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Lanfranco Radi “Lo Spazio dell’Immagine” a Foligno (1967)
e realizzata molto velocemente nei primi
sei mesi del 1967.
Inaugurata il 2 luglio, doveva rimanere aperta fino
all’1 ottobre. Per accogliere le tante richieste dei
visitatori, dei critici e del mondo accademico che
pervenivano da ogni parte, fu prolungata fino
alla fine di quel mese.
Per comprendere il perché di questa mostra a Foligno,
occorre tornare indietro di qualche anno e ricordare
due fatti che in qualche modo possono essere a essa
ricollegati: la venuta a Foligno di Dino Gavina e il
recupero della scala gotica in palazzo Trinci.
Nel 1961 Gavina, industriale del mobile che operava
a Bologna, accettò la proposta che gli era stata
avanzata dall’Isap – Istituto per lo sviluppo delle
attività produttive – collegato all’Iri, di ampliare
la propria attività costruendo un nuovo stabilimento
a Foligno.
In quell’anno venne costituita la Gavina s.p.a.,
dove Gavina conservava la maggioranza delle azioni.
La presidenza della società fu affidata al nome
prestigioso di Carlo Scarpa. Per il progetto della
nuova fabbrica vennero a Foligno Achille e Pier
Giacomo Castiglioni, due architetti altrettanto famosi.
In fabbrica, oltre a Takahama, stretto collaboratore
di Gavina, e a Scarpa, era possibile incontrare
i personaggi che di volta in volta passavano: Fontana,
Capogrossi, Colla, Milani, Perry, Tippet, Marotta
e tanti altri.
Tra me e Gino Marotta, che in fabbrica stava
realizzando le formelle di un grande soffitto per
il palazzo della Rai, nacque subito una vera amicizia.
Gavina ha indubbiamente il merito di aver portato
a Foligno, agli inizi degli anni sessanta, importanti
uomini del mondo dell’arte e di aver consentito ai
suoi amici più vicini di conoscerli e di frequentarli.
Alcuni di loro, come Fontana, Colla e Marotta,
li ritroveremo nel 1967 al Trinci, anche se
“Lo Spazio dell’Immagine”, la mostra che animò
l’estate e l’autunno dell’ormai lontano 1967, per
Foligno e non solo, fu certamente un evento: tanti i
visitatori, gli artisti, i giornalisti e i critici, non solo
italiani, che in quel periodo furono richiamati dalla
manifestazione. Anche nel panorama dell’arte
contemporanea la mostra rappresentò un fatto
completamente nuovo, di rottura, quasi una
composta anticipazione di quella contestazione
che era alle porte.
Per la prima volta, infatti, attorno alla riproposizione
dello storico ambiente spaziale di Lucio Fontana,
vennero presentati contemporaneamente in una
mostra altri diciannove ambienti realizzati da giovani
artisti delle varie tendenze.
Il tema prescelto, in quel momento era di grande
attualità in quanto molti avevano abbandonato
i percorsi tradizionali del quadro o della scultura
per muoversi più liberamente nello spazio.
Improvvisamente Foligno si trovò al centro
dell’attenzione nel mondo dell’arte contemporanea.
Quella manifestazione, nata da una serie di
fortunate circostanze, ho avuto la fortuna di viverla
fin dal primo momento.
Cercherò di raccontarla attraverso i ricordi,
che in me sono ancora tanti, nitidi e vivi,
e la ricca documentazione sulla mostra che
conservo. Lo farò senza entrare in valutazioni
o giudizi critici perché non spetta a me
farlo; del resto tutto in questo senso è già stato
scritto da importanti firme del giornalismo sulle
terze pagine e sugli spazi culturali delle più
importanti testate e dai critici più autorevoli
non solo sulle riviste specializzate, ma anche
in numerosi saggi che trattano la storia dell’arte
contemporanea.
Nonostante la sua complessità, la mostra fu ideata
Testo della conferenza tenuta
presso la biblioteca Jacobilli, Foligno,
il 10 marzo 2004
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Manifesto della mostra “Lo Spaziodell’Immagine”, Foligno, 2 luglio - 1 ottobre 1967
Inaugurazione della mostra a Foligno
Gavina in tutta la vicenda dello “Spazio
dell’Immagine” non ebbe alcun ruolo.
In collaborazione con la Galleria l’Obelisco di Roma,
Gavina portò nella sua fabbrica una mostra itinerante
intitolata “La Luce”, con opere di artisti importanti
alcuni dei quali, come Biasi, Boriani, Alviani e
Massironi del Gruppo N, erano presenti al Trinci.
