1. Chiara con la sua Regola e il suo carisma

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L’articolo (diviso in 2 parti) studia il rapporto tra Chiara d’Assisi e l’autorità della Chiesa, sottolineando, da una parte, l’amore e l’obbedienza di Chiara, sempre consapevole della grandezza della vocazione ricevuta dal grande “Donatore, il Padre delle misericordie”, e dall’altra sottolinea l’atteggiamento di ascolto e di rispetto da parte della Chiesa istituzionale, fino al riconoscimento ufficiale del nuovo carisma.

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CHIARA, CON LA SUA REGOLA E IL SUO CARISMA,

DI FRONTE ALL’AUTORITÀ DELLA CHIESA

Pubblicato in: Forma Sororum, 43 (2006) 236-255; 305-318.

P. CARLO SERRI ofm.

I

Introduzione

Abbiamo da poco celebrato il 750° anniversario della morte di santa

Chiara d’Assisi e dell’approvazione della sua Regola. È stata un’occasione

propizia per riflettere su questioni fondamentali, non solo per la storia e la

spiritualità francescana, ma anche per la fede cristiana e il significato teologico

della Chiesa. La vita di questa Santa travalica i limiti angusti della storia locale,

per assumere una più ampia rilevanza ecclesiale.

Il profilo cristiano di Chiara d’Assisi si staglia limpidamente

sull’orizzonte ecclesiale, e da esso riceve una rilevante profondità teologica.

Non è possibile concepire il valore genuino di un carisma religioso senza

collegarlo alla sua sorgente vitale, che è la fede vissuta e professata dal popolo

dei credenti.

In verità non sono mai mancate, nella storia della cultura, delle letture

riduttive o polemiche della vita religiosa. Talvolta assistiamo ad una

contrapposizione sistematica o pregiudiziale tra intuizione spirituale e istituzione

ecclesiastica. Diventa persino banale ripetere acriticamente schemi ingenui che

contrappongono un profetismo facile ad un clericalismo gretto. La storia è meno

banale ed offre un ventaglio di valori diversi, che vanno considerati in maniera

globale e armonica.

La Chiesa stessa, quando riflette sul carisma della vita religiosa alla luce

della Parola di Dio, manifesta la coscienza di non esaurire il mistero della

propria esistenza nei soli aspetti istituzionali. L’autocomprensione di fede della

Chiesa percepisce con chiarezza che il servizio della gerarchia e il carisma dei

consigli evangelici non si contrastano, ma si armonizzano in un dono di vita.

L’ecclesiologia di comunione, insegnata dal Concilio Vaticano II nella

costituzione dogmatica Lumen Gentium, ce lo attesta ampiamente.

“Lo stato dunque, che è costituito dalla professione dei consigli evangelici, pur non

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appartenendo alla struttura gerarchica della Chiesa, interessa tuttavia indiscutibilmente

alla sua vita e alla sua santità” (LG 44).

Santa Chiara ha avuto un’esperienza spirituale ed ecclesiale molto ricca,

per cui non possiamo, in questa sede, ripercorrere interamente il suo itinerario di

fede. Precisando l’ambito della ricerca, vogliamo solo riflettere sul tema: “santa

Chiara, la sua Regola e il suo carisma di fronte all’autorità ecclesiale”.

L’argomento è avvincente, perché ci spinge all’esame di una questione

oggi molto dibattuta: la valutazione e la conferma ecclesiale dell’esperienza

cristiana di Chiara d’Assisi e dell’ordine religioso che è nato da lei. I santi

rappresentano un modo sempre originale di vivere il Vangelo, nelle condizioni

storiche più disparate. La Chiesa, approvandone la vita, non manifesta un

semplice apprezzamento di convenienza umana. Piuttosto, in un atto di fede

riflessiva, riconosce nella loro vita una parola incarnata, che lo Spirito Santo le

sta rivolgendo: “Chi ha orecchi, ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese” (Ap

2,11).

1. L’orizzonte teologico: la Chiesa e il carisma della vita religiosa

Per trattare in modo ponderato il nostro tema, dobbiamo innanzitutto

tracciare un orizzonte teologico, per cogliere la specificità cristiana della vita

consacrata. Ricordiamo che il Concilio Vaticano II, nel suo magistero

ecclesiologico, ci ha insegnato a collocare la vita religiosa nell’orizzonte del

mistero della Chiesa. Secondo la Lumen Gentium, la vocazione religiosa

sostiene la santità di tutta la Chiesa e attinge alla vita trinitaria, che è la fonte

d’ogni santità:

“Ognuno poi, che è chiamato alla professione dei consigli (evangelici), ponga ogni

cura nel perseverare e maggiormente eccellere nella vocazione a cui Dio l’ha

chiamato, per la più grande santità della Chiesa e per la maggior gloria della Trinità

una e indivisa, la quale in Cristo e per mezzo di Cristo è la fonte e l’origine di ogni

santità” (LG 47).

È interessante osservare come il Concilio, in questo testo, non ponga la

professione dei consigli evangelici in relazione al perfezionamento individuale

dei singoli religiosi. Piuttosto ne evidenzia l’intimo legame con la santità della

Chiesa e con la gloria della Santa Trinità.

Non esiste vocazione religiosa al di fuori della Chiesa, perché ogni

autentica esperienza di Dio contribuisce alla crescita di tutto il corpo di Cristo

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che è la Chiesa. La vocazione religiosa è chiamata di Dio “per la più grande

santità della Chiesa”. C’è un dinamismo di vita trinitaria che anima la Chiesa,

guidandola verso la piena partecipazione alla vita divina. Lo Spirito Santo non è

un sobillatore di sette misteriche di perfetti, ma è l’architetto geniale di un

edificio spirituale che è patria di tutti.

