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— 1 — DIANA TOCCAFONDI SCRIVERE LA STORIA, DECORARE LA CASA: TESTO A FRONTE «Constat igitur artificiosa memoria locis et imaginibus» è scritto nell’Ad Herennium, testo canonico della retorica classica di autore anonimo, a lungo attribuito a Cicerone. L’artificio mnemotecnico che consente al retore di col- locare i contenuti della memoria in uno spazio fisico e, insieme, di tradurli in immagini si trasformerà, negli sviluppi umanistici e rinascimentali, in una macchina complessa fatta di richiami analogico-allegorici in cui la relazione tra memoria, spazio e immagini non avrà più la semplice funzione mnemo- tecnica di richiamare il ricordo ma sarà esaltata fino a fondare un’ardita ar- chitettura di corrispondenze tra logica del mondo e logica della mente, un si- stema universale di simboli, una sorta di clavis universalis che pretenderà di essere, insieme, essenza del mondo e sua chiave di lettura. Molto è stato scritto e detto su questo ‘trionfo della memoria’ dalla metà del Quattrocento alla fine del Cinquecento, dagli studi ormai classi- ci di Frances Yates, Paolo Rossi, Umberto Eco, a quelli, più recenti, di Lina Bolzoni: sono state indagate le complesse macchine retoriche e gli altrettan- to complessi modelli che, proprio a partire da questo tema, fanno da sfondo ad un nuovo linguaggio espressivo e ad una nuova percezione e concezione del mondo e dell’arte. Agli studi di Lina Bolzoni, e in particolare al suo commento all’Idea del Thea- tro di Giulio Camillo Delminio, 1 va il merito di aver dimostrato che quest’arte della memoria nei suoi elaborati sviluppi rinascimentali non è, come talvolta si è stati portati a interpretare – irretiti dalle costruzioni gerarchicamente ordina- te dello stesso Giulio Camillo o di Johann Host von Romberch e del suo Con- gestorium artificiose memorie 2 – una mera arte classificatoria, un gioco chiuso e meccanico di corrispondenze, e neppure una tassonomia pre-scientifica, ma una vera e propria ‘drammaturgia della mente’, una messa in scena teatrale di 1 DELMINIO, L’idea del Theatro; si veda anche BOLZONI, Il teatro della memoria. 2 HOST VON ROMBERCH, Congestorium artificiose memorie.

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Diana ToccafonDi

SCRIVERE LA STORIA, DECORARE LA CASA: TESTO A FRONTE

«Constat igitur artificiosa memoria locis et imaginibus» è scritto nell’Ad Herennium, testo canonico della retorica classica di autore anonimo, a lungo attribuito a Cicerone. L’artificio mnemotecnico che consente al retore di col-locare i contenuti della memoria in uno spazio fisico e, insieme, di tradurli in immagini si trasformerà, negli sviluppi umanistici e rinascimentali, in una macchina complessa fatta di richiami analogico-allegorici in cui la relazione tra memoria, spazio e immagini non avrà più la semplice funzione mnemo-tecnica di richiamare il ricordo ma sarà esaltata fino a fondare un’ardita ar-chitettura di corrispondenze tra logica del mondo e logica della mente, un si-stema universale di simboli, una sorta di clavis universalis che pretenderà di essere, insieme, essenza del mondo e sua chiave di lettura.

Molto è stato scritto e detto su questo ‘trionfo della memoria’ dalla metà del Quattrocento alla fine del Cinquecento, dagli studi ormai classi-ci di Frances Yates, Paolo Rossi, Umberto Eco, a quelli, più recenti, di Lina Bolzoni: sono state indagate le complesse macchine retoriche e gli altrettan-to complessi modelli che, proprio a partire da questo tema, fanno da sfondo ad un nuovo linguaggio espressivo e ad una nuova percezione e concezione del mondo e dell’arte.

Agli studi di Lina Bolzoni, e in particolare al suo commento all’Idea del Thea- tro di Giulio Camillo Delminio,1 va il merito di aver dimostrato che quest’arte della memoria nei suoi elaborati sviluppi rinascimentali non è, come talvolta si è stati portati a interpretare – irretiti dalle costruzioni gerarchicamente ordina-te dello stesso Giulio Camillo o di Johann Host von Romberch e del suo Con-gestorium artificiose memorie 2 – una mera arte classificatoria, un gioco chiuso e meccanico di corrispondenze, e neppure una tassonomia pre-scientifica, ma una vera e propria ‘drammaturgia della mente’, una messa in scena teatrale di

1 Delminio, L’idea del Theatro; si veda anche Bolzoni, Il teatro della memoria.2 HosT von RomBeRcH, Congestorium artificiose memorie.

