materiale scavato sia idoneo al reimpiego in

rilevato se di natura terrosa o nei conglomerati di natura lapidea. Poi occorre che ci sia

equilibrio fra i volumi da scavare e quelli da riutilizzare. Infine sarebbe opportuno che ci fosse

contiguità fra il sito di scavo e quello di impiego in modo da evitare trasporti onerosi ed

inquinanti. Tutto ciò implica uno studio del tracciato, sia del punto di vista planimetrico che

altimetrico, che tenga conto di tale esigenza. Quando le strade si costruivano a mano (prima

della meccanizzazione dei cantieri) si trattava di un’esigenza imperativa, che addirittura cercava

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di compensare nella stessa sezione spostando il materiale da scavo a riporto soltanto

trasversalmente. La realtà di oggi è ben diversa. Innanzitutto è probabile che il materiale terroso

proveniente dallo scavo non sia idoneo per il rilevato. Nel caso di idoneità è anche possibile che

ci sia esubero del volume di scavo rispetto a quello di rilevato. Questo in parte può essere

addebitabile alla sempre maggiore presenza di tratti in galleria sia nei progetti stradali che in

quelli ferroviari. Soprattutto per quest’ultimi le velocità di progetto costringono a tracciati sempre

più rigidi, che quindi hanno più probabilità, in un territorio accidentato, di dover andare in

galleria. Il caso limite è costituito dalle tratte di valico che si sviluppano totalmente in galleria.

Ogniqualvolta quindi si presenti esubero di materiale scavato, si pone il problema di dove

andarlo a riporre. Un’opzione, che in genere trova consenso, è quella di riempire per risanare e

riqualificare ex cave non operative nella misura in cui si trovino ad una distanza accettabile e

siano raggiungibili dalla viabilità. Salvo casi eccezionali di possibile utilizzo di linee ferroviarie

e/o di mezzi navali, nella quasi totalità dei casi si tratta di un trasporto su gomma, che occorre

valutare in termini quantitativi, distribuiti per la durata dei lavori, anche ai fini della compatibilità

con i flussi di traffico già esistenti sulla rete e con l’eventuale presenza di ricettori sensibili lungo

l’itinerario previsto.

Così come è probabile che il materiale di scavo sia in esubero o non sia idoneo, è altrettanto

probabile che gli aggregati lapidei necessari per il confezionamento del conglomerato sia

cementizio che bituminoso non possano essere reperiti nel materiale di scavo e quindi debbano

essere presi da idonea cava con problemi di trasporto analoghi a quelli visti per la discarica, che

si sviluppano in direzione opposta (da cava a cantiere e dal cantiere al sito in opera).

L’identificazione delle cave, delle discariche e degli itinerari per raggiungerle, come già detto,

era un problema dell’impresa prima dell’emanazione della procedura di VIA (dicembre 1988),

dopo la quale è diventato un problema del progettista, che richiede una non facile ricerca del

consenso, sia da parte degli enti locali che delle autorità ambientali delegate al rilascio del

parere di compatibilità prima ed al successivo controllo in corso d’opera.

A seconda delle circostanze, il problema può richiedere lo studio di un’area anche abbastanza

ampia ed il relativo monitoraggio ambientale ante operam. Se si pensa che una dumper o un

camion da cantiere porta circa 20 mc di materiale e che la sezione di una galleria stradale o

ferroviaria può andare dai 50 ai 100 mq, si comprende facilmente la quantità di viaggi che può

essere prodotta da un cantiere. Ovviamente l’incidenza di questo flusso di traffico potrà essere

marginale rispetto ai flussi correnti se si tratta di grande viabilità di tipo autostradale, o, al

contrario, prevalente se si svolge su viabilità minore. In questo secondo caso è più probabile la

presenza di ricettori sensibili agli inquinamenti sia atmosferico che acustico/vibrazionale, che

quindi devono essere valutati attentamente. La procedura prevede il rilievo ante operam e la

simulazione, tramite modello, in corso d’opera, che verrà controllata durante i lavori da apposito

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monitoraggio. Se si dovessero superare i limiti di accettabilità previsti dalla legge, allora occorre

prevedere e progettare gli appositi interventi di mitigazione.

2. BIS DECRETO ATTUALMENTE VIGENTE SULL’UTILIZZAZIONE DELLE TERRE E

ROCCE DA SCAVO (n. 161 del 10 agosto 2012)

Come già detto, qualsiasi progetto di una strada o di una ferrovia non può non prevedere lo

“scavo” di una certa quantità di materiale. Con il termine “scavo” si intende coprire una serie di

attività che possono essere presenti nei cantieri stradali e ferroviari:

- Scavo di sbancamento

- Scavo a sezione obbligata

- Scavo di fondazione

- Scavo in cava

- Scavo in galleria

- Perforazione, trivellazioni, sondaggi, palificazioni, ecc.

Il materiale di scavo viene generato in un “sito di produzione” e spostato in un “sito di

destinazione” dove viene messo a dimora. Può capitare che si ritenga opportuno la creazione di

un “sito di deposito intermedio” dove allocare provvisoriamente il materiale (o parte di esso) in

attesa del trasferimento. Questa necessità è dovuta alla differenza di produttività fra

l’attrezzatura di scavo e quella di trasporto. Il Progettista deve redigere il “Piano di utilizzo” del

materiale di scavo previsto in progetto nell’ambito del Progetto Definitivo che viene sottoposto

alla procedura di VIA.

Il Piano di utilizzo deve essere preceduto dalla “caratterizzazione ambientale” del materiale di

scavo, mirato ad accertare la sussistenza dei requisiti di qualità ambientale del suddetto

materiale di scavo.

Per progetti di strade e ferrovie, il campionamento mediante scavi esplorativi e/o sondaggi deve

avvenire almeno ogni 500m lineari di tracciato (2000m in caso di Progettazione Preliminare). In

galleria è sufficiente una interdistanza di 1000m per un Progetto Definitivo e di 5000m per un

Progetto Preliminare, stando attenti che venga campionata ogni singola variazione significativa

di litologia. Sia nel caso di scavi esplorativi che di sondaggi, la campionatura deve consentire la

caratterizzazione dal piano campagna al fondo scavo. In caso di presenza di falda occorre

campionare anche l’acqua sotterranea. I risultati delle analisi sui campioni dovranno essere

confrontati con le “Concentrazioni Soglia di Contaminazione” (CSC) tabellate nel Decreto

legislativo n. 152 del 2006 e s.m.i..

