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Presentazione Tre lampi nella notte, come stelle piovute dal cielo. Sono Gabriel, l’arcangelo guerriero, Ivy, la guaritrice, e infine Bethany, alla sua prima esperienza sulla Terra. Sono stati inviati a Venus Cove perché una serie di tragedie si è abbattuta su quella pacifica cittadina di mare: una liceale ha perso la vita in un incendio, un altro studente è rimasto ucciso scivolando da un tetto, alcuni bambini sono morti a causa di una violenta influenza... Per gli esseri umani si è trattato di tragiche fatalità; per gli angeli, invece, sono segni ben precisi di un piano demoniaco assai più vasto. E il compito di Bethany, che ha assunto le sembianze di un’adolescente, è frequentare la Bryce Hamilton School per scoprire se c’è un legame tra la scuola e le Forze Oscure. Sebbene l’impatto con la nuova realtà sia traumatico e fare amicizia coi compagni sembri un’impresa impossibile, Bethany a poco a poco si cala nella parte e inizia a parlare come loro, ad agire come loro e, soprattutto, ad amare come loro: agli angeli è proibito provare sentimenti umani tuttavia, non appena incrocia lo sguardo di Xavier – uno sguardo che nasconde un passato doloroso –, lei si sente pronta persino a infrangere le leggi del Cielo pur di stare con lui... L’amore la distruggerà o il suo atto di ribellione salverà il mondo? Alexandra Adornetto è nata a Melbourne il 18 aprile 1992. La narrativa è sempre stata la sua grande passione: quando aveva solo tredici anni, ha rinunciato alle vacanze estive pur di portare a termine la stesura di un romanzo e, da allora, non ha mai smesso di scrivere. Rebel è il suo primo libro a essere pubblicato in America ed è subito entrato nelle classifiche del New York Times e di Publishers Weekly. Attualmente si divide fra l’Australia e gli Stati Uniti, dove spera di affiancare all’attività di scrittrice anche quella di attrice.

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PresentazioneTre lampi nella notte, come stelle piovute dal cielo. Sono Gabriel, l’arcangelo guerriero, Ivy,

la guaritrice, e infine Bethany, alla sua prima esperienza sulla Terra. Sono stati inviati a Venus Cove perché una serie di tragedie si è abbattuta su quella pacifica cittadina di mare: una liceale ha perso la vita in un incendio, un altro studente è rimasto ucciso scivolando da un tetto, alcuni bambini sono morti a causa di una violenta influenza... Per gli esseri umani si è trattato di tragiche fatalità; per gli angeli, invece, sono segni ben precisi di un piano demoniaco assai più vasto. E il compito di Bethany, che ha assunto le sembianze di un’adolescente, è frequentare la Bryce Hamilton School per scoprire se c’è un legame tra la scuola e le Forze Oscure. Sebbene l’impatto con la nuova realtà sia traumatico e fare amicizia coi compagni sembri un’impresa impossibile, Bethany a poco a poco si cala nella parte e inizia a parlare come loro, ad agire come loro e, soprattutto, ad amare come loro: agli angeli è proibito provare sentimenti umani tuttavia, non appena incrocia lo sguardo di Xavier – uno sguardo che nasconde un passato doloroso –, lei si sente pronta persino a infrangere le leggi del Cielo pur di stare con lui...

L’amore la distruggerà o il suo atto di ribellione salverà il mondo?

Alexandra Adornetto è nata a Melbourne il 18 aprile 1992. La narrativa è sempre stata la sua grande passione: quando aveva solo tredici anni, ha rinunciato alle vacanze estive pur di portare a termine la stesura di un romanzo e, da allora, non ha mai smesso di scrivere. Rebel è il suo primo libro a essere pubblicato in America ed è subito entrato nelle classifiche del New York Times e di Publishers Weekly. Attualmente si divide fra l’Australia e gli Stati Uniti, dove spera di affiancare all’attività di scrittrice anche quella di attrice.

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NARRATIVA

Titolo originaleHalo

Traduzione diLaura Prandino e

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Alice Gerratana

ISBN 978-88-429-1995-7

Copyright © 2010 by Alexandra AdornettoPublished by arrangement with Marco Vigevani Agenzia Letteraria

and Jill Grinberg Literary Management, LLC

© 2011 Casa Editrice Nord s.u.r.l.Gruppo editoriale Mauri Spagnol

Rebel

A Frau Hale,per avermi insegnato le cose veramente importanti

Oh, parla ancora, angelo luminoso!Perché tu, stando sul mio capo, apparigloriosa a questa notte come un alato

messaggero del Cielo agli occhi stupiticol bianco in alto, dei mortali che cadono

all’indietro per guardarlo.WILLIAM SHAKESPEARE,

Romeo e Giulietta, atto II, scena II

Baby, I can see your haloyou know you’re my saving grace

BEYONCÉ, Halo

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1 Discesa

Il nostro arrivo non era andato esattamente come previsto. Ricordo che era quasi l’alba, perché i lampioni erano ancora accesi. Avevamo sperato che la nostra discesa passasse inosservata ed era stato così... a eccezione del ragazzo che consegnava i giornali.

Aveva circa tredici anni, era in bicicletta e teneva i quotidiani, incellofanati, arrotolati come manganelli. C’era foschia e lui portava un giubbotto col cappuccio. Sembrava scommettesse con se stesso sul punto esatto in cui far cadere il giornale. I quotidiani atterravano sui vialetti e sulle verande con un tonfo e il ragazzo sorrideva soddisfatto ogni volta che centrava il bersaglio. Poi il latrato di un Jack Russel dietro un cancello gli aveva fatto alzare gli occhi: era stato così che ci aveva visto.

Il suo sguardo si era sollevato giusto in tempo per scorgere una colonna di luce bianca che si ritraeva fra le nuvole, lasciando tre individui pallidi e spettrali in mezzo alla strada. Nonostante la forma umana, qualcosa in noi lo aveva spaventato: forse la pelle, che risplendeva come la luna, forse le ampie tuniche da viaggio lacerate dalla discesa turbolenta, forse il modo in cui ci studiavamo gambe e braccia, come se non sapessimo bene cosa farne, o forse il vapore acqueo che ancora c’imperlava i capelli. Quale che fosse la ragione, il ragazzo aveva perso l’equilibrio: la bici aveva scartato e lui era finito in un canaletto di scolo. Poi si era rialzato ed era rimasto lì, impalato, combattuto tra paura e curiosità. Gli avevamo teso le mani, in quello che ci auguravamo fosse un gesto rassicurante. Ma ci eravamo scordati di sorridere e, quando ci era venuto in mente come si faceva, era troppo tardi. Mentre cercavamo di atteggiare le labbra nel modo giusto, il ragazzo era girato sui tacchi ed era scappato.

Non eravamo ancora abituati alla nostra forma corporea; c’erano troppe parti da coordinare. Si trattava di un meccanismo complesso. Mi sentivo i muscoli del viso e del corpo rigidi, le gambe mi tremavano come a un bambino che muove i primi passi, e gli occhi non erano ancora abituati alla diversa luminosità terrestre. Venuti da un luogo di luce abbacinante, non potevamo conoscere le ombre.

Gabriel si era avvicinato alla bicicletta – la ruota anteriore girava ancora – e l’aveva raddrizzata, appoggiandola contro la recinzione più vicina. Sapeva che il ragazzo sarebbe tornato a recuperarla.

Avevo immaginato il suo ritorno a casa e il racconto ai genitori sbalorditi. La madre che gli scostava i capelli dalla fronte per controllare che non avesse la febbre. Il padre, ancora insonnolito, che borbottava qualcosa sui brutti scherzi che può giocare la mente quando non ha di meglio da fare.

Individuata Byron Street, avevamo percorso il marciapiede dissestato alla ricerca del numero 15. I nostri sensi erano presi d’assalto da ogni direzione, in quel mondo così vivido e variopinto. Partiti da un mondo di puro candore, eravamo arrivati in una strada che pareva la tavolozza di un pittore. Oltre ai colori, ogni cosa aveva una consistenza propria e una forma diversa. Il vento che mi sfiorava la punta delle dita sembrava così vivo da indurmi a chiedermi se avrei potuto catturarlo allungando la mano. Avevo aperto la bocca, assaporando l’aria pungente. Avevo sentito l’odore della benzina e quello del pane tostato che si mescolavano col profumo dei pini e con la fragranza penetrante dell’oceano. La cosa peggiore era il rumore. Il vento sembrava ululare e il mare che si frangeva sugli scogli mi rimbombava in testa, come se lì accanto ci fosse una mandria in fuga. Sentivo tutto quello che succedeva nella strada, il motore di un’auto, una porta che sbatteva, il pianto di un bimbo, un vecchio dondolo che cigolava nel vento sotto un portico...

«Imparerai a escluderlo», aveva detto Gabriel. Il suono della sua voce mi aveva fatto sobbalzare. A casa non ci serviva il linguaggio per comunicare. La voce umana di Gabriel era bassa

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e gradevole.«Quanto mi ci vorrà?» avevo chiesto, trasalendo al grido di un gabbiano sopra di me. La mia

voce era melodiosa come la musica di un flauto.«Non molto», aveva risposto Gabriel. «Se non opponi resistenza, è più facile.»Byron Street s’impennava nel mezzo e proprio lì, nel punto più alto, c’era la nostra nuova

casa. Ivy ne era stata subito conquistata. «Guardate», aveva gridato. «Ha persino un nome!» La casa prendeva il nome dalla strada e, su una targa di rame, era inciso BYRON in un elegante corsivo. Avremmo scoperto in seguito che pure le strade circostanti prendevano il nome da poeti romantici inglesi: Keats Grove, Coleridge Street, Blake Avenue.

Byron House sarebbe diventata la nostra casa e il nostro rifugio per tutto il tempo di permanenza sulla Terra. Con le finestre su entrambi i lati dell’ingresso e una graziosa facciata georgiana di arenaria, era un po’ arretrata rispetto alla strada, dietro una recinzione e un cancello di ferro a doppio battente. Un vialetto coperto di ghiaia conduceva al portone d’ingresso, dall’aria un po’ scrostata. Il giardino era dominato da un olmo maestoso, attorno al quale cresceva una massa di edera. Lungo la recinzione c’era un mare di orchidee, con le infiorescenze pastello che tremavano nel gelo mattutino. Mi piaceva quella casa: sembrava fatta per resistere a qualunque avversità.

«Bethany, dammi la chiave», aveva detto Gabriel.Custodire la chiave di casa era l’unico incarico che mi era stato affidato. Avevo frugato nelle

tasche profonde del mio abito. «Ce l’ho qui, da qualche parte...»«Ti prego, non dirmi che l’hai già persa.»«Siamo piombati giù dal cielo, sai», avevo replicato, indignata. «È facile perdersi qualcosa.»D’un tratto, Ivy era scoppiata a ridere. «Ce l’hai al collo!»Sospirando di sollievo, mi ero sfilata la catena e l’avevo passata a Gabriel.Non appena eravamo entrati, avevamo capito che la casa era stata preparata per noi. Gli

Agenti Divini che ci avevano preceduto erano stati meticolosi e non avevano badato a spese.All’interno, tutto evocava la luce. I soffitti erano altissimi, le stanze ariose. Dall’ingresso, a

sinistra si accedeva a una sala da musica, in cui c’era un pianoforte a mezza coda, mentre a destra si entrava nel salone. Più avanti, c’era uno studio, che si affacciava su un cortile, in cui c’erano persino un’amaca e un’altalena. Il retro della casa era un’aggiunta recente: comprendeva un’ampia cucina tutta marmo e acciaio e uno spazioso soggiorno con tappeti persiani e morbidi divani. Una portafinestra si apriva su un grande patio in legno di sequoia. Di sopra c’erano le camere da letto e il bagno principale, con la vasca incassata nel pavimento e le finiture di marmo. Mentre esploravamo la casa, i pavimenti di legno scricchiolavano, come a darci il benvenuto. Poi si era messo a piovigginare e le gocce sul tetto d’ardesia ci erano sembrate dita che accennavano una melodia al pianoforte.

Trascorremmo quelle prime settimane a poltrire e ad acclimatarci. Ci guardavamo attorno, cercavamo di abituarci ad avere una forma corporea, e c’immergevamo nei rituali della vita quotidiana. C’era tantissimo da imparare, e di certo non era facile. All’inizio, facevamo un passo e il terreno sotto i piedi ci sorprendeva. Sapevamo che, sulla Terra, ogni cosa – dall’aria alla roccia, dal legno agli animali – era composta da materia combinata in un codice molecolare, ma sperimentarlo fu incredibile. Ci trovammo circondati da barriere fisiche che dovevamo imparare ad aggirare, cercando di evitare il conseguente senso di claustrofobia. Ogni volta che prendevo un oggetto, indugiavo ad ammirarne la funzione. La vita degli umani era complicatissima: c’erano aggeggi per bollire l’acqua, prese per la corrente elettrica e tutta una serie di apparecchi in cucina e in bagno concepiti per risparmiare tempo e aumentare il comfort. Ogni cosa aveva una consistenza diversa, un diverso odore: era uno spettacolo per i sensi. Intuivo che Ivy e Gabriel avrebbero voluto tornare a un beato silenzio, ma io assaporavo ogni momento, per quanto sconvolgente fosse.

Certe sere, veniva a trovarci un mentore senza volto e vestito di bianco; compariva d’un tratto, in una poltrona del salotto. Sebbene non ne conoscessimo l’identità, sapevamo che fungeva

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da intermediario tra gli angeli sulla Terra e i poteri celesti. Di solito, ci riunivamo attorno a lui per valutare le difficoltà dell’incarnazione e ottenere qualche risposta alle nostre domande.

«Il padrone di casa ci ha chiesto dei documenti relativi alla nostra residenza precedente», disse Ivy al primo incontro.

«Ci scusiamo per l’omissione. Consideratela cosa fatta», replicò il mentore. Il suo viso era completamente nascosto ma, quando parlava, dal cappuccio uscivano sbuffi di vapore bianco.

«Quanto tempo occorrerà per sentirci del tutto a nostro agio in questi corpi?» volle sapere Gabriel.

«Dipende. Non più di qualche settimana, comunque. Purché non vi opponiate al cambiamento.»

«Come se la cavano gli altri emissari?» Ivy era preoccupata.«Alcuni si stanno ancora adattando alla vita umana, come voi, mentre altri sono già nel

pieno della battaglia», rispose il mentore. «Certi angoli della Terra sono infestati dagli Agenti delle Tenebre.»

«Perché il dentifricio mi dà il mal di testa?» intervenni.Mio fratello e mia sorella mi lanciarono uno sguardo severo, però il mentore non si

scompose. «Perché contiene alcune sostanze chimiche piuttosto forti, per sterminare i batteri. Il mal di testa dovrebbe passare nel giro di una settimana.»

Dopo le consultazioni, Gabriel e Ivy si appartavano sempre a confabulare e io rimanevo lì a chiedermi cos’avessero da dirsi che non potevo ascoltare.

La prima grande sfida fu prenderci cura del nostro corpo. Era fragile. Aveva bisogno di nutrimento e di protezione dagli agenti atmosferici. Il mio più di quello degli altri due, perché ero più giovane; era la mia prima visita e non avevo ancora sviluppato nessuna difesa. Gabriel era un guerriero dalla notte dei tempi e Ivy aveva poteri di guaritrice. Io invece ero molto più vulnerabile. Le prime volte in cui mi ero avventurata fuori, a passeggiare, ero rientrata tremando perché ero vestita in modo inadeguato. Gabriel e Ivy non avvertivano il freddo, ma anche i loro corpi avevano bisogno di manutenzione. Ci aveva sorpreso il fatto che, verso mezzogiorno, ci sentivamo indeboliti; poi avevamo capito la necessità di consumare pasti regolari. La preparazione del cibo era un compito tedioso; alla fine, era stato Gabriel a offrirsi cortesemente di farsene carico. C’era una vasta collezione di libri di cucina nella fornitissima biblioteca di casa, e lui si era messo a studiarli ogni sera.

Mantenevamo al minimo i contatti con gli umani. Facevamo la spesa nelle ore più tranquille, andando nella vicina e più grande Kingston, e non rispondevamo alla porta né al telefono. Facevamo lunghe passeggiate quando gli umani erano impegnati al chiuso. Ogni tanto, andavamo in città e ci sedevamo ai tavolini all’aperto di qualche bar per osservare i passanti, cercando però di non attirare l’attenzione. L’unica persona alla quale ci presentammo fu padre Mel, il parroco di Saint Mark, una chiesetta di basalto vicino al mare.

«Santo cielo», esclamò lui nel vederci. «Così siete arrivati, finalmente.»Padre Mel ci piacque subito, perché non faceva domande né aveva pretese; si univa

semplicemente a noi in preghiera. Speravamo che, col tempo, la nostra impercettibile influenza riaccendesse la spiritualità della gente del posto. Non ci aspettavamo che diventassero tutti praticanti e andassero a messa ogni domenica, ma volevamo rinsaldare la loro fede e insegnare a credere nei miracoli. Se si fossero semplicemente fermati in chiesa per accendere una candela mentre andavano a fare la spesa, ne saremmo stati felici.

Venus Cove era una sonnolenta cittadina di mare, uno di quei posti dove non cambiava mai nulla. Quella tranquillità ci piaceva e avevamo preso l’abitudine di passeggiare sulla spiaggia all’ora di cena, quand’era praticamente deserta. Una sera, ci spingemmo fino al molo a guardare le barche attraccate, pitturate a colori così vivaci che parevano uscite da una cartolina. Arrivammo alla fine del molo prima di notare il ragazzo lì seduto, solo. Non doveva avere più di diciassette anni, ma già si scorgeva in lui l’uomo che sarebbe diventato. Indossava un paio di bermuda e una T-shirt bianca con le maniche tagliate. Le gambe muscolose penzolavano oltre il bordo del molo. Stava pescando e, accanto a sé, aveva una borsa di iuta piena di esche e di ami assortiti. Ci fermammo di colpo non

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appena ci accorgemmo della sua presenza, e ce ne saremmo anche andati subito se non ci avesse già visto pure lui.

«Ciao!» esclamò con un gran sorriso. «Bella serata per fare due passi, eh?»Mio fratello e mia sorella si limitarono a un cenno del capo.A me sembrava maleducato non rispondere, quindi feci un passo avanti. «Sì, proprio bella»,

dissi.Immagino che quello sia stato il primo segno di debolezza: lasciarmi trascinare dalla

curiosità umana. Da noi ci si aspettava che avessimo contatti con gli umani, ma senza stringere amicizia con loro né farli entrare nella nostra vita. Avevo già cominciato a trascurare le regole della missione. Sapevo che avrei dovuto tacere e andarmene; invece indicai le canne da pesca. «Pescato qualcosa?»

«Lo faccio solo per divertirmi», rispose, mostrandomi il secchio vuoto. «Se per caso prendo qualcosa, lo ributto in acqua.»

Feci un altro passo, per osservarlo meglio. Quel ragazzo aveva capelli castano chiaro, del colore delle noci. Gli ricadevano sulla fronte e risplendevano nella luce fioca del tramonto. Gli occhi chiari, di un turchese mozzafiato, avevano un taglio vagamente a mandorla. Ma il tratto più affascinante era il suo sorriso. Ecco come si fa, pensai. Senza sforzo, d’istinto. È un tratto così umano... Mi sentii attratta da lui, quasi come da una forza magnetica. Ignorando lo sguardo ammonitore di Ivy, mi avvicinai ancora.

«Vuoi provare?» propose il ragazzo, intuendo la mia curiosità, e mi porse la canna da pesca.Mentre cercavo una risposta appropriata, Gabriel intervenne: «Adesso andiamo, Bethany.

Dobbiamo rientrare».Il modo di esprimersi di Gabriel mi sembrò così formale in confronto a quello del ragazzo...

Le sue parole sembravano preparate, come se recitasse. E forse anche a lui pareva di recitare, come un personaggio di uno di quei vecchi film di Hollywood che avevo guardato per documentarmi.

«Magari la prossima volta», disse il ragazzo, avvertendo la tensione di Gabriel. Quando sorrideva, strizzava un po’ le palpebre. Qualcosa nella sua espressione mi fece pensare che si stesse prendendo gioco di noi. Mi allontanai di malavoglia.

«Sei stato maleducato», dissi a mio fratello. Fui la prima a stupirmi di quel commento. Da quando gli angeli si preoccupavano di apparire superbi? Da quando scambiavo per maleducazione i modi distaccati di Gabriel? Era la sua natura; lui non era in sintonia con gli umani, non li capiva. E io lo rimproveravo perché non era umano.

«Dobbiamo stare attenti, Bethany», spiegò lui, come se si rivolgesse a una bambina testarda.«Gabriel ha ragione», rincarò Ivy, come sempre dalla sua parte. «Non siamo ancora pronti

per i rapporti con gli umani.»«Io credo di esserlo», dissi.Mi voltai per guardare il ragazzo un’ultima volta. Ci stava sempre osservando, e sorrideva

ancora.

2 Incarnazione

La mattina dopo, al mio risveglio, raggi di sole entravano dalle alte finestre, inondando le assi di pino della stanza, e granelli di polvere danzavano frenetici nella luce. Nell’aria, avvertivo l’odore salmastro, riconoscevo i lamenti striduli dei gabbiani e il fragore delle onde spumose che s’infrangevano sugli scogli. Osservai gli oggetti che consideravo ormai familiari: di certo, chi si era

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occupato dell’arredamento l’aveva fatto pensando ai futuri occupanti. I mobili bianchi, il letto in ferro a baldacchino e la carta da parati a roselline davano alla camera un fascino tutto femminile, completato dalla toeletta con un motivo floreale a stencil sui cassetti, dalla sedia a dondolo di vimini nell’angolo e dall’elegante scrivania con le gambe tornite contro la parete accanto al letto.

Mi stiracchiai; la sensazione delle lenzuola sgualcite contro la pelle era ancora una novità. Da dove venivamo noi, non c’era niente di concreto, nessun oggetto. Il Paradiso non è facile da descrivere. Alcuni umani, a volte, potevano coglierne una visione fuggevole nelle profondità del loro subconscio e chiedersi cosa sia. È come avere davanti una distesa bianca, una città invisibile in cui non c’è niente di concreto eppure con la vista più meravigliosa che si possa immaginare. Un cielo d’oro liquido e quarzo rosa, che comunica una sensazione di gioia e leggerezza, apparentemente vuoto eppure più maestoso del più imponente palazzo sulla Terra. È questo il meglio che riesco a fare per descrivere qualcosa di così ineffabile come il luogo da cui veniamo.

Non ero particolarmente colpita dal linguaggio umano, assurdamente limitato. Troppe cose non potevano essere espresse a parole. Era una delle cose più tristi degli umani: i loro pensieri e sentimenti più importanti spesso non trovavano voce, e loro non riuscivano a comprenderli. Una delle parole più frustranti, a mio avviso, era «amore»: un significato così enorme legato a una parola così piccola! La gente la sbandierava di continuo, in riferimento a oggetti, ad animali, a luoghi di vacanza e persino a cibi. E, nella stessa frase, riuscivano a usarla per definire la persona più importante della loro vita. Non era un insulto? Possibile che non ci fosse un altro termine per definire un’emozione così profonda? Gli umani si preoccupavano moltissimo dell’amore; erano disposti a tutto pur di trovare la loro «metà». In base alle mie letture, «innamorarsi» significava diventare il mondo interno dell’amato, al cui confronto l’intero universo impallidiva, diventava insignificante. Se separati, gli amanti cadevano in uno stato di prostrazione, e solo quando si riunivano i loro cuori riprendevano a battere. Soltanto insieme riuscivano a vedere davvero i colori del mondo che, separandosi, sprofondava in un grigio indistinto. Stesa sul letto, riflettevo sull’intensità di quelle emozioni così inconfutabilmente umane. Come poteva il viso di una persona diventare così sacro da rimanere per sempre impresso nella memoria? E come potevano il suo odore e il suo tocco diventare più preziosi della vita stessa? Ovviamente non sapevo nulla dell’amore umano, però l’idea mi aveva sempre incuriosito. Gli esseri celesti non si curavano delle relazioni umane, per quanto profonde fossero, tuttavia mi sembrava stupefacente che gli umani permettessero a un’altra persona d’impadronirsi dei loro cuori e delle loro menti. L’amore li risvegliava alle meraviglie dell’universo solo per confinare la loro attenzione esclusivamente su una persona. Ironico, vero?

I rumori di Gabriel e Ivy in cucina interruppero le mie fantasticherie, spingendomi fuori dal letto. A che serviva ruminarci sopra, se l’amore umano era precluso agli angeli?

Mi avvolsi in un plaid di cachemire e scesi a piedi scalzi. In cucina, mi accolse il profumo invitante di pane tostato e caffè. Ero contenta di vedere che mi stavo abituando alla vita umana: solo poche settimane prima, quegli odori mi avrebbero procurato il mal di testa o un attacco di nausea, invece adesso cominciavo a godermi l’esperienza. Persino la sensazione del parquet liscio sotto i piedi era piacevole. Non m’importò nemmeno quando, mezza addormentata, urtai con l’alluce contro il frigo. La fitta di dolore servì a ricordarmi che ero reale e viva.

«Buon pomeriggio, Bethany», scherzò mio fratello, porgendomi una tazza di tè fumante. La strinsi e mi scottai le dita. Gabriel se ne accorse e si accigliò. Sì, a differenza dei miei fratelli, non ero proprio immune al dolore.

La mia forma corporea era tanto vulnerabile quanto quella di un umano «normale», anche se potevo guarirmi piccole ferite, tagli e ossa rotte. Era stato uno dei crucci di Gabriel quand’ero stata prescelta: aveva temuto che la missione si rivelasse troppo pericolosa per me. Eppure ero stata scelta perché, più degli altri angeli, ero in sintonia con gli umani: vegliavo su di loro, cercavo di comprenderli, avevo fede in loro, per loro piangevo e con loro m’identificavo. Forse perché ero così giovane: creata soltanto diciassette anni prima, in termini celesti ero quasi una bambina. Ivy e Gabriel erano in circolazione da secoli; avevano combattuto battaglie e assistito ad atrocità umane che non potevo neppure immaginare. Avevano quindi avuto tutto il tempo di acquisire la forza e il

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potere necessari per proteggersi sulla Terra. L’avevano visitata entrambi per varie missioni, si erano adattati ed erano consapevoli dei pericoli e delle insidie. Io invece ero un angelo nella forma più pura e vulnerabile. Ero ingenua e fiduciosa, giovane e fragile. Provavo dolore perché non ero protetta da anni di saggezza e di esperienza. Ecco perché Gabriel non avrebbe voluto che scegliessero me. Ed ecco perché ero stata scelta.

La decisione finale non era toccata a lui, bensì a un essere così alto che neppure Gabriel aveva osato contraddire. Dietro quella scelta doveva esserci una ragione divina che andava ben oltre la sua comprensione. Aveva dovuto rassegnarsi.

Bevvi esitante un sorso di tè e sorrisi a mio fratello. Con un’espressione più distesa, Gabriel prese una scatola di cereali e ne esaminò l’etichetta. «Preferisci pane tostato o questi Honey Wheat Flakes?»

«Pane tostato», risposi, arricciando il naso alla vista dei cereali.Seduta al tavolo, Ivy imburrava pigramente una fetta di pane. Stava ancora cercando di

sviluppare il gusto per il cibo; tagliò la fetta in quadratini regolari, li sparpagliò nel piatto e poi li rimise insieme, come se fossero un puzzle. Andai a sedermi accanto a lei e inalai l’inebriante profumo di fresia che sembrava aleggiarle attorno.

«Sembri un po’ pallida», osservò Ivy con la sua solita calma, scostandosi la ciocca di capelli biondo chiaro che le era caduta sugli occhi grigi come la pioggia.

«Non è niente», replicai. E, dopo un momento di esitazione, aggiunsi: «Solo un brutto sogno».

S’irrigidirono entrambi e si scambiarono uno sguardo preoccupato.«Non direi ’niente’, allora», mormorò Ivy. «Sai che noi non sogniamo.»Gabriel si scostò dalla finestra, si avvicinò e mi sollevò il mento con un dito. Aveva di

nuovo quell’espressione accigliata che offuscava la solenne bellezza del suo viso. «Attenta, Bethany», mi raccomandò col suo solito tono da fratello maggiore. «Cerca di non affezionarti alle esperienze corporee, anche se ti sembrano eccitanti. Ricorda che siamo qui solo di passaggio. Tutto questo è temporaneo. Prima o poi, dovremo tornare...» Accorgendosi del mio sguardo sconsolato, s’interruppe di colpo. Quando riprese a parlare, lo fece in tono più sereno. «Be’, passerà molto tempo prima che accada. Ne riparleremo.»

Era strano visitare la Terra con Ivy e Gabriel, che attiravano parecchia attenzione ovunque andassimo. Nella sua forma corporea, Gabriel era così ben proporzionato da sembrare una scultura classica che avesse preso vita: ogni suo muscolo pareva scolpito nel marmo più candido. Aveva la fronte alta, il naso dritto e i capelli color sabbia che gli ricadevano sulle spalle e che lui spesso portava raccolti in una morbida coda. Quella mattina, poi, indossava jeans scoloriti e consunti sulle ginocchia e una sgualcita camicia di lino, e l’insieme gli conferiva un fascino sbarazzino. Gabriel era un Arcangelo, uno dei «Sacri Sette», l’esclusiva schiera che, pur occupando solo il secondo posto nella gerarchia divina, interagiva più delle altre con gli esseri umani. In effetti, quella schiera era stata creata per fare da collegamento tra il Signore e i mortali. Nel profondo, però, Gabriel era un guerriero – il suo nome celeste significava «Eroe di Dio» – e aveva visto bruciare Sodoma e Gomorra.

Ivy non dimostrava più di vent’anni, eppure era tra i membri più saggi e antichi della nostra specie. Era un Serafino, l’ordine angelico più vicino al Signore. Nel Regno, i Serafini avevano sei ali per simboleggiare i sei giorni della creazione. Un serpente d’oro tatuato sul polso rivelava il suo rango. Si diceva che, in battaglia, i Serafini si schierassero in prima fila per sputare fuoco sulla Terra, ma Ivy era una delle creature più miti che avessi mai conosciuto. Nella sua forma corporea, somigliava a una madonna rinascimentale, dal pallido viso ovale e dal collo di cigno. Come Gabriel aveva occhi penetranti e grigi. Quella mattina, indossava un vaporoso abito bianco e sandali dorati.

Io, al contrario, non avevo niente di speciale: ero un semplicissimo angelo della Transizione, il gradino più basso. La cosa, tuttavia, non mi dispiaceva affatto, perché significava che potevo interagire con gli spiriti umani che entravano nel Regno. La mia forma corporea era simile a quella del resto della famiglia, tranne che per gli occhi scuri come le pietre di fiume e i capelli ondulati color cioccolato che mi scendevano lungo la schiena. Una volta reclutata per la missione, mi ero

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illusa che avrei potuto scegliere il mio aspetto, ma non era andata così. Ero stata creata snella e minuta, non particolarmente alta, con un viso a forma di cuore e una pelle bianca come il latte. Ogni volta che coglievo di sfuggita la mia immagine riflessa, notavo un’impazienza che mancava nei volti dei miei fratelli. Nemmeno provandoci riuscivo ad apparire distaccata come Ivy e Gabriel. La loro espressione di solenne compostezza era quasi immutabile, qualunque dramma si svolgesse davanti a loro. La mia, invece, rivelava un’incessante curiosità, per quanto mi sforzassi di apparire distaccata.

Ivy si avvicinò al lavandino col piatto in mano; come al solito, camminava come se stesse danzando. Sia lei sia Gabriel si muovevano con una grazia spontanea che io ero incapace d’imitare. Più di una volta ero stata accusata di avere il passo pesante e di essere anche un po’ goffa.

Sbarazzatasi della fetta di pane mangiata per metà, Ivy si allungò sulla panca sotto la finestra, col giornale davanti.

«Che notizie ci sono?» chiesi.Per tutta risposta, lei sollevò la prima pagina, mostrandomela. Lessi i titoli –

bombardamenti, disastri naturali, crisi economica – e mi sentii subito sconfitta.«Non c’è da meravigliarsi che le persone non si sentano sicure», disse Ivy, sospirando.

«Mancano di fiducia reciproca.»«Se è così, cosa possiamo fare per loro?» domandai, esitante.«Non aspettiamoci troppo e troppo presto», rispose Gabriel. «Si dice che ci voglia tempo per

i cambiamenti.»«E poi non sta a noi salvare il mondo», sospirò Ivy. «Dobbiamo concentrarci sulla piccola

parte che ci è stata affidata.»«Vuoi dire questa città?»«Esatto. È stata indicata come bersaglio delle Forze Oscure. Scelgono posti davvero strani.»«Immagino che comincino dal basso per poi salire», esclamò Gabriel con una smorfia.

«S’impadroniscono prima di una cittadina, poi di una metropoli, quindi di uno Stato...»«Come facciamo a sapere quanti danni hanno già provocato?» intervenni.«Si vedrà col tempo», disse Gabriel. «Ma giuro che metteremo fine alla loro distruzione e,

prima di ripartire, questo posto sarà di nuovo nelle mani del Signore.»«Intanto cerchiamo di mimetizzarci con l’ambiente», propose Ivy, forse per tirarci su di

morale.Poco mancò che scoppiassi a ridere. Fui tentata di suggerirle di guardarsi allo specchio. Sarà

anche stata antica come il tempo, ma talvolta Ivy sembrava proprio ingenua. Persino io mi rendevo conto che «mimetizzarci» non sarebbe stato facile. Chiunque si sarebbe accorto che eravamo diversi, e non nel senso di «studente d’arte con capelli tinti di blu e T-shirt strane». Noi eravamo davvero diversi, ultraterreni in senso letterale. Niente d’insolito, considerato chi eravamo... o piuttosto cosa eravamo. Diverse cose ci rendevano particolari. Per cominciare, gli umani erano imperfetti e noi no. Poi c’era la nostra pelle, così luminosa che sembrava contenere particelle di luce. Al buio, la cosa diventava ancora più evidente: ogni zona di pelle esposta risplendeva, come alimentata da una fonte di energia interiore. Non lasciavamo impronte, neppure su superfici cedevoli come l’erba o la sabbia. Infine non portavamo mai t-shirt che lasciavano scoperta la pancia, in modo da nascondere un piccolo inconveniente... estetico.

Di certo la popolazione locale si domandava che cosa ci facessimo in un posto sperduto e sonnolento come Venus Cove. Probabilmente ci considerava ricchi turisti che si erano concessi una vacanza prolungata oppure personaggi famosi venuti lì per cercare un po’ di tranquillità. Nessuno poteva sospettare che avessimo il compito di aiutare un mondo sull’orlo della distruzione. Eppure bastava aprire un giornale o accendere la TV per capire a quale scopo ci avevano inviato lì: omicidi, sequestri, attacchi terroristici, guerre... l’orribile lista pareva infinita. Le anime in pericolo erano così numerose che gli Agenti delle Tenebre avevano colto l’occasione per riunirsi, e noi eravamo stati mandati per controbilanciarne l’influenza. Altri Agenti della Luce erano stati destinati in varie parti del mondo e, alla fine, saremmo stati convocati per esporre le nostre conclusioni. Sapevo che la situazione era disastrosa, ma ero sicura che non avremmo fallito. Anzi credevo che sarebbe stato

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facile, che la nostra semplice presenza sarebbe stata la soluzione divina. Stavo per scoprire quanto mi sbagliassi.

Essere finiti a Venus Cove era stato comunque una fortuna. Il paesaggio era così ricco di contrasti da lasciarti senza fiato: certi tratti di costa erano aspri e spazzati dal vento e, dalla nostra casa, si vedevano le scogliere a picco sull’oceano cupo e ribollente e si sentiva il vento che ululava tra gli alberi. Poco più all’interno, invece, c’erano scenari bucolici di colline ondulate, mucche al pascolo e graziosi mulini a vento.

Gran parte delle abitazioni di Venus Cove erano modeste casette rivestite di assi di legno consumate dal tempo ma, avvicinandosi alla costa, lungo ampi viali alberati, c’erano costruzioni più grandi e imponenti, tra cui la nostra Byron House. Gabriel non ne era particolarmente entusiasta: si sarebbe sentito più a suo agio in una casa meno lussuosa. Ivy e io, invece, la adoravamo. E, se i poteri supremi non consideravano un male che ci godessimo al meglio il nostro periodo sulla Terra, perché avremmo dovuto farlo noi? Sospettavo che la casa non ci avrebbe aiutato a mimetizzarci, ma lo tenni per me. Non volevo lamentarmi quando già mi sentivo un peso per la missione.

Venus Cove contava circa tremila abitanti, un numero che raddoppiava d’estate, quando la cittadina si trasformava in un luogo di vacanza. Indipendentemente dalla stagione, gli abitanti erano aperti e cordiali. Mi piaceva l’atmosfera che si respirava: non c’erano manager in giacca e cravatta che sgomitavano per fare carriera; nessuno aveva fretta. Non c’era nessuna differenza tra chi cenava nel migliore ristorante della città o nel bar sulla spiaggia. Erano tutti troppo rilassati per badare a sciocchezze del genere.

«Sei d’accordo, Bethany?»La voce profonda di Gabriel mi richiamò al presente. Cercai di riannodare i fili della

conversazione, ma invano. «Scusa... ero distratta. Dicevi?»Gabriel si rabbuiò, leggermente infastidito dalla mia disattenzione. «Stavo dettando qualche

regola di base. D’ora in poi, sarà tutto diverso.»Quella mattina, saremmo andati alla Bryce Hamilton School, io come studentessa e Gabriel

come nuovo insegnante di musica. Avevamo deciso che la scuola era un buon posto per cominciare la nostra opera contro gli Agenti delle Tenebre. I giovani, infatti, erano sempre più esposti, più facilmente influenzabili. Ivy era troppo ultraterrena per la scuola, così avevamo stabilito che ci avrebbe fatto da guida e si sarebbe occupata della nostra sicurezza o, meglio, della mia sicurezza, dato che Gabriel se la cavava benissimo da solo.

«L’importante è non dimenticare mai perché siamo qui», disse Ivy. «La nostra missione è chiara: compiere buone azioni, atti di carità e bontà, dare il buon esempio. Non vogliamo fare miracoli, non ancora, almeno finché non sapremo come verrebbero accolti. Nel contempo, dovremo osservare e imparare il più possibile sulle persone. La cultura umana è molto complessa e diversa da ogni altra cosa nell’universo.»

Sospettavo che quelle regole di base fossero più che altro a mio beneficio, perché Gabriel non aveva mai avuto difficoltà, in nessuna situazione.

«Ci divertiremo», commentai, forse con un po’ troppo entusiasmo.«Non si tratta di divertirsi», ribatté Gabriel. «Non hai sentito quello che abbiamo detto?»«Dobbiamo allontanare le influenze malvagie e far sì che le persone riscoprano la fiducia

reciproca», intervenne Ivy in tono conciliante. «Gabe, non preoccuparti di Bethany. Se la caverà.»«In poche parole, siamo qui per benedire la comunità», continuò Gabriel. «Ma senza dare

troppo nell’occhio. La nostra priorità è non farci individuare. Bethany, ti prego di non dire nulla che possa... turbare gli studenti.»

«In che senso?» chiesi, un po’ offesa. «Non credo di essere così spaventosa.»«Sai bene cosa intende Gabriel», chiarì Ivy. «Dice solo che dobbiamo riflettere prima di

parlare. Niente chiacchiere su casa tua, niente ’Dio ritiene...’ né ’Dio mi ha detto...’ Penserebbero che sei sotto l’effetto di chissà cosa.»

«Va bene», replicai, stizzita. «Ma spero almeno di poter svolazzare per i corridoi nell’intervallo.»

Gabriel mi lanciò un’occhiataccia. Aspettai che afferrasse la battuta ma il suo sguardo

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rimase severo. Sospirai. Gli volevo bene, ma non sapeva neppure dove stava di casa il senso dell’umorismo.

«Non temere, mi comporterò bene. Lo prometto.»«È essenziale che impari a controllarti», mi rammentò Ivy.Sospirai di nuovo. Sapevo di essere l’unica a doversi controllare. Ivy e Gabriel avevano

abbastanza esperienza da farlo senza neppure pensarci: conoscevano le regole a menadito. Non era giusto. E anche la loro personalità era più equilibrata. Avrebbero potuto essere il Re e la Regina dei Ghiacci: imperturbabili com’erano, niente li preoccupava e soprattutto niente li turbava, come attori consumati che recitavano senza sforzo. Per me era diverso. Avevo faticato sin dall’inizio. Per qualche ragione, diventare umana mi aveva davvero sconvolto. Non ero preparata all’intensità dell’esperienza; era come passare di colpo da un vuoto beato a una vertigine di sensazioni, che si sovrapponevano e mutavano di continuo come dune di sabbia. Il risultato era una confusione totale. Avrei dovuto mantenere un certo distacco, dominare le emozioni, ma non avevo ancora capito come. Mi meravigliava il fatto che gli esseri umani riuscissero a convivere con quel tumulto, con quel fremito continuo e spossante. Cercai di nascondere le mie difficoltà a Gabriel; non volevo dargli ragione né volevo che mi giudicasse male perché dovevo sforzarmi. Se lui e Ivy avevano sperimentato qualcosa del genere, di certo non lo lasciavano trapelare.

Ivy si offrì di preparare la mia uniforme scolastica e di trovare una camicia pulita e un paio di pantaloni per Gabe. Come membro del corpo insegnante, Gabriel era tenuto a portare camicia e cravatta e l’idea non lo entusiasmava. Di solito indossava jeans e T-shirt. Qualunque indumento stretto ci dava la sensazione di essere legati e gli abiti, in generale, ci facevano sentire in trappola. Provai quindi un moto di simpatia per Gabriel quando lui ridiscese, muovendosi a disagio nella camicia bianca che gli stringeva il torace muscoloso e tentando di allentare almeno un po’ il nodo della cravatta.

Non era l’abbigliamento l’unica differenza: avevamo dovuto imparare anche altri rituali, come farsi la doccia, lavarsi i denti e pettinarsi. Nel Regno non ce n’era bisogno: quella era un’esistenza senza necessità di manutenzione. La nostra forma corporea era esigente: c’erano un sacco di cose da fare e da ricordare.

«Sicura che ci siano queste regole di abbigliamento per gli insegnanti?» domandò Gabriel.«Credo di sì», rispose Ivy. «Ma, se anche mi sbagliassi, vorresti davvero correre un simile

rischio il primo giorno?»«Cosa c’era che non andava in quello che indossavo prima?» brontolò Gabriel, arrotolandosi

le maniche della camicia per liberarsi almeno le braccia. «Se non altro, era comodo.»Ivy fece un verso di disapprovazione e si rivolse a me, per controllare se la mia uniforme era

a posto.Dovevo ammettere che, per essere una divisa, era abbastanza elegante. Di un bell’azzurro

chiaro, con la gonna plissettata e il colletto bianco tondo. A completarla, calzettoni di cotone al ginocchio, mocassini marroni con la fibbia, e una giacca blu con lo stemma della scuola ricamato in oro sul taschino. Ivy aveva comprato dei nastri bianchi e azzurri e me li intrecciò nei capelli con mani esperte. «Ecco fatto», disse, sorridendo soddisfatta. «Da ambasciatrice celeste a studentessa perfetta.»

La parola «ambasciatrice» m’innervosì. Si portava appresso un gran peso e troppe aspettative. E non si trattava delle cose normali che gli umani si aspettavano dai figli, come tenere in ordine la loro stanza, badare ai fratellini o fare i compiti. Le aspettative che gravavano su di me andavano soddisfatte per forza, altrimenti... be’, non sapevo cosa sarebbe successo.

Mi sentivo le ginocchia molli. «Non sono sicura di farcela, Gabe», mormorai. «E se non fossi pronta?»

«Non sta a noi decidere», replicò lui, imperturbabile. «Noi abbiamo un solo scopo: compiere il nostro dovere verso il Creatore.»

«Io voglio farlo, ma qui si tratta di scuola. Un conto è osservare la vita da bordo campo, un altro è buttarsi nella mischia.»

«È proprio questo il punto. Da bordo campo non si può agire.»

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«E se qualcosa va storto?»«Ci sarò io a raddrizzarlo.»«È che la Terra sembra un posto così pericoloso per gli angeli...»«Ecco perché ci sono io.»I pericoli che temevo non erano solo fisici. Quelli eravamo attrezzati ad affrontarli. A

preoccuparmi era il fascino esercitato da tutto ciò che era umano. Dubitavo di me stessa e sapevo che, in quel modo, rischiavo di perdere di vista il mio obiettivo. In fondo era già successo, con conseguenze disastrose: tutti conoscevamo quelle storie spaventose di angeli caduti, sedotti dai piaceri umani. Sapevamo bene che fine avevano fatto.

Ivy e Gabriel osservavano il mondo circostante con occhi esperti ed erano consapevoli di ogni insidia.

Per una novizia come me, il pericolo era enorme.

3 Venus Cove

La Bryce Hamilton School si trovava in periferia, in cima a una collina. Da ogni punto dell’edificio si godeva uno splendido panorama: i vigneti e le colline verdeggianti con qualche mucca al pascolo, o le aspre scogliere di Shipwreck Coast, la «costa dei naufragi», che doveva il suo nome alle numerose navi affondate nell’ultimo secolo in quelle acque insidiose. La stessa scuola, una costruzione in pietra calcarea con finestre ad arco, era uno degli edifici più antichi della città e, fino agli anni ’60, era stata un convento.

Una scalinata di pietra conduceva a un arco coperto di rampicanti, sotto il quale si apriva un portone a doppio battente. Annessa all’edificio centrale c’era una piccola cappella, anch’essa di pietra. Avevamo saputo che, ogni tanto, vi si celebrava ancora la messa, ma per gli studenti era soprattutto un rifugio. I terreni della scuola erano circondati da un alto muro di cinta, e un grande cancello di ferro dava accesso alle auto lungo un viale coperto di ghiaia.

Nonostante l’aspetto antiquato, la Bryce Hamilton veniva considerata una scuola al passo coi tempi. Famosa per l’attenzione dedicata ai temi sociali, era prediletta da quei genitori progressisti che intendevano sottrarre i figli a ogni forma di repressione. La maggior parte degli studenti aveva rapporti di lunga data con la scuola, dato che pure i loro genitori e i loro nonni l’avevano frequentata.

Con Ivy e Gabriel ci fermammo fuori dai cancelli per osservare gli studenti che arrivavano. Mi pareva di avere un nugolo di farfalle nello stomaco, una sensazione sgradevole eppure eccitante. Dovevo ancora abituarmi all’effetto delle emozioni sul corpo umano. Trassi un respiro profondo. Buffo che essere un angelo non mi aiutasse più di tanto ad affrontare il nervosismo da primo giorno. Non avevo bisogno di essere umana per sapere che le prime impressioni potevano fare la differenza tra l’accettazione e l’isolamento. Avevo ascoltato le preghiere delle adolescenti, che spesso supplicavano di essere incluse nei club più popolari o di trovare un ragazzo che giocasse nella squadra di rugby. Quanto a me, speravo solo di farmi qualche amico.

Gli studenti arrivavano a gruppetti: le ragazze erano vestite come me; i maschi indossavano calzoni grigi, camicia bianca e cravatta a righe verdi e blu. Persino così era semplice distinguere le diverse «bande», che già avevo osservato dal Regno. Il gruppo dei musicisti era composto di ragazzi coi capelli lunghi, che scendevano sugli occhi in ciocche disordinate. Si portavano appresso le custodie degli strumenti e si scarabocchiavano accordi sulle braccia. Arrivavano senza fretta, con la camicia che penzolava fuori dai calzoni. In disparte, c’era un gruppetto di dark: mi chiesi come

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potessero farla in barba al regolamento della scuola, con quegli occhi cerchiati di nero e coi capelli sparati e rigidi di gel. Invece quelli che si consideravano artisti avevano aggiunto accessori stravaganti all’uniforme: baschi, cappelli, sciarpe colorate... Alcune ragazze si muovevano in branco, tenendosi a braccetto. Poi c’erano i tipi studiosi, facili da riconoscere: divise immacolate, zaino ufficiale della scuola, passo deciso e testa china. Sembravano impazienti di raggiungere la biblioteca. Un gruppo di ragazzi – con le camicie di fuori, le cravatte allentate e le scarpe da ginnastica – ciondolava all’ombra di alcune palme, bevendo dalle lattine. Sembravano non avere la minima fretta di varcare i cancelli della scuola: stavano lì a spintonarsi, a saltarsi addosso e a rotolarsi, ridendo e grugnendo insieme. Un ragazzo tirò in testa a un amico una lattina vuota, che rimbalzò e rotolò rumorosamente sul marciapiede. Il giovane restò per un attimo sbalordito, poi scoppiò a ridere.

Osservavamo tutto con costernazione crescente e ancora non avevamo oltrepassato i cancelli. Un ragazzo ci superò e poi si voltò, incuriosito. Portava un berretto da baseball al contrario e i pantaloni della divisa così calati sui fianchi da lasciare in bella vista l’elastico delle mutande firmate.

«Devo ammettere che certe tendenze della moda non le sopporto proprio.» Gabriel arricciò le labbra.

Ivy rise. «Siamo nel XXI secolo, non essere così critico.»«Non è quello che fanno gli insegnanti?»«Suppongo di sì, ma non aspettarti di essere benvoluto.» Guardò verso l’entrata e raddrizzò

la schiena, nonostante la postura già perfetta. Strinse la spalla di Gabriel e mi passò una cartellina con gli orari delle lezioni, la pianta della scuola e altre informazioni che aveva raccolto durante la settimana. «Sei pronta?» mi chiese.

«Non potrei esserlo di più», risposi, cercando di farmi forza. Mi sembrava di andare in battaglia. «Cominciamo.»

Ivy restò davanti ai cancelli ad agitare la mano, come una madre che saluta il figlio il primo giorno di scuola.

