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51 Lanfranco Radi “Lo Spazio dell’Immagine” a Foligno (1967) e realizzata molto velocemente nei primi sei mesi del 1967. Inaugurata il 2 luglio, doveva rimanere aperta fino all’1 ottobre. Per accogliere le tante richieste dei visitatori, dei critici e del mondo accademico che pervenivano da ogni parte, fu prolungata fino alla fine di quel mese. Per comprendere il perché di questa mostra a Foligno, occorre tornare indietro di qualche anno e ricordare due fatti che in qualche modo possono essere a essa ricollegati: la venuta a Foligno di Dino Gavina e il recupero della scala gotica in palazzo Trinci. Nel 1961 Gavina, industriale del mobile che operava a Bologna, accettò la proposta che gli era stata avanzata dall’Isap – Istituto per lo sviluppo delle attività produttive – collegato all’Iri, di ampliare la propria attività costruendo un nuovo stabilimento a Foligno. In quell’anno venne costituita la Gavina s.p.a., dove Gavina conservava la maggioranza delle azioni. La presidenza della società fu affidata al nome prestigioso di Carlo Scarpa. Per il progetto della nuova fabbrica vennero a Foligno Achille e Pier Giacomo Castiglioni, due architetti altrettanto famosi. In fabbrica, oltre a Takahama, stretto collaboratore di Gavina, e a Scarpa, era possibile incontrare i personaggi che di volta in volta passavano: Fontana, Capogrossi, Colla, Milani, Perry, Tippet, Marotta e tanti altri. Tra me e Gino Marotta, che in fabbrica stava realizzando le formelle di un grande soffitto per il palazzo della Rai, nacque subito una vera amicizia. Gavina ha indubbiamente il merito di aver portato a Foligno, agli inizi degli anni sessanta, importanti uomini del mondo dell’arte e di aver consentito ai suoi amici più vicini di conoscerli e di frequentarli. Alcuni di loro, come Fontana, Colla e Marotta, li ritroveremo nel 1967 al Trinci, anche se “Lo Spazio dell’Immagine”, la mostra che animò l’estate e l’autunno dell’ormai lontano 1967, per Foligno e non solo, fu certamente un evento: tanti i visitatori, gli artisti, i giornalisti e i critici, non solo italiani, che in quel periodo furono richiamati dalla manifestazione. Anche nel panorama dell’arte contemporanea la mostra rappresentò un fatto completamente nuovo, di rottura, quasi una composta anticipazione di quella contestazione che era alle porte. Per la prima volta, infatti, attorno alla riproposizione dello storico ambiente spaziale di Lucio Fontana, vennero presentati contemporaneamente in una mostra altri diciannove ambienti realizzati da giovani artisti delle varie tendenze. Il tema prescelto, in quel momento era di grande attualità in quanto molti avevano abbandonato i percorsi tradizionali del quadro o della scultura per muoversi più liberamente nello spazio. Improvvisamente Foligno si trovò al centro dell’attenzione nel mondo dell’arte contemporanea. Quella manifestazione, nata da una serie di fortunate circostanze, ho avuto la fortuna di viverla fin dal primo momento. Cercherò di raccontarla attraverso i ricordi, che in me sono ancora tanti, nitidi e vivi, e la ricca documentazione sulla mostra che conservo. Lo farò senza entrare in valutazioni o giudizi critici perché non spetta a me farlo; del resto tutto in questo senso è già stato scritto da importanti firme del giornalismo sulle terze pagine e sugli spazi culturali delle più importanti testate e dai critici più autorevoli non solo sulle riviste specializzate, ma anche in numerosi saggi che trattano la storia dell’arte contemporanea. Nonostante la sua complessità, la mostra fu ideata Testo della conferenza tenuta presso la biblioteca Jacobilli, Foligno, il 10 marzo 2004

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51

Lanfranco Radi “Lo Spazio dell’Immagine” a Foligno (1967)

e realizzata molto velocemente nei primi

sei mesi del 1967.

Inaugurata il 2 luglio, doveva rimanere aperta fino

all’1 ottobre. Per accogliere le tante richieste dei

visitatori, dei critici e del mondo accademico che

pervenivano da ogni parte, fu prolungata fino

alla fine di quel mese.

Per comprendere il perché di questa mostra a Foligno,

occorre tornare indietro di qualche anno e ricordare

due fatti che in qualche modo possono essere a essa

ricollegati: la venuta a Foligno di Dino Gavina e il

recupero della scala gotica in palazzo Trinci.

Nel 1961 Gavina, industriale del mobile che operava

a Bologna, accettò la proposta che gli era stata

avanzata dall’Isap – Istituto per lo sviluppo delle

attività produttive – collegato all’Iri, di ampliare

la propria attività costruendo un nuovo stabilimento

a Foligno.

In quell’anno venne costituita la Gavina s.p.a.,

dove Gavina conservava la maggioranza delle azioni.

La presidenza della società fu affidata al nome

prestigioso di Carlo Scarpa. Per il progetto della

nuova fabbrica vennero a Foligno Achille e Pier

Giacomo Castiglioni, due architetti altrettanto famosi.