Solo nel caso in cui tale confronto dia esito positivo, il materiale di scavo può essere utilizzato

come “sottoprodotto”, altrimenti deve essere trattato come “rifiuto”.

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Il Piano di utilizzo non solo dà conto di tutte le indagini caratterizzanti svolte, ma individua

esattamente il percorso di ogni mc di scavo previsto in progetto.

3. CAVE E DISCARICHE

Qualsiasi progetto di una infrastruttura stradale o ferroviaria comporta sempre lo scavo di una

quantità di materiale che deve essere definita nel computo metrico. Lo scavo può essere

necessario sia per la sagomatura del corpo stradale o ferroviario sia per l’impianto delle

fondazioni di ogni opera d’arte ma anche per l’approvvigionamento dei materiali idonei sia alla

realizzazione del rilevato che alla confezione del calcestruzzo e del conglomerato bituminoso.

Come si può capire, nonostante si tratti sempre di “scavo”, a seconda della tipologia di

materiale e della sua destinazione di uso, gli oneri sono ben diversi. Ne consegue quindi che

per il progettista non sia affatto sufficiente individuare lo scavo e la relativa quantità, ma debba

caratterizzare il materiale in base alla quantità ed individuare siti e percorsi sia per la cavazione

che per la discarica.

Il primo volume da computare è lo scavo di sbancamento per la sagomatura della sede stradale

o ferroviaria, la cui quantità deriva direttamente dal calcolo dei movimenti di terra e quindi dalle

sezioni correnti del progetto. La prima separazione più immediata è quella fra terra e roccia, in

quanto prevedono una diversa modalità di scavo e quindi un costo diverso. La seconda

ripartizione riguarda l’idoneità del materiale scavato al riutilizzo nell’ambito del progetto stesso.

Al riguardo occorrono due verifiche: una relativa alla caratterizzazione del materiale ed un’altra

relativa alle possibilità di impiego (rilevato e aggregati lapidei per conglomerato cementizio e

bituminoso). Qualsiasi sia il possibile impiego occorre che ci sia rispondenza ai requisiti del

Capitolato e che ci sia la domanda.

Il progetto ideale (sia dal punto di vista ambientale che da quello economico) sarebbe quello in

cui ci fosse una perfetta compensazione fra scavo e riutilizzo dello stesso materiale nel progetto

per cui non si dovrebbe ricorrere né a cavazione né a discarica. Ma è ovvio che affinché ciò

avvenga si debbono sviluppare una serie di condizioni che è quasi impossibile avere

contemporaneamente. Innanzitutto occorre che il materiale scavato sia idoneo al reimpiego in

rilevato se di natura terrosa o nei conglomerati di natura lapidea. Poi occorre che ci sia

equilibrio fra i volumi da scavare e quelli da riutilizzare. Infine sarebbe opportuno che ci fosse

contiguità fra il sito di scavo e quello di impiego in modo da evitare trasporti onerosi ed

inquinanti. Tutto ciò implica uno studio del tracciato, sia del punto di vista planimetrico che

altimetrico, che tenga conto di tale esigenza. Quando le strade si costruivano a mano (prima

della meccanizzazione dei cantieri) si trattava di un’esigenza imperativa, che addirittura cercava

di compensare nella stessa sezione spostando il materiale da scavo a riporto soltanto

trasversalmente. La realtà di oggi è ben diversa. Innanzitutto è probabile che il materiale terroso

proveniente dallo scavo non sia idoneo per il rilevato. Nel caso di idoneità è anche possibile che

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ci sia esubero del volume di scavo rispetto a quello di rilevato. Questo in parte può essere

addebitabile alla sempre maggiore presenza di tratti in galleria sia nei progetti stradali che in

quelli ferroviari. Soprattutto per quest’ultimi le velocità di progetto costringono a tracciati sempre

più rigidi, che quindi hanno più probabilità, in un territorio accidentato, di dover andare in

galleria. Il caso limite è costituito dalle tratte di valico che si sviluppano totalmente in galleria.

Ogniqualvolta quindi si presenti esubero di materiale scavato, si pone il problema di dove

andarlo a riporre. Un’opzione, che in genere trova consenso, è quella di riempire per risanare e

riqualificare ex cave non operative nella misura in cui si trovino ad una distanza accettabile e

siano raggiungibili dalla viabilità. Salvo casi eccezionali di possibile utilizzo di linee ferroviarie

e/o di mezzi navali, nella quasi totalità dei casi si tratta di un trasporto su gomma, che occorre

valutare in termini quantitativi, distribuiti per la durata dei lavori, anche ai fini della compatibilità

con i flussi di traffico già esistenti sulla rete e con l’eventuale presenza di ricettori sensibili lungo

l’itinerario previsto.

Così come è probabile che il materiale di scavo sia in esubero o non sia idoneo, è altrettanto

probabile che gli aggregati lapidei necessari per il confezionamento del conglomerato sia

cementizio che bituminoso non possano essere reperiti nel materiale di scavo e quindi debbano

essere presi da idonea cava con problemi di trasporto analoghi a quelli visti per la discarica, che

si sviluppano in direzione opposta (da cava a cantiere e dal cantiere al sito in opera).

L’identificazione delle cave, delle discariche e degli itinerari per raggiungerle, come già detto,

era un problema dell’impresa prima dell’emanazione della procedura di VIA (dicembre 1988),

dopo la quale è diventato un problema del progettista, che richiede una non facile ricerca del

consenso, sia da parte degli enti locali che delle autorità ambientali delegate al rilascio del

parere di compatibilità prima ed al successivo controllo in corso d’opera.

A seconda delle circostanze, il problema può richiedere lo studio di un’area anche abbastanza

ampia ed il relativo monitoraggio ambientale ante operam. Se si pensa che una dumper o un

camion da cantiere porta circa 20 mc di materiale e che la sezione di una galleria stradale o

ferroviaria può andare dai 50 ai 100 mq, si comprende facilmente la quantità di viaggi che può

essere prodotta da un cantiere. Ovviamente l’incidenza di questo flusso di traffico potrà essere

marginale rispetto ai flussi correnti se si tratta di grande viabilità di tipo autostradale, o, al

contrario, prevalente se si svolge su viabilità minore. In questo secondo caso è più probabile la

presenza di ricettori sensibili agli inquinamenti sia atmosferico che acustico/vibrazionale, che

quindi devono essere valutati attentamente. La procedura prevede il rilievo ante operam e la

simulazione, tramite modello, in corso d’opera, che verrà controllata durante i lavori da apposito

monitoraggio. Se si dovessero superare i limiti di accettabilità previsti dalla legge, allora occorre

prevedere e progettare gli appositi interventi di mitigazione.