«Andrà tutto bene, Bethany», promise Gabriel. «Ricorda da dove veniamo.»Sapevamo che il nostro arrivo non sarebbe passato inosservato, ma non ci aspettavamo che

la gente si fermasse a guardarci a bocca aperta o si facesse da parte come se fossimo una coppia reale in visita. Cercai di non fissare nessuno negli occhi e seguii Gabriel fino alla segreteria, una stanza con una moquette verde scuro e una fila di sedie imbottite. Attraverso un tramezzo di vetro si scorgeva un ufficio con un ventilatore a stelo e scaffali alti fin quasi al soffitto. Ci accolse una donna bassa e tonda, con un cardigan rosa. Un telefono sulla scrivania accanto trillò e lei lanciò un’occhiata tagliente a una segretaria, per farle capire che toccava a lei rispondere. La sua espressione tuttavia si ammorbidì quando si avvicinò abbastanza da vederci in faccia.

«Buongiorno», disse giuliva, squadrandoci dalla testa ai piedi. «Sono Mrs Jordan, la segretaria amministrativa della scuola. Tu devi essere Bethany, e lei...» La sua voce scese di una tonalità mentre apprezzava i lineamenti perfetti di Gabriel. «... deve essere Mr Church, il nuovo insegnante di musica.» Abbandonò il riparo del divisorio di vetro e s’infilò sotto il braccio la cartellina che aveva con sé per stringerci la mano con entusiasmo. «Benvenuti alla Bryce Hamilton! Ho assegnato a Bethany un armadietto al terzo piano; possiamo andarci anche adesso, così poi la accompagnerò in sala professori, Mr Church. Le riunioni si tengono di martedì e giovedì. Spero si troverà bene, qui da noi. Scoprirà che è un posto pieno di vita. In tutta onestà, posso affermare di non essermi mai annoiata in vent’anni.»

Gabriel e io ci scambiammo un’occhiata, chiedendoci se fosse un’allusione per metterci in guardia su cosa dovevamo aspettarci.

La donna ci guidò all’esterno, oltre i campi da basket, dove un gruppo di ragazzi sudati tirava furiosamente a canestro.

«Oggi pomeriggio ci sarà una partita importante», ci confidò Mrs Jordan, strizzando l’occhio. Dopo una rapida occhiata alle nuvole che si stavano ammassando, si accigliò. «Spero proprio che la pioggia se ne stia alla larga. I ragazzi ci resterebbero così male se dovessero

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rinunciare alla partita...»Mentre lei continuava a chiacchierare, Gabriel alzò lo sguardo. Con discrezione, girò la

mano, rivolgendo il palmo verso il cielo e chiuse gli occhi. I suoi anelli d’argento istoriato luccicarono al sole. Subito, come in risposta al suo silenzioso comando, i raggi di luce si affacciarono dalle nuvole, inondando il terreno di una luminosità dorata.

«Be’, chi l’avrebbe mai detto!» esclamò Mrs Jordan. «Il tempo è cambiato. A quanto pare, ci avete portato fortuna.»

Nell’ala principale, i corridoi avevano la moquette bordeaux, e le porte di quercia con pannelli di vetro si affacciavano sulle aule dall’aria antiquata. I soffitti erano alti e conservavano ancora i vecchi lampadari lavorati, in netto contrasto con gli armadietti ricoperti di graffiti allineati nel corridoio e con l’odore leggermente nauseabondo di deodorante misto a detersivo e a grasso di hamburger proveniente dalla mensa. Mrs Jordan ci guidò in un rapidissimo giro turistico, indicandoci i servizi principali: il cortile riparato da un tendone, la sezione arte e multimedia, l’edificio di scienze, l’aula magna, la palestra, i campi da gioco e le piste d’atletica, e il centro per le arti dello spettacolo, altrimenti conosciuto come CAS. Ovviamente aveva molta fretta e infatti, dopo avermi mostrato l’armadietto, biascicò qualche indicazione per raggiungere l’infermeria, mi disse di non esitare a farle domande e trascinò via Gabriel per il gomito. Lui si voltò verso di me con sguardo apprensivo.

«Te la caverai?» chiese senza emettere suono.Per tutta risposta, sorrisi, sperando di sembrare più ottimista di quanto non mi sentissi. Non

volevo che Gabriel si preoccupasse per me: aveva già le sue faccende da sbrigare. Proprio in quel momento, in tutto l’edificio echeggiò il suono di una campanella, il segnale d’inizio delle lezioni. Di colpo, mi ritrovai in un corridoio pieno di sconosciuti, che mi passavano accanto per raggiungere le loro classi. Per un attimo, mi sentii invisibile come se non avessi nessun motivo di essere lì. Esaminai il mio orario: quel miscuglio di numeri e lettere avrebbe potuto anche essere scritto in una lingua straniera, dato che per me non aveva il minimo senso. VE.CHIM.S11: come diamine potevo decifrarlo? Considerai persino l’idea di filarmela e tornare a Byron Street.

«Scusa.» Attirai l’attenzione di una ragazza che si stava avvicinando a grandi passi. Aveva una cascata di riccioli rosso tiziano. Si fermò e mi osservò con interesse. «Sono nuova», spiegai, smarrita, mostrandole l’orario. «Potresti dirmi cosa significa?»

«Che hai chimica con Mr Velt nell’aula S-11», rispose lei. «È proprio di fronte all’ingresso. Ti ci accompagno, se vuoi, siamo nella stessa classe.»

«Grazie», dissi con evidente sollievo.«Hai un buco, dopo chimica? Così ti porto in giro.»«Come?» domandai, sempre più confusa.«Un buco, un’ora libera.» La ragazza mi guardò, divertita. «Come le chiamavate nella tua

vecchia scuola?» Cambiò espressione, valutando una possibilità più inquietante. «O non ne avevate?»

«No», risposi con una risata nervosa. «Infatti.»«Bello schifo doveva essere. Comunque io sono Molly.»Era una bella ragazza, dalla carnagione splendente, con lineamenti morbidi e occhi brillanti.

Il suo colorito roseo mi ricordava un quadro che avevo visto, con una pastorella in un paesaggio bucolico.

«E io sono Bethany», dissi con un sorriso. «Piacere di conoscerti.»Molly mi aspettò paziente vicino all’armadietto mentre rovistavo nello zaino alla ricerca del

libro di testo, di un quaderno a spirale e di alcune penne. Una parte di me voleva chiamare Gabriel e chiedergli di riportarmi a casa. Riuscivo quasi a sentire le sue braccia forti che mi circondavano, tenendomi al riparo da tutto, e mi guidavano verso Byron Street. Riusciva sempre a farmi sentire al sicuro, in ogni circostanza. Ma non sapevo come trovarlo in quell’enorme scuola; avrebbe potuto essere dietro una delle innumerevoli porte di quei corridoi tutti uguali. Non avevo idea di come trovare la sezione di musica. Mi rimproverai in silenzio per quella dipendenza da Gabriel. Dovevo imparare a sopravvivere là dentro senza di lui, ed ero decisa a dimostrargli che potevo riuscirci.

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D’un tratto, Molly aprì una porta ed entrammo in classe. Ovviamente in ritardo.Mr Velt era un ometto pelato con la fronte lucida. Indossava un maglione a disegni

geometrici, scolorito da troppi lavaggi. Quando Molly e io entrammo, stava spiegando una formula scarabocchiata alla lavagna. Lo sguardo vacuo degli studenti rivelava il desiderio di trovarsi in qualsiasi altro posto che non fosse quello.

«Sono lieto che sia riuscita a unirsi a noi, Miss Harrison», disse Mr Velt a Molly, che sgattaiolò in fretta verso il fondo dell’aula. Avendo già controllato il registro sapeva chi ero. «In ritardo il primo giorno, Miss Church», aggiunse, schioccando la lingua e inarcando un sopracciglio. «Non è esattamente un buon inizio. Si sbrighi a prendere posto.» Poi si ricordò che doveva presentarmi agli altri. «Ragazzi, questa è Bethany Church. È nuova alla Bryce Hamilton quindi fate del vostro meglio per farla sentire benvenuta.»

Quasi tutti gli occhi mi seguirono mentre occupavo l’ultimo posto disponibile. Era in fondo, vicino a Molly e, quando Mr Velt smise di spiegare e ci disse di lavorare sulla serie successiva di domande, la esaminai con più attenzione. Vidi che il primo bottone della sua divisa era sbottonato e che alle orecchie portava grossi cerchi d’argento. Dalla tasca aveva tirato fuori una limetta per le unghie che usava sotto il banco, ignorando sfacciatamente la lezione.

«Non preoccuparti di Velt», mi sussurrò, notando il mio sguardo sorpreso. «Da quando sua moglie ha chiesto il divorzio, è diventato severo, insopportabile e nevrotico. L’unica cosa che lo tiene in carreggiata è la sua decappottabile nuova, ma quando la guida sembra uno sfigato.» Sorrise, rivelando la bocca larga e i denti bianchissimi. Esagerava col mascara, ma la sua pelle aveva una luminosità naturale. «Bel nome, Bethany», continuò. «Forse un po’ antiquato. Ma, sai, a me è toccato Molly, come il personaggio di un libro per bambini.»

Sorrisi, un po’ a disagio, senza ben sapere cosa dire a quella ragazza così diretta e sicura di sé. «Suppongo che dobbiamo adattarci tutti ai nomi scelti dai nostri genitori», mormorai, rendendomi subito conto di quanto fosse maldestro il mio tentativo di fare conversazione. Forse non avrei dovuto parlare durante la lezione, anche perché il povero Mr Velt aveva bisogno di tutto l’aiuto possibile. E poi mi sentivo a disagio, dato che gli angeli non avevano genitori. Per un attimo, pensai che Molly non ci sarebbe cascata, ma non fu così.

«Allora, da dove vieni?» volle sapere, mentre soffiava sulle unghie di una mano e, con l’altra, scuoteva una bottiglietta di smalto rosa fluorescente.

«Abbiamo vissuto all’estero», risposi, chiedendomi come avrebbe reagito sapendo che venivo dal Regno dei Cieli. «I nostri genitori sono ancora là.»

«Davvero?» Molly sembrava colpita. «Dove?»Esitai. «In diversi posti. Viaggiano molto.»Molly sembrò accettare la cosa, come se non ci fosse niente di strano. «Cosa fanno?»Annaspai alla ricerca di una risposta. Sapevo che ne avevamo parlato, ma avevo un vuoto di

memoria. Solo io potevo fare un errore del genere alla mia prima ora da studentessa. Poi mi ricordai. «Sono diplomatici», dissi. «Sono qui con mio fratello maggiore, che ha appena cominciato a insegnare proprio in questa scuola. I nostri genitori ci raggiungeranno appena possibile.» Sciorinavo informazioni per soddisfare la sua curiosità ed evitare altre domande. Per natura, gli angeli sono pessimi bugiardi. Speravo che Molly abboccasse. Tecnicamente, niente di quello che avevo raccontato era una bugia.

«Figo», esclamò lei. «Non sono mai stata all’estero, però qualche volta sono andata in città. Meglio che ti prepari a cambiare vita, a Venus Cove. Di solito, è tutto molto tranquillo da queste parti, anche se ultimamente sono successe cose un po’ strane.»

«Che vuoi dire?»«Be’, io ho sempre vissuto qui; ci vivevano anche i miei nonni, avevano un’attività in paese.

E per tutto questo tempo non è mai successo niente di brutto; qualche incendio in fabbrica, qualche incidente in barca, ma adesso...» Abbassò la voce. «Ci sono stati furti, incidenti inspiegabili... L’anno scorso c’è stata un’epidemia d’influenza e sei bambini sono morti.»

«È terribile», mormorai. Stavo cominciando a rendermi conto dei danni compiuti dagli Agenti delle Tenebre. «C’è altro?»

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«Sì», rispose Molly. «Ma cerca di non parlarne, qui a scuola: molti ragazzi sono ancora a pezzi.»

«Non temere, terrò la bocca chiusa», le assicurai.«Be’, più o meno sei mesi fa, uno dell’ultimo anno, Henry Taylor, si è arrampicato sul tetto

per recuperare il pallone da basket che era finito lassù. Non stava facendo lo scemo, cercava solo di buttare giù la palla. Nessuno sa come sia successo... ma è scivolato e caduto. Proprio al centro del campo. I suoi amici hanno visto tutto. Non sono mai riusciti a lavar via completamente le macchie di sangue, quindi ormai non ci gioca più nessuno.»

Prima che potessi dire qualcosa, Mr Velt si schiarì la gola e ci guardò, minaccioso. «Miss Harrison, presumo che stia spiegando alla nuova allieva il concetto di ’legame covalente’.»

«Ehm, non proprio, Mr Velt», rispose Molly. «Non voglio annoiarla a morte il primo giorno di scuola.»

Sulla fronte di Mr Velt vidi pulsare una vena e capii che forse dovevo intervenire. Convogliai verso di lui un’energia tranquillizzante e, con una certa soddisfazione, vidi che lentamente si calmava. Le spalle si rilassarono, il viso perse la tonalità livida e ne riacquistò una più naturale. Guardò Molly e ridacchiò con aria tollerante, quasi paterna. «Ha un notevole senso dell’umorismo, Miss Harrison.»

Molly sembrò perplessa, ma fu abbastanza furba da non fare ulteriori commenti. «Per me, è in piena crisi di mezza età», si limitò a sussurrarmi.

Mr Velt finse di non sentire e si diede da fare col proiettore per le diapositive.Soffocando un gemito, cercai di rimanere calma. Noi angeli risplendevamo già abbastanza

alla luce del sole. Al buio era peggio, ma si poteva ancora mascherare, però non sapevo come sarebbe finita con la luce alogena di un proiettore sopra la testa. Decisi che non valesse la pena rischiare. Chiesi il permesso di andare in bagno e sgusciai via. Restai fuori, in attesa che Mr Velt finisse la sua presentazione e riaccendesse la luce. Le diapositive scattavano con un rumore secco e, attraverso i vetri della porta, compresi che si trattava di una spiegazione semplificata dei legami di valenza. Sperai di non dovermi occupare a lungo di concetti così facili.

«Ti sei persa?»Una voce alle mie spalle mi fece sobbalzare. Mi girai e vidi un ragazzo appoggiato agli

armadietti di fronte alla porta. Anche se con la camicia abbottonata, la cravatta ben annodata e la giacca della scuola aveva un aspetto più formale, quel viso e quei capelli castani che gli spiovevano sui vividi occhi turchesi erano inconfondibili. Non mi aspettavo d’incontrarlo di nuovo. Eppure il ragazzo del molo mi stava proprio davanti, con lo stesso sorriso.

«Tutto a posto, grazie», replicai, tornando subito a girarmi. Mi aveva riconosciuto? Sperai che voltargli la schiena, per quanto sgarbato, lo inducesse a non continuare la conversazione. Mi aveva colto di sorpresa... In più, in lui c’era qualcosa che mi agitava: mi sembrava di non saper più dove guardare o dove mettere le mani.

«Sai, di solito s’impara meglio stando dentro l’aula», continuò, placido.Fui costretta a voltarmi di nuovo. Con un’occhiata gelida, cercai di fargli capire che non mi

andava di chiacchierare con lui ma, quando incontrai i suoi occhi, accadde qualcosa di totalmente inaspettato, una reazione fisica immediata e sconvolgente, come se il mondo mi sprofondasse sotto i piedi. Dovetti farmi forza per non precipitare.

Dovevo essergli sembrata sul punto di svenire, perché d’istinto tese un braccio per sostenermi. Notai il bel bracciale di cuoio intrecciato che portava al polso, unico particolare in contrasto con l’abbigliamento classico.

Il ricordo che avevo di lui non gli rendeva giustizia. Era davvero bello come un attore, ma senza nessuna traccia di vanità. La bocca era incurvata in un mezzo sorriso e gli occhi limpidi avevano una profondità di cui prima non mi ero accorta. Era snello, ma sotto l’uniforme intuivo le spalle di un nuotatore. Mi guardava come se volesse aiutarmi, ma non sapesse come e, ricambiando il suo sguardo, capii che gran parte del suo fascino veniva dalla sua compostezza, dai lineamenti regolari e dalla pelle liscia. Avrei voluto uscirmene con una risposta spiritosa per sfoggiare altrettanta sicurezza, però non mi venne in mente nulla.

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«Solo un giramento di testa, tutto qui», borbottai.Si avvicinò di un passo, ancora preoccupato. «Hai bisogno di sederti?»«No, adesso sto bene.» Scossi la testa con decisione.Rassicurato, mi porse la mano. «L’altra volta che ci siamo visti non ho potuto presentarmi...

Mi chiamo Xavier.»Quindi non se l’era dimenticato.La sua mano era grande e calda. Trattenne la mia più a lungo del dovuto. Mi ricordai

cos’aveva detto Gabriel sull’evitare il più possibile il contatto umano diretto. Accigliata, ritrassi la mano. Fare amicizia con quel ragazzo così bello e con quel sorriso da cento watt non era esattamente la mossa più saggia, ma un furioso batticuore mi rivelò che ero già nei guai. Stavo imparando a leggere i segnali del mio corpo e sapevo che quel ragazzo mi rendeva nervosa. Ma c’era anche qualcos’altro che non riuscivo a identificare. Indietreggiai verso la porta dell’aula, dove avevano appena riacceso le luci. Sapevo di essere scortese, ma ero troppo agitata per badarci. Xavier non sembrò offeso ma perplesso.

«Io mi chiamo Bethany», riuscii a dire, già quasi oltre la soglia.«Ci si vede, Bethany», replicò lui.Mentre rientravo nell’aula di chimica, mi sentivo rossa come un gambero.Mr Velt mi accolse con uno sguardo accusatorio, rimproverandomi silenziosamente di

essermi trattenuta troppo a lungo in bagno.

All’ora di pranzo, avevo ormai capito che la Bryce Hamilton era un campo minato di proiettori e di altre trappole studiate apposta per stanare gli angeli in incognito come me. A ginnastica, quasi mi prese un colpo quando scoprii di dovermi cambiare davanti alle altre ragazze, che nel frattempo si erano spogliate senza pensarci due volte, gettando i vestiti a terra o negli armadietti. Molly mi chiese di aiutarla con le spalline del reggiseno. Lo feci, augurandomi che non si accorgesse del mio tocco innaturalmente morbido.

«Cavolo, ma te le idrati di continuo, le mani?»«Ogni sera», risposi disinvolta.«Allora, che te ne pare finora dei ragazzi della Bryce Hamilton? Abbastanza bollenti?»«Non direi proprio ’bollenti’», mormorai, perplessa. «Mi sembra che abbiano una

temperatura corporea normale.»Molly sgranò gli occhi. Stava per scoppiare a ridere, ma la mia espressione la convinse che

non era una battuta. «Bollente nel senso di bello, figo», esclamò. «Davvero non l’hai mai sentito prima? Ma dove andavi a scuola, su Marte?»

Arrossii. «In realtà non ne ho ancora conosciuti molti», dissi, alzando le spalle. «Solo uno che si chiama Xavier», aggiunsi, sperando di suonare indifferente.

«Quale Xavier?» chiese Molly, tutta orecchie. «Quello biondo? Xavier Laro è biondo e gioca nella squadra di lacrosse. Lui sì che è uno bollente. Capisco che ti piaccia, ma credo che abbia già una ragazza. O hanno rotto? Non sono sicura, posso scoprirlo.»

«Quello che dico io ha i capelli castani e gli occhi azzurri», la interruppi.«Oh.» L’espressione di Molly cambiò. «Allora deve essere Xavier Woods, il rappresentante

degli studenti.»«Be’, sembra carino.»«Se fossi in te, non ci starei troppo dietro», disse con aria preoccupata. Sembrava convinta

che avrei seguito quel consiglio senza fiatare. Forse era una delle regole nel mondo delle adolescenti: «Le amiche hanno sempre ragione».

«Molly, io non sto dietro a nessuno», replicai, ma non potei fare a mano di chiedere: «Perché, ha qualcosa che non va?» Mi pareva impossibile che quel ragazzo appena conosciuto fosse meno che perfetto.

«Oh, è abbastanza carino», rispose lei. «Però diciamo che ha del... bagaglio.»

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«Che significa?»«Be’, per anni un mucchio di ragazze ha cercato di attirare la sua attenzione, ma lui è

sentimentalmente impegnato.»«Ha già una ragazza?»«Ce l’aveva. Si chiamava Emily. Ma nessuno ha potuto consolarlo quando...» Molly

s’interruppe.«Hanno rotto?» suggerii.«No.» Abbassò la voce e intrecciò le mani, inquieta. «È morta in un incendio, poco più di un

anno fa. Fino a quel momento erano stati inseparabili. Si diceva persino che si sarebbero sposati. Da allora, non c’è stata nessun’altra. Credo che lui non abbia mai superato il colpo.»

«Ma è terribile. Avrà avuto solo...»«Sedici anni», concluse Molly. «In più, lui era anche molto amico di Henry Taylor e ha

parlato al suo funerale. Stava appena cominciando a riprendersi dalla storia di Emily quand’è successo l’incidente. A quel punto, tutti si aspettavano che crollasse. Invece lui ha tagliato fuori tutti i sentimenti e ha tenuto duro.»

Non sapevo cosa dire. A vederlo, non si sarebbe mai detto che Xavier avesse sopportato tutto quel dolore, anche se rammentai l’ombra di circospezione che aveva negli occhi.

«Adesso sta bene», proseguì Molly. «È sempre amico di tutti, gioca ancora a rugby e allena i nuotatori del primo anno. Non che non sia capace di sorridere, solo che tiene alla larga qualunque relazione. Immagino non voglia farsi coinvolgere di nuovo, dopo la sfiga che ha avuto.»

«Non posso certo biasimarlo.»Molly si accorse che avevo ancora l’uniforme addosso e il suo tono serio scomparve. «Ehi,

sbrigati a cambiarti», mi esortò. «Cos’è, sei timida?»«Un pochino.» Sorrisi e sparii dentro una doccia.Le riflessioni su Xavier Woods s’interruppero di colpo quando vidi la tenuta sportiva che

dovevo mettermi. Mi spaventai al punto da valutare persino la possibilità di fuggire dalla finestra. Era ridotta al minimo: i pantaloncini erano minuscoli e la T-shirt era così corta che non potevo muovermi senza che risalisse ben oltre la vita. Il fatto è che noi angeli non abbiamo l’ombelico; solo pelle liscia e chiara, senza macchie né cicatrici. Per fortuna le ali – piumate ma impalpabili come carta – si appiattivano lungo la schiena e non creavano problemi, anche se cominciavano a intorpidirsi per mancanza di esercizio. Non vedevo l’ora di sgranchirle nel volo antelucano sulle montagne che Gabriel ci aveva promesso di fare.

Tirai verso il basso la T-shirt e raggiunsi Molly che, davanti allo specchio, si stava applicando uno strato abbondante di lucidalabbra. Non capii perché le servisse il lucidalabbra per fare ginnastica ma, quando lei me lo offrì, accettai per non sembrare scortese. Non sapevo bene come usarlo, ma cercai di metterne uno strato abbastanza uniforme. Probabilmente occorreva pratica. Al contrario delle altre ragazze, non avevo cominciato a fare le prove a cinque anni coi trucchi della mamma. Anzi, fino a poco tempo prima, non sapevo neppure com’era fatto il mio viso umano.

«Strofina insieme le labbra», disse Molly.La imitai e scoprii che il movimento sistemava le cose: ecco, così somigliavo un po’ meno a

un clown.«Sì, meglio», approvò lei.«Grazie.»«Non ti trucchi spesso, vero?»Scossi la testa.«Be’, in effetti non ne hai bisogno. Però quel colore ti sta bene.»«Ha un profumo fantastico.»«Si chiama Melon Sorbet.» Molly sembrava compiaciuta, poi fu distratta da qualcosa e

cominciò ad annusare l’aria. «Lo senti?»M’irrigidii, assalita da un improvviso timore. Ero io? Possibile che per i terrestri

puzzassimo? Forse Ivy mi aveva spruzzato sui vestiti qualche profumo socialmente inaccettabile nel

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mondo di Molly?«Sembra... odore di pioggia o qualcosa di simile», disse.Mi rilassai. Quello che sentiva era solo il profumo degli angeli e «odore di pioggia» ne era

una descrizione abbastanza azzeccata.«Non fare la scema, Molly», disse una delle sue amiche. Credo si chiamasse Taylah, a

quanto avevo capito dalle rapide presentazioni iniziali. «Qui dentro non piove mica.»Molly fece spallucce e mi afferrò per la manica, trascinandomi fuori dallo spogliatoio e nella

palestra, in cui una cinquantenne bionda in pantaloncini in lycra, col viso devastato dal sole e incapace di stare ferma, ci strillò di metterci sotto e fargliene venti.

«Tu non li detesti i prof di ginnastica?» disse Molly, spalancando gli occhi. «Sono sempre così... agitati.»

Non risposi ma, a giudicare dall’espressione inflessibile della donna e dalla mia assenza di entusiasmo sportivo, dubitavo che saremmo andate d’accordo.

Mezz’ora dopo, avevamo fatto dieci giri attorno al campo, cinquanta flessioni, cinquanta addominali, cinquanta piegamenti sulle gambe e cinquanta affondi, e quello era solo il riscaldamento. M’impietosii per le altre ragazze, che barcollavano, ansimanti e fradicie di sudore. Noi angeli non ci stanchiamo; la nostra energia è illimitata, quindi non dobbiamo preservarla. E poi non sudiamo: potremmo correre una maratona senza nemmeno una goccia di sudore.

Molly se ne accorse subito. «Ehi, ma non hai neanche il fiatone!» esclamò. «Cavolo, sei proprio in forma.»

«Oppure usa un ottimo antitraspirante», aggiunse Taylah, rovesciandosi una bottiglietta d’acqua sul petto. Attirò subito l’attenzione di un gruppo di ragazzi, che la fissarono a bocca aperta. «Comincia a fare caldo qui!» li stuzzicò allora lei, mettendo bene in vista la T-shirt zuppa e ormai trasparente. D’un tratto, però, la prof di ginnastica si accorse dello spettacolo e si mise a sbuffare come un toro infuriato.

Il resto della giornata fu tranquillo... a parte il fatto che, vagabondando nei corridoi, mi resi conto che speravo d’imbattermi in Xavier Woods. Dopo quello che Molly mi aveva raccontato di lui, ero lusingata per le attenzioni che mi aveva rivolto.

Ripensai al nostro incontro al molo e ai suoi bellissimi occhi turchesi. Occhi che non potevi fissare troppo a lungo senza che ti cedessero le ginocchia. Mi chiesi cosa sarebbe successo se avessi accettato il suo invito a sedermi accanto a lui. Avremmo chiacchierato mentre m’insegnava a pescare? E di cosa?

Scossi la testa. Non era per quello che mi avevano mandato sulla Terra. Mi ripromisi di non pensare affatto a Xavier Woods. Se l’avessi incontrato, l’avrei ignorato. Se mi avesse rivolto la parola, avrei risposto il minimo indispensabile per non sembrare scortese e mi sarei allontanata in fretta. Insomma non gli avrei permesso di avere quell’influenza su di me.

Devo aggiungere che non ci sarei riuscita?

4 Terrestre

Suonata l’ultima campanella, afferrai i libri e scappai di corsa per evitare i corridoi brulicanti di ragazzi. Per quel giorno mi avevano già sballottato, interrogato ed esaminato a sufficienza. Nonostante gli sforzi, non avevo trovato un solo momento di pace; negli intervalli, Molly mi aveva trascinato a conoscere i suoi amici, che mi avevano mitragliato di domande. Comunque ero arrivata alla fine del primo giorno senza incidenti seri ed ero soddisfatta del risultato.

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Vagabondai sotto le palme fuori della scuola, in attesa di Gabriel. Mi appoggiai al tronco fresco e irregolare di uno degli alberi. La varietà della flora terrestre era una costante fonte di meraviglia: le palme, per esempio, erano così strane... Con quei tronchi dritti e snelli sembravano delle sentinelle, mentre l’esplosione di fronde sulla cima somigliava all’elmo piumato di una guardia di palazzo. Osservai gli studenti che scaraventavano gli zaini nelle auto, si toglievano le giacche e sembravano subito più rilassati. Alcuni si avviarono verso il centro, per ritrovarsi in qualche bar.

Sovraccarica d’informazioni com’ero, non riuscivo a rilassarmi. La testa mi ronzava mentre cercavo di dare un senso a tutto quello che era successo nell’arco di poche ore. Persino l’energia illimitata di cui eravamo dotati non m’impediva di sentirmi sfinita. Non desideravo altro che il conforto di casa.

D’un tratto, Gabriel apparve sulla scalinata dell’ingresso principale, seguito a ruota da un gruppetto di ammiratori... o, meglio, di ammiratrici, che si tenevano un po’ a distanza, cercando di non farsi notare, ma senza staccargli gli occhi di dosso, neanche fosse una star del cinema. A giudicare dalle apparenze, Gabe aveva conservato la sua imperturbabilità; tuttavia la mascella rigida e i capelli un po’ arruffati rivelavano che non vedeva l’ora di tornare a casa. Di colpo, lui si voltò a guardare le ragazze e loro smisero all’istante di parlare. Conoscevo mio fratello e sapevo che, nonostante la calma, non gradiva quelle attenzioni. Più che lusingarlo, lo imbarazzavano.

Aveva quasi raggiunto il cancello quando una graziosa brunetta finse goffamente d’inciampare davanti a lui. Con un movimento disinvolto, Gabe la prese fra le braccia prima che lei finisse a terra. Le altre ragazze sospirarono, ammirate; qualcuna sembrò pure indispettita per non aver avuto la stessa idea. Ma c’era poco da invidiare: Gabriel si limitò a rimettere in piedi la ragazza e a raccogliere quello che le era uscito dallo zaino. Infine riprese la sua cartella malconcia e si allontanò. La ragazza lo seguì con uno sguardo pieno di rimpianto e le amiche le si fecero subito attorno, sperando forse di acquisire per contatto un po’ della magia del momento.

«Hai già un fan club», ridacchiai, mentre ci avviavamo verso casa.«Neanche tu sei passata inosservata», replicò lui.Stavo per raccontargli dell’incontro con Xavier Woods, però mi trattenni. Sapevo che non

avrebbe approvato.«Bisogna essere grati per le piccole cose», borbottò Gabriel, sarcastico.Arrivati a casa, feci a Ivy un resoconto dettagliato di quello che era successo e descrissi pure

il gruppetto di ragazze in estasi per Gabriel.«Certo che quelle adolescenti non brillano per astuzia», commentò lei, sforzandosi di non

sorridere. «D’altra parte, i ragazzi sono molto più indecifrabili. Però è molto interessante, non credi?»

«A me sembrano tutti confusi», intervenne Gabriel. «Mi chiedo se qualcuno di loro sappia veramente cos’è la vita. Non credevo di dover cominciare da zero. Sarà molto più difficile di quanto pensassi.»

«Abbiamo sempre saputo che sarebbe stato difficile», disse Ivy con dolcezza.«C’è qualcosa che dovete sapere», mormorai. «Pare che negli ultimi mesi siano successe

molte cose qui in città. Ho sentito storie terribili.»«Per esempio?» chiese Ivy.«In un anno, sono morti due studenti a causa d’incidenti inspiegabili. E poi ci sono state

malattie gravi, incendi e ogni sorta di stranezze. La gente comincia a pensare che ci sia qualcosa che non va.»

«Pare che siamo arrivati giusto in tempo», disse Ivy.«Ma come faremo a scoprire di chi... o di cosa è la colpa?» chiesi.«Ancora non c’è modo di saperlo», sospirò Gabriel. «Noi abbiamo il compito di mettere fine

a questo caos e aspettare che loro si facciano vedere di nuovo. Credimi, non si arrenderanno senza combattere.»

Restammo tutti in silenzio a riflettere sul confronto che ci attendeva con gli esseri responsabili di quella distruzione.

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«E comunque oggi mi sono fatta un’amica», annunciai, tentando di alleggerire l’atmosfera. Da come l’avevo detto, sembrava avessi raggiunto chissà quale risultato e gli altri due mi scoccarono uno di quegli sguardi ormai familiari, in cui si leggevano ansia e disapprovazione.

«C’è qualcosa di male?» chiesi, sulla difensiva. «Non mi è permesso avere amici? Credevo che l’idea fosse di ’mescolarci’ con gli esseri umani.»

«Sì, ma ti rendi conto che gli amici richiedono tempo ed energia?» disse Gabriel. «Vorranno legare.»

«Cioè fondersi con me fisicamente?» Ero confusa.«Intendo che vorranno esserti vicini anche sul piano emotivo», spiegò lui. «Le relazioni

umane possono essere incredibilmente intime. Non le capirò mai.»«Possono anche essere una distrazione», aggiunse Ivy. «Senza contare che con l’amicizia

nascono certe aspettative, quindi scegli con molta attenzione.»«Che tipo di aspettative?»«L’amicizia tra esseri umani si basa sulla fiducia. Gli amici condividono problemi, si

scambiano confidenze e...» La sua voce si spense. Lei scosse la testa dorata e guardò Gabriel, implorante.

«Ivy vuole dire che chiunque diventi tuo amico comincerà a farti domande e ad aspettarsi risposte», disse lui. «Vorrà far parte della tua vita, insomma. E questo è pericoloso.»

«Be’, grazie per la fiducia», ribattei, indignata. «Sapete che non farei mai niente che possa mettere in pericolo la missione. Mi avete preso per scema?»

Fui soddisfatta di vedere che si scambiavano uno sguardo colpevole. Potevo anche essere giovane e avere meno esperienza di loro, però non c’era motivo di trattarmi da idiota.

«Non lo pensiamo», disse Gabriel, in tono più conciliante. «È ovvio che ci fidiamo di te. Vogliamo solo evitare complicazioni.»

«Non succederà», lo rassicurai. «Però voglio vivere come un’adolescente normale.»«Bisogna essere molto cauti.» Gabriel tese la mano a stringere la mia. «Ci è stato affidato un

compito molto più importante dei nostri desideri personali.»Aveva ragione, ovvio. Perché doveva sempre essere così saggio? E perché era impossibile

arrabbiarsi con lui?A casa, mi sentivo molto più rilassata. In poco tempo l’avevamo fatta nostra. Avevamo

cominciato a manifestare un tratto tipicamente umano – personalizzare lo spazio con cui c’identificavamo – e da allora la casa era diventata per noi un vero rifugio. Anche se non lo avrebbe mai ammesso, persino Gabriel cominciava ad apprezzare il fatto di abitare lì. Il campanello ci disturbava di rado – la facciata imponente sembrava scoraggiare i visitatori –, così eravamo liberi di dedicarci ai nostri interessi.

Per quanto fossi stata impaziente di tornare a casa, adesso che mi trovavo lì non sapevo cosa fare per passare il tempo. Per Ivy e Gabriel non era un problema. Loro leggevano o suonavano il pianoforte oppure stavano in cucina, coperti di farina sino ai gomiti... Non avendo un hobby, decisi di dedicarmi ai lavori di casa. Presi un cesto di biancheria pulita e la piegai ordinatamente; poi, dopo aver acceso il bollitore, aprii qualche finestra – c’era un’aria di chiuso – e rimisi ordine sul tavolo da pranzo. Quindi andai in cortile, dove raccolsi alcuni rametti di pino profumati di resina; poi li sistemai in un vaso sottile. Vidi che nella cassetta delle lettere c’erano dei volantini e mi ripromisi di comprare quegli adesivi che dicevano NIENTE PUBBLICITÀ e che avevo visto su altre cassette lungo la strada. Prima di buttarlo nella spazzatura, però, diedi un’occhiata a un volantino. Pubblicizzava un negozio di articoli sportivi, chiamato, in modo non molto originale, SportsMart: era stato appena aperto e offriva una serie di sconti promozionali.

Sembrava strano occuparsi di faccende così banali quando la mia esistenza era tutt’altro che banale. Cosa stavano facendo gli altri diciassettenni, in quel momento? Sistemavano di malavoglia le loro stanze, costretti dai genitori esasperati? Ascoltavano i loro gruppi preferiti sull’iPod? Si scambiavano SMS per organizzare il weekend? Controllavano le e-mail invece di studiare?

Ci avevano dato dei compiti a casa – per tre materie – e io me li ero segnati con cura sul diario, al contrario di molti miei compagni che sembravano fidarsi della loro memoria. Forse avrei

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dovuto farli per essere preparata il giorno dopo, ma sapevo che non rappresentavano un grosso impegno, per me. Anzi sarebbero stati sin troppo facili. Benché li reputassi una perdita di tempo, trascinai lo zaino in camera mia, la mansarda in cima alle scale. Persino con le finestre chiuse si sentiva il ritmico frangersi delle onde sugli scogli. Il balcone era stretto, con una ringhiera che pareva di pizzo, ed era affacciato sul mare e sulle barche che si dondolavano sull’acqua. Mi sistemai sulla sedia di vimini e appoggiai lo zaino sul tavolo, anch’esso di vimini. Rimasi lì per un po’ con l’evidenziatore in mano, davanti al testo di psicologia aperto al capitolo intitolato Risposta galvanica cutanea.

Cercai disperatamente di tenere la testa impegnata, se non altro per smettere di pensare ai miei incontri col rappresentante degli studenti della Bryce Hamilton. Avevo la sua immagine impressa nella mente: gli occhi penetranti, la cravatta un po’ storta... Le parole di Molly mi echeggiavano in testa: Se fossi in te, non ci starei troppo dietro... Diciamo che ha del... bagaglio. Perché mi attirava tanto? Per quanto volessi escluderlo dai miei pensieri, non ci riuscivo. Cercavo di distrarmi ma, pochi istanti dopo, eccolo lì di nuovo: il suo viso si sovrapponeva alla pagina che cercavo di leggere, l’immagine di una mano liscia e di un braccialetto di cuoio intrecciato invadeva i miei pensieri. Mi chiesi come fosse Emily e cosa si provasse a perdere una persona cara.

Riordinai alla bell’e meglio la stanza prima di scendere in cucina per aiutare Gabriel con la cena. Ivy e io non smettevamo di stupirci per l’entusiasmo con cui lui preparava i nostri pasti. In parte, lo faceva per il nostro benessere, ma era anche affascinato dalla possibilità di manipolare i cibi e di cucinarli. Come la musica, quello per lui era uno sfogo artistico. Entrando in cucina, lo trovai davanti al bancone di marmo bianco, intento a pulire un assortimento di funghi con un tovagliolo a scacchi; ogni tanto, consultava un libro di ricette aperto sul leggio di metallo. In una ciotolina, erano in ammollo quelli che sembravano dei pezzi di scorza nera. Da sopra la sua spalla, lessi il titolo della ricetta: Risotto ai funghi. Sembrava un’impresa audace per un principiante, ma poi mi dissi che Gabriel era fatto così. Lui era un Arcangelo. Eccelleva in tutto senza bisogno di pratica.

«Spero che i funghi ti piacciano», disse, notando la mia curiosità.«Lo scopriremo presto», replicai, sedendomi a tavola. Mi piaceva guardare Gabriel che

lavorava e restavo sempre colpita dalla destrezza e dalla precisione dei suoi movimenti. Sotto il suo tocco, le cose più normali sembravano trasformarsi. Il passaggio da angelo a essere umano era stato molto più semplice per lui e per Ivy; erano lontani dalle banalità della vita, ma nel contempo sapevano esattamente cosa facevano. Nel Regno, erano già abituati a percepirsi a vicenda, una capacità che non li aveva abbandonati nel corso della nostra missione. Invece io ero più difficile da comprendere e ciò li preoccupava.

«Ti andrebbe un po’ di tè?» chiesi, tanto per fare qualcosa. «Dov’è Ivy?» aggiunsi.In quel preciso istante, Ivy entrò in cucina, in pantaloni di lino e canottiera, i capelli umidi

per la doccia. Notai che c’era qualcosa di diverso in lei. Aveva perso un po’ della sua aria sognante, a favore di un atteggiamento risoluto che non avevo mai notato prima. Sembrava pure che avesse qualcosa per la testa: di recente, l’avevo colta spesso a scribacchiare fittamente su un quaderno. E, non appena le ebbi versato il tè, se ne andò.

«Ivy sta bene?» chiesi a Gabriel.«Vuole soltanto mettere in moto le cose», rispose.Non sapevo come volesse agire, ma la invidiavo perché aveva uno scopo. Quando avrei

scoperto il mio? Avrei mai provato la soddisfazione di fare qualcosa di davvero meritevole? «E come pensa di fare?» domandai di slancio.

«Lo sai che tua sorella non è mai a corto d’idee. Le verrà in mente qualcosa.»Gabriel faceva il misterioso di proposito? Si rendeva conto che brancolavo nel buio? «E io

cosa dovrei fare?» chiesi allora, detestando il tono petulante con cui avevo fatto quella domanda.«Lo scoprirai», rispose lui. «Da’ tempo al tempo.»«E intanto?»«Non volevi sperimentare la vita da adolescente?» Mi sorrise, incoraggiante, e la mia

inquietudine sparì, come sempre.

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Sbirciai nella ciotolina, dove le strisce nere galleggiavano in un liquido terroso. «Questa scorza fa parte della ricetta?»

«Quelli sono funghi porcini, devono ammollarsi per poterli usare.»«Mmm... sembrano deliziosi», mentii.«Sono considerati una squisitezza. Ti piaceranno, vedrai.»Porsi a Gabriel la sua tazza di tè e continuai a osservarlo. Trattenni il fiato quando il coltello

affilato gli scivolò di mano, aprendogli una ferita sulla prima falange dell’indice. La vista del sangue m’impressionò: era un orrido memento di quanto fossero vulnerabili i nostri corpi. Sangue caldo e rosso, così umano... Vederlo uscire dal dito di mio fratello mi sembrò una cosa tremendamente innaturale. Ma Gabriel non fece una piega. Si portò il dito sanguinante alla bocca e, quando lo allontanò, ogni traccia della ferita era scomparsa. Si lavò le mani col sapone liquido che stava sul lavello e riprese a tagliare i funghi.

Presi un pezzo di sedano destinato all’insalata e lo masticai, soprappensiero. Sgranocchiare il sedano, conclusi, doveva essere più una questione di consistenza che di gusto: non sapeva di niente, però era senz’altro croccante. Perché mai qualcuno decidesse di mangiarlo di sua spontanea volontà andava oltre la mia immaginazione, a parte la questione dei valori nutrizionali. Una buona nutrizione era sinonimo di un corpo più sano e di una vita più lunga. Gli esseri umani avevano un timore eccessivo della morte; tuttavia, considerata la loro ignoranza dell’aldilà, era probabile che non potessimo aspettarci altro, da loro. A tempo debito, avrebbero scoperto che non c’era nulla da temere.

La cena di Gabriel fu il solito successo. Persino Ivy, che non traeva il minimo piacere dal cibo, ne fu impressionata. «Un altro trionfo culinario», esclamò, dopo la prima forchettata.

«Strabilianti, questi sapori», aggiunsi. Il cibo era una delle tante meraviglie che la Terra aveva da offrire. Non potevo fare a meno di stupirmi del fatto che ogni pietanza avesse una consistenza e un gusto diversi – amaro, aspro, salato, cremoso, piccante, dolce, speziato – e a volte più di uno contemporaneamente. Alcuni mi piacevano, altri mi facevano venire voglia di lavarmi la bocca, ma ognuno di essi era un’esperienza unica.

Con un cenno, Gabriel liquidò i nostri apprezzamenti. Ci mettemmo a parlare degli eventi della giornata.

«Bene, un giorno è passato. Direi che è andato bene, anche se non mi aspettavo di trovare così tanti studenti di musica.»

«Scoprirai che molte hanno sviluppato quest’interesse dopo averti visto», sorrise Ivy.«Be’, almeno ho una base su cui lavorare», replicò Gabriel. «Se riescono a scoprire la

bellezza nella musica, riusciranno a trovarla anche in loro stessi e nel mondo.»«Ma tu in classe non ti annoi?» chiesi a Gabriel. «Insomma, hai già accesso a tutta la

conoscenza umana.»«Non credo siano i contenuti a interessarlo», intervenne Ivy. «Sono altre le cose su cui si

concentra.»Com’era esasperante quando parlava per indovinelli e si aspettava che tutti capissero. «Be’,

io mi sono annoiata», ribadii. «Soprattutto a chimica. Ho deciso che proprio non è roba per me.»A quell’espressione, Gabriel ridacchiò. «Be’, devi solo scoprire qual è la roba per te.

Procedi per tentativi, finché non trovi qualcosa che ti attira.»«La letteratura inglese mi piace», dichiarai. «Abbiamo guardato la versione cinematografica

di Romeo e Giulietta.»Non lo dissi, ma quella storia mi aveva affascinato. L’intensità, la sicurezza con cui i due

s’innamoravano a prima vista avevano acceso in me un’insaziabile curiosità sull’amore umano.«Come ti è sembrato?» chiese Ivy.«Grandioso! Ma la professoressa si è infuriata quando un ragazzo ha detto una cosa su

Madonna Capuleti.»«Cosa?»«L’ha definita una MILF, ma dev’essere qualcosa di offensivo perché Miss Castle l’ha

chiamato ’delinquente’ e poi l’ha buttato fuori. Gabe, cos’è una MILF?»

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Ivy soffocò una risata dietro il tovagliolo.Invece Gabriel fece una cosa che non gli avevo mai visto fare. Arrossì e si agitò sulla sedia.

«Dev’essere un acronimo per qualche oscenità da adolescenti», borbottò.«Sì, ma sai cosa significa?»Esitò, alla ricerca delle parole giuste. «Lo usano gli adolescenti maschi per descrivere una

donna che, pur essendo madre, è ancora attraente.» Si schiarì la gola e si alzò in fretta per riempire la caraffa dell’acqua.

«Sono sicura che significhi qualcosa», insistetti.«Infatti», disse Gabriel. «Ivy, tu lo ricordi?»«Credo che stia per ’Madre... Interessante di Livello Fenomenale’», rispose lei.«Tutto qui?» esclamai. «Tanto rumore per nulla. Miss Castle dovrebbe darsi una calmata.»

5 Piccoli miracoli

Finita la cena e lavati i piatti, Gabriel andò a sedersi sul patio con un libro, anche se cominciava a far buio. Dal canto suo, Ivy continuò a strofinare superfici che parevano già immacolate. Quel suo desiderio di pulizia stava diventando quasi ossessivo, ma forse era solo un modo per sentirsi più vicina a casa. Mi guardai attorno, alla ricerca di qualcosa da fare. Nel Regno, il tempo non esisteva e quindi non c’era bisogno di trovare un modo per farlo passare. Sulla Terra, invece, fare qualcosa era importante, dava uno scopo alla propria vita.

Probabilmente Gabriel si accorse della mia inquietudine. D’un tratto, fece capolino dalla porta. «Perché non facciamo una passeggiata e guardiamo il tramonto?» suggerì.

«Grande idea!» Il mio umore migliorò all’istante. «Tu vieni, Ivy?»«Non prima di essere salita a prendere qualcosa da mettermi. Fa piuttosto freddo, la sera.»Alzai gli occhi al cielo per quell’improvvisa prudenza. Ero l’unica a sentire freddo, e infatti

avevo già messo il cappotto: Ivy e Gabriel si erano abituati a mantenere costante la temperatura corporea durante le precedenti missioni; io avevo ancora tanto da imparare. «Ma se tu neanche lo senti, il freddo», obiettai.

«Non è questo il punto. Se qualcuno si accorge che non sentiamo il freddo, rischiamo di attirare l’attenzione.»

«Ivy ha ragione», intervenne Gabriel. «Meglio essere prudenti.» Scomparve al piano superiore e tornò con due giacconi.

Dalla nostra casa, in cima alla collina, bisognava scendere una serie di rampe serpeggianti e invase dalla sabbia per raggiungere la spiaggia. Gli scalini di legno erano così stretti che dovevamo scendere in fila indiana. Non potei fare a meno di pensare che sarebbe stato molto più comodo spiegare le ali fino alla spiaggia, ma lo tenni per me, certa della predica che sarebbe seguita. Date le circostanze, era un modo sicuro per far saltare la nostra copertura. Così scendemmo tutti i centosette scalini – interminabili! – e arrivammo alla spiaggia.

Mi sfilai le scarpe per godermi la sensazione della sabbia sotto i piedi. C’era così tanto da vedere sulla Terra. Persino la sabbia era complicata; mutava di colore e consistenza fino a diventare quasi iridescente nei punti in cui il sole la illuminava. E, come se non bastasse, la spiaggia conteneva altri piccoli tesori: conchiglie madreperlacee, frammenti di vetro arrotondati dal movimento del mare, qualche sandalo semisepolto o un asciugamano dimenticato, e minuscoli granchi bianchi che sgattaiolavano in forellini grandi come piselli. Trovarsi vicino al mare stimolava tutti i sensi: l’oceano ruggiva come fosse vivo, mi riempiva la mente con un rumore che

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si spegneva lentamente per poi impennarsi di colpo, inaspettato; l’aria salata e pungente mi graffiava il naso e la gola; il vento mi sferzava le guance, lasciandole arrossate e vibranti... Adoravo ogni minuto passato lì, ogni momento di umanità che portava con sé esperienze nuove.

Camminavamo lungo la spiaggia, inseguiti dalle onde spumeggianti della marea che saliva. Sebbene avessi appena deciso di controllarmi di più, non potei resistere all’impulso di schizzare Ivy col piede. Cercai di capire se si fosse irritata, ma lei si limitò a controllare che Gabriel fosse abbastanza lontano prima di prendere la mira per restituirmi lo schizzo. Sollevò un arco d’acqua che s’infranse come una pioggia di pietre preziose sulla mia testa. Le nostre risate attirarono l’attenzione di Gabriel, che tuttavia si limitò a scuotere la testa. Ivy mi strizzò l’occhio e fece un cenno nella sua direzione. Capii cosa intendeva e fui ben felice di assecondarla. Quando gli saltai sulla schiena e gli misi le braccia attorno al collo, Gabriel non diede quasi segno di accorgersi del mio peso e si mise a correre veloce lungo la spiaggia. Il vento mi fischiava nelle orecchie. Sulla sua schiena, mi sentivo di nuovo me stessa, più vicina al Regno. Mi pareva quasi di volare.

D’un tratto, Gabriel si fermò e io mollai la presa, atterrando con un tonfo sulla sabbia umida. Poi lui raccolse una manciata di alghe viscide e le lanciò verso Ivy, centrandola in pieno viso.

Lei sputacchiò per il sapore amaro e salato. «Aspetta e vedrai», farfugliò. «Te ne farò pentire!»

