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35 II. L’EVOLUZIONE IN ETÀ LONGOBARDA 1. Da castrum a “civitasLe fortificazioni tardoantiche hanno, come si è visto nel capitolo pre- cedente, una pluralità di origini: possono essersi sviluppate da un preesisten- te insediamento autoctono, possono essere state fondate da una pubblica autorità o costruite per patronato privato. Parimenti molteplici sono le trasformazioni, di ordine giuridico e ma- teriale, che si manifestano tra fine VI e VIII secolo, sia nei castra che nei territori dipendenti. Per la Tarda Antichità è assai arduo definire la condizione giuridica delle fortificazioni testimoniate dalle fonti. Possiamo ipotizzare che gli inse- diamenti autoctoni di origine romana fossero dei vici, come è arguibile per il Castel Antico di Idro (BROGIOLO 1980). Per quelli di nuova fondazione, solo dove troviamo testimoniata la presenza di un’autorità, ad esempio un comes, possiamo presumere che l’insediamento fosse inquadrato in una nuova orga- nizzazione di tipo militare. D’altra parte, la possibile commistione, fin dal- l’origine o per evoluzione successiva, di funzioni militari e di rifugio di popo- lazione civile rende plausibile differenze di condizione per organismi difensi- vi simili quanto a struttura materiale. Ad attirare gli invasori nei castra dovevano essere più fattori: l’impor- tanza strategica, la struttura sociale dei Longobardi, suddivisi in piccoli grup- pi di armati che potevano meglio assicurare il controllo di un centro tutto sommato di modeste dimensioni se paragonato alle città tardoantiche, la pre- senza di beni fiscali. Quest’ultimo elemento, se non è il risultato della con- quista, potrebbe peraltro suggerire una condizione pubblica dei castra ante- riore all’arrivo dei Longobardi. Nel qual caso, avremmo un pesante indizio di una fondazione da parte dell’autorità statale. Per l’Altomedioevo, è difficile (SCHNEIDER 1924, p. 61), salvo forse i casi che esamineremo fra poco, stabilire a quando risalga l’appellativo di civitas (vale a dire di centro amministrativo-giudiziario, governato da un duca o da un gastaldo, con giurisdizione su un distretto dipendente) che alcuni di questi castra assumono. È infatti ben possibile che sia stata acquisita per due © 1996-2005 All’Insegna del Giglio s.a.s., vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale

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II. L’EVOLUZIONE IN ETÀ LONGOBARDA

1. Da castrum a “civitas”

Le fortificazioni tardoantiche hanno, come si è visto nel capitolo pre-cedente, una pluralità di origini: possono essersi sviluppate da un preesisten-te insediamento autoctono, possono essere state fondate da una pubblicaautorità o costruite per patronato privato.

Parimenti molteplici sono le trasformazioni, di ordine giuridico e ma-teriale, che si manifestano tra fine VI e VIII secolo, sia nei castra che neiterritori dipendenti.

Per la Tarda Antichità è assai arduo definire la condizione giuridicadelle fortificazioni testimoniate dalle fonti. Possiamo ipotizzare che gli inse-diamenti autoctoni di origine romana fossero dei vici, come è arguibile per ilCastel Antico di Idro (BROGIOLO 1980). Per quelli di nuova fondazione, solodove troviamo testimoniata la presenza di un’autorità, ad esempio un comes,possiamo presumere che l’insediamento fosse inquadrato in una nuova orga-nizzazione di tipo militare. D’altra parte, la possibile commistione, fin dal-l’origine o per evoluzione successiva, di funzioni militari e di rifugio di popo-lazione civile rende plausibile differenze di condizione per organismi difensi-vi simili quanto a struttura materiale.

Ad attirare gli invasori nei castra dovevano essere più fattori: l’impor-tanza strategica, la struttura sociale dei Longobardi, suddivisi in piccoli grup-pi di armati che potevano meglio assicurare il controllo di un centro tuttosommato di modeste dimensioni se paragonato alle città tardoantiche, la pre-senza di beni fiscali. Quest’ultimo elemento, se non è il risultato della con-quista, potrebbe peraltro suggerire una condizione pubblica dei castra ante-riore all’arrivo dei Longobardi. Nel qual caso, avremmo un pesante indiziodi una fondazione da parte dell’autorità statale.

Per l’Altomedioevo, è difficile (SCHNEIDER 1924, p. 61), salvo forse icasi che esamineremo fra poco, stabilire a quando risalga l’appellativo dicivitas (vale a dire di centro amministrativo-giudiziario, governato da un ducao da un gastaldo, con giurisdizione su un distretto dipendente) che alcuni diquesti castra assumono. È infatti ben possibile che sia stata acquisita per due

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motivi concomitanti: la concentrazione di popolazione favorita dalle dimen-sioni (tre-cinque ettari) e l’esser divenuti, assieme a molte città di antica fon-dazione, sedi privilegiate dell’insediamento longobardo.

L’archeologia può cogliere la crescita urbana dei castelli nel corso del-l'Altomedioevo e la struttura gerarchica dell’insediamento. I segni caratteriz-zanti sono la presenza di un ridotto difensivo, definito castrum nelle fonti,distinto dall’abitato come a Sirmione, Garda, Monselice; l’addensarsi dellapopolazione all’interno e la formazione di sobborghi, come a Castelseprio; lafondazione di chiese e monasteri, soprattutto a partire dall’VIII secolo, benattestati a Castelseprio, nell’Isola Comacina, a Sirmione, a Garda e a Monse-lice; l’emergere di una classe dominante, testimoniata dalle sepolture privile-giate a Castelseprio, o dalla documentazione scritta a Sirmione.

Nonostante questa evoluzione, i castra-civitates non riuscirono, salvopoche eccezioni, a resistere alla ripresa, a partire dall’età carolingia, dell’ege-monia delle città di antica fondazione. Di alcuni, ricordati alla fine del VIIsecolo dall’Anonimo Ravennate (ad esempio Prosilia, Susonia, Trinctonia,Theodoricopolis: SETTIA 1993), non vi è più traccia nella documentazioneposteriore. La maggior parte si ridurrà a vicus o scomparirà, spesso a seguitodi distruzione violenta, nell’età comunale.

Le ricerche di Volker Bierbrauer sui castelli del Trentino e del Friuli,ricordati da Paolo Diacono, in relazione alla scorrerie rispettivamente deiFranchi nel 590 (HL, III, 31) e degli Avari nel 610 (HL, IV, 37), sono giuntealla conclusione che tali siti fortificati d’altura vennero costruiti e utilizzatidalle popolazioni autoctone. Molti sorgono in vallate periferiche e, comeavviene nel Tirolo orientale, in Carinzia e Slovenia, «devono corrisponderead un genere tipico della popolazione romana-autoctona del V-VII/VIII seco-lo» (BIERBRAUER 1991b, p. 144), che si insedia «lontano dalle principali vie dicomunicazione, divenute pericolose per l’accresciuta minaccia germanica».

Non farebbero eccezione neppure quelli lungo vie principali, comeVolaenes e Brentonicum, ubicati all’inizio della Val d’Adige trentina (CAVADA

1992). Alcuni, ad esempio Ferruge cui è dedicata una celebre lettera di Cas-siodoro, furono oggetto, come si è accennato, di particolare attenzione adopera dell’amministrazione gota, preoccupata di possibili minacce da nordda parte di altre popolazioni barbariche. Nonostante i Bizantini abbiano man-tenuto, almeno fino al 580, il possesso di alcune piazzeforti, come CastelNanno, ricordato da Giorgio Ciprio (CONTI 1975, pp. 51-52; LA REGINA 1988),la presenza di Longobardi, suggerita dai corredi di alcune sepolture a Tisens,Siebeneich, Perdonig e Castelfeder-Ennemase, sarebbe da ritenersi per lo piùoccasionale (BIERBRAUER 1991b); essi avrebbero preferito chiudersi nelle cittàe nei castra ben muniti della pianura in attesa dell’esaurimento delle offensi-ve nemiche (SETTIA 1989).

Differente è stata invece l’evoluzione di molti castra posti allo sbocco

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delle vallate alpine ed appenniniche e nella pianura, particolarmente nellearee di frontiera che, di volta in volta, costituirono terreno di confrontomilitare con i Bizantini, il nemico contro cui i Longobardi, pur in una con-traddittoria alternanza di defezioni, di offensive (di singoli capi militari) e dicampagne concertate, non cessarono mai di esercitare una diuturna pressio-ne, nel tentativo di compattare i territori nord-italiani da loro conquistati.

Alcuni di questi castra sono indicati nell’itinerario dell’Anonimo Ra-vennate con il termine di civitas. Settia (1993, pp. 105-106) ha recentementeadombrato l’ipotesi che tale compilazione, datata alla fine del VII secolo,rifletta un assetto insediativo più antico, risalente presumibilmente all’etàgota. Va però osservato che, se è per lo più accettabile una fondazione tardo-romana o gota, non per questo dobbiamo riferire a quel periodo anche leprerogative giuridiche che troviamo attestate solo in età longobarda.

Molti castelli ci appaiono, infatti, sia nelle fonti scritte sia in quellearcheologiche, come centri di particolare rilievo, che hanno talora sostituito,nella gerarchia degli insediamenti, le città di antica fondazione.

Quanto poi all’appellativo di civitas con cui vengono qualificate tuttele località citate dall’Anonimo, è plausibile che sia stato attribuito «a realtàfra loro alquanto diversificate» (SETTIA 1993, p. 110). Nel caso dei grossicentri prealpini, non pare tuttavia sia imputabile ad un uso improprio deltermine. Lo suggeriscono convincentemente due fatti: il trovarlo registratoanche in documenti privati, a Castelseprio (SCHNEIDER 1924, p. 30), come aMonselice (BROGIOLO 1994a), a Sirmione come a Garda (BROGIOLO 1989a) ela presenza, segnalata per alcuni di essi fin dall’VIII secolo, di un distrettodipendente. Evidenze queste che portano a concludere che tale denomina-zione, almeno in questi casi, sottintendesse una sede di autorità giurisdicente,un duca (come a Cividale, Ceneda e sull’isola di S. Giulio d’Orta) o più spes-so un gastaldo regio (GASPARRI 1990).

L’origine di tali giurisdizioni ci sembra vada ricercata, non tanto o nonsolo, in situazioni prelongobarde che non sono segnalate dalle fonti, quantopiuttosto nelle vicende della conquista che determinarono linee di “frontie-ra” frastagliata nei confronti dei territori bizantini.

Enclaves incentrate sui castra resistettero per alcuni decenni alle offen-sive longobarde sia in Piemonte (Ivrea e Susa ricordate da Giorgio Ciprio:SCHNEIDER 1914, p. 37 contra GELZER 1890, p. 9; CONTI 1975, pp. 49-50 perSusa; LA REGINA 1988 per Ivrea), che in Lombardia, presso il lago di Como,dove l’Isola Comacina ed il controllo del lago vennero assicurati solo nel 589(HL, III, 27), e in quello di Garda, dove il castello omonimo (nell’ipotesi chesia identificabile con il Gàrada menzionato da Giorgio Ciprio: LA REGINA

1988) sarebbe ancora in mano imperiale attorno al 580. La contrapposizionelungo i principali fiumi (Po e Adige) diede vita ad un’aspra contesa dei capi-saldi più avanzati, che passarono di mano almeno un paio di volte tra il 569

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ed il 602-3, quando furono definitivamente conquistati dal re Agilulfo (SCHNEI-DER 1924, pp. 48-53).

Se, a questo punto, osserviamo la dislocazione dei castra prealpini, postitra il lago Maggiore e quello di Garda, che l’Anonimo Ravennate (An. Rav.IV, 30) definisce civitates, notiamo che, per la maggior parte, si distribuisco-no nelle zone che, alla fine del VI secolo, furono teatro degli scontri traBizantini e Longobardi. Un primo gruppo, costituito da Castelseprio, Stazzona,Pombia, Castelnovate, Isola Comacina, Bellinzona si situa tra i laghi Maggio-re, di Como e di Lugano. Un secondo con Sirmione, Garda, Lagare è traquello di Garda e la Valdadige. Tutti sembrerebbero derivare la loro rilevan-za da un precoce insediamento longobardo in chiave strategico-militare(SCHNEI-DER 1924; BOGNETTI 1966b). Analogo, anche se proiettato in unadifferente contingenza politico-militare, è il caso del castello di Monseliceche fu annesso nel corso della vittoriosa offensiva di Agilulfo del 602-3, du-rante la quale, secondo l'attestazione di Paolo Diacono, vennero distrutte lecittà di frontiera di Cremona, Mantova, Padova. Private dei diritti cittadini,il loro territorio venne in parte suddiviso tra i ducati contermini, in parteassegnato ai castra, che divennero sede di giurisdizione regia, probabilmentesotto la guida di un gastaldo.

L’organicità di questi interventi e la natura militare dell’occupazionenon possono essere messi in dubbio. Del resto si trattava di una scelta in uncerto senso obbligata, per la contemporanea militarizzazione dei territori im-periali che i Bizantini perseguirono tra VI e VII secolo (infra cap. II, 2).

Nell’Esarcato, alla caduta di Padova e Monselice, i Bizantini avrebberorisposto, secondo quanto è stato verosimilmente ipotizzato (GUILLOU 1980),con la fondazione di Ferrara, Comacchio, Argenta (infra cap. II, 3). Nell’arealagunare, dopo la perdita delle città costiere, accanto al preesistente castrumdi Grado, sorsero sui dossi fluviali le civitates di Heraclea, Costanziaca,Olivolo, località oggetto di recenti e fruttuose esplorazioni archeologiche(infra). Nel territorio di Modena e Bologna, vennero fondati o potenziati icastra Emiliae (SCHNEIDER 1924, pp. 38-53): Ferroniano, Monteveglio, Bus-so, Persiceto, Verabolum ricordati dal Liber Pontificalis e da Paolo Diacono(HL, VI, 49; infra cap. II, 5) al momento della conquista da parte di Liut-prando nel 727.

Analoga strategia venne adottata nelle altre zone di confronto militare:in Liguria, il cui sistema difensivo fu rinforzato in chiave antilongobarda(CHRISTIE 1989a); nella Toscana marittima, ove si concentrarono gli attacchidei Longobardi di Lucca e Chiusi alternati all’offensiva di Agilulfo del 590(HL, IV, 32; cfr. SCHNEIDER 1924, pp. 3-15), nel Lazio (BROWN 1978, p. 329)e nell’Abruzzo, dove la contesa si sviluppò su un fronte interno (STAFFA-PEL-LEGRINI 1993).