L’eccellenza della vocazione religiosa produce una maggior gloria della

Trinità la quale − nel compimento del mistero di Cristo − trasmette alla Chiesa

la sua santità. Nel linguaggio della Bibbia la gloria di Dio non è risonanza

effimera di grandezze umane. Essa costituisce invece la manifestazione del Dio

santo e salvatore nella storia degli uomini.

In questo orizzonte di storia della salvezza dobbiamo ricordare che santa

Chiara non è un reperto da museo, né una defunta da commemorare. È un

membro vivo del corpo di Cristo, e la sua esperienza evangelica appartiene al

nostro cammino di santificazione sulle vie del Vangelo, all’interno della Chiesa.

La teologia del Nuovo Testamento ci insegna che i carismi, nella Chiesa,

non si agitano in modo selvaggio, ma sono sottoposti alla valutazione sapiente

dell’autorità ecclesiale. Non sono l’apoteosi dell’individualismo, ma il sigillo di

una vita donata nel servizio della comunità. Già san Paolo sottolinea il

necessario legame tra l’effervescenza dei possibili doni dello Spirito e il

necessario discernimento ecclesiale:

“Riguardo ai doni dello Spirito, fratelli, non voglio che restiate nell’ignoranza. Vi sono

[…] diversità di carismi, ma uno solo è lo Spirito; vi sono diversità di ministeri, ma

uno solo è il Signore; vi sono diversità di operazioni, ma uno solo è Dio, che opera

tutto in tutti. E a ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per

l’utilità comune” (1Cor 12,1.4-7).

Paolo sottolinea la provenienza di ogni carisma dallo Spirito Santo, e

riconduce con coerenza ogni dono particolare all’unità e all’edificazione della

Chiesa. Quindi passa a dettare norme pastorali concrete per il retto utilizzo dei

carismi. L’apostolo spiega come devono essere esercitati i vari ministeri e

carismi per il bene della comunità: apostolato, insegnamento, dono delle lingue,

profezia, guarigioni, assistenza, rivelazioni. E ricorda naturalmente che il

carisma più grande è la carità, che rende veri tutti gli altri (cf. 1Cor 13,13). Non

c’è contraddizione tra i carismi personali e l’autorità apostolica. Lo stesso

Spirito che arricchisce un credente con i suoi carismi guida anche la Chiesa al

riconoscimento dei suoi doni. Lo Spirito dunque armonizza la vita e l’azione

della Chiesa e la rende, in Cristo, sacramento di salvezza e santità per tutto il

genere umano (cf. LG 1). La Lumen Gentium dopo aver commentato

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l’insegnamento della lettera ai Corinzi scrive:

“E questi carismi, straordinari o anche più semplici e più largamente diffusi, siccome

sono soprattutto appropriati e utili alle necessità della Chiesa, si devono accogliere con

gratitudine e consolazione. I doni straordinari però non si devono chiedere

temerariamente, né con presunzione si devono da essi sperare i frutti dei lavori

apostolici; ma il giudizio sulla loro genuinità e sul loro esercizio ordinato appartiene a

quelli che presiedono nella Chiesa, ai quali spetta specialmente, non di estinguere lo

Spirito, ma di esaminare tutto e ritenere ciò che è buono” (ivi 12).

Questa unità armoniosa della Chiesa, nella grazia dello Spirito, può essere

compresa solo nell’accoglienza profonda della nostra professione di fede. Nel

terzo articolo del Simbolo Apostolico professiamo di “credere la Chiesa”.

Diciamo “credo in Dio”, ma non diciamo “credo nella Chiesa”, perché la Chiesa

non è Dio. Diciamo invece “credo la Chiesa”, nel contesto dell’articolo del

Credo che tratta dello Spirito Santo, per indicare che crediamo all’azione dello

Spirito nella Chiesa. Crediamo dunque che la Chiesa è animata e assistita dallo

Spirito santificatore, che guida i credenti “alla verità tutta intera” (Gv 16,13).

Lettura teologica dell’esperienza francescana e clariana

Capita, qualche volta, di imbattersi in pubblicazioni che offrono una

lettura teologicamente superficiale dell’esperienza francescana. Ciò non mi

sembra adeguato. Dobbiamo ricordare che la fede professata da qualcuno, come

tutti i suoi valori personali, fa parte della sua storia e dunque non può essere

ignorata dagli studiosi posteriori. Chi vuole studiare imparzialmente la storia

potrà mettere tra parentesi le proprie opzioni filosofiche o religiose per studiare i

fatti con obiettività. Ma non dovrà certo cancellare dalla storia le convinzioni dei

personaggi che studia, solo perché egli non le condivide.

Ad esempio, Palmiro Togliatti era un uomo politico comunista, marxista-

leninista. Uno storico contemporaneo, che non creda al marxismo, non potrà

pretendere di studiare la vita di Togliatti prescindendo dal marxismo, solo

perché lui non ci crede. Il marxismo fa parte della vita concreta di Togliatti; ha

influenzato il suo pensiero e le sue azioni. Dunque se vogliamo capire chi era

Togliatti lo dobbiamo studiare in riferimento a quello che egli credeva! Così non

è possibile studiare san Francesco dimenticando o minimizzando il ruolo che la

fede cattolica ha esercitato nella sua vita.