«Non credo proprio», la stuzzicò Gabriel. «Prima devi prendermi.»A quell’ora, sulla spiaggia, erano rimaste poche persone, che si godevano gli ultimi raggi di

sole prima che si alzasse il vento gelido, come aveva predetto Ivy, o mangiavano qualche panino, a mo’ di cena. Vicino a noi, c’era una giovane donna che stava raccogliendo le sue cose. Sua figlia, che non doveva avere più di cinque o sei anni, la raggiunse di corsa, piangendo e mostrando il braccino paffuto su cui c’era un ponfo, forse una puntura d’insetto, che la piccola aveva sfregato, infiammandola ancora di più. La madre si mise a frugare nella borsa, alla ricerca di qualche pomata, e alla fine tirò fuori un tubetto di gel all’aloe. Ma non riusciva a calmare la bambina abbastanza per poterglielo applicare.

Ivy si avvicinò alla piccola. «È una brutta puntura», le disse con dolcezza.Il suono della sua voce calmò all’istante la bambina, che sollevò lo sguardo su Ivy e la fissò

come se la conoscesse da una vita. Mia sorella prese il tubetto dalle mani della madre, lo aprì e spalmò un po’ di gel sulla pelle infiammata. «Questo ti aiuterà», mormorò. La bambina continuava a guardarla, meravigliata, e io mi resi conto che i suoi occhi guizzavano sopra la testa di Ivy, là dov’era la sua aureola. In genere, solo noi potevamo vederla. Possibile che quella piccolina, con la maggiore sensibilità dei bambini, l’avesse percepita?

«Ti senti meglio?» le chiese Ivy.«Sì», ammise lei. «Hai fatto una magia?»Ivy rise. «Ho un tocco magico.»«Grazie per il suo aiuto», disse la madre, osservando perplessa il ponfo arrossato che stava

svanendo davanti ai suoi occhi, lasciando la pelle liscia e bianca. «Funziona bene, quel gel!»«Si figuri», rispose Ivy. «È stupefacente quello che la scienza può fare al giorno d’oggi.»Senza trattenerci oltre, proseguimmo lungo la spiaggia verso la città.Arrivammo alla strada principale attorno alle nove ma, pur essendo un giorno feriale, c’era

ancora parecchia gente in giro. Il centro era pittoresco, pieno di negozietti di antichità e di sale da tè che servivano dolci e semifreddi in piatti scompagnati. I negozi erano ormai chiusi, tranne un pub e la gelateria. Avevamo fatto pochi passi quando mi sentii chiamare da una voce così acuta da sovrastare persino la musica del suonatore di banjo, seduto all’angolo della strada.

«Beth! Qui! Da questa parte!»All’inizio, non mi resi conto che qualcuno stava chiamando proprio me. Nessuno mi aveva

mai chiamato Beth, nessuno aveva mai abbreviato il nome che mi era stato assegnato nel Regno; ero sempre stata soltanto Bethany. Ma in quel «Beth» c’era un’intimità che mi piaceva. Ivy e Gabriel si fermarono di colpo. Quando mi girai, vidi Molly con un gruppo di amici: erano seduti sulla panchina davanti alla gelateria. Lei indossava un vestito che le lasciava scoperta la schiena – del tutto inadatto a quel clima – ed era seduta in braccio a un ragazzo dai capelli schiariti dal sole e

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in calzoncini da surf. Le sue grandi mani le accarezzavano la schiena nuda con lunghi movimenti ritmici. Molly mi salutò freneticamente e mi fece cenno di raggiungerla. Incerta, guardai Ivy e Gabriel. Non sembravano contenti. Era proprio il tipo di relazione che volevano evitare. L’agitazione di Molly, poi, irritava apertamente Ivy; ma sia lei sia Gabriel sapevano che ignorare quella richiesta sarebbe stato scortese.

«Non ci presenti alla tua amica, Bethany?» disse Ivy.Mi posò una mano sulla spalla e mi guidò verso Molly. Il surfista sembrò scocciato quando

lei si liberò dalla sua presa, ma si distrasse subito, fissando spudoratamente Ivy e percorrendo con lo sguardo il suo corpo armonioso. Non appena si trovò davanti ai miei fratelli, Molly assunse la stessa espressione di meraviglia e di reverenza che avevo visto sul viso delle ragazze, a scuola. Aspettai che dicesse qualcosa, ma lei si limitò a boccheggiare come un pesce prima di riprendersi quanto bastava per abbozzare un sorriso incerto.

«Molly, questa è mia sorella Ivy, e lui è mio fratello Gabriel», dissi in fretta.Gli occhi di Molly guizzarono dal viso di lei a quello di lui; riuscì giusto a farfugliare un

«Ciao» prima di distogliere timidamente lo sguardo. Quella sì che fu una sorpresa. Per tutto il giorno l’avevo vista chiacchierare disinvoltamente coi ragazzi, lusingandoli e stuzzicandoli per poi svolazzare via, come una farfalla esotica.

Gabriel salutò Molly nel suo solito modo: con impeccabile cortesia e un’espressione amichevole ma distaccata. «Piacere di conoscerti», disse con un leggero inchino.

Ivy fu più calorosa e scoccò un sorriso benevolo alla mia povera amica, che pareva fosse stata appena colpita da una tonnellata di mattoni.

L’imbarazzo venne rotto da un improvviso vociare attorno a noi. A provocare lo scompiglio era un gruppo di giovanotti ben piantati appena usciti dal pub: erano così ubriachi che neppure si accorgevano del rumore che stavano facendo o forse, più semplicemente, non se ne curavano. Due di loro cominciarono a fronteggiarsi coi pugni serrati e con un’espressione rabbiosa sul viso; era chiaro che stava per scoppiare una rissa. Alcuni clienti che, fino a quel momento, si erano goduti la serata all’aperto preferirono rientrare nel pub. Gabriel fece un passo avanti, assicurandosi che io, Molly e Ivy fossimo al sicuro dietro di lui. Un tizio con la barba lunga e con una zazzera nera arruffata mollò un diretto al suo avversario. Si sentì distintamente il tonfo del pugno che entrava in contatto con la mascella. Per tutta risposta, l’altro gli si gettò addosso e lo bloccò a terra. Il resto del gruppo applaudiva e li incitava.

Sul volto di solito imperturbabile di Gabriel guizzò un moto di repulsione. Si staccò da noi, puntando verso i due. Alcuni spettatori, confusi, si chiedevano chi fosse quel terzo incomodo. Gabriel afferrò per i capelli il barbuto e lo rimise in piedi senza sforzo, nonostante la stazza. Tirò in piedi anche il suo avversario, già con le labbra gonfie e sanguinanti, e si frappose per separarli. Uno di loro provò a colpire Gabriel, ma lui, senza sforzo, bloccò il colpo a mezz’aria. Allora, furibondi, i due coalizzarono la loro rabbia contro Gabriel ma, per quanto cercassero di colpirlo, i loro pugni finivano nel vuoto, benché lui non si muovesse. Alla fine, si stancarono entrambi e si afflosciarono, ansimando per lo sforzo.

«Andatevene a casa», disse Gabriel con voce potente e autoritaria.I due esitarono per qualche istante, come per valutare la situazione, poi barcollarono via,

aiutati dagli amici e imprecando sottovoce.«Cavolo, è stato incredibile», sbottò Molly, quando Gabriel tornò da noi. «Come ha fatto? È

un esperto di karate?»«Sono un pacifista», replicò seccamente Gabriel. «Non c’è onore nella violenza.»Molly voleva ribattere, ma non sapeva come. Alla fine, mormorò: «Be’... vi andrebbe di

fermarvi un po’ con noi? Il gelato alla menta con le scaglie di cioccolato è da sballo. Senti, Beth, assaggia...»

Prima che potessi reagire, si sporse verso di me e mi cacciò il cucchiaino in bocca. Qualcosa di freddo e di scivoloso mi si sciolse sulla lingua. Era come se cambiasse forma, passando da solido vellutato a liquido. Il freddo mi diede il mal di testa. Inghiottii in fretta. «È fantastico», commentai, in tutta sincerità.

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«Te l’avevo detto», fece Molly. «Su, te ne prendo uno...»«Temo che dobbiamo tornare a casa, adesso», s’intromise Gabriel in tono piuttosto brusco.«Oh... sì, certo», disse Molly.Era delusa, sebbene cercasse di nasconderlo. Mi dispiacque vederla così. «Magari un’altra

volta», suggerii.«Ma certo», si rianimò lei, tornando dai suoi amici. «Ci vediamo domani, Beth. Ehi, aspetta,

me ne stavo quasi dimenticando. Devo darti una cosa.» Frugò nella borsa e tirò fuori un tubetto di lucidalabbra Melon Sorbet, quello che avevo provato a scuola. «Avevi detto che ti piaceva, così te ne ho preso uno.»

«Grazie, Molly», balbettai. Avevo appena ricevuto il mio primo regalo terrestre. Ero commossa. «Sei stata molto gentile.»

«Spero che ti piaccia.»Sulla strada di casa, nessuno commentò la mia amicizia con Molly, anche se Gabriel e Ivy si

scambiarono un paio di sguardi eloquenti. Ma ero troppo stanca per tentare di decifrarli.Quella sera, prima di andare a letto, mi guardai allo specchio del bagno, che occupava una

parete intera. C’era voluto un po’ per abituarmi a osservare il mio aspetto esteriore. Nel Regno, potevamo vedere gli altri, ma non la nostra immagine. A volte, coglievamo di sfuggita il riflesso negli occhi di chi ci stava di fronte, però anche in quel caso si trattava di una visione confusa, lo schizzo di un artista che ancora mancava di colori e dettagli. Assumere una forma umana era come riempire di particolari quello schizzo. Riuscivo a vedere ogni capello, ogni poro, con perfetta chiarezza. Sapevo di apparire strana se paragonata alle altre ragazze di Venus Cove. La mia pelle era chiara come alabastro, in contrasto con le loro abbronzature. Avevo grandi occhi castani, con pupille enormi. Molly e le sue amiche non sembravano mai stanche di fare esperimenti coi propri capelli, mentre i miei erano semplicemente divisi nel mezzo e ricadevano in onde scure naturali. Avevo labbra piene, color corallo; come avrei scoperto in seguito, potevano dare l’impressione che stessi facendo sempre il broncio.

Sospirai, mi raccolsi i capelli in un morbido nodo sulla testa e m’infilai un pigiama di flanella stampato a mucche pezzate ballerine. Persino con la mia limitata esperienza dubitavo seriamente che qualche altra ragazza di Venus Cove si sarebbe mai fatta vedere con addosso qualcosa di altrettanto avvilente. Me l’aveva comprato Ivy e, fino a quel momento, era il capo di vestiario più comodo che avessi. Ne aveva ricevuto uno simile anche Gabe, ma con una stampa a barchette: non gliel’avevo ancora visto addosso.

Mi guardai attorno nella stanza, grata per la sua semplice eleganza. Mi piaceva soprattutto la stretta portafinestra che dava sul terrazzo. Mi piaceva aprirla e poi stendermi sotto il baldacchino di mussola ad ascoltare il rumore del mare. Ero tranquilla, con l’odore salmastro dell’oceano portato dal vento e Gabriel che suonava il pianoforte al piano di sotto. Mi addormentavo sempre ascoltando le melodie di Mozart o il mormorio delle voci dei miei fratelli.

Mi allungai voluttuosamente sul letto, godendomi la sensazione delle lenzuola fresche. Mi sorprese scoprire quanto fosse invitante la prospettiva del sonno, anche se di solito non ce ne serviva molto. Sapevo che Ivy e Gabriel non sarebbero andati a letto se non alle prime luci del giorno, ma la mia giornata era stata piena di relazioni nuove e strane e mi sentivo come prosciugata. Sbadigliai e mi raggomitolai su un fianco, la testa ancora piena di pensieri e interrogativi che il mio corpo esausto scelse d’ignorare.

Mentre indugiavo tra la veglia e il sonno, mi parve che nella mia stanza fosse entrato qualcuno. Avvertii il suo peso quando si sedette sul bordo del letto. Ero sicura che mi stesse guardando dormire, ma non osavo aprire gli occhi perché sapevo che era solo un prodotto della mia immaginazione e io invece volevo che l’illusione durasse più a lungo. Lo sconosciuto sollevò una mano per scostarmi una ciocca di capelli dagli occhi e si chinò per sfiorarmi la fronte con un bacio, la carezza delle ali di una farfalla. Non avevo paura; sapevo di potermi fidare ciecamente di lui. Prima di andarsene, chiuse la portafinestra.

«Buonanotte, Bethany», mi sussurrò la voce di Xavier Woods. «Sogni d’oro.»«Buonanotte, Xavier», dissi con voce sognante.

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Tuttavia, quando aprii gli occhi, la camera era vuota. Le mie palpebre erano troppo pesanti per tenerle aperte e così lasciai svanire la fioca luce della lampada e il rumore del mare, mentre un sonno profondo s’impadroniva di me.

6 Lezione di francese

Qualcuno mi stava chiamando. Cercai d’ignorare la voce, ma era così insistente che fui costretta a riemergere dalle calde e avvolgenti profondità ombrose del sonno.

«Sveglia, dormigliona!»Aprii gli occhi e vidi che la luce del giorno, simile a oro liquido, stava inondando la camera.

Mi guardai attorno, insonnolita, mi misi a sedere e mi strofinai gli occhi.Ivy era ai piedi del letto con una tazza in mano. «Prova questo. È orribile, ma ti dà una

scrollata.»«Cos’è?»«Caffè. Molti umani non riescono a svegliarsi se non lo bevono.»Mi alzai e assaggiai un sorso di quella bevanda nera e amara, resistendo alla tentazione di

sputarla. Mi chiesi come poteva esserci chi pagava per berla, ma non ci volle molto prima che la caffeina mi entrasse in circolo e dovetti ammettere che mi sentivo molto più lucida.

«Che ore sono?» chiesi.«È ora di alzarti.»«Dov’è Gabe?»«Penso sia a correre. Si è alzato alle cinque.»«Certo che è strano forte», borbottai, da autentica adolescente, allontanando di malavoglia le

lenzuola.Mi diedi una pettinata e raccolsi i capelli in una crocchia, mi lavai la faccia e scesi in cucina.

Gabriel, di ritorno dalla corsa, stava preparando la colazione. Si era appena fatto la doccia e i capelli umidi pettinati all’indietro gli davano un aspetto leonino. Portava soltanto un asciugamano attorno ai fianchi e i muscoli tonici risplendevano nel sole del mattino. Le ali ripiegate non sembravano che una linea increspata tra le scapole. Era davanti ai fornelli, con una spatola d’acciaio inossidabile in mano.

«Pancake o waffle?» chiese. Non aveva bisogno di voltarsi per sapere chi era entrato in cucina.

«In realtà, non ho molta fame», dissi in tono di scusa. «Pensavo di saltare la colazione e mangiare qualcosa più tardi.»

«Nessuno esce da questa casa a stomaco vuoto.» Sull’argomento sembrava inflessibile. «Quindi cosa preferisci?»

«È troppo presto, Gabe! Non costringermi, mi verrà la nausea!» Sembravo una bambina decisa a non mangiare i cavoletti di Bruxelles.

Gabriel parve offeso. «Vorresti dire che la mia cucina dà la nausea?»Ops. Cercai di rimediare. «Certo che no. È solo che...»Lui mi posò una mano sulla spalla e mi fissò intensamente. «Bethany, lo sai cosa succede

quando il corpo umano non si alimenta in modo corretto?»Scossi la testa, irritata, già sapendo che stava per dire qualcosa cui non avrei potuto

controbattere.«Non funziona. Non riuscirai a concentrarti e potrebbe girarti la testa.» Si fermò per darmi

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modo di assimilare il significato di quelle parole. «Non vorrai svenire il secondo giorno di scuola, vero?»

Quell’eventualità mi convinse a lasciarmi cadere su una sedia: mi ci vedevo, a crollare per mancanza di cibo, con una folla di visi preoccupati che mi osservavano dall’alto. Forse anche quello di Xavier Woods, che a quel punto non avrebbe più voluto avere a che fare con me.

«Vada per i pancake», dissi, cupa, e Gabriel si voltò soddisfatto verso i fornelli.Il suono del campanello interruppe la colazione. Chi poteva essere, a quell’ora? Eravamo

stati attenti a tenerci alla larga dai vicini. Ivy e io guardammo Gabriel, in attesa. Lui aveva il dono di captare i pensieri di chi gli stava vicino, un talento utile in molte circostanze. Il dono celeste di Ivy era il tocco da guaritrice. Il mio era ancora indefinito; a quanto pareva, sarebbe emerso al momento giusto.

«Chi è?» Ivy mosse appena le labbra.«La vicina di casa», rispose Gabriel. «Se la ignoriamo, se ne andrà.»Restammo immobili, in silenzio, ma quella donna non era tipo da lasciarsi scoraggiare

facilmente. Pochi minuti dopo, sentimmo lo scatto del cancelletto laterale. Sorpresi, guardammo la finestra e d’un tratto, dietro di essa, apparve la nostra vicina, che ci salutò con entusiasmo. Ero molto seccata per quell’intrusione, però i miei fratelli mantennero la calma.

Gabriel andò ad aprire la porta e tornò, seguito da una donna sui cinquant’anni coi capelli biondo platino e col viso abbronzato, su cui spiccava un rossetto brillante. Indossava una tuta di ciniglia ed era carica di gioielli. Sotto il braccio, aveva un grosso sacchetto di carta. Quando ci vide tutti e tre insieme, restò per un attimo abbagliata.

«Salve», disse allegramente, sporgendosi sul tavolo per stringerci la mano. «Se fossi in voi, darei un’occhiata al campanello: sembra che non funzioni. Sono Beryl Henderson, abito qui accanto.»

Gabriel fece le presentazioni mentre Ivy, l’ospite sempre perfetta, le offriva tè o caffè e metteva un piatto di muffin sul tavolo. Vidi che Mrs Henderson osservava Gabriel quasi come le ragazze a scuola.

«Oh, no, grazie», disse lei. «Sono passata solo per salutarvi, adesso che vi siete sistemati.» Posò il sacchetto sul piano di lavoro. «Ho pensato che vi avrebbe fatto piacere un po’ di marmellata fatta in casa. Non conoscevo i vostri gusti, così ci ho messo albicocca, fichi e fragole.»

«Molto gentile da parte sua, Mrs Henderson.» Ivy era la gentilezza in persona, ma Gabriel fremeva d’impazienza.

«Oh, mi chiami Beryl», disse lei. «Scoprirete che da queste parti siamo tutti così, alla buona.»

«È una bella cosa», annuì Ivy. Sembrava avere sempre la risposta pronta per ogni occasione.«Lei è il nuovo insegnante di musica alla Bryce Hamilton, vero?» insistette Mrs Henderson.

«Ho un nipote che adora la musica e non vede l’ora d’imparare a suonare il violino. È il suo strumento, vero?»

«Tra gli altri», replicò Gabriel, distaccato.«Gabriel suona diversi strumenti», spiegò Ivy, scoccandogli uno sguardo esasperato.«’Diversi’! Santo cielo, deve avere un gran talento», esclamò Mrs Henderson. «La sera la

sento suonare spesso, dalla mia veranda. Anche voi due amate la musica? Che bello, un fratello che si prende cura delle sorelle mentre i genitori sono lontani.»

Ivy sospirò. La notizia del nostro arrivo e la nostra storia sembravano già diventate materia di pettegolezzo.

«I vostri genitori vi raggiungeranno presto?» chiese Mrs Henderson, guardandosi attorno con sfacciataggine, quasi si aspettasse di vederli sbucare dai pensili o cadere dal soffitto.

«Speriamo di rivederli presto», rispose Gabriel, facendo guizzare lo sguardo verso l’orologio.

Beryl aspettò che aggiungesse qualche dettaglio ma, visto che non lo faceva, adottò un’altra tattica. «Avete già conosciuto qualcuno in città?»

Era divertente vedere come, più lei insisteva, più Gabriel si chiudeva in se stesso.

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«Non abbiamo avuto molto tempo per fare amicizia», intervenne Ivy. «Siamo stati piuttosto impegnati.»

«Ma come, non avete tempo!» esclamò Beryl. «Tre bei ragazzi come voi! Bisogna fare qualcosa. In città ci sono dei club fantastici; ve li farò conoscere.»

«Non vedo l’ora», commentò Gabriel con voce piatta.«Mrs Henderson...» Ivy fece per alzarsi.«Beryl.»«Mi scusi, Beryl, ma siamo un po’ di corsa. Per la scuola.»«Ma certo. Che stupida sono, a perdermi in chiacchiere. Di qualunque cosa abbiate bisogno,

non esitate a chiedere. Siamo una comunità piccola, ma ben affiatata, vedrete.»

A causa della visita di Beryl, avevo saltato la prima mezz’ora del compito d’inglese, mentre Gabe aveva trovato i suoi diciassette studenti che si divertivano a tirare di tutto contro il ventilatore da soffitto. Dopo la lezione, avevo un «buco», così mi ritrovai con Molly davanti agli armadietti. Lei mi salutò con un bacetto sulla guancia poi, mentre sistemavo i libri, mi fece un resoconto di quello che era successo la sera precedente su Facebook. A quanto pareva, un certo Chris aveva chiuso la chat mandandole più baci e abbracci del solito, e Molly si stava chiedendo se ciò volesse indicare un cambiamento nel loro rapporto. Gli Agenti della Luce avevano eliminato da casa nostra qualsiasi gadget tecnologico che potesse «distrarci», per cui non avevo idea di cosa parlasse e mi limitai ad annuire ogni tanto. Lei non sembrò accorgersi della mia ignoranza.

«Come fai a sapere cosa prova davvero qualcuno mentre sei online?» chiesi.«Con gli emoticon, scema», esclamò lei. «Ma è meglio non presumere troppo. Sai che

giorno è oggi?»Ormai avevo capito che Molly aveva la sconcertante abitudine di saltare di palo in frasca. «Il

6 marzo», risposi.Tirò fuori un’agendina rosa e, con un gridolino, segnò il giorno con una penna piumata.

«Mancano settantadue giorni!»«A cosa?» le chiesi.Mi guardò, incredula. «Al ballo di fine anno, scema! Non ho mai aspettato tanto qualcosa in

vita mia.» Avevo ormai capito che non dovevo offendermi se mi chiamava «scema»: tra ragazze, quel tipo d’insulto era quasi una dimostrazione d’affetto.

«Non è un po’ presto per pensarci?» obiettai. «Mancano più di due mesi.»«Sì, lo so, ma è l’evento dell’anno. Bisogna pensarci per tempo.»«Perché?»«Dici sul serio?» Molly sgranò gli occhi. «È un rito di passaggio, l’unico evento che

ricorderai per tutta la vita, a parte il matrimonio. È tutto l’insieme: la limousine, l’abito, i ragazzi da urlo, i balli. È l’unica sera in cui possiamo comportarci da principesse.»

Mi venne da pensare che qualcuna di loro già si comportava così ogni giorno, ma non dissi nulla. «Sembra divertente», mormorai. In realtà, mi sembrava una cosa ridicola e lì per lì decisi che l’avrei evitata a ogni costo. Non stentavo a immaginare quanto Gabe avrebbe disapprovato una serata del genere, basata su vanità e frivolezze.

«Hai già pensato con chi vorresti andarci?» chiese Molly, ammiccante.«Non ancora», tagliai corto. «E tu?»«Be’...» Abbassò la voce. «Casey ha detto a Taylah che ha sentito Josh Crosby dire ad

Aaron Whiteman che Ryan Robertson stava pensando di chiedermelo!»«Uau», esclamai, fingendo di aver capito quello che aveva detto. «Sembra grandioso.»«Lo è!» strillò Molly. «Ma non dirlo a nessuno. Non voglio portarmi sfiga.» Fece un ghigno

e, prima che potessi fermarla, prese il mio diario, lo aprì a una data di metà maggio e disegnò attorno al numero un grande cuore rosso. Poi me lo restituì e aprì il suo armadietto. All’interno dello sportello erano appiccicate le foto di alcuni cantanti; dentro, c’era un caos di libri, incarti di

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merendine, tubetti di lucidalabbra e scatolette di mentine. In stridente contrasto, nel mio armadietto, i libri erano ordinatamente impilati, la giacca era appesa all’apposito gancio e l’orario delle lezioni, contrassegnate da colori diversi, era l’unica cosa attaccata allo sportello. Non riuscivo proprio a essere disordinata come un essere umano. Si dice che l’ordine avvicina a Dio, no? Be’, è proprio così.

Seguii Molly in mensa, e chiacchierammo finché lei non andò a matematica e io a francese. Prima, però, dovevo recuperare i grossi e ingombranti libri di francese, chiusi nel mio armadietto. Li presi e poi mi chinai per afferrare il dizionario, incastrato in fondo.

«Ehi, straniera», disse una voce alle mie spalle.Sussultai così forte da sbattere la testa contro la sommità dell’armadietto.«Attenta!»Mi girai e mi ritrovai davanti Xavier Woods, che mi fissava, sorridendo. Quel giorno era in

tenuta da ginnastica: pantaloni blu, polo bianca e felpa coi colori della scuola gettata sulle spalle. Mi strofinai la testa e lo fissai, chiedendomi perché stesse parlando con me.

«Non volevo spaventarti... Tutto a posto?»«Sto benissimo», risposi, stupita per la capacità del suo sguardo di abbagliarmi ogni volta.

Gli occhi turchesi erano fissi su di me, le sopracciglia appena inarcate. Stavolta era abbastanza vicino da permettermi di notare che, in quel turchese, c’erano pagliuzze rame e argento. Si passò una mano tra i capelli, che gli ricaddero sulla fronte, incorniciandogli il viso.

«Tu sei nuova alla Bryce, vero? Ieri non siamo riusciti a chiacchierare un po’.»Non mi veniva in mente nessuna frase sensata, così annuii e mi concentrai sulle mie scarpe.

Poi alzai lo sguardo. Grosso errore. Incontrare i suoi occhi mi diede l’impressione di stare improvvisamente precipitando.

«Ho sentito che sei stata parecchio all’estero», continuò, senza scoraggiarsi per il mio silenzio. «Cosa ci fa una viaggiatrice come te in un posto tranquillo come Venus Cove?»

«Sono qui con mio fratello e mia sorella», mormorai.«Sì, li ho visti in giro. Difficile non notarli, eh?» Esitò. «Com’è piuttosto difficile non notare

te.»Dovevo essere così rossa che probabilmente emanavo calore. «Faccio tardi a francese»,

dissi, allontanandomi lungo il corridoio con passo incerto.«Il laboratorio linguistico è dall’altra parte», mi gridò lui.Non mi voltai.Alla fine, quando trovai l’aula giusta, scoprii con sollievo che pure l’insegnante era appena

arrivato. Mr Collins era un tipo allampanato, barbuto, in giacca di tweed e fazzoletto da collo. L’aula era piccola e quasi piena. Mi guardai attorno, alla ricerca del posto libero più vicino e restai senza fiato quando vidi chi era la persona seduta proprio a destra dell’unico banco vuoto. Col cuore in gola, mi avvicinai e trassi un respiro profondo, cercando di calmarmi. Dopotutto era solo un ragazzo.

Mentre mi sedevo accanto a lui, Xavier Woods sembrava vagamente divertito. Feci del mio meglio per ignorarlo e mi concentrai sulla pagina che Mr Collins aveva indicato sulla lavagna.

«Avrai qualche problema a imparare il francese con quello», mi mormorò all’orecchio Xavier.

In preda all’imbarazzo, mi resi conto che, nella confusione, avevo preso il libro sbagliato. Davanti, non avevo il libro di grammatica francese, ma un testo sulla Rivoluzione Francese. Avvampai per la seconda volta in meno di cinque minuti e mi chinai in avanti, cercando di nascondermi dietro i capelli.

«Miss Church, vuol leggere ad alta voce il capitolo a pagina 96, intitolato À la bibliothèque?» m’invitò Mr Collins.

Ero come paralizzata. Stavo per confessare a tutti di aver sbagliato libro proprio alla mia prima lezione. Avrei fatto la figura dell’incapace. Aprii la bocca per scusarmi, quando Xavier mi fece scivolare davanti il suo testo.

Gli scoccai un’occhiata di gratitudine e cominciai a leggere con scioltezza, pur non avendo

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mai letto né parlato il francese. È così che funziona per noi angeli: ci basta provare a fare una cosa e subito la padroneggiamo. Mentre finivo di leggere, Mr Collins si era avvicinato al nostro banco. Avevo letto molto bene, forse troppo. Capii che avrei dovuto sbagliare la pronuncia di qualche parola, o almeno esitare un paio di volte, ma non ci avevo pensato. Forse avevo voluto impressionare Xavier Woods, compensando la goffaggine che avevo dimostrato poco prima.

«Legge come se fosse madrelingua, Miss Church. Ha vissuto in Francia?»«No, signore.»«Forse l’ha visitata?»«Sfortunatamente no.»Guardai Xavier: sembrava assai impressionato.«Allora chapeau al talento naturale. Forse starebbe meglio nel corso avanzato», suggerì Mr

Collins.«No!» esclamai, temendo di attirare ancora di più l’attenzione. Mi ripromisi di essere meno

impeccabile, in futuro. «Ho ancora molto da imparare», gli assicurai. «La pronuncia è il mio punto forte, ma di grammatica ci capisco poco.»

Mr Collins sembrò soddisfatto della spiegazione. «Woods, continui lei da dove si è fermata Miss Church», disse. Poi guardò Xavier e serrò le labbra. «Woods, dov’è il suo libro?»

Feci per restituirglielo, ma lui m’ignorò. «Mi spiace, professor Collins, ho dimenticato i libri a casa; ieri sera ho fatto tardi.» Poi si girò verso di me. «Lo leggiamo insieme, Beth?»

Volevo protestare, ma Xavier me lo impedì con un’occhiata ammonitrice.Mr Collins lo fissò, scarabocchiò qualcosa sul suo blocco e continuò a borbottare fino alla

cattedra: «Non è un bell’esempio da parte del rappresentante degli studenti. Si trattenga alla fine della lezione».

Aspettai in corridoio che Xavier avesse parlato con Mr Collins. Gli dovevo almeno un grazie per avermi risparmiato una figuraccia.

Quando la porta si aprì, Xavier uscì, con la disinvoltura di chi sta facendo quattro passi sulla spiaggia. Mi guardò e sorrise, contento che lo avessi aspettato. Avrei dovuto incontrare Molly, nell’intervallo, ma il pensiero mi era passato per la testa e se n’era andato senza lasciare traccia. Quando lui mi guardava, era facile dimenticarsi anche di respirare.

«Figurati, non c’è di che», esclamò, prima ancora che potessi aprire bocca.«Come sapevi cosa stavo per dire?» gli chiesi, irritata. «E se avessi voluto dirti che non era

il caso di metterti nei guai?»Mi osservò, incuriosito. «Sei arrabbiata?» domandò. Riecco quel mezzo sorriso che gli

aleggiava sulle labbra, come in attesa di decidere se la situazione fosse abbastanza divertente per un sorriso completo.

Due ragazze ci superarono e m’incenerirono con lo sguardo. «Ehi, Xavier», cinguettò la più alta, facendo un cenno e fermandosi.

«Ciao, Lana», rispose lui, in tono cordiale, ma senza scomporsi.Mi parve evidente che non gli interessava parlare con lei, ma Lana non ci badò. «Com’è

andata la verifica di matematica? A me è sembrata così difficile... Credo di aver bisogno di un tutor.»

Era impossibile non notare il modo in cui Xavier la guardava: era privo d’espressione, come se avesse davanti il monitor di un computer. Lana continuava a parlare, inarcando la schiena in modo che lui potesse apprezzare le sue curve. Qualsiasi altro ragazzo avrebbe apprezzato lo spettacolo, ma gli occhi di Xavier non si mossero, rimanendo puntati sul volto della ragazza. «La verifica? Penso di essermela cavata», replicò. «Credo che Marcus Mitchell sia disponibile... Se pensi di aver bisogno di un tutor, potresti rivolgerti a lui.»

Lana socchiuse le palpebre, contrariata per aver dato così tanto e ricevuto così poco. «Grazie», sbottò, prima di allontanarsi, stizzita.

Xavier non sembrò neppure accorgersi di averla offesa o comunque non se ne curò. Tornò a rivolgersi a me e sul suo volto apparve un’espressione molto diversa. Era serio, come se cercasse di risolvere un rompicapo. Mi sforzai di non esserne troppo compiaciuta; chissà quante altre ragazze

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guardava nello stesso modo. Lana doveva essere solo una sfortunata eccezione. Ricordai quello che mi avevano raccontato di Emily e mi vergognai di essere stata così vanitosa da pensare di aver suscitato il suo interesse.

Prima di poter riprendere la conversazione, fummo avvistati da Molly, che ci fissò, sorpresa. Si avvicinò con cautela, come se temesse d’interrompere qualcosa.

«Ciao, Molly», le disse Xavier quando capì che lei non intendeva iniziare la conversazione.«Ciao», replicò Molly, afferrandomi per una manica con aria decisa. Poi, con una vocina

lamentosa, aggiunse: «Beth, vieni in mensa con me? Sto morendo di fame! E venerdì dopo la scuola devi assolutamente venire a casa mia. La sorella di Taylah, che fa l’estetista, ci farà un trattamento di bellezza. Sarà magnifico. Le danno sempre un sacco di campioni omaggio, così potremo farcelo anche da sole a casa».

«Sembra una figata», disse Xavier con un entusiasmo così finto da farmi ridacchiare. «A che ora devo venire?»

Molly lo ignorò. «Ci vieni, Beth?»«Chiedo a Gabriel e ti faccio sapere», risposi. Colsi un lampo di sorpresa sul viso di Xavier.

Era disorientato dal fatto che non avrei rifiutato di partecipare a una serata di trattamenti di bellezza o che dovessi chiedere il permesso a mio fratello?

«Anche Ivy e Gabriel sono i benvenuti», continuò Molly a voce più alta.«Non credo che sia il loro genere.» Mi accorsi che lei ci era rimasta male, così aggiunsi

subito: «Ma glielo chiederò senz’altro».«Grazie! Ehi, posso chiederti una cosa?» Lanciò un’occhiataccia a Xavier, che non si era

mosso. «In privato?»Lui alzò le mani in segno di resa e si allontanò. Dovetti resistere all’impulso di richiamarlo.

La voce di Molly si ridusse a un sussurro. «Gabriel ha... mmm... detto qualcosa di me?»Né lui né Ivy avevano menzionato Molly dopo l’incontro in gelateria, se non per ribadire

quanto fosse pericoloso stringere amicizie. Dal suo tono, però, era evidente che Gabriel aveva fatto colpo su di lei e non volevo deluderla. «In realtà sì», dissi sperando di sembrare convincente. C’era solo un caso in cui ci era consentito mentire: per evitare sofferenze inutili. E anche in quel caso non era facile.

«Davvero?» Il volto di Molly s’illuminò.«Ma certo.» Cercavo di convincermi che, da un punto di vista tecnico, non stavo mentendo.

Gabriel aveva fatto riferimento a Molly, anche se non nel modo in cui lei sperava. «Ha detto che è bello sapere che ho un’amica così piacevole.»

«Davvero? Credevo che non mi avesse neanche notato. È così bello! Scusami, Beth, lo so che è tuo fratello, ma è un gran figo.» Euforica, mi prese per un braccio e mi trascinò verso la mensa. C’era anche Xavier, seduto al tavolo degli atleti. Stavolta, quando i nostri occhi s’incontrarono, sostenni il suo sguardo. Mentre lo guardavo, non riuscivo a pensare ad altro che al suo sorriso, a quel sorriso accattivante e perfetto che gli increspava appena gli angoli della bocca.

7 Fiesta

A Molly non era sfuggito il mio interesse per Xavier Woods, così decise di darmi qualche consiglio, benché io di certo non glielo avessi chiesto. «Non credo proprio che sia il tuo tipo», mi disse, avvolgendosi i ricci attorno alle dita mentre facevamo la fila per il pranzo.

Mi tenevo vicina a lei per evitare di farmi spintonare dai ragazzi impazienti di raggiungere il

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bancone. I due insegnanti di guardia cercavano d’ignorare il pandemonio attorno a loro. Continuavano a guardare l’ora, contando i minuti che li separavano dal momento in cui si sarebbero potuti rifugiare in sala professori.

Sforzandomi di evitare le gomitate e le chiazze appiccicose di bibite rovesciate a terra, chiesi a Molly: «Ma di cosa parli?»

Mi scoccò un’occhiata penetrante, come a dire che non era il caso di fingere di non aver capito. «Ammetto che Xavier sia uno dei ragazzi più belli della scuola, ma lo sanno tutti che crea solo problemi. Le ragazze che ci provano finiscono col cuore spezzato. Poi non dirmi che non ti avevo avvisato.»

«Non sembra che lo faccia apposta», dissi, spinta dal desiderio di difenderlo anche se non sapevo quasi niente di lui.

«Senti, Beth, innamorarsi di Xavier significa solo starci male. È la pura verità.»«Com’è che sei così esperta?» le chiesi. «Ha spezzato il cuore anche a te?»Gliel’avevo chiesto per scherzo, ma Molly si fece seria di colpo. «Eccome.»«Scusami. Non ne avevo idea. Com’è successo?»«Be’, erano secoli che gli morivo dietro, e così alla fine mi sono stufata di lanciargli segnali

e gli ho chiesto di uscire.» Aveva parlato con noncuranza, come se fosse successo molto tempo prima e non gliene importasse più.

«E allora?» la incitai.«E allora niente.» Alzò le spalle. «È stato gentile, però mi ha detto che mi considerava

soltanto un’amica. È stato il momento più umiliante della mia vita.»Non potevo dirle che non mi sembrava una cosa così terribile. Xavier si era comportato in

maniera onesta, addirittura encomiabile. Molly l’aveva definito come uno che spezzava i cuori, una specie di farabutto; invece lui aveva solo declinato un invito, rivelando molto tatto. Ma avevo imparato abbastanza sull’amicizia femminile da sapere che l’unica reazione possibile era la solidarietà.

«Non è giusto», continuò Molly, in tono accusatorio. «Uno schianto di ragazzo come lui, sempre amico di tutti, ma che non lascia mai avvicinare nessuno.»

«Ha mai fatto capire a qualche ragazza di volere qualcosa di più dell’amicizia?»«No», ammise lei. «Però non è giusto lo stesso. Come si fa a essere troppo impegnati per

farsi la ragazza? Lo so che pare brutto, ma prima o poi dovrà superare questa cosa di Emily: non è che lei possa tornare indietro. Comunque basta, l’ho chiusa lì. Spero che venerdì verrai davvero, a casa mia, così la smettiamo di pensare ai ragazzi.»

«Non siamo qui per socializzare», disse Gabriel quando gli chiesi il permesso di andare da Molly, quel venerdì.

«Ma sarebbe scortese da parte mia non andarci», obiettai. «E poi è venerdì sera e il giorno dopo non c’è scuola.»

«Va bene. Se lo desideri vai pure, Bethany», sospirò lui. «Pensavo che ci fossero modi più proficui di passare una serata, ma non voglio ostacolarti.»

«È solo per stavolta. Farò in modo che non diventi un’abitudine.»«Lo spero proprio.»Non mi erano piaciute le sue allusioni né l’insinuazione che stessi già perdendo di vista il

nostro scopo, ma non mi sarei lasciata rovinare l’umore. Volevo sperimentare tutti gli aspetti della vita umana. Mi avrebbe aiutato a comprendere meglio la nostra missione.

Venerdì alle sette avevo già fatto la doccia e indossato un abito di lana verde cui avevo abbinato collant scuri e stivaletti. Mi ero anche messa il lucidalabbra che mi aveva regalato Molly. Ero soddisfatta del risultato perché sembravo un po’ meno pallida del solito.

«Non c’era bisogno di metterti in ghingheri; non stai andando a un ballo», borbottò Gabriel quando mi vide.

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«Una ragazza deve sempre essere al meglio», esclamò Ivy in mia difesa, facendomi l’occhiolino. Forse non la entusiasmava che passassi del tempo con Molly e con le sue amiche, ma non era tipo da tenere il muso. Sapeva che, ogni tanto, per mantenere la pace, bisognava lasciar correre.

Diedi un bacio a entrambi e uscii. Gabriel avrebbe voluto accompagnarmi con la jeep nera che avevamo trovato in garage, ma Ivy l’aveva dissuaso: c’era ancora luce e la casa di Molly era a pochi isolati da lì, quindi non c’era pericolo. In compenso, accettai che Gabriel mi venisse a prendere; gli avrei telefonato io.

Mentre andavo da Molly, quella sera, mi sentivo felice. L’inverno stava per finire, ma la brezza che m’increspava il vestito era ancora fredda. Respirai il profumo pulito dell’oceano, misto a quello caratteristico dei sempreverdi. Consideravo un privilegio essere sulla Terra, camminare, respirare... Era molto più entusiasmante che osservare la vita da un’altra dimensione. Dal Regno, vedere la Terra che pullulava di vita era come guardare uno spettacolo. Trovarsi al centro della scena poteva essere più spaventoso, ma di certo era anche più eccitante.

Quando arrivai al numero 8 di Sycamore Grove il mio umore cambiò. La porta d’ingresso era spalancata e sembrava che tutte le luci fossero accese. Dall’interno, arrivava una musica rimbombante e, sulla veranda, c’erano alcuni ragazzi poco vestiti: sembravano impegnatissimi a ballare scompostamente. No, non poteva essere quella la casa. Controllai l’indirizzo che Molly mi aveva scritto su un pezzo di carta. Nessun errore. Poi riconobbi qualche faccia vista a scuola. Un paio di ragazzi mi salutò. Allora salii i gradini dell’ingresso e... quasi andai a sbattere contro un ragazzo che stava vomitando oltre la ringhiera della veranda.

Valutai la possibilità di tornarmene a casa. A Ivy e a Gabriel avrei detto che mi era venuto un forte mal di testa. Non avevo dubbi: se avessero saputo cosa si nascondeva dietro la «serata tra ragazze» a casa di Molly, non mi avrebbero mai dato il permesso di uscire. Ma la curiosità ebbe la meglio e decisi di entrare. Avrei salutato la mia amica e poi, con una scusa, me ne sarei andata.

C’era una marea di gente nell’ingresso, saturo di fumo di sigaretta. La musica era così alta che bisognava gridare per farsi sentire. Il pavimento che vibrava e i ballerini che ondeggiavano mi fecero sentire come se fossi nell’epicentro di un terremoto. Le percussioni erano così forti da far vibrare i timpani e mi strapparono una serie di brividi. Mi arrivavano respiri caldi sulle guance, l’aria puzzava di birra e di vomito. Quello spettacolo mi travolse con un’intensità tale da farmi quasi perdere l’equilibrio. Ma quella era l’esistenza umana, mi dissi, e io ero decisa a sperimentarla in prima persona. Così trassi un respiro profondo ed entrai nel salotto.

C’erano ragazzi ovunque: fumavano, bevevano o stavano avvinghiati a qualcuno. Mi feci strada tra la folla e osservai affascinata un gruppo impegnato in un gioco che – mi dissero – si chiamava «caccia al tesoro». Da una parte c’era una fila di ragazze e, di fronte a loro, alcuni ragazzi lanciavano dei marshmallow, cercando di farli cadere nelle scollature. Se ci riuscivano, dovevano recuperarli usando solo la bocca. Le ragazze ridevano e strillavano quando i ragazzi affondavano la testa nel loro seno.

Dei genitori di Molly non c’era traccia. Erano forse partiti per il weekend? Mi chiedevo anche come avrebbero reagito vedendo la loro casa ridotta in quello stato. Nel soggiorno, sui divani di pelle marrone, c’erano varie coppie che si scambiavano effusioni piuttosto goffe, come se fossero ubriache. E infatti, sul pavimento, tra frammenti di patatine e M&M’s schiacciati, c’erano parecchie bottiglie di birra vuote.

Vicino alla portafinestra che dava accesso sul retro della casa e alla piscina, riconobbi Leah Green, una delle amiche di Molly. Mi diressi verso di lei.

«Beth! Ce l’hai fatta a venire!» gridò Leah per sovrastare la musica. «Che festa grandiosa, vero?»

«Hai visto Molly?» le gridai in risposta.«È nell’idromassaggio.»Mi liberai dalla presa di un ragazzo ubriaco che cercava di trascinarmi in mezzo ai ballerini

e ne schivai un altro che mi aveva chiamato «fratello», tentando di abbracciarmi. Una ragazza lo spinse via, dicendo: «Fregatene altamente di Stefan. È già sbronzo perso».

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Annuii e scivolai fuori, ripromettendomi di aggiungere diverse parole nuove al glossario che stavo compilando.

Fuori, c’erano altre bottiglie vuote e lattine sparpagliate. Avanzai con cautela. Nonostante il freddo, una folla di ragazze e ragazzi in costume da bagno circondava la piscina e la vasca idromassaggio. Le lampade proiettavano una strana luce blu sui corpi in movimento. All’improvviso, un ragazzo nudo mi sfrecciò davanti e si tuffò in piscina. Quando riemerse, batteva i denti; tuttavia sembrava soddisfatto dell’applauso e delle urla che aveva suscitato. Cercai di nascondere il mio sconcerto.

Quando finalmente individuai Molly – nella vasca in mezzo a due ragazzi – trassi un sospiro di sollievo. Non appena mi vide, mi raggiunse, stiracchiandosi come un gatto e indugiando abbastanza a lungo da permettere ai due di ammirare il suo corpo tonico. «Bethie, quando sei arrivata?» mi disse con voce flautata.

«Da poco», dissi. «C’è stato un cambio di programma? Che fine hanno fatto i trattamenti di bellezza?»

«Tesoro, quell’idea l’abbiamo mollata!» esclamò lei, come se si trattasse di un inutile dettaglio. «Mia zia si è ammalata, così mamma e papà sono fuori città per il weekend. Non potevo farmi scappare l’occasione per una fiesta!»

«Sono entrata solo per salutarti. Non posso fermarmi. Mio fratello crede che siamo qui a provare maschere per il viso.»

«Ah, lui non c’è...» Molly sorrise, maliziosa. «Gabriel il fratellone non vede, quindi occhio non duole, giusto? Va bene, non voglio che ti metta nei guai per colpa mia. Però bevi almeno qualcosa prima di andartene.»

In cucina, Taylah stava versando roba nel frullatore. Attorno a lei, c’era un assortimento di bottiglie davvero impressionante. Lessi alcune etichette: rum bianco dei Caraibi, scotch single malt, whiskey, tequila, assenzio, Midori, bourbon, champagne... ma quei nomi non mi dicevano granché. L’alcol non rientrava nel mio addestramento. A quanto pareva era una lacuna.

«Posso avere due Taylah Special per me e Beth?» chiese Molly, abbracciando l’amica e facendola muovere a tempo di musica.

«In arrivo!» gridò Taylah mentre riempiva quasi fino all’orlo due bicchieri da cocktail con un intruglio verdognolo.

Molly me ne cacciò uno in mano e bevve un gran sorso dal suo. Tornammo in soggiorno. Da due colossali altoparlanti, piazzati agli angoli della stanza, usciva una musica a volume così alto che persino il pavimento vibrava.

Con cautela, annusai la bevanda. «Cosa c’è dentro?» gridai a Molly.«È un cocktail!» strillò lei. «Cin cin!»Ne bevvi un sorso per educazione e me ne pentii subito. Era così dolce da dare la nausea, ma

nel contempo mi bruciava la gola. Decisa a non passare per guastafeste, continuai a sorseggiarlo. Ridendo, Molly mi guidò verso la massa di ballerini in fermento. Ballammo insieme per qualche minuto, poi la persi di vista e mi trovai circondata da una calca di estranei. Cercai tra quei corpi uno spiraglio per fuggire, ma invano. In più, il mio bicchiere veniva continuamente riempito da camerieri invisibili.

Cominciava a girarmi la testa e le gambe non mi reggevano più. Mi convinsi che era colpa della musica assordante e della confusione. Bevvi ancora qualche sorso del cocktail, sperando che mi rinfrescasse un po’. Gabriel insisteva sempre sulla necessità di mantenerci idratati.

Stavo finendo il terzo bicchiere quando provai l’irrefrenabile impulso di afflosciarmi a terra. Ma non ci riuscii. Una mano vigorosa mi afferrò e mi allontanò dalla calca, rafforzando la presa sul mio braccio nel momento in cui, scivolando, rischiai di fare un capitombolo. Lasciai che lo sconosciuto mi trascinasse fuori. Mi aiutò a sedermi su una panchina, dove mi piegai in due, stringendo ancora in mano il bicchiere vuoto.

«Dovresti andarci piano, con quella roba.»Lentamente misi a fuoco il viso di Xavier Woods. Indossava jeans scoloriti e una T-shirt

grigia a maniche lunghe, aderente, che rivelava il petto ampio anche più della divisa scolastica. Mi

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scostai i capelli dagli occhi e scoprii di avere la fronte madida di sudore. «Andarci piano con cosa?»«Ehm... con quello che stai bevendo... perché è bello forte», replico lui, come se fosse ovvio.Adesso il liquido cominciava a ribollirmi nello stomaco e la testa mi pulsava. Sapevo di

voler dire qualcosa, ma non riuscivo a formare le parole, che venivano come portate via da ondate di nausea. Allora mi appoggiai debolmente a Xavier e mi venne da piangere.

«I tuoi lo sanno dove sei?» mi chiese lui.Scossi la testa, il che fece pericolosamente roteare il giardino intero.«Quanti ne hai bevuti di questi?»«Non lo so», borbottai. «Ma non sembra che mi facciano bene.»«Bevi spesso?»«È la prima volta.»«Oh, cavolo.» Xavier scosse la testa. «Questo spiegherebbe perché sei già persa.»«Sono cosa?» Mi sporsi in avanti e quasi ruzzolai a terra.«Ehi!» esclamò lui, afferrandomi. «Sarà meglio che ti porti a casa.»«Tra un minuto starò bene.»«No, non credo. Stai tremando.»Sorpresa, mi resi conto che aveva ragione. Xavier rientrò a prendere la giacca e me la mise

sulle spalle. Aveva il suo odore e quello mi era di conforto.Arrivò Molly, barcollando. «Come va?» disse, troppo allegra per lasciarsi infastidire dalla

presenza di Xavier.«Cosa stava bevendo Beth?» le chiese lui.«Solo un cocktail», rispose Molly. «A base di vodka. Stai male, Beth?»«Sì, non sta bene», disse Xavier.«Cosa le posso portare?» borbottò Molly, incerta.«Farò in modo che arrivi a casa sana e salva», ribatté lui.Persino nello stato in cui ero, non mi sfuggì il suo tono d’accusa.«Grazie, Xavier, ti devo un favore. Ah, cerca di non raccontare troppi dettagli a suo fratello,

non sembra un tipo comprensivo.»L’odore dei sedili di pelle dell’auto di Xavier mi calmò un poco, tuttavia mi sembrava

ancora di avere una fornace al posto dello stomaco. Mi accorsi vagamente dei sobbalzi lungo il tragitto e del fatto che lui mi trasportava di peso fino alla porta di casa. Ero abbastanza cosciente da sentire quello che succedeva attorno a me, ma troppo intontita per tenere gli occhi aperti. E, proprio perché erano chiusi, non vidi l’espressione di Gabriel quando aprì la porta, tuttavia non mi sfuggì il suo tono allarmato.