In secondo luogo, non può essere casuale che in questi castra si con-

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centrino le attestazioni di beni fiscali, seppur non prima dell’VIII secolo,quando è ormai in atto il loro smembramento a favore di monasteri o dipersonaggi che gravitavano attorno alla corte. Certamente è solo in via ipo-tetica che possiamo collegare la formazione di tali beni alle vicende dellaconquista, né siamo in grado di appurare se l’incameramento fiscale sia frut-to di confisca o di semplice trasferimento di beni demaniali. Se poi di sempli-ce trasferimento si trattò, dovremmo riconoscere, sulla scia dello Schneider(1924, cap. I), che questi castra ebbero un’origine pubblica tardoantica.

Dal punto di vista archeologico affermare una presenza longobardasignifica caratterizzare in senso etnico-culturale i materiali, in particolare quellida corredo tombale, e le strutture, soprattutto gli edifici. Tale tema, centralein ogni discussione sul periodo di transizione, esige un ripensamento del tra-dizionale bagaglio concettualmente descrittivo dell’archeologia, in particola-re di quella funeraria, dal quale solo sporadicamente i medievisti italiani sisono allontanati per percorrere nuovi itinerari interpretativi. Vi è infatti di-versità di parere, come vedremo (infra cap. II, 2), nell’interpretare i corredicon armi longobarde in senso etnico o semplicemente, in termini culturali egiuridici, come appartenenti ad un uomo libero: quale sia il significato chevogliamo attribuir loro, resta il fatto che testimoniano la presenza di exercitales.In alcuni casi, come ad esempio a Sirmione (SESINO 1989) e a Monselice o,fuori dal territorio in esame, a Nocera Umbra (JØRGENSEN 1991; IDEM 1992)saranno appartenuti ad un presidio militare; in altri si potrà solo parlare dipersone giuridicamente libere e culturalmente longobardizzate che vivevanodi altre attività.

Sepolture con armi sono state ritrovate in alcuni dei castra del pede-monte e della pianura: se per Castelseprio ne conosciamo attualmente unasoltanto (LUSUARDI SIENA-SESINO 1990), più numerose sono quelle attestate aSirmione (SESINO 1989), Garda (LA ROCCA 1989), Monselice (infra cap. V).Questa evidenza e le alterne fasi della conquista suggeriscono l’ipotesi chequesti castra, a differenza della maggior parte di quelli alpini abitati in preva-lenza da popolazioni autoctone, avessero una funzione strategica, rappresen-tando la risposta longobarda alla militarizzazione attuata dai Bizantini neiterritori rimasti sotto il loro controllo.

Si tratta per lo più di fortezze ereditate dall’età precedente, ma vi èforse un esempio di nuova fondazione: il castrum Imolas, costruito dai Lon-gobardi nella prima fase della conquista, se è corretta l’interpretazione di unnoto passo di Agnello Ravennate. Congettura che (infra cap. VII) spieghe-rebbe anche il rinvenimento di sepolture con corredi longobardi di fine VI.

Per taluni di questi castra-civitates i dati archeologici e l’ubicazionedegli edifici di culto consentono di ipotizzare uno sviluppo urbanistico equindi un incremento demografico: non solo non sono attestati, come inmolte città antiche, troppo ampie per le nuove esigenze insediative, processi

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di riduzione dell’area abitata con conseguente ruralizzazione di alcuni settoriurbani (BROGIOLO 1993), bensì un costipamento dello spazio inizialmente di-sponibile ed un’estensione dell’abitato al di fuori delle mura.

A tal riguardo, non si può non rimarcare le differenze con l’insedia-mento fortificato di Monte Barro, distrutto attorno alla metà del VI secolo,nel quale non vi è alcun segnale di accrescimento (supra cap. I).

Lo sviluppo dei castra longobardi sembra giungere al culmine nel corsodell’VIII secolo ed è testimoniato dall’ubicazione di chiese o monasteri, postial limite delle aree di espansione edilizia: in tal senso ci sembrano emblema-tici i casi di Castelseprio, Isola Comacina, Sirmione, Monselice, Garda.

A Castelseprio (infra cap. IV), i dati archeologici mostrano innanzituttoun addensarsi delle case all’interno del castrum, nonostante tre successive di-struzioni per incendio. Un edificio, nel VII secolo, si pone addirittura a cavallodelle mura (DABROWSKA et al. 1978-79). Le tecniche edilizie sono molteplici:sono attestati edifici con solide murature ben legate da malta come l’edificioIII, case terranee con murature legate da malta povera e argilla e case di legnocon pali portanti angolari su basi in pietra e pareti appoggiate su muretti asecco (DABROWSKA et al. 1978-79, pp. 75-79; cfr. anche CAGIANO DE AZEVEDO

1973; IDEM 1974). Queste ultime, datate all’età longobarda, si distribuivanolungo una strada pavimentata con ciottoli e frammenti di laterizi.

Nel corso dell’Altomedioevo, l’abitato si amplierà anche all’esterno, suuna superficie di una decina di ettari, con processi di crescita che sono ancorada precisare, ma che potrebbero già essere definiti alla fine dell’VIII-inizi IXsecolo, considerata l’ubicazione periferica della chiesa di S. Maria foris portas,chiesa che le ultime indagini tendono a collocare non già nel VII secolo, comeaveva ipotizzato il Bognetti, ma presumibilmente in età carolingia.

L’Isola Comacina, sita nei pressi della sponda occidentale del lago diComo, ha una superficie di 75.000 mq e un’altezza massima, rispetto al lago,di m 40 (alt. s.l.m. m 239: BELLONI 1980) (Fig. 13).

Il Bognetti (1944) ha rifiutato la tradizionale identificazione conl’insulam lariensem quae Christopolis dicitur, in mano franca nel 550 (cfr.MONNERET DE VILLARD 1914, pp. 15-16 e SCHNEIDER 1924, p. 27). La suatrasformazione in fortezza potrebbe essere avvenuta agli inizi del V secolo,nell’ambito della militarizzazione del lago di Como, affidato, come ricordala Notitia Dignitatum (Not. Dign. XLII, p. 215), ad un praefectus classis cumcuris civitatis (LURASCHI 1977). Ipotesi che va comunque provata archeologi-camente. Quel che è certo è che ebbe grande rilievo per tutto l’Altomedioe-vo, fino alla sua distruzione, ad opera dei comaschi, avvenuta nel 1169. Par-ticolarmente importanti le vicende tra la fine del VI ed il VII secolo. Tra icastelli bizantini menzionati da Giorgio Ciprio (GELZER 1890, p. 88; per l’iden-tificazione con l’isola lariana: DIEHL 1888, p. 40; SCHNEIDER 1924, p. 24;HONIGMANN 1939, p. 51; LA REGINA 1988, p. 64), l’isola comacina fu difesa

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per vent’anni dal magister militum Francione finché, dopo sei mesi di asse-dio, nel 589 cadde in mano longobarda, probabilmente ad opera del duca diBergamo (SCHNEIDER 1924, p. 25). Francione potè ritornare incolume a Ra-venna, ma dovette lasciare sull’isola i tesori che vi erano custoditi per contodi alcune città (HL, III, 27). Lo stesso duca di Bergamo Gaidulfo nel 591 vi siasserragliò, dopo essersi ribellato ad Agilulfo, ma il re, sbarcato nell’isola, necacciò i sostenitori del duca, trasportando a Pavia il tesoro che i Bizantini,evidentemente d’accordo con il duca, vi avevano depositato (HL, IV, 3). Nel688-89 vi si rifugiò re Cuniperto, saldamente fortificandosi dopo che il ribel-le Alachi aveva conquistato la capitale (HL, V, 38). Una decina d’anni piùtardi, sarà Ansprando, tutore del giovane re Liutperto, a cercar riparo sul-l’isola, dopo la sconfitta ad opera di Ariperto (Ib., VI, 19); ma questi, conqui-statala, ne distrusse le fortificazioni (Ib., VI, 21).

Una famosa epigrafe (MONNERET DE VILLARD 1912, n. 5), apposta dalvescovo di Como Agrippino (a. 606-616: BOGNETTI 1966b, p. 240) testimo-nia la fondazione di una chiesa dedicata a S. Eufemia, chiesa che fu scavatadal Monneret de Villard all’inizio del secolo (MONNERET DE VILLARD 1914,pp. 73-105).

Dopo queste importanti ricerche, bisogna attendere gli anni ’60, quan-

Fig. 13 – Isola Comacina, planimetria.

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do vengono eseguiti nuovi scavi nella chiesa di S. Giovanni, eretta a fianco diS. Eufemia. Sino ad ora sono tuttavia mancate ricerche sistematiche sia nel-l’area pubblica che nell’abitato.

L’area pubblica, che comprende le chiese e forse un edificio civile postosul dosso più rilevato, coincide con la parte sommitale dell’isola, mentre l’abi-tato si dispone lungo i fianchi rocciosi settentrionali. Gli edifici, molti deiquali ancora perfettamente riconoscibili in superficie (BELLONI 1980; BRAM-BILLA-BROGIOLO 1994), vennero costruiti uno accanto all’altro, in più righe eoccupando tutti gli spazi disponibili. Per lo più monovano, furono scavati nelpendio roccioso per un lato (quello sud) e parte degli altri due (ovest ed est).I perimetrali erano poi completati, con murature legate da malta. Le dimen-sioni della parete sud (la sola documentata) varia tra 3 e 9 m; gli altri lati nonsono invece determinabili con sicurezza.

In prevalenza si tratta di case terranee, ma non mancano esempi diedifici a due piani con risega scavata nella roccia per alloggiare il tetto oriz-zontale. Il tetto, ad una sola falda, era probabilmente coperto da piode (BELLONI

1980, p. 32).Queste case sono del tutto identiche a quelle del VI secolo scavate nel

1990-91 sul versante meridionale del S. Martino di Lecco (BROGIOLO et al.1991), ma questo confronto non è sufficiente per ritenerle coeve. Questatipologia assai semplice ha infatti confronti con strutture che si distribuisco-no cronologicamente tra l’età romana ed il Basso Medioevo. È tuttavia pre-sumibile che siano per lo più anteriori alla distruzione del castrum, avvenutanel 1169, anche se alcuni edifici continuarono ad essere abitati (MONNERET

DE VILLARD 1914, pp. 57-58).Nella penisola di Sirmione, delle tre cinte, che formavano un comples-

so sistema difensivo, la più esterna fu presumibilmente abbandonata in etàlongobarda (BROGIOLO 1989a) (Fig. 14). L’estensione dell’abitato altomedie-vale a nord del canale artificiale, che aveva tagliato in due la penisola, fino aldosso di Cortine, è suggerito dalla posizione della necropoli longobarda, del-la chiesa di S. Pietro in Mavinas (ante 765) e del monastero di S. Salvatore,fondato dalla regina Ansa (Ib.).

Anche a Monselice e Garda (infra, rispettivamente cap. V e III, 1) vi fuun’estensione dell’insediamento dalla sommità del colle, su cui sorgeva ilcastrum, al pedemonte, dove accanto a nuove fondazioni religiose si sviluppal’abitato.

Tali fondazioni, oltre che un sintomo della crescita dell’insediamento,sono avvisaglia di un processo di acculturazione, all’interno del quale coesi-stono atteggiamenti di devozione individuale e volontà di affermazione so-ciale dei possessores, processo che sancisce il definitivo superamento dellafunzione militare, confermato anche dalla disgregazione delle proprietà fi-scali (GASPARRI 1990).

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Tra le cause, il venir meno del pericolo bizantino e l’affermarsi diun’autorità regia centralizzata, che, di fatto, limitando il potere dei duchi,non richiedeva più un rigido controllo regio sui castra. Parallelamente, larinascita delle città di antica fondazione, pienamente avvertibile fin dal-l’inizio del secolo VIII, prelude al riassorbimento di parte delle giurisdizio-ni attribuite a questi organismi territoriali minori. Sebbene alcuni di essiriusciranno a sopravvivere sino all’età feudale come comitati rurali, la lorofunzione, congeniale ai Longobardi durante le fasi della conquista e dellacontrapposizione militare con i Bizantini, si può considerare ormai conclu-sa con l’età carolingia.

Fig. 14 – Sirmione altomedievale.

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2. Castelli bizantini della laguna veneta

Per certi versi, differente è la situazione del territorio ora corrispon-dente alla laguna di Venezia, territorio che ha un eccezionale interesse storio-grafico, dovuto non solo all’annoso dibattito sulle origini della Serenissima,quanto soprattutto alla sua centralità per lo studio dei rapporti commercialie culturali tra mondo bizantino e mondo germanico, per ora noti solo attra-verso alcune fonti scritte.

Nel VII secolo, le successive ondate migratorie di popolazioni che ab-bandonano le città conquistate dai Longobardi, Padova (601), Altino (615 o639), Oderzo (639-667), portano alla fondazione, nelle aree rimaste bizanti-ne ed in un clima di grande conflittualità, di nuovi agglomerati, definiti dallefonti castra o civitates (GUILLOU 1980). Sorgono così Caorle, Cittanova-Eracliana, Jesolo, Torcello, Murano, Rialto, Olivolo, Malamocco, Chioggia,mentre si avviano alla scomparsa definitiva le città romane di Altino e Con-cordia.

L’effetto di queste vicende, di per sé traumatiche, è ingigantito da pro-fonde trasformazioni ambientali, dovute sia al dissesto idrogeologico di im-portanti fiumi, quali l’Adige, il Brenta, il Piave-Sile ed il Tagliamento, nonpiù governati da un’assidua opera di regimentazione, sia a variazioni eustatiche,che avrebbero portato, tra IX e XI secolo, ad un innalzamento del livellomedio-mare da una quota di meno 2,00-2,20 sotto lo zero attuale ad unaquota di più 0,30-0,65. Variazioni aggravate da fenomeni di subsidenza cheincisero per 10-14 cm a secolo (DORIGO 1983).

Al di sotto delle quote attuali della laguna, fino ad un profondità di tre-quattro metri, sono perciò venuti a trovarsi i livelli di occupazione dell’etàromana imperiale, come confermano i risultati di due scavi, attualmente incorso, sui quali val la pena soffermarsi con un certo dettaglio, per sottoline-are l’enorme potenzialità di informazione storica dell’archelogia in ambientelagunare.

Il primo riguarda S. Lorenzo d’Ammiana , oggetto, negli anni ’80,delle ricerche di Ernesto Canal (FERSUOCH et al. 1989) e, nel 1991, di unaulteriore campagna di scavi. Si tratta di un isolotto di forma irregolare conuna superficie di ca. mq 3.000, posto nella laguna settentrionale, poco anord dell’Isola di Torcello, sede vescovile di quel vasto agglomerato che,prima dell’affermazione, nel IX secolo, di Rialto, costituiva il nucleo urba-no più rilevante della laguna. In particolare questo sito è stato identificatocon il castellum bizantino di Castratium, costruito presso una precedentechiesa dedicata a S. Lorenzo (ZAMBON in FERSUOCH et al. 1989, p. 94). Abi-tato dal I al XII secolo, è di grande interesse per alcuni fattori di stratifica-zione che raramente sono concomitanti: il marcato spessore (m 4 ca.) deldeposito archeologico; la chiarezza di orizzonti stratigrafici, sia antropici

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(piani d’uso; strutture ben conservate) che naturali (lenti di bittium e livellidi spiaggiamento per ingressioni marine altomedievali); la conservazione dimateriale organico (non solo resti vegetali ed utensili, ma soprattutto paretilignee in tavole ed in rami intrecciati, alcune delle quali interpretabili comeperimetrali di edificio).