Questa premessa dogmatica mi sembra importante, per situare il cammino

carismatico di santa Chiara nel naturale ambiente della santità, ossia la fede

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vissuta e professata della Chiesa.

2. L’orizzonte francescano:

“exemplo et doctrina beati Francisci” (RegCh VI,1)

Dopo aver delineato un orizzonte teologico all’esperienza ecclesiale di

Chiara, ne dobbiamo indicare anche uno francescano. Questa affermazione

meraviglierà i non addetti ai lavori, per i quali il legame umano e spirituale tra

san Francesco e santa Chiara può apparire scontato.

Ma chi è più avvezzo agli studi critici comprenderà come sia necessario

motivare non solo una generica sintonia, ma un legame sostanziale ed intrinseco

tra l’esperienza ecclesiale dei due santi assisani. La loro ricerca di Dio è stata

comune, perché suscitata dallo stesso Spirito. Il loro modo di vivere il Vangelo,

sulle orme di Cristo povero e crocifisso, ha condiviso forme e contenuti. La loro

appartenenza ecclesiale ha avuto lo stesso stile di fedeltà ed impegno.

Quando santa Chiara fa memoria della sua esperienza religiosa non manca

mai di testimoniare il ruolo svolto da san Francesco nella nascita e nello

sviluppo della sua vocazione. Nel capitolo VI della sua Regola, che rappresenta

il cuore carismatico di questo testo legislativo, la Santa ricorda, con limpida

gratitudine, il ruolo fondamentale svolto da Francesco nella nascita della

comunità di S. Damiano:

“Dopo che l’altissimo Padre celeste si degnò illuminare l’anima mia mediante la sua

grazia perché, seguendo l’esempio e gli insegnamenti (exemplo et doctrina) del

beatissimo padre nostro Francesco, io facessi penitenza, poco tempo dopo la

conversione di lui, liberamente, insieme con le mie sorelle, gli promisi obbedienza”

(ib.).

Nel tessuto della Regola questo è il nucleo più originale e personale.

Chiara non si limita a collezionare testi normativi, ma fa risuonare l’eco − mai

sopita − dell’incontro che cambiò la sua vita. In Francesco non ha trovato solo

un esempio virtuoso, per quanto affascinante, ma anche una dottrina, cioè un

magistero spirituale1. Infatti Chiara rievoca l’opera di discernimento e le

direttive di vita impartite da Francesco alla nascente comunità damianita,

sintetizzate nei due testi della Forma vivendi e della Ultima voluntas.

La vita di Francesco non è per Chiara solo un ricordo edificante, ma

1 Cf. T. MATURA, François d’Assise “Auteur spirituel”. Le message de ses écrits, Les

Èditions du Cerf, Paris 1966.

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assume una forza obbligante perenne. La forma vivendi ricevuta assurge ad

oggetto di una promessa irrinunciabile: la fedeltà di santa Chiara è rivolta a Dio

e alla volontà di san Francesco.

“Ed io, Chiara, […] pianticella del padre santo, poiché meditavo, assieme alle mie

sorelle, la nostra altissima professione e la volontà di un tale padre, […] del santo

padre nostro Francesco − che ci era colonna e nostra unica consolazione dopo Dio e

sostegno […]” (TestCh 37-38).

I contenuti teologici della fede di Francesco non si limitavano solo alla

confessione trinitaria o alla pratica sacramentale. I suoi convincimenti ebbero

una solida e coerente struttura ecclesiale. Possiamo credere che Chiara fu la

discepola e compagna più fedele di Francesco, anche nella condivisione del suo

schietto radicamento ecclesiale.

3. Francesco e la Chiesa: “Sint catholici” (Rnb XIX,1)

Penso sia importante cogliere e meditare, negli scritti stessi di san

Francesco, questa collocazione totalmente ecclesiale del suo progetto di vita

evangelico. È già significativo il prologo della Regola non bollata, che contiene

una promessa ufficiale di obbedienza al Papa.

“Nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo! Questa è la vita del Vangelo di

Gesù Cristo, che frate Francesco chiese che dal signor papa Innocenzo gli fosse

concessa e confermata. Ed egli la concesse e la confermò per lui e per i suoi frati

presenti e futuri. Frate Francesco e chiunque sarà a capo di questa Religione, prometta

obbedienza e reverenza al signor papa Innocenzo e ai suoi successori. E tutti gli altri

frati siano tenuti ad obbedire a frate Francesco e ai suoi successori” (ivi Prol.,1-4).

Notiamo che Innocenzo III morì nel 1216; quindi possiamo ritenere che

questo testo risalga alla primitiva formulazione della Regola, approvata

oralmente dal Papa negli anni 1209-10, agli inizi dell’avventura minoritica. A

quei tempi certamente il piccolo gruppo di giovani penitenti assisani non doveva

fronteggiare complicate problematiche istituzionali. L’adesione al “signor Papa”

è espressione di una fede semplice e spontanea, che cerca il sigillo ecclesiale ad

un desiderio di vita evangelica sperimentato come dono dello Spirito.

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L’ultimo capitolo della Regola non bollata riprende l’ispirazione iniziale e

la conferma, qualificando il testo legislativo come un progetto di vita stabile e

obbligante.

“E da parte di Dio onnipotente e del signor Papa, e per obbedienza io, frate Francesco,

fermamente comando e ordino che nessuno tolga o aggiunga scritto alcuno a quelle

cose che sono state scritte in questa vita, e che i frati non abbiano un’altra Regola” (ivi

XXIV,4).