«Cos’è successo? È ferita?» Sentii che mi prendeva la testa tra le mani.«No, sta bene», rispose Xavier. «Ha solo bevuto un po’ troppo.»«Dov’era?»«Alla festa di Molly.»«A una festa? Non mi aveva parlato di una festa.»«Infatti credo che non lo sapesse neanche lei. Non è colpa di Beth.»Mi depositò tra le muscolose braccia di Gabriel.«Grazie per averla riportata a casa», disse mio fratello.«Nessun problema», rispose Xavier. «Ha perso i sensi, per un po’. Forse avrebbe bisogno di

un medico.»Ci fu una pausa: evidentemente Gabriel stava valutando cosa dire. Sapevo che non c’era

bisogno di un medico. Senza contare che una visita avrebbe rivelato certe anomalie inspiegabili... Ma Xavier non poteva certo saperlo.

«Ce ne occuperemo noi», dichiarò Gabriel.Non suonava bene; pareva che lui volesse nascondere qualcosa. Avrei voluto che si

sforzasse di dimostrare almeno un minimo di gratitudine. Dopotutto Xavier mi aveva salvato. Se non si fosse accorto che ero nei guai, sarei stata ancora a casa di Molly e chissà cosa sarebbe successo.

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«Mi sembra giusto.» Avvertii un’ombra di sospetto nella voce di Xavier e capii che non voleva andarsene. Ma non aveva neppure motivo di restare. «Dite a Beth che spero si rimetta presto.»

Sentii i suoi passi che si allontanavano, facendo scricchiolare la ghiaia, e il rumore dell’auto che ripartiva. Poi le mani fresche di Ivy mi accarezzarono la fronte e la sua energia guaritrice si riversò in me.

8 Phantom

Non avevo idea di che ora fosse quando mi svegliai. Nella mia testa c’era un martellio implacabile e la mia lingua sembrava una striscia di carta vetrata. Mi ci volle un po’ per riordinare gli avvenimenti della sera prima ma, quando ci riuscii, desiderai non averlo fatto. Ripensai al mio stato confusionale, ai farfugliamenti, all’incapacità di reggermi in piedi e mi vergognai a morte. Mi ricordai di Gabriel che mi accoglieva tra le sue braccia e della sua voce preoccupata e, nel contempo, delusa. Rammentai pure che Ivy mi aveva spogliato e che, con espressione sgomenta, mi aveva messo a letto, come una bambina. Poi, mentre lei mi rimboccava le coperte, avevo sentito mio fratello che ringraziava ancora qualcuno, giù alla porta.

Cominciò quindi a tornarmi alla memoria il fatto che, alla festa di Molly, avevo passato buona parte del tempo accasciata contro il corpo rassicurante di uno sconosciuto. Gemetti quando mi balenò in mente l’immagine vivida del suo viso. Di tutti i prodi cavalieri che avrebbero potuto salvarmi, perché il mio cavaliere doveva essere proprio Xavier Woods? A cosa aveva pensato Nostro Padre, nella Sua infinita saggezza? Mi sforzai di rievocare i frammenti della breve conversazione, ma la memoria pareva opporre resistenza.

Sopraffatta da un misto di rammarico e di umiliazione, con le guance in fiamme, seppellii la testa sotto il piumone e mi raggomitolai come una palla, nella speranza di poter restare così per sempre. Cosa avrebbe pensato di me Xavier Woods, il rappresentante degli studenti della Bryce Hamilton? Cosa avrebbero pensato di me tutti gli altri? Frequentavo quella scuola da meno di una settimana e già avevo screditato la mia famiglia e rivelato al mondo di essere un’autentica pivella. Come avevo fatto a non accorgermi di quant’erano forti quei cocktail? In più, avevo fornito a mio fratello e a mia sorella la prova che, senza di loro, non ero capace di badare a me stessa.

Dal piano di sotto mi arrivarono suobi smorzati. Ivy e Gabriel stavano discutendo sottovoce. Le guance mi s’infiammarono di nuovo quando pensai alla situazione in cui li avevo messi. Che egoista ero stata a non considerare che le mie azioni avrebbero coinvolto anche loro! La loro reputazione era in gioco come la mia, e la mia era ormai a brandelli. Considerai la possibilità di fare i bagagli e ricominciare da un’altra parte. I miei fratelli non pensavano certo che saremmo rimasti a Venus Cove, dopo quello che avevo fatto. Quasi mi aspettavo che venissero ad annunciarmi la decisione e cominciassimo a fare le valigie per sparire silenziosamente. Senza neppure il tempo per i saluti; i legami che avevo stretto sarebbero diventati solo piacevoli ricordi.

Ma non salì nessuno e alla fine non mi restò che avventurarmi al pianterreno per affrontare le conseguenze. Mi vidi di sfuggita nello specchio del corridoio. Sembravo fragile, con profonde occhiaie bluastre. L’orologio segnava quasi mezzogiorno.

Seduta al tavolo di cucina, Ivy stava ricamando con la sua solita abilità, mentre Gabriel era alla finestra, dritto come un prete sul pulpito. Con le mani intrecciate dietro la schiena, fissava pensieroso il mare. Aprii il frigo e mi versai un bicchiere di succo d’arancia che inghiottii d’un fiato, per placare una sete rabbiosa.

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Pur consapevole della mia presenza, Gabriel non si voltò. Rabbrividii. Una strapazzata furiosa sarebbe stata molto meglio di quel rimprovero silenzioso. Ci tenevo troppo alla sua stima per rischiare di perderla. Se non altro, un’esplosione di rabbia avrebbe alleviato il mio senso di colpa. Avrei voluto che si girasse, per poterlo almeno guardare in faccia.

Ivy depose il ricamo e alzò lo sguardo su di me. «Come ti senti?» Non sembrava furibonda né delusa.

Disorientata, mi portai le mani alle tempie ancora pulsanti. «Sono stata meglio.»Il silenzio ci avvolse come una coltre.«Mi dispiace tanto», dissi con umiltà. «Non so come sia successo. Mi sento così stupida.»Gabriel si voltò, gli occhi del colore della tempesta. Ma in quello sguardo vidi solo un

profondo affetto per me. «Non tormentarti, Bethany», disse, con la sua solita compostezza. «Diventando umani siamo anche soggetti a commettere errori.»

«Non siete arrabbiati?» mi lasciai sfuggire, guardando prima l’uno e poi l’altra. La loro carnagione perlacea era luminosa e rassicurante come sempre.

«Certo che no», rispose Ivy. «Come puoi rimproverarti per qualcosa che non potevi controllare?»

«Il punto è proprio questo. Avrei dovuto saperlo. A voi non sarebbe successo. Perché sbaglio solo io?»

«Non essere troppo dura con te stessa», mormorò Gabriel. «Ricordati che è la tua prima visita sulla Terra. Migliorerai col tempo.»

«È facile dimenticarsi che gli umani sono di carne e ossa, e che non sono indistruttibili», aggiunse Ivy.

«Sì, cercherò di ricordarlo», dissi, un po’ rincuorata.«Ho proprio quello che ti serve per toglierti quel martello pneumatico dalla testa», sorrise

Gabriel.Ancora in pigiama, mi avvicinai e vidi che tirava fuori alcune cose dal frigo. Misurò gli

ingredienti con la precisione di uno scienziato e li mise nel frullatore. Alla fine mi porse un bicchiere di liquido rosso scuro.

«E cosa sarebbe?» domandai.«Succo di pomodoro, tuorlo d’uovo e un pizzico di peperoncino», spiegò. «Secondo

l’enciclopedia medica che ho letto ieri notte, è uno dei rimedi migliori per il doposbronza.»Il miscuglio sembrava disgustoso sia alla vista sia all’olfatto, ma il martellio in testa non

accennava a diminuire e così mi tappai il naso e lo mandai giù. Più tardi, mi venne in mente che Ivy avrebbe potuto curarmi con un semplice tocco sulle tempie, ma forse i miei fratelli volevano insegnarmi a sopportare le conseguenze umane delle mie azioni.

«Oggi sarebbe meglio restare tutti a casa, non vi pare?» suggerì Ivy. «Prendiamoci un po’ di tempo per riflettere.»

Non avevo mai provato tanto rispetto per loro come in quel momento. La tolleranza che stavano dimostrando si poteva definire solo sovrumana... come in effetti era.

In confronto al resto della comunità, vivevamo come quaccheri: niente televisione, computer né cellulari. L’unica concessione alla vita sulla Terra del XXI secolo era il telefono fisso, che ci era stato allacciato subito dopo il trasferimento. Consideravamo la tecnologia una forma d’influenza corruttrice, che favoriva comportamenti antisociali e distraeva dai valori familiari. Casa nostra era un luogo in cui passare il tempo nella reciproca compagnia, anziché sprecarlo a fare acquisti su Internet o guardare sciocchi programmi televisivi.

Gabriel odiava in particolare l’influenza della TV. Quando ci stavamo preparando per la missione, ci aveva mostrato alcune scene di un programma: alcune persone in lotta contro l’obesità venivano divise in gruppi, a ciascuno dei quali venivano offerti cibi appetitosi per vedere se riuscivano a resistere. Chi si arrendeva, era rimproverato e scacciato. Giocare con le emozioni e approfittare della debolezza degli individui erano atti ripugnanti, aveva detto Gabriel. Ed era ancora più ripugnante il fatto che il pubblico considerasse divertente quella crudeltà.

Così quel pomeriggio non ci rivolgemmo alla tecnologia per passare il tempo, ma ci

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sedemmo sul patio a leggere, a giocare a Scarabeo o semplicemente a meditare. Dedicare tempo alla riflessione non significava non svolgere altre attività; solo che le svolgevamo in silenzio, con calma, cercando nel frattempo di soppesare successi e fallimenti. O, meglio, Ivy e Gabriel valutavano i loro successi; quel giorno, io contemplavo i miei fallimenti, fissando il cielo e mangiucchiando una fetta di melone. Avevo deciso che la frutta era il cibo che preferivo: la sua dolce freschezza mi ricordava il Regno. Mentre osservavo il cielo, notai che il sole era una bianca palla sfolgorante e, se lo fissavo, mi dolevano gli occhi. Nel Regno, invece, il sole inondava tutto di una calda luce dorata che si poteva toccare e far gocciolare fra le dita come miele caldo. A Venus Cove, quella luce era molto più aspra, ma anche più reale.

«Avete visto?» Ivy sopraggiunse con un vassoio di frutta e formaggio e, con una smorfia, gettò il giornale sul tavolo.

«Mmm...» annuì Gabriel.«Cosa?» Mi rizzai a sedere, allungando il collo per guardare. C’era una fotografia a tutta

pagina: gente che correva in ogni direzione; uomini che cercavano invano di proteggere le donne, madri che tendevano le braccia ai bambini caduti a terra. Alcuni avevano gli occhi chiusi e pregavano; altri avevano la bocca spalancata in un grido silenzioso. Dietro di loro, le fiamme lambivano il cielo e un fumo denso oscurava il sole.

«Bombardamenti in Medio Oriente», spiegò Gabriel, girando il giornale con uno scatto del polso. Ma quell’immagine si era ormai impressa a fuoco nella mia mente. «Più di trecento morti. Sai cosa significa, vero?»

«Che i nostri agenti sul posto non stanno lavorando bene?»«Che non possono lavorare bene», mi corresse Ivy.«Cosa può averli fermati?»«Le Forze Oscure stanno sconfiggendo gli Agenti della Luce», dichiarò Gabriel, cupo.

«Succede sempre più spesso.»«Credi forse che solo il Cielo mandi i propri inviati?» scattò Ivy, forse irritata dalla mia

incredulità. «Siamo in compagnia.»«E non possiamo far nulla?»Gabriel scosse la testa. «Senza autorizzazione, agire ci è impossibile.»«Ma ci sono stati trecento morti!» protestai. «Deve pur importare qualcosa!»«Certo che importa!» esclamò Gabriel. «Ma non è compito nostro intervenire. Ci è stato

assegnato questo posto e non possiamo abbandonarlo perché in un’altra parte del globo è successo qualcosa di brutto. Custodire Venus Cove: questo è il nostro incarico. Una ragione ci sarà.»

«E tutte quelle persone?» chiesi, ripensando a quelle facce stravolte dal terrore.«Possiamo solo pregare per l’intervento divino.»A metà pomeriggio, ci rendemmo conto di essere a corto di provviste. Anche se non mi

sentivo ancora troppo bene mi offrii di andare in città. Speravo di potermi distrarre da quelle immagini penose. «Cosa devo comprare?» chiesi prendendo un foglio e una penna.

«Frutta e uova, e un po’ di pane in quella panetteria francese che ha appena aperto», suggerì Ivy.

«Vuoi un passaggio?» si offrì Gabriel.«No, grazie. Prenderò la bicicletta. Ho bisogno di esercizio.»Lasciai che Gabriel tornasse alle sue letture e andai a prendere la bicicletta in garage,

portandomi appresso una borsa di tela ripiegata. Ivy si era messa a potare le rose in giardino, e mi fece un cenno di saluto quando mi vide passare.

Dopo la dormita da zombie quei dieci minuti di pedalata fino alla città furono tonificanti. Il profumo resinoso di pini rinfrescava l’aria e aiutava a scacciare la malinconia. Rifiutai di lasciar vagare la mente fino a Xavier Woods e cercai di escludere ogni ricordo della sera prima. Ma, a quanto pareva, la mia testa andava per conto suo e rabbrividii ripensando alle sue braccia forti che mi sostenevano, alla sua camicia contro la guancia, al tocco della mano che mi scostava i capelli dal viso, proprio come aveva fatto in sogno.

Incatenata la bici alla rastrelliera davanti all’ufficio postale, mi avviai verso il negozio di

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alimentari. Davanti alla porta, mi fermai per lasciar uscire due donne, l’una anziana e un po’ curva, l’altra di mezza età e robusta. Quest’ultima accompagnò l’altra a sedersi su una panchina, quindi tornò verso il negozio e appese un annuncio in vetrina. Accanto all’anziana, seduto sulle zampe posteriori, c’era un cane grigio argento. Era la creatura più strana che avessi mai visto; la sua espressione era così pensierosa da sembrare quasi umana, persino nobile. Aveva le mascelle un po’ cascanti, il pelo liscio come raso, gli occhi pallidi come il chiaro di luna.

L’anziana aveva un’aria abbattuta e, quando lessi l’annuncio in vetrina, capii il motivo della sua tristezza: il cartello diceva che il cane sarebbe stato «regalato a chiunque lo avesse trattato bene».

«È meglio così, Alice, vedrai», disse la più giovane in tono pratico e brusco. «Vuoi che Phantom sia felice, no? Non può venire con te, quando ti trasferirai. Conosci le regole.»

L’altra scosse la testa. «Ma si ritroverà in una casa che non conosce, e non capirà cosa succede. Noi ormai abbiamo le nostre abitudini...»

«I cani si adattano benissimo. Adesso cerchiamo di arrivare a casa in tempo per la cena. Sono sicura che il telefono comincerà a squillare non appena entreremo.»

Alice non sembrava condividere la sicurezza della compagna. Tormentò nervosamente il guinzaglio del cane con le dita nodose e poi se le passò sui capelli, raccolti in una fragile crocchia. Sembrava che non avesse fretta di muoversi, come se alzarsi equivalesse a suggellare un patto su cui non aveva ancora riflettuto abbastanza. «Ma come farò a sapere che si prenderanno cura di lui?»

«Chiederemo a chi lo prende di portarlo a trovarti nella tua nuova casa.» La donna dimostrava una certa impazienza. La voce si era alzata, il respiro era diventato affannoso e goccioline di sudore si erano formate sulle tempie. In più, continuava a guardare l’ora.

«E se poi se ne dimenticano?» chiese Alice in tono lamentoso.«Sono sicura di no», tagliò corto l’altra. «Ti serve qualcosa, prima che ti riaccompagni a

casa?»«Solo i croccantini per Phantom, ma non quelli al pollo, non gli piacciono.»«Bene, perché non mi aspetti qui mentre faccio un salto a prenderli?»Alice annuì. Fissò il vuoto davanti a sé con espressione rassegnata, poi si chinò a grattare

Phantom dietro le orecchie. Lui la guardò, perplesso. Sembrava che l’animale e la sua padrona s’intendessero benissimo.

Mi avvicinai. «Che bello, il suo cane», dissi. «Di che razza è?»«È un Weimaraner», rispose Alice. «Ma purtroppo non resterà mio ancora per molto.»«Sì, non ho potuto fare a meno di sentire.»«Povero Phantom...» Alice sospirò e si chinò per parlare al cane. «Tu hai capito cosa

succede, vero? Ma sarai coraggioso...»M’inginocchiai ad accarezzarlo sulla testa e lui mi annusò circospetto prima di offrirmi la

grossa zampa.«Strano», disse Alice. «Di solito è molto riservato con gli estranei. Devi essere un’amante

dei cani.»«Sì, adoro gli animali. Se non sono indiscreta, posso chiederle perché, nel posto in cui lei sta

per andare, lui non può venire?»«Perché mi trasferisco nella casa di riposo, a Fairhaven. La conosci? I cani non sono

ammessi.»«Che peccato. Ma non si preoccupi; sono sicura che un cane come Phantom troverà subito

un’altra casa. Le fa piacere andare a Fairhaven?»Sembrò sorpresa da quella domanda. «Sai, sei la prima persona che me lo chiede. Non

m’importa molto di dove starò, tuttavia mi sentirò meglio non appena saprò che Phantom ha trovato una buona sistemazione. Speravo che lo tenesse mia figlia, ma lei abita in un appartamento che non è adatto a lui.»

Mentre Phantom mi appoggiava il naso spugnoso sulla mano, mi venne un’idea. Forse, con quell’incontro, la Provvidenza mi stava offrendo l’occasione per rimediare al mio comportamento irresponsabile della sera prima. Dopotutto non era proprio quello il mio compito? Non dovevo

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aiutare le persone ogni volta che potevo anziché concentrarmi sulle mie personali ossessioni? Per una guerra dall’altra parte del globo non potevo fare granché; quella invece era una situazione in cui potevo rendermi utile. «E se lo prendessi io?» dissi d’impulso. Sapevo che, se mi fossi soffermata a riflettere, avrei perso il coraggio.

Il viso di Alice s’illuminò all’istante. «Davvero? Ne sei proprio sicura? Ah, sarebbe meraviglioso! Non troverai mai un amico più fedele di lui. E poi andate già d’accordo. Ma cosa diranno i tuoi genitori?»

«Non avranno niente in contrario», esclamai, sperando che Ivy e Gabriel condividessero le mie motivazioni. «Allora, siamo d’accordo?»

«Ecco Felicity!» esclamò Alice, raggiante. «Diamole la buona notizia.»Così Phantom e io osservammo le due donne che salivano in auto – l’una che si asciugava le

lacrime e l’altra visibilmente sollevata – e se ne andavano. Dopo aver rivolto ad Alice un commovente guaito e uno sguardo affranto, Phantom non sembrò turbato di ritrovarsi affidato a me, come se d’istinto avesse capito che la nuova sistemazione era quanto di meglio gli potesse toccare in sorte. Aspettò fuori dal negozio mentre facevo la spesa. Una volta uscita, appesi la borsa a un lato del manubrio, legai il guinzaglio all’altro e spinsi la bicicletta fino a casa.

«Hai trovato il panettiere?» gridò Gabriel quando mi sentì entrare.«Scusa, l’ho dimenticato», dissi, precipitandomi in cucina con Phantom alle calcagna. «In

compenso, ho fatto un buon affare.»«Oh, Bethany!» esclamò Ivy, tutta contenta. «Dove l’hai trovato?»«È una lunga storia», replicai. «C’era questa donna, Alice, che...» E raccontai in breve

quello che era successo.Ivy accarezzò la testa di Phantom e lui le appoggiò il muso sulla mano. C’era qualcosa di

ultraterreno in quegli occhi pallidi e afflitti, qualcosa che lo rendeva simile a noi. «Lo possiamo tenere?» conclusi.

«Certo», disse Gabriel. «Tutti hanno bisogno di una casa.»Ivy e io improvvisammo una cuccia per Phantom e gli scegliemmo una ciotola. Gabriel ci

guardava, con gli angoli della bocca sollevati in un sorriso. Sorrideva così di rado che, ogni volta, era come se il sole spuntasse dalle nuvole.

Era ovvio che Phantom sarebbe stato il mio cane. Mi considerava la sua madre adottiva e mi seguiva ovunque andassi. Quando mi lasciai cadere sul divano, mi si accucciò sui piedi – neanche fosse una gigantesca borsa dell’acqua calda – e si addormentò, russando piano. Nonostante le dimensioni, capii che era pigro di natura. E che non ci avrebbe messo molto a integrarsi nella nostra famigliola.

Dopo cena, mi feci una doccia e mi sedetti sul divano con Phantom, che mi appoggiò la testa in grembo. Il suo attaccamento aveva un effetto così terapeutico che mi rilassò, facendomi quasi dimenticare gli eventi della sera prima.

Poi bussarono alla porta.

9 Vietato l’ingresso ai ragazzi

Phantom ringhiò e, con un balzo, scese dal divano. Poi raggiunse la porta e si mise ad annusarla furiosamente.

«Che ci fa lui qui?» brontolò Gabriel sottovoce.«’Lui’ chi?» sussurrai insieme con Ivy.

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«L’eroico rappresentante degli studenti.»Il sarcasmo di Gabriel mi lasciò del tutto indifferente. «Xavier Woods?» chiesi, incredula,

dandomi una rapidissima occhiata nello specchio sopra il camino. Anche se era presto, mi ero già messa il pigiama con le mucche e, in testa, avevo una molletta per trattenere i capelli. Ivy se ne accorse e sembrò divertita dal mio sfoggio di vanità. «Per favore, non fatelo entrare, sono orribile», li implorai.

I miei fratelli si misero a confabulare.Io li guardavo, inquieta. Dopo la figuraccia alla festa di Molly, Xavier era l’ultima persona

che volevo vedere. Anzi era la prima persona che volevo evitare. «Se n’è andato?» domandai, dopo un po’.

«No», rispose Gabriel. «E pare che non abbia intenzione di andarsene.»Gesticolai in direzione di Phantom, cercando di farlo allontanare dalla porta. «Vieni qui,

bello!» sussurrai, fischiando sommessamente. «Dai, smettila, Phantom!»Lui m’ignorò e spinse ancor di più il naso contro la porta.«Cosa vorrà?» chiesi a Gabriel.Per un attimo, mio fratello rimase immobile, rabbuiandosi in viso. Poi esclamò sottovoce:

«Ma guarda che presuntuoso!»«Presuntuoso?» ripetei.«Da quanto tempo lo conosci?»«Smettila, Gabe. Questa è violazione della privacy!» scattai.Ivy scosse la testa. «Sentite, a questo punto ci avrà sentito per forza. E non possiamo

ignorarlo, Gabe. Ha appena fatto un favore a Bethany, ricordi?»«Dammi almeno il tempo di sistemarmi», sibilai, e feci per correre di sopra. Ma Ivy era già

davanti alla porta e tratteneva Phantom, ordinandogli di stare giù. E, quando rientrò in salotto, dietro di lei c’era Xavier, coi capelli arruffati dal vento. Gabriel gli rivolse soltanto un cenno del capo.

Una volta stabilito che Xavier non costituiva una minaccia, Phantom tornò a stendersi sul divano con un profondo sospiro.

«Volevo solo assicurarmi che Beth stesse bene», disse Xavier, per nulla intimorito dall’accoglienza gelida di mio fratello.

Sapevo che avrei dovuto dire qualcosa, ma non mi venivano le parole.«Grazie ancora per averla riportata a casa», intervenne Ivy. Sembrava l’unica di noi a non

aver dimenticato le buone maniere. «Ti andrebbe qualcosa da bere? Stavo giusto per preparare una cioccolata.»

«Grazie, ma non posso trattenermi», rispose lui.«Be’, almeno accomodati», insistette Ivy. «Gabriel, mi dai una mano in cucina?»Riluttante, mio fratello la seguì.Rimasta sola con Xavier, mi resi conto di quanto dovessimo apparirgli ridicolmente noiosi:

Ivy e Gabriel che preparavano la cioccolata, io pronta per andare a letto alle otto di sera e nessun televisore acceso.

«Bel cane», disse lui. Si chinò e Phantom gli annusò la mano con cautela prima di strofinarci sopra il muso con entusiasmo. Avevo quasi sperato che ringhiasse, per avere almeno un difetto da imputargli. Ma sembrava superare ogni prova a gonfie vele.

«L’ho trovato oggi», spiegai.«’Trovato’?» Xavier inarcò un sopracciglio. «Hai l’abitudine di adottare animali randagi?»«No», risposi indignata. «La sua padrona sta per trasferirsi in una casa di riposo.»«Ah, allora deve essere il cane di Alice Butler.»«Come fai a saperlo?»«Venus Cove è piccola», disse lui, alzando le spalle. «Sai, ero preoccupato per te, per ieri

sera.» Mi fissò intensamente.«Adesso sto bene», replicai, incerta. Cercai di sostenere il suo sguardo, ma mi girava la testa

e rinunciai.

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«Dovresti scegliere con più attenzione le tue... amiche.» Mi parlava in un tono confidenziale, come se ci conoscessimo da tempo. Era strano e, nel contempo, eccitante.

«Non è stata colpa di Molly. Avrei dovuto avere più buon senso.»«Sei molto diversa dalle altre ragazze», mormorò.«In che senso?»«Tu non esci molto, vero?»«Be’, si potrebbe dire che sono un tipo casalingo.»«Credo che contribuisca al tuo fascino.»«Però vorrei somigliare di più alle altre.»«Perché? È inutile fingere di essere quello che non sei. Potevi metterti nei pasticci, ieri

sera.» D’un tratto sorrise. «Per fortuna, c’ero io a salvarti.»Diceva sul serio o mi stava prendendo in giro? «Come potrò mai ringraziarti?» dissi allora,

cercando di assumere un tono vagamente scherzoso.«In effetti una cosa ci sarebbe...»«E quale?»«Esci con me. Che ne dici del prossimo weekend? Potremmo andare al cinema, se ti va.»Ero sbalordita. Avevo sentito bene? Xavier Woods, il ragazzo più irraggiungibile della

Bryce Hamilton, mi stava chiedendo di uscire? Come avrei dovuto comportarmi? Dov’era Molly quando avevo bisogno di lei? Esitai una frazione di secondo di troppo e lui interpretò quel silenzio come un rifiuto.

«Se non ti va, non c’è problema», aggiunse allora.«No, mi va!» esclamai.«Grande! Be’, mi dai il tuo numero, così lo salvo sul cellulare? Ci risentiamo per fissare

un’ora.» Dalla tasca della giacca a vento estrasse un aggeggio nero e lucido e una lucina rossa prese a lampeggiare.

Dalla cucina venne un rumore di stoviglie. Capii che dovevo sbrigarmi. «È più semplice se mi lasci il tuo e poi ti chiamo io», mi affrettai a dire.

Non ribatté. Vidi un giornale sul tavolino, ne strappai un angolo e glielo porsi.«Mi serve una penna», mormorò lui.Ne trovai una che faceva da segnalibro in un tomo rilegato in pelle. Xavier scarabocchiò

alcune cifre seguite da una faccina sorridente, e io feci appena in tempo a intascare il pezzetto di carta prima d’indirizzare un sorriso a Ivy e a Gabriel che stavano entrando con un vassoio e le tazze.

Accompagnai Xavier alla porta. «A proposito, bel pigiama», mi disse, osservandomi con una certa curiosità.

Prima non ci ero riuscita, mentre adesso non riuscivo a smettere di fissarlo. Avrei potuto guardare quel viso per un giorno intero senza annoiarmi. Sembrava che Xavier non avesse neppure un difetto. Studiai i suoi lineamenti: la bocca ben disegnata, la pelle liscia, la fossetta sul mento... Era vero? Stentavo a crederlo. Sotto la giacca indossava una camicia sportiva e al collo portava una croce d’argento appesa a un cordoncino di cuoio. Non l’avevo notata, prima. «Sono contenta che ti piaccia», dissi, più sicura di me.

Il suono della sua risata somigliava a uno scampanio festoso.

Quando comunicai a Gabriel e a Ivy la mia intenzione di uscire con Xavier il weekend successivo, entrambi si sforzarono di dominare la loro preoccupazione.

«Credi che sia una buona idea?» chiese Gabriel.«Perché no?» lo sfidai. Cominciavo ad apprezzare il fatto di prendere da sola le mie

decisioni e non volevo certo rinunciare così presto a quell’indipendenza.«Bethany, per favore, rifletti sulle conseguenze di un’azione del genere.» Ivy aveva parlato

con calma, ma la fronte corrugata e l’espressione seria rivelavano un’ansia insolita, per lei.«Non c’è niente su cui riflettere. Voi due esagerate sempre.» Non è che ne fossi convinta,

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ma rifiutavo di ammettere che ci fosse una ragione per agire con cautela. «Che problema c’è?»«’Uscire coi ragazzi’ non rientra e non rientrerà mai nei nostri compiti.» Il tono di Gabriel

era tagliente e il suo sguardo inflessibile. Incline com’ero a capricci e fantasticherie umani, continuavo ad alimentare i suoi dubbi sulla mia idoneità alla missione. Lo sapevo bene. Una voce nella mia testa mi suggeriva di fermarmi a riflettere: considerate le circostanze, una relazione con Xavier sarebbe stata pericolosa, un gesto egoista. Ma c’era una voce assordante che copriva tutti gli altri pensieri e che m’implorava di rivederlo.

«Forse per un po’ sarebbe meglio mantenere un profilo basso», suggerì Ivy con più dolcezza. «Perché non collaboriamo a qualche iniziativa intesa a risvegliare la coscienza sociale?» Sembrava un’insegnante decisa ad accendere l’entusiasmo degli alunni per un progetto scolastico.

«Quelle sono idee tue, non mie.»«Possono diventare anche tue», sottolineò lei.«Voglio trovare la mia strada.»«Continueremo questa discussione quando avrai le idee più chiare», intervenne Gabriel.«Non voglio essere trattata come una bambina», sbottai. Poi salii le scale con aria spavalda,

schioccando la lingua per chiamare Phantom. Ci sedemmo insieme sul pianerottolo: io furiosa, lui col muso sul mio grembo. Credendomi fuori portata d’orecchio, i miei fratelli continuarono la discussione in cucina.

«Non posso credere che voglia compromettere tutto per un capriccio», stava dicendo Gabriel. Lo sentivo camminare avanti e indietro.

«Lo sai che Bethany non lo farebbe mai di proposito», replicò Ivy, sempre impegnata a smorzare l’attrito fra noi.

«Ma allora perché si comporta così? Ha una vaga idea del perché siamo qui? Lo so che dobbiamo fare qualche concessione alla sua mancanza d’esperienza, ma il suo atteggiamento ribelle e testardo me la rende quasi irriconoscibile. La tentazione è sempre all’opera per metterci alla prova. Siamo qui da un paio di settimane e già non riesce a resistere al fascino di un bel ragazzo!»

«Sii paziente, Gabriel. Si abituerà...»«Sta mettendo a dura prova la mia pazienza!» sbottò lui, ma subito si ricompose. «Tu cosa

consigli?»«Se non la si ostacola, la cosa si spegnerà da sé. Se ti opponi, farai diventare questa storia

qualcosa per cui vale la pena di lottare.»Gabriel non replicò subito: probabilmente stava valutando le parole di Ivy.«A tempo debito, capirà che desidera una cosa impossibile», concluse lei.«Spero che tu abbia ragione», disse Gabriel. «Capisci adesso perché mi preoccupavo per il

suo ruolo nella missione?»«Ma la sua non è una sfida!»«No, certo. Tuttavia la profondità delle sue emozioni è innaturale per una di noi. Il nostro

amore per gli esseri umani dovrebbe essere distaccato ed estendersi a ogni individuo. Non bisognerebbe creare legami singoli. Lo slancio di Bethany è invece simile a quello di un essere umano.»

«L’ho notato anch’io... Ciò significa che il suo amore è molto più potente del nostro, ma anche più pericoloso.»

«Già», disse Gabriel. «Perché un sentimento del genere è spesso incontrollabile. Se lo lasciamo crescere, potrebbe sfuggirci di mano.»

Non sentii altro; scivolai silenziosamente in camera e mi gettai sul letto, quasi in lacrime. Quella reazione così violenta mi sorprese, e il flusso di emozioni troppo a lungo represse mi lasciò senza fiato. Sapevo cosa stava accadendo; cominciavo ad accettare la mia umanità e i sentimenti che essa comportava, incerti e oscillanti come un giro sulle montagne russe. Sentivo il sangue che mi pulsava nelle vene, i pensieri che mi rimbalzavano nella testa, lo stomaco che si serrava.

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Ascoltare Gabriel e Ivy che discutevano di me come se fossi un esperimento scientifico mi aveva profondamente ferito. In più, mi avevano irritato sia la loro convinzione che stessi sbagliando sia la mancanza di fiducia nei miei confronti. Perché erano così decisi a impedirmi di avere quei contatti umani che tanto desideravo? E che cosa voleva dire Ivy con «una cosa impossibile»? Si comportavano come se Xavier fosse un poco di buono. Chi erano, quei due, per giudicare qualcosa che non era neanche iniziato? A Xavier io piacevo. Per qualche motivo, mi aveva considerato interessante e non volevo che le paranoie della mia famiglia lo allontanassero da me. Ero la prima a essere sorpresa della mia disponibilità a lasciarmi attrarre da lui in maniera così umana. I miei sentimenti per Xavier stavano pericolosamente crescendo e io non facevo nulla per fermarli. Avrebbe dovuto spaventarmi... invece ero incuriosita da quel dolore sordo al petto che avvertivo al pensiero di lasciarlo perdere e dal fatto che, se riflettevo sulle parole di Gabriel, ogni muscolo del mio corpo si contraeva. Cosa mi stava succedendo? Stavo perdendo la mia divinità? Stavo diventando umana?

Quella notte, dormii solo a tratti ed ebbi il mio primo incubo. Mi ero abituata all’esperienza umana del sogno, ma quello fu molto diverso. Sognai di comparire di fronte al Tribunale Celeste, la cui giuria era formata da figure togate senza volto, indistinguibili l’una dall’altra. C’erano anche Ivy e Gabriel, ma osservavano impassibili dall’alto di una galleria. Guardavano dritto davanti a loro e non mi degnarono di uno sguardo neppure quando li chiamai a gran voce. Ero in attesa del verdetto; poi d’un tratto capii che era già stato emesso. Nessuno aveva parlato in mio favore. Nessuno aveva patrocinato la mia causa.

Subito dopo, provai la sensazione di cadere. Attorno a me, tutto si sgretolava: le colonne del tribunale, le figure togate, i volti di Ivy e di Gabriel... E io precipitavo, in un viaggio senza fine verso il nulla. Poi tutto divenne immobile e mi trovai come imprigionata nel vuoto. In ginocchio, a testa china, con le ali spezzate e sanguinanti. Non riuscivo a rialzarmi. La luce cominciò ad affievolirsi e, in breve tempo, mi ritrovai circondata da un’oscurità densissima e soffocante: non riuscivo neppure a vedere le mie mani. In quel nulla, ero sola, la personificazione della vergogna, un angelo che ha smarrito il suo stato di grazia.

Improvvisamente una figura dai lineamenti indistinti apparve accanto a me. Pensai che fosse Xavier e il mio cuore fece un balzo. Ma la speranza s’infranse non appena intuii che, chiunque fosse quell’individuo, non era mio amico. Vincendo il dolore alle gambe e alle braccia, strisciai il più lontano possibile. Cercai pure di spiegare le ali, ma erano troppo rovinate. La figura si avvicinò e i suoi lineamenti divennero più chiari: sul suo volto, c’era un sorriso da vincitore.

Non c’era più niente da fare: potevo solo lasciarmi consumare dalle ombre. Quella era la dannazione. Ero perduta.

Come spesso succede, alla luce del giorno tutto mi apparve diverso. Mi sentivo pervasa da una nuova sensazione di stabilità.

Ivy venne a svegliarmi con quel profumo di fresie che la seguiva come un’ancella. «Ho pensato che avresti avuto bisogno di un caffè», disse.

«Grazie. In effetti, comincia a piacermi», risposi, prendendo la tazza e bevendolo.Lei si sedette rigidamente sul bordo del letto.«Non avevo mai sentito Gabriel così arrabbiato», dissi, impaziente di appianare le cose con

lei. «L’ho sempre considerato... come dire... infallibile.»«Hai mai pensato che pure lui potrebbe sentirsi sotto pressione? Se le cose non andassero

bene, la responsabilità sarà mia e di Gabriel.»Quelle parole mi colpirono come un pugno. Gli occhi mi si riempirono di lacrime. «Non

voglio perdere la vostra stima», mormorai.«Non l’hai persa», mi assicurò lei. «È che Gabriel cerca di proteggerti. Vuole solo

risparmiarti inutili sofferenze.»«Ma non capisco cosa possa esserci di male nel passare del tempo con Xavier. Tu che ne

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pensi... sinceramente?»Ivy non era ostile come Gabriel e, quando mi prese la mano, capii che aveva già perdonato

la mia trasgressione «alcolica». Ma la postura rigida e la linea dura della sua bocca mi rivelarono che non aveva cambiato idea sul resto. «Penso che dobbiamo stare attenti a non cominciare qualcosa che non possiamo né continuare né tantomeno finire. Non sarebbe giusto. Sei d’accordo?»

A quel punto, non riuscii più a trattenere le lacrime.Ivy mi abbracciò, accarezzandomi la testa.«Sono stata una stupida, vero?» singhiozzai.Lasciai che la voce della ragionevolezza avesse il sopravvento. Conoscevo poco Xavier, ma

dubitavo che l’idea di non rivedermi più – quale che fosse il motivo – lo avrebbe gettato nella disperazione più nera. Mi stavo comportando come se fossimo fidanzati, e di colpo la cosa mi parve un po’ assurda. Forse mi ero lasciata influenzare da Romeo e Giulietta. Era come se tra noi si fosse stabilito un rapporto profondo e imperscrutabile. Forse mi sbagliavo. Possibile che quel legame fosse solo un prodotto della mia immaginazione?

Avrei potuto dimenticare Xavier. La questione era se volevo farlo. Non si poteva negare che Ivy avesse ragione. Non appartenevamo a quel mondo, non potevamo avanzare pretese su di esso o su quanto aveva da offrire. Non avevo il diritto d’intromettermi nella vita di Xavier. Il nostro ruolo era quello di messaggeri, di araldi di speranza.

Quando Ivy se ne andò, tirai fuori dalla tasca del pigiama il pezzetto di carta su cui avevo scritto il numero di Xavier e lo feci a pezzi. Poi, uscita sul balcone, lanciai in aria quei coriandoli, osservandoli mentre il vento li trascinava via.

10 Ribelle

Ignorare Xavier si dimostrò più facile del previsto: per tutta la settimana seguente, infatti, lui non venne a scuola, e solo dopo un’indagine rapida e discreta scoprii che era andato a una gara di canottaggio. Allontanato – almeno per il momento – il pericolo d’imbattermi in lui, mi sentivo più rilassata. Se me lo fossi ritrovato davanti, con quei capelli castani che ricadevano sui limpidi occhi turchesi, forse non avrei avuto il coraggio di disdire l’appuntamento. Anzi non ero sicura che sarei riuscita a dire granché, a giudicare dai tentativi precedenti.

Lunedì, all’ora di pranzo, mi sedetti in cortile con Molly e le sue amiche, ad ascoltare con scarso entusiasmo la loro litania di lamentele sulla scuola, sui ragazzi, sui genitori... Discorsi di cui già sapevo a memoria ogni frase. Quel giorno, il tema era il ballo di fine anno. Sai che novità.

«Oddio, devo pensare a troppe cose», disse Molly, stiracchiandosi come un gatto. Le sue amiche le erano attorno; alcune stavano sulle panchine con le gonne sollevate per aumentare l’esposizione al pallido sole primaverile. Io ero seduta, con le gambe incrociate, accanto a Molly, la gonna abbassata a coprire pudicamente le ginocchia.

«Eccome!» concordò Megan Judd. Riappoggiò la testa sul grembo di Hayley e si sollevò la T-shirt per esporre la pancia al sole. «Ieri sera ho cominciato la lista delle cose da fare.» Aprì di scatto l’agenda, decorata con etichette di stilisti famosi. «Ecco qua», continuò. «’Prenotare manicure; cercare scarpe sexy; comprare pochette; decidere gioielli; trovare acconciatura di qualche attrice da copiare; scegliere spray abbronzante tra Hawaiian Sunset e Champagne; prenotare limousine.’ E la lista continua...»

«Hai dimenticato la cosa più importante: trovare il vestito», intervenne Hayley.Le altre risero per quella dimenticanza. Il fatto che analizzassero un avvenimento tanto

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lontano mi lasciava perplessa, ma evitai di fare commenti. Dubitavo che qualcuna avrebbe apprezzato.

«Ci vogliono un sacco di soldi», sospirò Taylah. «Finirò per spendere tutto quello che ho guadagnato in quella cavolo di panetteria.»

«Io sono a posto», disse Molly, orgogliosa. «È dall’anno scorso che metto da parte i soldi del mio lavoro all’emporio.»

«I miei pagano tutto», si vantò Megan. «A patto che passi tutti gli esami. Hanno detto che possiamo persino noleggiare un ’party bus’.»

Le ragazze sembrarono impressionate da quella prospettiva.«Però non devi bucare neanche un esame», borbottò Molly.«E chi sei, la donna dei miracoli?» rise Hayley.«Ma voi l’avete già trovato uno che vi porti?» chiese un’altra.Alcune sì. Altre avevano addirittura un ragazzo fisso. Le rimanenti aspettavano che

qualcuno le invitasse.«Gabriel viene?» chiese Molly, girandosi verso di me. «Tutti gli insegnanti sono invitati.»«Non saprei», risposi. «In genere si tiene alla larga da queste cose.»«Dovresti chiederlo a Ryan, prima che se lo prenda qualcun’altra», suggerì Hayley a Molly.«Sì, i pezzi migliori spariscono subito», concordò Taylah.Molly sembrava offesa. «Non è così che si fa, Hayley. Sono i ragazzi che te lo devono

chiedere.»Taylah sbuffò. «Allora buona fortuna.»«Molly, a volte sei proprio stupida», sospirò Hayley. «Ryan è un metro e novanta, ha un bel

fisico, è biondo e gioca a lacrosse. Non sarà il più intelligente del mondo, però... cosa aspetti?»«Che sia lui a chiedermelo», replicò Molly, imbronciata.«Forse è timido», suggerì Megan.«Ehi, ma l’avete visto?» Taylah alzò gli occhi al cielo. «Non credo proprio che abbia

problemi di autostima.»Seguì un intenso dibattito sul tema «Abito lungo o corto?» Ero così annoiata che decisi di

allontanarmi. Borbottai che dovevo passare in biblioteca a vedere se era arrivato un libro.«Ma dai, Bethie, in biblioteca ci vanno solo gli sfigati», disse Taylah. «Rischi che ti veda

qualcuno.»«E ci dobbiamo già passare la quinta ora per finire quella stupida ricerca», gemette Megan.«Su cos’era?» chiese Hayley. «Qualcosa che ha a che fare con la politica in Medio

Oriente?»«Dov’è il Medio Oriente?» chiese una ragazza di nome Zoe. Portava sempre i capelli biondi

raccolti sulla testa, come una corona.«È l’area vicino al golfo Persico», risposi. «Abbraccia il Sud-ovest dell’Asia.»«Non credo proprio, Bethie», rise Taylah. «Lo sanno tutti che il Medio Oriente è in Africa.»Avrei voluto stare un po’ con Ivy, ma lei era occupata in città col gruppo parrocchiale.

Aveva preparato delle spillette per promuovere il commercio equo e solidale e stampato opuscoli sulle terribili condizioni di lavoro nel Terzo Mondo. A Venus Cove, tutti la consideravano alla stregua di una dea perciò c’erano parecchie nuove adesioni. Di giovani, soprattutto: compravano un sacco di spillette nella speranza di essere ricompensati col suo numero di telefono o anche solo con un sorriso. Ivy aveva deciso che la sua missione era difendere la Madre Terra e riportare la gente a contatto con la natura. Insomma diffondeva una mentalità ambientalista: mangiare cibo biologico, adottare uno spirito comunitario e opporsi alle aggressioni compiute verso la natura.

Allora andai a cercare Gabriel nell’ala di musica, che si trovava nella parte più vecchia dell’edificio.

Dall’aula magna sentii arrivare un canto, quindi spinsi le pesanti porte a pannelli ed entrai nella grande sala dal soffitto altissimo, sulle cui pareti erano allineati i ritratti dei presidi della scuola, tutti uomini dall’aria severa. Davanti a un leggio, Gabriel dirigeva i coristi del terzo anno. Dal suo arrivo, i cori erano diventati sempre più popolari. A quello dell’ultimo anno si erano iscritte

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così tante ragazze che le prove erano state spostate nell’auditorium.Gabriel stava insegnando uno dei suoi inni preferiti, una cantata a quattro voci,

accompagnato al piano dalla capoclasse di musica, Lucy McCrae. Il mio ingresso interruppe il canto. Gabriel si girò per individuare la fonte della distrazione e, così facendo, la luce che si riversava dalla vetrata si fuse con la sua chioma d’oro, dando l’impressione che quest’ultima splendesse di luce propria.

Gli feci un cenno di saluto e rimasi in ascolto mentre il coro riprendeva l’inno.

Eccomi, Signore. Sono io, Signore.Ho sentito la Tua chiamata nella notte.Andrò, Signore, se Tu mi condurrai.Porterò il Tuo popolo nel cuore.

Anche se qualcuno steccava e l’accompagnamento era un po’ troppo rumoroso, la purezza delle voci era incantevole. Mi trattenni fino alla campanella che annunciava la fine della pausa pranzo. Mi sentivo meglio, più tranquilla.

I giorni seguenti si confusero l’uno con l’altro. Prima che me ne accorgessi, era già venerdì, la fine di un’altra settimana. A quanto si diceva, i canottieri erano rientrati dopo pranzo ma, non avendone visti, conclusi che fossero andati direttamente a casa. Mi chiesi se Xavier, non avendo ricevuto neppure un cenno da me, avesse pensato che l’appuntamento era saltato. O forse era ancora in attesa della mia telefonata? Mi seccava che dovesse aspettare una chiamata che non sarebbe arrivata...

Mentre raccoglievo le mie cose, notai che qualcuno aveva infilato un foglietto in una fessura nell’anta del mio armadietto. Quando lo aprii, cadde a terra. Lo raccolsi e lessi il messaggio scritto in stampatello.

Se per caso cambi idea, sarò al cinema Mercury sabato alle nove.X.

Xavier riusciva a farmi girare la testa anche solo con un pezzo di carta. Maneggiai il biglietto come se fosse una reliquia. Non si lasciava certo scoraggiare facilmente, quel ragazzo. La cosa mi piaceva. Ecco cosa si prova ad avere qualcuno che ti sta dietro, pensai. Avrei voluto saltare di gioia, ma riuscii a trattenermi. Però sorridevo ancora quando incontrai Ivy e Gabriel. Non riuscivo proprio a nascondermi dietro una maschera d’imperturbabilità.

«Sembri soddisfatta», commentò Ivy.«È che ho preso un bel voto nel compito di francese», mentii.«Ti aspettavi una cosa diversa?»«No, però è sempre bello vederlo scritto nero su bianco.»La facilità con cui riuscivo a dire bugie mi sorprese. In quel campo, stavo migliorando e non

era un buon segno.Gabriel sembrava contento del mio buon umore. Doveva essersi sentito in colpa: detestava

vedere le persone tristi, figuriamoci essere lui la causa di quella tristezza. Io però non lo biasimavo per la sua severità. Non era certo colpa sua se non poteva accettare quello che provavo. Il suo scopo era sovrintendere alla missione, e non potevo neppure immaginare lo sforzo che ciò comportava.

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Ivy e io dipendevamo da lui, e i poteri del Regno contavano sulla sua saggezza. Era quindi ovvio che volesse evitare complicazioni... E il mio rapporto con Xavier era una grossa complicazione.

L’euforia che quel messaggio aveva suscitato in me durò fino a sera. Il sabato mattina, però, mi trovai di nuovo in lotta con la mia coscienza: cosa dovevo fare? Avevo una voglia matta di rivedere Xavier, ma sarebbe stato un gesto sconsiderato ed egoista. Ivy e Gabriel erano la mia famiglia e si fidavano di me. Non potevo far loro del male.

La mattina passò tranquillamente, tra qualche faccenda di casa e una passeggiata lungo la spiaggia con Phantom. A metà pomeriggio, cominciai a innervosirmi. Durante la cena, la mia agitazione crebbe, ma non lo diedi a vedere. Poi Gabriel prese una vecchia chitarra e Ivy si mise a cantare. La sua voce era così melodiosa che avrebbe ridotto in lacrime un criminale incallito. Quanto a Gabriel, ogni sua nota era così carezzevole e vibrante da sembrare una cosa viva.

Verso le otto e mezzo, salii in camera mia e buttai sul letto l’intero contenuto dell’armadio, decisa a riordinarlo. Ma il pensiero di Xavier spingeva per emergere, e aveva tutta la forza di un treno lanciato a folle velocità. A cinque minuti dalle nove, riuscivo a pensare solo che lui mi stava aspettando. Immaginavo il momento in cui si rendeva conto che non sarei arrivata. Lo vedevo alzare le spalle, uscire dal cinema e continuare la sua vita...