Per tutti gli scavi previsti in progetto (di sbancamento,di fondazione,ecc) e'

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obbligatorio applicare il Decreto n.161 del 10 agosto 2012, che prevede dapprima la "Caratterizzazione ambientale" del suddetto materiale e conseguentemente la redazione del "Piano di utilizzo". La caratterizzazione ambientale del materiale proveniente dagli scavi deve avvenire durante la redazione del Progetto Definitivo e del SIA, sottoponendo ad analisi chimico/fisica campioni del terreno prelevati almeno ogni 500 m lineari di tracciato a quota del piano di campagna,del fondo dello scavo previsto e ad una quota intermedia. In galleria l'interdistanza può essere portata a 1000 m. I risultati delle analisi sui campioni devono essere confrontati con le " Concentrazioni Soglia di Contaminazione"(CSC). Nel caso di superamento di tale soglia, il materiale relativo diventa automaticamente "RIFUTO" e quindi non può essere utilizzato per alcun motivo e portato a discarica autorizzata. Nel caso si renda necessaria la previsione di un deposito temporaneo nelle immediate vicinanze del sito di scavo, occorre prendere le stesse precauzioni che contraddistinguono la discarica autorizzata (impermeabilizzazione del piano di appoggio del cumulo e protezione dagli agenti atmosferici). Se invece la soglia di contaminazione non viene superata,allora il materiale di scavo viene definito " SOTTOPRODOTTO" e può quindi essere utilizzato nell'ambito del Progetto in funzione del Piano di utilizzo,che definisce : - l'ubicazione dei siti di produzione dello scavo ed il relativo volume; - l'ubicazione dei siti di utilizzo; - l'ubicazione di eventuali siti di deposito intermedio di attesa; - l'individuazione dei percorsi previsti e delle modalità di trasporto dai siti di produzione a quelli di utilizzo e/o deposito. Ai fini dell'utilizzo sono necessarie due ulteriori condizioni : - la caratterizzazione geotecnica del sottoprodotto; - la determinazione delle caratteristiche e delle quantità necessarie in ogni sito di riporto previsto in progetto. In sintesi lo schema operativo e' il seguente : RIFIUTO > DISCARICA AUTORIZZATA SCAVO { MATERIALE LAPIDEO SOTTOPRODOTTO { GRANULARE > 200

TERRA > CLASSIFICA AASHO { FINE < 200 (0,074mm) CLASSIFICA. AASHO A1 ghiaie < 15% passante al 200 A3 sabbie < 10% passante al 200. ( MATERIALI IDONEI ) A2 < 35% passante al 200 A24 sabbie limose A25 sabbie limose ---------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------

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A26 sabbie argillose A27 sabbie argillose A4/A5 limi > 35% passante al 200 (MATERIALI NON IDONEI) A6/A7 argille > 35% passante al 200

Se la somma di A1,A3,A24,A25 e' maggiore della somma degli R, allora la parte idonea del

sottoprodotto deve essere utilizzata nel Progetto, mentre l' A26,A27,A4,A5,A6,A7, oltre alla

parte idonea eccedente, devono essere collocati in siti idonei individuati nel SIA ed

approvati in sede di VIA. Se invece le terre di scavo idonee sono inferiori a quelle

necessarie per R, allora vanno individuate sempre nel SIA le possibili cave di prestito ed

approvate in sede di VIA.

Per la realizzazione dei vari R è necessario procedere a strati di altezza massima di 30 cm,

ognuno dei quali deve essere opportunamente "costipato", affinché il rilevato, una volta

terminato, possa rimanere "stabile". Il costipamento è un'azione meccanica mirata alla

diminuzione/scomparsa del volume di vuoti della terra. Prima di iniziare la lavorazione in

situ, e' necessario trovare in laboratorio l'umidità ottima per raggiungere la massima densità

possibile. Il diagramma della prova è rappresentato da una curva a campana il cui vertice

individua l'umidità necessaria per raggiungere la max densità. Il che dimostra che il velo

idrico deve servire solo a lubrificare i singoli granuli senza entrare in contropressione.

Da tutto quanto detto, ne consegue come siano differenti le logiche che sovrintendono alla

produzione dello scavo da quelle relative alla formazione del rilevato, per cui diventa

essenziale il coordinamento ai fini dell'ottimizzazione del risultato tecnico/economico.

In questo ambito risulta fondamentale un'oculata scelta dei mezzi da impiegare.

Il primo e più diffuso mezzo per lo scavo di sbancamento è il cosiddetto APRIPISTA

(BULLDOZER) che, dotato di notevole potenza riesce a rompere e spostare il terreno

esistente attraverso la lama frontale. Se la superficie fosse particolarmente dura, allora si fa

precedere il RIPPER che e' dotato posteriormente di uno o più denti in grado di strappare il

terreno (tipo aratro). Man mano che si formano i cumuli, interviene la PALA meccanica che

provvede a sollevare la terra attraverso un cucchiaio per caricarla sul mezzo di trasporto

giudicato più idoneo in funzione del tipo di itinerario da seguire (AUTOCARRO o DUMPER).

La pala può anche essere usata direttamente per lo scavo in quelle situazioni in cui il

bulldozer avrebbe difficoltà ( tipo scarpate e simili).

Al ciclo classico di scavo come evidenziato, si può sostituire, se le distanze sono limitate

(<2km) un mezzo tipico dei lavori stradali : lo SCRAPER che accomuna le funzioni di scavo,

trasporto e deposito nello stesso mezzo (ovviamente in quantità ridotte).

Dopo la stesa degli strati di R si procede al costipamento con il COSTIPATORE a rulli

dentati e/o lisci.

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Nella progettazione di ponti e viadotti, la soluzione strutturale può dipendere anche dalle

modalità con cui è possibile organizzare il cantiere e dalle attrezzature che ogni impresa

può avere, direttamente o indirettamente, a disposizione.