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grande suggestione che fa riferimento, con le sue elaborate invenzioni figura-tive, tanto alla ragione quanto al sentimento, tanto all’etica quanto all’estetica.

Negli stessi anni in cui Giulio Camillo Delminio progettava e forse co-struiva materialmente il suo teatro della memoria, rappresentazione del sape-re universale come ars memoriae sul modello architettonico-spaziale di un te-atro vitruviano, macchina meravigliosa articolata in scansie divise in gradinate orizzontali intervallate da ordini verticali, dentro la quale trovava collocazione un apparato di immagini mitologiche e astrologiche variamente combinabi-li in arcane correlazioni, Giorgio Vasari visitava a Venezia l’amico Pietro Are-tino e per lui, nella Sala dei Sempiterni, allestiva la scena de La Talanta, di-segnando una scenografia probabilmente ispirata allo stesso Giulio Camillo.

Rapporti diretti e amichevoli tra l’Aretino e Giulio Camillo sono attesta-ti in alcune lettere, tra le quali assume particolare rilievo quella inviata a Do-menico Bolani il 27 ottobre 1537 in cui l’Aretino, nel descrivere la sua abi-tazione veneziana e la vista che da essa si apprezzava, riporta una singolare opinione del Camillo che in qualche modo conferma – su un piano del tut-to domestico e amicale – la condivisione fra i due di una stessa tendenza alla metaforizzazione dello spazio:

[...] come vedemmmo io e il famoso Giulio Camillo [...] la cui piacevolezza mi suol dire che l’entrata per terra di sì fatta abitazione, per essere oscura, mal destra e di scala bestiale, simiglia alla terribilità del nome acquistatomi ne lo sciorinar del vero; poi soggiugne: chi mi pratica punto, trova ne la mia pura, schietta e naturale amici-zia quella tranquilla contezza che si sente nel comparir del portico e ne l’affacciar-si ai balconi sopra detti.3

Credo si possa ragionevolmente sostenere l’ipotesi che anche Vasari co-noscesse la figura e l’opera del Camillo, dal momento che nelle Vite racconta che durante il suo primo soggiorno romano anche Giulio Camillo si trovava a Roma e che aveva fatto «tutto storiare» all’amico e compagno del Vasari, Francesco Salviati, «un libro di sue composizioni per mandarlo al re Fran-cesco di Francia».4

Dell’allestimento de La Talanta per il Carnevale 1542 egli parlerà, com’è noto, sia nell’autobiografia 5 che, più distesamente, nelle Ricordanze, dove si

3 aReTino, Lettere, 1960, p. 265.4 «Avendo ne’ medesimi tempi Giulio Camillo, che allora si trovava a Roma, fatto un libro di

sue composizioni per mandarlo al re Francesco di Francia, lo fece tutto storiare a Francesco Sal-viati, che vi mise quanta più diligenza è possibile mettere in simile opera»: vasaRi, Le Vite, ed. Le Opere, 1878-1885, VII, 1881, pp. 15-16.

5 Ivi, p. 670.

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descrive anche qualche dettaglio dell’apparato: sul soffitto, partito in quat-tro quadri, erano dipinti – attraverso richiami mitologici – l’Aurora, il Gior-no, la Sera e la Notte e, «in 24 quadri le XXIIII Ore»; sulle pareti erano in-vece raffigurate «dodici virtù et otto storie grandi, con tutt’e fiumi et i monti figurati di quel paese».6

Ma è nella lettera inviata a Ottaviano de’ Medici, conservata in copia di mano di Giorgio Vasari il Giovane nel codice Riccardiano 2354, che l’appa-rato allestito a Venezia viene descritto da Vasari con dovizia di particolari. Ambientata in una grande sala, su una scenografia che richiamava l’antica Roma e i suoi maggiori monumenti, illuminata da «un sole, che camminan-do, mentre si recitava, faceva un grandissimo lume», così si presentava «l’in-venzione», secondo quanto scritto nella lettera, di cui riportiamo i brani sa-lienti:

[...] era il cielo di tutta la stanza fatto di legniame, intagliato e spartito in quattro grandissimi quadri, con quattro storie grandi. In una era la Notte, nell’altra l’Auro-ra, nell’altra il Giorno, e nell’ultima era la Sera. [...] Fra i quattro quadri, come io dissi, vi erano figurate l’Ore, le quali il Tempo in un quadro spartiva in 24; [...] sot-to i quattro quadri vi erano nelle facciate quattro quadroni per banda e tramezzati da termini; [...] I termini, erano doppi e avevano nel mezzo una nicchia, nelle quali erano certe Virtù, e poi le storie; [...] Nella prima nicchia era una Prudenza con due faccie, una di vecchio, l’altra di giovane, con una spera, mostrandovisi drento; [...] Dirimpetto vi era la Iustizia, con una spada, e le Pandette aperte, con abito soccinta e sciolta, come si vede usarsi; [...] Sotto la Iustizia vi era la Religione in un’altra nic-chia, la quale aveva a’ piedi il Testamento Vecchio e in mano il Testamento Nuovo, tenendo aperte le pistole di San Pauolo e mostrando la cronaca di San Iacopo, con accennare a una croce, che era sul regno del papa; [...] Dirimpetto a questa vi era una Fama, con un piede in terra e l’altro in aria; posata con l’altro, cioè con quello di terra, in sur un mondo in moto, sonando due trombe con una bocca medesima: d’una usciva fuoco per il male, e l’altra gettava fuori uno splendore per il bene; [...]

6 MCVA, Archivio Vasari, Ricordanze, c. 11: «Ricordo come a dì 22 di dicembre 1541 io presi a fare in Venezia da e compagni di Calza gentiluomini veneziani uno apparato d’una conmedia, la quale avea composta Messer Pietro Aretino, la quale si debbe recitare in Canal Regio e con questi patti, condizioni ci[o]è che io sia obligato farvi un soffittato de quattro quadri grandi di tela bozati a olio, drentovi in uno l’aurora col carro e Titone, nell’altro il giorno col carro di Fetonte quando e’ cade in Po; e nel terzo Icaro quando Dedalo gl’insegnia a volare e nel quarto il carro della Not-te, e di più in 24 quadri le XXIIII Ore. Sotto nelle pariete di detto aparato dodici virtù et otto sto-rie grandi con tutt e’ fiumi et i monti figurati di quel paese, tutti lavorati di chiaro e scuro; e di più ch’io dovessi fare la prospettiva di detta Conmedia o sciena tutta a spese loro e che io avessi cura della architettura di detta sciena et aparato e perciò dovessi disegniare e lavorare di mia mano fino a che la fussi condotta come più apertamente mostra una scritta fatta loro di mia mano di tale ob-bligazione. E loro mi promettono per detta opera pagare fino che sia finita scudi 300 d’oro di mo-neta viniziana e perciò mi derono per il primo pagamento scudi cento contanti. Apresso pagorono il restante che sono a conto mio a entrata al libro di Francesco Lioni, scudi 300».

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Sotto la Fama stava la Fortuna, con aspetto fiero, mezza nuda et aveva nella destra uno scettro e nell’altra una gonfiata vela, tenendo il crine innanzi, sparso all’aria e sedeva sur una ruota, la quale era posata sur un dalfino [...].7

L’importanza dell’esperienza veneziana è nota e abbondantemente ri-chiamata dagli studiosi di Vasari.8 Interessa però qui rimarcare due aspetti, che hanno a che fare più direttamente con l’apparato decorativo della Casa Vasari di Arezzo.

In primo luogo si noterà che ben quattro delle cinque allegorie descritte nella missiva ad Ottaviano de’ Medici coincidono quasi alla lettera, nel tema e nelle modalità di raffigurazione, con quelle che vediamo rappresentate in Casa Vasari (Prudenza, Giustizia, Fama e Fortuna). In particolare, nella came-ra della Fama (Fig. 1), dipinta – stando alle Ricordanze – tra l’agosto e il set-tembre 1542, quindi subito dopo il ritorno da Venezia, vediamo «una Fama, che siede sopra la palla del mondo e suona una tromba d’oro, gettandone via una di fuoco, finta per la maledicenza» (così lo stesso Vasari la descriverà nell’autobiografia); 9 nella Sala del Trionfo della Virtù, dipinta invece nell’e-state 1548, ritroviamo – con tratti molto simili alla scenografia veneziana – la Prudenza e la Giustizia, e, nel soffitto, la Fortuna (allegorie peraltro ripetute da Vasari anche in altre sedi, come a Napoli, nella Sala della Cancelleria, ecc.).