Non è banale notare che la ferma ed esclusiva obbedienza alla Regola, che

Francesco impone ai frati, è proposta “da parte di Dio onnipotente e del signor

Papa”. Mi sembra impossibile trascurare l’importanza di queste affermazioni

programmatiche, che si collocano all’inizio della vita minoritica. Per una giusta

considerazione di queste proclamazioni solenni di fedeltà al pontefice è utile uno

sguardo comparativo alle grandi regole monastiche precedenti. Le regole

monastiche classiche, come quelle di Pacomio, di Basilio, di Agostino, di

Benedetto non hanno riferimenti cospicui al vescovo di Roma, essendo state

composte in situazioni ecclesiali profondamente diverse da quella medievale2.

Questo non vuol dire − evidentemente − che queste forme di vita monastica più

antiche non fossero radicate nella comunione ecclesiale. Ma non avevano

bisogno di esplicitare, in maniera normativa, una comunione già profondamente

vissuta nella fede.

È solo nei codici monastici più moderni, generati in un contesto ecclesiale

post-gregoriano, che il ruolo del papato viene progressivamente più accentuato.

Il vincolo con la S. Sede è vissuto molto esplicitamente, ad esempio, dai primi

monaci certosini, dai cistercensi e dagli eremiti carmelitani. A vario titolo e con

peculiarità proprie, tutte queste esperienze monastiche si pongono

programmaticamente “sotto le ali della protezione apostolica”3, come si esprime

l’Exordium Parvum dei primi monaci cistercensi. Ma in nessun’altra Regola, ci

pare, possiamo trovare lo spessore dell’obbedienza diretta contenuta nella

Regola minoritica, che assume la sottomissione al Papa e alla Chiesa romana

nella sua struttura portante.

Mi sembra che Francesco tematizzi ed affermi molto più chiaramente

degli altri fondatori il suo legame di obbedienza verso la Chiesa romana.

2 Cf. G. TURBASSI, Regole monastiche antiche. Studium, Roma 1974.

3 I PADRI CISTERCENSI, Una medesima carità. Gli inizi cistercensi, a cura di A.

AZZIMONTI, Qiqajon, Magnano (BI) 1996, 54; cf. anche I PADRI CERTOSINI, Fratelli nel

deserto. Fonti certosine II. Testi normativi, testimonianze documentarie e letterarie, a cura di

C. FALCHINI, Qiqajon, Magnano (BI) 2000.

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Probabilmente l’affermazione più categorica e tagliente di Francesco è quella

contenuta nel capitolo XIX della Regola non bollata, dal titolo estremamente

significativo: “che i frati vivano cattolicamente” (quod fratres vivant catholice).

“Tutti i frati siano cattolici, vivano e parlino cattolicamente (Omnes fratres sint

catholici, vivant et loquantur catholice). Se qualcuno poi a parole o a fatti si

allontanerà dalla fede e dalla vita cattolica e non se ne sarà emendato, sia espulso

totalmente dalla nostra fraternità. E riteniamo tutti i chierici e tutti i religiosi per

padroni in quelle cose che riguardano la salvezza dell’anima e che non deviano dalla

nostra religione, e veneriamone l’ordine sacro, l’ufficio e il ministero nel Signore” (ivi

XIX,1-4).

Tutti gli studiosi sottolineano che la Regola non bollata presenta una

tonalità più spirituale, libera e profetica; mentre la bollata sarebbe più giuridica

e condizionata dagli interventi della Curia romana. Si dice, di solito, che la

prima conserva più fedelmente il fascino e la spontaneità della primitiva

esperienza francescana. Ebbene: notiamo che proprio in questo testo, più libero

e spontaneo, l’adesione di Francesco alla Chiesa e l’appartenenza

orgogliosamente cattolica hanno un tono più gagliardo. La conformità ecclesiale

riguarda l’essere, il vivere e il parlare, coinvolgendo dunque l’adesione

intellettuale, morale e pastorale nella vita della Chiesa. Francesco è persino

intransigente e intollerante verso i frati che non siano, vivano e parlino da

cattolici. Per chi si allontana “dalla fede e dalla vita cattolica” Francesco impone

senza remissione la totale espulsione dalla fraternità (a nostra fraternitate

penitus expellatur).

Anche la Regola bollata, nondimeno, ripete all’inizio e alla fine il

principio dell’obbedienza al papa Onorio:

“Frate Francesco promette obbedienza e reverenza al signor papa Onorio e ai suoi

successori canonicamente eletti e alla Chiesa romana. E gli altri frati siano tenuti a

obbedire a frate Francesco e ai suoi successori. […]

Inoltre, impongo per obbedienza ai ministri che chiedano al signor Papa uno dei

cardinali della santa Chiesa romana, il quale sia governatore, protettore e correttore di

questa fraternità, affinché, sempre sudditi e soggetti ai piedi della medesima santa

Chiesa, stabili nella fede cattolica, osserviamo la povertà, l’umiltà e il santo Vangelo

del Signore nostro Gesù Cristo, che abbiamo fermamente promesso” (Rb I,2-3; XII,3-

4).

Francesco opera un’inclusione, tra il I e il XII capitolo, incastonando la

sua Regola nell’obbedienza alla Chiesa. Il capitolo XII presenta la grossa novità

del cardinale protettore, che viene richiesto al Papa proprio come garante e

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correttore dell’itinerario di fede cattolica della comunità minoritica. Scompare

invece la normativa così sbrigativamente severa della Regola non bollata, che

prevedeva l’espulsione immediata dall’Ordine dei frati che non vivessero

cattolicamente.