Questo spiega perché questa voce sia una delle più frequenti nell’ambito delle migliorie

proposte dalle imprese che partecipano alle gare. Infatti senza incidere minimamente sul

tracciato, sugli espropri, sugli aspetti urbanistici e funzionali, si esaltano le capacità

dell’impresa in ambito esclusivamente tecnologico.

Come già detto il parametro dirimente è la luce dell’opera, intesa come distanza fra due

appoggi.

Le opere d’arte cosiddette “minori” sono in genere i tombini, i sottopassi ed i cavalcavia. I

primi hanno una funzione idraulica per consentire al flusso idrico di attraversare il corpo

stradale senza recare alcun danno. E’ evidente quindi che debbano essere collocati nella

posizione giusta (in cui l’andamento naturale del terreno fa convergere l’acqua dal bacino

sotteso. Qualsiasi tracciato stradale o ferroviario infatti taglia sempre il bacino idrico

attraversato in una parte a monte e a valle ed il tombino è appunto la struttura che ripristina

la continuità idraulica fra monte e valle. Le dimensioni del tombino sono regolate quindi

dalla portata idraulica prevista. Normalmente i più piccoli possono avere una forma circolare

o ovoidale, mentre all’aumentare delle dimensioni si preferisce la forma quadrata o

rettangolare. L’impresa può scegliere la soluzione prefabbricata o quella realizzata in opera

(o anche una mista).

Quando l’opera di attraversamento del corpo stradale non serve più soltanto all’acqua ma

anche al passaggio di veicoli e pedoni, allora si passa dal tombino al sottopasso. Anche per

quest’ultimo l’impresa si pone il problema della scelta fra getto in opera e prefabbricazione,

la quale può cominciare a convenire se la luce dell’impalcato comincia ad avere una

dimensione superiore a qualche metro. Nei sottopassi carrabili si deve tener presente il

problema dell’eventuale traffico esistente sulla strada e/o ferrovia da attraversare. Se si

tratta di una strada si può anche ipotizzare una deviazione provvisoria, mentre se si tratta di

una ferrovia non è ipotizzabile alcuna deviazione, salvo casi veramente eccezionali.

Nel novero delle opere d’arte minori rientrano anche i cavalcavia, che propongono una

tematica speculare a quella dei sottopassi. In questo caso è la strada (o raramente la

ferrovia) attraversata, che scavalca il tracciato in progetto. Ovviamente se quest’ultima ha

una dimensione trasversale importante rispetto ad una viabilità minore attraversata, è

evidente che convenga deviare altimetricamente quest’ultima, per problemi sia di minor

costo che di funzionalità (minor velocità di progetto). I moderni cavalcavia normalmente

scavalcano la strada in progetto con un’unica luce, verificando anche che non pongano

limiti alla distanza di visibilità sottostante.

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In generale quindi la tematica delle opere d’arte minori riguarda gli attraversamenti idrici,

stradali, ferroviari o di qualsiasi altra infrastruttura presente sul territorio (acquedotti,

metanodotti, ecc.). Proprio perché minori e diffusi lungo il tracciato, difficilmente giustificano

un cantiere ad hoc.

Diversamente per le opere d’arte maggiori che comprendono ponti e viadotti. I primi sono in

genere più impegnativi in quanto comportano l’attraversamento di un fiume, la cui portata

idrica determina la luce, coniugata con la possibilità eventuale di posizionare pile in alveo.

Al riguardo sono state escogitate diverse soluzioni, che hanno sempre in comune la

cantierizzazione sulle sponde del fiume. Oggi una delle scelte più diffuse è quella del

cosiddetto ponte “strallato”, in cui l’impalcato è sorretto da “stralli” che partono o da un unico

pilone/antenna su ogni sponda o da due piloni/antenne posti su entrambe le sponde.

Molto più articolata è la gamma dei viadotti, termine con cui si configurano strutture

progettate non per attraversare un fiume ma per adeguare il tracciato all’andamento

naturale del terreno. In questo ambito la soluzione più diffusa è quella delle travi appoggiate

su pile che si ripetono ad intervalli regolari. La ricerca della luce ottimale è quella di minor

costo fra la lunghezza delle travi ed il conseguente numero di fondazioni per le pile. Ma

oltre alla luce, determinante può essere la modalità di organizzazione del cantiere. Data per

scontata la prefabbricazione delle travi, si deve scegliere la modalità di varo in verticale o in

orizzontale. Nel primo caso il varo avviene con gru dal piano campagna sottostante, nel

secondo caso con “carroponte” a partire dalla sommità di una delle due spalle. Ovviamente

la scelta è possibile soltanto se l’altezza delle pile non supera il campo operativo delle gru,

altrimenti non c’è alternativa al varo orizzontale. Conseguenziale risulta la posizione del

cantiere di prefabbricazione delle travi o di assemblaggio delle stesse se prodotte altrove.

4. CAVE E DISCARICHE

Qualsiasi progetto di una infrastruttura stradale o ferroviaria comporta sempre lo scavo di una

quantità di materiale che deve essere definita nel computo metrico. Lo scavo può essere

necessario sia per la sagomatura del corpo stradale o ferroviario sia per l’impianto delle

fondazioni di ogni opera d’arte ma anche per l’approvvigionamento dei materiali idonei sia alla

realizzazione del rilevato che alla confezione del calcestruzzo e del conglomerato bituminoso.

Come si può capire, nonostante si tratti sempre di “scavo”, a seconda della tipologia di

materiale e della sua destinazione di uso, gli oneri sono ben diversi. Ne consegue quindi che

per il progettista non sia affatto sufficiente individuare lo scavo e la relativa quantità, ma debba

caratterizzare il materiale in base alla quantità ed individuare siti e percorsi sia per la cavazione

che per la discarica.

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Il primo volume da computare è lo scavo di sbancamento per la sagomatura della sede stradale

o ferroviaria, la cui quantità deriva direttamente dal calcolo dei movimenti di terra e quindi dalle

sezioni correnti del progetto. La prima separazione più immediata è quella fra terra e roccia, in

quanto prevedono una diversa modalità di scavo e quindi un costo diverso. La seconda

ripartizione riguarda l’idoneità del materiale scavato al riutilizzo nell’ambito del progetto stesso.