Anche questa fu una preziosa occasione di incontro.
In palazzo Trinci, dopo aver ricostruito tra gli
anni cinquanta e sessanta le parti distrutte dai
bombardamenti, il Genio civile aveva iniziato a
eseguire alcuni lavori nelle sale al primo piano poste
nella zona d’angolo tra piazza della Repubblica e via
XX Settembre. Una parte praticamente sconosciuta
del palazzo, fino a qualche anno prima occupata
dalle carceri Mandamentali.
Le esili strutture quattrocentesche, in gran parte
ricoperte da un sottile intonaco dipinto, erano state
quasi ovunque ringrossate con muri in aderenza
perché il rigido regolamento carcerario, per motivi
di sicurezza, prescriveva muri di un determinato
spessore.
Secondo le decisioni concordate tra le due
Soprintendenze e l’Amministrazione comunale,
in questa parte del palazzo doveva essere
riorganizzato il nuovo Museo Archeologico.
Con i primi lavori, eseguiti senza aver studiato
e progettato l’intervento, intere pareti decorate
andarono completamente perdute. La
Soprintendenza ai Monumenti sospese allora i lavori
in attesa di uno studio approfondito e completo.
I lavori rimasero fermi alcuni anni, poi il sindaco
Lazzaroni e il presidente dell’Azienda di soggiorno
Stefano Ponti, d’accordo con il soprintendente
Martelli, per rimuovere la situazione decisero di
affidare a me questo studio. Era la fine del 1962.
Trascorsi al Trinci alcuni mesi a rilevare, a collegare
graficamente le varie tracce, a cercarne altre.
Le conclusioni alle quali alla fine pervenni furono
pienamente condivise dal soprintendente, che
autorizzò a iniziare i lavori.
Alla fine del 1963 l’intervento si era praticamente
concluso e l’antica scala, prima soffocata da
un’incredibile serie di sovrastrutture, era tornata
ad assumere le sue prospettive originarie.
Durante i lavori venivano a trovarmi al Trinci alcuni
dei personaggi che avevo conosciuto alla Gavina. In
particolare Marotta, che era rimasto colpito dalla
bellezza di quell’interno straordinario.
Indubbiamente la singolare architettura della scala
è stata un elemento importante quando si pensò
di utilizzare il palazzo per una mostra completamente
dedicata allo spazio.
Giuseppe Marchiori, presidente del Comitato
promotore della mostra, così scriverà nel
catalogo: “... La scala medioevale, riattivata
per l’accesso alle sale superiori, nel Palazzo Trinci,
è di un disegno essenziale, scarno, senza ornamenti:
per così dire una premessa architettonica, di singolare
nudità nell’articolazione delle masse, nell’alternarsi
dei pieni e dei vuoti, alle proposte volutamente
effimere della ricerca moderna.
Lo Spazio dell’Immagine viene delimitato e chiuso
per un momento della sua trasformazione in
mobili sequenze.
E il momento è quello per l’esperienza in atto,
per la prova richiesta all’artista, e che potrà essere
determinante per lui.
Si è offerta la possibilità, piuttosto rara nelle
esposizioni ufficiali, di un esperimento che può
tradursi in una soluzione concreta...”
Nei primi giorni del gennaio 1967 mi chiamò
al telefono Gino Marotta. Con Giulio Turcato stava
rientrando a Roma e sarebbe passato da me perché
aveva urgente bisogno di vedermi.
Mentre eravamo a tavola mi spiegò che era giunto il
momento di organizzare una grande mostra dedicata
allo spazio, facendo anche i nomi di critici che lui
aveva già contattato e quella di altri personaggi
del mondo dell’arte che potevano essere coinvolti.
Si ricordava perfettamente di palazzo Trinci e della
sua scala interna: era la sede ideale.
Occorreva trovare il finanziamento, assicurarsi la
disponibilità del palazzo e trovare un ente al quale
appoggiarsi per la fase organizzativa.
Viste le finalità e l’importanza dell’iniziativa, mio
fratello Luciano, che allora ricopriva la carica di
segretario del gruppo parlamentare della Democrazia
cristiana, pensò di interessare il partito e illustrò il
progetto direttamente al vicesegretario Flaminio Piccoli.
Non trascorse molto tempo e Piccoli, persona aperta
e sensibile ai problemi della cultura, comunicò
a Luciano che il partito, fedele a una sua linea
e nel rispetto delle attività culturali e artistiche,
aveva deciso di patrocinare l’iniziativa.