In fabbrica, oltre a Takahama, stretto collaboratore

di Gavina, e a Scarpa, era possibile incontrare

i personaggi che di volta in volta passavano: Fontana,

Capogrossi, Colla, Milani, Perry, Tippet, Marotta

e tanti altri.

Tra me e Gino Marotta, che in fabbrica stava

realizzando le formelle di un grande soffitto per

il palazzo della Rai, nacque subito una vera amicizia.

Gavina ha indubbiamente il merito di aver portato

a Foligno, agli inizi degli anni sessanta, importanti

uomini del mondo dell’arte e di aver consentito ai

suoi amici più vicini di conoscerli e di frequentarli.

Alcuni di loro, come Fontana, Colla e Marotta,

li ritroveremo nel 1967 al Trinci, anche se

“Lo Spazio dell’Immagine”, la mostra che animò

l’estate e l’autunno dell’ormai lontano 1967, per

Foligno e non solo, fu certamente un evento: tanti i

visitatori, gli artisti, i giornalisti e i critici, non solo

italiani, che in quel periodo furono richiamati dalla

manifestazione. Anche nel panorama dell’arte

contemporanea la mostra rappresentò un fatto

completamente nuovo, di rottura, quasi una

composta anticipazione di quella contestazione

che era alle porte.

Per la prima volta, infatti, attorno alla riproposizione

dello storico ambiente spaziale di Lucio Fontana,

vennero presentati contemporaneamente in una

mostra altri diciannove ambienti realizzati da giovani

artisti delle varie tendenze.

Il tema prescelto, in quel momento era di grande

attualità in quanto molti avevano abbandonato

i percorsi tradizionali del quadro o della scultura

per muoversi più liberamente nello spazio.

Improvvisamente Foligno si trovò al centro

dell’attenzione nel mondo dell’arte contemporanea.

Quella manifestazione, nata da una serie di

fortunate circostanze, ho avuto la fortuna di viverla

fin dal primo momento.

Cercherò di raccontarla attraverso i ricordi,

che in me sono ancora tanti, nitidi e vivi,

e la ricca documentazione sulla mostra che

conservo. Lo farò senza entrare in valutazioni

o giudizi critici perché non spetta a me

farlo; del resto tutto in questo senso è già stato

scritto da importanti firme del giornalismo sulle

terze pagine e sugli spazi culturali delle più

importanti testate e dai critici più autorevoli

non solo sulle riviste specializzate, ma anche

in numerosi saggi che trattano la storia dell’arte

contemporanea.

Nonostante la sua complessità, la mostra fu ideata

Testo della conferenza tenuta

presso la biblioteca Jacobilli, Foligno,

il 10 marzo 2004

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Manifesto della mostra “Lo Spaziodell’Immagine”, Foligno, 2 luglio - 1 ottobre 1967

Inaugurazione della mostra a Foligno

Gavina in tutta la vicenda dello “Spazio

dell’Immagine” non ebbe alcun ruolo.

In collaborazione con la Galleria l’Obelisco di Roma,

Gavina portò nella sua fabbrica una mostra itinerante

intitolata “La Luce”, con opere di artisti importanti

alcuni dei quali, come Biasi, Boriani, Alviani e

Massironi del Gruppo N, erano presenti al Trinci.

Anche questa fu una preziosa occasione di incontro.

In palazzo Trinci, dopo aver ricostruito tra gli

anni cinquanta e sessanta le parti distrutte dai

bombardamenti, il Genio civile aveva iniziato a

eseguire alcuni lavori nelle sale al primo piano poste

nella zona d’angolo tra piazza della Repubblica e via

XX Settembre. Una parte praticamente sconosciuta

del palazzo, fino a qualche anno prima occupata

dalle carceri Mandamentali.

Le esili strutture quattrocentesche, in gran parte

ricoperte da un sottile intonaco dipinto, erano state

quasi ovunque ringrossate con muri in aderenza

perché il rigido regolamento carcerario, per motivi

di sicurezza, prescriveva muri di un determinato

spessore.

Secondo le decisioni concordate tra le due

Soprintendenze e l’Amministrazione comunale,

in questa parte del palazzo doveva essere

riorganizzato il nuovo Museo Archeologico.

Con i primi lavori, eseguiti senza aver studiato

e progettato l’intervento, intere pareti decorate

andarono completamente perdute. La

Soprintendenza ai Monumenti sospese allora i lavori

in attesa di uno studio approfondito e completo.

I lavori rimasero fermi alcuni anni, poi il sindaco

Lazzaroni e il presidente dell’Azienda di soggiorno

Stefano Ponti, d’accordo con il soprintendente

Martelli, per rimuovere la situazione decisero di

affidare a me questo studio. Era la fine del 1962.

Trascorsi al Trinci alcuni mesi a rilevare, a collegare

graficamente le varie tracce, a cercarne altre.

Le conclusioni alle quali alla fine pervenni furono

pienamente condivise dal soprintendente, che

autorizzò a iniziare i lavori.