Nel saggio IV, ubicato a cavallo di una grossa muratura con andamentoE-W, sono state documentate cinque distinte fasi.

La più antica è costituita da un riporto dello spessore di m 1,70 diargilla grigio-azzurra con rare macerie (strato XI), sul quale venne costruitoun edificio, datato tra il I e il II sec. d.C. L’edificio fu poi distrutto da unincendio (fase 2: strato VII ), di cui sono palese evidenza i resti carbonizzatidi legni caduti sul pavimento.

Su una sopraelevazione di ca. 40 cm (fase 3: strato VI), si impostò, nelIV-V secolo, un nuovo livello pavimentale di malta (strato V) su vespaio co-stituito da frammenti di laterizi e di ceramiche.

Dopo un nuovo incendio (fase 4: strato IV), che distrusse definitiva-mente l’edificio, l’area cambiò destinazione, da insediativa diventando cimi-teriale. La presenza di numerose sepolture in anfore segate (egee e nord-africane di V secolo) ha fatto ipotizzare una piccola necropoli familiare pres-so un edificio residenziale.

Il livello cimiteriale venne poi ricoperto (fase 5: strato II, VII-IX sec.)da uno strato sabbioso con macerie. In questa fase, ma non è stato chiarito daquale livello d’uso, sarebbero stati costruiti alcuni pilastri, giudicati pertinen-ti ad una cinta difensiva.

Nel saggio II, posto alla distanza di una quindicina di metri, è statariscontrata una sequenza più articolata, ma compresa in un arco cronologicoi cui inizi potrebbero corrispondere con la fase tardoromana del saggio IV(Fig. 15).

La sedimentazione antropica più antica è costituita da una matrice disabbia-argilla grigio scura con frammenti di laterizi, all’interno della quale sisono individuati un paio di livelli pavimentali formati da frammenti di lateri-zi e ceramica, che si può ipotizzare fossero pertinenti ad un edificio tardoan-tico, i cui perimetrali non erano compresi nell’area di scavo.

Segue una fase di episodica sommersione marina (fase 2: strato XI),testimoniata da un sottile strato di argilla sterile, dopo la quale riprende unaserrata stratificazione (fase 3: strato X), in una matrice sabbiosa, di quattropiani d’uso simili a quelli della fase 1, il più recente dei quali connesso conuna parete in ramaglia intrecciata (resti di arginatura?).

Questa stratificazione termina con un livello di bittium (strato VIII)che suggerisce una fase di ingressione marina. Compaiono poi (fase 4: stratiVI-VII) strutture in legno. La più antica (strato VII) è formata da tavole oriz-zontali raccordate ad altre infisse verticalmente. Dell’altra (strato VI) fanno

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parte una tavola orizzontale a coltello, fissata a pali verticali e, ortogonale aquesta, sette tavole verticali. Il piano d’uso, riferibile a quest’ultima struttu-ra, era in frammenti di sesquipedali posti su due allineamenti paralleli. Nel-l’interpretazione degli scavatori, si tratterebbe di difese spondali, ma la pre-senza del piano pavimentale fa pensare ad un edificio.

La fase successiva (fase 5, VI-VII sec.) vede una nuova ingressione ma-rina, testimoniata da uno straterello (V) di bittium reticolatum coperto dalegni e arbusti carbonizzati. Nello strato soprastante (IV), vi sono accumulidi torba in matrice argillosa grigio chiara, forse prodotti dal disfacimento distrutture lignee.

Nella fase 6 (strato III, sec. I X-X) l’area è interessata da sepolture acassa, mentre la stratificazione più recente è rappresentata da livelli sabbiosi

Fig. 15 – S. Lorenzo di Ammiana, sezione stratigrafica, scavo II lato est (da FERSUOCH et al. 1989).

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con macerie pertinenti al periodo bassomedievale (XII-XV sec.), durante ilquale nella zona viene fondato un monastero.

L’interpretazione della sequenza proposta da Canal è stata rivista sullabase dei risultati della campagna di scavi del 1991. Come si può notare daquesta periodizzazione, pochi sono i punti di contatto tra i due sondaggi che,seppur prossimi spazialmente, denotano processi di stratificazione differen-ziati. Soltanto la fase 6 del saggio II è assimilabile alla fase 5 del saggio IV, perla presenza di una simile matrice sabbiosa e per la posizione nella sequenza.Per il resto sono da annotare le diversità. Nel saggio II vi è una stratificazioneche inizia più tardi e che vede tre distinti episodi di ingressione e sommersio-ne marina (nelle fasi 2, 4, 5), episodi di cui non vi è traccia nel saggio IV. Taledifferenza potrebbe essere spiegata con una salda posizione all’asciutto del-l’area del saggio IV, rilevato artificialmente prima della costruzione dell’edi-ficio di I-II sec. d.C.; e, al contrario, da una situazione spondale per il saggioII, più esposto a fenomeni di spiaggiamento (strati di bittium) o di sommer-sione (argilla fine).

Il secondo sito corrisponde all’isola di Castello, posta nelle immediatevicinanze dell’Arsenale, sulla quale sorgeva un altro castrum bizantino, quel-lo di Olivolo, sede di vescovato nel 775-76. Gli scavi, iniziati da MicheleTombolani e proseguiti, dopo la sua prematura scomparsa, da Stefano Tuzzato(TUZZATO 1991), hanno sinora messo in luce una sequenza altomedievale,articolata in tre periodi principali. Il primo, non ancora compiutamente esplo-rato, ha fornito reperti di V-VI secolo. Nel secondo, datato al VI, forse inizioVII, vengono realizzate piattaforme di legno, costituite da «un intreccio dirami flessibili attorno a pali verticali» e da tavole poste in orizzontale, inter-pretate come strutture spondali. Nel terzo (VII secolo), viene costruito unedificio con materiali edili di recupero legati con argilla (Fig. 16). I reperti,tra cui tre bolle bizantine di VI-VII e un tremisse d’oro di Eraclio hannosuggerito, per quest’area, «una valenza pubblica amministrativa». Dal puntodi vista paleombientale, il livello del mare mostra in questo periodo oscilla-zioni, rispetto al livello attuale, comprese tra m -1,60 e m -1 (TUZZATO et al.1993).

Da rilevare, in entrambi i siti, la presenza cospicua, nelle fasi altome-dievali, di anforacei medio-orientali, indizio di rapporti commerciali che,relegati prevalentemente nell’orbita dei territori bizantini, raggiungevano sìle aree longobarde più vicine, come il castrum di Monselice, ma non le cittàdella Padania.

In quali modelli di trasformazione del territorio si inseriscano poi que-sti dati, che trovano confronti nello scavo di Torcello (LECIEJEWICZ et al. 1977)e in altri siti della laguna, oggetto di rinvenimenti sporadici (DORIGO 1983,pp. 228-229), è argomento di discussione. Per Dorigo (Ib., pp. 13-125), l’at-tuale laguna sarebbe stata, in età romana, una campagna asciutta, interessata

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Fig. 16 – S. Pietro, planimetria dell'edificio di VII secolo.

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dalle centuriazioni dei municipi di Padova ed Altino, e solo in epoca altome-dievale si sarebbe verificata un’invasione dell’acqua salmastra che avrebbecostretto a restringere l’insediamento sui dossi fluviali. Il nostro autore sibasa, ed è questo il punto debole della sua ipotesi, su alcuni limiti del paesag-gio antropico attuale considerati un relitto della suddivisione agraria più an-tica. In realtà, i dati disponibili per la terraferma perilagunare contraddiconoquesta ipotesi.

In particolare, un primo progetto di ricerche sistematiche (BLAKE et al.1988; SALVATORI 1989; IDEM 1990; IDEM 1992) ha interessato il territorio diCittanova-Eraclea, la città fondata nel 639 dagli abitanti di Oderzo, fuggitidopo la conquista della loro città da parte del re longobardo Rotari.

Le indagini si sono sviluppate attraverso un programma di prospezionigeofisiche, ricerche sistematiche di superficie a varia intensità e con docu-mentazione di tutte le sezioni esposte, scavi in aree scelte in base ai risultatiottenuti con le prime due fasi di ricerca; ciò ha permesso di ricostruire accu-ratamente l’idrografia e la geomorfologia, fattori fondamentali del popola-mento. I risultati indicano che, dopo una fase tardorepubblicana-primoimperiale caratterizzata da almeno dodici siti, disposti a distanze rego-lari sui dossi fluviali e abitati da piccole unità di agricoltori che probabilmen-te sfruttavano i terreni sabbiosi per la coltivazione della vite, segue, tra III eIV-V secolo, in conseguenza di una fase di ingressione marina, un restringi-mento degli insediamenti ai soli dossi più alti; questo fenomeno di concen-trazione prosegue fino almeno all’VIII-IX secolo, quando il solo spazio uti-lizzabile è il dosso di Cittanova.

Una distribuzione dell’insediamento romano lungo i paleoalvei è docu-mentata anche ad est di Cittanova (CROCE DA VILLA 1987); difettano tuttavia,per quest’area, informazioni sull’evoluzione nell’Altomedioevo.

3. I castelli bizantini ai confini dell’Esarcato: Ferrara, Argenta eComacchio

Sia il Diehl (1888, p. 57), che, più recentemente, il Guillou (1969, p.58) accettano l’ipotesi che i castra di Ferrara e di Argenta sarebbero statifondati dall’esarca Smaragdo intorno agli inizi del VII secolo: la notizia, checome è noto si deve ad un umanista (Flavio Biondo), trova una sua plausibi-lità storica nel fatto che i Bizantini avrebbero avuto la necessità di approntaremisure difensive a protezione dell’Esarcato, in un momento in cui la conflit-tualità con i Longobardi si sarebbe riacutizzata dopo la conquista della rocca-forte di Monselice (HL IV, 25; vd. infra cap. V). Per quanto non espressa-mente citata dal Biondo (vd. infra), anche la presenza del castrum Comiacli(Comacchio) potrebbe essere ricollegata ad un disegno strategico di poten-

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ziamento della linea di confine marcata naturalmente dal corso del Po (anchese si tende a retrodatarne la fondazione prima degli inizi dell’VIII secolo: es.PATITUCCI UGGERI 1989, pp. 303-304). Le indagini archeologiche, che in for-me diverse, ma certo meglio programmate a partire dai primi anni ’70, han-no interessato contesti post-classici nell’area del delta, avrebbero conferma-to, per taluni studiosi (PATITUCCI UGGERI 1983) e attraverso la prova materia-le, l’esistenza, fin dal VII secolo, di tali castra: in qualche caso (es. Ferrara),ne sarebbero state riconosciute anche le strutture.

Come abbiamo detto la fondazione del castrum Ferrariae sarebbe daattribuirsi, secondo la tradizione erudita, all’esarca Smaragdo. L’origine diquesta ipotesi deve farsi risalire al Biondo («Argenta oppidum simul cumFerraria a Smaragdo exarcho ... primo moenibus circundatum»), alla qualesarebbe addivenuto secondo un processo che alcuni (BOCCHI 1974, pp. 34-35, nota 23 e 1976, p. 130) hanno ritenuto palesemente infondato, mentrealtri continuano a sostenere sufficientemente attendibile (PATITUCCI UGGERI

1976a, p. 153; VASINA 1976, p. 81), supponendo essere la fonte del Biondo ilLiber Pontificalis Ecclesiae Ravennatis di Andrea Agnello (PATITUCCI UGGERI

1982, pp. 30-31): una fonte che, ben conosciuta dall’Umanista (e ciò è pro-vato), avrebbe dovuto essere consultata in una versione più ampia di quellatramandataci (dove infatti non si trova menzione di Ferrara). Addirittura sigiunge ad ipotizzare (ancora contrariamente a BOCCHI 1976, p. 130) che ilRubeus, che alcuni ritengono derivare in questa circostanza dal Biondo e chefornisce una data precisa per l’edificazione di Ferrara (604), possa diretta-mente dipendere dalla stessa versione del Liber Pontificalis di Agnello nontrádita (PATITUCCI UGGERI 1976a, p. 153). In realtà la prima certa menzione diFerrara, espungendo anche il falso diploma a Nonantola di Astolfo del 753(BRÜEHL 1970, p. 163), è contenuta nel Liber Pontificalis romano, nella vitadi Stefano II, quando il ducatus Ferrariae, insieme ad altre località, vienepromesso da Desiderio alla Santa Sede (LPRo, I, p. 455; la stessa notizia èripresa nel Codex Carolinus: CC n. 11). Neppure la data del trasferimentodella sede episcopale da Voghenza a Ferrara (meglio sarebbe dire nel luogodell’attuale San Giorgio, sull’antica sponda sud del ramo principale del Po,sito che non corrisponde alla zona dove si formerà la città alto-medievale) èsicura (BENATI 1989, pp. 9-11). Il fatto che già nel 757 sia nominato un ducatusFerrariae (doveva trattarsi di un ducato bizantino e non longobardo: DIEHL

1888, p. 39; BOCCHI 1974, p. 37, nota 72), significa che probabilmente, pri-ma di quel periodo, doveva esistere un centro nel quale risiedeva un’autoritàcivile e militare. Ma il castrum (o castellum) è ricordato in fonti ben piùtarde, cioè non prima del X secolo (BOCCHI 1976, p. 133), all’incirca nellostesso periodo in cui compare, sempre nei documenti, il termine civitas. Nel1973-74 un’archeologa (UGGERI PATITUCCI 1973, pp. 85-92; EADEM 1974,pp. 111-147) e una storica (BOCCHI 1974, pp. 38-45) hanno contestualmente

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Fig. 17 – Ferrara, pianta ipotetica del castrum, con l'ubicazione delle chiese (San Simone, SanPietro, San Salvatore e San Martino), degli scavi di Casa Capitano (A) e Casa Volta (B) (scala1:2660 ca.) (da PATITUCCI UGGERI 1976a, fig. 9).

avanzato l’ipotesi che l’antico castrum fosse da ubicare in Ferrara, in un’areacompresa, in senso antiorario, tra via Croce Coperta, via Ghisilieri, via Bor-go di Sotto e via del Cammello (Fig. 17). Il sito, che doveva trovarsi sopra unrilevato sulla sponda settentrionale dell’antico corso fluviale, nel punto incui si diramava in Po di Volano e Po di Primaro e dava origine ad un’isola(l’isola di S. Antonio), presenta in effetti tutte le caratteristiche (dimensionalioltre che urbanistiche), di un ridotto fortificato. A supportare tale ipotesisono stati poi forniti elementi di carattere topografico, metrologico ed ar-cheologico (per quest’ultimi vd. infra). Per quanto concerne i primi, almenodue fondazioni ecclesiastiche, ubicate nell’area in oggetto, sono dette, ben-ché in fonti tardive, «in castro» o «in castello». Nell’anno 1000 (FRIZZI 1847-1848 II, p. 63, documento conosciuto solo da un regesto dello Scalabrini, maritenuto nella sostanza attendibile: vd. BOCCHI 1974, p.77, nota 199) un «ca-sale» è detto «positum in castello Ferrarie in regione beati Salvatoris»: laregione di S. Salvatore, nella quale si trovava appunto il castello di Ferrara,