Con una fitta di dolore, e prima di rendermene conto, afferrai la borsetta, uscii sul balcone, e mi calai lungo il pergolato. Il desiderio di vedere Xavier era irrefrenabile.

Avanzai lungo la strada buia, girai a sinistra e proseguii verso le luci della città. Qualche automobilista si girò a guardarmi: una ragazza dalla pelle translucida e coi capelli al vento che correva a perdifiato. Probabilmente somigliavo a un fantasma. Intravidi Mrs Henderson che sbirciava dalle veneziane del soggiorno, ma non ci badai.

Ci misi dieci minuti per trovare il cinema Mercury. Superai un locale che si chiamava The Fat Cat ed era pieno di studenti. Dal jukebox veniva una musica assordante: c’erano ragazzi stravaccati sugli ampi divani a bere frullati e a dividersi ciotole di nachos, mentre altri ballavano. Superai anche il Terrace, uno dei ristoranti più cari della cittadina, al primo piano di un vecchio albergo vittoriano. I tavoli migliori erano quelli sulla balconata, che girava tutt’attorno alla facciata dell’edificio, con le candele che ardevano nei candelabri. Accelerai oltre la nuova panetteria e il negozio di alimentari dove avevo incontrato Alice e Phantom. Stavo correndo così veloce che finii per superare il cinema: mi ritrovai alla fine della strada e dovetti tornare indietro.

Il Mercury risaliva agli anni ’50 ed era stato restaurato da poco, rispettando tutti gli elementi che contribuivano a creare un’atmosfera rétro. Il pavimento era di linoleum lucido bianco e nero; c’erano divani di vinilpelle arancione con le gambe cromate e lampadari che parevano dischi volanti. Colsi il mio riflesso nello specchio dietro il bancone delle caramelle e del popcorn. Ero rossa in viso e avevo quasi il respiro corto.

Il foyer però era deserto e, nel bar adiacente, non c’era nessuno. I cartelloni annunciavano una maratona di film di Hitchcock. Di sicuro era già cominciato. Xavier doveva essere entrato da solo. O forse era tornato a casa.

Dietro di me, sentii qualcuno schiarirsi la gola, come per attirare l’attenzione. Mi voltai.«Va bene che alle donne è concesso arrivare un po’ in ritardo ma, se il film è già cominciato,

non c’è gusto», disse Xavier col suo solito mezzo sorriso. Indossava un paio di bermuda blu di cotone e una polo color panna.

«Non posso venire», mormorai. «Sono qui solo per dirtelo.»«Non c’era bisogno di fare tutta questa strada di corsa. Potevi telefonarmi», replicò lui,

sempre sorridendo.Cercai di replicare qualcosa che non mi facesse sembrare ridicola. Il primo impulso fu dirgli

che avevo perso il numero, però non mi andava di mentire.«Già che ci sei... Ti andrebbe un caffè?» continuò.«E il film?»«Posso vederlo un’altra volta.»«Va bene, ma non posso fermarmi a lungo. Nessuno sa che sono uscita», confessai.«Se non ti secca camminare, c’è un bel posticino a un paio d’isolati.»

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Il locale si chiamava Sweethearts, «innamorati». Quando Xavier mi posò una mano tra le scapole per guidarmi all’interno, sentii il calore del suo palmo. E, come in risposta, uno strano calore mi ribollì dentro... poi mi resi conto che la sua mano era proprio nel punto in cui le mie ali erano ben ripiegate. Con una risatina nervosa, mi scostai.

«Sei una strana ragazza», commentò, divertito.Chiese di accomodarci in un séparé e io gliene fui grata, dato che preferivo stare al riparo da

sguardi indiscreti. Già la nostra passeggiata per raggiungere il locale aveva suscitato una certa attenzione. Mentre andavamo a sederci, riconobbi qualcuno che avevo visto a scuola, ma che non conoscevo direttamente, quindi potei evitare di salutarlo. Invece Xavier fece un cenno cordiale a diverse persone. Erano suoi amici? Quali pettegolezzi avrebbe alimentato la nostra uscita insieme, il lunedì successivo?

Per fortuna, il posto era carino e cominciai a sentirmi più a mio agio. Le luci erano soffuse e sui muri erano allineati poster di vecchi film; sul tavolo c’erano cartoline pubblicitarie di artisti del posto, e il menu offriva un assortimento di frullati, caffè, torte e gelati. Una cameriera in scarpe da ginnastica bianche e nere prese il nostro ordine: una cioccolata calda per me e un cappuccino per Xavier. Mentre scriveva sul blocchetto, gli scoccò un sorriso provocante.

«Spero che ti piaccia questo posto», disse lui, quando la cameriera se ne fu andata. «Di solito ci vengo dopo gli allenamenti.»

«È carino», ammisi. «Ti alleni molto?»«Due pomeriggi alla settimana e la maggior parte dei weekend. E tu? Hai cominciato

qualche attività?»«Devo ancora decidere.»Xavier annuì. «Ci vuole tempo.» Incrociò le braccia sul petto e si appoggiò allo schienale.

«Allora, raccontami di te.»Ecco la domanda che temevo. «Cosa vorresti sapere?» gli chiesi, cauta.«Anzitutto perché avete scelto Venus Cove. Non è che sia un posto di lusso.»«Ecco, diciamo che è stato proprio per quello. Una scelta di vita. Eravamo stanchi di posti

da ricchi, volevamo sistemarci in un angolino tranquillo.» Sapevo che era una risposta accettabile; diverse famiglie si erano trasferite lì per ragioni simili. «Adesso parlami di te.»

Forse capì che volevo evitare ulteriori domande, ma non importava. Al contrario di me, Xavier non aveva bisogno d’incoraggiamento per parlare di sé. Mi raccontò alcuni aneddoti sui membri della sua famiglia, e mi fece un riassunto della storia della famiglia Woods. «Siamo in sei, tra fratelli e sorelle, io sono il secondo. I miei genitori sono entrambi medici: la mamma è il medico condotto di qui, papà è anestesista. Claire, la maggiore, sta seguendo le orme dei miei ed sta al secondo anno di medicina. Vive al college, però torna a casa ogni weekend. Si è appena fidanzata con Luke, con cui sta da quattro anni. Poi ci sono tre sorelle più piccole: Nicola di quindici anni, Jasmine di otto e Madeline di quasi sei. Il più piccolo è Michael, di quattro anni. Ti sei già annoiata?»

«No, è affascinante. Continua, ti prego.» M’interessavano i dettagli di una normale famiglia umana. Volevo saperne di più. Mi chiesi se gli invidiassi quella vita.

«Be’, vado alla Bryce Hamilton fin dall’asilo perché la mamma ha insistito che frequentassi una scuola cattolica. Lei è una tradizionalista; sta con mio padre da quando avevano quindici anni. Riesci a crederci? Praticamente sono cresciuti insieme.»

«Dev’essere una relazione molto solida.»«Hanno avuto i loro alti e bassi, ma niente che non siano riusciti a risolvere.»«Sembrate molto legati.»«Sì, in effetti lo siamo, anche se la mamma a volte è un po’ iperprotettiva.»Immaginavo che i suoi genitori nutrissero alte aspirazioni per il loro figlio maschio più

grande. «Farai anche tu medicina?»«Probabile.» Si strinse nelle spalle.«Non mi sembri troppo entusiasta.»«Be’, per un po’ mi sono interessato di design, ma poi mi hanno... scoraggiato.»

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«Come mai?»«Non la considerano una carriera seria, capisci? L’idea d’investire tutti quei soldi nella mia

istruzione per poi vedermi disoccupato non entusiasma molto i miei.»«Ma è una tua passione, no? Il design, dico.»«A volte i genitori sanno quello che è meglio per noi.»Sembrava disposto ad accettare le decisioni prese per lui dai genitori, contento di lasciarsi

guidare dalle loro aspettative. Pareva che il suo cammino fosse già tracciato. In quello, eravamo in sintonia. La mia esperienza umana si svolgeva entro confini precisi e seguendo una precisa linea di condotta; eventuali deviazioni dal percorso stabilito non sarebbero state benaccette. Per fortuna di Xavier, tuttavia, i suoi errori non avrebbero scatenato la collera divina.

Mentre stavamo ancora bevendo la cioccolata e il cappuccino, Xavier decise che avevamo bisogno di una «botta di zucchero» e ordinò la torta al cioccolato. Arrivò una fettona di torta decorata con panna e frutti di bosco, su un grande piatto bianco e accompagnata da due lunghi cucchiai. Lui m’incoraggiò a «farmi sotto», però mi limitai a mangiucchiare il bordo. Poi Xavier insistette per pagare il conto, e sembrò offeso quando cercai di pagare la mia parte. Mi allontanò la mano e, prima di uscire, lasciò cadere una banconota nel barattolo per le mance con la scritta KARMA POSITIVO.

Una volta fuori dal locale, mi resi conto con sgomento dell’ora.«Lo so che è tardi», disse lui, come se mi avesse letto nel pensiero. «Ma che ne diresti di

fare due passi? Non mi va di riaccompagnarti subito a casa.»«Sono già nei guai.»«Allora dieci minuti in più non fanno differenza.»Sapevo che avrei dovuto tornare a casa; di sicuro Ivy e Gabriel si erano accorti della mia

assenza e di certo erano molto preoccupati. E la cosa mi rattristava... tuttavia allontanarmi da Xavier era un’idea intollerabile. Quando l’avevo vicino, provavo una travolgente felicità, capace di ridurre il resto del mondo a un semplice rumore di fondo. Era come se fossimo racchiusi in una bolla che solo un terremoto avrebbe potuto far scoppiare.

Volevo che quella serata durasse per sempre.Passeggiammo sino alla fine della lingua di terra, verso l’acqua. Arrivati lì, scoprimmo che

sul lungomare stavano montando un luna park, che sicuramente sarebbe stato preso d’assalto dalle famiglie i cui figli irrequieti avevano trascorso l’inverno chiusi in casa. I vagoncini di una ruota panoramica dondolavano al vento e le vetture dell’autoscontro erano sparpagliate sulla pista, mentre un castello gonfiabile brillava giallo sotto le luci artificiali.

«Andiamo a vedere», disse Xavier con l’entusiasmo di un bambino.«Credo che non sia ancora aperto», obiettai. «Non si potrà entrare.» Quel luna park aveva

un’aria strana, come di abbandono, che non m’invogliava a esplorarlo. «E poi è buio.»«Non sei un tipo avventuroso, eh? Potremmo scavalcare la recinzione...»«D’accordo, diamo un’occhiata rapida. Ma non scavalco nessuna recinzione.»In realtà, la recinzione non era ancora finita, quindi entrammo senza problemi. Non c’era

granché da vedere: gli uomini impegnati a tendere cavi e manovrare macchinari c’ignorarono. Sugli scalini di una roulotte, c’era una donna che fumava. Era abbronzata, con rughe profonde attorno agli occhi e alla bocca, e i capelli scuri erano ingrigiti sulle tempie. Indossava un abito sgargiante e numerosi braccialetti che tintinnavano a ogni movimento. «Ah, due giovani innamorati», esclamò, vedendoci. «Mi spiace, ragazzi, siamo chiusi.»

«Scusi il disturbo», disse cortesemente Xavier. «Comunque ce ne stavamo andando.»La donna aspirò una lunga boccata. «Volete che vi legga il futuro?» ci chiese poi con voce

roca. «Già che siete qui...»«Lei è una sensitiva?» chiesi. Ero scettica e, nel contempo, incuriosita. Sì, alcuni umani

erano dotati di una particolare sensibilità e avevano delle premonizioni, vedevano gli spiriti oppure ne percepivano la presenza... Ma il termine «sensitivo» mi era sempre parso un po’ esagerato.

«Certo», rispose la donna. «Angela Messenger, per servirvi.»Quel nome mi fece sussultare.

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«Forza, entrate, è gratis», aggiunse lei. «Tanto per movimentare la serata.»All’interno della roulotte, aleggiava un odore di cibo scadente. Sul tavolo c’erano alcune

candele accese e alle pareti erano appesi strani arazzi con le frange. Angela ci fece cenno di sederci.«Prima tu», disse a Xavier, prendendogli la mano e studiandola con attenzione. Lui fissò la

donna con aria divertita. «Hai una linea dell’amore molto arcuata e questo significa che sei romantico. La linea della testa è corta, quindi prendi le tue decisioni in fretta, senza tergiversare. Percepisco una forte aura azzurra: indica che nel tuo sangue scorre l’eroismo, ma significa pure che sei destinato a soffrire molto, anche se non posso dire per quale genere di sofferenza. Però devi essere pronto, perché non è molto lontana.»

Xavier finse di prendere seriamente quel consiglio. «Grazie. È stato molto illuminante.» Mi guardò. «Tocca a te, Beth.»

«Preferirei di no.»«Non bisogna avere paura del futuro, ma essere pronti ad affrontarlo», disse Angela, come

se fosse una sfida.Riluttante, allungai la mano e lei la prese. Aveva dita ruvide e callose, ma il suo tocco non

era sgradevole. Non appena distese il mio palmo, sembrò irrigidirsi. «Vedo bianco», mormorò, con gli occhi chiusi come se fosse in trance. «Sento una felicità indescrivibile.» Aprì gli occhi. «Hai un’aura favolosa. Lasciami analizzare le tue linee. Qui c’è una linea del cuore forte e ininterrotta, e mi suggerisce che tu amerai solo una volta nella vita... Poi... Buon Dio!» Mi allungò le dita e tese la pelle.

«Cosa?» chiesi, allarmata.«È la tua linea della vita», disse Angela, preoccupata, con gli occhi spalancati. «Non ho mai

visto niente di simile!»«Cos’ha la mia linea della vita?» domandai, impaziente.«Mia cara...» La voce della donna si ridusse a un sospiro. «Non ce l’hai.»

In un silenzio imbarazzato, tornammo indietro e raggiungemmo l’auto di Xavier.«Be’, certo che è stato strano», disse lui, mentre apriva la portiera per farmi salire.«Poco ma sicuro... Ma chi ci crede ai sensitivi?» esclamai, con un sorriso forzato.Xavier aveva appena preso la patente e guidava una decappottabile azzurro cielo del ’56,

rimessa a nuovo. Mi spiegò che era stato il suo regalo di Natale. Accese il motore e ingranò la marcia prima di sintonizzare la radio su un programma che si chiamava Jazz After Dark. Con voce melodiosa, il conduttore stava dando il benvenuto agli ascoltatori. La macchina di Xavier aveva ancora quel profumo confortante dei sedili in pelle che ricordavo. Non rammentavo invece il rombo del motore che riprendeva vita. Mi appiattii contro il sedile.

Xavier mi lanciò un’occhiata, inarcando le sopracciglia. «Tutto bene?»«È sicura, quest’auto?»«Credi che non sappia guidare?» ridacchiò.«Di te mi fido... Delle auto un po’ meno.»«Se temi per la tua incolumità, potresti fare come me: mettere la cintura di sicurezza.»«La cosa?»Scosse la testa, incredulo. «Tu mi preoccupi.»

«Adesso passerai dei guai?» mi chiese, non appena arrivammo a Byron Street. Le luci del portico erano ancora accese, quindi Ivy e Gabriel dovevano essersi accorti della fuga.

«In realtà non m’importa», replicai. «Mi sono divertita.»«Anch’io.» La luce della luna brillò per un attimo sulla croce che aveva al collo.«Xavier... Posso chiederti una cosa?»

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«Certo.»«Be’, mi stavo chiedendo... perché mi hai chiesto di uscire stasera? Sai, Molly mi ha parlato

di... be’... di...»«Di Emily? E cosa ti ha detto?» Si stava mettendo sulla difensiva. «Non ce la fanno proprio

a non impicciarsi, eh? Ecco come vanno le cose nei paesini; la gente si sfoga spettegolando su tutto.»

Era difficile sostenere il suo sguardo. Sentivo di aver oltrepassato un limite e di non poter tornare indietro. «Mi ha detto che, da allora, non hai mai voluto frequentare altre ragazze. Ecco, ero curiosa... perché io?»

«Emily non era solo la mia ragazza», disse lui. «Era anche la mia migliore amica. Riuscivamo a capirci così bene... È difficile da spiegare. Ero convinto che nessuna ragazza avrebbe potuto sostituirla. Poi ho conosciuto te...» La sua voce si affievolì.

«Le somiglio?»Lui rise. «No, per niente. Ma, quando sono con te, provo quello che provavo con lei.»«Sarebbe a dire?»Tornò serio. «A volte conosci una persona e scatta qualcosa... Ti ci trovi bene come se la

conoscessi da sempre, senza bisogno di fingersi diversi da quello che si è.»«Credi che a Emily dispiacerebbe che tu provi queste cose con me?»Xavier sorrise. «Ovunque sia, sono certo che Em vuole che io sia felice.»Io lo sapevo esattamente dov’era Emily, però non mi sembrava il momento di rivelarglielo.

Avevo già fatto una figuraccia con la cintura di sicurezza e scoperto di non avere la linea della vita. Per quella sera, le stranezze potevano bastare.

Restammo seduti in silenzio per qualche minuto. Entrambi avevamo paura di rovinare con le parole quell’atmosfera di complicità.

«Tu credi in Dio?» gli chiesi a un tratto.«Sei la prima persona che me lo chiede. La gente considera spesso la religione come una...

scelta di stile.»«E tu?»«Io credo in un potere superiore, in un’energia spirituale. Credo che la vita sia troppo

complessa per essere un caso. Non trovi?»«Senza dubbio», risposi.Quella sera, scesi dall’auto con la certezza che il mio mondo era irrevocabilmente cambiato.

Mentre salivo i gradini dell’ingresso, non pensavo alla predica che mi aspettava, ma al tempo che sarebbe passato prima che potessi rivedere Xavier.

C’erano tante cose di cui volevo parlargli...

11 Sottosopra

La porta si aprì prima che io avessi modo di bussare. Ivy mi si parò davanti, con la fronte corrugata per la preoccupazione. Gabriel era seduto in soggiorno, con la testa china, immobile: pareva un quadro. Di norma, mi sarei lasciata sopraffare da un rimorso incontenibile, ma sentivo ancora la voce di Xavier, la sua mano forte sulla schiena che mi guidava all’interno del locale e il profumo fresco della sua colonia...

Già mentre mi calavo dal balcone, sapevo che Gabriel si sarebbe accorto subito della mia assenza e che avrebbe pure indovinato dove stavo andando e con chi. Probabilmente aveva

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considerato la possibilità di venirmi a cercare, ma solo per poi accantonarla. Né lui né Ivy volevano attirare l’attenzione.

«Non c’era bisogno di rimanere alzati ad aspettarmi. Non correvo nessun pericolo», dissi. Senza volerlo, avevo parlato in tono più insolente che contrito. «Mi spiace di avervi fatto stare in pensiero», mi affrettai ad aggiungere.

«Non sei affatto dispiaciuta, Bethany. Altrimenti non l’avresti fatto», replicò Gabriel con pacatezza. Non aveva neppure alzato la testa e la cosa m’irritava parecchio.

«Gabe, ti prego...» mormorai.Lui sollevò una mano per zittirmi. «Non sono mai stato convinto della necessità che tu

partecipassi a questa missione. E, finora, ti sei dimostrata del tutto inaffidabile.» Sembrava che quelle parole avessero per lui un brutto sapore. «Sei giovane e inesperta. La tua aura è più calda e più umana rispetto a quella di qualsiasi altro angelo io abbia mai conosciuto. Eppure sei stata scelta. Ho espresso il mio timore che ci avresti creato problemi, ma gli altri erano convinti che sarebbe andato tutto bene. Adesso però mi sembra che tu abbia scelto: preferisci assecondare i tuoi capricci, dimenticando perché siamo qui.» Si alzò di scatto.

«Non possiamo parlarne?» chiesi. Ero sicura che stava esagerando. Dovevo farlo ragionare.«Non ora. È tardi. Di qualunque cosa tu voglia parlare, può aspettare domattina.» E se ne

andò.Ivy mi guardò, gli occhi grandi e tristi. Non sopportavo che la serata finisse su una nota così

amara, soprattutto quando, pochi attimi prima, non avrei potuto essere più felice. «Vorrei che Gabriel la smettesse di profetizzare disgrazie», sospirai.

Ivy sembrò improvvisamente stanca. «Bethany, non dire queste cose! Quello che hai fatto stasera è sbagliato, anche se ancora non te ne accorgi. Forse adesso i nostri rimproveri non hanno senso per te, ma il minimo che tu possa fare è riflettere sul tuo comportamento, prima che la situazione ti sfugga di mano. Ti renderesti conto che sei in preda a un’infatuazione. I sentimenti che provi per quel ragazzo sono destinati a passare.»

Perché Ivy e Gabriel non parlavano più chiaramente? Come potevano aspettarsi che capissi qual era il problema se loro stessi non riuscivano a spiegarmelo? Sì, la mia uscita con Xavier era stata un piccolo strappo al programma, ma cosa c’era di male? Che senso aveva stare sulla Terra e avere esperienze umane, se poi dovevamo fingere che non erano importanti? Ivy e Gabriel potevano anche sapere cos’era meglio per me, ma io non volevo che quello che provavo per Xavier passasse, come se fosse un raffreddore o un virus di cui alla fine mi sarei liberata. Non avevo mai sperimentato il desiderio così travolgente di una presenza particolare. Mi venne in mente un’espressione che avevo sentito da qualche parte: «Al cuor non si comanda». Be’, chiunque l’avesse detto aveva proprio ragione. Se Xavier era una malattia, allora non volevo guarire. Se quello che provavo per lui era un’offesa capace di suscitare una punizione divina, io ero pronta. Che venisse pure. Non m’importava.

Ivy salì in camera sua e io restai da sola con Phantom, che d’istinto sembrò capire di cosa avevo bisogno. Si avvicinò e spinse col muso dietro le mie ginocchia, perché mi chinassi ad accarezzarlo. Almeno un membro della famiglia non mi odiava.

Salii in camera e mi spogliai, gettando i vestiti a terra. Non avevo sonno; avvertivo l’opprimente sensazione di essere in trappola e mi sentivo inquieta. Allora m’infilai sotto la doccia, lasciando che l’acqua calda mi battesse sulle spalle, sciogliendomi i muscoli contratti. Poi, anche se avevamo deciso di non farlo mai in casa, spiegai le ali fino a che non premettero contro il vetro della doccia. Essendo rimaste piegate per ore, erano tutte irrigidite; s’inzupparono rapidamente, diventando pesantissime. Rovesciai la testa all’indietro, lasciandomi scorrere l’acqua sul viso. Ivy mi aveva chiesto di riflettere sul mio comportamento, ma io non volevo pensare. Volevo soltanto essere.

Mi asciugai in fretta e, con le ali ancora umide, m’infilai nel letto. Ferire mio fratello e mia sorella era l’ultima cosa che desideravo, ma il semplice pensiero di non rivedere Xavier mi pesava sul cuore come un masso. Avrei voluto che lui fosse lì con me. Sapevo cosa gli avrei chiesto. Lo avrei implorato di liberarmi da quella prigione. E sapevo pure che lui lo avrebbe fatto. Nella mia

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fantasia, ero la fanciulla di certi film, quella che il cattivo lega ai binari del treno, in modo che muoia in modo orribile. E, in quel film, il viso del mio tormentatore era alternativamente quello di Ivy o quello di Gabriel. Mi rendevo conto che stavo esagerando, proprio come aveva fatto Gabe, ma non riuscivo a smettere. Come potevo spiegare alla mia famiglia che Xavier era molto più di un ragazzo per cui avevo preso una cotta? Ci eravamo visti poche volte ed eravamo usciti insieme solo una, però non aveva importanza. Era possibile far capire a entrambi che un incontro del genere sarebbe stato improbabile anche vivendo sulla Terra mille anni? Possedevo ancora la saggezza celeste, e lo capivo benissimo. Ma ero anche consapevole che i miei giorni su quel pianeta verdeggiante erano contati.

Quello che non sapevo – e nemmeno osavo chiedere – era cosa sarebbe successo quando i poteri del Regno avessero saputo cosa avevo fatto. Una reazione pacata era da escludere, ma sarebbe stato troppo chiedere un po’ d’indulgenza, di comprensione? Non le meritavo proprio come le meritava un essere umano, che sarebbe stato perdonato all’istante? Sarei caduta in disgrazia? E come? Rabbrividii al pensiero. Ma il ricordo del viso di Xavier mi riempì di nuovo di calore.

La questione non fu sollevata né il giorno dopo né durante il resto del weekend. Lunedì mattina, Gabriel si dedicò in silenzio al rituale della colazione, e il silenzio continuò fino ai cancelli della Bryce Hamilton, dove ci separammo.

Per fortuna, Molly e le sue amiche mi strapparono ai miei pensieri cupi. Con gratitudine, mi lasciai travolgere dalle loro chiacchiere. Quel giorno, si stavano divertendo a criticare con ferocia l’abbigliamento o le pettinature di alcuni insegnanti: il taglio di capelli di Mr Philips sembrava opera di un tagliaerba; le gonne di Miss Pace sarebbero state splendidi tappeti, i pantaloni su misura di Mrs Weaver – che le arrivavano praticamente sotto il seno – le avevano fatto guadagnare il soprannome di «Mrs PantaGola»... Per molte di loro, gli insegnanti erano una specie aliena, che non meritava nessuna pietà. Eppure, nonostante le risate, sapevo che la loro non era vera cattiveria, ma semplice noia.

Poi la discussione si spostò su argomenti più importanti.«Preparatevi, perché tra poco si va a fare shopping!» esclamò Hayley. «Pensavamo di

andare in città in treno e girare le boutique di Punch Lane. Molly, tu vieni?»«Certo! E tu, Beth?»«Non so neanche se verrò al ballo», replicai.«E perché?» Molly era sbigottita, come se solo l’Apocalisse fosse una ragione valida per

non partecipare a quell’evento.«Be’, anzitutto non mi ha invitato nessuno.» Era una bugia. A Molly non l’avevo detto, ma

diversi ragazzi avevano approfittato degli intervalli per chiedermi se sarei andata al ballo con loro. Io però li avevo sempre liquidati, tenendomi sul vago. Avevo persino affermato – senza mentire – che non ero comunque sicura di andarci. Cercavo di guadagnare tempo, con la segreta speranza che fosse Xavier a chiedermelo.

Una ragazza di nome Montana alzò gli occhi al cielo. «Di quello non devi preoccuparti. Anche se fossi proprio disperata, qualcuno lo troveresti comunque. Il vestito è cru-cia-le.»

Stavo per dire che forse avevo un altro impegno, quando un braccio robusto mi cinse le spalle. Ebbi l’impressione che le ragazze si fossero trasformate in statue di ghiaccio, con lo sguardo fisso allo spazio sopra la mia testa.

«Ciao a tutte. Non vi secca se vi rubo Beth per un minuto, vero?» chiese Xavier.«Be’, in realtà, stavamo parlando di una cosa parecchio importante», protestò Molly.

Socchiuse le palpebre, sospettosa, e mi guardò, in attesa della mia reazione.«Ve la riporto subito», aggiunse Xavier.Tutte avevano notato la disinvolta familiarità con cui lui mi aveva trattato. Mi faceva

piacere, però ritrovarmi improvvisamente al centro dell’attenzione mi metteva anche a disagio. Xavier mi guidò verso un tavolo vuoto.

«Perché lo hai fatto?» gli chiesi.«Sembra che salvarti stia diventando un’abitudine», rispose. «Oppure preferisci passare il

resto del pranzo a parlare di spray abbronzanti e ciglia finte?»

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«E tu come le conosci, certe cose?»«Dalle mie sorelle», ribatté.Si sedette, ignorando gli sguardi furtivi che ci arrivavano da ogni direzione. Qualcuno aveva

un pizzico d’invidia, altri parevano semplicemente curiosi. Lui aveva scelto di sedersi con me. Perché? si stavano chiedendo in parecchi.

«Ci stanno fissando», mormorai, imbarazzata.«Pazienza.»«Perché non sei coi tuoi amici?»«Tu sei più interessante.»«Non ho niente d’interessante», obiettai, con una nota di panico nella voce.«Mica vero. Persino la tua reazione nel sentirti definire ’interessante’ è interessante.»Due ragazzi si avvicinarono al nostro tavolo.«Ehi, Xavier.» Il più alto dei due lo salutò con un cenno rispettoso. «Le gare di nuoto sono

state grandiose. Ho vinto quattro batterie su sei.»«Vai così, Parker», disse Xavier, scivolando con facilità nel suo ruolo di rappresentante e

mentore degli studenti. «Sapevo che gliele avremmo suonate, a quelli della Westwood.»Parker era raggiante d’orgoglio. «Credi che arriverò alle gare nazionali?» chiese, eccitato.«Non mi sorprenderebbe. Cerca di farti notare, agli allenamenti della prossima settimana.»«Contaci! Ci vediamo mercoledì.»Xavier annuì e i due si salutarono battendo il pugno.Si vedeva benissimo che ci sapeva fare con la gente; era cordiale e disponibile, ma senza

sbracare. Una volta che Parker si fu allontanato, Xavier tornò a fissarmi, concentrato, come se quello che avevo da dire importasse davvero. Fremetti e sentii che le mie labbra si piegavano, accennando un sorriso. Una vampata mi salì dal petto al viso. Arrossii. «Da dove viene?» chiesi, per nascondere l’imbarazzo.

«Cosa?»«La tua capacità di mettere le persone così a proprio agio.»Alzò le spalle. «Fa parte delle mie responsabilità... Ehi, me ne stavo dimenticando: ti ho

portato qui per restituirti questa.» Dalla tasca della giacca pescò una lunga piuma bianca, iridescente, screziata di rosa. «L’ho trovata in macchina dopo averti accompagnato a casa.»

Quasi gliela strappai di mano e la feci rapidamente scivolare tra le pagine del diario. Non avevo idea di come fosse finita nella sua auto: le mie ali erano accuratamente ripiegate e nascoste.

«Un portafortuna?» chiese lui, con un lampo negli occhi turchesi.«Più o meno», borbottai.«Sembri agitata. Qualcosa non va?»Scossi subito la testa, distogliendo lo sguardo.«Sai che di me ti puoi fidare.»«In realtà, ancora non lo so.»«Lo scoprirai se passeremo più tempo insieme. Sono un tipo fedele.»Non replicai. Ero troppo occupata a scrutare la folla, temendo di scorgere il viso di Gabriel.

Adesso i suoi timori non mi sembravano più così infondati.«Frena l’entusiasmo, eh.» Xavier rise.Mi riscossi. «Scusami. Oggi ho un po’ di cose per la testa.»«Posso aiutarti?»«Non credo, ma grazie per avermelo chiesto.»«Lo sai, avere dei segreti non fa bene a una relazione.» Xavier incrociò le braccia sul petto e

si appoggiò allo schienale.«Chi ha mai parlato di una relazione? E poi, dove sta scritto che dobbiamo condividere

tutto? Mica siamo sposati.»«Vuoi sposarmi?» chiese Xavier, mentre qualcuno si girava di scatto verso di noi. «Credevo

che ci saremmo arrivati per gradi, aspettando di vedere come andavano le cose ma... Ehi, che cavolo!»

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Alzai gli occhi al cielo. «Datti una calmata o mi toccherà farti del male.»«Ooh, che minaccia!» Ridacchiò. «Non penso di essere mai stato picchiato da una ragazza.»«Credi che non potrei farti male?»«Al contrario, credo che tu sia capace di fare molto male.»Rimasi interdetta. Poi, non appena mi resi conto di quello che intendeva, arrossii. «Molto

divertente», commentai.Lui si chinò in avanti e mi sfiorò il braccio.Dentro di me, qualcosa si agitò.

Non potevo farci niente. Per Xavier avevo provato e provavo un’attrazione immediata e totale. Di colpo, la mia vecchia vita sembrava vaga, lontana. Di certo, non avevo per il Regno la stessa nostalgia di Gabriel e Ivy. Per loro, vivere sulla Terra era un continuo scontrarsi coi limiti degli esseri umani. Invece io continuavo a scoprire nuove meraviglie proprio in loro.

Diventai molto brava a mascherare i miei sentimenti per Xavier davanti a mio fratello e mia sorella. Sapevo che loro sapevano ma, pur disapprovandomi, non tiravano mai fuori l’argomento e io gliene ero grata. Tra noi, però, si era creata una frattura: il nostro rapporto era diventato più fragile e talvolta, a cena, regnava un silenzio inquietante. Ogni sera mi addormentavo col sottofondo delle loro conversazioni sussurrate, consapevole che stavano parlando della mia disobbedienza. Decisi di non fare nulla per colmare il vuoto che si stava aprendo tra noi, pur sapendo che un giorno me ne sarei pentita.

Per il momento, avevo altro cui pensare. Non vedevo l’ora che arrivasse la mattina per scendere di corsa dal letto, senza neppure aspettare che Ivy mi svegliasse. Indugiavo davanti allo specchio, provavo nuove pettinature, cercavo di vedermi con gli occhi di Xavier. Mi ripetevo frammenti di conversazione per decidere quale impressione gli avessi dato. A volte ero soddisfatta per qualche osservazione arguta; altre volte mi rimproveravo per aver detto o fatto qualcosa di ridicolo. Cercavo d’inventare o di ricordare frasi e battute per usarle con lui.

Cominciai a invidiare Molly e il suo gruppo. Loro davano per scontata una cosa che per me era impossibile: un futuro sulla Terra. Sarebbero cresciute, avrebbero formato una famiglia, si sarebbero impegnate in una carriera e avrebbero avuto una vita di ricordi da condividere coi loro compagni. Io ero una turista, avevo i giorni contati. Ecco perché avrei dovuto reprimere i miei sentimenti per Xavier invece di lasciarli crescere. Ma avevo imparato una cosa: l’intensità di una relazione tra adolescenti non dipendeva dalla durata. Tre mesi erano la norma, sei rappresentavano la svolta; se la relazione durava un anno, allora i due erano praticamente fidanzati. Non sapevo quanto tempo mi restava da passare sulla Terra ma, che fosse un mese o un anno, non avrei sprecato neppure un giorno. Dopotutto, ogni minuto passato con Xavier sarebbe stato un ricordo cui avrei potuto attingere per sempre.

Collezionare quei ricordi non si rivelò un problema: ormai non passava giorno in cui non avessi qualche contatto con lui. A scuola, ci cercavamo in ogni momento libero. A volte, era solo per una rapida chiacchierata davanti agli armadietti. Altre volte, riuscivamo a trascorrere insieme tutto l’intervallo del pranzo. Se non ero in classe, stavo sempre all’erta: guardavo se sbucava dagli spogliatoi, mi aspettavo di vederlo salire sul palco durante le assemblee o lo individuavo tra i giocatori durante gli allenamenti. Con aria sarcastica, Molly mi aveva suggerito che forse era il caso di procurarmi un paio di occhiali.

I pomeriggi in cui non aveva allenamento, Xavier mi accompagnava a casa, insistendo per portarmi la borsa. Facevamo in modo da allungare il percorso con una deviazione in città e una sosta da Sweethearts, che ben presto diventò il «nostro locale».

Ci capitava di parlare della giornata, oppure ce ne stavamo in silenzio, tranquilli e rilassati. Mi bastava guardarlo. Non me ne stancavo mai. Mi lasciavo incantare dal ciuffo sulla fronte, dagli occhi color dell’oceano, dalla sua abitudine d’inarcare un unico sopracciglio. Il suo viso era come un’opera d’arte. Grazie ai miei sensi particolarmente acuti imparai a riconoscerlo dall’odore.

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Sapevo sempre quand’era nei dintorni, anche se non lo vedevo.In certi pomeriggi inondati di sole, mi guardavo attorno, circospetta, quasi aspettando

l’arrivo della punizione divina. Mi sentivo osservata da occhi nascosti che raccoglievano prove del mio comportamento indegno. Ma non succedeva niente.

Fu soprattutto grazie a Xavier che diventai parte integrante della vita alla Bryce Hamilton. Attraverso il rapporto con lui scoprii che, in un certo senso, la popolarità era contagiosa. Da un giorno all’altro, fui accettata ovunque soltanto perché ero amica di Xavier Woods. Persino Molly, nonostante il suo iniziale scetticismo, adesso sembrava placata. Quand’eravamo insieme, Xavier e io attiravamo ancora gli sguardi altrui, ma ormai in essi c’era più ammirazione che sorpresa. Mi accorgevo della differenza persino quand’ero sola. Nei corridoi, tutti mi salutavano amichevolmente e in classe, in attesa dell’insegnante, chiacchieravano con me o mi chiedevano com’era andata l’ultima verifica.

I contatti con Xavier a scuola erano limitati dal semplice fatto che seguivamo materie diverse, altrimenti avrei rischiato di stargli dietro come un cagnolino. A parte il corso di francese in comune, il suo forte erano matematica e scienze mentre io ero più portata per le materie umanistiche.

«La letteratura inglese è la mia preferita», gli annunciai un giorno in mensa, come se fosse una scoperta vitale. Avevo con me il dizionarietto di termini letterari e lo aprii a una pagina a caso. «Scommetto che non sai cos’è un enjambement.»

«In effetti no, ma sembra una cosa brutta», disse Xavier.«È un verso che termina sintatticamente in quello successivo.»«Non sarebbe più semplice se mettessero il punto?»Ecco una delle cose che mi piacevano in lui: la sua visione del mondo era in bianco e nero.

Risi. «Probabile, ma non sarebbe altrettanto interessante.»«No, davvero, spiegami: cos’è che ti piace tanto della letteratura inglese? Io odio che non ci

siano risposte giuste o sbagliate. Tutto è lasciato all’interpretazione.»«Be’, a me piace che ognuno possa cogliere in maniera diversa la stessa frase o la stessa

parola. Si potrebbero passare ore a discutere sul significato di una poesia senza raggiungere una conclusione.»

«E non lo trovi frustrante? Non vuoi sapere la risposta?»«Talvolta è meglio non cercare un unico senso in ogni cosa. La vita non è così definita. Ci

sono sempre zone grigie.»«La mia lo è», dichiarò lui. «La tua no?»«No», sospirai, pensando al conflitto coi miei fratelli. «Il mio mondo è disordinato e

confuso. Anche stancante, a volte.»«Allora mi toccherà cambiarlo», replicò lui.Restammo a fissarci per qualche istante e fu come se quegli occhi turchesi entrassero nella

mia testa, tirandone fuori le emozioni e i pensieri più nascosti.«Sai, potresti sempre imbrancarti con gli studenti di letteratura inglese», riprese lui,

ridacchiando.«Ah, sì? E come li riconosco?»«Sono quelli col basco e con l’espressione da ’io so qualcosa che tu non sai’.»«Non è carino!» obiettai. «Io non sono così.»«No, tu sei troppo autentica. Non cambiare mai e non metterti il basco per nessun motivo.»«Farò del mio meglio», replicai ridendo.Suonò la campanella della lezione.«Cos’hai adesso?» chiese Xavier.Per tutta risposta, gli sventolai allegramente sotto il naso il mio glossario di termini letterari.Ero contenta di avere Miss Castle come insegnante di letteratura inglese. Le sue lezioni

erano sempre molto vivaci, anche se le seguivamo solo in dodici. C’erano due ragazze dark, dall’aria perennemente imbronciata, con l’eyeliner nero e le guance così bianche che pareva non avessero mai visto il sole. C’era il gruppetto delle «brave», coi nastri nei capelli e coi portapenne

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ordinati, ossessionate dai voti e troppo impegnate a prendere appunti per contribuire al dibattito. I ragazzi erano due: il primo era Ben Carter, un tizio con un taglio di capelli «alternativo». Era presuntuoso ma sagace, amante delle discussioni. Il secondo era Tyler Jensen, un muscoloso giocatore di rugby perennemente in ritardo, che per l’intera durata della lezione si limitava a starsene seduto con l’espressione intronata, senza dire nulla. La sua presenza in classe restava un mistero per tutti.

Visto che eravamo pochi, ci avevano relegato in un bugigattolo nella parte più vecchia della scuola, vicino alla segreteria. L’aula non veniva usata per altro, quindi ci avevano autorizzato a spostare i mobili e ad appendere poster alle pareti. Il mio preferito raffigurava Shakespeare vestito da pirata, con tanto di orecchino. L’unico vantaggio dell’aula era la vista sui prati davanti alla scuola e sulla strada fiancheggiata da palme. A differenza delle altre materie, l’atmosfera durante la lezione di letteratura inglese non era mai moscia. Anzi l’aria stessa sembrava satura d’idee in lotta per farsi ascoltare.

Mi sedetti accanto a Ben, che stava guardando sul portatile un video della sua band preferita, un’attività che spesso continuava anche durante la lezione. Poi arrivò Miss Castle, con una tazza di caffè in una mano e un mucchio di fogli nell’altra. Era sui quarant’anni, alta e magra, con una massa di ricci neri e con lo sguardo sognante. Portava sempre camicette pastello e un paio di occhiali dalla montatura spessa appesi al collo con un bel cordoncino rosso. Aveva un modo di fare e di parlare che non avrebbe sfigurato in un romanzo di Jane Austen, in quei salotti in cui frasi argute guizzavano come scintille. Quale che fosse il testo che stavamo studiando, lei s’identificava immancabilmente con l’eroina e lo faceva con tale slancio da battere i pugni sulla cattedra, gesticolare furiosamente o sparare domande a raffica. Non mi sarei stupita se un giorno, entrando, l’avessi trovata in piedi sulla cattedra o appesa al lampadario.

Avevamo iniziato il trimestre studiando Romeo e Giulietta insieme coi sonetti d’amore di Shakespeare. Poi Miss Castle aveva chiesto a noi di scrivere una poesia d’amore, precisando che sarebbe stata letta davanti a tutti. Il gruppo delle «brave», che fino ad allora non aveva mai dovuto affidarsi alla propria immaginazione, era in preda al panico.

«Non sappiamo cosa scrivere!» si lamentò una di loro. «È troppo difficile.»«Basta pensarci un po’», replicò Miss Castle con voce flautata.«Ma a noi non succede nulla d’interessante.»«Non deve essere personale. Può benissimo essere frutto della vostra immaginazione.»Le ragazze scossero la testa, dubbiose.«Ci può fare un esempio?» chiese un’altra.«È tutto il trimestre che ve ne faccio», sbuffò Miss Castle, demoralizzata. Poi si animò.

«Pensate a cosa vi attrae in un ragazzo.»«Be’, per me l’intelligenza è molto importante», disse una ragazza di nome Bianca.«Deve fare un sacco di soldi per mantenere la famiglia», esclamò la sua amica Hannah.Miss Castle era visibilmente perplessa.«Un ragazzo è interessante solo se è un dark e ha dei problemi», disse Alice, una delle dark.«Le ragazze non dovrebbero parlare tanto», biascicò Tyler dal fondo dell’aula. Era la prima

volta che apriva bocca dall’inizio del trimestre.Miss Castle preferì sorvolare. «Grazie, Tyler», disse con un sorriso vagamente sarcastico.

«Hai appena dimostrato che la ricerca di un partner è qualcosa di assolutamente individuale. Si dice che non possiamo decidere di chi innamorarci, che è l’amore a scegliere noi. Talvolta ci s’innamora di qualcuno all’opposto di quello che si cercava. Altre riflessioni?»

Fino a quel momento, Ben Carter si era limitato ad alzare gli occhi al cielo e sospirare. Adesso trasse un sospiro ancora più profondo e si coprì il viso con le mani.

«Le grandi storie d’amore devono essere tragiche», dissi all’improvviso.«Continua», m’incoraggiò Miss Castle.«Be’, prendiamo Romeo e Giulietta: è la separazione che rende più forte il loro amore.»«Bell’affare. Alla fine muoiono tutti e due», sbottò Ben.«Se fossero sopravvissuti, avrebbero finito per divorziare», affermò Bianca. «Qualcuno ha

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mai notato che Romeo ci mette cinque secondi per passare da Rosalina a Giulietta?»«Perché, non appena ha visto Giulietta, ha capito che era quella giusta», replicai.«Ma per favore», scattò Bianca. «Non puoi sapere di amare qualcuno dopo due minuti.

Romeo vuole fare i suoi porci comodi e basta. Ha solo una cosa in testa, come tutti gli adolescenti arrapati.»

«Non sa niente di lei», intervenne Ben. «L’unica cosa che commenta è l’aspetto fisico: ’Giulietta è il sole’ eccetera eccetera. La considera solo una gran fi... bella ragazza.»

«Ma no. È che, dopo aver visto lei, tutte le altre gli sembrano insignificanti», protestai. «Ha capito subito che lei sarebbe diventata... il suo mondo.»

«Oddio», gemette Ben.Miss Castle mi sorrise, eloquente. Da inguaribile romantica, non poteva che prendere le parti

di Romeo. Al contrario di molti insegnanti della Bryce Hamilton, che facevano a gara a chi raggiungeva per primo il parcheggio dopo l’ultima campanella, lei non si stancava mai del suo lavoro. Era una sognatrice. Se mai le avessi detto di essere un angelo in missione per salvare il mondo, ero quasi sicura che non si sarebbe scomposta più di tanto.

12 La grazia

Non avevo mai visto Dio. Avevo percepito la Sua presenza e sentito la Sua voce, però non mi ero mai trovata faccia a faccia con Lui. La Sua voce non è come immagina la gente, non è la voce tonante che scende dal cielo nei filmoni hollywoodiani. È tenue come un sussurro e si muove attraverso i nostri pensieri come una brezza gentile tra i rami. Ivy aveva visto Dio, perché ai Serafini era riservato il posto più vicino al Padre nella gerarchia angelica. Invece Gabriel, come Arcangelo, occupava il livello più alto nel rapporto con gli umani. Assisteva alle peggiori sofferenze, quelle mostrate nei telegiornali: guerre, calamità naturali, malattie... Sotto la guida del Padre, operava col resto della sua schiera per indicare all’uomo la giusta direzione. Sebbene Ivy fosse in comunicazione diretta col Nostro Creatore, non si sarebbe mai lasciata convincere a parlarne. Gabriel e io avevamo provato più volte a tirarle fuori qualche informazione, ma invano. Avevo quindi finito per immaginarmi Dio proprio come Lo aveva raffigurato Michelangelo: un vecchio saggio con la barba. Un’immagine probabilmente lontana dalla realtà. O quantomeno assai imprecisa. Su una cosa, tuttavia, non si poteva discutere: quale che fosse il Suo aspetto, Nostro Padre era la personificazione dell’amore.

Pur assaporando ogni giorno passato sulla Terra, c’era una cosa del Cielo che talvolta mi mancava: la serenità. Là non c’erano conflitti. L’unico scontro – quello da cui era scaturita la cacciata di Lucifero – era stato anche l’ultimo. E, per quanto avesse modificato il destino dell’umanità, se ne parlava di rado.

Nel Regno, ero solo vagamente consapevole dell’esistenza di un mondo più... oscuro. Era così lontano da noi e avevamo tanto da fare che non ci pensavamo neppure. Ogni angelo aveva un ruolo e varie responsabilità: alcuni accoglievano le nuove anime e cercavano di rendere più facile la loro transizione; altri si materializzavano al capezzale dei morenti per offrire loro conforto; altri ancora erano i custodi degli umani. Nel Regno, io mi occupavo delle anime dei bambini al loro arrivo. Dovevo confortarli, spiegare che, se avessero abbandonato ogni riserva, avrebbero visto di nuovo i loro genitori. Ero una specie di usciere celeste per i più piccini.

Ero contenta di non essere un angelo custode: erano sempre oberati di lavoro. Dovevano ascoltare le preghiere degli umani loro affidati e guidarli lontano dal male. Poteva rivelarsi un

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incarico faticosissimo. Una volta, avevo visto un custode impegnato ad aiutare contemporaneamente un bambino malato, una donna alle prese con un divorzio difficile, un uomo che era stato licenziato e la vittima di un incidente stradale. C’era una quantità incredibile di lavoro e noi non eravamo mai abbastanza.

Xavier e io eravamo seduti in cortile, all’ombra di un acero, a consumare il pranzo. Avvertivo la vicinanza della sua mano, a pochi centimetri dalla mia. Era una mano magra ma forte, con una semplice fascetta d’argento all’indice. Ero così assorta nella sua contemplazione che quasi non mi accorsi delle parole che lui aveva appena pronunciato.

«Posso chiederti un favore?»«Come? Oh, sì, certo. Di che si tratta?»«Potresti riguardare questo discorso? L’ho già riletto più volte, ma di sicuro mi sono perso

qualcosa.»«Per cos’è?»«Per un convegno sulla leadership», rispose lui con disinvoltura, come se fosse una cosa che

faceva tutti i giorni. «Non devi farlo subito. Puoi portartelo a casa, se vuoi.»«No, va bene anche adesso.»Mi lusingava che tenesse tanto alla mia opinione. Allargai le pagine sull’erba e mi misi a

leggere. Il discorso di Xavier era eloquente, ma c’era qualche errorino di grammatica che individuai all’istante.

«Sei una brava redattrice», commentò. «Grazie.»«Non c’è problema.»«No, davvero, ti devo un favore. Dimmi se posso fare qualcosa per te.»«Ma non mi devi niente!»«Sì, invece. A proposito, quand’è il tuo compleanno?»La domanda mi colse di sorpresa. «Non mi piacciono i regali», mi affrettai a dire, in caso gli

fosse venuta qualche strana idea.«E chi ha parlato di regali? Ti ho solo chiesto la tua data di nascita.»«Il 30 febbraio», dissi, buttando lì la prima data che mi era venuta in mente.Xavier inarcò un sopracciglio. «Ne sei certa?»Ero nel panico. Che avevo detto di sbagliato? Ripensai ai mesi e mi resi conto dell’errore.

«Cioè, ecco, volevo dire... il 30 aprile.»Xavier sorrise. «Mai conosciuto nessuno che dimentichi il suo compleanno.»Persino quando mi rendevo ridicola, le conversazioni con Xavier restavano interessanti.

Poteva parlare degli argomenti più banali e renderli comunque avvincenti. Mi piaceva il suono della sua voce e l’avrei ascoltato anche se mi avesse letto l’elenco telefonico.