Alla fine del 1963 l’intervento si era praticamente

concluso e l’antica scala, prima soffocata da

un’incredibile serie di sovrastrutture, era tornata

ad assumere le sue prospettive originarie.

Durante i lavori venivano a trovarmi al Trinci alcuni

dei personaggi che avevo conosciuto alla Gavina. In

particolare Marotta, che era rimasto colpito dalla

bellezza di quell’interno straordinario.

Indubbiamente la singolare architettura della scala

è stata un elemento importante quando si pensò

di utilizzare il palazzo per una mostra completamente

dedicata allo spazio.

Giuseppe Marchiori, presidente del Comitato

promotore della mostra, così scriverà nel

catalogo: “... La scala medioevale, riattivata

per l’accesso alle sale superiori, nel Palazzo Trinci,

è di un disegno essenziale, scarno, senza ornamenti:

per così dire una premessa architettonica, di singolare

nudità nell’articolazione delle masse, nell’alternarsi

dei pieni e dei vuoti, alle proposte volutamente

effimere della ricerca moderna.

Lo Spazio dell’Immagine viene delimitato e chiuso

per un momento della sua trasformazione in

mobili sequenze.

E il momento è quello per l’esperienza in atto,

per la prova richiesta all’artista, e che potrà essere

determinante per lui.

Si è offerta la possibilità, piuttosto rara nelle

esposizioni ufficiali, di un esperimento che può

tradursi in una soluzione concreta...”

Nei primi giorni del gennaio 1967 mi chiamò

al telefono Gino Marotta. Con Giulio Turcato stava

rientrando a Roma e sarebbe passato da me perché

aveva urgente bisogno di vedermi.

Mentre eravamo a tavola mi spiegò che era giunto il

momento di organizzare una grande mostra dedicata

allo spazio, facendo anche i nomi di critici che lui

aveva già contattato e quella di altri personaggi

del mondo dell’arte che potevano essere coinvolti.

Si ricordava perfettamente di palazzo Trinci e della

sua scala interna: era la sede ideale.

Occorreva trovare il finanziamento, assicurarsi la

disponibilità del palazzo e trovare un ente al quale

appoggiarsi per la fase organizzativa.

Viste le finalità e l’importanza dell’iniziativa, mio

fratello Luciano, che allora ricopriva la carica di

segretario del gruppo parlamentare della Democrazia

cristiana, pensò di interessare il partito e illustrò il

progetto direttamente al vicesegretario Flaminio Piccoli.

Non trascorse molto tempo e Piccoli, persona aperta

e sensibile ai problemi della cultura, comunicò

a Luciano che il partito, fedele a una sua linea

e nel rispetto delle attività culturali e artistiche,

aveva deciso di patrocinare l’iniziativa.

Piccoli venne a inaugurare la mostra e più avanti

tornò per partecipare a un incontro con il

Comitato promotore.

Risolto il problema più importante, occorreva pensare

al resto e avviare la macchina organizzativa.

Il 23 marzo presso l’Azienda di soggiorno si svolse

una riunione per la costituzione del Comitato

promotore.

Oltre a me e a Marotta erano presenti mio fratello

Luciano, Stefano Ponti, il critico d’arte Giuseppe

Marchiori e l’editore Bruno Alfieri, venuti da Venezia,

e Giorgio De Marchis, ispettore della Galleria

Nazionale d’Arte Moderna di Roma. Giuseppe

Tardocchi, direttore dell’Azienda di soggiorno,

fungeva da segretario. Il breve verbale di quella

riunione è conservato nell’archivio della mostra.

Giuseppe Marchiori e Giorgio De Marchis vennero

nominati presidente e segretario del Comitato

promotore. Precisata definitivamente l’iniziativa,

che si sarebbe svolta sotto gli auspici dell’Azienda

di Soggiorno e Turismo, venne nominata la

Commissione inviti della quale, oltre a De Marchis,

avrebbero fatto parte Maurizio Calvesi, Umbro

Apollonio e Gillo Dorfles.

Nella sua qualità di vicesindaco, Ponti assicurò che

il palazzo Trinci sarebbe stato certamente disponibile.

Nel corso della riunione che si svolse all’Azienda di

soggiorno il 7 aprile, fu compilato l’elenco degli artisti

da invitare: Alviani, Biasi, Bonalumi, Boriani,

Castellani, Ceroli, Colombo, De Vecchi, Fabro, Festa,

Gilardi, Marotta, Mattiacci, Notari, Pascali, Pistoletto,

Gruppo MID, Gruppo N, Scheggi.

In previsione di qualche possibile rinuncia vennero

poi indicati altri quattro nomi di artisti che

nell’ordine sarebbero subentrati.

Due inviti speciali furono rivolti a Ettore Colla per una

mostra di sculture all’aria aperta e a Lucio Fontana

per la riproposizione dell’ambiente spaziale del 1949.