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prendeva nome dall’omonima chiesa, già nota verso la metà del X secolo esconsacrata nel XVII secolo, la cui ubicazione è nota (PATITUCCI UGGERI 1982,p.43, nota 61). In due documenti della fine del XII secolo (1194 e 1195:KEHR 1911, pp. 226-227, nn. 1-2) viene invece menzionata la «ecclesia beatiPetri de castro Curialium». La chiesa, intitolata agli Apostoli Pietro e Paolo, èla stessa ricordata nei documenti di X secolo (FRIZZI 1847-1848 II, p. 63) edette nome ad una partizione urbana: è ancora esistente (con orientamentocanonico), nella zona centrale dell’area indiziata. Il fatto che il castello, cosìgenericamente definito nei documenti dell’XI secolo, fosse poi chiamato,alla fine del XII, con l’appellativo di «Curialium», può essere dovuto allanecessità, in quel periodo, di doverlo distinguere da un altro castello, quellofondato dal marchese Tedaldo di Canossa a cavallo del secolo X (BOCCHI

1974, pp. 79-82) e che da lui aveva preso nome. Ancora nel ‘300 tale defini-zione sopravviveva, come documenta Riccobaldo nella sua Chronica (CPF,479, pp. 136-137), nella quale, menzionando i due luoghi più rilevati dellacittà, citava il «castellum Tedaldi» e il «castellum Curtisiorum». Il «castrumCurialium» e il «castellum Curtisiorum», infatti, sono la stessa cosa (BOCCHI

1976, pp.139-140): il nome si riferirebbe ai curtenses, cioè a quei cittadiniliberi tenuti al servizio militare “attivo”, di cui abbiamo specifica menzionenel privilegio imperiale del 1055 (CASTAGNETTI 1985, pp. 45-46).

L’identificazione di un castello nell’area in oggetto sembra comunquenon in discussione: l’incrociato utilizzo delle poche fonti scritte costituisce,di per sé, una prova sufficientemente attendibile. Resta, tuttavia, da provar-ne l’esistenza prima della seconda metà del X secolo e definirne la strutturamateriale: aspetti, questi, che la ricerca archeologica ha ritenuto di poterrisolvere.

Da tempo si è creduto di riconoscere in un lacerto murario rinvenutoin via Coperta 9 (Casa del Capitano) un tratto del castrum bizantino di Fer-rara (UGGERI PATITUCCI 1974, pp. 121-135; PATITUCCI UGGERI 1982, pp. 32-41). Poiché il riferimento è entrato convenzionalmente nella storiografia(BENATI 1988, pp. 112-115), non sarà inopportuno ripercorrere le argomen-tazioni che hanno portato all’identificazione di tale struttura, per verificarese effettivamente le mura dell’altomedievale Ferrara «were built in good-quality brick and reused Roman road slabs in the foundations», come scriveNeil Christie (1989b, p. 278).

La struttura muraria in oggetto, rinvenuta casualmente e successiva-mente indagata con criteri archeologici, è stata messa in luce per una lun-ghezza di m 5,10 (UGGERI PATITUCCI 1974, p. 124) (Fig. 19). Correva rettili-nea con andamento NO-SE ed era costituita da una fondazione che si restrin-geva dall’alto verso il basso, formando due riseghe, composta da un conglo-merato in ciottoli che inglobavano trachiti stradali impiegate a mo’ di para-mento (nella parte più alta) o capovolte (in quella bassa) (Fig. 20): la profon-

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dità della fondazione non è stata raggiunta (Ib. p. 126). Il muro aveva l’alzato(dello spessore di m 1,06, contrariamente alla fondazione che si allargavafino a raggiungere i m 1,35) in opera laterizia (Ib. p. 126). «Il manufatto»,come scrive la Patitucci, «era circondato da materiale di scarico incoerente,che si staccava naturalmente dal muro; era costituito da terriccio, frammentidi mattoni e coppi, ossa di animali, frammenti di ceramica domestica, diceramica graffita ferrarese e altra invetriata rinascimentale» (Ib.). Sulla scor-ta di queste indicazioni sembra difficile datare la struttura in base ai materialiche, in effetti, la stessa autrice non esita ad inserire tra quelli di epoca medie-vale e rinascimentale (Ib. pp. 127-130, figg. 12-13). Gli elementi che induco-no quindi la Patitucci ad ipotizzare che il muro appartenga all’impianto ca-strense alto-medievale sono altri: a) un frammento di vaso in pietra ollarerinvenuto «in strati profondi che inglobavano le fondazioni del muro in que-stione» (Ib. p. 134, il vaso è illustrato alla p. 127, fig. 13a); b) il modulo dellamuratura, cioè l’altezza di cinque filari di mattoni e dei relativi strati di mal-ta, che sarebbe di m 0,375: questo valore viene ritenuto alto sia per l’impiego

Fig. 18 – Ferrara, pianta del castrum rilevata dalla carta catastale al 2000 e i rapporti con ilpiede romano (da BOCCHI 1976, fig. 11).

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Fig. 19 – Ferrara, Casa del Capitano, planimetria dello scavo (da UGGERI PATITUCCI 1974, fig. 8).

Fig. 20 – Ferrara, Casa del Capitano, sezione nord-sud del muro (da UGGERI PATITUCCI 1974,fig. 9).

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di mattoni di grosse dimensioni, sia per il rilevante spessore degli strati dimalta, di ca. cm 2,5, fatto che denuncerebbe «l’età molto tarda della costru-zione rispetto ai moduli tardo antichi»; c) la ricchezza e la cura dell’operamuraria ne tradirebbero la «sua natura monumentale e pubblica»; d) le di-mensioni del muro che «non si giustifica per una costruzione di carattereprivato», «mentre i mattoni uniformi dell’alzato» dimostrerebbero «una pro-duzione laterizia contemporanea e non di recupero di materiale eterogeneodi spoglio come avveniva comunemente nell’Alto Medioevo» e) il reimpiegonelle fondazioni di basole di lastricato stradale: presenza che viene sentitacome «indice già di per sé» di decadenza della compagine stradale (di cui siavrebbe avuto cura fino al VI secolo) e testimonianza dell’esistenza di una viapubblica romana nelle vicinanze. A parte la plausibilità dell’ubicazione topo-grafica dei resti (vd. supra), gli elementi portati a sostegno di tale ipotesisembrano complessivamente piuttosto fragili. La cronologia intorno al VIIsecolo del frammento di vaso in pietra ollare è frutto di una superata cono-scenza delle problematiche connesse con l’utilizzo e la diffusione di questiprodotti, come la dottrina ha sufficientemente dimostrato negli anni succes-sivi all’edizione di scavo: una datazione al VII secolo non è da escludere, macertamente sono da ampliare gli estremi cronologici dell’utilizzo di questirecipienti anche nelle nostre zone (rispetto a quanto discusso in Ib. p. 133vd. GELICHI 1987, pp. 201-213). Le conoscenze sulle tecniche edilizie ferra-resi, anche tardo-medievali, sono ancora piuttosto modeste per verificarel’attendibilità delle affermazioni espresse al punto b): ma lo spessore e lacura che caratterizzano il muro non sono certo elementi distintivi in manieraesclusiva di opere pubbliche né di alta cronologia. È sufficiente un confrontocon le murature della Casa 15 scavata negli anni ’80 in Corso Porta Reno edatata intorno al XII secolo per fugare ogni dubbio (GADD-WARD PERKINS

1991). Anche il modulo dei mattoni, quale viene riportato (m 0,29x0,13x0,5:PATITUCCI UGGERI 1974 p. 126), rientra tra i valori riscontrati sugli esemplaricomunemente in uso nel tardo-medioevo emiliano (ad es. BRUNETTI-DI CAR-LO-PANDOLFI BASSO 1987, p. 226, per Bologna): del resto anche l’ipotesi diuna fabbricazione ad hoc, che è certo plausibile in un’area povera di struttureantiche da saccheggiare, verrebbe a configurarsi come decisamente eccezio-nale in un periodo nel quale la produzione laterizia, pur non scomparendo,sembra essere relegata nell’ambito delle attività minori e part time (MONNERET

DE VILLARD 1919, pp. 21-24). Infine, il problema dei basoli. Qui il legamecon l’antichità (il riuso dopo il VI secolo, ma quando le strutture dovevanoessere ancora a vista) è indubbiamente forte: la strada «romana» di via Gari-baldi (ed i basoli che nel tempo sono stati recuperati in altri siti nella stessaFerrara o nel suo territorio), hanno dato adito a lunghe disquisizioni di carat-tere storico-topografico che non è luogo riprendere. Tuttavia, per lo specifi-co che qui interessa, sarà opportuno chiarire che non è necessario un collega-

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mento cronologicamente consequenziale tra materiale antico in opera e re-cupero: la romanità della stessa via Garibaldi è stata di recente messa indiscussione da opportuni accertamenti archeologici (CORNELIO CASSAI 1995,pp. 158-159); strade sicuramente tardo-medievali in mattoni presentano cor-doli di basoli di trachite (LIBRENTI 1992, p. 28, strada del Periodo II Fase Adello scavo di Piazzetta Castello, databile agli inizi del XIV secolo); il reim-piego di trachiti per sottofondazioni di strutture e pavimentazioni tardo-me-dievali è segnalata in almeno altri otto casi nei recenti cantieri condotti per laGeotermia. È evidente che si tratta di un fenomeno ampiamente diffuso aFerrara, come peraltro era già stato notato (VISSER TRAVAGLI 1987, p. 83;GELICHI 1992a, pp. 18-20, nota 17), che lascia particolarmente sconcertatiper il fatto che la città, come è noto, non ha preesistenze urbane antiche:tuttavia, al di là dei modi e delle fonti di approvvigionamento di questomateriale, tutte da definire, resta innegabile che il suo diffuso utilizzo nellefabbriche tardo-medievali inficia un automatico riferimento a reimpighi di altacronologia. Il muro rinvenuto in via Croce Coperta, dunque, ben difficilmentepotrà essere attribuito al castrum alto-medievale. Né a questo, in maniera au-tomatica, possiamo assegnare «le numerose palafitte, cioè tronchi di rovereappuntiti ad un’estremità», scoperti nel 1966 ancora in via Coperta (UGGERI

PATITUCCI 1974, p. 114, per l’associazione con le mura, come «sostegno dellastruttura», vd. Ib. pp. 136-137). Anche i materiali rinvenuti in quell’occasione,e comunque privi di indicazione di giacitura, non rimandano ad epoca paleo-cristiana, come per taluni si è sostenuto (Ib. nn. 6-7, p. 116). Il recipiente piùintegro, una piccola anfora lunga poco più di 36 centimetri (Ib. fig. 3c-d), èsicuramente un tipo tardo bizantino, databile non prima dell’XI secolo (ARTHUR

1989, p. 91); altri esemplari simili (talora frammentari) sono stati scopertiancora a Ferrara in vari scavi urbani successivi e tutti in contesti non preceden-ti il X secolo (es. Porta Reno, inediti; via Gobetti, materiale residuo in fosse delXIV secolo, in corso di studio). Sia la pietra ollare (UGGERI PATITUCCI 1974, pp.114-115, nn. 1-2, 4-5), che il frammento di macina in talcoscisti a granati (dariconoscere con tutta probabilità in Ib., p. 115, n. 3, fig. 3a), sono tipici deicontesti del pieno medioevo (vd. ad es. BROGIOLO-GELICHI 1986, pp. 314-315;CREMASCHI-GELICHI 1989-90, pp. 94-95).

Se il muro rinvenuto in via Croce Coperta, dunque, non appartiene aduna struttura difensiva alto-medievale (bensì, molto più plausibilmente, adun edifico del tardo-medioevo), vengono a cadere i presupposti archeologiciper datare al VII secolo la costruzione del castello di Ferrara, ipotesi allaquale anche la Bocchi, nonostante avesse ritenuto inattendibile il Biondo comefonte, aveva finito per aderire. Ci sono, tuttavia, alcuni aspetti documentarisu cui verrà la pena di ritornare. Come abbiamo detto l’attestazione del ca-stello è piuttosto tardiva e priva di appellativi: se consideriamo pertinenti iriferimenti nelle cronache veneziane possiamo collocarla nella seconda metà

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del X secolo (959). Verso gli stessi anni datano i riferimenti, in documentiprivati, all’esistenza di un «murus civitatis» (FRIZZI 1847-1848, II, p. 61:SCALABRINI 1773, p. 360): poiché l’ubicazione di questo muro coincide conquella dell’area dove localizziamo il castrum, sembra evidente che la città e ilcastello, almeno in questo periodo, dovevano costituire un tutt’uno. Ciò èanche plausibile: indipendentemente dalla sua origine, il nucleo generatoredell’abitato doveva restare quella zona fortificata a nord del Po che abbiamoprecedentemente indicato (qui, tra l’altro, risiedevano le tre famiglie «mag-giori ferraresi ... tutte e tre di rango ‘capitaneale’, già in rapporto con i Ca-nossa»: CASTAGNETTI 1985, p. 45) e solo successivamente, con l’espansionelungo il fiume a nord e la fondazione della nuova Cattedrale, la città dovetteconfiguararsi diversamente rispetto al centro alto-medievale. Almeno dallaseconda metà del X secolo le fortificazioni dell’abitato (città/castrum) dove-vano essere in muratura, come indicano, con chiarezza, i documenti privatidel 952 e del 990, i quali parlano, in maniera inequivocabile, di un murodella città. Ciò non è in contraddizione con i valori riscontrati nel X secolonell’Italia settentrionale (SETTIA 1984, p. 198, tab. B, 201, tab. D e App. 2),ma questo, ancora una volta, non ci autorizza a retrodatare tale situazione adue secoli prima. Abbiamo precedentemente argomentato la fragilità dellemotivazioni di carattere archeologico portate a supporto della cronologiadelle strutture scoperte in Casa del Capitano e nelle zone limitrofe: non sfug-girà, inoltre, il fatto che dagli scavi in città, peraltro piuttosto numerosi inquesti ultimi anni (per una panoramica aggiornata vd. VISSER TRAVAGLI 1995),non siano stati identificati contesti né recuperati materiali (seppur residui)databili con sicurezza al VII-VIII secolo; e certamente come espressioni direimpiego (medievale o posteriore) devono poi essere considerate le testimo-nianze scultoree tardo-antiche/altomedievali presenti in città, note da tempo(PELÀ 1976; FARIOLI CAMPANATI 1989; EADEM 1991) o segnalate di recente(PORTA 1993, pp. 287-291).