Piccoli venne a inaugurare la mostra e più avanti
tornò per partecipare a un incontro con il
Comitato promotore.
Risolto il problema più importante, occorreva pensare
al resto e avviare la macchina organizzativa.
Il 23 marzo presso l’Azienda di soggiorno si svolse
una riunione per la costituzione del Comitato
promotore.
Oltre a me e a Marotta erano presenti mio fratello
Luciano, Stefano Ponti, il critico d’arte Giuseppe
Marchiori e l’editore Bruno Alfieri, venuti da Venezia,
e Giorgio De Marchis, ispettore della Galleria
Nazionale d’Arte Moderna di Roma. Giuseppe
Tardocchi, direttore dell’Azienda di soggiorno,
fungeva da segretario. Il breve verbale di quella
riunione è conservato nell’archivio della mostra.
Giuseppe Marchiori e Giorgio De Marchis vennero
nominati presidente e segretario del Comitato
promotore. Precisata definitivamente l’iniziativa,
che si sarebbe svolta sotto gli auspici dell’Azienda
di Soggiorno e Turismo, venne nominata la
Commissione inviti della quale, oltre a De Marchis,
avrebbero fatto parte Maurizio Calvesi, Umbro
Apollonio e Gillo Dorfles.
Nella sua qualità di vicesindaco, Ponti assicurò che
il palazzo Trinci sarebbe stato certamente disponibile.
Nel corso della riunione che si svolse all’Azienda di
soggiorno il 7 aprile, fu compilato l’elenco degli artisti
da invitare: Alviani, Biasi, Bonalumi, Boriani,
Castellani, Ceroli, Colombo, De Vecchi, Fabro, Festa,
Gilardi, Marotta, Mattiacci, Notari, Pascali, Pistoletto,
Gruppo MID, Gruppo N, Scheggi.
In previsione di qualche possibile rinuncia vennero
poi indicati altri quattro nomi di artisti che
nell’ordine sarebbero subentrati.
Due inviti speciali furono rivolti a Ettore Colla per una
mostra di sculture all’aria aperta e a Lucio Fontana
per la riproposizione dell’ambiente spaziale del 1949.
Il 29 maggio, pervenute tutte le adesioni, l’ufficio
stampa, che si era nel frattempo organizzato,
annunciò ufficialmente la manifestazione attraverso
un primo comunicato stampa. Altri cinque comunicati
vennero diffusi in seguito per illustrare le varie
fasi preparatorie.
Per il manifesto Marotta pensò di utilizzare come
immagine un particolare della pala di Piero della
Francesca conservata a Brera. L’uovo sospeso al
centro della conchiglia era certamente un motivo
emblematico per il tema della mostra.
Giuseppe Marchiori in un momentodell’inaugurazione
Tre momenti dell’inaugurazione. Nella seconda foto sono riconoscibili, dasinistra, Palma Bucarelli, Giuseppe Marchiori,l’onorevole Flaminio Piccoli e l’onorevoleLuciano Radi. Nella terza, sulla destra, Gillo Dorfles
Getulio Alviani, Palma Bucarelli e Giulio Carlo Argan
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Agostino Bonalumi
Getulio Alviani
La stampa del catalogo, affidata all’editore Alfieri
di Venezia che ne avrebbe poi curato la distribuzione
commerciale, presentò una serie di difficoltà.
Molti degli ambienti erano ancora in fase di
costruzione al Trinci e non potevano quindi essere
fotografati. Per essi vennero utilizzati i progetti,
che però non danno ragione e non documentano
efficacemente le opere del Gruppo N e del
Gruppo MID.
Per altri ambienti che vennero solamente trasferiti
a Foligno (Pistoletto, Boriani, Scheggi, Pascali),
ma anche per l’ambiente spaziale di Fontana
e per le sculture di Colla, la cui mostra non era
ancora ultimata, vennero utilizzate foto relative ad
altri allestimenti e foto d’archivio.
Il più danneggiato degli artisti presenti fu certamente
Alberto Biasi, perché il suo spazio, ancora incompleto,
venne documentato con foto dell’ambiente di
Gabriele De Vecchi.
Il catalogo non illustra perciò con esattezza e in
maniera completa quello che in effetti fu la mostra.
Nel volume sono raccolti saggi di Giuseppe Marchiori,
Umbro Apollonio, Giorgio De Marchis, Maurizio
Calvesi, Germano Celant, Gillo Dorfles, Lara Vinca
Masini, Udo Kultermann e Christopher Finch sul tema
della mostra e di Giulio Carlo Argan e Palma Bucarelli
rispettivamente su Fontana e Colla.