Il 29 maggio, pervenute tutte le adesioni, l’ufficio

stampa, che si era nel frattempo organizzato,

annunciò ufficialmente la manifestazione attraverso

un primo comunicato stampa. Altri cinque comunicati

vennero diffusi in seguito per illustrare le varie

fasi preparatorie.

Per il manifesto Marotta pensò di utilizzare come

immagine un particolare della pala di Piero della

Francesca conservata a Brera. L’uovo sospeso al

centro della conchiglia era certamente un motivo

emblematico per il tema della mostra.

Giuseppe Marchiori in un momentodell’inaugurazione

Tre momenti dell’inaugurazione. Nella seconda foto sono riconoscibili, dasinistra, Palma Bucarelli, Giuseppe Marchiori,l’onorevole Flaminio Piccoli e l’onorevoleLuciano Radi. Nella terza, sulla destra, Gillo Dorfles

Getulio Alviani, Palma Bucarelli e Giulio Carlo Argan

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Agostino Bonalumi

Getulio Alviani

La stampa del catalogo, affidata all’editore Alfieri

di Venezia che ne avrebbe poi curato la distribuzione

commerciale, presentò una serie di difficoltà.

Molti degli ambienti erano ancora in fase di

costruzione al Trinci e non potevano quindi essere

fotografati. Per essi vennero utilizzati i progetti,

che però non danno ragione e non documentano

efficacemente le opere del Gruppo N e del

Gruppo MID.

Per altri ambienti che vennero solamente trasferiti

a Foligno (Pistoletto, Boriani, Scheggi, Pascali),

ma anche per l’ambiente spaziale di Fontana

e per le sculture di Colla, la cui mostra non era

ancora ultimata, vennero utilizzate foto relative ad

altri allestimenti e foto d’archivio.

Il più danneggiato degli artisti presenti fu certamente

Alberto Biasi, perché il suo spazio, ancora incompleto,

venne documentato con foto dell’ambiente di

Gabriele De Vecchi.

Il catalogo non illustra perciò con esattezza e in

maniera completa quello che in effetti fu la mostra.

Nel volume sono raccolti saggi di Giuseppe Marchiori,

Umbro Apollonio, Giorgio De Marchis, Maurizio

Calvesi, Germano Celant, Gillo Dorfles, Lara Vinca

Masini, Udo Kultermann e Christopher Finch sul tema

della mostra e di Giulio Carlo Argan e Palma Bucarelli

rispettivamente su Fontana e Colla.

Molto richiesto da ogni parte anche dopo la chiusura

della mostra, il volume fu spedito alle più importanti

gallerie e ai musei d’arte contemporanea del mondo.

L’allestimento della mostra fu curato dall’architetto

Fabrizio Bruno.

In base alle indicazioni fornite dagli artisti al

momento dell’adesione e a quelle contenute nei

progetti successivamente inviati, nel ricercare un

percorso all’interno del palazzo si cercò di conciliare

le esigenze dimensionali di ciascuno con le

caratteristiche dei vari spazi disponibili.

Molti ambienti completamente chiusi avrebbero

coperto e annullato le preesistenze, mentre altri,

come i “pozzi” di Pistoletto, la “gabbia” di Ceroli

e il “tubo” di Mattiacci, potevano agevolmente

convivere con loro.

Verso la metà di giugno palazzo Trinci si era

trasformato in un enorme cantiere. Si lavorava nella

corte a ultimare il complesso allestimento della

mostra di Colla, mentre all’interno procedeva la

costruzione e il montaggio dei vari ambienti.

I tempi previsti, continuamente verificati e aggiornati,

furono alla fine pienamente rispettati grazie

all’impegno di tutti.

Il giorno prima dell’inaugurazione ci fu anche

un episodio divertente: nel fare la pulizia generale,

sull’acqua del “mare” di Pascali si depositò uno

strato di polvere; bisognava vuotare le vasche – oltre

duemila litri di acqua colorata – e non si sapeva

come fare. Qualcuno pensò di chiamare i pompieri,

che arrivarono al Trinci a sirene spiegate destando

all’esterno un senso di allarme. I vigili del fuoco

che vuotavano le vasche vennero ripresi e le foto

finirono sulle pagine dei giornali.

A questo punto non resta che ripercorrere

l’itinerario della mostra e analizzare da vicino,

per quanto possibile, i singoli spazi.

Entrando dalla piazza in palazzo Trinci, la veduta

della corte nella quale si articolava la mostra delle

opere di Colla era completamente schermata:

un grande tubo ricoperto di tela verde, piegato

a gomito verso destra, immetteva i visitatori

nella piccola corte interna attorno alla quale si

sviluppa la scala gotica.

A terra, sotto il ripiano della scala, era collocato,

in posizione isolata, un grande corpo di

Michelangelo Pistoletto: cilindrico, bianco,

con una base “a pera” – questo il termine

da lui usato – aveva la faccia superiore inclinata

finita con una superficie a specchio.

Dal primo ripiano della scala il visitatore che si

affacciava ritrovava con sorpresa la propria immagine

sullo sfondo di un’architettura virtuale

completamente deformata.