Notiamo che il testo della Regola bollata, quella scritta sotto l’influsso

della Curia romana, è meno esigente, quanto al vivere da cattolici, rispetto alla

precedente Regola non bollata!

Un’altra testimonianza non trascurabile ci deriva dalla Lettera a tutto

l’Ordine, scritta certamente dopo il 1219, che ci fa capire come Francesco

avesse dell’essere cattolico un concetto molto concreto e quotidiano4. In questo

testo, rivolto a tutti i frati, Francesco richiama l’attenzione su alcuni punti

qualificanti della loro professione religiosa: la celebrazione della S. Messa e

dell’Ufficio divino, la venerazione per la Sacra Scrittura, l’osservanza della

Regola.

Per Francesco è frate minore, ed è cattolico, chi osserva queste norme. Il

Santo esprime un giudizio duramente intransigente nei confronti di quei frati che

vengano meno ai doveri connessi con lo stato religioso:

“Quei frati, poi, che non vorranno osservare queste cose, non li ritengo cattolici, né

miei frati; non li voglio neppure vedere né parlare con loro, finché non abbiano fatto

penitenza. Lo stesso dico anche per tutti gli altri che vanno vagando, incuranti della

disciplina della Regola; poiché il Signore nostro Gesù Cristo dette la sua vita per non

venir meno all’obbedienza del Padre santissimo” (LOrd 44-46).

Appare abbastanza chiaro che l’adesione cordiale alla dottrina e alla

disciplina ecclesiale non è per Francesco solo un attributo clericale. È una

dimensione costitutiva della fede cattolica, valida per tutti i credenti. Ce lo rivela

la Lettera ai fedeli, che contiene esortazioni dello stesso genere di quelle rivolte

ai frati:

“Dobbiamo anche digiunare e astenerci dai vizi e dai peccati e da ogni eccesso nel

mangiare e nel bere ed essere cattolici. Dobbiamo anche visitare frequentemente le

chiese e venerare e usare reverenza verso i chierici, non tanto per loro stessi, se sono

peccatori, ma per l’ufficio e l’amministrazione del santissimo corpo e sangue di Cristo,

che sacrificano sull’altare e ricevono e amministrano agli altri” (2LFed 32-33).

4 In questa lettera, come in quella A tutti i chierici sulla riverenza al Corpo del

Signore, troviamo una risonanza al decreto papale Sane cum olim del 22 novembre 1219. In

esso papa Onorio III, applicando i decreti del Concilio Lateranense IV, esortava alla

celebrazione e alla partecipazione devota all’Eucaristia. Cf. C. PAOLAZZI, Lettura degli

“Scritti” di Francesco d’Assisi, Ed. Biblioteca Francescana, Milano 2002, 239-249.

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Mi sembra importante, in un’analisi di questo tipo, tener presente il

criterio dell’attestazione multipla, ossia il fatto che le stesse affermazioni

ricorrano in numerosi testi, diversi tra loro per tempo di composizione e per

genere letterario. L’ultima testimonianza ci deriva dal Testamento di san

Francesco, che rievoca i tempi mitici dell’inizio e nello stesso tempo esorta i

frati ad una fedeltà eroica ai valori irrinunciabili della vocazione minoritica.

Nella ricostruzione degli ideali originari del francescanesimo è difficile

sopravvalutarlo. Certamente è un testo che non risente dell’influenza del

cardinale Ugolino o della Curia romana. È dettato per i frati, dal fondatore ormai

morente, come conferma e incoraggiamento alla fedeltà vocazionale.

La fedeltà alla Chiesa è affermata, se possibile, in maniera ancora più

forte che negli scritti precedenti.

“Poi il Signore mi dette e mi dà una così grande fede nei sacerdoti che vivono secondo

la forma della santa Chiesa Romana, a motivo del loro ordine, che anche se mi

facessero persecuzione, voglio ricorrere proprio a loro. E se io avessi tanta sapienza,

quanta ne ebbe Salomone, e mi incontrassi in sacerdoti poverelli di questo mondo,

nelle parrocchie in cui dimorano, non voglio predicare contro la loro volontà. […]

E tutti gli altri frati siano tenuti a obbedire così ai loro guardiani e a recitare l’ufficio

secondo la Regola. E se si trovassero dei frati che non recitassero l’ufficio secondo la

Regola, e volessero comunque variarlo, o non fossero cattolici, tutti i frati, ovunque

sono, siano tenuti, per obbedienza, ovunque trovassero uno di essi, a consegnarlo al

custode più vicino al luogo ove l’avranno trovato. E il custode sia fermamente tenuto,

per obbedienza, a custodirlo severamente, come un uomo in prigione, giorno e notte,

così che non possa essergli tolto di mano, finché non lo consegni di persona nelle mani

del suo ministro. E il ministro sia fermamente tenuto, per obbedienza, a farlo scortare

per mezzo di tali frati che lo custodiscano giorno e notte come un prigioniero, finché

non lo consegnino al signore di Ostia, [ossia al cardinal protettore] che è signore,

protettore e correttore di tutta la fraternità” (TestF 6-7.30-33).

La vita secondo il santo Vangelo è approvata dal Papa, ed il legame con la

fede cattolica qualifica in modo irrinunciabile la vita francescana. Francesco non

esita a invocare interventi disciplinari coercitivi contro i frati che volessero

distaccarsi da una simile impostazione ecclesiale.