Al riguardo occorrono due verifiche: una relativa alla caratterizzazione del materiale ed un’altra

relativa alle possibilità di impiego (rilevato e aggregati lapidei per conglomerato cementizio e

bituminoso). Qualsiasi sia il possibile impiego occorre che ci sia rispondenza ai requisiti del

Capitolato e che ci sia la domanda.

Il progetto ideale (sia dal punto di vista ambientale che da quello economico) sarebbe quello in

cui ci fosse una perfetta compensazione fra scavo e riutilizzo dello stesso materiale nel progetto

per cui non si dovrebbe ricorrere né a cavazione né a discarica. Ma è ovvio che affinché ciò

avvenga si debbono sviluppare una serie di condizioni che è quasi impossibile avere

contemporaneamente. Innanzitutto occorre che il materiale scavato sia idoneo al reimpiego in

rilevato se di natura terrosa o nei conglomerati di natura lapidea. Poi occorre che ci sia

equilibrio fra i volumi da scavare e quelli da riutilizzare. Infine sarebbe opportuno che ci fosse

contiguità fra il sito di scavo e quello di impiego in modo da evitare trasporti onerosi ed

inquinanti. Tutto ciò implica uno studio del tracciato, sia del punto di vista planimetrico che

altimetrico, che tenga conto di tale esigenza. Quando le strade si costruivano a mano (prima

della meccanizzazione dei cantieri) si trattava di un’esigenza imperativa, che addirittura cercava

di compensare nella stessa sezione spostando il materiale da scavo a riporto soltanto

trasversalmente. La realtà di oggi è ben diversa. Innanzitutto è probabile che il materiale terroso

proveniente dallo scavo non sia idoneo per il rilevato. Nel caso di idoneità è anche possibile che

ci sia esubero del volume di scavo rispetto a quello di rilevato. Questo in parte può essere

addebitabile alla sempre maggiore presenza di tratti in galleria sia nei progetti stradali che in

quelli ferroviari. Soprattutto per quest’ultimi le velocità di progetto costringono a tracciati sempre

più rigidi, che quindi hanno più probabilità, in un territorio accidentato, di dover andare in

galleria. Il caso limite è costituito dalle tratte di valico che si sviluppano totalmente in galleria.

Ogniqualvolta quindi si presenti esubero di materiale scavato, si pone il problema di dove

andarlo a riporre. Un’opzione, che in genere trova consenso, è quella di riempire per risanare e

riqualificare ex cave non operative nella misura in cui si trovino ad una distanza accettabile e

siano raggiungibili dalla viabilità. Salvo casi eccezionali di possibile utilizzo di linee ferroviarie

e/o di mezzi navali, nella quasi totalità dei casi si tratta di un trasporto su gomma, che occorre

valutare in termini quantitativi, distribuiti per la durata dei lavori, anche ai fini della compatibilità

con i flussi di traffico già esistenti sulla rete e con l’eventuale presenza di ricettori sensibili lungo

l’itinerario previsto.

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Così come è probabile che il materiale di scavo sia in esubero o non sia idoneo, è altrettanto

probabile che gli aggregati lapidei necessari per il confezionamento del conglomerato sia

cementizio che bituminoso non possano essere reperiti nel materiale di scavo e quindi debbano

essere presi da idonea cava con problemi di trasporto analoghi a quelli visti per la discarica, che

si sviluppano in direzione opposta (da cava a cantiere e dal cantiere al sito in opera).

L’identificazione delle cave, delle discariche e degli itinerari per raggiungerle, come già detto,

era un problema dell’impresa prima dell’emanazione della procedura di VIA (dicembre 1988),

dopo la quale è diventato un problema del progettista, che richiede una non facile ricerca del

consenso, sia da parte degli enti locali che delle autorità ambientali delegate al rilascio del

parere di compatibilità prima ed al successivo controllo in corso d’opera.

A seconda delle circostanze, il problema può richiedere lo studio di un’area anche abbastanza

ampia ed il relativo monitoraggio ambientale ante operam. Se si pensa che una dumper o un

camion da cantiere porta circa 20 mc di materiale e che la sezione di una galleria stradale o

ferroviaria può andare dai 50 ai 100 mq, si comprende facilmente la quantità di viaggi che può

essere prodotta da un cantiere. Ovviamente l’incidenza di questo flusso di traffico potrà essere

marginale rispetto ai flussi correnti se si tratta di grande viabilità di tipo autostradale, o, al

contrario, prevalente se si svolge su viabilità minore. In questo secondo caso è più probabile la

presenza di ricettori sensibili agli inquinamenti sia atmosferico che acustico/vibrazionale, che

quindi devono essere valutati attentamente. La procedura prevede il rilievo ante operam e la

simulazione, tramite modello, in corso d’opera, che verrà controllata durante i lavori da apposito

monitoraggio. Se si dovessero superare i limiti di accettabilità previsti dalla legge, allora occorre

prevedere e progettare gli appositi interventi di mitigazione.

5. OPERE TEMPORANEE

In questa categoria rientrano tutte quelle opere, che è necessario realizzare per il periodo

strettamente necessario alla esecuzione dell’opera principale e che quindi si possono e si

devono demolire una volta completati i lavori. Il caso classico è quello della deviazione di un

corso d’acqua per la realizzazione di un’opera di attraversamento. Ma anche la centinatura di

un’importante opera d’arte, può costituire un manufatto altrettanto impegnativo sia nella

realizzazione che nella successiva demolizione. Allo stesso modo temporanea è l’installazione

del cantiere, di cui si è già detto per l’espletamento di tutti i servizi necessari (uffici, alloggi,

officine, impianti di confezionamento dei conglomerati cementizi e bituminosi, ricovero dei mezzi

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d’opera, stoccaggio dei materiali e dei manufatti prefabbricati). Si tratta di aree di un certo

rilievo, che a fine lavori devono essere ripristinate nello stato quo ante. Gli oneri del ripristino

sono spesso sottovalutati sia dal progettista che dalle stesse imprese con la conseguenza della

difficoltà di realizzazione a fine lavori. In generale tutte le attività previste in questo paragrafo

costituiscono un “costo” per l’impresa, che a sua volta non viene ribaltato sulla Amministrazione

Committente, proprio perché “opere temporanee”. È quindi importante che vengano valutate

attentamente sia in fase di progettazione che in quella di offerta dell’impresa, per poterne

calcolare l’incidenza sulle lavorazioni che invece vengono computate e compensate dalla

Committenza. Si tratta di un aspetto molto delicato, che può avere ricadute sulla qualità dei

lavori. Mentre infatti sono chiari i rapporti fra impresa e committenza per tutto ciò che viene

eseguito e quindi compensato “a misura”, non si può dire altrettanto per tutto ciò che occorre

fare pur senza l’inserimento nella contabilità dei lavori. Tutto ciò riguarda l’effettiva

organizzazione dell’impresa, che il progettista può solo ipotizzare prima dell’appalto, mettendosi

nelle condizioni medie di mercato, ma che ogni impresa risolve in base alle proprie attrezzature

e caratteristiche organizzative. Lo stesso manufatto finale, che è quello pensato dal progettista

prima dell’appalto, può essere realizzato in modi diversi, producendo una redditività diversa,

che è quella che alimenta la concorrenza fra le imprese.