Molto richiesto da ogni parte anche dopo la chiusura
della mostra, il volume fu spedito alle più importanti
gallerie e ai musei d’arte contemporanea del mondo.
L’allestimento della mostra fu curato dall’architetto
Fabrizio Bruno.
In base alle indicazioni fornite dagli artisti al
momento dell’adesione e a quelle contenute nei
progetti successivamente inviati, nel ricercare un
percorso all’interno del palazzo si cercò di conciliare
le esigenze dimensionali di ciascuno con le
caratteristiche dei vari spazi disponibili.
Molti ambienti completamente chiusi avrebbero
coperto e annullato le preesistenze, mentre altri,
come i “pozzi” di Pistoletto, la “gabbia” di Ceroli
e il “tubo” di Mattiacci, potevano agevolmente
convivere con loro.
Verso la metà di giugno palazzo Trinci si era
trasformato in un enorme cantiere. Si lavorava nella
corte a ultimare il complesso allestimento della
mostra di Colla, mentre all’interno procedeva la
costruzione e il montaggio dei vari ambienti.
I tempi previsti, continuamente verificati e aggiornati,
furono alla fine pienamente rispettati grazie
all’impegno di tutti.
Il giorno prima dell’inaugurazione ci fu anche
un episodio divertente: nel fare la pulizia generale,
sull’acqua del “mare” di Pascali si depositò uno
strato di polvere; bisognava vuotare le vasche – oltre
duemila litri di acqua colorata – e non si sapeva
come fare. Qualcuno pensò di chiamare i pompieri,
che arrivarono al Trinci a sirene spiegate destando
all’esterno un senso di allarme. I vigili del fuoco
che vuotavano le vasche vennero ripresi e le foto
finirono sulle pagine dei giornali.
A questo punto non resta che ripercorrere
l’itinerario della mostra e analizzare da vicino,
per quanto possibile, i singoli spazi.
Entrando dalla piazza in palazzo Trinci, la veduta
della corte nella quale si articolava la mostra delle
opere di Colla era completamente schermata:
un grande tubo ricoperto di tela verde, piegato
a gomito verso destra, immetteva i visitatori
nella piccola corte interna attorno alla quale si
sviluppa la scala gotica.
A terra, sotto il ripiano della scala, era collocato,
in posizione isolata, un grande corpo di
Michelangelo Pistoletto: cilindrico, bianco,
con una base “a pera” – questo il termine
da lui usato – aveva la faccia superiore inclinata
finita con una superficie a specchio.
Dal primo ripiano della scala il visitatore che si
affacciava ritrovava con sorpresa la propria immagine
sullo sfondo di un’architettura virtuale
completamente deformata.
Saliti al primo piano, nella sala a sinistra che si
affaccia sulla chiostrina, era collocato il Bleu Abitabile
di Agostino Bonalumi. Lo spazio era chiuso da un
contenitore cilindrico di 4 metri di diametro. La pianta
circolare si apriva nel punto in cui era posto l’ingresso.
In alto, all’altezza di tre metri, era chiuso da un velario
che distribuiva una luce diffusa. All’interno del cilindro
erano addossati dieci pannelli verticali, ricoperti di
tela verniciata di bleu, che presentavano un rilievo o
“gobbo” in posizione crescente da terra. La sequenza
determinava sulla parete curva un movimento plastico
ascendente. Bonalumi venne alcuni giorni al Trinci per
finire i pannelli e per mettere a punto lo spazio.
L’ambiente Interpretazione Speculare di Getulio
Alviani era posto nella sala d’angolo tra la piazza
e via XX Settembre. Racchiuso anch’esso in un
contenitore cilindrico del diametro di 4,50 metri, era
completamente dipinto di bianco. All’altezza di due
metri e ottanta una struttura radiale sorreggeva il
velario attraverso il quale filtrava la luce. In
corrispondenza dell’apertura d’ingresso una quinta
più esterna, curva e bianca, restituiva la continuità
alla parete. All’interno di questo spazio, a tutta
altezza, erano installati sette grandi semicilindri di
alluminio speculare, liberi di ruotare lungo il loro asse
verticale: sei erano posti in posizione radiale a eguale
distanza dal semicilindro centrale. Il visitatore che
entrava non aveva più riferimenti e ritrovava le
proprie immagini, allargate sulle superfici concave
e allungate in quelle convesse, che interferivano
anche tra di loro. Alviani progettò questo ambiente
appositamente per la mostra di Foligno, rielaborando
un’idea del 1965. Nell’archivio della mostra sono
conservati numerosi disegni che rivelano l’evoluzione
del progetto.