Il volto di Francesco che emerge da queste rampogne appassionate si

concilia a fatica con certe immagini devote, che amano dipingerlo in maniera

delicata e poetica. Per questo qualche autore recente, eccedendo in direzione

opposta, non ha esitato a giudicarlo un uomo intollerante e prepotente, incapace

di dialogare con i confratelli. Evidentemente dobbiamo dire che la personalità di

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Francesco non è riconducibile a schemi di comodo. Quando sono in gioco i

valori capitali della vocazione minoritica, come la povertà, la vita evangelica, o

l’obbedienza alla Chiesa, Francesco sa diventare intransigente.

Possiamo credere che santa Chiara non abbia accolto, insieme a tutti gli

altri insegnamenti di Francesco, anche questo sul legame strettissimo con la

Chiesa?

4. La Chiesa negli Scritti di Chiara

“Suddite e soggette ai piedi della santa Chiesa” (cf. RegCh XII,13)

La Regola di Chiara, approvata appena prima della morte della Santa,

riporta, seguendo lo schema della Regola bollata di Francesco, la promessa

d’obbedienza alla Chiesa, nel primo e nell’ultimo capitolo. La corrispondenza

tra i due testi è palese.

“Chiara indegna serva di Cristo e pianticella del beatissimo padre Francesco, promette

obbedienza e riverenza al signor papa Innocenzo e ai suoi successori, canonicamente

eletti e alla Chiesa Romana. E, come al principio della sua conversione, insieme alle

sue sorelle, promise obbedienza al beato Francesco, così promette di mantenerla

inviolabilmente ai suoi successori. Le altre sorelle siano tenute ad obbedire sempre ai

successori del beato Francesco e a sorella Chiara e alle altre abbadesse, che le

succederanno mediante elezione canonica” (ivi I,3-5).

In questo capitolo inaugurale notiamo l’intrecciarsi di una triplice

obbedienza. Innanzi tutto Chiara si vincola verso il Papa e i suoi successori, e

verso la Chiesa romana. In tal modo si garantisce il radicamento ecclesiale della

comunità.

In secondo luogo Chiara si vincola nei confronti di Francesco e dei futuri

Ministri generali dell’Ordine dei Minori. L’assunzione di questa obbedienza

all’interno della Regola delle sorelle palesa la volontà di stabilire una continuità

tra il rapporto carismatico creatosi all’inizio con Francesco e il legame, ormai

più istituzionalizzato, con l’Ordine minoritico.

Il terzo legame riguarda generalmente tutte le altre sorelle, che si

impegnano all’obbedienza verso i Ministri generali futuri e verso la loro

abbadessa. Non si tratta quindi solo di una sintonia carismatica, suscitata dalle

qualità personali dei fondatori, ma di un’obbedienza istituzionale, dovuta

all’ufficio ecclesiale ricoperto. L’ultimo capitolo della Regola, con sintesi

efficace, raccoglie in un solo sguardo la sequela di Cristo povero, lo stile di vita

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evangelica e la custodia ecclesiale del carisma delle Sorelle Povere. Il cardinal

protettore deputato alla cura dei frati vigilerà anche sulle figlie di santa Chiara.

“Inoltre le sorelle siano fermamente tenute ad avere sempre come governatore,

protettore e correttore, quel cardinale della santa Chiesa romana che sarà stato

assegnato ai frati minori dal signor Papa; affinché suddite sempre e soggette ai piedi

della stessa santa Chiesa, salde nella fede cattolica, osserviamo in perpetuo la povertà

e l’umiltà del Signore nostro Gesù Cristo e della sua santissima Madre, e il santo

Vangelo, come abbiamo fermamente promesso. Amen” (ivi XII,12-13).

Il fatto che Chiara desideri per il suo monastero lo stesso cardinal

protettore assegnato ai frati vuol dire che intende attuare il suo inserimento

ecclesiale nelle stesse forme vissute da Francesco.

Il ruolo del cardinale protettore era nato quando Francesco, al ritorno dalla

Terra Santa, lo chiese al papa Onorio III5. È continuato praticamente fino al

1962, ai tempi del Concilio Vaticano II. Nell’attuale sistema di governo della

Chiesa le competenze, un tempo assegnate al cardinal protettore, sono delegate

dal Papa alla Congregazione per i Religiosi.

“Nell’esercizio del suo supremo, pieno e immediato potere sopra tutta la chiesa, il

romano pontefice si avvale dei dicasteri della curia romana, che perciò compiono il

loro incarico nel nome e nell’autorità di lui, a vantaggio delle chiese e al servizio dei

sacri pastori” (Christus Dominus 9).

Per fare un’attualizzazione che non mi sembra forzata: è come se santa

Chiara dicesse che le sorelle sono tenute ad essere governate, protette e corrette

dalla Congregazione per i Religiosi. Lo stesso legame ecclesiale viene garantito

dal ruolo svolto dal visitatore.

“Il nostro visitatore sia sempre dell’Ordine dei frati minori, secondo la volontà e il

mandato del nostro cardinale. E sia tale che se ne conosca bene l’integrità di vita. Sarà

suo compito correggere, tanto nel capo che nelle membra, le mancanze commesse

contro la forma della nostra professione” (RegCh XII,1-3).

Scopo del visitatore era di tenere desto il rapporto con i frati minori e con

la Chiesa. Mi sembra notevole tuttavia che il visitatore non sia un delegato del

ministro dei frati, ma che sia nominato dal cardinale protettore. È un po’ quello

che avviene oggi per gli Assistenti delle Federazioni delle Clarisse, che vengono

nominati dalla S. Sede, non dai ministri provinciali. Al visitatore è demandata la

5 Cf. GIORDANO DA GIANO, Cronaca 14.

Page 13: 1. Chiara con la sua Regola e il suo carisma

13

custodia e la correzione dell’osservanza della forma di vita, quella ricevuta da

Francesco (cf. ivi VI).