In secondo luogo possiamo osservare che quella allestita a Venezia appare come una sorta di ‘scenografia allegorica totale’ orientata al centro della stan-za, dove probabilmente si svolgeva l’azione, scandita su un ritmo quadripar-tito (quattro quadri, quattro storie, quattro quadri per facciata, ecc.), e forte-mente segnata da riferimenti allegorici di tipo temporale (il Sole, il Tempo, le Ore, le parti del giorno: tematica molto in voga durante tutto il Cinquecento soprattutto in ambito mediceo e che Vasari svilupperà anche successivamen-te, in particolare nel Quartiere degli elementi in Palazzo Vecchio). In modo del tutto analogo, anche per la Sala del Trionfo della Virtù possiamo parlare di

7 La lettera è conservata in BRF, Manoscritto n. 2354, cc. 62-66, insieme ad altre copie di let-tere di Giorgio Vasari di mano di Giorgio Vasari il Giovane. Sul ruolo di quest’ultimo nell’opera di conservazione e organizzazione dell’archivio Vasari (di cui occorre tener conto nel valutare l’affida-bilità della fonte) si veda, in questo volume, il saggio di Paola Benigni. La lettera non ha data e di-verse sono state le datazioni proposte dai curatori delle diverse edizioni dei carteggi vasariani: essa compare senza data in vasaRi, Le opere di Giorgio Vasari, 1832-1838, II, pp. 1460-1462; viene attri-buita all’anno 1542 in vasaRi, Le Opere, 1906, VIII, pp. 283-287; viene datata 22 febbraio 1542 in fRey, Il carteggio, 1923, pp. 111-119; mentre nella versione elettronica dell’edizione di Frey curata dalla Fondazione Memofonte con revisioni e aggiornamenti viene proposta la data del 30 novem-bre 1542: http://www.memofonte.it/autori/carteggio-vasariano-1532-1574.html.

8 scHulz, Vasari at Venice; per quanto riguarda in particolare le ricadute dell’esperienza vene-ziana sulle due Case Vasari si veda De GeRolami cHeney, The homes of Giorgio Vasari.

9 vasaRi, Le Vite, ed. Le Opere, 1878-1885, VII, 1881, p. 671.

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scenografia allegorica totale orientata al centro, e vi ritroviamo lo stesso ritmo quadripartito: quattro stagioni, quattro età dell’uomo; otto divinità che sovrin-tendono allo zodiaco; quattro putti che sorreggono lo stemma Vasari sul soffit-to; quattro figure allegoriche; quattro vedute di città, otto Virtù (Figg. 3 e 4).

Nella sua autobiografia Vasari descrive minutamente, e con compiaci-mento, la decorazione della Sala del Trionfo della Virtù, sottolineando in particolare come la posizione delle figure dipinte nel grande ottagono al cen-tro del soffitto ligneo (Fortuna, Virtù e Invidia) cambi a seconda dei punti di vista da cui si pone l’osservatore (Fig. 2):

[...] nondimeno per allora non feci altro che il palco della sala, il quale è assai ric-co di legnami, con tredici quadri grandi, dove sono gli Dei celesti, ed in quattro an-goli i quattro tempi dell’anno, ignudi, i quali stanno a vedere un gran quadro che è in mezzo, dentro al quale sono, in figure grandi quanto il vivo, la Virtù che ha sot-to i piedi l’Invidia e, presa la Fortuna pe’ capelli, bastona l’una e l’altra; e quello che molto allora piacque si fu che, in girando la sala attorno, et essendo in mezzo la For-tuna, viene talvolta l’Invidia a esser sopra essa Fortuna e Virtù, e d’altra parte la Vir-tù sopra l’Invidia e Fortuna, sì come si vede che avviene spesse volte veramente.10

Al di là del significato morale (quello dei rapporti tra Fortuna e Virtù è tema ricorrente in molta letteratura sia classica che rinascimentale), ciò che ri-salta in questa scenografia totale che ancor oggi avvolge e affascina il visitato-re è, per l’appunto, l’analogia con l’oratore-spettatore di Giulio Camillo Del-minio, che non sta non in platea ma al centro della scena del suo ‘teatro della memoria’ e, cambiando la sua posizione, riconfigura l’universo che gli ruota attorno. Se tradizionalmente la fuga prospettica della scenografia teatrale par-tiva dall’occhio dell’attore posto sulla scena (come nel caso del grande teatro di legno costruito dal Serlio, nel 1539, a Vicenza), in questa nuova architettu-ra scenica – con cui evidentemente l’artista sottintende e dichiara una nuova visione della vita e dell’arte – è l’occhio dello spettatore/visitatore/artista che può configurare diversamente i rapporti con la realtà, il tempo, la storia, l’ar-te, cambiando il suo punto di osservazione, proiettandosi sull’insieme delle immagini ordinatamente disposte intorno a lui secondo simmetrie che posso-no essere variamente combinate, a seconda che si leggano per opposte coppie simmetriche oppure in sequenza, sia in orizzontale che in verticale.