Dunque, per concludere, un castrum fondato dai Bizantini (o, con mag-gior precisione, dall’esarca Smaragdo), agli inizi del secolo VII nell’area checostituirà, questo si, il nucleo generatore dell’abitato di Ferrara, resta ipotesisuggestiva e plausibile, ma non è supportata, al momento, da alcun riscontrodocumentario.

Il caso di Argenta è, per il periodo delle origini, assimilabile a quello diFerrara: che qui l’esarca Smaragdo avesse fatto erigere un castrum ce lo tra-manda il Biondo nello stesso discusso passo di cui abbiamo parlato in prece-denza. Al contrario di Ferrara, la Bocchi ritiene sostanzialmente attendibilel’indicazione (BOCCHI 1976, p. 130) e così anche la Patitucci Uggeri (1983, p.403: vd. anche VASINA 1989, pp. 15-16). Un castrum è ricordato solo neidocumenti a partire dal secolo XI (1034) (VASINA 1967, p. 12 contra IDEM

1992, p. 33, anno 1129): sembra plausibile possa venire identificato con

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quel castrum archiepiscopi menzionato nei documenti successivi (VASINA 1992,p. 33), che resta di incerta localizzazione, anche se non mancano indirettiriferimenti nelle fonti scritte relative all’ubicazione di taluni edifici ecclesia-stici (la chiesa di S. Maria detta in castro e la chiesa, poi pieve, di S. Nicolò,ubicata iuxta castrum: per quest’ultima vd. FANTUZZI 1803, V, pp. 331-336,atto del 1252), documenti che consentono di collocarlo nell’area dell’attualecentro storico (antico borgo della Seliciata: per ultimo BALDI 1992, pp. 15-20). L’identità topografica fra il castello arcivescovile tardomedievale (chedoveva comunque cingere parte dell’abitato) e quello di fondazione bizanti-na, qualora sia esistito, è dunque del tutto ipotetica. Le fonti scritte alto-medievali ricordano, oltre che genericamente il territorio argentano, la pievedi San Giorgio (LPRa XXVII; KEHR 1911, n. 164): la lunga storia architetto-nico-insediativa è stata messa in luce da recenti scavi (GELICHI 1992b). Tra irisultati più interessanti la constatazione dell’esistenza di un edifico di cultoprecedente a quello di fondazione agnelliana (569-570?), che potremmo al-lora interpretare come una ridedicazione.

Tracce di un insediamento di VI-VII secolo sono state individuate escavate nel 1989 in loc. Palmanova, a nord-ovest dell’attuale abitato (BRU-NETTI 1992, pp. 260-270): si tratta probabilmente dei resti di un abitato, dicui purtroppo si conservava un modesto lembo, ma che tuttavia ha restituitouna discreta quantità di ceramiche (anche di importazione: sigillate chiareD), anfore (orientali ed africane), vetri, metalli, che documentano ancorauno stretto ed intenso rapporto economico con la capitale dell’Esarcato.

Generalmente trascurato dagli studiosi, ma degno di essere ripreso inquesta sede, il collegamento tra il toponimo Argenta e il numerus Argentensiumche un papiro ravennate ricorda nel 639 (TJÄDER 1955, n. 26, p. 366). Propo-sto a suo tempo dal Marini (1805, p. 312) ed accettato dal Tjäder (1955, p.472; così ancora BROWN 1984, p. 90), che pensavano ad un corpo militare diformazione locale, tale collegamento è stato rigettato dal Guillou (1969, pp.156-157), il quale ha correttamente identificato il sito di origine di talenumerus con l’antica Argentina (oggi Srebenica), in Bosnia, così chiamata perle miniere d’argento. Si tratterebbe, dunque, di un contingente militare stra-niero presente nella prima metà del VII secolo in territorio ravennate. Ma seArgenta non ha dato nome al contingente, si potrebbe supporre, come giu-stamente ha intuito Vasina (1989, pp. 15-16 contra IDEM 1967, p. 9, dove siripropongono le ipotesi tradizionali), che possa essere avvenuto il contrario.

Come per Ferrara anche per Comacchio la prima attestazione scrittanon risale oltre l’VIII secolo, quando data il famoso Capitolare stipulato tra ilre Longobardo Liutprando e i milites comaclenses per il commercio del sale(per ultimo MONTANARI 1986, pp. 461-475), anche se lo si vuole far risalire aglianni compresi tra il 603 e il 643 (MOR 1977, p. 501). La Patitucci Uggeriretrodata la prima menzione del sito al 708 (PATITUCCI UGGERI 1983, p. 410),

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sulla scorta di un passo dell’epigrafe di un presunto vescovo Vincenzo, dove siricorderebbe l’«ecclesia sancti Cassiani civitatis Comiacli»: ma l’iscrizione è didubbia autenticità e, comunque, di non univoca esegesi (SAMARITANI 1986, pp.16-22). Anche la menzione di un territorio «comaclense», nel quale l’arcive-scovo Aureliano avrebbe fondato (519-521) la chiesa di S. Maria «in Padovetere» (contro la tradizionale interpretazione SAMARITANI 1986, pp. 8-10), comericorda ancora Andrea Agnello (LPRa XXII), non ci conferma dell’esistenza ditale toponimo agli inizi del VI secolo (il protostorico ravennate, infatti, scrivenella prima metà del IX secolo). Il ricordo del castrum non si può far risalire,come è ben noto, che alla metà del VIII secolo (LPRo I, pp. 453-454): incertaè anche la data dell’istituzione della diocesi (per una improbabile retrodazioneal VI secolo vd. SAMARITANI 1990, pp. 1-14).

Indagini archeologiche a Comacchio e nelle zone vicine non hannoancora portato alla scoperta di resti del castrum, ma esclusivamente ad unaserie di aree cimiteriali ed edifici di culto. Alcune tombe, associate a materialidi VI-VII secolo (PATITUCCI UGGERI 1976b, pp. 283-291 e 1986, pp. 271-274), sono state scoperte nel 1975 lungo il tratto di via Mazzini, all’internodell’attuale abitato: sarebbero riferibili ad una necropoli che «a partire dal-l’altezza della Cattedrale di Comacchio» si prolungava «verso nord-ovest finoa metà circa del Corso stesso» (PATITUCCI UGGERI 1986 p. 274). In quell’occa-sione fu registrata anche una sequenza stratigrafica (Ib. p. 273), da cui si puòdedurre esclusivamente lo scarso spessore del deposito antropico (ca. m 1,80)e il fatto che il livelli tardo-antichi ed alto-medievali sarebbero abbastanzasuperficiali. I materiali rinvenuti in quell’occasione (quelli attribuiti alle fasidi VI-VII secolo: Ib. p. 275 e pp. 287-288, figg. 15-21) sono di difficile in-quadramento cronologico. Sono prevalenti le anfore scanalate, anche dipin-te di rosso (Ib. fig. 15) e la ceramica senza rivestimento depurata, con fre-quenti motivi incisi a pettine (un tipo che viene segnalato in altri siti di que-st’area, tanto da essere definito «una costante nei complessi archeologici tar-doantichi e di epoca bizantina del delta padano», Ib. p. 279, ma che non èdocumentato nelle fasi di VI-VII di Argenta, scavo della pieve di S. Giorgio ein loc. Palmanova, PANDOLFI BASSO 1992, pp.123-126 e BRUNETTI 1992, p.264): compaiono anche grezze da fuoco (non dissimile l’articolazione deitipi funzionali rispetto al quadro che va delineandosi nel primo alto-medioe-vo nel contesto geografico padano), recipienti in vetro e pietra ollare. Il com-plesso dei materiali editi dagli scavi d’emergenza di via Mazzini, dunque,non contraddice l’esistenza di una frequentazione tra VI e VII, ma non laprecisa sul versante cronologico né la qualifica sul piano funzionale, al di làdell’ovvia valutazione dell’evidenza funeraria rappresentata dalle sepolture.

Altre sepolture e resti di strutture in muratura sono state poi indivi-duate nel 1925, 1970 e 1975 in valle Raibosola, alla periferia sud-est del-l’abitato (PATITUCCI UGGERI 1986, pp. 274-276): una di queste, nella quale

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era «riconoscibile il muro di un edificio ad andamento curvilineo» (Ib. p.275, fig. 8), può forse identificarsi con la chiesa di S. Mauro, attorno alquale dovette svilupparsi un’area cimiteriale (Ib. p. 285). Robusti pali dirovere piantati verticalmente, rinvenuti sia nei saggi del 1970 (in numerodi tre) davanti alla chiesa di S. Agostino sia in quelli del 1975 (in numero diotto ed ancora tre) (Ib. pp. 275-276), vengono interpretati come pertinentialla fondazione di edifici in muratura (evidentemente spoliati). I materialiscoperti in questa circostanza (Ib. pp. 289-290, figg. 22-25) riproduconosostanzialmente le categorie individuate nei precedenti scavi di via Mazzi-ni, con l’eccezione di un frammento di ceramica invetriata in monocotturadecorato a pasticche irregolarmente disposte sul corpo, associato dalla Pa-titucci ai tipi rinvenuti (e forse prodotti) a Classe (Ib. pp. 276-277), come ilfamoso orciolo dalla tomba 49 di S. Maria in Pado Vetere. Mentre il rap-porto tra l’orciolo della tomba 49 e le ceramiche rinvenute a Classe è effet-tivamente stringente e quasi ovvio per la stretta coincidenza formale e de-corativa (MAIOLI-GELICHI 1992, p. 273), meno convincente sembra il con-fronto fra questi ultimi ed il frammento di Valle Raibosola, non solo per laforma, difficile da definire, ma sopratutto per il tipo e la disposizione deglielementi decorativi. Il nostro frammento, dunque, sembrerebbe meglio ri-ferirsi ad una produzione alto-medievale (IX-X secolo), di cui, nell’areadell’Esarcato e della Pentapoli, non mancano altri esempi (BROGIOLO-GELI-CHI 1992, pp. 29-30). Da Valle Raibosola proviene anche la famosa iscrizio-ne funeraria del nipote dell’esarca Isacio, scoperta casualmente nel XVIIsecolo (sulle modalità e sull’attendibilità del ritrovamento vd. FELLETTI

SPADAZZI 1983, p. 15 e 47) ed ora al Museo Arcivescovile di Ravenna (BOL-LINI 1975, n. 16, pp. 44-45): l’iscrizione si data piuttosto bene al periodo incui Isacio fu esarca, cioè il 625-643. Sebbene non vi sia certezza sull’ubica-zione precisa della lapide (e dunque della sepoltura: ma in linea teorica nonpossiamo escludere che al momento della scoperta l’iscrizione non fossepiù in stretta relazione con il luogo dell’inumazione), sembra comunqueprobabile che la tomba di Gregorio (questo forse era il nome del bambino,secondo la lezione tràdita, poiché attualmente la lapide è lacunosa) sia damettere in relazione con la chiesa di S. Mauro, di cui si è ritenuto di ricono-scere le tracce negli scavi del 1975.

Altri resti archeologici, sempre riferibile principalmente ad edifici diculto, furono scoperti tra il 1921 e il 1935, questa volta in una località anord-ovest dell’abitato, in Valle Ponti (scavi rimasti inediti, pubblicati par-zialmente in PATITUCCI UGGERI 1989, pp. 290-299): particolarmente signifi-cativi alcuni frammenti di scultura alto-medievale (Ib. p. 291-295) e una strut-tura a pianta ottagonale, decorata con crustae marmoree, interpretata corret-tamente come un battistero (Ib. p. 297), intorno alla quale erano alcune se-polture.

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Nonostante l’indubbio incremento delle ricerche in questi ultimi anni,l’archeologia non ha fornito la prova materiale dell’esistenza di questi ca-stra nel VII secolo, né confermato l’indicazione (basata anch’essa su unplausibile ragionamento?) della loro fondazione proprio verso i primi annidel secolo, come risposta all’aggressività longobarda sui confini dell’Esar-cato. Tuttavia le indicazioni archeologiche sono tutt’altro che inutilizzabilia tal fine, e forse, entro certi aspetti, sottovalutate. In un recente contributosulle sepolture di Voghenza (BERTI 1989, p. 88 sulla necropoli vd. ancheEADEM 1992), datate tra VI e VII secolo, la Berti sembra quasi meravigliarsidi «una vivacità di contatti commerciali (quale traspare dai corredi funebrin.d.r.) che parrebbe mitigare l’assunto del declino economico del territo-rio». Il declino cui ci si riferisce è quello dell’antico vicus romano, peraltrodivenuto sede di diocesi almeno dal 649 (PATITUCCI UGGERI 1983, p. 402),anche se avrebbe perso precocemente tale prerogativa a scapito di Ferrara(non prima del 780, però): in ogni caso segni di indubbia vitalità perman-gono ancora in epoca carolingia, periodo al quale è da riferirsi il rinnova-mento nell’arredo liturgico dell’edificio di culto (ora solo plebs?) (PELÀ 1976,pp. 64-65, figg. 18-20). L’area deltizia, che in epoca romana appare zona diinsediamento sparso e scarsamente consistente (UGGERI 1986, p. 181), pocointeressata da fenomeni di carattere poleografico, si presenta, a partire dalprimo alto-medioevo, con caratteri abbastanza diversi e sufficientementeuniformi, zona di concentrazione dell’habitat. Di contro ad una generaliz-zata crisi dell’urbanesimo che, in forme seppure non traumatiche, investedal III secolo anche l’antica Regio VIII (GELICHI 1994c, pp. 568-572), l’areadeltizia è quella che vede sorgere, durante l’alto-medioevo, ben due centriurbani (o con caratteristiche urbane), Ferrara e Comacchio, divenute ambe-due, e ben presto, sedi di diocesi. Ma è tutto quanto questo territorio amostrare, almeno in base alla documentazione archeologica, una discretavitalità insediativa e una certa densità di insediamenti accentrati, databilisoprattutto tra VI-VII secolo: lo testimoniano soprattutto le evidenze dellenecropoli di Motta della Girata (PATITUCCI 1970), di Vaccolino (PATITUCCI

UGGERI 1974), quelle di Valle Ponti (PATITUCCI UGGERI 1976c, passim), senzaconsiderare i centri già citati di Comacchio, Ferrara, Argenta, Voghenza eMassa Fiscaglia (BENATI 1973). Tale densità, se può forse essere imputata aduna casuale ricchezza della documentazione archeologica (o al fatto, peral-tro da tenere in considerazione, che gli scavi nelle necropoli etrusche spine-tiche possono aver incentivato ricerche anche su cimiteri ben più tardi, dicontro a quanto può essere avvenuto in altre zone), è comunque già di persé significativa, soprattutto se paragonata alla scarsa vocazione insediativache queste zone, come abbiamo detto, avevano mostrato in epoca romana.Si potrebbe quindi supporre che tale fenomeno non sia disgiunto da uninteresse specifico che questa area viene ad assumere già a partire dall’età