Saliti al primo piano, nella sala a sinistra che si

affaccia sulla chiostrina, era collocato il Bleu Abitabile

di Agostino Bonalumi. Lo spazio era chiuso da un

contenitore cilindrico di 4 metri di diametro. La pianta

circolare si apriva nel punto in cui era posto l’ingresso.

In alto, all’altezza di tre metri, era chiuso da un velario

che distribuiva una luce diffusa. All’interno del cilindro

erano addossati dieci pannelli verticali, ricoperti di

tela verniciata di bleu, che presentavano un rilievo o

“gobbo” in posizione crescente da terra. La sequenza

determinava sulla parete curva un movimento plastico

ascendente. Bonalumi venne alcuni giorni al Trinci per

finire i pannelli e per mettere a punto lo spazio.

L’ambiente Interpretazione Speculare di Getulio

Alviani era posto nella sala d’angolo tra la piazza

e via XX Settembre. Racchiuso anch’esso in un

contenitore cilindrico del diametro di 4,50 metri, era

completamente dipinto di bianco. All’altezza di due

metri e ottanta una struttura radiale sorreggeva il

velario attraverso il quale filtrava la luce. In

corrispondenza dell’apertura d’ingresso una quinta

più esterna, curva e bianca, restituiva la continuità

alla parete. All’interno di questo spazio, a tutta

altezza, erano installati sette grandi semicilindri di

alluminio speculare, liberi di ruotare lungo il loro asse

verticale: sei erano posti in posizione radiale a eguale

distanza dal semicilindro centrale. Il visitatore che

entrava non aveva più riferimenti e ritrovava le

proprie immagini, allargate sulle superfici concave

e allungate in quelle convesse, che interferivano

anche tra di loro. Alviani progettò questo ambiente

appositamente per la mostra di Foligno, rielaborando

un’idea del 1965. Nell’archivio della mostra sono

conservati numerosi disegni che rivelano l’evoluzione

del progetto.

L’Intercamera Plastica di Paolo Scheggi occupava la

stanza centrale completamente decorata con motivi

a gigli. Aveva le dimensioni di 4,50 x 5,55 metri

e un’altezza di 3 metri ed era costituito da quattro

elementi parete: due più lunghi riuniti a L con

angoli interni arrotondati e due più piccoli, con

una curvatura più accentuata, disposti in posizione

contrapposta, in prossimità dell’ingresso e

sull’angolo opposto.

La superficie interna dei pannelli, realizzati con tre

strati distanziati di compensato, presentava fori

circolari che assumevano un diverso valore plastico

per la presenza, sullo strato interno, di altri fori più

piccoli decentrati rispetto ai primi. La visione perciò

cambiava al variare del punto di vista del visitatore.

Ordinati e serrati nei pannelli più piccoli, questi segni

si liberavano nell’attraversare, con una sequenza

mossa, le pareti più lunghe completamente bianche.

L’opera era stata già esposta nel 1966 alla Galleria

Il Naviglio di Milano: le foto pubblicate in catalogo

si riferiscono a quell’allestimento.

Nella piccola stanza accanto, in posizione un po’

arretrata rispetto alla porta, era collocato lo Spazio

Oggetto di Alberto Biasi. Per la sua realizzazione

l’autore inviò un progetto molto dettagliato

e un modellino.

Profondo 4 metri, aveva sul fronte un’apertura

quadrata di 2,40 x 2,40 metri. Con una forma

troncopiramidale coricata lo spazio si restringeva sul

fondo a 0,50 x 0,50 metri. Il pavimento era piano per

consentire l’ingresso. I quattro pannelli trapezoidali

che determinavano lo spazio erano dipinti, secondo

un preciso sviluppo prospettico, a fasce ortogonali

fluorescenti verdi e rosse, di diversa larghezza,

intervallate da righe sottili nere di spessore costante.

La visione strutturata apprezzabile dall’esterno variava

a seconda del punto di vista, modificando le

caratteristiche fisiche dello spazio che appariva come

un perfetto tronco di piramide. Due lampade di

Wood facevano risaltare la fluorescenza della falsa

prospettiva. Piccole bacchette appese al soffitto

si muovevano al più piccolo contatto accentuando

nel visitatore un senso di instabilità.

Salendo al secondo piano, nel piccolo vano

sotto la cappella del palazzo, con accesso dal ripiano

dove lo scalone esterno si ricongiunge all’antica scala,

era posto il Processo Spaziale Religioso di Romano

Notari. L’artista folignate realizzò un grande soffitto

di 2 x 3 metri nel quale erano incastonati piccoli

volumi aggettanti; tutta l’opera l’aveva poi dipinta

con i suoi tipici colori solari.