In definitiva si può dire che sotto la dizione “opere temporanee” si possa includere un’ampia

gamma di interventi, alcuni dei quali già previsti dal progettista in fase di redazione del progetto

per l’appalto, altri funzionali alle modalità realizzative scelte dall’impresa. Al contrario delle

opere permanenti, quelle temporanee hanno l’onere della demolizione e del ripristino dello stato

quo ante.

6. INTERVENTI DI COMPENSAZIONE E MITIGAZIONE AMBIENTALE

Sia per le opere stradali che per quelle ferroviarie le maggiori preoccupazioni dal punto di vista

ambientale derivano dalla fase di realizzazione piuttosto che da quella di esercizio. Quando si

arriva all’apertura al traffico infatti l’unica categoria di impatto su cui si deve intervenire è quella

del rumore (che include anche le vibrazioni). Ben diversa invece la situazione quando sono

operativi i cantieri: si può dire che in quella fase nessuna categoria di impatto possa essere

esclusa. La realizzazione di qualsiasi manufatto comporta inevitabilmente la variazione

dell’assetto idrogeomorfologico, dell’habitat naturale, degli ecosistemi, nonché inquinamento

atmosferico, acustico ed idrico.

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Il termine “comporta inevitabilmente” deve essere attentamente interpretato non come una sorta

di franchigia, quanto piuttosto come una manifestazione residuale di tutti i tentativi fatti durante

la progettazione per minimizzare gli effetti del cantiere. Solo così la collettività può accettare

che, dopo tutti gli sforzi fatti per rendere il progetto il migliore possibile, si ponga mano agli

interventi di compensazione e mitigazione ambientale. In questa ottica è evidente che si debba

trattare di interventi “fuori opera”, che vanno concordati con le Amministrazioni competenti nei

limiti di spesa posti dalle leggi vigenti. In passato sotto questa voce sono stati allocati interventi

mirati soprattutto ad una compensazione di tipo “sociale” nei riguardi degli Enti locali attraversati

dalla nuova opera, facendosi carico delle svariate esigenze minimali da questi espresse. Oggi

la tendenza è quella di riservare i limitati finanziamenti, concessi dalla legge, ad interventi

prioritariamente ambientali. Se è vero che il “consumo” di suolo è insito in qualsiasi cantiere

stradale o ferroviario, allora è evidente che la “naturalizzazione” di aree antropizzate (ex cave o

simili) nelle vicinanze del cantiere, può costituire una compensazione esemplare.

Analogamente può dirsi per il “ripascimento costiero”, che evidentemente non ha nulla a che

vedere con un cantiere stradale o ferroviario, ma può rivelarsi un’ottima compensazione nel

caso in cui il materiale di scavo in eccedenza risulti idoneo a quell’impiego. Altrettanto

compensativa può considerarsi la realizzazione di aree “umide”, in prossimità di corsi d’acqua

da attraversare, per favorire il ricovero dell’avifauna. La casistica può essere molto ampia e

dipende da caso a caso. In questa sede si vuole soltanto evidenziare come oggi

l’autorizzazione ad aprire un cantiere, che è già stato progettato nel miglior modo possibile,

dipenda anche da questi interventi.

Diversa invece è la tematica della “mitigazione”. Mentre infatti la “compensazione” si rivolge ad

interventi fuori opera, che in teoria nulla avrebbero a che vedere con una strada o ferrovia, la

“mitigazione” fa parte del progetto dell’opera e mira a rendere il progetto ancora più accettabile

dal punto di vista ambientale, di quanto non sia stato possibile con il progetto stesso. L’esempio

classico di un intervento di mitigazione ambientale è la barriera antirumore. E’ evidente che il

progettista in presenza di ricettori sensibili abbia già cercato di allontanare quanto più possibile

il tracciato stradale o ferroviario. Purtroppo lo spazio è quello che è, così come i vincoli sul

territorio, per cui non sempre è possibile risolvere il problema dell’inquinamento acustico con la

distanza. Dal momento che la protezione dei ricettori sensibili è un obbligo di legge, allora al

progettista non resta che progettare un’opera di mitigazione, che si sovrappone al corpo

stradale o ferroviario, per impedire che l’impatto acustico sul ricettore superi i limiti di legge. Un

altro esempio calzante è la vasca di depurazione a valle del sistema di raccolta delle acque di

piattaforma prima che queste vengano versate nel reticolo idrico naturale. Anche in questo caso

c’è un obbligo di legge per cui non è ammissibile che qualsiasi sversamento accidentale da un

veicolo che trasporti sostanze inquinanti e/o tossiche, possa ripercuotersi nel corpo idrico più

immediato.

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Si tratta di esemplificazioni che dovrebbero da un lato rendere chiara la differenza fra

“compensazione” e “mitigazione” e dall’altro sensibilizzare il progettista alla necessità di andare

“oltre il progetto” nel senso stretto del termine.