L’Intercamera Plastica di Paolo Scheggi occupava la
stanza centrale completamente decorata con motivi
a gigli. Aveva le dimensioni di 4,50 x 5,55 metri
e un’altezza di 3 metri ed era costituito da quattro
elementi parete: due più lunghi riuniti a L con
angoli interni arrotondati e due più piccoli, con
una curvatura più accentuata, disposti in posizione
contrapposta, in prossimità dell’ingresso e
sull’angolo opposto.
La superficie interna dei pannelli, realizzati con tre
strati distanziati di compensato, presentava fori
circolari che assumevano un diverso valore plastico
per la presenza, sullo strato interno, di altri fori più
piccoli decentrati rispetto ai primi. La visione perciò
cambiava al variare del punto di vista del visitatore.
Ordinati e serrati nei pannelli più piccoli, questi segni
si liberavano nell’attraversare, con una sequenza
mossa, le pareti più lunghe completamente bianche.
L’opera era stata già esposta nel 1966 alla Galleria
Il Naviglio di Milano: le foto pubblicate in catalogo
si riferiscono a quell’allestimento.
Nella piccola stanza accanto, in posizione un po’
arretrata rispetto alla porta, era collocato lo Spazio
Oggetto di Alberto Biasi. Per la sua realizzazione
l’autore inviò un progetto molto dettagliato
e un modellino.
Profondo 4 metri, aveva sul fronte un’apertura
quadrata di 2,40 x 2,40 metri. Con una forma
troncopiramidale coricata lo spazio si restringeva sul
fondo a 0,50 x 0,50 metri. Il pavimento era piano per
consentire l’ingresso. I quattro pannelli trapezoidali
che determinavano lo spazio erano dipinti, secondo
un preciso sviluppo prospettico, a fasce ortogonali
fluorescenti verdi e rosse, di diversa larghezza,
intervallate da righe sottili nere di spessore costante.
La visione strutturata apprezzabile dall’esterno variava
a seconda del punto di vista, modificando le
caratteristiche fisiche dello spazio che appariva come
un perfetto tronco di piramide. Due lampade di
Wood facevano risaltare la fluorescenza della falsa
prospettiva. Piccole bacchette appese al soffitto
si muovevano al più piccolo contatto accentuando
nel visitatore un senso di instabilità.
Salendo al secondo piano, nel piccolo vano
sotto la cappella del palazzo, con accesso dal ripiano
dove lo scalone esterno si ricongiunge all’antica scala,
era posto il Processo Spaziale Religioso di Romano
Notari. L’artista folignate realizzò un grande soffitto
di 2 x 3 metri nel quale erano incastonati piccoli
volumi aggettanti; tutta l’opera l’aveva poi dipinta
con i suoi tipici colori solari.
Al secondo piano, direttamente poggiato sul
pavimento in cotto della loggetta di Romolo e Remo,
era l’In-Cubo di Luciano Fabro. Realizzato con un’esile
struttura in legno tenuta insieme da snodi metallici, il
piccolo cubo era ricoperto su cinque facce con una
Paolo Scheggi
Alberto Biasi
Luciano Fabro
Romano Notari
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tela di cotone bianco. Il visitatore poteva sollevarlo,
entrare e richiudersi nel piccolo vuoto che conteneva
in maniera esatta ogni suo movimento: il lato del
cubo era di 1,83 metri.
Nella sala delle Arti liberali e dei Pianeti, senza alcun
preciso ordine, erano posti cinque Pozzi di
Michelangelo Pistoletto. Realizzati in fibra di vetro,
avevano una forma cilindrica – diametro 1,40 metri,
altezza 1 metro – con il bordo superiore
arrotondato verso l’esterno. Il fondo era risolto
con una superficie a specchio. Esternamente erano
completamente dipinti di bianco, mentre il colore
interno variava dal bianco al giallo chiaro, al giallo,
al giallo arancio e all’arancio. Il visitatore che si
appoggiava sul bordo e si affacciava ritrovava
la propria immagine riflessa tra le strutture
della copertura e le figure affrescate sulle pareti.
Pistoletto aveva già esposto questi pozzi alla
Galleria Sperone di Torino; le immagini che
compaiono nel catalogo della mostra si riferiscono
a quell’allestimento.