Al secondo piano, direttamente poggiato sul

pavimento in cotto della loggetta di Romolo e Remo,

era l’In-Cubo di Luciano Fabro. Realizzato con un’esile

struttura in legno tenuta insieme da snodi metallici, il

piccolo cubo era ricoperto su cinque facce con una

Paolo Scheggi

Alberto Biasi

Luciano Fabro

Romano Notari

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Page 4: 07 saggio radi red ok RIV4:01 saggio tomassoni 5-11-2009 ... · “Lo Spazio dell’Immagine” a Foligno (1967) e realizzata molto velocemente nei primi sei mesi del 1967. Inaugurata

tela di cotone bianco. Il visitatore poteva sollevarlo,

entrare e richiudersi nel piccolo vuoto che conteneva

in maniera esatta ogni suo movimento: il lato del

cubo era di 1,83 metri.

Nella sala delle Arti liberali e dei Pianeti, senza alcun

preciso ordine, erano posti cinque Pozzi di

Michelangelo Pistoletto. Realizzati in fibra di vetro,

avevano una forma cilindrica – diametro 1,40 metri,

altezza 1 metro – con il bordo superiore

arrotondato verso l’esterno. Il fondo era risolto

con una superficie a specchio. Esternamente erano

completamente dipinti di bianco, mentre il colore

interno variava dal bianco al giallo chiaro, al giallo,

al giallo arancio e all’arancio. Il visitatore che si

appoggiava sul bordo e si affacciava ritrovava

la propria immagine riflessa tra le strutture

della copertura e le figure affrescate sulle pareti.

Pistoletto aveva già esposto questi pozzi alla

Galleria Sperone di Torino; le immagini che

compaiono nel catalogo della mostra si riferiscono

a quell’allestimento.

Al centro della sala collegata alla loggetta, dominata

dalla copia di un polittico di Nicolò Alunno, era posta

la Gabbia di Mario Ceroli. In realtà le gabbie erano

tre, una dentro l’altra come scatole cinesi, e per

arrivare al centro di quella più interna, dove era

collocata una seduta, il visitatore doveva seguire

uno stretto percorso tra le reti che chiudevano le

gabbie. Lo spazio, che aveva le dimensioni

di 4 x 4 x 3 metri di altezza, venne completamente

realizzato da Ceroli al Trinci utilizzando murali di

abete e rete metallica da pollaio.

Nella prima parte della sala dei Giganti si

snodava Il Tubo di Eliseo Mattiacci. Su una grande

pedana di 6 x 5 metri ricoperta di alluminio lucido era

poggiato, completamente aggrovigliato, un tubo

flessibile di alluminio corrugato dipinto di giallo: uno

spazio che stupiva perfino le grandi figure degli

imperatori affrescate sulle pareti della sala.

Nell’angolo opposto, davanti al camino, era stato

ricostruito lo storico Ambiente Spaziale di Lucio

Fontana. L’enorme cubo – 6 metri di lato – fu

leggermente ridotto in altezza con il permesso di

Fontana, fino a sfiorare le catene delle capriate che

coprono la sala. Realizzato con una struttura in legno,

era ricoperto all’esterno e all’interno con una tela

nera che schermava completamente la luce. L’ingresso

e l’uscita, ricoperti anch’essi di tela nera, erano

prolungati all’esterno in modo da assicurare il buio

completo. Ultimata la ricostruzione del contenitore

secondo le istruzioni che aveva fornito, Fontana

venne al momento di realizzare con vernice

fluorescente bianca i tracciati puntiformi che in alto

attraversavano le pareti e il soffitto. Penetrato

5756

Enrico Castellani

Enrico Castellani

Mario Ceroli Lucio Fontana

all’interno, il visitatore perdeva completamente le

dimensioni dello spazio ed era preso dai tracciati che

sotto le lampade di Wood diventavano luminosissimi.

Le immagini grafiche e fotografiche pubblicate

nel catalogo si riferiscono all’allestimento eseguito

nel 1949 alla Galleria Il Naviglio di Milano.

Nell’archivio della mostra sono conservati due

disegni di Fontana: il primo, inviato al momento

dell’adesione, è firmato “L. Fontana, Ambiente

Spaziale 1949”, mentre l’altro fu eseguito sul posto

con un sottile pennarello bruno per spiegare come

dovevano essere realizzati i tracciati.

Nella sala successiva era collocato l’ambiente

Naturale-Artificiale di Gino Marotta. In uno spazio

di 8,35 x 6,36 metri, alto 2,75 metri, Marotta aveva

costruito un bosco artificiale utilizzando elementi

di metacrilato traslucido stampato. Le pareti erano

ricoperte da sottili fogli di acciaio inossidabile

specchiante che moltiplicavano il suggestivo effetto in

ogni direzione. Il pavimento era rivestito di laminato

plastico bianco, mentre il soffitto, al quale erano

fissati con un ordine modulare i quattro elementi

di ogni albero, era chiuso da un velario bianco che

distribuiva in maniera uniforme la luce.

L’Ambiente Bianco che Enrico Castellani realizzò

lavorando al Trinci per molti giorni aveva le pareti

segnate da due ampie fughe prospettiche di punti in

rilievo e depressi che facevano vibrare la tela bianca

con piccole luci e ombre. Sulla parete di fondo si

raccordavano rigorosamente attraverso due angoli nei

quali la tela, tesa su supporti trapezi, assumeva una

doppia ampia curvatura.