7. CANTIERI SOTTO TRAFFICO

In un Paese in cui la rete infrastrutturale è ormai abbastanza consolidata, diventa sempre più

frequente l’appalto di lavori di riqualificazione e/o ampliamento di tratte già esistenti e quindi

aperte al traffico. Si tratta di una problematica molto attuale sia in campo stradale che

ferroviario. Gli interventi di riqualificazione possono riguardare diversi aspetti di una

infrastruttura. Se per esempio il tracciato esistente presenta elementi che non consentano in

sicurezza adeguate velocità di progetto quali raggi di curvatura planimetrici troppo ridotti o

livellette troppo accentuate o raccordi altimetrici non idonei, allora l’intervento di riqualificazione

richiede necessariamente la deviazione del traffico su una sede provvisoria o su un itinerario

alternativo in quanto i lavori riguardano l’intero corpo stradale o ferroviario. Se invece si tratta

soltanto di adeguare la capacità a parità di tracciato, come nel caso di aggiunta di una corsia o

di raddoppio del binario, allora si può anche pensare di realizzare i lavori in presenza di traffico

(in ogni caso con opportune restrizioni). Il secondo caso è il più frequente ma anche il più

complesso, in quanto è necessario operare in spazi molto ridotti e con norme di sicurezza

particolarmente restrittive, molto simili a quelle che si seguono durante gli interventi di

manutenzione.

L’ampliamento di una sede stradale o ferroviaria implica necessariamente l’allungamento delle

opere d’arte piccole e grandi (tombini, ponticelli, viadotti, cavalcavia, ecc.), che normalmente

sono distribuiti lungo la sede esistente. Può capitare che le suddette opere, se realizzate molti

anni prima, si presentino, al momento dell’ampliamento, in condizioni di degrado o addirittura

che risultino sottodimensionate dal punto di vista idraulico in funzione dei criteri normativi vigenti

al momento. In questi casi non si tratta più di un semplice ampliamento di un’opera già

esistente, ma di una vera e propria riqualificazione con tutte le conseguenze che è facile

immaginare. D’altra parte le opere idrauliche piccole e grandi di una strada o ferrovia, sono

quelle più facilmente soggette a degrado proprio perché destinate a supportare il peso degli

eventi pluviometrici. E’ evidente che in questi casi i condizionamenti sul traffico siano molto più

incisivi di quanto possa essere lavorando fuori sagoma, anche se in adiacenza. I restringimenti

di carreggiata su strada o i rallentamenti in ferrovia diventano molto più invadenti, in quanto si

tratta di riqualificare opere che stanno sotto la carreggiata o il binario esistente e quindi per

forza di cose, se si vuole mantenere il traffico, occorre procedere a sezione parzializzata,

spostando a tappe la sede carrabile.

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Una situazione ancora diversa è quella delle gallerie, il cui ampliamento sotto traffico è stato

sperimentato, ma con tempi e costi non sostenibili. Di conseguenza la pratica più diffusa è

quella di realizzare un nuovo fornice a fianco dell’esistente e spostare il traffico a lavori conclusi

senza di fatto incidere sul traffico in esercizio. Si può quindi dire che le gallerie costituiscano

quasi sempre una variante in affiancamento rispetto a quella esistente e quindi non si possano

considerare in senso stretto “opere sotto traffico”, il che costituisce un indubbio vantaggio.

Differente invece il caso dei viadotti, in cui in genere si riesce a realizzare l’allargamento in

adiacenza, posizionando un giunto longitudinale che colleghi l’impalcato vecchio a quello nuovo

e quindi il traffico può continuare a scorrere sulla sede esistente pur con i necessari

restringimenti. Ovviamente, come già detto per le opere minori, se si dovessero riscontrare

situazioni di degrado tali da consigliare il rifacimento completo, allora varrebbero le stesse

considerazioni svolte per le gallerie (ex novo in affiancamento).

Si ribadisce che, mentre una volta si preferiva scegliere per tutto il tracciato la soluzione in

variante in quanto gli standard plano altimetrici esistenti erano completamente fuori norma,

oggi, vista l’importanza acquisita dal consumo di suolo (che è una risorsa sempre più limitata),

quasi tutte le Amministrazioni preferiscano restare quanto più possibile sul sedime esistente,

anche nel caso di adeguamento a norma del tracciato. E’ questo il caso quasi generalizzato

delle terze corsie autostradali, dove le eventuali misure di correzione del tracciato (aumento di

raggi di curvatura, inserimento di clotoidi) o di micro varianti (per l’affiancamento dei nuovi

fornici nelle gallerie) vengono sviluppate nell’ambito del sedime esistente cui ovviamente si

aggiungono i necessari ampliamenti. E’ facile immaginare come e quanto la carreggiata

stradale debba adeguarsi ai necessari spostamenti per consentire le modifiche previste nel

progetto di riqualificazione, e quali limiti alla circolazione sia necessario introdurre.

8. PIANO DI MONITORAGGIO AMBIENTALE (PMA)

La legge vigente (n. 163 del 12-04-2006) pone l’obbligo al Progettista di redigere nell’ambito del

Progetto Definitivo, anche il Piano di Monitoraggio Ambientale (PMA) che l’impresa dovrà

effettuare prima, durante e dopo i lavori di realizzazione. Si raccomanda al riguardo di

consultare le Linee Guida redatte dalla Commissione VIA del Ministero dell’Ambiente.

In pratica il Monitoraggio Ambientale costituisce il vero strumento di controllo, con il quale sia il

Ministero dell’Ambiente che le Amministrazioni locali possono verificare attraverso i risultati

delle misure di campo quei parametri che caratterizzano le componenti ambientali, che in fase

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di progettazione sono risultate coinvolte dall’opera. Si tratta di una innovazione fortemente

significativa che ha una valenza che va ben al di là dell’opera, in quanto consente una verifica

ambientale cosi dettagliata del territorio coinvolto, che sarebbe stata inimmaginabile senza la

realizzazione dell’opera e quindi indirettamente costituisce una sorta di compensazione

primaria.

L’articolazione temporale in tre fasi: immediatamente prima dell’inizio dei lavori, durante

l’esecuzione e dopo la conclusione dei lavori consente, a parità di postazione di rilevamento,

non solo di conoscere la situazione ante operam, ma di avere un confronto immediato sulle

variazioni imputabili al cantiere.

L’articolazione spaziale invece dipende, per ogni componente ambientale, sia dalle

caratteristiche delle azioni di progetto sia dalla sensibilità del territorio alla ricezione degli impatti

previsti. Ne consegue che la fascia coinvolta possa essere più o meno ampia a seconda di

come si sviluppa il progetto e di come sia articolato il territorio in cui si inserisce.

E’ interessante notare come il MA costituisca una sorta di Direzione Lavori Ambientale, che

consente di intervenire tempestivamente sull’andamento dei lavori, ogni volta che si registri il

superamento di qualche valore di soglia o delle differenze non giustificate rispetto ai valori ante

operam.