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tardo-antica e che sembra rafforzarsi nel primo alto-medioevo (CASTAGNET-TI 1985, p. 19): un interesse che potrebbe essere legato, oltre che alle fun-zioni economiche (certo non marginali e sicuramente precoci), a quelle po-litico-militari. Se l’ipotesi di una fondazione di castelli nella prima metà delVII secolo in queste zone resta petizione di principio non ancora dimostra-bile archeologicamente (e vista anche l’assenza di documentazione scrittaprima dei secoli centrali del medioevo), maggiormente credibile appare unaconcentrazione di contingenti militari (meno di formazioni limitanee perl’assenza di specifiche menzioni nelle fonti italiane: GUILLOU 1969, p. 150;BROWN 1984, pp. 101-108) a protezione dei sempre più deboli confini del-l’Esarcato. Noi non abbiamo informazioni circa le modalità di controllomilitare del territorio, quale può essersi realizzato agli inizi del VII secolo(per la formazione dell’exercitus bizantino a Ravenna vd. comunque GUILLOU

1969, pp. 149-163): certo l’ampia disponibilità di terre fiscali (BENATI 1973)potrebbe aver favorito la formazione di comunità di exercitales, secondoun modello che qualche anno fa Benati aveva attribuito a Massafiscaglia. Ditali comunità, ed anche della loro particolare vitalità economica, potrem-mo avere una testimonianza archeologica nei non sempre numerosi, macomunque presenti, doni funebri rinvenuti nelle sepolture (o nelle tipolo-gie dei materiali che hanno restituito gli scavi, vd. ad es. Argenta). Anche lastessa presenza delle offerte e degli oggetti di abbigliamento personale nellesepolture fino a buona parte del VII secolo, la loro incidenza (anche sevariabile da sito a sito), sembrano rimandare ad atteggiamenti culturali nonrilevabili ovunque nella coeva documentazione finora disponibile per lealtre zone dell’Esarcato. Le tracce toponomastiche riferibili a presenze ditruppe potrebbero confortare questa ipotesi: oltre che l’ipotetico numerusArgentensium sopra citato, che potrebbe aver dato origine al toponimo diArgenta, sono da ricordare, sempre in questo territorio, almeno i siti diBando e Filo, derivati forse da bandon l’uno (GUILLOU 1969, p. 151) e datoponimi del tipo Filetto l’altro (presenti sul limes bizantino: BOCCHI 1974,pp. 48-49), a meno che non si voglia pensare, per questi ultimi, a filex, felce(PELLEGRINI 1986, p. 76). Infine non può certo apparire casuale (ancoranella prima metà del VII secolo) la scelta di una chiesa comacchiese, quelladi S. Mauro, quale sede di una sepoltura per il nipote dell’esarca Isacio.

L’ipotesi che le numerose attestazioni di sepolture che l’area deltiziaha restituito per i secoli VI-VII (ma forse anche successivi) siano da riferirealla presenza di contingenti militari, è ovviamente semplicistica: basterebbel’analisi antropologica di alcuni inumati di Voghenza (RASPADORI 1992, p.133) a dimostrarne l’infondatezza. Tuttavia non va neppure sottaciuto il qua-dro culturale che l’area deltizia sembra documentare in questo lasso di tem-po, la cui originalità e ricchezza non deve essere necessariamente riferita soload un precoce controllo dei nuovi flussi economici.

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4. Brento e i castelli emiliani nella Descriptio di Giorgio Ciprio

La Descriptio orbis romani è un’opera frequentemente, anche se con-tradditoriamente, utilizzata da storici, topografi ed archeologi. Di complessae discussa esegesi (GELZER 1890; HONIGMANN 1939), questa sorta di vademe-cum per funzionari dell’amministrazione imperiale (così almeno la intendeCONTI 1975, p. 9, dando ad essa un valore semi-ufficiale), non fornisce altroche un profilo territoriale ed amministrativo dell’impero bizantino attraver-so la scarna enumerazione di una serie di località. Se il periodo in cui vennecompilata (o meglio quello a cui si riferisce) trova consenziente la critica (gliultimi decenni del VI secolo: regno di Tiberio II, 578-582), la scarsa fiduciaattribuita al testo dai primi editori e commentatori (che non vi riconosceva-no un ordinamento logico nell’enumerazione delle località), l’ha resa pocoutilizzabile al fine dell'individuazione dei siti menzionati. Qualche anno faConti, con notevole sforzo, ha tentato di sciogliore l’intricata matassa recu-perando, all’interno di un percorso apparentemente illogico, un filo condut-tore che desse senso all’enumerazione e quindi consentisse di riconoscere,con maggiore certezza, i siti menzionati e spesso ubicati dai commentatori, inbase ai più vari criteri, in zone anche molto distanti tra loro (CONTI 1975, pp.3-26). Se la bontà del procedimento non ha trovato, se non di recente, con-vinti oppositori (vd. infra), l’individuazione dei singoli siti è talora parsa ab-bastanza approssimativa (vd. infra il caso di Brento), quando non dichiarata-mente forzata: questo anche per l’area emiliana, nella quale vengono identi-ficati, non senza perplessità, diversi castelli. L’accurata recente disamina diun caso (quello del Kaéstron Eo\uriéav nell’Eparciéa Ou\rbikariéav), da partedi La Regina (1988, pp. 59-64), che ha convincentemente ricusato tutte leprecedenti identificazioni, compresa quella del Conti (1975, pp. 38-40), pro-ponendo una migliore soluzione, sembra togliere credibilità ad un ordinegeografico nell’enumerazione dei luoghi, almeno nell’Eparciéa Ou\rbikariéav.Se questo fatto, ponendo in serio dubbio la bontà del procedimento adottatodal Conti, induce sicuramente ad una maggiore cautela nell’identificazionedei siti, non autorizza ad estendere il dubbio in maniera frettolosa a tutti icasi, compresi quelli che appaiono sufficientemente sicuri e fondati.

Proprio Bismantova è uno dei castra appenninici, menzionati nellaDescriptio (il Kaéstron Bisimaéntw: CONTI 1975, p. 113), la cui identificazio-ne con un sito nei pressi di Castelnuovo Monti (RE), nonostante qualcherecente perplessità (vd. BOTTAZZI 1993, p. 60; IDEM 1994, p. 17), difficilmen-te non potremmo ritenere accettabile. Si tratta di un rilievo di formazionemiocenica, superioramente spianato per ca. 20 ettari, cui si accede solo daoccidente «tramite due angusti e ripidi sentieri» (CHIERICI 1875, p. 42). Ilcastello dovette cadere in mano longobarda prima del 628 (SCHNEIDER 1924,p. 48, secondo un passo della Vita Sancti Bertulfi su cui vi sono sospetti di

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interpolazione; tradizione seguita da PAVONI 1992, p. 76, ma non accettata daCONTI 1975, p. 113), e, secondo Dall’Aglio, non più tardi della spedizione diAgilulfo del 593 (DALL'AGLIO 1979; IDEM 1986, p. 248 e 254-255): successi-vamente Bismantova sarebbe divenuta, secondo Conti, sede di una iudiciaria(CONTI 1967, pp. 149-150). Nonostante sia stata oggetto di indagini archeo-logiche fin dal secolo scorso (CHIERICI 1875, pp. 42-47), in relazione soprat-tutto all’esistenza di una necropoli di incinerati dell’età del Ferro (CATARSI-DALL'AGLIO 1978), si segnalano pochi e dubbi rinvenimenti che possano esse-re messi sicuramente in relazione con il periodo che ci interessa, all’infuoridell’evidenza numismatica (alcuni aurei bizantini sono segnalati dal Chieri-ci). Del tutto priva di fondamento, o comunque non provata, è infatti l’inter-pretazione che la necropoli di inumati scoperta nel 1863, «nel ripiano postosotto la salita che da Campo Pianelli porta alla Pietra» (e dove verrannorinvenuti diversi cocci ed una punta di lancia l’anno seguente) (CHIERICI 1869;IDEM 1876), sia da riferire all’età gota e bizantina (così in BOTTAZZI 1993, p.48). Ad epoca gota è stata attribuita «una fibbia bronzea ad anello elissoidale»(CHIESI 1989, p. 142), che il Degani dice provenire da Bismantova (DEGANI

1959, p. 37; ripreso da CHIESI 1989, p. 142), benché l’Åberg, pubblicandola,l’avesse genericamente assegnata al territorio della provincia (ÅBERG 1923, p.11) (Fig. 21.1). Edita anche dalla Sturmann Ciccone tra i reperti di prove-nienza indeterminata (1977, p. 23, tav. 14,2 e n. 98, p. 34), la fibbia non ènecessariamente da attribuirsi ad epoca gota (così anche CATARSI DALL'AGLIO

1994, p. 46, tav. XXX, 3), ma potrebbe benissimo appartenere alla fine delVI secolo. Secondo la Catarsi, che recentemente ha provveduto ad una revi-sione dei materiali ritrovati a Bismantova, da questo sito proverrebbe ancheparte di una guarnizione da cintura in bronzo, una controplacca di formatriangolare di VII secolo (Ib. tav. XXX, 2, riproduzione errata: la guarnizio-ne, peraltro già edita da STURMANN CICCONE 1977, p. 22, tav. 16, 4, è statascambiata con un reperto simile da Castellarano, tav. XXXVI, 3) (Fig. 21.2).Insieme a questi oggetti le vetrine del Museo Chierici (n. 51 e 52) conserve-rebbero «diverse fusaiole, due punte di freccia ad alette con codolo a canno-ne, una rotella raggiata in piombo ... e una fibbia in bronzo di tradizionebizantina (VII sec. d.C.) con anello a rientranza ad “8” nel punto di contattocon l’ardiglione» (CATARSI DALL'AGLIO 1994, p. 46): ancora da Bismantovaverrebbe una brocchetta in bronzo, conservata nella vetrina 27 (Ib.). Nel1865 Gaetano Chierici eseguì uno scavo all’interno della Torre del Castellet-to, dove rinvenne un interro di ca. m 1,60 che restituì materiali definiti gene-ricamente medievali (TIRABASSI 1979, p. 173, fig. 141): i pochi oggetti espostinel Museo Civico di Reggio Emilia (sezione Chierici) e che possiamo indutti-vamente supporre provenienti da questo scavo (tra cui anche un recipiente inpietra ollare), appartengono però al pieno medioevo. Nel complesso le risul-tanze archeologiche sono piuttosto modeste. A livello strutturale, benché

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manchino analisi approfondite, non si ha motivo di attribuire ad epoca bi-zantina la Torre del Castelletto, dove gli scavi del Chierici hanno posto inluce una sequenza stratigrafica che in base ai materiali non possiamo datareprima del X-XI secolo. Altri elementi difensivi in muratura non ci risultasiano mai stati segnalati sulla Pietra: per quanto il dato possa essere inficiatoda un approccio archeologico abbastanza casuale (e comunque non finalizza-to all’individuazione delle fasi alto-medievali dell'insediamento), la loro as-senza non desta necessariamente meraviglia. Il sito è in gran parte natural-mente protetto: mura di difesa, se non nella parte maggiormente scoperta,quella ad occidente dove il declivio è più dolce, sarebbero risultate ridondan-ti. Forse un’attenta rilettura dei materiali a più riprese recuperati sul sito(qualora si riesca ancora ad identificarli con certezza), potrebbe fornire indi-cazioni sul tenore dell’occupazione e sulla qualità della «cultura materiale».Già alcuni elementi possono risultare indicativi: la fibbia da cintura, e so-prattutto la controplacca triangolare in bronzo, se provenienti da Bismanto-va, potrebbero datarsi, almeno la seconda, alla fase di occupazione longobar-da. È noto, infatti, come questo tipo di guarnizioni da cintura per la sospen-sione delle armi non sia attestato prima degli inizi del VII secolo (VON HESSEN

1983, pp. 24-27) e risulti estremamente diffuso anche nelle sepolture di epo-

Fig. 21 – Reggio Emilia, Museo Civico:1. fibbia da cintura in bronzo priva di ardiglione (daBismantova?); 2. controplacca in bronzo di guarnizione di cintura (da Bismantova?) (daSTURMANN CICCONE 1977, tav. 14.2 e 16.4).

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ca longobarda dell’area reggiana (STURMANN CICCONE 1977, tavv. 15-16). L’at-tribuzione della necropoli di trenta inumati, individuata il secolo scorso, aquesto periodo, ci sembrerebbe, tra le ipotesi, più plausibile di quella chegenericamente la colloca in età gota o bizantina.

Un altro castello identificato di recente tra quelli citati nella Descriptio(GHIRETTI 1990, pp. 16-26) e per il quale si presentano anche dati di caratte-re archeologico, è un sito nei pressi di Roccamurata nell’alta valle del Taro(PR). In questa località, nel 1984, vennero individuati, su un pianoro ricava-to a ridosso della linea displuviale delle Bratte, i resti di una struttura mura-ria «a secco» che lo chiudeva parzialmente (Ib. p. 17, fig. 7, B) e, più in basso,«una grande cortina muraria situata in una stretta ed allungata fascia pianeg-giante» (Ib. fig. 7 A). Mentre le strutture della parte alta (dello spessore di m0,80), sono state ritenute di non alta cronologia (non escludendo addiritturala possibilità di una loro costruzione in epoca moderna legata all’utilizzo perscopi agricoli del pianoro), le altre, dello spessore di m 2 e identificate peruna lunghezza di almeno 180 metri, terminanti forse in torrette, si è ipotizza-to potessero appartenere ad un sistema di fortificazioni di epoca bizantina.Una lunga, e dotta, discussione, ha portato alla conclusione che in questiresti possa essere identificato quel Kaéstron Kaémpsav ancora una volta cita-to da Giorgio Ciprio (Ib. pp. 21-26), che il Conti aveva ubicato nella val diTaro, ma più a sud-ovest, nell’attuale frazione di Campi (CONTI 1975, pp. 46-48). Le considerazioni di carattere storico-topografico ci sembrano tuttaviapiù convincenti, al momento, delle valutazioni di tipo archeologico, anche sesuggestivamente accreditate dell’esistenza di una vicina necropoli con «tom-be ad inumazione, in fossa ricoperte di lastre di pietra», trovate negli anni’30, talune con corredo, andato ovviamente disperso, ma di cui si serberebbela memoria (GHIRETTI 1990, p. 17, nota 31, fig. 7, C: il corredo sarebbe statocomposto da armi in ferro («sciabole»), bottoni in bronzo ed un anello inbronzo).