Subito dopo il Cielo di Tano Festa, dedicato

dall’autore al fratello scomparso, il poeta Francesco

Lo Savio. Nello spazio erano disposti in sequenza

cinque elementi autoportanti in legno che

avevano uno spessore di 30 centimetri e un’altezza

di 2,10 metri. I lati esterni degli elementi terminali

erano verticali mentre le unioni interne, che

assumevano la forma di grandi incastri, consentivano

alla parete, completamente dipinta di bleu con

piccole nuvole bianche, di muoversi e dilatarsi

nello spazio.

L’opera presentata a Foligno, di proprietà del barone

Giorgio Franchetti, non corrisponde esattamente, nel

numero e nelle misure degli elementi, a quella che

Festa intendeva eseguire al momento dell’adesione.

Dopo il Cielo, i 32 MQ. di Mare Circa di Pino Pascali.

Sul pavimento, con un leggero scatto in prossimità

di un angolo, erano ordinate trenta sottili vasche

di acciaio verniciate di bianco che avevano ciascuna

le dimensioni di 1,10 x 1,10 metri. Le vasche erano

completamente riempite di acqua colorata con

aniline. Le tonalità, appena diverse da una vasca

all’altra, sfumavano dal verde turchese chiaro allo

smeraldo e al bleu intenso. L’immagine del visitatore,

che poteva liberamente circolare intorno, si rifletteva

sulla superficie colorata dell’acqua.

Gli ultimi cinque ambienti della mostra riguardavano

Michelangelo Pistoletto

Eliseo Mattiacci

Gino Marotta

Piero Gilardi

Pino Pascali

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Page 5: 07 saggio radi red ok RIV4:01 saggio tomassoni 5-11-2009 ... · “Lo Spazio dell’Immagine” a Foligno (1967) e realizzata molto velocemente nei primi sei mesi del 1967. Inaugurata

artisti impegnati nel campo dell’arte programmata.

Descrivere questi ambienti è cosa estremamente

difficile e ancor più difficile diventa immaginarne

gli effetti.

L’Ambiente Struttura del Gruppo N, ultimo nella

sala dei Concerti, era costituito da una grande sfera

rosa, appena sollevata da terra, ottenuta con una

fitta serie di canne di alluminio di diversa lunghezza

appese al soffitto e libere di muoversi. Sopra al

soffitto che chiudeva l’ambiente erano disposte

le apparecchiature elettriche e i programmatori.

La luce filtrava tra i tubi.

Quando si entrava nella sfera, le sottili canne,

battendo fra di loro, emettevano tintinnii metallici

che arricchivano i movimentati effetti luminosi.

Il complesso ambiente fu progettato appositamente

per la mostra di Foligno.

A questo punto il percorso tornava indietro, verso la

sala Sisto IV, dove per prima si incontrava la Camera

Stroboscopica Multidimensionale di Davide Boriani.

L’ambiente – 3,10 x 3,10 x 2,70 metri di altezza,

completamente nero – aveva le pareti interne rivestite

da specchi verticali diversamente orientati.

Sul soffitto erano collocati proiettori stroboscopici

e programmatori che emettevano in maniera

irregolare la luce. Lo spettatore che entrava, in una

condizione di instabilità vedeva la sua immagine

moltiplicata all’infinito in tutte le direzioni.

L’ambiente fu realizzato da Boriani nel 1966 e in

quell’anno venne esposto allo Stedelijk Museum

di Eindhoven.

Da Boriani si passava all’Ambiente Stroboscopico

Programmato del Gruppo MID. Appositamente

progettato per “Lo Spazio dell’Immagine”,

era costituito da un contenitore a geometria esagona,

con tre lati più brevi (1,20 metri) contrapposti ad altri

tre più lunghi (2,50 metri).

Su uno dei lati corti era risolto l’ingresso, chiuso

da una doppia tenda nera. All’altezza di due metri

e venti il piccolo spazio era schermato da un soffitto

che presentava, disposti a 120°, tre fori per il

passaggio della luce rossa, verde e bleu emessa

da fari sagomatori temporizzati. Le pareti e

il soffitto avevano una fitta rigatura verticale

bianca e nera.

Gianni Colombo e Gabriele De Vecchi, del Gruppo T,

aderirono individualmente alla mostra inviando però

un progetto unitario con due piccoli distinti spazi:

After-Structure quello di Colombo e Ambiente a

Strutturazione Virtuale quello di De Vecchi.

Ciascun ambiente aveva una pianta quadrata

di 2,50 metri di lato, aperta su un angolo per

consentire l’ingresso. Si trattava di due interpretazioni

programmate, disposte su un’unica pedana a piani

inclinati, che si distinguevano negli effetti che

i proiettori creavano sulle pareti diversamente trattate

e sul pavimento.

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Davide Boriani

Gruppo N

Ultimato il percorso interno e scesa l’ultima rampa

della scala gotica, dall’alto dello scalone esterno

si scopriva la grande mostra di Ettore Colla nella

corte del palazzo.