Il PMA è stato introdotto dal Decreto Legislativo 163 del 2006, affinché si possa realizzare un

effettivo controllo degli impatti sull'ambiente di una qualsiasi opera, attraverso il rilievo e la

misura di determinati parametri che caratterizzano le Componenti Ambientali. Il PMA è stato

concepito non tanto per verificare la rispondenza degli impatti a quanto previsto nel SIA, quanto

piuttosto per consentire di intervenire tempestivamente ogni qualvolta si registri un

superamento delle soglie di accettabilità. Le motivazioni che possono determinare queste

emergenze sono le più varie. Dall'esecuzione dei lavori in modi e tempi differenti da quanto

previsto in progetto, alla modifica dell'assetto territoriale quale si aveva al momento del

progetto, a eventuali varianti in corso d'opera e così via. Considerato che il ciclo di vita del

progetto è sempre pluriennale, è altamente probabile che le condizioni al contorno possano

cambiare nel tempo. In definitiva il legislatore ha voluto introdurre con il suddetto Decreto una

sorta di Direzione Lavori Ambientale, che articolata nel tempo e nello spazio. Nel tempo in

quanto si estende alle tre fasi di ante opera, in corso d'opera e post operam. Nello spazio in

quanto si estende alla fascia di territorio, che cambia per ogni Componente Ambientale, in

funzione del dominio di impatto, a sua volta funzione della singola azione di progetto e della

tipologia e posizione del ricettore. Dal momento che le infrastrutture di trasporto sono

generalmente strette e lunghe, occorre sin dalla redazione del SIA fare un'opportuna cernita dei

ricettori più significativi per evitare una raccolta dati superflua o ripetitiva.

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9. PIANO DI SICUREZZA E COORDINAMENTO

Ancora oggi il settore delle costruzioni rappresenta uno di quelli a maggior rischio di infortuni

per gli addetti ai lavori. Per questo motivo il legislatore ha imposto fin dal 1990 con la legge n.55

la redazione del Piano di sicurezza e coordinamento di tutte le unità operanti in un cantiere.

La tipologia dei rischi, che deve affrontare un Piano di Sicurezza, può essere articolata in

quattro gruppi:

- utilizzo delle attrezzature di cantiere;

- uso di sostanze e materiali potenzialmente nocivi;

- ambiente di lavoro;

- particolari tecnologie previste.

Il rischio viene normalmente definito come il prodotto delle probabilità che si verifichi un evento

dannoso per l’entità del danno associato.

Per ridurre il rischio si può agire sia sul primo fattore (probabilità di accadimento), per mezzo di

opportune misure preventive, sia sul secondo fattore (gravità del danno), per mezzo di misure

protettive. E’ lo stesso principio della sicurezza attiva e passiva. La prima tende ad eliminare o

contenere le cause del sinistro, la seconda mira a contenere gli effetti del sinistro.

Ne consegue che il primo strumento di salvaguardia della sicurezza di un cantiere sia

l’organizzazione dei lavori. E’ evidente che la sovrapposizione temporale e spaziale di

lavorazioni diverse, possibilmente affidate ad unità distinte, costituisca uno dei maggiori fattori

di rischio. Non a caso si chiama Piano di sicurezza e “coordinamento” e la pianificazione delle

varie fasi lavorative costituisce il fulcro del documento.

Le schede di analisi dei rischi possibili per ogni tipo di lavorazione, incluse le misure di

prevenzione e protezione, sono ormai di uso comune.

10. PIANO DI MANUTENZIONE

La manutenzione delle infrastrutture sia stradali che ferroviarie è un concetto che si è andato

evolvendo nel corso degli anni soprattutto in funzione delle caratteristiche dell’ente gestore e

delle conseguenti disponibilità finanziarie. In questo contesto si evidenzia una differenza

sostanziale fra le infrastrutture a pedaggio o a tariffa e quelle libere. E’ evidente infatti che il

flusso finanziario delle prime non possa avere paragoni con quello delle altre. Tutto questo si

ripercuote sulle strategie di manutenzione ma anche su quelle di primo impianto. D’altra parte

sia le strade che le ferrovie sono soggette a standard di sicurezza ineludibili, per cui non può

essere ammissibile una situazione di degrado che metta a rischio la circolazione. Allo stesso

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tempo non è accettabile che prevalga l’analisi finanziaria dell’ente gestore rispetto a quella

economica degli utenti e della collettività. Se infatti potrebbe sembrare interessante la scelta

strategica di una sorta di manutenzione permanente per mantenere a livello di efficienza

l’infrastruttura con costi spalmati nel tempo, non si può non considerare il peso dell’inefficienza

(ritardi e rallentamenti) cui costringono i cantieri di manutenzione.

Logica conseguenza di quanto si è espresso è che il “Piano di manutenzione” sia in effetti già

condizionato al momento delle scelte progettuali, che non possono più basarsi sul concetto di

“vita utile” ma piuttosto considerare un processo di ottimizzazione orientato a mantenere il

livello di servizio costantemente al di sopra di una soglia prestabilita. Ne consegue un’evidente

interazione fra progetto e manutenzione, che potrebbe portare in teoria ad una vita utile

“infinita”. Ma per applicare un concetto di questo genere è evidente che l’ente gestore debba

avere conoscenza dei flussi finanziari prevedibili su un arco temporale molto ampio. Cosa

possibile, con qualche margine di approssimazione, nel caso di pedaggio o tariffa, ma non

altrettanto disponibile negli altri casi in cui l’Amministrazione competente può fare affidamento

solo sul budget assegnato nell’anno finanziario di riferimento. Questa è obiettivamente una

delle maggiori difficoltà per la redazione di un Piano di manutenzione che non può basarsi su

un flusso di cassa certo o probabile.

Oggi sono disponibili diversi modelli di deterioramento soprattutto per le parti maggiormente

soggette ad usura come le pavimentazioni con particolare riferimento agli strati superficiali (che

non a caso si chiamano “di usura”). Con questi modelli è possibile ottimizzare i costi (di

impianto, di manutenzione, dei rallentamenti, degli incidenti) anche per un periodo di tempo

lungo e quindi pianificare al meglio non solo per l’ente gestore ma per tutta la collettività. Dati

come input i flussi di traffico previsti (leggeri e pesanti) e le caratteristiche dei materiali

impiegati, ne consegue il tipo di manutenzione necessaria.