La casa comincia così ad apparire una sorta di ‘teatro della memoria’, un teatro ben disegnato e strutturato, fortemente rivelatore del carattere e delle idee del Vasari e, come vedremo, altrettanto fortemente legato ai suoi

10 Ivi, p. 696.

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scritti, alle sue carte e al suo modo di intendere il rapporto con l’arte e con la storia.11

Per trovare conferma di questo dobbiamo ancora una volta tornare a Ve-nezia, dove Vasari nel corso del suo soggiorno nota (e lo dirà nelle Vite, al ca-pitolo dedicato a Jacopo, Giovanni e Gentile Bellini) che, grazie soprattutto alla grande produzione di Giovanni Bellini come ritrattista,

in tutte le case di Vinezia sono molti ritratti, ed in molte de’ gentiluomini si veggiono gli avi e padri loro insino in quarta generazione, ed in alcune più nobili molto più ol-tre: usanza, certo, che è stata sempre lodevolissima, eziandio appresso gli antichi. E chi non sente infinito piacere e contento, oltre l’orrevolezza ed ornamento che fanno, in vedere l’imagini de’ suoi maggiori; e massimamente se per i governi delle repubbliche, per opere egregie fatte in guerra ed in pace, e per lettere, o per altra notabile e segna-lata virtù, sono stati chiari ed illustri? Ed a che altro fine, come si è detto in altro luo-go, ponevano gli antichi le imagini degli uomini grandi ne’ luoghi pubblici con onorate inscrizioni, che per accendere gli animi di coloro che venivano, alla virtù e alla gloria? 12

La storia intesa come storia di virtù incarnate dai personaggi illustri e dalle loro vite, e la forza ispiratrice dei ritratti sono temi a cui Vasari è già personal-mente sensibile ma che trovano ulteriore alimento nel suo rapporto con Paolo Giovio, suo protettore (è lui che lo raccomanda al Cardinal Farnese nel 1543), suo ispiratore, per l’iconografia e le iscrizioni, negli affreschi del Palazzo della Cancelleria a Roma nel 1546, in cui tanta parte avrà il tema del rapporto tra pre-sente e passato, tra antichi e moderni, ma soprattutto – come rivela il carteggio e come conferma l’autobiografia – alle origini del progetto vasariano delle Vite.

A questo proposito va sottolineato che Vasari, nel riferire la conversazio-ne avvenuta tra lui e alcuni dotti a Palazzo Farnese nel 1546, conversazione da cui prenderà le mosse la sua attività di storico e scrittore, riporta che l’i-dea nacque quando

si venne a ragionare, una sera fra l’altre, del Museo del Giovio, e de’ ritratti degl’uo-mini illustri che in quello ha posti con ordine ed iscrizioni bellissime; e passando d’u-na cosa in altra, come si fa ragionando, disse monsignor Giovio avere avuto sempre gran voglia, ed averla ancora, d’aggiugnere al Museo et al suo libro degli Elogi un Trattato, nel quale si ragionasse degl’uomini illustri nell’arte del disegno, stati da Ci-mabue insino a’ tempi nostri.13

Dunque, il progetto delle Vite nasce da una singolare esperienza musea-le: il ‘museo personale’ allestito da Giovio nella sua villa a Borgovico sul lago

11 THomas, Casa Vasari in Arezzo.12 vasaRi, Le Vite, ed. Le Opere, 1878-1885, III, 1878, pp. 168-169.13 Ivi, VII, 1881, p. 681.

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di Como come un grande encomio alla storia, con affreschi raffiguranti Apol-lo, Minerva e le Muse (e in Casa Vasari ritroveremo la camera di Apollo e del-le Muse), ma soprattutto con una imponente collezione di ritratti che invitava-no a far memoria dei personaggi che avevano illustrato la storia e l’arte con le loro azioni. La creazione gioviana, frutto insieme della volontà del proprietario-organizzatore di costruire un tempio della virtù, un accompagnamento visivo e architettonico alla storia, un supporto allo status e alla fama del proprietario e un luogo di istruzione per gli artisti, a detta dello stesso Giovio mancava però di una versione scritturale che non fosse una mera descrizione o un elogio, ma una vera e propria ‘storia’ degli artisti illustri che costituisse il necessario completa-mento della galleria, depositando sulla carta quel patrimonio di informazioni e conoscenze che l’iconografia e l’architettura museale non potevano esprimere.

Questo rapporto tra storia scritta e rappresentazione scenico-architetto-nica (ma anche musealizzazione) è rintracciabile anche in Casa Vasari, decli-nato in più registri: dal registro delle genealogie imitative, a quello del mu-seo personale, a quello della messa in scena prospettica della storia dell’arte. Questi registri, in cui convivono e si mescolano, nelle loro diverse sfumatu-re, i due aspetti della memoria personale e della rappresentazione/elabora-zione storica, intrattengono con il dominio della storia e della sua scrittura relazioni significative.