Le varie sculture in ferro erano collocate in uno spazio

perfettamente fruibile, di concezione moderna,

completamente realizzato in laterizio. Utilizzando

mattoni chiari, appena fermati con poca calce magra,

erano stati pavimentati i percorsi, individuate le

pedane e le basi, delimitati geometricamente

i fondi erbosi.

Non più quindi opere che si confrontavano con le

preesistenze, come era avvenuto a Spoleto qualche

anno prima nella mostra “Sculture nella città”, ma

un’intera sistemazione che autorevolmente si inseriva

tra le severe facciate del palazzo.

Lanfranco Radi

(Foligno, Perugia, 1932)

Nasce a Foligno nel 1932. Nello studio del pittore

Ugo Scaramucci apprende le nozioni fondamentali

delle varie tecniche pittoriche. I primi dipinti, per

lo più piccoli paesaggi, risentono della pittura di

Carlo Frappi. Ultimati gli studi scientifici si forma alla

facoltà di Architettura di Firenze, guadagnandosi la

stima di Adalberto Libera, Ludovico Quaroni,

Leonardo Ricci. Agli inizi degli anni sessanta riscopre

e restaura la scala gotica in palazzo Trinci. Stringe

amicizia con Dino Gavina e conosce i personaggi

dell’arte che frequentano la nuova fabbrica di

Foligno: Carlo Scarpa, presidente della società,

Fontana, Colla, Capogrossi, Takahama, Milani,

Marotta, Tippet, Perry, Li Yuan Chia. Nel 1967 con

Gino Marotta promuove e organizza in palazzo Trinci

“Lo Spazio dell’Immagine”, una mostra che coinvolge

un folto gruppo di giovani artisti emergenti nelle varie

tendenze attorno alla riproposizione dello storico

ambiente spaziale di Lucio Fontana e alla grande

antologica di Ettore Colla nella corte del palazzo.

Svanite le fortunate circostanze che per alcuni anni

avevano portato Foligno all’attenzione del mondo

dell’arte, concentra il suo impegno nel recupero

del patrimonio edilizio del territorio. Le conoscenze

acquisite in tanti anni di attività e l’amore per il

dettaglio trasmessogli da Gavina e da Scarpa lo

portano a pubblicare con il figlio Lorenzo Foligno in

particolare – elementi tipologici dell’edificazione

storica (1997). Introdotto da Paolo Marconi, il volume

è un riferimento fondamentale nella ricostruzione

del dopoterremoto.

Sempre più spesso si dedica alla pittura: “I segni

colorati che liberamente traccio con il pennello,

a poco a poco entrano in vibrazione e destano un

senso di stupore e di meraviglia simile a quello che

si prova di fronte a certe manifestazioni della natura:

i colori assumono valenze musicali e sprigionano una

luce trascendentale”. Non ama esporre. Le sue opere

sono note solo agli amici che frequentano la sua casa.

Presentato da Silvia Pegoraro, partecipa con sei grandi

dipinti a una mostra nella rocca di Sassocorvaro

nell’estate del 2000. Con rigore e distacco indaga a

lungo, dal vero, anche le forme e i colori del mondo

vegetale. Molti dei disegni realizzati a partire dai primi

anni ottanta, esposti per la prima volta a Corciano

nella mostra “Herbe”, curata da Antonio Carlo Ponti

(1991), sono stati raccolti per l’ACRI – Associazione

fra le Casse di Risparmio Italiane – in due splendidi

volumi da Pieraldo editore, Roma. In Hortus Celatus

(1996), un saggio critico di Italo Tomassoni introduce

centotrenta tavole sulle piante spontanee eduli della

tradizione popolare, mentre in Hortus Mirabilis (1999)

centodieci tavole sui fiori e sui frutti accompagnano

un racconto autobiografico dello scrittore Giampaolo

Rugarli. Per questi suoi interessi verso la natura ha

ricevuto nel 2000 il premio speciale della giuria al

premio internazionale Giardini Botanici di Hanbury

e il premio internazionale Benozzo Gozzoli per

l’ambiente naturale a Montefalco.

Tano Festa

Gabriele De Vecchi Gruppo MID

Gianni Colombo

Le sculture di Ettore Colla nel cortile di palazzo Trinci

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Getulio Alviani

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Agostino Bonalumi

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Davide Boriani Enrico Castellani

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Mario Ceroli Ettore Colla

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Gabriele De Vecchi

Luciano Fabro

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Tano Festa Piero Gilardi

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Eliseo Mattiacci Gino Marotta

fare bn

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Gruppo MID Progetto tridimensionale dello spazio, 1967Pareti in legno truciolare, apparatostroboscopico composto da tre fari occhio di bue muniti di motore elettrico e croce di malta

Visitatori all’interno dell’ambiente con effetto della luce stroboscopica, foto d’epoca, 1967

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Gruppo N – Alberto Biasi

Gruppo N – Ennio Chiggio, Toni Costa,Edoardo Landi, Manfredo Massironi

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Pino Pascali Romano Notari

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Michelangelo Pistoletto Paolo Scheggi

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