Non si può nemmeno ricondurre a mera formalità burocratica l’esame

diligente che viene prescritto per l’accoglienza delle novizie. Nelle aspiranti si

richiede la risoluta confessione della fede e dei sacramenti della Chiesa, unita

alla ferma volontà di osservarla sino alla fine (cf. ivi II,3-4).

Più che in altri testi però è nel Testamento di Chiara che troviamo la

testimonianza più convincente della sua fiducia nei confronti della Chiesa. Le

parole della Santa ci offrono la memoria appassionata dei primi tempi eroici

della comunità di S. Damiano, e insieme affermano con vibrante impegno la

fedeltà futura alla quale le sorelle si sentono impegnate6. Chiara espone innanzi

tutto il ricordo di un doppio legame passato, che ha caratterizzato gli inizi della

comunità damianita.

“E come io sono stata sempre diligente e sollecita nell’osservare io medesima, e nel

fare osservare la santa povertà, che abbiamo promessa al Signore e al santo padre

nostro Francesco, così le sorelle che succederanno a me in questo ufficio, siano

6 Sul Testamento di Chiara si è svolto un acceso dibattito, provocato dal libro di W.

MALECZEK, Chiara d’Assisi. La questione dell’autenticità del Privilegium paupertatis e del

Testamento, Ed. Biblioteca Francescana, Milano1996. Questo autore ha sostenuto che il

Privilegium Paupertatis sarebbe un falso, fondamentalmente perché la sua redazione non

corrisponde allo stile della cancelleria papale del tempo. Maleczek ne deduce che, se il testo

del Privilegium Paupertatis è falso, sono falsi tutti i documenti che ne parlano. Siccome il

Testamento di Chiara parla del Privilegium Paupertatis lo studioso conclude che anch’esso

sarebbe un falso. Secondo le sue ipotesi questo testo sarebbe nato sicuramente nell’ambito

della riforma delle Clarisse nel periodo dell’Osservanza, cioè nel 1400. Le autrici della

falsificazione del Privilegium e del Testamentum andrebbero cercate tra le clarisse del

monastero di Perugia. Scopo della doppia falsificazione sarebbe stato quello di potersi

liberare di quelle suore che si opponevano alla riforma dei monasteri secondo criteri di

maggiore povertà. Quindi tutti i codici che riportano il Testamento di Chiara, secondo

Maleczek, dovrebbero essere del 1400, quando i monasteri osservanti si stavano riformando.

Abbiamo quattro manoscritti che riportano il Testamento e tutti, come il manoscritto di

Uppsala e quello di Messina, secondo questa tesi, dovrebbero per forza essere stati scritti alla

fine del 1400. Al contrario Attilio Bartoli Langeli ha pubblicato una ricerca di fondamentale

importanza: A. BARTOLI LANGELI, Gli autografi di frate Francesco e di frate Leone, “Corpus

Christianorum, Autographa Medii Aevi” V, Turnhout 2000. Dopo un’eruditissima ed

esaustiva ricerca condotta sul manoscritto di Messina, conclude che esso risale al XIII secolo.

Egli arriva anche a scrivere: “La mia opinione è che il manoscritto messinese sia della mano

di frate Leone” (125). Pare troppo affrettata dunque la certezza con cui alcuni autori ritengono

che il Privilegium Paupertatis e il Testamentum di Chiara (e anche le affermazioni contenute

nella Legenda) siano dei falsi. Lo stesso dicasi per l’asserita esclusione di rapporti tra S.

Damiano e Innocenzo III. Tutta la loro sicurezza pare basata sull’opera citata di Maleczek,

che sembra essere molto discutibile. Cf. anche N. KUSTER, Il “Privilegio della povertà” di

Innocenzo III e il “Testamento” di Chiara: autentici o raffinate falsificazioni?, in Forma

Sororum 36 (1999), 2-15, 82-95, 162-179, 242-257; 37 (2000), 31-44, 109-125, 182-194.

Page 14: 1. Chiara con la sua Regola e il suo carisma

14

obbligate ad osservarla e a farla osservare dalle altre fino alla fine. Ma ancora, per

maggior cautela, mi preoccupai di ricorrere al signor papa Innocenzo, durante il

pontificato del quale ebbe inizio il nostro Ordine (sub cuius tempore coepimus), ed ai

successori di lui, perché confermassero e corroborassero con i loro papali privilegi

(eorum privilegiis facere roborari), la nostra professione della santissima povertà, che

promettemmo al nostro beato padre, affinché mai, in nessun tempo ci allontanassimo

da essa” (TestCh 40-43).

Una nota delle Fonti Francescane (vecchia edizione) vede qui un preciso

riferimento al Privilegio della povertà, che Chiara ottenne una prima volta da

papa Innocenzo III nel luglio del 1216 e che si fece confermare dai suoi

successori. Forse il riferimento non è così ristretto. Il richiamo ai “loro” privilegi

è troppo generale per leggervi un rimando esclusivo al Privilegio della povertà

del 1216. Credo che ci si riferisca, in maniera globale, alle ripetute approvazioni

(formali e informali) e alla protezione offerta da Innocenzo III, e

successivamente dai vari pontefici alla forma di vita condotta a S. Damiano.

Uno di questi interventi positivi (non il solo) è stato il Privilegio della Povertà.