Più interessante, sotto il profilo archeologico, è il sito di Monte PietraNera (Ib. pp. 12-13), nel comune di Pellegrino Parmense (PR). Anche se nonidentificabile con nessuno dei castelli menzionati nella Descriptio, la posizio-ne geografica, l’ubicazione in prossimità della «terminatio» di Pertarito (sucui vd. BOGNETTI 1966a, p. 250), i resti di strutture fortificate (per quantomodeste) (GHIRETTI 1990, p. 12, tav. 2) e soprattutto un’associazione di cera-miche e manufatti tardo-antichi (imitazioni di sigillate chiare D, grezze ditipo vacuolare, pietra ollare), possono benissimo essere compatibili con l’esi-stenza di un castello della prima generazione. Se la descrizione degli elementifortificatori, rilevabili non grazie ad un intervento stratigrafico bensì attra-verso una sezione esposta ottenuta tramite uno scavo per il prelievo dellapietra verde (Ib. p. 12), coglie nel giusto, la presenza di un agger tra duefossati potrebbe richiamare alla memoria, non del tutto impropriamente, il

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campo trincerato identificato a Castelvecchio di Filattiera in Lunigiana (CA-BONA et al. 1984, pp. 343-347).

L’ultimo dei castelli menzionati nella Descriptio è il Kaéstron Briéntou.Conti lo identifica con Castel de’ Britti (CONTI 1975, pp. 123-124), una loca-lità a sud-est di Bologna, non distante dalla via Emilia sulle prime propagginicollinari (FOSCHI-RINALDI 1983, p. 258, fig. a p. 257, n. 1). L’erronenità dellaidentificazione è stata, di recente e definitivamente, provata dalla Foschi (1990,p. 166). Castel de’ Britti comparirebbe nella sua più antica, per quanto di-scussa, menzione (un atto di donazione del 776 giunto in una copia del XIIsecolo: TIRABOSCHI 1785, II, n. VIII), come «castrum Gissaro quod diciturBritu»: il fraintendimento deriverebbe dal fatto che questo sarebbe stato iden-tificato con il castello di Brento («castellum quod dicitur Brentum»), menzio-nato nella pseudo-donazione astolfiana al monastero di Nonantola (BRÜEHL

1973, p. 305), mentre in reltà si tratta di due località diverse. Il castello diBrento della pseudo donazione astolfiana è verosimilemente il KaéstronBriéntou ricordato da Giorgio Ciprio, un sito che andrebbe ubicato nellamedia vallata del Savena, nell’attuale comune di Monzuno (CALINDRI 1781,pp. 370-371), dove si conserva tuttora l’antico toponimo, peraltro rimastolessicalmente invariato (Fig. 22). In relazione a questa località, espungendoovviamente la tradizione che la vuole sede episcopale sulla scorta di AndreaAgnello (in un passo verosimilmente corrotto, come ha ribadito BENATI 1972,pp. 565-567), si ricordano tre documenti redatti nel IX secolo. Il primo è unatto dell’831 che menziona un «pago brentense», nel quale era compreso unnon meglio identificato monastero di San Giovanni e Santa Maria (BENASSI

1936, doc. n. II, pp. 4-6). Il secondo, di gran lunga il più importante, è undiploma (conservato in originale a Ferrara) nel quale l’imperatore Guido,dietro richiesta del marchese Adalberto, donava ad un certo Thietelm beni diproprietà fiscale che si trovavano nei pagi appenninici di Monte Cerere,Brento, Gixo e Barbarolo, menzionati anche come castelli («omnem rempublicam que est in pago Monti Celeri et in pago Brento sive in pago Gixoatque in pago Barbarorum et iudiciaria de ipsis quattuor castellis»: SCHIAPARELLI

1906, n. XII, pp. 32-34). Oltre a significare l’indebolimento del potere impe-riale alla fine dell’età carolingia che si esplicita attraverso l’alienazione didiritti pubblici (FOSCHI 1990, p. 169), questo diploma conferma dell’esisten-za di beni fiscali nella zona tra Sillaro e Zena strettamente connessi con ca-stelli, che non possiamo non attribuire (qui è il caso comunque di Brento) alprimo alto-medioevo. Il terzo documento, un placito del conte Guido diModena tenuto nell’898 «in villa que dicitur Quingentas», presso Galliera(MANARESI 1955-60, I, doc. n. 106, p. 389), ricorda, tra i molti notabili pro-venienti dai distretti rurali compresi nei territori di Reggio, Modena e Bolo-gna, anche un «Iohannes de quondam Constantino scavinus di Brento», fattoche, come non ha mancato di rilevare la Foschi (1990, p. 169), «colloca que-

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sta località fra le principali della contea di Modena» (ma sulla «IudicariaMotinensis» menzionata in questo documento vd. le osservazioni di PADOVA-NI 1990).

Il nome Brento è oggi riferito ad una modesta frazione nel comune diMonzuno, in prossimità della quale sopravvive, ad indicare uno sprone che siaffaccia sul Savena (I.G.M. 25000 87-II-SO), il toponimo Monte Castellazzo(BERTACCI et al. 1974, pp. 55-59; sul tipo di toponimo vd. SETTIA 1980, pp.

Fig. 22 – Ubicazione di Brento.

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40-52). Ai piedi del Castellazzo sono visibili le rovine di S. Ansano, una delledue chiese (l’altra era S. Zeno, citata nel 1387 come cappella del castello)esistenti a Brento e dipendenti dalla pieve di S. Ansano del Pino (FANTINI

1971, pp. 137-141): i resti (e la documentazione fotografica anteguerra) at-testano che si tratta di una costruzione di epoca romanica (BERTACCI et al.1974, p. 59). Già il Calindri (1781, p. 370) aveva indicato, a poca distanzadal borgo di Brento, «le rovine, ed avvanzi di un Castello», che però riteneva«dalla figura, dalla qualità de’ materiali, dalla maniera della loro composizio-ne» di epoca non molto antica, «di circa tre o quattro secoli indietro»: egli siriferiva, evidentemente, a quei ruderi che, seppure nascosti dalla vegetazioneo obliterati da successivi colluvi, erano ancora parzialmente visibili nel 1988sullo sprone di Monte Castellazzo. Tale sprone, la cui parte sommitale è alta481 metri sul livello del mare, si può suddividere in tre zone: una ristretta epiù rilevata ad ovest (verso cioè l’attuale abitato), un’area sottostante (disli-vello di circa m 10) lunga meno di cinquanta metri, pressoché pianeggiante,e, dopo un salto repentino, un pianoro della larghezza di 30/35 metri, degra-dante dolcemente verso est per più di duecento metri. Il sito è naturalmenteprotetto a sud e ad est, da uno strapiombo di quasi trecento metri, e a nordda un declivio ripido ed impervio.

Nel 1988 sono stati praticati alcuni sondaggi di scavo (GELICHI in stam-pa) in tutte e tre le zone (Fig. 23). Sul versante est della parte sommitale (areaA) sono venuti alla luce, grazie all’apertura di un saggio con mezzo meccani-co, i resti di una cinta muraria a sacco con paramento in conci di arenaria,parzialmente spoliato, che doveva cingere un probabile ridotto fortificato.Nella zona sottostante (area B), sono stati aperti due saggi. Il primo, a ridos-so del muro meridionale che racchiudeva questa area (struttura messa par-zialmente in luce da precedenti interventi non controllati), ha evidenziatouna stratificazione composta dal crollo del muro stesso e dal disfacimentodell’arenaria sottostante. Il crollo era costituito da pochi elementi strutturali(è probabile che gran parte della struttura sia stata spoliata in antico), tra cuiframmenti fittili (embrici, mattoni, coppi). Il muro, del tipo a sacco compo-sto da schegge di arenaria, presentava un paramento in blocchi dello stessomateriale (quelli angolari erano profilati) ed aveva lo spessore di ca. m 1,10(Fig. 24): nella costruzione sono state rilevate scarse tracce di mattoni, il chefa pensare che quelli, peraltro non numerosi, rinvenuti nel crollo, fosseropertinenti a coperture di edifici addossati all’interno del muro stesso. Nes-sun materiale è stato rinvenuto in questo saggio: la datazione delle struttureresta dunque incerta. Il secondo saggio nell’area B è stato aperto nella zonapianeggiante a ridosso del muro suddetto. In effetti l’indagine ha posto inluce le fondazioni di un muro costituito da ciottoli di fiume, pezzame diarenaria e qualche frammento di mattone, che correva all’incirca parallelo aquello della cinta: per la realizzazione di questa struttura era stato tagliato il

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banco di arenaria, quasi affiorante. L’ipotesi è che si tratti di un edificio, conalzato verosimilmente ligneo, che sfruttava l’appoggio del muro di cinta. Loscarso spessore e la natura del deposito archeologico non hanno facilitatouna lettura della sequenza cronologica di questa struttura: i materiali rinve-

Fig. 23 – Brento (Monzuno, Bologna). Le strutture murarie rinvenute nello scavo.

Fig. 24 – Brento (Monzuno, Bologna). Brento. Prospetti delle murature nell'area B.

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nuti, molto scarsi e minuti, appartengono a vari periodi storici (ingobbiatepost-medievali, ceramiche grezze medievali, frammenti di lucerna di vetro,bottoni sferici in bronzo) e documentano solo la lunga, ma non intensa, fre-quentazione del sito. Un terzo saggio (area C) è stato aperto nella parte ter-minale del terrazzo: qui alcuni resti strutturali, peraltro quasi affioranti, era-no già stati posti in luce da scavi non controllati. L’intervento ha evidenziatoun muro della lunghezza di più di 40 metri, con andamento nord-sud, cheandava a chiudere ad oriente il pianoro (Fig. 25). Questo muro, dello spesso-re di m 1,10-1,20, presentava una torre in posizione centrale di forma pres-soché quadrata (m 6 di lato) (si usa il termine torre anche se, in assenza dialzato, non si è sicuri che queste strutture fossero più alte rispetto al restodella cortina muraria) e due torrette angolari, delle stesse dimensioni mapurtroppo malridotte, dislocate a distanza regolare (m 14) l’una dall’altra.Le torri, aperte sul retro ed ammorsate alla cinta (dunque erette contestual-mente a questa), avevano i muri di spessore maggiore rispetto a quest’ultima(m 1,40) (Fig. 26). La tecnica muraria impiegata per la realizzazione di que-ste strutture era simile, ma non identica, a quella utilizzata nel tratto di cintaidentificato nell’area B. Anche in questa zona i materiali rinvenuti sono scar-sissimi: nell’humus sono stati raccolti piccoli frustuli di “maiolica arcaica”(prevalentemente della Fase Iniziale/Sviluppata), qualche frammento di cera-mica grezza e pietra ollare, che anche in questo caso, oltre ad indicare laprolungata frequentazione del sito, peraltro attestata anche dalle fonti, nonci aiuta a meglio definire la cronologia dell’impianto. Un saggio praticatoall’interno della torretta centrale, la meglio conservata, ha messo in luce, aldi sotto di un deposito formato da terreno colluviale, costituito da arenariadisfatta, un piano d’uso (in fase con la costruzione dell’impianto?) con unfocolare, da cui proviene solo un frammento di ceramica senza rivestimentodepurata, decorato a pettine con motivo ad onda. Il frammento, peraltro ingiacitura primaria (come attestano le fratture a spigolo vivo), potrebbe ancheappartenere ad epoca tardo-antica, quando decorazioni a pettine di questotipo cominciano ad essere diffuse sia nella ceramica fine come in quella grez-za da fuoco. Ma agganciare una cronologia ad un elemento così isolato comeil frammento in oggetto ci sembra eccessivo: in attesa che i carboni del foco-lare, inviati al Centro Enea di Bologna, possano venire analizzati secondo ilmetodo del C14, la datazione di questa struttura deve restare sub iudice.L’elemento caratterizzante di questo muro, cui è evidente la funzione di chiu-sura ad est del pianoro, peraltro naturalmente difeso a sud e a nord, è rap-presentata da questi corpi aggettanti (o torrette) dislocate a distanza regolarel’una dall’altra. Benché questo tipo di strutture sia presente in cinte tardo-antiche/alto-medievali (basti pensare, per tutte, a quella bizantina, recente-mente indagata, di S. Antonino di Perti in Liguria: BONORA et al. 1984, fig. 2),l’ampia diffusione, anche nel pieno e tardo-medioevo (Ib. pp. 220-221), deve

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Fig. 26 – Brento (Monsuno, Bologna). Particolare della torre centrale nel settore C.

Fig. 25 – Brento (Monzuno, Bologna). Resti della struttura muraria scoperta nell'area C.

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indurre a cautela nell’avanzare precipitosi confronti, soprattutto quando, inuna stessa area geografica, nello stesso periodo, vengono adottati modelliestremamente diversi (vd. ancora per la Liguria MANNONI 1984, pp. 191-194). L’indubbia rilevanza strategica del sito, a controllo di uno dei passi trala Toscana e l’Emilia (GOTTARELLI 1992, p. 111-112, fig. 3), e l’incontroverti-bile identificazione di questo, forse con il Kaéstron Briéntou di Giorgio Ciprio,comunque con un castello che le fonti scritte documentano già agli inizi delIX secolo, non deve autorizzarci ad interpretare i resti materiali come appar-tenenti a quel periodo, in ragione anche del fatto che il sito continuò adessere abitato fino al tardo-medioevo. La rilevanza e la tipologia della “cultu-ra materiale”, tuttavia, alla luce anche di quanto abbiamo esposto, può esseredi un qualche interessante significato. Nessuno dei tre saggi ha messo in luceceramica di importazione tardo-antica: i materiali offrono un quadro di “cul-tura materiale” povero quantitativamente e qualitativamente, quasi sempredi ardua datazione. La ceramica grezza, peraltro molto scarsa, sembra riferi-bile a più orizzonti cronologici: un tipo, caratterizzato da fitte solcature sul-l’esterno, è certamente da attribuire alle fasi pieno medievali del sito, maaltri frammenti possono essere assegnati ad una generica epoca romana. Delresto, che la zona fosse frequentata almeno dalla età repubblicana, lo testi-monia un frammento di ceramica vernice nera e, per le epoca successive, unbeccuccio di lucerna frammentario, forse di Firmalampen. Poiché si tratta dimateriali non riferibili a nessun livello insediativo, non è facile attribuire loroun significato ben preciso al di la dell’ovvia constatazione che testimonianoalmeno una sporadica frequentazione del pianoro: frequentazione che divie-ne comunque meno eclatante qualora si pensi all’importante ruolo itinerarioche si attribuisce convincentemente al sito nel quadro delle comunicazionitransappenniniche durante l’epoca antica e medievale (FOSCHI 1992, p. 112).La conformazione geomorfologica del sito e la spoliazione delle strutturehanno sicuramente contribuito alla dispersione dei depositi antropici (l’are-naria è quasi ovunque affiorante): l’assenza in quasi tutti e tre i settori dilivelli di frequentazione può essere dunque in gran parte attribuita a tali fe-nomeni, anche se i modesti accumuli all’interno della torretta centrale nel-l’area C erano formati quasi esclusivamente da lenti di limo sabbioso com-pattato, frutto del disfacimento dell’arenaria, e non, come ci saremmo ancheaspettati, da lenti di deposito antropizzato. Nessuna traccia di strutture abi-tative è emersa nell’indagine sul lungo pianoro, neppure nei punti dove ilmezzo meccanico, mediante un modesto scortecciamento, aveva posto in luceil banco di arenaria sottostante. Anche nell’area B la struttura (abitativa?)emersa sembra databile al tardo-medioevo (in ragione della presenza dei mat-toni nella muratura e dei materiali rinvenuti nelle fasi di abbandono).