Mentre Xavier scriveva alcuni appunti a margine del discorso, diedi un morso alla mia focaccia con verdure grigliate e un sapore pungente sembrò aggredire le mie papille gustative. Feci una smorfia. Grazie a Gabriel, avevo imparato a riconoscere i sapori dei cibi più comuni, ma c’era ancora un’infinità di alimenti che non avevo mai assaggiato. Cautamente, sollevai la focaccia e vidi una strana sostanza spalmata sotto le verdure. «Che cos’è?» chiesi.

«È melanzana», replicò lui. «In certi ristoranti raffinati, la chiamano ’petonciano’.»«No, quell’altra cosa.» Indicai l’impasto verde e grumoso.«Non lo so, dammi qua.» Ne staccò un pezzetto e masticò. «Ah, ma è pesto!»«Perché dev’essere tutto così complicato, persino i sandwich?» commentai, irritata.«Hai perfettamente ragione», esclamò lui. «In effetti, il pesto complica la vita.» Rise e diede

un altro morso, spingendo verso di me la sua focaccia farcita con insalata e pomodoro, ancora intatta.

«Non fare lo scemo. Posso sopportare un po’ di pesto.»Nonostante le mie proteste, lui si rifiutò di restituirmi la focaccia. Allora mangiai la sua,

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contenta di quell’ennesimo gesto di confidenza.«Non sentirti in colpa», disse Xavier, ridendo. «Io sono un maschio, mangio di tutto.»

Tornando in classe, notammo subito una certa confusione nei corridoi. Tutti parlavano animatamente: sembrava fosse successo qualcosa, forse un incidente, anche se nessuno sapeva chi fosse coinvolto. Poi parecchi studenti si mossero verso il portone, oltre il quale c’era una piccola folla, riunita attorno a qualcosa o a qualcuno. Avvertii un dolore molto umano e un’ondata di panico mi serrò il petto.

Seguii Xavier attraverso la calca, che si aprì all’istante per far largo al rappresentante degli studenti. All’esterno, scorsi subito alcuni vetri rotti sparsi sul marciapiede. Con lo sguardo, ne seguii la traccia fino a un’auto, una Volkswagen, che aveva il cofano schiacciato e da cui usciva del fumo. C’era stato un frontale tra due studenti dell’ultimo anno. Uno dei guidatori era accanto alla Volkswagen fumante: pareva intontito e confuso, ma illeso, a parte qualche graffio. Allora spostai lo sguardo verso l’altro veicolo e, con un sussulto, vidi che c’era ancora all’interno una ragazza, afflosciata sul sedile e con la testa abbandonata sul volante. Persino da quella distanza si capiva che era gravemente ferita.

La folla era immobile, come se fosse incapace di agire. Solo Xavier mantenne la lucidità necessaria. Si allontanò di slancio per chiedere aiuto e avvisare gli insegnanti.

Neanch’io sapevo bene cosa fare. Ma, seguendo l’istinto, mi avvicinai all’auto, tossendo per il fumo denso che m’invadeva la gola. L’impatto aveva schiacciato la portiera del conducente, scardinandola quasi del tutto. Senza badare al metallo rovente che mi penetrava nel palmo, riuscii a farla cadere a terra.

Quando vidi la ragazza da vicino, sussultai, atterrita. Aveva la bocca aperta, gli occhi chiusi e il sangue le sgorgava copioso da un taglio sulla fronte. Non dava segni di vita.

Persino nel Regno, se mi capitava di assistere a una scena terrestre particolarmente cruenta, mi sentivo mancare. Quel giorno, invece, quasi non badai alla nausea. Infilai le braccia sotto le ascelle della ragazza e, con la massima cautela possibile, cominciai a estrarla dall’auto. Era molto pesante ma, per fortuna, due ragazzi in tenuta sportiva scattarono in mio soccorso. La adagiammo a terra, a distanza di sicurezza dal veicolo.

I due ragazzi si guardarono attorno, nervosi, in attesa che arrivasse qualcuno. Ma non c’era tempo da perdere.

«Tenete indietro la gente», ordinai loro. Poi m’inginocchiai e posai due dita sul collo della ragazza, come mi aveva insegnato Gabriel. Nessuna pulsazione. Anche il respiro sembrava assente. Invocai mentalmente Gabriel perché venisse ad aiutarmi: da sola non ce l’avrei mai fatta. Stavo già perdendo la battaglia. Il sangue uscito dal taglio sulla fronte le aveva impastato i capelli. Aveva profonde occhiaie violacee ed era terrea. Temevo che ci fossero lesioni interne, però non riuscivo a individuarle.

«Resisti», le sussurrai all’orecchio. «I soccorsi stanno arrivando.»Le sostenni il capo e, mentre le mie mani si arrossavano di sangue, mi concentrai per

convogliare su di lei la mia energia guaritrice. Sapevo che era questione di minuti. Il suo corpo stava per arrendersi; sentivo l’anima che cercava di separarsene. Di lì a poco, quella ragazza avrebbe osservato dall’esterno il proprio corpo inerte.

Mi concentrai con tanta intensità che rischiai di svenire. Ricacciai indietro lo stordimento e m’impegnai ancora di più. Cercai di focalizzare il potere che scaturiva da dentro di me e che si riversava impetuoso nelle arterie fino alle mie mani, per fluire da esse nel corpo riverso a terra. Mentre quel potere scorreva, pensai che forse, forse, quella ragazza poteva farcela.

D’un tratto, sentii la voce di Gabriel alle mie spalle: stava chiedendo ai ragazzi di lasciarlo passare. Gli studenti sembrarono emettere un sospiro collettivo. Erano stati sollevati da ogni responsabilità. Qualunque cosa fosse successa da quel momento in poi, non dipendeva da loro.

Mentre Xavier aiutava l’altro ragazzo, Gabriel s’inginocchiò accanto a me e usò il suo

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potere per rimarginare le ferite della ragazza. Agì rapidamente, in silenzio, individuando le costole rotte, il polmone perforato e il polso che si era storto fino a spezzarsi come un ramoscello. Quando arrivarono gli infermieri, il respiro della ragazza era tornato regolare, anche se lei non aveva ancora ripreso conoscenza. Mi accorsi allora che Gabriel non era intervenuto sulle ferite più superficiali, per non destare sospetti.

Mentre gli infermieri adagiavano la ragazza su una barella, arrivò di corsa il gruppetto isterico delle sue amiche.

«Grace!» gridò una. «Oh, mio Dio, sta bene?»«Cos’è successo? Riesci a sentirci?»«È svenuta», spiegò Gabriel. «Ma si rimetterà.»Le ragazze continuarono a singhiozzare e ad abbracciarsi, però Gabriel riuscì a

tranquillizzarle.Dopo aver rispedito gli studenti in classe, Gabriel mi prese per un braccio e mi portò davanti

alla scalinata principale, dove Ivy ci aspettava.Xavier mi raggiunse di corsa. «Beth, tutto bene?» Aveva i capelli castani arruffati dal vento,

e la pulsazione delle vene del collo rivelava la sua tensione.Avrei voluto rispondergli, ma mi mancava l’aria e mi girava la testa.Gabriel l’aveva capito e, con tono autoritario, disse a Xavier: «È meglio che torni in classe».«Aspetto Beth», replicò fermamente lui. Fece scorrere lo sguardo sui miei capelli in

disordine, sulle maniche della mia camicetta macchiate di sangue e sulle mie dita strette attorno al braccio di Gabriel.

«Ha bisogno di un minuto per riprendersi», disse Gabriel in tono ancora più freddo. «La vedrai più tardi.»

Xavier tenne duro. «Non me ne vado finché non è Beth a dirmelo.»Mi chiesi che espressione avesse Gabriel in quel momento ma, quando girai la testa per

guardarlo, ebbi l’impressione che i gradini sotto di me stessero cedendo. O erano le ginocchia che si stavano piegando? Il mio campo visivo si riempì di chiazze nere e mi aggrappai letteralmente a Gabriel.

Dopo aver pronunciato il nome di Xavier e avergli visto fare un passo avanti, il mondo divenne una macchia scura. Poi mi afflosciai tra le braccia di Gabriel.

Mi svegliai nella mia camera. Ero raggomitolata nel letto, sotto la coperta, e la lieve brezza che trasportava l’odore salmastro dell’oceano mi fece capire che la portafinestra del balcone non era completamente chiusa. Sollevai la testa e mi concentrai sui dettagli rassicuranti: la carta da parati a roselline, le assi consunte del pavimento, la vernice scrostata del davanzale... Ogni cosa era come ammorbidita da una luce ambrata. Affondai il viso nel cuscino morbido e profumato di lavanda, restia a muovermi. Poi guardai la sveglia: erano le sette di sera! Avevo dormito per ore. Mi sentivo pesante come piombo. Provai a muovere le gambe e, con terrore, mi accorsi che non ci riuscivo. Poi però mi accorsi che Phantom ci si era disteso sopra.

Non appena capì che ero sveglia, sbadigliò e si stiracchiò. Gli accarezzai la testa morbida e lui mi guardò con quei suoi occhi dolenti.

«Muoviti», mormorai. «Non è l’ora di dormire.»Di certo mi sollevai a sedere troppo in fretta, perché un’ondata di stanchezza m’investì come

una valanga e mi fece quasi ricadere sul cuscino. Feci dondolare le gambe oltre il bordo del letto, cercando di raccogliere le forze necessarie per mettermi in piedi. Non fu facile, ma riuscii a infilarmi la vestaglia e a trascinarmi fino al piano di sotto, da dove giungevano le note dell’Ave Maria di Schubert. Sprofondai nella poltrona più vicina. A giudicare dall’odore di aglio e zenzero che aleggiava nella stanza, Ivy e Gabriel dovevano essere in cucina. D’un tratto, apparvero entrambi: Ivy si stava asciugando le mani in un canovaccio e sorrideva, come Gabriel. Ne fui sorpresa: sembrava passato molto tempo dall’ultima volta in cui mi avevano sorriso.

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«Come ti senti?» Le dita affusolate di Ivy mi accarezzarono la testa.«Come se fossi finita sotto un autobus», risposi, in tutta onestà. «Non capisco cosa mi sia

successo. Non stavo male...»«Sai benissimo perché sei svenuta, Bethany», disse Gabriel.Gli lanciai uno sguardo vacuo. «Mangio regolarmente e seguo tutti i tuoi consigli.»«È perché hai salvato la vita della ragazza.»«Una cosa del genere richiede moltissima energia», aggiunse Ivy.Quasi scoppiai a ridere. «Ma sei stato tu a salvarle la vita», esclamai, fissando Gabriel.Ivy gli scoccò un’occhiata, quindi si allontanò per andare ad apparecchiare la tavola.«Io ho guarito solo le ferite del corpo», mi spiegò Gabriel.Lo guardai, sbalordita, chiedendomi se mi stesse prendendo in giro. «Solo? Se sparano a una

persona e tu estrai la pallottola e guarisci la ferita, allora l’hai salvata.»«No, Bethany, quella ragazza stava morendo. Se tu non le avessi trasmesso la tua forza

vitale, niente di quello che potevo fare io l’avrebbe salvata. Risanare le ferite non riporta indietro nessuno, se ha superato quel punto. Tu le hai parlato; è stata la tua voce a richiamarla sulla Terra. Ed è stata la tua forza a trattenere la sua anima nel corpo.»

Non riuscivo a crederci. Io avevo salvato una vita umana? Non sapevo neanche di averne il potere. Credevo che le mie capacità sulla Terra si limitassero a placare gli scatti d’ira di qualcuno o a recuperare gli oggetti smarriti. Possibile che avessi trovato in me la forza per salvare una ragazza in punto di morte? Il potere sul mare, sul cielo e sulla vita umana: quelli erano i doni di Gabriel. Non avevo mai sospettato che il mio potere fosse così grande.

Ivy rientrò nella stanza. Aveva gli occhi lucidi d’orgoglio. «Congratulazioni. Questo è un grande passo per te.»

«Ma perché adesso mi sento così male?» chiesi.«Lo sforzo di rianimare qualcuno può essere debilitante, specie le prime volte, perché

provoca uno shock alla tua forma umana», mi spiegò lei. «Ma non sarà sempre così; ti ci abituerai e alla fine sarai in grado di riprenderti più in fretta.»

«Vuoi dire che posso rifarlo? Che non è stato un caso?»«Certo», disse Gabriel. «È un dono di cui tutti gli angeli dispongono, ma si sviluppa con la

pratica.»Nonostante la spossatezza, di colpo mi sentii allegra e mangiai di gusto. Dopo cena, Gabriel

e Ivy non vollero che li aiutassi a riordinare; al contrario, Ivy mi accompagnò in cortile e mi disse di sdraiarmi un po’ sull’amaca. «Hai avuto una giornata molto intensa», mormorò.

«Ma odio sentirmi inutile.»«Mi aiuterai dopo. Devo lavorare a maglia un’infinità di cappelli e di sciarpe per il negozio

di roba usata.» Ivy trovava sempre nuovi modi per tenersi in contatto con la comunità. «A volte sono le piccole cose che contano di più», diceva.

«Sai, l’idea alla base di quei negozi è che si regalino i vestiti vecchi, non che si facciano apposta per regalarli», scherzai.

«Be’, non siamo stati qui abbastanza a lungo da avere vestiti vecchi», replicò lei. «E io voglio dare loro qualcosa; mi sentirei orribile se non lo facessi. Senza contare che ci metto pochissimo a realizzarli.»

Mi sedetti sull’amaca, con una coperta di mohair sulle spalle, cercando di analizzare gli avvenimenti del pomeriggio. Da una parte, mi sembrava di aver compreso meglio lo scopo della nostra missione, ma ero anche molto confusa. Quel giorno, avevo avuto un primo esempio di cosa avrei dovuto fare, cioè proteggere la sacralità della vita. E invece, fino a quel momento, ero stata come immersa fino al collo nell’ossessione per un ragazzo che in realtà non sapeva nulla di me. Povero Xavier, pensai. Per quanto si sforzasse, non mi avrebbe mai capito. Non era certo colpa sua: poteva capire soltanto quello che io gli avrei permesso di capire. Ero stata così presa a difendere la mia facciata da non aver pensato cosa fare quando – inevitabilmente – si sarebbe sgretolata. Xavier era legato a una vita umana e a un’esistenza che io non potevo condividere. Quei pensieri fecero svanire la soddisfazione che avevo provato per il mio successo del pomeriggio e mi lasciarono

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vagamente intorpidita.

13 Il suo bacio

La messa della domenica era l’unico momento in cui sentivo di potermi davvero ricongiungere col Regno. Inginocchiarmi ad ascoltare le note dell’Agnus Dei mi riconciliava col mio vecchio io. In chiesa, regnava sempre un’atmosfera di eterea tranquillità che non si respirava da nessun’altra parte. Ogni volta che ne varcavo la soglia, mi sentivo al sicuro. Dopo la messa, poi, ci fermavamo sempre a chiacchierare con padre Mel.

«La congregazione sta crescendo», osservò lui quella domenica. «Vedo facce nuove ogni settimana.»

«Forse la gente comincia a capire cosa conta davvero nella vita», disse Ivy.«O forse segue il tuo esempio», sorrise lui.«La Chiesa non dovrebbe aver bisogno di sostenitori», intervenne Gabriel. «Dovrebbe

parlare da sé.»«Non importa cosa spinga la gente a venire qui», replicò padre Mel. «Conta solo quello che

ci trovano.»«Già. Noi possiamo indirizzarla dalla giusta parte», concordò Ivy.«Infatti. Si possono costringere le persone ad avere fede», disse padre Mel. «Però possiamo

dimostrar loro il grande potere della fede.»«E possiamo pregare per loro», aggiunsi.«Certo.» Padre Mel mi fece l’occhiolino. «E qualcosa mi dice che il Signore ascolterà le

vostre preghiere.»«Ascolta noi come chiunque altro. Possiamo solo augurarci che Lui voglia benedire questa

città», puntualizzò Gabriel. Non voleva rivelare troppo. D’altronde, non avevamo mai parlato a lungo con padre Mel: ci comprendevamo in silenzio. Era naturale, pensavo. Era un prete, quindi il suo tempo era dedicato a comunicare con gli Agenti della Luce.

Gli occhi azzurri di padre Mel guizzarono su di noi. «Credo che l’abbia già fatto.»Il giorno dopo, durante l’intervallo, Xavier era impegnato con un gruppo sportivo, quindi io

rimasi con Molly e Taylah, ascoltandole mentre discutevano animatamente di un outlet fuori città in cui, a sentir loro, si potevano comprare vestiti così simili a quelli griffati che nessuno si sarebbe accorto che non erano autentici. Quando mi chiesero di andarci con loro, ero così distratta che dissi di sì. E accettai persino l’invito per un falò sulla spiaggia, sabato sera.

Mi rasserenai solo all’ultima ora: avevamo francese insieme. Era un sollievo trovarmi nella stessa stanza con lui, anche se riuscivo a malapena a concentrarmi. Avevo un disperato bisogno di parlargli, però non avevo ancora deciso cosa dirgli. Sapevo solo che non potevo aspettare.

Era a meno di una spanna da me. Dovetti sedermi sopra le mie dita per non allungarle verso di lui e toccarlo. In parte, per assicurarmi che non fosse una mia fantasia, ma anche perché eravamo come due magneti che si attraevano: resistere era più doloroso che cedere. I minuti si susseguivano con lentezza esasperante, come se il tempo volesse farmi un dispetto.

Xavier si accorse del mio strano umore e così rimase seduto anche dopo la campanella, guardando gli altri che gli sfilavano davanti. Mentre fingevo di raccogliere libri e matite, rimase immobile, senza il minimo segno d’impazienza. Qualche curioso ci lanciò un’occhiata, forse sperando di rubare uno scampolo di conversazione da servire agli amici come succulento pettegolezzo.

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«Ieri sera ho provato a chiamarti, ma non ha risposto nessuno», disse lui, accorgendosi che non sapevo da dove iniziare a parlare. «Ero preoccupato.» Io giocherellavo nervosamente con la cerniera del portapenne, che sembrava incastrata. Il mio disagio doveva essere evidente, perché lui si alzò e mi appoggiò le mani sulle spalle. «Che succede, Beth?» Tra le sopracciglia c’era la ruga che appariva sempre se qualcosa lo turbava.

«Forse l’incidente di settimana scorsa mi ha buttato a terra. Ma adesso sto meglio.»«Ho l’impressione che ci sia dell’altro.»Avevo già notato che Xavier indovinava sempre il mio umore. Non distolse lo sguardo:

quegli occhi turchesi erano penetranti come laser.«Ho una vita abbastanza complicata», azzardai.«Perché non provi a spiegarmela?» mi chiese con un sorriso. «Chissà, magari riusciamo a

renderla meno complicata.»«Questa situazione... Tu e io che passiamo del tempo insieme... Insomma tutto si sta

rivelando più complicato del previsto.» Esitai. «È meglio di quanto immaginassi, però ho altre responsabilità, altri doveri che non posso ignorare.» La voce quasi mi si spezzò, mentre un’ondata di emozioni mi esplodeva nel petto. Cercai di respirare a fondo.

«Non preoccuparti, Beth», disse lui. «Lo so che hai un segreto.»Mi bloccai di colpo, terrorizzata. Se Xavier aveva capito che ero un’imbrogliona e una

bugiarda, allora la mia missione era miseramente fallita. Era la regola numero uno degli Agenti della Luce: bisognava tenere nascosta la propria identità, altrimenti si rischiava di provocare chissà quali disastri. Ma, se Xavier aveva deciso di accettarmi, la verità non l’avrebbe allontanato da me.

«Lo sai?» La mia voce adesso era un sussurro.Lui alzò le spalle. «È ovvio che nascondi qualcosa. Non so cosa, tuttavia so che ti pesa.»Non risposi subito. Non so cosa avrei dato per dirgli tutto, per riversare fuori segreti e paure,

come il vino si rovescia da una bottiglia e macchia ogni cosa.«Capisco che, per qualche ragione, non puoi o non vuoi parlarne», riprese lui. «Ma non sei

obbligata a farlo.»«Però non è giusto nei tuoi confronti», esclamai, sempre più combattuta. L’idea di

allontanarmi da lui mi faceva fisicamente male, come se il cuore mi si stesse spezzando in due.«Non credi che stia a me deciderlo?»«Non rendermi tutto più difficile, Xavier. Sto solo cercando di proteggerti!»«Di proteggermi? Da cosa?»«Da me», mormorai, rendendomi conto di apparire ridicola.«Non mi sembri così pericolosa. Sempre che di notte non ti trasformi in un lupo mannaro...»«Non sono quella che sembro.» Indietreggiai, come per nascondermi dalla verità. Mi sentivo

debole, svuotata di energie. Mi afflosciai contro il muro, incapace di sostenere il suo sguardo.«Nessuno lo è. Credi che non mi sia accorto che in te c’è qualcosa di diverso? Basta

guardarti.»«E cosa sarebbe?» domandai, incuriosita.«Non lo so. Però è quello che mi piace in te.»«Il fatto che io ti piaccio non significa che io sia la persona che vuoi o di cui hai bisogno.»«E di chi avrei bisogno, secondo te?»«Di qualcuno disposto a iniziare una vera relazione. Non è logico?»«Vuoi dire che quella persona non puoi essere tu?» Il viso di Xavier era indecifrabile. Con

tutto quello che aveva passato, lui non era certo tipo da tradire le sue emozioni.Sapevo che stava cercando di facilitarmi le cose, ma quella domanda ebbe l’effetto opposto.

Adesso che era venuta fuori, quell’idea sembrava troppo netta, troppo... definitiva. Però io non avevo ancora trovato le parole giuste, e temevo che lui interpretasse il mio silenzio come un segno d’indifferenza.

«Non avere paura», continuò Xavier. «Capisco che per te non è facile e non voglio complicarti la vita. Che ne dici se stessimo lontani per un po’?»

Com’erano mutevoli e contraddittorie le emozioni umane! Era proprio quello che avevo

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cercato di suggerirgli, eppure la sua disponibilità ad allontanarsi da me mi sconvolse. E non m’importava che avesse fatto quella proposta per il mio bene. Quale reazione mi ero aspettata? Non avrei saputo dirlo, però non quella. Volevo forse che si gettasse in ginocchio per dichiararmi amore eterno? Certo che no, ma non potevo lasciarlo andar via. Era un’idea intollerabile. «Allora è finita?» dissi con voce soffocata. «Non ti vedrò più?»

Lui sembrò confuso. «Ehi, aspetta... Non è quello che volevi?»«Non hai nient’altro da dire?» chiesi. «Non provi neanche a farmi cambiare idea?»«Vuoi che lo faccia?» mi chiese di rimando, stavolta sorridendo.Cercai di riflettere. Un semplice «no» avrebbe chiuso la faccenda, riportando le cose a

com’erano prima del nostro incontro nel corridoio davanti all’aula di chimica, quando cercavo di non risplendere al buio. Ma non potevo dirlo. Sarebbe stato una bugia. «Sì, forse è proprio quello che voglio», mormorai.

«Beth, a me sembra che non lo sappia nemmeno tu cosa vuoi», disse Xavier con dolcezza. Tese una mano e col pollice mi asciugò una lacrima che mi scorreva sulla guancia.

«Non voglio complicarti la vita», singhiozzai, rendendomi conto di quanto sembrassi irrazionale. «Hai sempre detto che preferisci le cose in bianco e nero.»

«Parlavo di materie scolastiche, non di persone. Le complicazioni mi piacciono. Anzi sai che ti dico? Che le relazioni in cui fila tutto liscio sono sopravvalutate.»

Mi sfuggì un gemito. «Hai sempre una risposta per tutto.»«Che ci posso fare? È un dono.» Mi prese la mano tra le sue. «Senti, ho un’idea. Se ti dessi

qualcosa per renderti più facile la decisione?»«Va bene», dissi. «Se credi che serva.»Prima che me ne rendessi conto, Xavier mi aveva preso il viso tra le mani. Le sue labbra

sfiorarono le mie, con la leggerezza di una piuma. Un brivido mi attraversò. Adoravo la sua delicatezza: era come se temesse d’infrangere una bambola di porcellana. Appoggiò la fronte contro la mia, lentamente, neanche avessimo tutto il tempo del mondo. Mi sentii invadere da un tepore delizioso e mi allungai verso di lui, cercando di nuovo le sue labbra. Gli restituii il bacio con passione, stringendomi a lui e sciogliendomi in quell’abbraccio. Attraverso la camicia leggera, percepivo il suo calore e il battito rapido del suo cuore.

«Ehi, piano», mi sussurrò all’orecchio, ma senza staccarsi. Restammo abbracciati per un po’, quindi Xavier si staccò, dolcemente ma con fermezza. Mi sistemò una ciocca di capelli dietro l’orecchio e sorrise. «Allora?» mi chiese, incrociando le braccia sul petto.

Mi girava la testa. «Allora cosa?»«È servito a schiarirti le idee?»Per tutta risposta, gli infilai le dita tra i morbidi capelli castani e lo attirai verso di me.«Pare di sì», mormorò lui.Quel giorno, imparai che la sua compagnia non mi bastava: desideravo che mi toccasse. Mi

pareva di avvertire ancora il calore delle sue mani sulle mie guance, della sua fronte contro la mia... E desideravo ardentemente sentirlo di nuovo. Neanche qualche ora prima, avevo creduto che l’unica scelta possibile fosse allontanarlo da me perché mi era sembrato impossibile fargli comprendere la mia vera natura. Adesso vedevo un’altra via d’uscita. Sarebbe stata una grave disobbedienza, soggetta a chissà quale punizione... ma sarebbe stata comunque meno dolorosa del separarmi da lui. Se ci avesse risparmiato quello strazio, ne avrei affrontato le conseguenze.

Dovevo solo abbassare la guardia e lasciar entrare Xavier.«Voglio che stiamo insieme», dissi. «Non ho mai desiderato nient’altro con tanta forza.»Xavier mi accarezzò il palmo della mano e poi intrecciò le sue dita con le mie. Il suo viso

era così vicino che la punta dei nostri nasi si sfiorò. Mi sussurrò in un orecchio: «Se tu mi vuoi... sono già tuo». E poi mi scoccò una serie di piccoli baci fino al collo.

L’aula attorno a me parve dissolversi come neve al sole.«C’è solo una cosa...» mormorai, allontanandolo da me con una certa difficoltà.Lui sgranò gli occhi.«Non può funzionare... a meno che tu non sappia la verità.» Se davvero Xavier era così

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importante per me, allora doveva sapere tutto. E se non fosse riuscito ad accettare quello che ero? Allora forse non ricambiava a sufficienza i miei sentimenti, e io avrei dovuto farmene una ragione. In ogni caso, era giunto il momento di fare chiarezza. Xavier doveva conoscere la mia vera natura, la mia «versione integrale» o, come dicevano gli umani, «senza tagli».

«Sono tutt’orecchie», disse, in attesa.«Non ora. Non sarà facile e mi serve più spazio.»«Allora dove?» Sembrava disorientato.«Sabato ci vai al falò sulla spiaggia?» gli chiesi in fretta mentre cominciavano a entrare gli

studenti per la lezione successiva.«Volevo chiederti di andarci insieme.»«Affare fatto. Così potrò dirti tutto lì.»Mi diede un bacio veloce e uscì dall’aula. Mi aggrappai al banco più vicino, senza fiato

come se avessi appena corso una maratona.

14 Sfidare la gravità

La prospettiva di quello che sarebbe successo durante il falò sulla spiaggia mi ossessionò per tutta la settimana. Avevo molta paura, tuttavia, nel contempo, ero eccitata. E poi mi pareva di essermi tolta un gran peso. Dopo tutto il tempo passato ad arrovellarmi, mi sentivo ormai sicura di me stessa. Continuavo a ripassare le parole che avrei usato per rivelare la verità a Xavier, con qualche lieve modifica a ogni ripetizione.

Adesso Xavier si comportava come se fossimo una coppia e la cosa mi piaceva: era come ritrovarci in un mondo al quale nessun altro aveva accesso. Il suo messaggio era chiaro: la nostra non era una semplice infatuazione, ma una cosa seria, che aveva un futuro. Avevamo preso un impegno reciproco. Era più forte di me: ogni volta che ci pensavo, non riuscivo a fare a meno di sorridere. Certo, non avevo dimenticato gli avvertimenti di Ivy e di Gabriel, ma per qualche motivo non me ne importava più. Anche se il cielo si fosse spalancato, facendo scrosciare fuoco e fiamme, niente avrebbe potuto cancellare quel sorriso dalle mie labbra. Ecco che effetto mi faceva la gioia: era come essere al centro della colorata esplosione di una miriade di perline.

Cercai di nascondere quell’euforia a Ivy e Gabriel. Ci avevano messo parecchio per riprendersi dalla mia ultima scappatella con Xavier e temevo che non ne avrebbero tollerata un’altra. Ogni volta che mi trovavo in loro compagnia, mi sembrava di fare il doppiogioco e continuavo a chiedermi se l’espressione del mio viso mi avrebbe tradito. Ma loro sapevano leggere le menti umane, non la mia, e le mie doti di attrice dovevano essere migliorate perché nessuno dei due parve notare il mio entusiasmo. Avevo finalmente capito il senso dell’espressione «la quiete prima della tempesta»: tutto filava liscio, ma le apparenze ingannavano. Il fuoco covava sotto la cenere. Tensione, rabbia e colpa ribollivano sotto quell’allegro quadretto di armonia familiare ed erano pronte a esplodere non appena Ivy e Gabriel avessero scoperto il mio tradimento.

«Uno dei miei studenti del terzo anno oggi mi ha chiesto se esiste il Limbo», disse Gabriel una sera, a cena.

Trovai buffo che, proprio in quel momento, venisse fuori il tema dell’espiazione dei peccati, ma ovviamente rimasi in silenzio.

Ivy posò la forchetta. «E tu cosa gli hai risposto?»«Che nessuno lo sa.»«Perché non gli hai detto di sì?» intervenni.

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«Perché le buone azioni devono essere spontanee», spiegò Gabriel. «Chi sa per certo che le sue azioni saranno giudicate, allora agirà di conseguenza.»

Quel ragionamento non faceva una piega. «Ma com’è il Limbo?» Sapevo qualcosa del Paradiso e dell’Inferno, però nessuno mi aveva mai parlato di quel luogo.

«Si presenta in varie forme», rispose Ivy. «Come la sala d’attesa di un medico. O una stazione ferroviaria.»

«Per certe anime, è peggio dell’Inferno», aggiunse Gabriel.«Ma è ridicolo. Come può essere peggio?»«Anno dopo anno, aspetti che qualcuno chiami il tuo nome, che arrivi un treno», sospirò

Ivy. «Poi cominci a perdere il senso del tempo, che diventa una specie di nastro lunghissimo, di cui non vedi la fine. Certe anime supplicano di andare in Paradiso, altre provano a gettarsi all’Inferno, ma non c’è via d’uscita. Finiscono per vagare senza scopo, senza speranza. Ed è così in eterno, Bethany.»

Riuscii soltanto a dire: «Oh!»Chissà se un angelo poteva essere esiliato nel Limbo.

Giovedì, all’ora di pranzo, ero seduta con Molly e le altre sul prato. Le gemme appesantivano i rami degli alberi attorno a noi, riportandoli alla vita. L’imponente edificio principale della Bryce Hamilton incombeva alle nostre spalle, gettando un’ombra sulle panchine disposte in circolo attorno al tronco di una vecchia quercia che l’edera avvolgeva in un amorevole abbraccio. A occidente si scorgeva l’oceano e qualche nuvoletta aleggiava pigramente nel cielo. Le ragazze si distesero sull’erba rigogliosa, crogiolandosi al sole. Mi sentivo audace e così mi decisi a sollevare la gonna sopra le ginocchia.

«Così si fa, brava!» esclamarono alcune ragazze, commentando poi che finalmente stavo diventando «una di loro». Quindi attaccarono coi soliti pettegolezzi sugli insegnanti e sulle amiche assenti.

«Miss Lucas è una pizza», si lagnò Megan. «Vuole che rifaccia il compito sulla Rivoluzione Russa perché era ’tirato via’. Cioè?»

«Cioè l’hai fatto mezz’ora prima di consegnarlo», ridacchiò Hayley. «Che ti aspettavi? Un bel voto?»

Megan alzò le spalle. «Per me è tutta invidia, perché lei è pelosa come uno yeti.»«Dovresti scrivere una lettera di protesta», disse una ragazza di nome Tara. «Questa è una

discriminazione bella e buona.»«Sì, ti ha davvero preso di mira. In più...» Molly s’interruppe di colpo, notando una figura

che attraversava il prato a grandi passi.Mi girai per capire cosa avesse catturato la sua attenzione e vidi Gabriel che si dirigeva

verso il padiglione di musica, poco lontano da noi. Aveva lo sguardo assorto e la custodia della chitarra a tracolla. Da qualche tempo, aveva smesso di adeguarsi all’abbigliamento formale suggerito dalla scuola: quel giorno, indossava jeans sbiaditi e una T-shirt bianca sotto un gilet gessato. Nessuno aveva protestato per quel cambiamento, anche perché Gabriel era così popolare che, se si fosse dimesso, sarebbe scoppiata una rivolta. Camminando tranquillo, a passo sciolto, pareva diretto verso di noi. Molly si raddrizzò sulla panchina e cominciò a lisciarsi freneticamente i ricci ribelli. Poi, di colpo, Gabriel cambiò direzione. Perso nelle sue riflessioni, non ci aveva neppure guardato. Molly sembrò avvilita.

«E che diciamo di Mr Church?» disse Taylah, quando lo vide allontanarsi. Ero stata così silenziosa e assorta nelle mie fantasie – tipo naufragare su un’isola deserta con Xavier o ritrovarmi prigioniera su una nave pirata, in attesa che lui venisse a salvarmi – che probabilmente si erano dimenticate di me. Altrimenti ci avrebbero pensato due volte prima di discutere di Gabriel in mia presenza.

«Niente», replicò Molly, sulla difensiva. «È mitico.»

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Non era difficile capire quello che stava pensando. Negli ultimi tempi, il suo interesse per Gabriel era cresciuto. A nulla era servito l’atteggiamento distaccato di mio fratello. Più lui la ignorava, più lei s’intestardiva. Era uno slancio che Gabriel non poteva corrispondere e io avevo paura che, quando se ne fosse accorta, Molly avrebbe sofferto molto. Metaforicamente parlando, Gabriel era di pietra, tanto lontano dall’esistenza umana quanto lo era il Cielo dalla Terra. Negli esseri umani, lui vedeva solo anime in pericolo e riusciva a malapena a distinguere tra uomini e donne. Molly invece credeva che lui fosse come tutti gli altri ragazzi, ribollente di ormoni e quindi incapace di resistere al fascino femminile se si giocavano bene le proprie carte. No, non aveva davvero idea di cosa fosse Gabriel. Poteva anche aver assunto una forma umana ma, al contrario di me, era tutt’altro che umano. Nel Regno, era noto come l’Angelo della Giustizia.

«È un po’ ingessato», disse Clara.«Non è vero!» scattò Molly. «Tu non lo conosci neanche.»«Perché, tu sì?»«Magari...»«Be’, continua a sognare.»«È un prof», la interruppe Megan. «E ha più di vent’anni.»«I prof di musica sono un caso particolare.»«Sì, un caso particolare all’interno del corpo insegnante», scherzò Taylah. «Scordatelo,

Molly. È di un’altra razza.»Molly socchiuse le palpebre, come se le avessero lanciato una sfida. «Questo non lo so. Però

mi piace pensare che appartenga a una razza tutta sua.» Girò la testa di scatto, irritata. E mi vide.Fu come se improvvisamente tutte si rammentassero della mia presenza. Calò un silenzio

imbarazzato.«Allora», disse poi Megan a voce un po’ troppo alta. «Quanto al ballo...»

Quel pomeriggio, Xavier mi accompagnò a casa, poi se ne andò. Io entrai in cucina e vidi che Ivy stava preparando delle crostatine. Aveva il naso sporco di farina e gli occhi le scintillavano, come se quel procedimento la affascinasse. Aveva allineato le basi di pastafrolla a seconda del tipo di marmellata e le aveva decorate con strisce perfettamente simmetriche. Nessuna mano umana sarebbe stata in grado di realizzarle in modo così magistrale. Sembravano più opere d’arte in miniatura che torte. Non appena entrai, me ne mise davanti una.

«Sono magnifiche», dissi con un sorriso. Quindi, dopo una pausa, chiesi: «Posso parlarti?»«Certo.»«Secondo te, c’è la possibilità che Gabriel mi lasci andare al ballo della scuola?»Ivy sollevò lo sguardo da una tortina. «Te l’ha chiesto Xavier, vero?»«E se anche fosse?» replicai, sulla difensiva.«Calmati, Bethany. Sarà bellissimo in smoking.»«Vuoi dire che non è un problema?»«No, credo che sareste una bella coppia.»«Se riuscissi ad andarci... Be’, forse sì.»«Non essere così pessimista. Sentiamo che ne pensa Gabriel. Ma è un evento scolastico e

sarebbe un peccato non esserci.»Ero impaziente di sapere quale sarebbe stato il verdetto. Dato che Gabriel era andato a fare

una passeggiata sulla spiaggia, chiesi a Ivy se andavamo a cercarlo insieme. Conoscendolo, evitammo la zona frequentata dai surfisti e dalle famiglie e ci dirigemmo verso l’aspra e selvaggia Shipwreck Coast, famosa per le violente raffiche di vento e per il mare impetuoso. Talvolta i sommozzatori ne setacciavano i fondali alla ricerca di relitti dei naufragi avvenuti nel corso degli anni, ma in genere gli unici frequentatori di quella zona erano i gabbiani.

Gabriel era seduto su una roccia sporgente e guardava il mare. Col sole che si rifletteva sulla sua T-shirt bianca, sembrava circondato da un’aureola. Da quella distanza, non riuscivo a scorgere

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il suo viso, ma non era difficile immaginare la profonda tristezza che lo caratterizzava e che lui spesso si sforzava di nascondere. Era una tristezza irrimediabile, probabilmente dovuta al pesante fardello di conoscenze che gravava sulle sue spalle, un fardello composto dagli orrori del passato e forse persino dalle tragedie future. E che lui non poteva condividere con nessuno. Il servizio che rendeva al Creatore dell’universo richiedeva l’assoluta discrezione e conferiva ai suoi modi un’austerità che metteva a disagio chi non lo conosceva. I giovani lo adoravano, ma gli adulti avevano spesso la sensazione di essere giudicati da lui.

Sentendosi osservato, Gabriel si voltò verso di noi. Temendo di disturbarlo, feci un passo indietro ma, non appena ci vide, la sua espressione si rasserenò e lui agitò la mano.

Ci aiutò ad arrampicarci sulle rocce, poi restammo seduti in silenzio per un po’.«Perché ho l’impressione che sto per cadere in un’imboscata?» chiese a un certo punto

Gabriel, in tono scherzoso.«Per favore, posso andare al ballo di fine anno?» mormorai.Lui scosse la testa, divertito. «Non avevo capito che ci volessi andare. Pensavo che non

t’interessasse.»«È che ci vanno tutti. Se ne parla da mesi. Ci resterebbero male, se non ci fossi. Significa

molto per loro.» Gli diedi un colpetto sul braccio. «Non dirmi che tu vuoi perdertelo.»«Mi piacerebbe perdermelo, però mi hanno chiesto di fare il supervisore», sbuffò. «Non so

proprio come gli sia venuta in mente quest’idea. A me sembra solo uno spreco di tempo e denaro.»«Eppure fa parte della vita scolastica», intervenne Ivy. «Potrebbe essere utile per raccogliere

informazioni.»«Giusto», annuii. «E saremo al centro dell’azione. Non ci troviamo qui proprio per questo?

Altrimenti potevamo anche restarcene nel Regno.»«E questo non ha niente a che fare col mettersi in ghingheri, vero?» chiese Gabriel.«Certo che no!» dissi, fingendo indignazione. Poi abbassai la voce e aggiunsi: «Be’, forse

giusto un pochino».Sospirò. «Mah, visto che è solo per una sera...»«E che ci sarai tu a tenere d’occhio la situazione...»«Ivy, speravo che mi accompagnassi anche tu», disse Gabriel.«Certo!» esclamò lei, battendo le mani. Era proprio da Ivy entusiasmarsi perché avevamo

raggiunto un accordo. «Sarà grandioso!»

La sera di sabato era mite e limpida, perfetta per un falò sulla spiaggia. Il cielo pareva di velluto blu e una brezza da sud faceva ondeggiare gli alberi, come se s’inchinassero l’uno all’altro. Avrei dovuto sentirmi nervosa, ma non lo ero. Stavo per consolidare il rapporto con Xavier, per congiungere i nostri due mondi.

Quella sera, mi vestii con cura, scegliendo una gonna svasata e una camicetta stile zingara con un ricamo attorno allo scollo. Quando scesi al pianterreno, Ivy e Gabriel erano in soggiorno. Armato di una lente d’ingrandimento, Gabe era impegnato a decifrare un testo religioso scritto in caratteri minuscoli. Il contrasto fra quell’attività da studioso e il suo aspetto giovanile era così forte che dovetti reprimere una risata. Invece Ivy stava cercando di convincere Phantom a obbedire a qualche semplice comando.

«Seduto, Phantom», diceva, con lo stesso tono petulante che si riserva ai bambini testardi. «Fallo per la mamma.»

Sapevo che lui non avrebbe mai obbedito finché Ivy l’avesse trattato così. Era un cane intelligente e non gli piaceva ricevere ordini. Se avesse potuto parlare, avrebbe di sicuro manifestato tutto il suo disprezzo.

«Non fare tardi», mi ammonì Gabriel.Sapeva che andavo a fare una passeggiata sulla spiaggia insieme con Molly e con altri amici

e che ci sarebbe stato anche Xavier. Non si era opposto e avevo concluso che forse si stava

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addolcendo, almeno per quanto riguardava la mia vita sociale. Il peso della missione era tale che ogni tanto avevamo bisogno di qualche evasione. Per esempio, lui andava a fare jogging e Ivy s’isolava col suo album da disegno. Quindi anch’io avevo diritto di distrarmi.

Non mi avevano neppure fatto troppe domande, perché si fidavano abbastanza di me. Odiavo me stessa per il modo in cui stavo per tradirli, ma ormai non potevo più tirarmi indietro: volevo che Xavier entrasse nel mio mondo segreto, desideravo quell’intimità più di ogni altra cosa. Certo, non avevo dimenticato il rischio che un gesto simile comportasse una punizione molto severa. Però scacciai ogni timore dalla mente, riempiendola invece con l’immagine del viso di Xavier. Dopo quella sera, avremmo affrontato insieme tutto il resto.

Non intendevo restar fuori a lungo: volevo avere giusto il tempo di rivelare il mio segreto a Xavier e di valutare la sua reazione. Avevo pensato e ripensato a tutte le possibili varianti, riducendole infine a tre: affascinata, inorridita o spaventata. Mi avrebbe considerato un fenomeno da baraccone? Mi avrebbe almeno creduto o avrebbe pensato che lo stavo prendendo in giro? Stavo per scoprirlo.

«Bethany sa badare a se stessa», disse Ivy. «Seduto, Phantom! Dai, seduto!»«Sono troppe le cose che non dipendono da Bethany. È il resto del mondo che mi

preoccupa», replicò Gabriel. «Abbiamo già avuto qualche esempio degli incidenti che possono capitare. Cerca solo di stare attenta e di tenere gli occhi aperti.»

«Signorsì!» esclamai, facendogli il saluto militare e ignorando il senso di colpa. Stavolta Gabriel non mi avrebbe perdonato tanto in fretta.

«Seduto, Phantom!» chiocciò Ivy. «Giù!»«Oh, per amor del Cielo!» Gabriel posò il libro e puntò un dito su Phantom. «Seduto!» gli

ordinò con voce profonda.Phantom lo guardò, perplesso, accovacciandosi subito a terra.Ivy s’imbronciò. «È tutto il giorno che ci provo. Cos’è, i cani obbediscono solo ai maschi?»Corsi leggera lungo gli stretti gradini del viottolo che conduceva alla spiaggia. Nella sabbia

si scorgevano le tracce del passaggio di qualche biscia, e ogni tanto una lucertola saettava attraverso il sentiero. I ramoscelli mi si spezzavano sotto i piedi e, in alcuni punti, gli alberi erano così fitti da formare una volta che lasciava filtrare solo qualche raggio del sole al tramonto. Un’orchestra di cicale attutiva ogni suono, tranne il ruggito del mare. Se anche mi fossi persa, avrei sempre potuto seguirne il rumore.

Raggiunsi la sabbia bianca e liscia. Il luogo scelto per il falò era vicino alle scogliere, perché tutti sapevano che sarebbe stato deserto. Camminai lungo la spiaggia, pensando a quanto sembrasse più aspro quel paesaggio di sera. In giro non si vedeva nessuno, a parte un pescatore che gettava la lenza dalla riva. Lo guardai riavvolgere il mulinello e controllare la sua preda prima di restituire alle onde la sagoma che si dimenava. Notai che l’oceano era multicolore: blu scuro dov’era più profondo, al limite dell’orizzonte; più vicino all’acquamarina nella parte centrale, mentre le onde che lambivano la riva erano di un verde trasparente. In lontananza, osservai un promontorio con un faro bianco in cima. Dal punto in cui mi trovavo, sembrava grande come un ditale.

D’un tratto, sentii alcune voci, e poi vidi un gruppetto che accatastava appunti, fogli di esercizi, vecchi compiti e altro materiale infiammabile in un grosso mucchio per preparare il falò. Niente musica assordante né masse di corpi in movimento come alla festa di Molly, che peraltro non sembrava ancora arrivata. Qualcuno beveva una birra o si passava una sigaretta.

Xavier era seduto su un tronco semisepolto nella sabbia. Era in jeans, con una felpa azzurra e col crocifisso d’argento al collo. Reggeva una bottiglia mezza vuota e stava ridendo per quello che aveva appena detto qualcuno. La luce del tramonto che gli danzava sul viso lo rendeva più bello che mai.

«Ciao, Beth», mi gridò qualcuno, mentre altri mi salutarono agitando le mani. Avevano finalmente smesso di trattarci come due fenomeni e ci avevano accettato come coppia? Sorrisi timidamente a tutti e corsi a rifugiarmi al fianco di Xavier, dove mi sentivo al sicuro.

«Hai un profumo fantastico», disse lui, chinandosi per darmi un bacio sulla testa. Alcuni fischiarono e si diedero delle gomitate. «Vieni, andiamo.»

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«Di già?» scherzò qualcuno.«Facciamo solo due passi», rispose Xavier, di buon umore. «Se per te non è un problema.»Qualche fischio c’inseguì mentre ci allontanavamo dal gruppo e dal falò appena acceso, ma

non ci badai. Ben presto le voci si trasformarono in un mormorio lontano.«Xavier, non posso trattenermi», dissi.«Lo immaginavo.»Con disinvoltura, mi fece scivolare un braccio attorno alle spalle mentre avanzavamo in

direzione delle scogliere, ormai ridotte a sagome frastagliate contro il cielo. La calda pressione di quel braccio mi faceva sentire protetta, al sicuro. Sapevo che, non appena ci fossimo staccati, avrei provato una specie di gelo.

Quando mi ferii un piede col bordo tagliente di una conchiglia, Xavier insistette per prendermi in braccio. Per fortuna, nell’oscurità, non poteva vedere che il taglio era già guarito da solo. Anche se il piede non mi doleva più, restai aggrappata a lui, godendomi le sue attenzioni. Mi rilassai, lasciando che il mio corpo si fondesse col suo. Nell’entusiasmo, finii per dargli una testata contro un occhio. Avrei dovuto avere la grazia di un angelo e invece ero goffa come una scolaretta. Mi scusai mille volte.

«Tranquilla, tanto ne ho un altro», scherzò lui, con l’occhio che gli lacrimava. Batté le palpebre e lo strizzò, cercando di schiarire la vista.

Mi rimise a terra solo quando raggiungemmo un’insenatura al riparo della scogliera. Le rocce frastagliate avevano formato un arco che sembrava il portale verso un altro mondo. Una ripida scalinata conduceva in cima alla scogliera, da dove si godeva una magnifica vista del faro. Alcuni scogli sorgevano dalle acque, simili a monoliti. Difficile che qualcuno si avventurasse fin lì. La gente preferiva restare sulla spiaggia più grande, dove aveva bar e negozi di souvenir a pochi passi di distanza. Quel posto era isolato, e lì non c’era niente e nessuno. L’unico rumore era quello del mare, simile a un coro di cento voci che parlavano una lingua misteriosa.

Xavier si sedette con la schiena appoggiata alla roccia. Rimasi accanto a lui: non volevo rimandare oltre l’inevitabile, ma non avevo la più pallida idea di come iniziare. Entrambi sapevamo perché eravamo lì: c’era un peso che dovevo togliermi. Però lui non aveva idea di cosa stava per succedere.

Aspettava che cominciassi a parlare, ma io avevo la bocca secca come un cracker. Quello doveva essere il mio momento. Per tutta la settimana, avevo provato la sensazione che le ore procedessero a passo di lumaca. Adesso che il momento era finalmente arrivato, mi sembrava di aver bisogno di più tempo. Ero come un’attrice che è andata benissimo alla prova generale, ma che la sera della prima ha dimenticato le battute. Sapevo qual era il nocciolo del discorso, però avevo scordato come arrivarci, quali gesti dovevano accompagnarlo. Camminavo avanti e indietro, mi torcevo le mani e mi chiedevo come e da dove cominciare. Nonostante la serata mite, ero scossa dai brividi.

Evidentemente Xavier cominciava a sentirsi a disagio. «Qualunque cosa sia, Beth, dilla e basta. Sono pronto ad affrontarla.»

«Eh, è un po’ più complicato di così.»Nella mia mente, avevo ripetuto la scena centinaia di volte, ma adesso le parole mi

morivano sulla lingua.Xavier si alzò e mi appoggiò le mani sulle spalle per rassicurarmi. «Lo sai, qualsiasi cosa tu

stia per dirmi non cambierà la mia opinione su di te. È impossibile.»«Perché?»«Non so se te ne sei accorta, ma sono pazzo di te.»«Davvero?» esclamai.«Ah, non te n’eri accorta? Buono a sapersi. In futuro dovrò essere più espansivo.»«Sempre che dopo stasera t’interessi ancora un futuro insieme.»«Quando mi avrai conosciuto meglio, imparerai che non sono uno di quelli che scappano.