In ogni caso viene qui attestato che il primo Papa che approvò e protesse le

sorelle di S. Damiano fu Innocenzo III. Ma torneremo tra breve su questo

problema. Notiamo intanto che, dalla memoria delle origini, Chiara trae il

coraggio per effettuare un doppio affidamento, che qualificherà il futuro della

comunità:

“Per la quale cosa, piegando le ginocchia e inchinandomi profondamente, anima e

corpo, affido in custodia alla santa madre Chiesa romana, al sommo Pontefice, e

specialmente al signor cardinale che sarà deputato per la Religione dei frati minori e

nostra, tutte le mie sorelle, le presenti e quelle che verranno, perché, per amore di quel

Signore, che povero alla sua nascita fu posto in una greppia, povero visse sulla terra e

nudo rimase sulla croce, abbia cura di far osservare a questo suo piccolo gregge −

questo che l’altissimo Padre (Dominus Pater), per mezzo della parola e dell’esempio

del beato padre nostro Francesco, generò nella sua santa Chiesa, proprio per imitare la

povertà e l’umiltà del suo diletto Figlio e della sua gloriosa Madre vergine −, la santa

povertà, che a Dio e al beato padre nostro Francesco abbiamo promessa, e si degni

ancora di infervorare e conservare le sorelle in detta povertà” (ivi 44-47).

L’affidamento alla Chiesa è scandito in tre passaggi: la santa Chiesa

romana, il Sommo Pontefice e il cardinal protettore. Lo scopo dell’affidamento è

la custodia del carisma proprio del monastero: perpetuare nella Chiesa la vita

povera e umile di Gesù e della sua Madre vergine. È altamente simbolico il

legame spirituale e genetico tra il “piccolo gregge” di S. Damiano e la Chiesa.

Page 15: 1. Chiara con la sua Regola e il suo carisma

15

Chiara si pone tra la maternità di Maria e la maternità della Chiesa. Le damianite

riconoscono nella Chiesa la loro Madre perché Dio Padre le ha generate − per

mezzo di Francesco − nella Chiesa Madre, come generò Gesù nella Vergine

Madre. La maternità ecclesiale deriva dalla fecondità di Dio. Non è una

soggezione giuridica ma un legame genetico. Francesco è strumento

provvidenziale della divina generazione. E come Cristo è nato ed è vissuto

povero con sua Madre, così le sorelle vogliono assumere la sua povertà e

chiedono alla Chiesa di farsene custode.

In parallelo all’affidamento ecclesiale c’è quello all’Ordine dei frati

minori:

“Inoltre, come il Signore donò a noi il beatissimo padre nostro Francesco come

fondatore, piantatore e sostegno nostro nel servizio di Cristo e in quelle cose che

promettemmo a Dio ed al medesimo nostro padre, ed egli, finché visse, ebbe sempre

premurosa cura di coltivare e far crescere noi, sua pianticella, con la parola e con le

opere sue; così io affido le mie sorelle, presenti e future al successore del beato padre

nostro Francesco e ai frati tutti del suo Ordine, perché ci siano d’aiuto a progredire

sempre di più nel bene nel servizio di Dio e soprattutto nell’osservare meglio la

santissima povertà” (ivi 48-51).

Anche questo secondo affidamento ci dimostra che Chiara si colloca

sempre nell’ordine della grazia. Dio donò la paternità di Francesco alle sorelle,

che da lui hanno ricevuto la vita e l’insegnamento. Così adesso le sorelle si

affidano al suo Ordine, per essere fedeli a Dio. È la logica francescana della

restituzione, che impone di riportare a Dio tutti i suoi doni.

Era stato d’altronde lo stesso Francesco, prima che la comunità nascesse,

ad indicare l’orizzonte ecclesiale dell’impegno di santità delle sorelle, gridando

a voce spiegata dal tetto di S. Damiano:

“Venite ed aiutatemi in quest’opera del monastero di San Damiano, perché tra poco

verranno ad abitarlo delle donne, e per la fama e santità della loro vita si renderà gloria

al Padre nostro celeste in tutta la sua santa Chiesa” (ivi 13-14).

Alla fine del Testamento Chiara esorta le sorelle ad impegnarsi nella

fedeltà vocazionale. È cosciente di doverne rendere conto non solo a Dio, ma

anche alla Chiesa celeste e alla Chiesa terrena:

“E perciò noi, che siamo entrate nella via del Signore, guardiamoci di non

abbandonarla mai, per nostra colpa o negligenza o ignoranza. Recheremmo ingiuria a

così grande Signore, alla sua Madre vergine, al beato padre nostro Francesco, a tutta la

Chiesa trionfante ed anche alla Chiesa di quaggiù” (ivi 74-75).

Page 16: 1. Chiara con la sua Regola e il suo carisma

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La via del Signore non costituisce un itinerario da percorrere in modo

individualistico. Della propria vocazione si rende conto anche alla Chiesa.

Tradire la propria vocazione è un’ingiuria a Cristo, alla Madonna, a san

Francesco e alla Chiesa, ossia a tutti coloro che ne sono, a vario titolo, autori e

cooperatori. Nel progetto di vita religiosa delle sorelle povere resta essenziale

questa volontà di rimanere “suddite e soggette ai piedi della santa Chiesa”

(RegCh XII,13), ossia di vivere “secondo la forma della santa Chiesa romana”

(TestF 6), come aveva deciso Francesco.

P. CARLO SERRI ofm.

(continua)

Sacro Ritiro SS. Annunziata

66036 ORSOGNA CH