Al centro della sala collegata alla loggetta, dominata
dalla copia di un polittico di Nicolò Alunno, era posta
la Gabbia di Mario Ceroli. In realtà le gabbie erano
tre, una dentro l’altra come scatole cinesi, e per
arrivare al centro di quella più interna, dove era
collocata una seduta, il visitatore doveva seguire
uno stretto percorso tra le reti che chiudevano le
gabbie. Lo spazio, che aveva le dimensioni
di 4 x 4 x 3 metri di altezza, venne completamente
realizzato da Ceroli al Trinci utilizzando murali di
abete e rete metallica da pollaio.
Nella prima parte della sala dei Giganti si
snodava Il Tubo di Eliseo Mattiacci. Su una grande
pedana di 6 x 5 metri ricoperta di alluminio lucido era
poggiato, completamente aggrovigliato, un tubo
flessibile di alluminio corrugato dipinto di giallo: uno
spazio che stupiva perfino le grandi figure degli
imperatori affrescate sulle pareti della sala.
Nell’angolo opposto, davanti al camino, era stato
ricostruito lo storico Ambiente Spaziale di Lucio
Fontana. L’enorme cubo – 6 metri di lato – fu
leggermente ridotto in altezza con il permesso di
Fontana, fino a sfiorare le catene delle capriate che
coprono la sala. Realizzato con una struttura in legno,
era ricoperto all’esterno e all’interno con una tela
nera che schermava completamente la luce. L’ingresso
e l’uscita, ricoperti anch’essi di tela nera, erano
prolungati all’esterno in modo da assicurare il buio
completo. Ultimata la ricostruzione del contenitore
secondo le istruzioni che aveva fornito, Fontana
venne al momento di realizzare con vernice
fluorescente bianca i tracciati puntiformi che in alto
attraversavano le pareti e il soffitto. Penetrato
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Enrico Castellani
Enrico Castellani
Mario Ceroli Lucio Fontana
all’interno, il visitatore perdeva completamente le
dimensioni dello spazio ed era preso dai tracciati che
sotto le lampade di Wood diventavano luminosissimi.
Le immagini grafiche e fotografiche pubblicate
nel catalogo si riferiscono all’allestimento eseguito
nel 1949 alla Galleria Il Naviglio di Milano.
Nell’archivio della mostra sono conservati due
disegni di Fontana: il primo, inviato al momento
dell’adesione, è firmato “L. Fontana, Ambiente
Spaziale 1949”, mentre l’altro fu eseguito sul posto
con un sottile pennarello bruno per spiegare come
dovevano essere realizzati i tracciati.
Nella sala successiva era collocato l’ambiente
Naturale-Artificiale di Gino Marotta. In uno spazio
di 8,35 x 6,36 metri, alto 2,75 metri, Marotta aveva
costruito un bosco artificiale utilizzando elementi
di metacrilato traslucido stampato. Le pareti erano
ricoperte da sottili fogli di acciaio inossidabile
specchiante che moltiplicavano il suggestivo effetto in
ogni direzione. Il pavimento era rivestito di laminato
plastico bianco, mentre il soffitto, al quale erano
fissati con un ordine modulare i quattro elementi
di ogni albero, era chiuso da un velario bianco che
distribuiva in maniera uniforme la luce.
L’Ambiente Bianco che Enrico Castellani realizzò
lavorando al Trinci per molti giorni aveva le pareti
segnate da due ampie fughe prospettiche di punti in
rilievo e depressi che facevano vibrare la tela bianca
con piccole luci e ombre. Sulla parete di fondo si
raccordavano rigorosamente attraverso due angoli nei
quali la tela, tesa su supporti trapezi, assumeva una
doppia ampia curvatura.
Subito dopo il Cielo di Tano Festa, dedicato
dall’autore al fratello scomparso, il poeta Francesco
Lo Savio. Nello spazio erano disposti in sequenza
cinque elementi autoportanti in legno che
avevano uno spessore di 30 centimetri e un’altezza
di 2,10 metri. I lati esterni degli elementi terminali
erano verticali mentre le unioni interne, che
assumevano la forma di grandi incastri, consentivano
alla parete, completamente dipinta di bleu con
piccole nuvole bianche, di muoversi e dilatarsi
nello spazio.
L’opera presentata a Foligno, di proprietà del barone
Giorgio Franchetti, non corrisponde esattamente, nel
numero e nelle misure degli elementi, a quella che
Festa intendeva eseguire al momento dell’adesione.
Dopo il Cielo, i 32 MQ. di Mare Circa di Pino Pascali.