Mi ci vuole del tempo per prendere una decisione su qualcuno ma, una volta presa, non cambio idea.»

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«Anche se ti sei sbagliato?»«Non credo di essermi sbagliato sul tuo conto.»«Come fai a dirlo, se ancora non sai cosa devo rivelarti?»Lui spalancò le braccia, come per invitarmi a colpirlo con la verità. «Mettimi alla prova.»«Non posso.» La voce mi si spezzò. «Ho paura. E se dopo non vorrai più vedermi?»«Ti ripeto che non succederà, Beth», disse con più forza. «So che per te è difficile, ma devi

fidarti di me.»Lo fissai negli occhi, due pozze azzurre, e capii che aveva ragione. E che mi fidavo di lui.

«Prima dimmi una cosa, però. Qual è l’esperienza più spaventosa che ti sia mai capitata?»Xavier rifletté. «Be’, ritrovarmi appeso in corda doppia a trenta metri da terra è stato

piuttosto spaventoso. In più, una volta, con la squadra statale di pallanuoto under quattordici, ho infranto una regola e Mr Benson, l’allenatore, mi ha dato una bella strigliata. È uno che fa paura, quando ci si mette. Mi ha fatto a pezzi. Il giorno dopo, non mi ha fatto giocare contro Creswell.»

Per la prima volta, mi resi conto dall’innocenza umana di Xavier: se quella era la sua idea di «esperienza spaventosa», come poteva sopravvivere alla bomba che stavo per fargli cadere addosso? «Tutto qui?» chiesi, in tono più aspro di quanto avessi voluto.

Mi fissò negli occhi. «Be’, dovrei contare anche la notte in cui mi hanno telefonato per dirmi che la mia ragazza era morta in un incendio. Ma preferirei non parlarne...»

«Scusami.» Abbassai lo sguardo. Com’ero stata stupida a dimenticarmi di Emily! Xavier conosceva il lutto, il dolore e la sofferenza più direttamente di quanto li conoscessi io.

«Non scusarti. Ascoltami e basta.» Mi prese la mano. «Subito dopo quella telefonata, mi sono precipitato da lei. Arrivato nella strada di casa sua, ho visto la sua famiglia. Erano tutti sul marciapiede e, per un attimo, ho pensato che fosse tutto a posto, che ci fosse anche lei, che l’incendio avesse distrutto solo la casa. Poi sua madre mi si è avvicinata e io ho letto sul suo viso una disperazione assoluta. Sembrava che non avesse più nessun motivo per continuare a vivere. Allora ho capito che Em non c’era più.»

«È terribile», mormorai, con gli occhi che mi si riempivano di lacrime.Xavier me le asciugò delicatamente. «Non te l’ho raccontato per rattristarti, ma perché

voglio farti capire che non puoi spaventarmi. Puoi dire qualunque cosa. Non scapperò.»Allora trassi un respiro profondo. Ero pronta a cominciare il discorso che avrebbe cambiato

per sempre la nostra vita. «Anzitutto devi sapere che, dopo stasera, se vorrai stare ancora con me, sarò felice come mai lo sono stata.» Lui sorrise e mi tese una mano, ma io lo fermai. «Prima voglio togliermi il pensiero. Cercherò di spiegarmi meglio che posso.»

Xavier annuì, incrociò le braccia e rimase in attesa. Per una frazione di secondo, mi sembrò uno scolaro di fronte alla classe, desideroso di compiacere l’insegnante e in attesa delle sue istruzioni.

«So che ti sembrerà assurdo, ma devi guardarmi camminare», dissi.Un lampo di perplessità gli attraversò il viso. «Va bene.»«Però non guardare me. Guarda la sabbia.» Senza distogliere lo sguardo dal suo viso, mi

mossi lentamente in circolo attorno a lui. «Noti qualcosa?» gli chiesi poi.«Non lasci impronte», rispose lui, come se fosse la cosa più ovvia del mondo. «Un

trucchetto figo, ma forse dovresti solo mangiare di più.»Okay. Non si lasciava impressionare facilmente. Con un sorriso, mi sedetti accanto a lui,

sollevando il piede in modo che potesse vederne la pianta. La pelle morbida e rosa era intatta. «Prima mi sono tagliata il piede...»

«Ma lì non c’è nessun taglio», concluse Xavier, accigliandosi. «Com’è possibile che...»Prima che potesse finire la frase, gli presi la mano e me la posai sullo stomaco. «Noti

qualche differenza?»Le sue dita sfiorarono il mio addome e si fermarono al centro. Sentii che il suo pollice stava

cercando l’ombelico.«Non lo troverai», dissi, come se gli avessi letto nel pensiero. «Non c’è.»«Cosa ti è successo?» domandò allora. Probabilmente immaginava che fossi rimasta vittima

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di qualche strano incidente.«Non mi è successo niente. Io sono così.»Il suo sconcerto era quasi palpabile. «Chi sei?» Era stato poco più di un sussurro.«Sto per mostrartelo. Puoi chiudere gli occhi? E non aprirli finché non te lo dico.»Quando fui sicura che li avesse chiusi, corsi rapidamente lungo la scogliera, salendo tre

scalini alla volta. In punta di piedi, mi spinsi fin quasi al bordo. Xavier era proprio sotto di me, a una decina di metri. L’altezza non era il problema. Portare a termine il mio piano: ecco la cosa veramente difficile. Il cuore mi batteva forte e sembrava facesse le capriole nel petto. Nella testa, sentivo due voci che cercavano di superarsi a vicenda. Che stai facendo? gridava l’una. Sei impazzita? Torna a casa! Sei ancora in tempo! L’altra voce invece strillava: Ormai non puoi tornare indietro. Lo desideri troppo e, se non vai avanti, non potrai mai stare con lui. Cosa dici? Hai paura? Allora molla tutto. Lui continuerà la sua vita e si dimenticherà di te. Spero che la solitudine eterna sia di tuo gradimento.

Ero così combattuta che mi tappai la bocca con una mano, in modo da non urlare.Poi mi accorsi che non c’era motivo di esitare.Che avevo preso la mia decisione.«Puoi aprire gli occhi!» gridai a Xavier.Lui obbedì e si guardò attorno, stupito di non vedermi. Poi alzò lo sguardo.Gli feci un cenno di saluto.«Che fai lassù?» Nella sua voce c’era una nota di paura. «Beth, dai, non è divertente. Scendi

subito. Rischi di farti male.»«Non aver paura! Ora scendo... ma a modo mio!»Feci un altro passo in avanti. Ormai ero sul bordo della scogliera. Bilanciai il peso sulla

punta dei piedi. La roccia irregolare mi graffiò la pelle, però quasi non me ne accorsi. Era come se volassi già. E non vedevo l’ora di sentire il vento tra i capelli.

«Piantala, Beth! Non ti muovere, sto venendo a prenderti!»Ormai non lo ascoltavo più. Mentre il vento mi sferzava i vestiti, allargai le braccia e mi

lasciai cadere dalla scogliera. Se fossi stata umana, lo stomaco si sarebbe serrato in una morsa di gelo. Invece quello slancio si limitò a farmi palpitare il cuore e a darmi un brivido di eccitazione. Precipitai in picchiata verso la spiaggia, godendomi l’aria pungente sulle guance. Con un grido, Xavier si precipitò in avanti per attutire la mia caduta.

Uno sforzo inutile. Non avevo nessun bisogno di essere salvata.A metà discesa, abbassai le braccia e lasciai che avvenisse la trasformazione. Una luce

abbagliante si sprigionò da ogni poro della mia pelle, sino a farla risplendere come metallo incandescente. Xavier arretrò, coprendosi gli occhi. Poi le mie ali si liberarono di scatto ed esplosero attraverso la T-shirt, lacerando il tessuto leggero. Completamente spiegate, gettavano una lunga ombra sulla sabbia, come se io fossi una specie di maestoso uccello.

Xavier si era accovacciato a terra, abbagliato dalla luce pulsante. Sospesa a mezz’aria, con le ali che battevano, mi sentivo nuda ed esposta, ma nel contempo ero euforica. Sentivo i muscoli delle ali che si tendevano, bramosi di movimento. Dovetti resistere alla tentazione di volare più in alto, di tuffarmi tra le nuvole, però mi concessi ancora qualche istante in aria prima di planare sulla spiaggia, atterrando quindi dolcemente. Lo splendore incandescente che mi ammantava si attenuò non appena i miei piedi toccarono il suolo.

Xavier si stropicciò gli occhi, batté le palpebre e infine riuscì a vedermi. Fece un passo indietro, sbalordito, con le mani abbandonate goffamente sui fianchi come se non sapesse dove metterle. Io gli stavo di fronte, ancora risplendente di luce. I brandelli della T-shirt mi pendevano addosso come tentacoli e, dalla mia schiena, s’innalzavano due ali torreggianti, lievi eppure piene di forza. Sapevo che l’aureola di luce sopra la mia testa brillava più che mai.

«Dio santo!» si lasciò sfuggire Xavier.«Ti spiacerebbe non imprecare?» replicai con un sorriso. Lui mi fissò, annaspando alla

ricerca delle parole giuste. «Lo so, lo so», sospirai. «Ti aspettavi tutto, ma non questo.» Feci un gesto vago in direzione della spiaggia. «Sei libero di andartene, se vuoi.»

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Xavier rimase a fissarmi, con gli occhi spalancati. Poi mi girò attorno lentamente e mi sfiorò le ali con estrema delicatezza. Per quanto sembrassero pesanti, erano sottili come pergamena e quasi prive di peso. La sua espressione rivelava la meraviglia per le delicate piume bianche e per le membrane che s’intravedevano sotto la superficie diafana.

«Oh... È così...»«Inquietante?»«Incredibile!» esclamò. «Ma cosa sei? Non puoi essere un...»«Un angelo?» Sorrisi. «Indovinato al primo colpo.»Xavier si passò una mano sul viso. «Non può essere vero», disse infine. «No, non ci arrivo

proprio.»«Ovvio. Il mio mondo è molto lontano dal tuo.»«Il tuo mondo?» ripeté, incredulo. «Non ha senso.»«Cosa?»«Mi sto immaginando tutto. Nella vita reale non può succedere una cosa simile!»«Questo è reale», lo corressi. «Io sono reale.»«Lo so», rispose lui. «La cosa più strana è che ti credo. Scusa, mi serve un minuto per...» Si

lasciò cadere sulla sabbia. Rimase così per un po’, con la fronte corrugata come se cercasse di risolvere un enigma impossibile.

Provai a immaginare cosa stava succedendo nella sua testa. Doveva regnare il caos. Chissà quante domande si stava ponendo. «Sei arrabbiato?»

«Arrabbiato?» mi fece eco, stupito. «Perché dovrei essere arrabbiato?»«Forse perché non te l’ho detto prima.»«Sto solo cercando di capire.»«So che non è facile. Fa’ con calma.»Rimase a lungo in silenzio, respirando con affanno. Poi si alzò e, con un lento gesto della

mano, tracciò un semicerchio sopra la mia testa. Sapevo che le sue dita percepivano il calore della mia aureola. «Okay. Gli angeli esistono», borbottò, come se cercasse di convincersi da solo. «Ma tu cosa ci fai sulla Terra?»

«In questo momento ci sono migliaia di angeli come me, in forma umana, in giro per il mondo», risposi. «Siamo in missione.»

«E perché?»«Non è facile spiegarlo. Siamo qui per aiutare le persone a... riprendere contatto, ad amarsi.»

Xavier sembrava confuso. «C’è troppa rabbia nel mondo, troppo odio. E tutto ciò richiama le Forze Oscure. Quando tali Forze si scatenano, diventa quasi impossibile domarle. Il nostro compito è contrastarne la negatività, impedire ulteriori disastri. Questo posto è già stato duramente colpito da loro.»

«Vuoi dire che le brutte cose successe a Venus Cove sono da imputare alle... Forze Oscure?»

«Più o meno.»«E per ’Forze Oscure’ intendi il diavolo?»«Be’, se non altro i suoi emissari.»Xavier sembrò sul punto di mettersi a ridere, ma si trattenne. «Devi ammettere che suona un

po’... assurdo. E chi ti avrebbe mandato in missione?»«Credevo che fosse ovvio.»Mi fissò, incredulo. «Non vorrai dire...»«Sì.»Sembrò sconvolto, come se un uragano lo avesse fatto schizzare in aria per poi ributtarlo a

terra. Si allontanò i capelli dalla fronte. «Mi stai dicendo che Dio esiste davvero?»«Non mi è permesso parlarne», mormorai. Sarebbe stato difficile, ma era meglio cambiare

subito discorso. «Ci sono cose che vanno oltre l’umana comprensione. Se cercassi di spiegarti, mi caccerei in un mare di guai. Non dovremmo neppure pronunciare il Suo nome.»

Xavier annuì. «Ma c’è una vita dopo la morte? C’è il Paradiso?»

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«Certo.»«Quindi...» Si strofinò il mento, pensieroso. «Se c’è il Paradiso, è ragionevole pensare che ci

sia pure...»Conclusi il suo pensiero: «Sì, c’è anche quello. Ma, ti prego, adesso basta con le domande».Xavier mi fissò. Poi scosse la testa e si massaggiò le tempie.«Mi dispiace. Capisco che tutto questo sia davvero troppo, ma...»Liquidò le mie preoccupazioni con un cenno. «Fammi capire. Siete angeli in missione per

aiutare l’umanità e siete stati assegnati a Venus Cove?»«In realtà, Gabriel è un Arcangelo. Per il resto, sì.»«Be’, questo spiega perché è così difficile far colpo su di lui», commentò, ironico.«Sei l’unico a saperlo. Non devi farne parola con nessuno.»«A chi vuoi che lo dica? E poi, chi mi crederebbe?»«Giusto.»D’un tratto si mise a ridere. «La mia ragazza è un angelo», esclamò. Lo ripeté a voce più

alta: «La mia ragazza è un angelo».«Ssttt... abbassa la voce, ti prego», lo ammonii.Ma tutto sembrava così assurdo e, nel contempo, così semplice che finii per mettermi a

ridere anch’io. Quanti ragazzi dicevano alla propria innamorata che era «un angelo»? Be’, per noi la cosa era valida in senso letterale. Ormai condividevamo un pericoloso segreto, qualcosa che ci univa più che mai. Era come se avessimo appena stretto un fortissimo legame.

«Temevo che non mi avresti più voluto, sapendo chi sono», sospirai, finalmente sollevata.«Scherzi?» Xavier allungò una mano per giocherellare con una ciocca dei miei capelli.

«Sono il ragazzo più fortunato del mondo, su questo non ci piove.»«E perché?»«Ovvio: il mio personale angolo di Paradiso è proprio qui, accanto a me.»Mi strinse in un abbraccio. Strofinai il viso contro il suo petto. «Prometti di non fare troppe

domande?»«Solo se mi dici una cosa. Suppongo che la nostra relazione sia un grosso...» Non trovando

la parola giusta, si limitò ad agitare un dito e a scuotere il capo. Ero felice di vedere che aveva superato lo shock e che aveva ripreso a comportarsi come al solito.

«Non semplicemente grosso», replicai. «Il più grosso.»«Non preoccuparti, Beth. Adoro le sfide.»

15 L’Alleanza

«E adesso che succede?» chiese Xavier.«In che senso?»«Adesso che so di te, cosa si fa?»«Sinceramente non lo so. Non è mai successo prima.»«Quindi essere un angelo non vuol dire...»«Non vuol dire avere una risposta a tutto», conclusi al posto suo.«Pensavo che fosse uno dei vantaggi.»«Purtroppo no.»«Be’, finché nessun altro lo sa, dovresti essere al sicuro. E, quando si tratta di segreti, io

sono una tomba. Chiedi ai miei amici.»

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«So che di te mi posso fidare. Ma c’è un’altra cosa che devi sapere.» Esitai. Era la parte più difficile, più di quello che avevo appena fatto.

«Dimmi...» Stavolta Xavier sembrò farsi forza.«Prima o poi questa missione finirà e noi dovremo tornare a casa.»«E per ’casa’, tu intendi...» Alzò gli occhi al cielo.«Già.»Si era di certo aspettato quella risposta, ma il suo viso si contrasse di colpo. L’oceano dei

suoi occhi si fece più scuro, e la bocca assunse una piega quasi rabbiosa. «Ma, se parti, è possibile che poi torni, no?» mormorò.

«Non credo», risposi. «Però, se anche dovesse succedere, non sarebbe comunque una cosa a breve. E non tornerei nello stesso posto.»

Sentii che s’irrigidiva. «Ma tu non hai voce in capitolo?» chiese, con una nota d’incredulità. «Che fine ha fatto il libero arbitrio?»

«Quello è un dono destinato all’umanità, ricordi? Non riguarda noi. Senti, non ho ancora scoperto se esiste un modo per restare. Arrivando qui, sapevo che non sarebbe stato per sempre, che a un certo punto avremmo dovuto andarcene. Però non mi aspettavo di trovare te, e ora che è successo...»

«Be’, non te ne puoi andare», dichiarò lui, con lo stesso tono pacato con cui avrebbe potuto annunciare le previsioni del tempo: Si prevedono piogge in serata. Con una sicurezza che sfidava chiunque intendesse contraddirlo.

«Neanche io voglio andarmene», dissi, massaggiandogli le spalle per attenuare la tensione. «Però non dipende da me.»

«È la tua vita», ribatté lui.«No, non proprio. Diciamo che somiglia più a un leasing.»«Allora bisogna rinegoziare i termini.»«E come? Non è che si possa risolvere tutto con una telefonata.»«Fammici pensare.»Dovevo ammettere che la sua determinazione era notevole, tipicamente umana. M’insinuai

sotto il suo braccio. «Per stasera, non parliamone più», suggerii. Non volevo rovinare quel momento discutendo di cose che non avevamo il potere di cambiare. Per ora, mi bastava che volesse ancora stare con me e che fosse pronto ad affrontare i poteri celesti. «Adesso stiamo insieme e dimentichiamo il futuro. D’accordo?»

Quando premetti le labbra sulle sue, lui ricambiò il bacio. La tensione parve scivolare via e ci lasciammo ricadere sulla sabbia. I profili dei nostri corpi sembravano adattarsi alla perfezione. Le sue braccia mi cingevano la vita, mentre io gli passavo le dita fra i capelli morbidi e gli accarezzavo il viso. Non avevo mai baciato nessuno prima di lui, ma era come se un’estranea avesse preso possesso del mio corpo, un’estranea che sapeva esattamente quello che faceva. Chinai il capo per baciarlo lungo la mascella, fino alla base del collo e lungo la clavicola. Per un attimo, lui trattenne il fiato. Poi mi prese il viso tra le mani e mi accarezzò i capelli, spostandoli dietro le orecchie.

Non so per quanto tempo restammo così, allacciati sulla sabbia, stretti in un abbraccio oppure intenti a guardare la luna e le scogliere sopra di noi. A un certo punto, però, mi accorsi era molto più tardi di quanto pensassi. Mi alzai in fretta, spazzolandomi via la sabbia dai vestiti e dalla pelle. «Devo tornare a casa.»

Guardai Xavier sdraiato sulla sabbia, coi capelli castani arruffati e con un vago sorriso sulle labbra: era così affascinante che stavo per cambiare idea. Ma riuscii a ricompormi.

«Ehi, Beth», disse lui, alzandosi. «Forse dovresti... coprirti.»Improvvisamente rammentai che le mie ali erano ancora in bella vista e che la mia T-shirt

era tutta strappata. «Oh, giusto, grazie!» Mi lanciò la sua felpa e me la infilai. Mi stava troppo grande – arrivava quasi a metà coscia –, però era calda, comoda e aveva il suo profumo.

Ci salutammo e io corsi verso casa, accompagnata dalla sensazione che Xavier fosse ancora accanto a me. Sapevo che quella notte avrei dormito con la sua felpa, affidando quel profumo alla memoria.

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Quando raggiunsi il cortile posteriore, mi passai in fretta le dita fra i capelli e cercai di darmi una sistemata ai vestiti, per dare l’impressione di essere appena tornata da un’innocente passeggiata con gli amici e non da un incontro romantico sulla spiaggia al chiaro di luna. Poi mi lasciai cadere sulla pesante altalena di legno, che scricchiolò sotto il mio peso. Appoggiai la guancia contro la corda ruvida, avvolta al ramo nodoso della quercia, e guardai verso casa. Le luci del soggiorno erano accese: Ivy stava sferruzzando un paio di guanti e Gabriel strimpellava la chitarra. Guardandoli, mi sentii avviluppare dai freddi tentacoli della colpa.

La luce azzurrognola che inondava il giardino rivelava i resti di una statua che spuntava dall’erba alta. Raffigurava un angelo austero, con lo sguardo rivolto al Cielo e con le mani giunte sul petto in segno di devozione. Gabriel pensava che fosse un’opera di pessima qualità, quasi offensiva; secondo Ivy, invece, comunicava una certa dolcezza. Quanto a me, mi era sempre sembrata un po’ inquietante. Non sapevo se fosse a causa della luce lunare o se fosse uno scherzo della mia immaginazione però, fissando la statua, mi parve che sollevasse un dito accusatorio.

Quell’illusione durò pochissimo, quanto bastava perché saltassi giù dall’altalena, mandandola a sbattere contro il tronco con un colpo secco. Prima di poter guardare meglio la statua, fui distratta dal rumore delle portefinestre che si aprivano. Ivy si affacciò sulla veranda. La luce della luna sembrava filtrare attraverso la sua pelle translucida, mettendo in evidenza le vene delle braccia.

«Bethany, sei tu?» chiamò con la sua voce dolcissima e piena di fiducia. Poi mi vide, seminascosta dall’albero. «Cosa ci fai lì fuori? Vieni dentro.»

Sebbene avessi una gran paura, non potei che obbedire.Tutto, in casa, aveva un’aria rassicurante: la luce gialla della lampada che si rifletteva sul

parquet; il materassino di Phantom, segnato dalle sue impronte, accanto al divano; la selezione di libri d’arte e di riviste d’arredamento che Ivy aveva sistemato con cura sul tavolino...

Gabriel alzò lo sguardo. «Bella serata?» chiese con un sorriso.Provai a restituirgli il sorriso, però i muscoli del mio viso sembravano paralizzati. Era come

se il peso di quello che avevo fatto mi gravasse addosso, diventando un’onda che mi travolgeva e mi spingeva sott’acqua, togliendomi il respiro. Quand’ero con Xavier, era facile dimenticare che avevo un altro ruolo nel mondo, che la mia fedeltà andava a qualcun altro.

Non ero pentita di aver rivelato la verità a Xavier, tuttavia odiavo i sotterfugi, soprattutto se coinvolgevano la mia famiglia. Come avrebbero reagito se avessero scoperto cos’avevo fatto? Sarei riuscita a fargli capire il motivo che mi aveva spinto a comportarmi così? Senza contare che le autorità del Regno avrebbero potuto decidere d’interrompere all’istante la missione, chiedendo il mio rientro immediato. Avrei dovuto lasciare la Terra, allontanandomi da quella persona che per me significava tutto.

Gabriel di certo si accorse che avevo una felpa non mia, tuttavia evitò di fare commenti. Una parte di me avrebbe voluto confessargli tutto lì, su due piedi, però mi costrinsi al silenzio. Mi scusai per il ritardo, dissi che ero stanca e rifiutai la cioccolata e i biscotti che Ivy aveva preparato quel pomeriggio.

Arrivata ai piedi delle scale, Gabriel mi chiamò e io aspettai che mi raggiungesse. Il cuore mi batteva all’impazzata. Mio fratello era un ottimo osservatore, perciò aveva senza dubbio notato il mio comportamento strano. Mi aspettavo che mi scrutasse, mi facesse chissà quali domande o mi accusasse di qualcosa, invece si limitò a posarmi una mano sulla guancia. Sentii il freddo dei suoi anelli e poi il calore di un bacio sulla fronte. Quella sera, il suo bellissimo viso sembrava più rilassato. Dalla coda di cavallo erano sfuggiti alcuni ciuffi di capelli biondi e gli occhi color della pioggia avevano perso un po’ della loro severità. «Sono orgoglioso di te, Bethany», mormorò. «In poco tempo hai fatto grandi progressi e stai imparando a decidere per il meglio. Porta Phantom di sopra. La tua assenza l’ha agitato.»

Faticai parecchio a trattenere le lacrime.Però, una volta in camera, stesa sul letto accanto a Phantom, le lasciai sgorgare liberamente.

Pareva che le menzogne mi strisciassero dentro, come serpenti che mi avvolgevano nelle loro spire, privando i polmoni d’aria e serrando il cuore. Oltre alla colpa devastante, che m’invadeva come un

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veleno, avvertivo anche una paura terribile. Al mio risveglio sarei stata ancora sulla Terra? Non lo sapevo. Avrei voluto pregare, ma non ci riuscivo. Mi vergognavo troppo per parlare con Nostro Padre. Custodivo quel segreto solo da poche ore e già mi sentivo distrutta.

Insieme con la colpa e con la vergogna, provai un moto di rabbia al pensiero di non poter decidere del mio destino. Era stato Xavier a mettermi in testa quell’idea. Qualcun altro avrebbe deciso il destino della nostra relazione, e la cosa peggiore era che non sapevo quando sarebbe successo. Ignoravo la data di scadenza della mia vita sulla Terra. E se non fossi neanche riuscita a dirgli addio? Benché mi sentissi fredda come il ghiaccio, scostai le coperte. Non potevo neppure immaginare un’esistenza senza Xavier. E non volevo immaginarla.

Diverse ore dopo, i miei pensieri erano ancora in tumulto, e l’unico risultato era che il mio cuscino era inzuppato di lacrime. Mi assopivo e mi ridestavo in continuazione. Aprivo gli occhi di colpo e mi rizzavo a sedere nel letto scrutando nell’oscurità alla ricerca di un segno che annunciasse l’imminente castigo. A me la vendetta, sono io che ricambierò, dice il Signore... All’ennesimo risveglio, scorsi una figura incappucciata che sembrava giunta lì per punirmi... poi scoprii che era la mia giacca appesa accanto alla porta. A quel punto, ebbi paura di chiudere gli occhi, come se farlo mi rendesse più vulnerabile. In realtà, se fossero venuti a prendermi, essere sveglia o addormentata non avrebbe fatto la minima differenza. Sarei stata in loro potere comunque.

Al mattino, ero emotivamente distrutta. E, guardandomi nello specchio del bagno, mentre mi lavavo il viso, mi resi conto che pure il mio aspetto era disastroso. Il mio viso – già pallido di suo – era terreo e le occhiaie scure erano ancora più pronunciate. Sembravo davvero un angelo caduto.

Quando trovai la cucina deserta e la tavola non apparecchiata, capii subito che qualcosa non andava. Non era mai successo che Gabriel non fosse pronto ad accogliermi con la colazione già pronta. Gli avevo detto e ridetto che potevo prepararmela da sola ma, come un padre amorevole, insisteva che per lui quello era un piacere. Cercai di convincermi che non era niente, che si trattava di un caso. Aprii il frigo per versarmi un bicchiere di succo d’arancia, però le mani mi tremavano tanto che finii per rovesciarne buona parte sul bancone. Lo asciugai con un tovagliolo di carta, cercando di controllare la paura che mi serrava la gola.

Avvertii la presenza di Ivy e di Gabriel ancor prima di vederli o di sentirli. Erano sulla soglia, uniti in una condanna silenziosa, i volti immobili e privi di espressione. Non c’era bisogno che parlassero. Loro sapevano. Era stato il mio nervosismo a tradirmi? Avrei dovuto aspettarmi una reazione, eppure quel silenzio bruciava come uno schiaffo in pieno viso. Avrei voluto correre ad affondare il viso nella camicia di Gabriel, chiedendogli perdono. Avrei voluto sentire le sue braccia che mi stringevano. Invece da lui non avrei ricevuto nessun conforto. Gli angeli sono considerati creature infinitamente amorevoli e misericordiose, ma io sapevo che nascondevano un lato inflessibile e implacabile. Il perdono era riservato agli umani. A loro si offriva sempre una via d’uscita. Tendevamo a considerarli alla stregua di bambini, di «povere creature» che non sapevano quello che facevano. Da me ci si aspettava molto di più. Io non ero umana, ero una di loro. Non avevo scuse.

Nel silenzio, si udivano solo il gocciolio del rubinetto della cucina e il mio respiro spezzato. Avrei preferito che mi avessero aggredito, rimproverato, persino cacciato... qualunque cosa sarebbe stata preferibile a quel silenzio assordante.

«So cosa state pensando, ma dovevo dirglielo!» sbottai.Il viso di Ivy era una maschera d’orrore. Quello di Gabriel sembrava di pietra.«Mi dispiace», continuai. «Non posso controllare quello che provo per lui. Xavier è tutto per

me.»Silenzio.«Vi prego, dite qualcosa», li implorai. «Adesso che succederà? Saremo richiamati in

Paradiso, vero? Non lo rivedrò mai più!» Scoppiai in singhiozzi e mi aggrappai al bordo del lavandino.

Nessuno dei due si precipitò a consolarmi.Non li biasimavo.Fu Gabriel a rompere il silenzio. Mi rivolse uno sguardo d’acciaio e, con voce piena di

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rabbia, disse: «Hai una vaga idea di quello che hai fatto? Ti rendi conto del pericolo in cui ci hai messo?»

Fuori si levò un vento feroce, che prese a scuotere i vetri delle finestre. Un bicchiere sul lavandino andò in mille pezzi. Ivy posò le mani sulle spalle di Gabriel: quel tocco lo fece tornare in sé e lui si lasciò guidare fino al tavolo, dove si sedette, girandomi la schiena. Stava cercando di controllare la rabbia. Che fine aveva fatto la sua infinita pazienza?

«Ti prego», dissi, con un sospiro. «So che non è una scusa, però...»«Non dirlo!» Ivy si girò di scatto verso di me, con un’espressione ammonitrice in volto.

«Non dire che lo ami.»«Vuoi che dica una bugia? Ci ho provato a non sentirmi così, ci ho provato davvero, ma lui

non è come gli altri umani. Lui è diverso... lui capisce.»«’Capisce’?» C’era un tremolio nella voce di Gabriel. Avevo sempre creduto che nulla

potesse turbare la sua compostezza. «Nel corso della storia, solo un pugno di mortali è arrivato vicino a comprendere il divino. E tu mi stai dicendo che il tuo compagno di scuola è uno di loro?»

Indietreggiai. Gabriel non aveva mai assunto quel tono. «Che posso farci?» Quasi gridai, mentre le lacrime scendevano sul mio viso. «Io lo amo.»

«Può darsi. Ma il tuo amore è inutile», sibilò Gabriel. «È tuo dovere mostrare comprensione e compassione per tutta l’umanità, quindi l’attaccamento esclusivo per quel ragazzo è sbagliato. Venite da mondi diversi. È una relazione impossibile. E, facendo così, hai messo in pericolo la tua vita e la sua.»

«La sua?» ripetei, spaventata.«Calmati, Gabriel», mormorò Ivy. «Ormai il problema c’è e va affrontato.»«Io devo sapere cosa sta per succedere!» Gridai davvero, stavolta. «Ci richiameranno nel

Regno? Per favore, ho diritto di saperlo.»Detestavo farmi vedere in quello stato, così disperata, incapace di controllarmi ma, se

volevo evitare che tutto il mio mondo andasse in pezzi, dovevo stare con Xavier.«Credo che tu abbia rinunciato a qualsiasi diritto», dichiarò Gabriel. «Adesso resta solo una

cosa da fare.»«Quale?» chiesi, cercando di non sembrare isterica.«Devo consultarmi con l’Alleanza.»Si riferiva alla schiera di Arcangeli chiamati a intervenire solo nelle situazioni più

spaventose. Erano i più saggi e potenti della nostra specie, secondi solo al Nostro Creatore. Ovviamente Gabriel aveva bisogno di rinforzi.

«Spiegherai loro com’è andata?» domandai.«Non ce n’è bisogno», rispose lui. «Lo sapranno già.»«E dopo?»«Emetteranno il loro verdetto e noi dovremo obbedire.»Senza aggiungere altro, Gabriel uscì dalla cucina e, qualche istante più tardi, sentimmo il

portone che si richiudeva dietro di lui.

L’attesa fu un vero tormento. Ivy preparò una camomilla e si sedette con me in soggiorno, ma sembrava che una nuvola nera fosse calata su entrambe. Eravamo nella stessa stanza eppure un oceano ci divideva. Persino Phantom pareva a disagio; probabilmente aveva compreso che qualcosa non andava e aveva nascosto il muso nel mio grembo. Cercai di non pensare che rischiavo di non vedere mai più neanche lui.

Non sapevamo dove fosse andato Gabriel; secondo Ivy, era qualche luogo isolato dove avrebbe potuto comunicare con gli Arcangeli senza interferenze umane. Era un po’ come col Wi-Fi: una volta trovato il posto adatto, meno persone c’erano in giro e migliore risultava la connessione.

Non ne sapevo granché degli altri sei Arcangeli della schiera di Gabriel. Li conoscevo solo di fama. Mi chiedevo se qualcuno di loro sarebbe stato sensibile alla mia causa.

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Michael era il leader, il Principe della Luce, l’angelo della virtù, dell’onestà e della salvezza. A differenza degli altri, era l’unico a ricoprire anche il ruolo di Angelo della Morte. Raphael era conosciuto come la «Medicina di Dio» perché era un guaritore. Il suo compito era vigilare sul benessere fisico dei suoi assistiti sulla Terra. Si diceva che fosse il più affabile degli Arcangeli. Uriel era chiamato il «Fuoco di Dio» perché era l’angelo del castigo, chiamato a distruggere Sodoma e Gomorra. Il compito di Raguel era sorvegliare gli altri della schiera e assicurarsi che agissero in armonia con le regole che il Signore aveva stabilito. L’angelo del sole, Zerachiel, vigilava costantemente sul Cielo e sulla Terra. Il ruolo di Ramiel era sovrintendere alle visioni divine elargite ai prescelti sulla Terra. Era anche suo dovere condurre le anime in giudizio quando arrivava il loro momento.

E poi naturalmente c’era Gabriel, l’Eroe di Dio, il comandante in capo del Regno: si diceva infatti che sedesse alla sinistra del Padre. Tuttavia, mentre gli altri Arcangeli erano figure remote, per me Gabriel era un fratello, un protettore e un amico. Gli umani parlavano spesso della forza dei legami di sangue. E a me sembrava di avere un vero e proprio legame di sangue con Gabe e Ivy, nel senso che condividevamo lo stesso spirito. Un legame che speravo di non aver spezzato.

«Secondo te, cosa diranno?» chiesi a Ivy per la quinta volta.Lei si lasciò sfuggire un sospiro. «Sinceramente non saprei, Bethany.» La sua voce

sembrava lontana. «Le istruzioni erano precise: non dovevamo esporci. Nessuno si aspettava che tale regola venisse violata, quindi non si è mai parlato delle conseguenze.»

«Mi odierai», dissi con un filo di voce.Lei si voltò a guardarmi. «Non posso fingere di capire cosa ti sia passato per la testa. Ma

resti pur sempre mia sorella.»«So che non ci sono giustificazioni per quello che ho fatto.»«Ti sei incarnata in un modo diverso da noi. Hai tanta passione dentro. Per noi, Xavier è

come ogni altro umano; per te, è qualcosa di completamente diverso.»«Per me è tutto.»«Resta una follia.»«Lo so.»«Mettere una persona al centro del proprio mondo può solo portare al disastro. Ci sono

troppi fattori incontrollabili.»«Lo so», ripetei con un sospiro.«C’è qualche possibilità che i tuoi sentimenti cambino? O è fuori discussione?»Scossi la testa. «È troppo tardi.»«Lo temevo.»«Perché sono così diversa? Perché ho questi sentimenti? Tu e Gabriel sapete controllare

quello che provate. Io no.»«Sei giovane», mormorò Ivy.«Non è questo.» Intrecciai le mani in grembo. «Dev’esserci qualcos’altro.»«Sì, è vero. Sei più umana di qualunque angelo io abbia mai conosciuto. Ti sei fortemente

identificata con la Terra. Gabriel e io abbiamo nostalgia di casa; questo posto ci è estraneo. Tu invece ci stai bene. È come se fossi nata e cresciuta qui.»

«Perché?»Lei scosse la testa. «Non lo so.»Colsi un lampo di malinconia sul suo viso e mi chiesi se lei provasse anche solo il vago

desiderio di comprendere il mio amore smisurato per Xavier. «Credi che Gabriel potrà mai perdonarmi?»

«Lui vive su un altro piano dell’essere», mi spiegò. «Non è abituato agli errori. È come se i tuoi errori fossero i suoi. Lo considera un fallimento suo, non tuo. Capisci?»

Annuii.I secondi passavano con lentezza e i minuti diventavano ore. La mia paura aumentava e

calava a intervalli regolari, come la marea. Se mi avessero rimandato nel Regno, sapevo che sarei rimasta con Ivy e Gabriel, ma anche sola, a rimpiangere per il resto dell’eternità quello che avevo

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avuto sulla Terra. Sempre che mi fosse permesso di tornarci, nel Regno. Il Nostro Creatore, per quanto misericordioso e amorevole, non reagiva bene alle sfide. C’era la possibilità che venissi scomunicata. Rifiutai d’immaginare come fosse l’Inferno. Sulla Terra, erano in molti a non credere alla sua esistenza: non avevano idea di quanto si sbagliassero. Io avevo semplicemente ascoltato alcuni racconti, però mi erano bastati. Si diceva che i peccatori venissero appesi per le palpebre, bruciati, torturati, fatti a pezzi e poi ricomposti. Si diceva che puzzasse di carne abbrustolita e di capelli bruciati e che scorressero fiumi di sangue. Stentavo a crederci, tuttavia il semplice pensiero mi dava i brividi. Gabriel sapeva molto di più, ma gli era proibito parlarne.

D’un tratto, sentii sbattere la porta d’ingresso. Sobbalzai e il cuore prese a martellarmi in petto. Un momento dopo, Gabriel era davanti a noi. Incrociò le braccia sul petto e ci fissò. La sua espressione era imperscrutabile, come al solito. Ivy si alzò per andare accanto a lui, ma non sembrava impaziente di ascoltare il verdetto.

«Cosa è stato deciso?» sbottai, incapace di sopportare l’attesa.«L’Alleanza si rammarica di aver raccomandato Bethany per la missione», disse Gabriel,

rivolgendomi uno sguardo tagliente. «Ci si aspettava di più da un angelo del suo grado.»Cominciai a tremare. Eccoci. Era finita. Me ne sarei tornata da dove venivo. Valutai la

possibilità di una fuga, ma sapevo che era inutile. Non c’era angolo della Terra in cui potessi nascondermi. Mi alzai, chinai il capo e mi avviai verso le scale.

Gabriel socchiuse le palpebre. «Dove credi di andare?»«Mi preparo alla partenza», risposi, cercando di guardarlo negli occhi.«Per andare dove?»«A casa.»«Tu non andrai a casa, Bethany. Nessuno di noi ci andrà. Non mi hai lasciato finire. C’è

molto disappunto per le tue azioni, ma il suggerimento dell’Alleanza di concludere la tua missione non è stato accolto.»

Alzai la testa. «Non è stato accolto da chi?»«Da un potere superiore.»Mi aggrappai selvaggiamente a quel briciolo di speranza. «Vuoi dire che restiamo? Che non

mi manderanno via?»«È stato investito molto in questa missione, troppo per sprecarlo a causa di un imprevisto.

Quindi la risposta è sì, restiamo.»«E Xavier?» chiesi. «Ho il permesso di vederlo?»Gabriel sembrò infastidito, come se quell’argomento fosse del tutto irrilevante. «Hai il

permesso di continuare a vederlo finché restiamo qui. Visto che ormai conosce la nostra identità, proibirti d’incontrarlo farebbe più male che bene.»

«Oh, grazie!»«La decisione non è stata mia», sibilò Gabriel. «Quindi non merito ringraziamenti.»Su tutti noi scese un penoso silenzio. Fui io a trovare il coraggio per romperlo. «Ti prego,

Gabriel, non essere arrabbiato con me. Avresti tutte le ragioni per esserlo, ma cerca di capire che non l’ho fatto apposta.»

«Il tuo punto di vista non m’interessa. Adesso che hai il tuo ’ragazzo’, considerati soddisfatta.»

Un attimo dopo, avvertii il tocco rassicurante di Ivy sulle mie spalle. Il mio umore era passato dalla disperazione alla gioia. Il fatto che saremmo rimasti sulla Terra contava più di qualsiasi cosa potesse dire Gabriel.

«Devo andare al supermercato», disse Ivy. «E mi serve una mano.»Mi limitai a guardare mio fratello.«Va’ con Ivy», disse lui in tono più affabile. «Stasera saremo in quattro a cena.»

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16 Legami familiari

Quando Gabriel dichiarò che Xavier avrebbe avuto l’onore di essere il nostro primo ospite a cena, m’insospettii. Non potevo fare a meno di chiedermi il motivo dell’invito. Fino a quel momento, nei confronti di Xavier, Gabriel aveva manifestato solo disprezzo e indifferenza.

«Perché lo vuoi invitare?» chiesi.«Perché no? Ormai sa di noi, quindi non c’è nulla di male. E poi ci sono alcune regole

basilari che dobbiamo mettere in chiaro.»«Per esempio?»«Tanto per cominciare, l’importanza della riservatezza.»«Tu non conosci Xavier. È come me, non va in giro a spiattellare segreti...» Non appena

quelle parole mi furono uscite di bocca, mi resi conto dell’ironia.«Detto così, non ispira molta fiducia», ribatté Gabriel.«Non temere, Bethany, vogliamo solo conoscerlo», intervenne Ivy, dandomi una pacca

affettuosa sul braccio. Poi scoccò a Gabriel uno sguardo tagliente. «Desideriamo che si senta a suo agio. Se dobbiamo fidarci di lui, anche lui deve potersi fidare di noi.»

«E se stasera fosse già impegnato?»«Se non glielo chiedi, non lo sapremo mai», rispose Gabriel.«Non ho più nemmeno il suo numero di telefono.»Gabriel andò ad aprire il mobile dell’ingresso e tornò con l’elenco telefonico, che posò sul

tavolo senza tante cerimonie. «Sono sicuro che qui c’è», disse, cupo.Era chiaro che Gabriel non si sarebbe lasciato convincere a cambiare idea, così mi trascinai

di sopra per telefonare a Xavier. Il mio unico segno di protesta fu pestare sugli scalini più rumorosamente che potevo. Non avevo mai parlato con nessuno di casa sua, e mi rispose una voce femminile.

«Pronto? Sono Claire.»In realtà, avevo sperato che non rispondesse nessuno. Se c’era una cosa che volevo

risparmiare a Xavier era proprio una serata con la mia bizzarra famigliola. Pensai addirittura di riattaccare e dire a Gabriel che il telefono aveva squillato a vuoto, ma c’era un piccolo particolare: si sarebbe accorto che mentivo e mi avrebbe fatto richiamare. O, peggio ancora, avrebbe insistito per telefonare lui stesso.

«Buongiorno, sono Bethany Church», dissi, in tono così pacato che quasi non mi riconoscevo. «Posso parlare con Xavier?»

«Certo», rispose Claire. «Te lo chiamo subito.» Appoggiò il ricevitore con un rumore secco e lo chiamò a gran voce: «Xavier! Telefono!» Sentii le voci di alcuni bambini che litigavano e un rumore di passi.

«Pronto, sono Xavier.»«Ciao, sono io.»«Ciao, io. Tutto bene?»«Be’, dipende dai punti di vista.»«Beth, cos’è successo?» chiese in tono serissimo.«La mia famiglia sa che te l’ho detto. E non c’è stato bisogno di confessarlo.»«Cavolo, di già? Come l’hanno presa?»«Non troppo bene. Ma poi Gabriel si è consultato con l’Alleanza e...»«Scusa... con chi?»«È un centro di potere che... Uffa, è troppo complicato da spiegare. Comunque viene

consultata ogni volta che qualcosa va, ehm, storto.»«Ho capito... E allora?»

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«E allora... niente.»«Cioè?»«Hanno detto che per il momento andiamo avanti così.»«E noi? Che ne sarà di noi?»«A quanto pare, posso continuare a vederti.»«È una buona notizia, no?»«Credo di sì, ma non ne sono sicura. Senti, Xavier, Gabriel si sta comportando in modo

strano. Insomma, stasera ti vuole invitare a cena da noi.»«Be’, mi sembra un buon segno.»Non condividevo quell’ottimismo. Rimasi in silenzio.«Su, Beth, rilassati. Credo di potercela fare.»«Non so se riuscirò a farcela io.»«Ce la faremo insieme. A che ora devo venire?»«Alle sette va bene?»«Perfetto. A dopo.»«Xavier...» dissi, mordicchiandomi un’unghia. «Sono preoccupata. È rischioso, molto

rischioso. E se dovesse andar male? E se ha delle brutte notizie? Credi che abbia brutte notizie?»«No, non credo. Smettila di preoccuparti. Ti prego, fallo per me.»«Va bene, scusami. È solo che la nostra relazione sembra appesa a un filo e ho come la

sensazione che questa cena potrebbe anche spezzarlo. Finora sono stati tolleranti, però... Inoltre non capisco perché Gabriel...»

«Accidenti!» gemette Xavier. «Adesso sì che sono preoccupato!»«Non puoi! Tu sei quello forte!»Lui rise. Capii che aveva scherzato, che in realtà era tranquillissimo. «Devi solo rilassarti.

Fatti un bagno caldo o beviti un goccetto.»«Va bene.»«Era una battuta, eh? Sappiamo bene che non reggi l’alcol.»«Sembra che questa cosa non ti preoccupi.»«Infatti. Ma senti un po’, non dovresti essere tu, quella perennemente serena? Ti fai troppi

film. Davvero, andrà tutto bene. Guarda, per fare buona impressione mi metterò in tiro.»«No, no! Vieni come sei!» lo implorai, ma lui aveva già riattaccato.

Arrivò puntualissimo, in gessato grigio chiaro e cravatta di seta rossa. Aveva fatto qualcosa ai capelli: invece di ricadergli sulla fronte, erano ordinatamente pettinati all’indietro. Aveva anche portato un mazzo di rose gialle, avvolte nel cellophane verde e legate con la rafia. Quando aprii la porta, rimasi sbalordita e la mia espressione gli strappò un sorriso.

«Ho sbracato?» chiese.«No, sei perfetto!» dissi, sinceramente compiaciuta per il suo sforzo. Ma subito mi

rannuvolai.«Allora perché sembri così terrorizzata?» Mi strizzò l’occhio, rassicurante. «Vedrai che mi

adoreranno.»«Però non fare battute, non le capiscono.» Ero nervosa. Mi tremavano le ginocchia.«Va bene... niente battute. Vuoi che mi offra per recitare la preghiera prima del pasto?»A quel punto, non riuscii più a trattenermi e ridacchiai.Avrei dovuto comportarmi da perfetta padrona di casa e accompagnarlo in soggiorno; invece

indugiammo sulla porta come due cospiratori. Non sapevo cosa ci avrebbe riservato la cena, e il mio istinto mi suggeriva di ritardarne l’inizio il più possibile. Senza contare che, in quel momento, riuscivo solo a pensare che Xavier era mio e che ci appartenevamo a vicenda. Forse era troppo elegante per una cena in famiglia, però con quelle spalle larghe, con gli insondabili occhi turchesi e coi capelli ravviati all’indietro faceva proprio colpo. Lui era il mio principe azzurro. Sapevo di

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poter contare su di lui, anche se la serata avesse preso una brutta piega.Ovviamente Ivy lo accolse con estrema cortesia. Ringraziò per i fiori, chiacchierò del più e

del meno e si prodigò per far sentire Xavier a suo agio. La severità non le si addiceva: non appena si rendeva conto che una persona era sincera, si ammorbidiva. E Xavier era sincero, su quello non c’erano dubbi. Era stata proprio quella sincerità a renderlo immensamente popolare a scuola e a fargli ottenere la carica di rappresentante degli studenti. Gabriel, invece, continuava a osservarlo con diffidenza.

Ivy si era pure occupata del menu. Aveva preparato una zuppa aromatica di patate e porri, seguita da trota al forno con verdure arrostite. Per dolce, ci sarebbe stata la crème brulé: l’avevo vista in frigo. Ivy aveva spedito Gabriel a comprare la mini fiamma ossidrica da cucina per caramellare lo zucchero di copertura. Aveva poi apparecchiato la tavola con posate d’argento e con bellissimi piatti di fine porcellana. Il vino nel decanter era profumato e, nella caraffa di cristallo, c’era acqua frizzante.

Le candele sul tavolo illuminavano i nostri volti. La cena cominciò in silenzio: la tensione era palpabile. Ivy spostava lo sguardo da me a Xavier e sorrideva troppo, mentre Gabriel tagliava il cibo con particolare vigore, come se le patate nel piatto fossero la testa di Xavier.

«È tutto buonissimo», disse infine Xavier con le guance arrossate dal vino. Si allentò la cravatta.

«Grazie.» Ivy era raggiante. «Non avevo idea di cosa ti piacesse.»«Ah, io mangio di tutto. Però questa è stata una cena di prima classe», commentò Xavier,

guadagnandosi un altro sorriso di mia sorella.Da parte mia, stavo ancora cercando di capire lo scopo di quella cena. Gabriel doveva aver

progettato qualcosa. Cercava di capire che tipo era Xavier? Ancora non si fidava di lui? Non lo sapevo, anche perché Gabriel aveva parlato pochissimo.

Alla fine, persino Ivy non seppe più cosa dire e la conversazione si spense. Xavier fissava il suo piatto, come se le verdure potessero rivelargli il significato dei misteri dell’universo. Cercai di toccare il piede di Ivy sotto il tavolo, nella speranza che parlasse di qualcosa; invece colpii lo stinco di Xavier. Lui sobbalzò, rischiando di rovesciare il bicchiere. Ritrassi il piede con un sorriso di scusa.

«Allora, Xavier...» disse Ivy, posando la forchetta, benché il suo piatto fosse ancora quasi pieno. «Quali sono i tuoi interessi?»