Vediamo prima il registro delle genealogie imitative: negli ovali nella Ca-mera della Fama (Fig. 5), già preparati a questo scopo nel 1542 ma, a quan-to sembra, dipinti intorno al 1568 in concomitanza con la seconda edizione delle Vite di cui ripetono i modelli, sono contenuti i ritratti di Lazzaro Vasa-ri, bisnonno dell’artista, Luca Signorelli, Spinello Aretino, Bartolomeo della Gatta, Michelangelo, Andrea del Sarto e di Vasari stesso (Figg. 6 e 7). Si trat-ta di artisti di provenienza o ambito aretino, figure legate a Vasari da vincoli familiari, amicali, oltre che da ‘genealogia’ artistica (i maestri).

È con tutta evidenza una scelta biografica, segnata dall’intreccio tra ascendenza familiare (cui rimanda anche la presenza dello stemma di fami-glia) e artistica, ma anche dal debito verso la propria terra d’origine, patria d’artisti. Potremmo commentarla con le parole usate dallo stesso Vasari a proposito di Giovann’Antonio Lappoli, pittore aretino:

Rade volte aviene che d’un ceppo vecchio non germogli alcun rampollo buono, il quale col tempo crescendo non rinuovi e colle sue frondi rivesta quel luogo spo-gliato, e faccia con i frutti conoscere, a chi gli gusta, il medesimo sapore che già si sentì del primo albero.14

14 Ivi, VI, 1881, p. 5.

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In questo museo di ritratti Vasari è perfettamente integrato (esattamente come la sua autobiografia è integrata nella seconda edizione delle Vite), ne fa parte a pieno titolo, collocato in una ben strutturata genealogia: è un tea-tro di memoria dove lui stesso è attore, inserito in una scena prospettica che lo accoglie e lo proietta sia nella storia che nella storiografia.

Per quanto riguarda il secondo registro, quello del museo personale, dob-biamo osservare che, rispetto al modello gioviano, la Casa Vasari è museo per-sonale in modo tutt’affatto particolare: non luogo aulico di raccolta e collezio-ne, tempio della virtù e della storia, ma luogo in cui si depositano esperienze, modelli e invenzioni dell’autore (già eseguiti e che verranno più volte ripetu-ti), memoria quasi antologica delle opere realizzate, esperimento di altre da farsi, celebrazione dell’arte e della sua storia. Attraverso di essa l’artista si rac-conta e si rappresenta, ma, in fondo, senza mai indulgere ad eccessi autocele-brativi, piuttosto con il gusto divertito di un otium bene impiegato, in una di-mensione domestica e rilassata testimoniata nell’autobiografia:

Intanto, essendosi fornita di murare la mia casa d’Arezzo, et io tornatomi a casa, feci i disegni per dipignere la sala, tre camere e la facciata, quasi per mio spasso di quella state; [...]. Et all’entrar della camera feci, quasi burlando, una sposa che ha in una mano un rastrello, col quale mostra avere rastrellato e portato seco quanto ha mai potuto dalla casa del padre; e nella mano che va innanzi, entrando in casa il marito, ha un torchio acceso, mostrando di portare, dove va, il fuoco che consuma e distrugge ogni cosa.15

Questo museo personale, se poteva apparire più rigido e impostato nel-la prima sala – quella della Fama – risalente al 1542, va dunque addomesti-candosi con il passare degli anni: un’evoluzione che, certo non casualmente, corrisponde alla maturazione della scrittura vasariana, resa sempre più col-loquiale e libera da orpelli sulla scorta dei consigli di Annibal Caro che, nel rivedere il manoscritto delle Vite, scriverà a Vasari il 15 dicembre 1547: «In un’opera simile vorrei la scrittura come il parlare».

Di questa dimensione personale reca singolare testimonianza anche un sonetto,16 spiraglio da cui traspare la segreta umanissima dimensione di un ar-tista che, se non vi fosse «utile e onore» in quello che fa, dismetterebbe i pan-ni aulici ma (s’indovina) faticosi che gli impongono di cercare «lauri, palme e olive / e d’esser d’invention tuttavia pregno» per trovare rifugio nella sua casa

15 Ivi, VII, 1881, p. 697.16 Ringrazio Enrico Mattioda di avermelo segnalato, sottolineandone il significato in relazio-

ne a Casa Vasari e al suo apparato decorativo. Il sonetto è edito in scoTi BeRTinelli, Giorgio Vasa-ri scrittore, p. 116 e, più recentemente, in vasaRi, Poesie.