In sintesi, qualsiasi datazione vogliamo attribuire alle strutture messein luce nell’area C, il sito di Brento, benché vessato da processi deposizionali

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tipici degli insediamenti di altura (per analoghie situazioni della Liguria vd.MANNONI 1970, pp. 49-64) che possono non poco aver alterato l’originariaconformazione dei depositi antropici, non documenta evidenti tracce di unafrequentazione duratura e stabile lungo i secoli.

5. I Castra Emiliae

«Rex quoque Liutprand castra Emiliae, Feronianum et Montebellium,Buxeta et Persiceta, Bononiam et Pentapolim Auximumque invasit»: così Pao-lo Diacono in un famoso passo (HL VI, 49) nel quale venivano enumerate leconquiste di Liutprando del 727-728. Conquiste, secondo alcuni, defezionisecondo altri, sulla scorta della contemporanea menzione nel Liber Pontificalis(LPRo XVIII, p. 405), molto simile (anche se con alcune varianti rispetto aPaolo), che esplicitamente riferisce «Langobardis ... se tradiderunt»: ma am-bedue potrebbero essere fonti tendenziose, cioè di parte (CAPO 1992, p. 595).Con la caduta di questi castra, e la conquista di Bologna, i Longobardi spez-zavano definitivamente le residue difese bizantine in Emilia.

Due dei castra Emiliae erano già stati citati da Paolo in precedenza, aproposito della fantomatica nona provincia, quella delle Alpi Appennine (HLII, 18: ma vd. infra): citati come civitates, e non come, più correttamente ci siaspetterebbe, castra, a riprova dell’ambivalenza che il termine assume nellefonti longobarde, come abbiamo dimostrato più sopra. Si tratta di Ferronianoe Monteveglio, sulla cui ubicazione, nonostante qualche parere discordante,pare non esistano dubbi. Ferroniano sarebbe da collocare in prossimità del-l’abitato attuale di Pavullo nel Frignano (MO), sull’appennino modenese, inuna delle alture (Monte Obizzo?) a sud del paese (SANTINI 1960, pp. 84-90;IDEM 1979, p. V). Già il Gelzer (1980, p. 98), e poi lo Schneider (1924, p.49), lo avevano identificato con il Kaéstron Eu\reénika della Descriptio diGiorgio Ciprio: identificazione accettata dal Conti (1975, pp. 111-112). Ilrilievo istituzionale e pubblicistico del sito continua ad essere documentatodurante l’alto-medioevo. Una carta del 727 (nota in copia del XII secolo:TORELLI 1921, doc. n. 2) ricorda un «terreturio Feronianensi», nel quale sa-rebbero state ubicate alcune proprietà; successivamente, nel 931, in un placi-to tenuto a Renno, si fa menzione di beni ubicati «infra castro Ferronianense»(DREI 19302, n. 39); Schneider, infine, ricorda che la zona è detta, primapagus, poi, nell’XI secolo, comitatus (SCHNEIDER 1924, p. 49, note 1-2). Perl’ubicazione precisa del castrum, su cui ci si è sbizzariti nel ricercarne l’origi-ne in epoca anteriore all’alto-medioevo (SANTINI 1979, pp. IX-XI), può esseredi un qualche ausilio la documentazione relativa alla pieve di S. Vincenzo, ilcui titolo venne trasferito presso la chiesa di S. Giovanni in Renno nel 1157(VICINI 1931, n. 472; per l’intricato problema vd. MINELLI 1979, pp. 25-52).

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I resti materiali superstiti in loc. Monteobizzo non sembrano risalire oltre ilXIV secolo (potrebbero cioè essere riferibili al periodo di dominazione diObizzo da Montegarullo che tenne il castello fino al 1408) e l’abside dellapieve di S. Vincenzo appartiene ad epoca romanica (terzo-quarto decenniodel XIII secolo: vd. RIGHI GUERZONI 1987, pp. 304-305 per la discussione e labibl.).

Ricerche di superficie condotte nel Frignano, peraltro nella sostanzainedite (soprattutto per la viabilità antica vd. BOTTAZZI 1992, pp. 235-237),non sembrano aver contribuito a risolvere il problema (BOTTAZZI 1993, p.62): le indagini avviate sul Monteobizzo-Monte della Campana «hanno mes-so in evidenza che i livelli rinascimentali mascherano completamente le fasiprecedenti» (Ib.). Ciò è abbastanza plausibile e non deve scoraggiare, confer-mando la scarsa leggibilità del dato archeologico per questi periodi (GELICHI

1991, pp. 13-19), a maggior ragione per le aree montane o appenniniche. Ladocumentazione sembra farsi via via più evidente per il pieno medioevo, siasul versante dei resti monumentali che della “cultura materiale” (BOTTAZZI

1993, p. 62). Resta da chiedersi come questa rilevanza, anche istituzionale,che i distretti appenninici giocano tra VI e VIII secolo (e talvolta anche suc-cessivamente), si traduca sul piano archeologico. Può non essere casuale lapresenza di monete bizantine documentate in loc. Ponte del Diavolo pressoMonzone (tra Pavullo e Lama Mocogno) (BOTTAZZI 1992, p. 236), ma è al-trettanto evidente la scarsa presenza di ceramiche fini (e non solo d’importa-zione) e di anfore negli insediamenti tardo-antichi del Frignano (segnalate ades. a Fontanina di Mulinetto: GELICHI et al. 1986, n. 99, pp. 618-619) oaddirittura l’assenza in quelli, datati tra IV e VII, nella finitima vallata delDragone (MONTI 1993-94). Per quanto a lungo sotto il controllo bizantino,dunque, queste zone (come altre vallate appenniniche emiliane vd. supra),non sembrano affatto risentire, almeno in forma generalizzata, dei beneficiche potevano discendere da un rapporto più stretto con le fonti d’approvvi-gionamento dei prodotti da mensa o dei contenitori da trasporto, ma in ciòsintomaticamente in accordo con quanto rilevato nei coevi territori dellaLiguria interna, castra compresi. In questo territorio, come è noto, alcuniinsediamenti fortificati, come il «Castellaro» dello Zignago (FERRANDO CABO-NA et al. 1978, pp. 340-361) ad esempio, o Monte Castello in Lunigiana(BIAGINI 1991; IDEM 1992 e contra CIAMPOLTRINI 1994, pp. 589-596), sonostati identificati con altrettanti castelli bizantini costruiti a protezione dellimes (anche se alcuni di questi hanno continuato a vivere ben oltre il perio-do alto-medievale). Tuttavia le fasi di VI-VII secolo, per quanto caratterizzateda intensa e rinnovata attività edificatoria, non sono contraddistinte da con-sistenti tracce di occupazione e, sul versante della “cultura materiale”, leceramiche e i manufatti rinvenuti poco o niente testimoniano dei commercimediterranei, invece ampiamente documentati nel coevo, ma costiero, castrum

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di S. Antonino di Perti. Questo fatto, piuttosto che a minimizzare la supposta“bizantinità” di tali castelli, deve indurci a considerare la discrasia tra eviden-za materiale e pertinenza politico-militare come discendente da situazioniterritorialmente diversificate (la “perifericità” di taluni insediamenti non avreb-be certamente favorito i rapporti commerciali). Nel contempo non si deveneppure sottovalutare la possibilità che in questo debba leggersi una dispari-tà di ruoli e di funzioni, che la documentazione scritta, più o meno coeva,avrà teso sicuramente ad appiattire.

Monteveglio è un piccolo abitato presso il Samoggia, non lontano daBologna (SCHNEIDER 1924, p. 50): se l’ubicazione non trova ostacoli di sorta,diversità di opinioni riguardano l’identificazione nell’elenco della Descriptio,dove Schneider lo riconosce in Kaéstron Samourgiéa (Ib. p. 50) mentre Con-ti (1975, pp. 115-116), seppure farraginosamente, in Kaéstron Barakthliéa(e supponendo, dunque, l’esistenza di un pur vicino castrum Samodiae). AMonteveglio restano tracce dell’abbazia, la cui prima attestazione risale al973 (PORTA 1989, p. 11).

Gli altri castelli, Persiceta e Buxo, sono, ancora una volta, ubicabili ab-bastanza facilmente: il primo nel territorio di S. Agata/S. Giovanni in Persice-to (che lo si voglia poi identificare con l’uno o l’altro centro), il secondo,introvabile per lo Schneider (1924, p. 50, nota 3), si localizza nei pressi diBologna (vicino Bazzano: CAPO 1992, p. 595).

Il passo di Paolo diverge dal Liber Pontificalis non solo nell’interpreta-zione del ruolo giocato da questi castelli nei confronti dei Longobardi (ven-nero conquistati/cedettero), ma anche nell’enumerazione delle località, comeha di nuovo posto in evidenza recentemente Bottazzi (1993, p. 59). Nel LiberPontificalis non compare Bologna, contrariamente a Paolo e, in quest’ultimo,non è citato un castrum Verabulum, contrariamente al Liber Pontificalis. Nonvi è identità di vedute anche sull’ubicazione di questo sito: alcuni lo voglionoidentificare con S. Vitale di Carpineti mentre altri con una località scompar-sa, nei pressi di Bologna, non lontano da Crespellano. Il Conti tende a com-plicare ulteriormente la questione, concordando con quanti hanno volutoVerabulum più in prossimità di Bologna (vd. infra), ma ritenendo che pure lazona dove sorge San Vitale di Carpineti fosse stata sede di un castello bizan-tino, il Kaéstron Semaniéa (CONTI 1975, pp. 112-113), di cui peraltro nientesarebbe rimasto a livello toponomastico. La presenza di sculture databili trala metà dell’VIII e il IX secolo (MASINI 1990, pp. 79-84) può essere unabuona indicazione per l’alta cronologia della pieve di San Vitale, ma nonapporta alcun contributo per l’identificazione del sito: casomai ha qualchemaggiore peso la persistenza toponomastica ancora in carte del X secolo(TORELLI 1921, pp. 179-182: diploma del 980) e successive, dove una pievedi S. Vitale «de Verabolo», sembra inequivocabilmente da ubicare nella mon-tagna reggiana. Certo rimane il fatto, indubbiamente curioso, che se Verabulum

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sorgeva nella zona di Carpineti (e se dovremmo preferire la lezione del LiberPontificalis a quella di Paolo diacono), avremmo, come ha giustamente rile-vato Bottazzi (1994, pp. 60-61), un’«isola» bizantina in territorio da tempolongobardo: ma ciò, forse, non sarebbe troppo in distonia con le fonti scritte,la cui ambiguità (o duplicità) potrebbe mascherare il ricordo di un passaggioquasi indolore dei siti che Paolo attribuisce ad una, forse un po’ troppo ana-cronistica, conquista longobarda.

6. I castelli longobardi e bizantini in Emilia: qualche considerazioneconclusiva

È possibile che la documentazione archeologica finora a disposizionesia fuorviante, ma la visibilità dei siti citati nelle fonti come castelli in epocalongobardo-bizantina (o che a questo periodo siano induttivamente attribu-ti) sembra piuttosto modesta.

Alcune localizzazioni sono oramai sicure. Non sappiamo se Ferrara edArgenta siano stati castelli in quel periodo, ma è probabile che lo sia statoalmeno Comacchio, per restare ai siti dell’area deltizia. Se presupponiamo,per questi casi, strutture difensive di legno e terra, sarà ben difficile (o co-munque complesso) recuperarne dei tratti alla conoscenza archeologica. Sel’evidenza materiale di questi (presunti) castelli sarà dunque difficile da co-gliere, è il quadro dell’insediamento rurale nel suo complesso a marcare unnetto cambiamento proprio in questo periodo. È possibile che ciò sia da ri-collegare con una politica volta a controllare meglio i territori a nord diRavenna in un momento che anche le fonti indicano come particolarmenteburrascoso? La “cultura materiale” che emerge da questi territori indica co-munque la presenza di comunità sufficientemente ricche, ancora inserite nelcircuito commerciale e mercantile bizantino.

Alcuni dei castra Emiliae dell’Appennino sono stati identificati con unbuon margine di sicurezza: anche in questi casi, come per quelli il cui ricono-scimento è ancora incerto, l’evidenza materiale risulta scarsa, assente (es.Bismantova) o presumibilmente (o parzialmente) tardiva (es. Brento). Alcunisiti individuati in Val di Taro documentano resti incerti, oppure semplici fos-sati con aggere. Il quadro della “cultura materiale” è, in tutti questi casi,piuttosto modesto, non dissimile da quello riscontrabile nei coevi insedia-menti rurali (e ben diverso da quello rilevato nelle zone a nord di Ravenna).La situazione presenta forti analogie con quanto documentato in Liguria peri castelli bizantini dello Zignago e di Castelvecchio di Filattiera.

Nel complesso si ha l’impressione che l’attività edificatoria operatadai Bizantini sia, in queste aree, piuttosto modesta e molto probabilmenteabbastanza differenziata nella tipologia, nella configurazione planimetrica,

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nella scelta dei materiali da costruzione, delle singole intraprese edilizie. Latendenza ad una generalizzazione, frequente in molti storici ed archeologici,potrebbe essere dovuta, ancora una volta, all'appiattimento terminologicocon il quale le fonti, anche di parte bizantina, qualificano queste strutture. Ilcaso di Brento, l'unico per il quale si disponga di una documentazione ar-cheologica, è, sotto questo profilo, sufficientemente illuminante (anche seuna tardiva rioccupazione, qui come altrove, può avere occultato, o nasco-sto, la documentazione seriore). È possibile (come del resto era avvenutoanche in precedenza), che punti naturalmente difesi (e difendibili), oltrechéstategicamente rilevanti, venissero qualificati, sic et simpliciter, castelli edespletassero una funzione di carattere militare con il costruito ridotto al mi-nimo delle misure di difesa (es. Bismantova) (oppure approntando strutturein legno e terra). L'attività edificatoria promossa direttamente dall'ammini-strazione imperiale, come si ha ragione di supporre (BROWN 1978, pp. 328-329), dovette risultare, almeno in certe zone dall'Appennino, poco intensa e,comunque, ben presto, del tutto ininfluente sul piano politico-militare: e latardiva caduta dei castra Emiliae (come parte dei castelli menzionati nellaDescriptio, ferma restando la giustezza della loro identificazione), sembradimostrare lo scarso interesse che i Longobardi loro attribuivano.

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