Sul pavimento, con un leggero scatto in prossimità
di un angolo, erano ordinate trenta sottili vasche
di acciaio verniciate di bianco che avevano ciascuna
le dimensioni di 1,10 x 1,10 metri. Le vasche erano
completamente riempite di acqua colorata con
aniline. Le tonalità, appena diverse da una vasca
all’altra, sfumavano dal verde turchese chiaro allo
smeraldo e al bleu intenso. L’immagine del visitatore,
che poteva liberamente circolare intorno, si rifletteva
sulla superficie colorata dell’acqua.
Gli ultimi cinque ambienti della mostra riguardavano
Michelangelo Pistoletto
Eliseo Mattiacci
Gino Marotta
Piero Gilardi
Pino Pascali
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artisti impegnati nel campo dell’arte programmata.
Descrivere questi ambienti è cosa estremamente
difficile e ancor più difficile diventa immaginarne
gli effetti.
L’Ambiente Struttura del Gruppo N, ultimo nella
sala dei Concerti, era costituito da una grande sfera
rosa, appena sollevata da terra, ottenuta con una
fitta serie di canne di alluminio di diversa lunghezza
appese al soffitto e libere di muoversi. Sopra al
soffitto che chiudeva l’ambiente erano disposte
le apparecchiature elettriche e i programmatori.
La luce filtrava tra i tubi.
Quando si entrava nella sfera, le sottili canne,
battendo fra di loro, emettevano tintinnii metallici
che arricchivano i movimentati effetti luminosi.
Il complesso ambiente fu progettato appositamente
per la mostra di Foligno.
A questo punto il percorso tornava indietro, verso la
sala Sisto IV, dove per prima si incontrava la Camera
Stroboscopica Multidimensionale di Davide Boriani.
L’ambiente – 3,10 x 3,10 x 2,70 metri di altezza,
completamente nero – aveva le pareti interne rivestite
da specchi verticali diversamente orientati.
Sul soffitto erano collocati proiettori stroboscopici
e programmatori che emettevano in maniera
irregolare la luce. Lo spettatore che entrava, in una
condizione di instabilità vedeva la sua immagine
moltiplicata all’infinito in tutte le direzioni.
L’ambiente fu realizzato da Boriani nel 1966 e in
quell’anno venne esposto allo Stedelijk Museum
di Eindhoven.
Da Boriani si passava all’Ambiente Stroboscopico
Programmato del Gruppo MID. Appositamente
progettato per “Lo Spazio dell’Immagine”,
era costituito da un contenitore a geometria esagona,
con tre lati più brevi (1,20 metri) contrapposti ad altri
tre più lunghi (2,50 metri).
Su uno dei lati corti era risolto l’ingresso, chiuso
da una doppia tenda nera. All’altezza di due metri
e venti il piccolo spazio era schermato da un soffitto
che presentava, disposti a 120°, tre fori per il
passaggio della luce rossa, verde e bleu emessa
da fari sagomatori temporizzati. Le pareti e
il soffitto avevano una fitta rigatura verticale
bianca e nera.
Gianni Colombo e Gabriele De Vecchi, del Gruppo T,
aderirono individualmente alla mostra inviando però
un progetto unitario con due piccoli distinti spazi:
After-Structure quello di Colombo e Ambiente a
Strutturazione Virtuale quello di De Vecchi.
Ciascun ambiente aveva una pianta quadrata
di 2,50 metri di lato, aperta su un angolo per
consentire l’ingresso. Si trattava di due interpretazioni
programmate, disposte su un’unica pedana a piani
inclinati, che si distinguevano negli effetti che
i proiettori creavano sulle pareti diversamente trattate
e sul pavimento.
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Davide Boriani
Gruppo N
Ultimato il percorso interno e scesa l’ultima rampa
della scala gotica, dall’alto dello scalone esterno
si scopriva la grande mostra di Ettore Colla nella
corte del palazzo.
Le varie sculture in ferro erano collocate in uno spazio
perfettamente fruibile, di concezione moderna,
completamente realizzato in laterizio. Utilizzando
mattoni chiari, appena fermati con poca calce magra,
erano stati pavimentati i percorsi, individuate le
pedane e le basi, delimitati geometricamente
i fondi erbosi.
Non più quindi opere che si confrontavano con le
preesistenze, come era avvenuto a Spoleto qualche
anno prima nella mostra “Sculture nella città”, ma
un’intera sistemazione che autorevolmente si inseriva
tra le severe facciate del palazzo.