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(«pover loco»), dipinta con il sudore e il gusto di un «piacer onesto» che si fon-da sugli elementi primari della natura («finse il pennel l’umido, il caldo il gelo»):

Se l’utile e l’onor col stil ch’io segnoNon fussi, queste mie n’maginativeQual cercon col color far cose vivePer lasciar fama e dilettar l’ingegno,

Arei le carte e’ miei pennelli a sdegnoE ’l fonte con le nove donne dive,Né cercherei più lauri, palme e oliveE d’esser d’invention tuttavia pregno.

Ridurrèmi a quel pover loco ch’ioSudai più volte e con piacer onestoFinse il pennel l’umido, il caldo e ’l gielo.

Viv’or pien di speranze, e ’l tempo mioSen vola e ’l mio ben lascio afflitt’e mesto,Disperando non far anime al Cielo.

Per quanto infine concerne quella che abbiamo chiamato messa in scena prospettica della storia, e della storia dell’arte in particolare, abbiamo già potu-to osservare come la complessa architettura scenica della Sala del Trionfo della Virtù, orientata al centro come l’allestimento teatrale veneziano, esprima la pos-sibilità di riconfigurare – a partire dal particolare angolo visuale dello spettato-re/artista – una nuova visione della vita e dell’arte. Ma se il gioco prospettico del soffitto (il primo ad essere pensato e dipinto) ci conduce verso il teatro del-la memoria, le sue metafore e i suoi simbolismi astrali, è nei registri superiori e inferiori delle decorazioni parietali che fa il suo ingresso la storia.

Due figure dominano la stanza fronteggiandosi dalle due pareti minori, quella d’ingresso e quella, opposta, del camino: da un lato Diana Efesina (pro-babile riferimento alla Natura, dietro alla quale sta l’elemento primario dell’ac-qua) e, sull’altro lato, la statua ammannatesca di Venere/Arte, posta sopra al camino, con dietro l’elemento primario del fuoco (Figg. 3 e 4). Tutto si gioca a partire da questo scontro/incontro: le figure che popolano ritmicamente il re-gistro superiore richiamano allegoricamente i princìpi e le virtù che segnano il corso dell’umana vicenda (ma soprattutto la vicenda dell’artista e, più in par-ticolare, quella dell’artista Vasari), mentre i riquadri in monocromo rosso nel registro inferiore narrano storie di antichi pittori tratte dalla più antica ‘storia dell’arte’ classica pervenutaci, la Naturalis Historia di Plinio il Vecchio.17

17 Per una approfondita descrizione di questa come delle altre sale di Casa Vasari si rimanda in particolare a ceccHi, La casa del Vasari in Arezzo.

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diana toccafondi

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Tradizionalmente interpretata come un esempio di florilegio umanistico-antiquario, questa insistita citazione della storia pliniana ha realtà un significa-to molto più pregnante: attraverso di essa Vasari si presenta come colui che, quindici secoli dopo la nascita della storia dell’arte, ripete l’operazione plinia-na e si assume il compito di dare un nuovo inizio ad essa. Un inizio che inten-de però essere una rinascita, così come l’arte moderna – nella concezione vasa-riana – lo è di quella classica, dopo l’eclissi medievale. Gli affreschi nella Sala del Trionfo della Virtù rappresentano dunque non solo il teatro della memo-ria ma anche quello della storia, una storia fortemente rivista e interpretata a partire da una visione che fa perno sul presente, a costo di esiti contraddittori.

Georges Didi-Huberman rileva l’aspetto critico dell’operazione vasa-riana definendola «un surrettizio rovesciamento della nascita pliniana della storia dell’arte»,18 responsabile di una distorsione che, dal ’500 in poi, farà interpretare Plinio in modo del tutto contrario rispetto a quella che effetti-vamente fu la sua concezione dell’arte. Secondo Didi-Huberman, lo schema accademico vasariano, fondato su una concezione intellettualistica ed este-tica dell’arte e su una visione teleologica della sua storia, finirà per oscurare la vera ispirazione pliniana, fortemente ancorata da un lato ad una concezio-ne materiale (arte non come sapere specifico ma come una delle tante attivi-tà umane basate sulla capacità di manipolare sostanze naturali), dall’altra ad una pratica antropologica e giuridica, che ascrive l’origine dell’arte all’uso di ricavare per contatto le ‘immagini degli antenati’ per mantenerne la memo-ria all’interno della famiglia e stigmatizza la moltiplicazione manierista di im-magini fittizie, la mescolanza e la ‘permutazione’.