Lanfranco Radi
(Foligno, Perugia, 1932)
Nasce a Foligno nel 1932. Nello studio del pittore
Ugo Scaramucci apprende le nozioni fondamentali
delle varie tecniche pittoriche. I primi dipinti, per
lo più piccoli paesaggi, risentono della pittura di
Carlo Frappi. Ultimati gli studi scientifici si forma alla
facoltà di Architettura di Firenze, guadagnandosi la
stima di Adalberto Libera, Ludovico Quaroni,
Leonardo Ricci. Agli inizi degli anni sessanta riscopre
e restaura la scala gotica in palazzo Trinci. Stringe
amicizia con Dino Gavina e conosce i personaggi
dell’arte che frequentano la nuova fabbrica di
Foligno: Carlo Scarpa, presidente della società,
Fontana, Colla, Capogrossi, Takahama, Milani,
Marotta, Tippet, Perry, Li Yuan Chia. Nel 1967 con
Gino Marotta promuove e organizza in palazzo Trinci
“Lo Spazio dell’Immagine”, una mostra che coinvolge
un folto gruppo di giovani artisti emergenti nelle varie
tendenze attorno alla riproposizione dello storico
ambiente spaziale di Lucio Fontana e alla grande
antologica di Ettore Colla nella corte del palazzo.
Svanite le fortunate circostanze che per alcuni anni
avevano portato Foligno all’attenzione del mondo
dell’arte, concentra il suo impegno nel recupero
del patrimonio edilizio del territorio. Le conoscenze
acquisite in tanti anni di attività e l’amore per il
dettaglio trasmessogli da Gavina e da Scarpa lo
portano a pubblicare con il figlio Lorenzo Foligno in
particolare – elementi tipologici dell’edificazione
storica (1997). Introdotto da Paolo Marconi, il volume
è un riferimento fondamentale nella ricostruzione
del dopoterremoto.
Sempre più spesso si dedica alla pittura: “I segni
colorati che liberamente traccio con il pennello,
a poco a poco entrano in vibrazione e destano un
senso di stupore e di meraviglia simile a quello che
si prova di fronte a certe manifestazioni della natura:
i colori assumono valenze musicali e sprigionano una
luce trascendentale”. Non ama esporre. Le sue opere
sono note solo agli amici che frequentano la sua casa.
Presentato da Silvia Pegoraro, partecipa con sei grandi
dipinti a una mostra nella rocca di Sassocorvaro
nell’estate del 2000. Con rigore e distacco indaga a
lungo, dal vero, anche le forme e i colori del mondo
vegetale. Molti dei disegni realizzati a partire dai primi
anni ottanta, esposti per la prima volta a Corciano
nella mostra “Herbe”, curata da Antonio Carlo Ponti
(1991), sono stati raccolti per l’ACRI – Associazione
fra le Casse di Risparmio Italiane – in due splendidi
volumi da Pieraldo editore, Roma. In Hortus Celatus
(1996), un saggio critico di Italo Tomassoni introduce
centotrenta tavole sulle piante spontanee eduli della
tradizione popolare, mentre in Hortus Mirabilis (1999)
centodieci tavole sui fiori e sui frutti accompagnano
un racconto autobiografico dello scrittore Giampaolo
Rugarli. Per questi suoi interessi verso la natura ha
ricevuto nel 2000 il premio speciale della giuria al
premio internazionale Giardini Botanici di Hanbury
e il premio internazionale Benozzo Gozzoli per
l’ambiente naturale a Montefalco.
Tano Festa
Gabriele De Vecchi Gruppo MID
Gianni Colombo
Le sculture di Ettore Colla nel cortile di palazzo Trinci
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Getulio Alviani
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Agostino Bonalumi
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Davide Boriani Enrico Castellani
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Mario Ceroli Ettore Colla
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Gabriele De Vecchi
Luciano Fabro
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Tano Festa Piero Gilardi
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Eliseo Mattiacci Gino Marotta
fare bn
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Gruppo MID Progetto tridimensionale dello spazio, 1967Pareti in legno truciolare, apparatostroboscopico composto da tre fari occhio di bue muniti di motore elettrico e croce di malta
Visitatori all’interno dell’ambiente con effetto della luce stroboscopica, foto d’epoca, 1967
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Gruppo N – Alberto Biasi
Gruppo N – Ennio Chiggio, Toni Costa,Edoardo Landi, Manfredo Massironi
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Pino Pascali Romano Notari
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Michelangelo Pistoletto Paolo Scheggi
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