La cifra dello schema interpretativo vasariano sembra rivelarsi all’im-provviso. La serie dei riquadri in monocromo ha infatti un’interruzione che sembra suggerita dalla necessità di equilibrare simmetricamente il vano di una porta. A lato della storia di Zeusi, Vasari affresca un trompe l’oeil che rappresenta un uomo (un artista? lui stesso?) seduto di spalle nel vano di una finestra che sta studiando un disegno architettonico mentre al di là del-la grata si intravede un edificio antico simile al Pantheon (Fig. 8). L’effetto prospettico di apertura su un altro vano fa sì che la figura dell’uomo sedu-to sia rappresentata in una scala minore così che, leggendo orizzontalmente la parete, si può stabilire una equivalenza, nella postura e nelle proporzio-ni, tra l’artista seduto e i personaggi rappresentati nei riquadri monocromi.

Qui siamo al di là del teatro della memoria e del suo chiuso sistema di al-legorie. L’artista che ci volta le spalle è anche uno storico che, mentre guar-

18 DiDi-HuBeRman, Storia dell’arte e anacronismo delle immagini, pp. 60-61.

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scrivere la storia, decorare la casa: testo a fronte

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da il passato, costruisce il futuro. La stessa prospettiva unisce e differenzia l’artista antico e il moderno, che all’antico si ispira, ma che ha anche una co-scienza matura di storico.19

L’ipotesi da cui abbiamo preso le mosse, e cioè che nel caso di Vasari scrittura della storia e decorazione della casa (cronologicamente pressoché coincidenti: 1547-1568) si affianchino e possano essere lette come una sor-ta di ‘testo a fronte’ contiene un messaggio in bottiglia: la casa è un testo, un documento, anzi un documento complesso (diciamo pure un ‘archivio’) che rivela il carattere e la storia del suo estensore/produttore, che ne documen-ta la biografia intellettuale, le aspirazioni, i valori, le idee, e accompagna la sua produzione artistica. Essa è un vero e proprio magazzino di memoria su cui l’autore ha impresso una sorta di cifra originaria, ma su cui si sono anche stratificati gli interventi successivi, fino alla definitiva musealizzazione che ha proiettato la casa dal dominio della memoria-rappresentazione personale al dominio della memoria-rappresentazione, che la costituisce come patrimo-nio della collettività.

Per comprenderne il signicato originario, in questo caso particolarmen-te pregnante e duraturo, occorre ricondurre questo ‘documento’ all’interno della volontà e della forte attenzione dichiaratamente prestata da Vasari a quanto poteva garantire l’ultima vittoria, quella sulla voracità del tempo, af-fidando alla sua casa, così come alle sue carte (a riprova della monumentali-tà originaria di entrambi), il compito di garantire a sé e alla sua posterità una perpetuità altrimenti inattingibile, un processo che porta alla costruzione di una vera e propria macchina di memoria, attraverso la quale l’artista si rap-presenta e si racconta.

L’eccezionale situazione offerta dalla coesistenza di questi due beni cul-turali (l’archivio dentro la casa, la casa intorno all’archivio) istituisce una sor-ta di doppio registro comunicativo che rende immediatamente evidente e quasi fisicamente percepibile la vita che sta dietro e dentro la testimonianza documentaria: l’archivio racconta – secondo il suo particolare ‘genere lette-rario’ – la storia dell’artista che ha voluto, costruito, dipinto la casa; la casa, a sua volta, conserva l’archivio e gli crea intorno la più affascinante delle cor-nici, dimostrando visivamente ciò che le carte raccontano. Un documento e un monumento che vivono insieme, si avvalorano e in qualche modo si con-taminano reciprocamente.

19 THomas, Casa Vasari in Arezzo, p. 146.

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Fig. 1. Sala della Fama e delle Arti, soffitto, Arezzo, Museo di Casa Vasari. Fig. 2. Sala del Trion-fo della Virtù, soffitto, ottagono centrale, Arezzo, Museo di Casa Vasari.

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Fig. 3. Sala del Trionfo della Virtù, lato camino, Arezzo, Museo di Casa Vasari. Fig. 4. Sala del Trionfo della Virtù, lato Diana Efesina, Arezzo, Museo di Casa Vasari.

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Fig. 5. Sala della Fama e delle Arti, Arezzo, Museo di Casa Vasari. Fig. 6. Sala della Fama e delle Arti, par-ticolare, GIORGIO VASARI, Ritratto di Michelangelo Buonarroti, Arezzo, Museo di Casa Vasari. Fig. 7. Sala della Fama e delle Arti, particolare, GIORGIO VASARI, Autoritratto, Arezzo, Museo di Casa Vasari.

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Fig. 8. Sala del Trionfo della Virtù, particolare, Arezzo Museo di Casa Vasari.