Xavier deglutì. «Ehm... i soliti...» Si schiarì la gola. «Sport, scuola, musica.»«Che sport pratichi?» chiese Ivy, con aria un po’ troppo interessata.«Pallanuoto, canottaggio, rugby, baseball e calcio», snocciolò in fretta lui.«Ed è anche bravo», aggiunsi. «Dovreste vederlo giocare. In realtà, è capitano della squadra

di pallanuoto. Ed è anche rappresentante degli studenti... ma questo lo sapete già.»«Da quanto tempo abiti a Venus Cove?» riprese Ivy.«Da sempre.»«Hai fratelli o sorelle?»«Sì, siamo in sei.»«Deve essere divertente far parte di una famiglia così grande.»«A volte sì», concordò Xavier. «Altre volte è solo rumorosa, e non c’è mai molta privacy.»Rivelando una sorprendente mancanza di tatto, Gabriel scelse proprio quel momento per

inserirsi nella conversazione. «A proposito di privacy, ho l’impressione che di recente tu abbia fatto una scoperta interessante, vero?»

«Non la definirei ’interessante’», replicò Xavier, senza lasciarsi cogliere alla sprovvista.«Ah, no? E come la definiresti?»«Mah, forse ’pazzesca’, ecco.»«A ogni buon conto, ci sono alcune cose che dobbiamo chiarire.»«Non lo dirò a nessuno, se è questo che vi preoccupa. Voglio proteggere Beth proprio come

voi.»«Bethany ha un’altissima opinione di te», mormorò Gabriel. «Spero che il suo affetto sia

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ben riposto.»«Beth è molto importante per me e io intendo prendermi cura di lei.»«Da dove veniamo noi, le persone non vengono giudicate per le loro parole», commentò

Gabriel.Xavier non si scompose. «Allora dovrete aspettare e giudicarmi per le mie azioni.»Guardai Gabriel e capii che era sorpreso dal modo in cui Xavier affrontava la situazione.

Non si era lasciato intimidire ed era stato schietto sino in fondo. Neppure Gabriel avrebbe potuto negarlo.

«Siamo comunque uniti da un elemento di vitale importanza», continuò Xavier. «Tutti noi amiamo Beth.»

Nella stanza scese un silenzio di piombo. Gabriel e Ivy non si erano aspettati una dichiarazione del genere e di certo ne erano rimasti sorpresi. Forse avevano sottovalutato la forza dei suoi sentimenti. Persino io faticavo a credere che avesse pronunciato quelle parole. Mi sforzai di mantenere la calma e di continuare a mangiare, però non riuscii a trattenere un sorriso mentre sfioravo una mano di Xavier, appoggiata sul tavolo. Gabriel allora distolse subito lo sguardo, ma io non mi lasciai impressionare e, per tutta risposta, strinsi la mano di Xavier. La parola «amore» mi rimbombava in testa come se fosse uscita da un gigantesco altoparlante. Lui mi amava. A Xavier Woods non importava che fossi pallida come un fantasma, che non conoscessi bene il suo mondo e che avessi le ali. Lui mi voleva comunque. Lui mi amava. Ero così felice che avrei potuto fluttuare a mezz’aria.

«In tal caso, possiamo passare al secondo punto del programma della serata», disse Gabriel, stranamente imbarazzato. «Bethany ha la tendenza a cacciarsi nei guai e, al momento, solo noi siamo riusciti a impedirglielo. Almeno fino a un certo punto.»

M’irritava che parlasse di me in terza persona, come se non fossi lì, ma pensai che non fosse il caso d’interromperlo.

«Se intendi passare molto tempo con lei, dobbiamo avere la certezza che puoi proteggerla», continuò Gabriel.

«Non l’ha già dimostrato?» chiesi, impaziente. Non vedevo l’ora che quella cena finisse. «Mi ha salvato alla festa di Molly e, quando mi sono trovata in sua compagnia, non mi è mai successo niente di male.»

«Bethany non ha ancora capito come va il mondo», proseguì Gabriel, ignorando la mia interruzione. «Ha ancora molto da imparare e questo la rende vulnerabile.»

«Devi proprio farmi passare per una poppante che ha bisogno della baby-sitter?» sbottai.«Si dà il caso che io abbia una certa esperienza come baby-sitter», scherzò Xavier. «Se vuoi,

posso mostrarti il mio curriculum.»Ivy nascose un sorriso dietro il tovagliolo, ma Gabriel rimase impassibile.«Sei sicuro di sapere in cosa ti stai cacciando?» chiese Ivy a Xavier, guardandolo dritto negli

occhi.«No», ammise lui. «Ma sono pronto a scoprirlo.»«Una volta che ti sarai alleato con noi, non potrai più tornare indietro.»«Ehi, non è mica una guerra», esclamai.M’ignorarono tutti.«Capisco», mormorò Xavier, sostenendo lo sguardo di Ivy.«Non credo», disse Gabriel a bassa voce. «A poco a poco, tuttavia, capirai.»«C’è altro che dovrei sapere?» chiese Xavier.«Tutto a suo tempo», dichiarò Gabriel.

Alla fine, rimasi sola con Xavier. Era seduto sul bordo della vasca mentre io mi lavavo i denti, come facevo dopo ogni pasto. Ormai era diventato un’abitudine.

«Non è andata poi così male», borbottò. «Credevo peggio.»

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«Vuoi dire che non ti hanno fatto venir voglia di scappare?»«Naa... Tuo fratello è un po’ aggressivo, ma la cucina di tua sorella compensa

abbondantemente il resto.»Risi. «Non preoccuparti di Gabe. Lui è sempre così.»«Non mi spaventa. Anzi mi ricorda un po’ mia madre.»«Questo non dirglielo», ridacchiai.Prese un tubetto di eyeliner dal ripiano. «Credevo che non ti truccassi...» commentò.«L’ho comprato per far felice Molly», spiegai, rovistando alla ricerca del collutorio. «Sono

diventata la sua cavia.»«Ah, sì? Be’, si dà il caso che a me piaci così come sei.»«Grazie. Forse servirebbe a te una ritoccatina», sogghignai, brandendo l’eyeliner.«Non credo proprio. Scordatelo.»«Perché no?» Finsi di mettere il broncio.«Perché sono un maschio. E i maschi non si truccano, a meno che non siano degli emo o

suonino in una boy band.»«Dai, ti prego!» scherzai.Gli occhi gli brillarono, maliziosi. «Va bene...»«Davvero?» m’illuminai.«No! Non sono mica così fesso!»«Bene», dichiarai. «Allora mi accontenterò di farti profumare come una ragazza...»Afferrai un flaconcino di profumo e, prima che riuscisse a fermarmi, glielo spruzzai sul

petto. Incuriosito, si annusò la T-shirt. «Muschio, con accenti fruttati», sentenziò.Scoppiai a ridere. «Sei ridicolo!»«Vuoi dire irresistibile.»«Sì», concordai. «Ridicolmente irresistibile.»Mi sporsi per baciarlo, ma in quell’istante bussarono alla porta. Ivy infilò la testa nella

stanza e noi due ci separammo di scatto.«Tuo fratello mi ha mandato a controllarvi», disse, inarcando un sopracciglio. «Per essere

sicuri che non stiate facendo niente di male.»«In effetti stavamo...» cominciai.«... uscendo», tagliò corto Xavier.Aprii la bocca per ribattere, ma lui mi lanciò un’occhiataccia. «È casa loro, si gioca secondo

le loro regole», mormorò. Mentre mi spingeva fuori dal bagno, mi accorsi che Ivy lo guardava con profondo rispetto.

Andammo a sederci sull’altalena, abbracciati. Xavier si alzò per arrotolarsi le maniche della camicia e per lanciare la vecchia pallina da tennis di Phantom. Lui la riportava sempre, però rifiutava di mollarla e bisognava strappargliela di bocca a forza, fradicia di saliva. Xavier prese lo slancio per gettarla di nuovo e poi si asciugò la mano nell’erba. Aspirai il suo profumo fresco. Riuscivo solo a pensare che eravamo usciti dalla nostra prima prova relativamente indenni. Xavier aveva tenuto fede al suo impegno e non si era lasciato intimidire. Non solo lo ammiravo più che mai, ma mi godevo pure la sensazione di averlo in casa come ospite legittimo, anziché da intruso.

«Potrei starmene qui tutta la sera», mormorai sul suo petto.«Sai cosa c’è di strano?»«Cosa?»«Che sembra tutto così normale...» mormorò, attorcigliando una ciocca dei miei capelli.In quel gesto, io vidi riflesso l’intrecciarsi delle nostre vite.«Quando ha detto che non si può tornare indietro, Ivy ci è andata giù pesante», dissi.«Non c’è problema, Beth. Non voglio che la mia vita torni a essere quella di prima. Credevo

di avere tutto; in realtà, mi mancava qualcosa. Adesso mi sento un altro. Potrò sembrarti sdolcinato,

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però è come se avessi dormito a lungo e tu mi avessi appena svegliato...» Sussultò. «Non riesco a credere di aver detto una cosa del genere. Ma che mi hai fatto?»

Decisi di prenderlo in giro. «Ti sto trasformando in un poeta.»«Io, un poeta?» ruggì Xavier, fingendo di arrabbiarsi. «La poesia è roba da femmine.»«Sei stato grande, prima. Sono così fiera di come ti sei comportato.»«Grazie. Chissà, magari tra qualche decennio comincerò a piacere davvero ai tuoi.»«Magari avessimo tutto quel tempo», sospirai. Mi pentii subito di quelle parole. Mi sarei

presa a calci per essere stata così stupida: non c’era modo migliore di rovinare l’atmosfera.Xavier era così silenzioso che mi chiesi se mi avesse udito. Poi sentii le sue dita sotto il mio

mento. Mi sollevò il viso, costringendomi a guardarlo negli occhi. Si chinò e mi diede un tenero bacio, che mi lasciò un sapore dolce sulle labbra. Poi mi sussurrò all’orecchio: «Troveremo un modo. È una promessa».

«Non ti rendi conto. È diverso...»«Beth.» Mi posò un dito sulle labbra. «Non infrango mai una promessa.»«Ma...»«Niente ’ma’. Fidati di me.»

Xavier se ne andò dopo mezzanotte, ma nessuno di noi aveva voglia di andare a letto. Che Gabriel fosse insonne si sapeva. Non era strano che lui e Ivy restassero alzati fino alle prime ore del giorno. Ma stavolta eravamo tutti e tre ben svegli. Ivy suggerì di bere qualcosa di caldo e stava già per tirar fuori il latte dal frigo quando Gabriel la fermò.

«Ho un’idea migliore. Penso che ci meritiamo tutti un po’ di relax.»Ivy e io capimmo subito cosa intendeva e non nascondemmo il nostro entusiasmo.«Intendi adesso?» chiese Ivy, mentre il cartone del latte quasi le scivolava di mano.«Ma certo, adesso. Però sbrighiamoci. Tra qualche ora farà giorno.»Ivy si lasciò sfuggire un gridolino. «Dacci solo un attimo per cambiarci! Arriviamo subito!»Anch’io faticavo a trattenermi. Non c’era modo migliore per manifestare la mia felicità per

come si erano messe le cose con Xavier. Era passato troppo tempo da quando avevo potuto davvero spiegare le ali. La mia esibizione dalla scogliera non contava. Anzi era servita solo a ricordarmi com’erano rigide e rattrappite le mie ali. Avevo cercato di distenderle e di fluttuare in camera mia con le tende ben chiuse, ma ero riuscita solo a urtare il ventilatore da soffitto e a sbattere con le gambe contro i mobili. Mentre m’infilavo una T-shirt, mi sentii invadere da un flusso di adrenalina. Quel volo antelucano volevo proprio godermelo. Tornai di sotto, poi tutti e tre salimmo in silenzio sulla jeep nera parcheggiata in garage.

Viaggiare a quell’ora sulla strada costiera, che si srotolava come un nastro, era un’esperienza nuova. Il profumo dei pini era pungente e il mare sembrava un mantello di velluto. Lungo le strade residenziali, le imposte erano chiuse e le strade erano completamente deserte, come se gli abitanti se ne fossero andati all’improvviso. Non avevo mai visto Venus Cove addormentata. Ero abituata a scorgere persone ovunque: che si spostavano in bici, che mangiavano patatine sul molo, che si facevano infilare perline tra i capelli o che compravano bigiotteria dall’artista locale che, ogni weekend, montava la sua bancarella sul marciapiede... A quell’ora, invece, Gabriel, Ivy e io avremmo potuto essere gli unici esseri viventi sulla Terra. La gente si riferiva a quel momento come alle «ore piccole»; in realtà erano ore fantastiche, in cui la natura rivelava tutta la sua grandezza e si poteva facilmente entrare in contatto coi poteri superiori.

Gabriel proseguì sulla strada principale per circa un’ora e poi svoltò in un viottolo fra le sterpaglie, che sembrava inerpicarsi fino al cielo come un cavatappi. Sapevo dove ci trovavamo. Gabriel stava puntando verso la White Mountain, chiamata così per via della neve che talvolta la incappucciava, benché sorgesse in prossimità della costa. Il suo profilo si vedeva anche da Venus Cove: un monolito grigio pallido che si stagliava contro il cielo trapunto di stelle.

Ben presto fummo avvolti dalla nebbia, che s’infittiva a mano a mano che salivamo. A un

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certo punto, Gabriel parcheggiò e noi scendemmo dall’auto. Eravamo su una strada in salita, stretta e tortuosa; gli abeti, dritti come soldati, ci circondavano, nascondendo quasi del tutto il cielo. Le cime degli alberi erano imperlate di rugiada e, nell’aria fredda, il nostro respiro si condensava in nuvolette bianche. Il terreno era coperto da uno strato fradicio di foglie e di pezzi di corteccia che attutiva il rumore dei nostri passi. Lasciammo il sentiero, inoltrandoci nel fitto del bosco. Gli alberi frusciavano dolcemente e, ogni tanto, si sentiva uno zampettio. Ma non c’era da aver paura. La montagna era un posto tranquillo, dove nessuno ci avrebbe mai trovato.

Ivy fu la prima a sfilarsi la giacca. Rimase immobile davanti a noi, la schiena dritta e la testa rovesciata all’indietro, coi capelli chiari che le formavano una nuvola dorata attorno al viso e alle spalle. La sua figura sembrava scolpita nel marmo: era candida e priva di difetti, con le gambe e le braccia affusolate e flessuose come rami di un giovane albero.

«Ci vediamo lassù», disse, con l’entusiasmo di una bambina. Poi chiuse gli occhi, prese fiato e si lanciò in un’agile corsa tra gli alberi. Ben presto divenne una sagoma confusa. Poi, di colpo, s’innalzò nel cielo, con la stessa maestria di un cigno che prende il volo. Le sue ali esili ma potenti lacerarono la T-shirt: quand’erano immobili, parevano solide come la pietra ma, durante il volo, rilucevano come raso.

Cominciai a correre anch’io, sentendo le ali che pulsavano e che fremevano per liberarsi dalla gabbia dei vestiti. Non appena furono libere, presero a palpitare più velocemente e io mi sollevai per raggiungere Ivy. Volammo insieme per un po’, salendo per poi scendere in picchiata e planare fino a posare i piedi sui rami di un albero. Da lì guardammo Gabriel, raggianti. Ivy si lasciò scivolare dolcemente dall’albero, con le ali che frenavano la caduta, e toccò terra con un sospiro di piacere.

«Cosa aspetti?» gridò a Gabriel, prima d’innalzarsi di nuovo e sparire in una nuvola.Gabriel non faceva mai niente di corsa. Si spogliò metodicamente, si tolse le scarpe e

ripiegò pantaloni e T-shirt. Soltanto allora spiegò le ali in tutta la loro ampiezza. Il distinto insegnante di musica sparì, cedendo il passo al maestoso guerriero celeste, all’angelo che da solo, eoni prima, aveva ridotto in cenere un’intera città. Risplendeva come ottone brunito. Perfino il suo modo di volare era diverso: più lento e strutturato, meditativo.

Superate le cime degli alberi, fui avvolta da nebbia e nuvole. Le goccioline d’acqua mi si raccoglievano sulla schiena e avvertivo il loro morso freddo e tonificante. Battevo furiosamente le ali per sollevarmi sempre di più. Dimenticai ogni pensiero e mi abbandonai al volo, lasciando che il mio corpo volteggiasse e frullasse. Finalmente potevo liberare quell’energia troppo a lungo trattenuta. Vidi Gabriel che si librava a mezz’aria, immobile, per accertarsi che non avessi perso il controllo. Ogni tanto scorgevo anche Ivy, un lampo d’ambra tra la nebbia.

Per quasi tutto il volo, limitammo i nostri contatti al minimo. Quel tempo ci serviva per sentirci di nuovo completi, per godere della libertà che si sperimentava davvero solo nel Regno dei Cieli. La nostra unicità era inesprimibile col linguaggio; quando tornavamo alla nostra vera forma, la componente umana arretrava e spariva.

Volammo così per un paio d’ore. Poi Gabriel emise un basso mormorio melodico, come la nota di un oboe: era il segnale di discesa.

Risalendo sulla jeep, ero convinta che non sarei mai riuscita a addormentarmi, una volta a casa. Ero troppo felice. Avrei impiegato ore per ridiscendere da quelle altezze. Mi sbagliavo. Il viaggio di ritorno lungo la strada serpeggiante fu così tranquillo che mi addormentai, raggomitolata come un gattino sul sedile posteriore, molto prima di arrivare a Byron Street.

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17 La quiete prima della tempesta

Dopo la cena con la mia famiglia, il rapporto con Xavier cambiò. Ci sentivamo autorizzati a esprimere i nostri sentimenti senza timori e cominciammo a pensare e ad agire in sincrono: un’unica entità in due corpi distinti. Per quanto ci sforzassimo di non isolarci dal resto del mondo, talvolta non riuscivamo proprio a evitarlo. Cercavamo addirittura di riservare tempo per gli altri in orari prestabiliti, ma i minuti sembravano dilatarsi e ci sentivamo così a disagio che, nel giro di un’ora, eravamo di nuovo insieme.

A pranzo, avevamo preso l’abitudine di sederci a un tavolo in fondo alla sala mensa. Ogni tanto passava un ragazzo per fare una battuta o chiedergli qualche dettaglio sulla gara di canottaggio, ma era difficile che provasse a unirsi a noi o accennasse alla nostra relazione. Al contrario: tutti si tenevano a rispettosa distanza. Magari qualcuno sospettava che nascondessimo qualche segreto, ma era abbastanza educato da non ficcare il naso.

«Usciamo da qui», disse Xavier, raccogliendo i libri.«Devi prima finire la tua tesina.»«L’ho finita.»«Hai scritto tre righe.»«Tre righe attentamente ponderate», puntualizzò lui. «La qualità vince sulla quantità,

ricordi?»«È che non vorrei diventare un problema per te. Non voglio essere io a distrarti dai tuoi

obiettivi.»«Per quello è un po’ tardi», scherzò lui. «Hai una pessima influenza su di me.»«Come osi?» lo stuzzicai. «È impossibile che io abbia un’influenza negativa.»«Davvero? E perché?»«Perché sono la bontà fatta persona. Non potrei avere un cattivo influsso nemmeno se lo

volessi!»Xavier rifletté. «Mmm... Bisognerà trovare un rimedio.»«Qualunque cosa pur di non fare i compiti, eh?»«In realtà, per raggiungere i miei obiettivi avrò il resto della vita. Chissà invece quanto

tempo mi resta con te.»Non appena ebbe pronunciato quelle parole, il tono della conversazione perse ogni

leggerezza. Di solito, cercavamo di evitare l’argomento: era soltanto fonte di ansia, come tutto ciò che non si poteva controllare.

«Non pensiamoci», mormorai.«E come faccio? Non è una cosa che ti tiene sveglia la notte?»Non mi piaceva la piega che stava prendendo quel dialogo. «Certo. Ma perché rovinare il

tempo che ci resta da trascorrere insieme?»«Dobbiamo fare qualcosa», esclamò lui, stizzito. Ma la sua rabbia non era rivolta a me, e

ben presto diventò tristezza. «Dobbiamo almeno provarci.»«Non possiamo fare niente. Non credo che tu ti renda conto con cos’hai a che fare. Non puoi

competere con le forze dell’universo!»«Ma che fine ha fatto il libero arbitrio? O erano tutte balle?»«Non dimenticare che io non sono come te, e che quella regola per me non vale.»«Forse dovrebbe.»«Forse... Ma a cosa pensi? A una petizione?»«Non fa ridere, Beth.» Mi fissò negli occhi. «Vuoi davvero tornare a casa?»Non si riferiva a Byron Street. «Non posso credere che tu mi chieda una cosa del genere.»«Allora perché la cosa non ti preoccupa tanto quanto preoccupa me?»«Pensi che esiterei, se sapessi che c’è anche un solo modo per restare?» Alzai la voce.

«Credi che voglia lasciare spontaneamente quello cui tengo di più?»

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Xavier distolse lo sguardo e serrò le labbra. «Loro, chiunque essi siano, non dovrebbero controllare la nostra vita. Non ho intenzione di perderti. Ci sono già passato e farò qualsiasi cosa perché non succeda di nuovo.»

«Xavier...»Mi posò un dito sulle labbra. «Rispondi solo a una domanda. Se decidessimo di lottare, che

possibilità avremmo?»«Non lo so!»«Ma esistono alternative, qualcuno cui chiedere aiuto, qualcosa che possiamo fare?»Non l’avevo mai visto tanto inquieto: Xavier era sempre così calmo e rilassato...«Beth, devo saperlo! C’è una speranza? Anche piccola?»«Forse. Ma ho paura di scoprirla.»«Anch’io, ma non possiamo rinunciare. Dobbiamo avere fede.»«Anche se fosse inutile?»«L’hai detto tu: c’è una speranza.» Xavier intrecciò le sue dita con le mie. «Non ci serve

altro.»

Nelle ultime settimane, mi ero sentita un po’ in colpa per essermi allontanata da Molly, anche se lei si era ormai rassegnata a vedermi solo se Xavier era impegnato. Probabilmente ce l’aveva con lui perché monopolizzava il mio tempo, ma sapeva bene che l’amicizia passava in secondo piano di fronte a una relazione, soprattutto se era intensa come la nostra. Di certo, però, lei non considerava Xavier un amico.

Un pomeriggio, Xavier e io stavamo andando in città quando, appartati all’ombra di una quercia lungo la strada, scorsi Ivy con un ragazzo dell’ultimo anno. Lui aveva un cappello da baseball messo al contrario, le maniche della camicia arrotolate a mostrare le braccia muscolose e un sorrisetto allusivo stampato in faccia. Non avevo mai visto mia sorella così a disagio. Una mano stringeva convulsamente la borsa della spesa, mentre con l’altra Ivy si scostava i capelli dal viso, evidentemente nervosa e alla ricerca di un modo per svignarsela.

Con una gomitata, richiamai l’attenzione di Xavier. «Che sta succedendo?»«A quanto pare, Chris Bucknall ha trovato il coraggio di chiederle di uscire.»«Lo conosci?»«Giochiamo a pallanuoto insieme.»«Non credo che sia il tipo di Ivy.»«Direi proprio di no», commentò Xavier. «È un verme.»«Che possiamo fare?»«Ehi, Bucknall», lo chiamò lui. «Posso dirti due parole?»«Non ora. Sono impegnato», rispose il ragazzo.«Lo sai che l’allenatore vuole tutti nel suo ufficio, stasera, dopo la partita?»«Ah, sì? E perché?» chiese Chris senza voltarsi.«Per le selezioni della prossima stagione. Chi non si presenterà, sarà automaticamente

scartato. Almeno così mi hanno detto.»Chris cambiò espressione. «Devo andare», disse a Ivy. «Ma non temere, bellezza, ti ribecco

dopo.»Mentre il ragazzo si allontanava, Ivy scoccò a Xavier un sorriso di gratitudine.

Sembrava che Gabriel e Ivy avessero accettato Xavier. Lui non cercava d’imporsi, ma era diventato una presenza fissa in casa. Cominciai a sospettare che, in realtà, a loro facesse piacere averlo attorno: in primo luogo, perché si fidavano di lui per tenermi d’occhio, e poi perché sapeva rendersi utile. Gabriel si era accorto delle strane occhiate dei suoi studenti quando non aveva saputo

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accendere il lettore DVD, e Ivy intendeva promuovere il suo programma di servizi sociali attraverso la newsletter della scuola. Allora avevano chiesto aiuto a Xavier. Nonostante tutte le loro conoscenze, la tecnologia era un campo minato. A malincuore, Gabriel si era persino fatto insegnare come spedire le e-mail ai suoi colleghi della Bryce Hamilton e come usare un iPod. Talvolta sembrava che Xavier parlasse un’altra lingua, con termini misteriosi come «bluetooth», «gigabyte» e «Wi-Fi». Se fosse stato un altro, non gli avrei prestato la minima attenzione, ma amavo il suono della sua voce, quale che fosse l’argomento. Avrei potuto trascorrere ore a guardare come si muoveva e ad ascoltare come parlava, per poter affidare tutto alla memoria.

Oltre a essere il nostro angelo della tecnologia, Xavier aveva preso sul serio l’incarico di farmi da «guardia del corpo»: dovetti ricordargli più volte che non ero fatta di vetro e che, prima di mettermi con lui, ero riuscita a cavarmela abbastanza bene. Tuttavia lui era deciso a mantenere la parola data a Gabriel e a Ivy, anche per dimostrare loro quanto fosse affidabile. Era lui che mi ricordava di bere molta acqua e che sviava le domande sulla mia famiglia dei compagni troppo curiosi.

Un giorno, Mr Collins mi chiese perché non avessi finito i compiti. «Beth ha molti impegni in questo periodo», rispose Xavier. «Consegnerà tutto entro la fine della settimana.» E sapevo che, se me ne fossi scordata, l’avrebbe finito lui al mio posto, consegnandolo senza che io neppure lo sapessi.

In più, se qualcuno che gli stava antipatico si avvicinava a me, lui diventava estremamente protettivo.

«No», rispose, dopo che Tom Snooks mi aveva proposto di aggregarmi a lui e ai suoi amici, quel pomeriggio.

«Perché no?» chiesi, contrariata. «Sembrava simpatico.»«Non fa per te.»«Perché?»«Fai troppe domande, lo sai?»«Sì. E adesso dimmi perché.»«Be’, perché lui passa un sacco di tempo con la ganja.»Lo guardai, perplessa.«Fuma un sacco di Maria.» Capì che non ci arrivavo e alzò gli occhi al cielo. «Oh, talvolta

sei proprio stupefacente.»Se non fosse stato per lui, la mia vita alla Bryce Hamilton sarebbe stata molto più difficile.

Avevo la tendenza a cacciarmi in situazioni complicate. I guai sembravano cercarmi anche quando facevo del mio meglio per evitarli, come il giorno in cui stavo attraversando il parcheggio per andare alla lezione d’inglese.

«Ehi, tesoro!»Mi girai e vidi uno spilungone dell’ultimo anno, biondastro e brufoloso. Era nel mio corso di

biologia, ma non si presentava quasi mai. L’avevo visto fumare di nascosto dietro i cassonetti e fare sgommate con la sua auto. Insieme con lui c’erano sempre tre ragazzi dall’aria poco raccomandabile.

«Ciao», dissi, nervosa.«Credo che non ci abbiano mai presentati come si deve.» Sorrise. «Io sono Kirk.»«Piacere.» Evitai il suo sguardo. Mi metteva a disagio.«Te l’ha mai detto nessuno che hai un bel davanzale?»I ragazzi dietro di lui ridacchiarono.«Scusa?»«Vorrei conoscerti meglio, non so se mi spiego.» Kirk si avvicinò di un passo. Arretrai

subito. «Non essere timida, tesoro.»«Devo andare a lezione.»«Sicura di non potermi dedicare qualche minuto?» Mi guardò, malizioso. «Facciamo una

cosetta veloce.» Mi afferrò per la spalla.«Non toccarmi!»

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«Ehi, una ragazza combattiva!» Kirk rise e strinse la presa.«Levale le mani di dosso.»Sospirai di sollievo quando Xavier gli si parò davanti, alto e rassicurante. D’istinto mi

accostai a lui, confortata dalla sua presenza. Si era scostato i capelli dal viso e le sue palpebre erano socchiuse.

«Non parlavo con te», disse Kirk, abbassando la mano. «Non sono affari tuoi.»«I suoi affari sono anche affari miei.»«Credi di farmi paura?»«Tu prova a toccarla e vedrai.»«Vogliamo vedere?»«Dipende da te.» Xavier si tolse la giacca e si arrotolò le maniche. La cravatta era allentata

e, nell’incavo della gola, vidi brillare il crocifisso. Il tessuto della camicia si tendeva sui muscoli delle braccia e del petto. Era decisamente più robusto di Kirk, che lo valutò con un rapido sguardo.

«Lascia stare, dai», gli consigliò uno degli amici. Poi, abbassando la voce, aggiunse: «È Xavier Woods».

«Come vuoi.» Kirk sputò in terra, mi guardò storto e se ne andò.Xavier mi mise un braccio attorno alle spalle e io mi strinsi a lui, respirando il suo buon

odore. «Certa gente dovrebbe proprio imparare le buone maniere», disse.Lo fissai. «Ti saresti davvero battuto per me?»«Certo.»«Ma erano in quattro.»«Beth, per te affronterei pure Megatron.»«Chi?»Xavier scosse la testa e rise. «Lasciamo perdere... Diciamo che quei quattro bulletti non mi

fanno paura.»

Forse Xavier non capiva molto di angeli, però conosceva bene le persone. Sapeva assai meglio di me cosa volessero e riusciva perciò a capire di chi fidarsi e chi invece tenere a distanza. Ivy e Gabriel erano ancora preoccupati per le possibili conseguenze della nostra relazione, ma Xavier mi sosteneva con un’energia e con una fiducia che mi rendevano ogni giorno più forte e più sicura. Anche se non comprendeva sino in fondo la natura del nostro lavoro sulla Terra, era pienamente consapevole di non dovermi distrarre dalla mia missione. Nel contempo, era quasi ossessionato dalla mia salute e si occupava persino dei dettagli più insignificanti.

«Non devi preoccuparti per me», gli ricordai un giorno, in sala mensa. «Nonostante quello che pensa Gabriel, so badare a me stessa.»

«Sto solo facendo il mio lavoro. Oggi hai mangiato?»«Non ho fame. Le colazioni di Gabriel sono sempre abbondanti.»«Tieni, mangia questa.» Mi porse una barretta proteica. Era un atleta, e ne aveva sempre

qualcuna di scorta. Stando all’etichetta, quella roba conteneva anacardi, cocco, albicocche e semi.«Non posso mangiarlo, c’è dentro del mangime per uccelli!»«Sono semi di sesamo e sono molto energetici. Non voglio che t’indebolisci.»«E perché dovrei?»«Perché potresti avere un calo di zuccheri. Mangia e non discutere.»Era meglio obbedire. «Va bene, mamma», dissi, mordendo la barretta. «E comunque sa di

cartone.» Mi appoggiai alle sue braccia forti e abbronzate, come sempre confortata dalla sua forza.«Hai sonno?»«Phantom ha russato tutta la notte, ma non ho avuto il coraggio di buttarlo fuori.»Xavier sospirò e mi accarezzò i capelli. «Talvolta sei troppo buona. Guarda che mi sono

accorto che hai preso solo un morso. Adesso finiscila.»«Xavier, dai, potrebbero sentirti!»

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Afferrò la barretta e la fece oscillare in aria. «Facciamo il gioco dell’aeroplanino?»«Quale aeroplanino?»«È un trucco usato dalle madri per convincere i bambini testardi a mangiare.»Risi e lui approfittò dell’occasione per infilarmi la barretta in bocca.A Xavier piaceva raccontare storie sulla sua famiglia, e a me piaceva ascoltarle. Di

qualunque cosa parlasse, mi lasciavo coinvolgere. Negli ultimi tempi, accennava spesso all’imminente matrimonio della sorella maggiore. Ogni tanto lo interrompevo per chiedergli qualcosa, avida di dettagli che lui aveva omesso. Di che colore sarebbero stati i vestiti delle damigelle? Come si chiamava il cuginetto reclutato per portare gli anelli? Ci sarebbe stato un DJ o un quartetto d’archi? Le scarpe della sposa sarebbero state di raso bianco? Ogni volta che non sapeva la risposta, mi prometteva che si sarebbe informato.

Mentre mangiavo, Xavier mi raccontò che, al momento, la madre e la sorella stavano discutendo sul luogo in cui celebrare il matrimonio. A Claire piaceva il giardino botanico, mentre la madre sosteneva che era troppo «primitivo». La famiglia frequentava la chiesa di Saint Mark, quindi Mrs Woods voleva che il matrimonio si celebrasse lì. Durante l’ultimo battibecco, aveva minacciato di non partecipare alla cerimonia, se non fosse stata celebrata nella casa di Dio. Secondo lei, i voti scambiati in un luogo non consacrato non erano validi. Alla fine, si era raggiunto un compromesso: la cerimonia si sarebbe tenuta in chiesa e il ricevimento avrebbe avuto luogo in un padiglione sulla spiaggia. Mentre mi raccontava quella storia, Xavier ridacchiava, divertito dalle stravaganze delle donne di famiglia. Non potevo fare a meno di pensare che sua madre sarebbe andata perfettamente d’accordo con Gabriel.

Talvolta mi sentivo esclusa da quella parte della vita di Xavier. Era come se lui avesse due esistenze distinte: la prima con la famiglia e con gli amici; la seconda con me.

«Pensi mai che siamo diversi?» gli chiesi, il mento appoggiato sulla mano, mentre cercavo d’interpretare la sua espressione.

«No, mai», rispose senza un attimo di esitazione. «E tu?»«Be’, so soltanto che tutto questo non era previsto. Qualcuno l’ha fatta grossa, lassù.»«Noi non siamo un errore», insistette Xavier.«Certo che no. Dico solo che siamo andati contro il destino. Non è certo questo che avevano

pianificato per noi.»«Sono contento che sia andata così. Tu no?»«Lo sono per me...»«Ma?»«Non voglio diventare un peso per te.»«Tu non sei un peso. A volte sei esasperante, però non sei mai un peso.»«Io non sono esasperante.»«Inoltre non sei un granché a giudicare le persone, compresa te stessa.»Gli arruffai i capelli. «Credi che potrei piacere alla tua famiglia?»«Certo. Di solito si fidano del mio giudizio.»«Sì, ma potrebbero pensare che sono strana.»«Non sono così esigenti! Perché non vieni a conoscerli, questo weekend? Volevo proprio

chiedertelo.»«Non saprei... Non mi trovo a mio agio con le persone nuove.»«Ma loro non sono nuovi. Io li conosco da sempre.»«Intendevo nuovi per me.»«Fanno parte della mia vita, Beth. Per me è importante che ti conoscano. E poi hanno sentito

parlare molto di te.»«Che cosa hai raccontato?»«Solo quanto sei buona.»«Mica tanto, altrimenti non ci troveremmo in questa situazione.»«Le ragazze perfettine non mi hanno mai attirato. Allora?»«Ci penserò.»

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Avevo sperato che me lo chiedesse e avrei voluto dirgli di sì, ma temevo di sentirmi fuori posto. Dopo quello che mi aveva raccontato della madre, avevo paura del suo giudizio.

Xavier me lo lesse in faccia. «Qual è il problema?»«Se tua madre è così religiosa, potrebbe riconoscere un angelo caduto.» Detta così,

sembrava una cosa molto stupida.«Tu non sei un angelo caduto. Perché butti sempre tutto sul melodrammatico?»«Rispetto a Gabriel e Ivy, io sono un angelo caduto.»«Be’, dubito che mia madre se ne accorga. Io ho dovuto affrontare la squadra di Dio,

ricordi? E non ho cercato di evitarla.»«Hai ragione.»«Allora è deciso. Vengo a prenderti sabato alle cinque. Sta per cominciare letteratura

inglese, ti accompagno.»Mentre prendevo i libri, un tuono echeggiò nella mensa e la luce del sole svanì. Il cielo si era

rannuvolato e minacciava pioggia. Quel meraviglioso clima primaverile non sarebbe durato ancora a lungo. E la stagione delle piogge poteva essere pesante, da quelle parti.

«Sta per piovere», osservò Xavier.«Ciao ciao, sole», gemetti.Non avevo ancora finito di parlare che già cadevano le prime gocce. In un attimo, la pioggia

diventò un muro d’acqua che si abbatté sul tetto della mensa. Gli studenti attraversarono di corsa il cortile, riparandosi con cartelle e zaini.

Due ragazzine rimasero fuori a inzupparsi, ridendo come sceme. Sarebbero arrivate in classe bagnate fradicie. Vidi Gabriel che si avviava verso l’aula di musica, l’espressione inquieta. Teneva l’ombrello inclinato per contrastare il vento.

«Andiamo?» disse Xavier.«Restiamo un attimo a guardare la pioggia. Tanto non succede granché a letteratura inglese,

in questo periodo.»«Sta parlando la Beth cattiva?»«La tua definizione di ’cattivo’ va decisamente rivista. Non posso passarla con te,

quest’ora?»«Così poi tuo fratello dà la colpa a me? Manco morto. Tra l’altro, ho sentito che c’è uno

studente nuovo, uno che viene da Londra. Credo che sia nella tua classe. Non sei curiosa?»«Non particolarmente. Tutto quello che mi serve è qui.» Feci scorrere il dito sul profilo

morbido della sua guancia.Xavier mi prese il dito e ne baciò la punta. «Senti, questo ragazzo potrebbe anche essere il

tuo tipo. Pare che lo abbiano già espulso da tre scuole. L’hanno mandato qui perché si dia una regolata. Suo padre è un pezzo grosso, o almeno così si dice. Adesso t’interessa?»

«Mah, forse un pochino.»«Bene, allora va’ e indaga.»«Va bene, però una coscienza che mi dà del filo da torcere ce l’ho già. Non me ne serve

un’altra.»«Ti amo anch’io, Beth.»

Di quel giorno, mi sarei ricordata la pioggia e il viso di Xavier. Il cambiamento del tempo avrebbe portato anche un cambiamento notevole nella nostra vita, un cambiamento che nessuno di noi aveva previsto. Fino ad allora, la mia permanenza sulla Terra era stata scandita da una serie di avvenimenti di poco conto e da angosce adolescenziali. Stavo per scoprire che tutto ciò era stato un gioco da bambini, rispetto a quello che ci aspettava. Suppongo che sia servito a insegnarci quali sono le cose davvero importanti nella vita. Non credo che avremmo potuto evitarlo. Faceva parte della nostra storia fin dall’inizio. Tutto era andato anche troppo liscio: era inevitabile imbatterci in un ostacolo, prima o poi. Solo che non ci aspettavamo un impatto così devastante.

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L’ostacolo arrivava dall’Inghilterra e aveva un nome: Jake Thorn.

18 Il Principe delle Tenebre

Anche se si trattava della mia materia preferita, non ero dell’umore adatto per la lezione di letteratura inglese. Volevo passare più tempo con Xavier: stare lontana da lui mi provocava una sofferenza fisica, come un crampo allo stomaco. Arrivati davanti all’aula, gli strinsi la mano e lo attirai verso di me. Non aveva importanza quanto tempo trascorrevamo insieme; a me non sembrava mai abbastanza.

«Qualche minuto di ritardo non farà differenza.»«Non ci provare.» Xavier mi aprì a forza le dita aggrappate alla manica della sua camicia.«Sei proprio un rompiscatole», brontolai.Ignorò il mio commento e mi mise i libri tra le braccia. Ultimamente non mi lasciava portare

niente. Ormai, agli occhi della gente, dovevo sembrare una ragazza pigra e viziata.«Sai, posso anche portarmele da sola, le mie cose. Non sono un’invalida.»«Lo so», replicò lui, col suo irresistibile sorriso. «Ma adoro servirti.»Prima che potesse impedirmelo, gli gettai le braccia al collo e lo trascinai in un angolo

riparato tra gli armadietti. Era colpa sua, che se ne stava lì coi capelli sugli occhi, con la camicia mezza fuori dai pantaloni e col braccialetto di cuoio sul polso abbronzato. Se non voleva farsi strapazzare, non avrebbe dovuto mettersi sulla mia strada.

Xavier lasciò cadere i suoi libri e mi restituì il bacio con passione, il corpo premuto contro il mio. I pochi ragazzi che si stavano affrettando a entrare in classe ci fissarono.

«C’è un motel qui vicino», sbottò qualcuno, ma io lo ignorai. In quel momento, spazio e tempo non esistevano: c’eravamo solo noi due, nella nostra dimensione privata. Non sapevo neanche dov’ero o chi ero. Non riuscivo a distinguere dove finivo io e dove cominciava lui, e questo mi fece pensare a Jane Eyre, quando Rochester dice a Jane di amarla come la sua stessa carne. Lo stesso identico modo in cui io sentivo di amare Xavier.

Poi lui si staccò. «Siete molto cattiva, Miss Church», disse, col respiro pesante e con un vago sorriso. «E io sono del tutto incapace di resistere al vostro fascino. A questo punto temo che siamo entrambi in ritardo per la lezione.»

Per mia fortuna, Miss Castle non era fissata con la puntualità. Non appena entrai, mi porse una cartelletta e io mi sedetti in prima fila.

«Salve, Beth. Stavamo parlando delle lezioni introduttive per il terzo trimestre. Ho deciso di affidarvi un compito di scrittura creativa, da svolgere con un compagno a scelta. Insieme, dovrete scrivere una poesia sull’amore, in preparazione allo studio dei grandi poeti romantici: Wordsworth, Shelley, Keats e Byron. Prima di cominciare, volevo chiedervi se qualcuno ha una poesia preferita che vorrebbe condividere con gli altri.»

«Ce l’ho io, Miss Castle», disse una voce dal fondo dell’aula.Mi girai per capire chi avesse parlato con quello spiccato accento inglese. Scese il silenzio.

Era il nuovo arrivato. Coraggioso, da parte sua, farsi avanti così, il primo giorno. Oppure aveva una smisurata opinione di sé.

«Grazie, Jake!» esclamò Miss Castle. «Vorresti venire alla cattedra e recitarla?»«Certo.»Il ragazzo che ci si parò davanti era diverso da come mi aspettavo. Qualcosa nel suo aspetto

mi fece sprofondare il cuore nello stomaco. Alto e snello, portava i capelli neri e lisci lunghi fino

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alle spalle. Il viso era scavato, con gli zigomi affilati; il naso era leggermente aquilino e, sotto le sopracciglia pronunciate, brillavano profondi occhi scuri.

Indossava jeans e T-shirt neri, e attorno all’avambraccio aveva tatuato un serpente. Sembrava se ne fregasse di non essere in divisa scolastica già il primo giorno. Anzi aveva l’atteggiamento spavaldo di chi si considera al di sopra delle regole. Che fosse bello non lo si poteva negare. Ma c’era di più. Grazia, eleganza, fascino, o qualcosa di più pericoloso?

Lo sguardo di Jake percorse la classe. Prima che potessi abbassare la testa, lui fissò i suoi occhi nei miei e mi sorrise.

«Annabel Lee, un poema di Edgar Allan Poe. Potrebbe interessarvi sapere che Poe, a ventisette anni, aveva sposato la cugina tredicenne, Virginia, che due anni dopo era morta di tubercolosi.»

La classe lo guardava, incantata. La sua voce, densa come sciroppo, risuonò nell’aula.

Molti e molti anni fa,in un regno in riva al mare,viveva una fanciulla che potete chiamarecon il nome di Annabel Lee;e questa fanciulla non aveva altro pensieroche d’amarmi ed essere amata da me.

Io ero un bimbo e lei una bimbain quel regno in riva al mare:ma ci amavamo d’un amore ch’era più che amore,io e la mia bella Annabel Lee;d’un amore che gli alati serafini del cieloinvidiavano a lei e a me.

Fu per questo che, molti e molti anni fa,in quel regno in riva al mare,un vento soffiò fuor d’una nube raggelandola mia bella Annabel Lee.Allora vennero i suoi nobili parenti,e lontano da me la vollero portare,per chiuderla dentro un sepolcroin quel regno in riva al mare.

Gli angeli, meno di noi felici in cielo,invidiavano lei e me...Sì! fu per questo (come tutti sannoin quel regno in riva al mare)che a notte un vento soffiò fuor d’una nuberaggelando e uccidendo la mia Annabel Lee.

Ma il nostro amore era ben più che l’amoredi tanti molto più vecchi di noidi tanti molto più saggi di noi...E né gli angeli in cielo lassù,né i demoni giù nel fondo del mare,la mia anima dall’anima suapotranno mai separare.

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Poi che mai splende la luna ch’io non sognila mia bella Annabel Lee,né mai si levano stelle ch’io non veda gli occhi lucentidella mia bella Annabel Lee;e così tutta la notte al fianco io giacciodel mio amore, mio amore, mia vita e mia sposa,nel suo sepolcro laggiù presso il mare,nella sua tomba presso la riva del mare.1

Quando Jake ebbe finito, notai che tutte le donne della classe, compresa Miss Castle, lo guardavano rapite, come se fosse arrivato il loro principe azzurro. In effetti, l’aveva recitata splendidamente. Era stato struggente, come se Annabel Lee fosse stata davvero l’amore della sua vita. A giudicare dalla loro espressione, alcune ragazze erano pronte a farsi sotto per consolarlo di quella perdita.

«Un’interpretazione molto toccante», sussurrò Miss Castle. «Ti terremo presente per la serata di Jazz & Poesia. Bene, spero che vi abbia ispirato qualche idea. Formate delle coppie e componete insieme la vostra poesia. Potete scegliere la forma metrica che preferite. Siete liberi: totale licenza poetica!»

Mentre tornava al suo posto, Jake si fermò davanti al mio banco. «Facciamo coppia?» mi sussurrò. «Ho sentito che pure tu sei nuova.»

«Ormai sono qui da un po’.»Lui interpretò la mia risposta come un assenso e scivolò subito sulla sedia accanto alla mia.

Si appoggiò allo schienale, e intrecciò le mani dietro la nuca. «Mi chiamo Jake Thorn», disse, tendendomi la mano. La buona educazione fatta persona.

«E io sono Bethany Church», risposi, allungando la mia.Invece di stringermela, lui la afferrò e se la portò alle labbra, in un ridicolo gesto di

galanteria. «Lieto di fare la tua conoscenza.»Per poco non mi misi a ridere. Dove credeva di essere, in un romanzo dell’Ottocento? E

avrei riso davvero, se non l’avessi guardato negli occhi. Erano verde scuro e sembravano bruciare, eppure il suo viso manteneva un’espressione annoiata. Era come se quel ragazzo sapesse del mondo molto più dei suoi coetanei. Mi stava studiando, quasi non volesse perdersi neppure un dettaglio. Al collo portava un ciondolo d’argento: una mezzaluna con strani simboli incisi.

Tamburellò le dita sul tavolo, noncurante. «Allora, qualche idea?»Lo fissai senza capire.«Per la poesia.»«Comincia tu. Io ci devo ancora pensare.»«D’accordo. C’è qualche metafora che preferisci? Foreste pluviali, arcobaleni o cose del

genere?» Chissà per quale motivo, scoppiò a ridere. «Confesso che ho una certa predilezione per i rettili.»

«Cosa vorresti dire?» chiesi, incuriosita.«Avere una predilezione nei confronti di qualcosa significa che quella cosa ti piace.»«So cosa significa ’predilezione’; ma perché i rettili?»«Hanno la pelle dura e il sangue freddo», ammiccò Jake.All’improvviso, si girò per annotare qualcosa su un pezzo di carta, lo appallottolò e lo lanciò

verso Alicia e Alexandra, le due dark sedute davanti a noi, chine a scribacchiare sui loro quaderni. Entrambe si guardarono attorno, irritate, ma l’irritazione scomparve non appena scoprirono chi era il mittente del biglietto.

Lessero rapidamente il messaggio e sussurrarono tra loro, eccitate. Alicia sbirciò Jake da sotto la pesante frangia e annuì, con un movimento quasi impercettibile.

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Jake le strizzò l’occhio e, apparentemente soddisfatto, si rimise comodo. «Allora, il tema è l’amore.»

«Come?» chiesi, come una stupida.«Per la poesia. Te ne sei dimenticata di nuovo?»«Ero solo distratta.»«Vorresti sapere cosa ho scritto a quelle due, vero?»«No», risposi. Troppo in fretta.«Sto solo cercando di farmi qualche amico», disse lui, con un’espressione improvvisamente

aperta e sincera. «Non è facile essere l’ultimo arrivato.»Provai un improvviso slancio di solidarietà. «Sono sicura che ci riuscirai in fretta. Con me

sono stati tutti molto carini. E, se ti dovesse servire una guida, sono qui.»Piegò le labbra in un sorriso. «Grazie, Bethany. Approfitterò sicuramente della tua offerta.»Per un po’ meditammo in silenzio, cercando di farci venire qualche idea, poi fu di nuovo

Jake a parlare. «Come ci si diverte, da queste parti?»«Più che altro, si va in giro con gli amici, in spiaggia, cose così.»«No, volevo dire cosa fai tu per divertirti?»«Ah.» Esitai. «Passo la maggior parte del tempo con la mia famiglia... e col mio ragazzo.»«Ah, c’è un ragazzo? Complimenti!» sorrise Jake. «Non mi sorprende. Per forza che ce

l’hai, carina come sei. Chi è il fortunato?»«Xavier Woods», dissi, imbarazzata per il complimento.«Ha intenzione di farsi prete, con un nome così?»Lo guardai male. «È un bellissimo nome. Significa ’splendente’. Non hai mai sentito parlare

di san Francesco Saverio?»Jake sogghignò. «Quello che è impazzito e se n’è andato a stare in una caverna?»«In realtà, ha scelto di vivere così, rinunciando ai beni materiali.»«Okay. Devo essermi sbagliato.»Mi sentivo a disagio.«Ti trovi bene qui?» mi chiese lui.«Venus Cove è un bel posto e la gente è simpatica. Ma forse tu la troverai noiosa.»«Non credo. Non se ci sono persone come te.»La campanella suonò e io raccolsi in fretta i libri, impaziente di rivedere Xavier.«A presto, Bethany», mi salutò Jake. «Forse la prossima volta saremo più produttivi.»Quando raggiunsi Xavier agli armadietti, mi sentii improvvisamente insicura. Ero turbata

senza sapere il perché e non desideravo altro che essere abbracciata. Non appena ebbe messo via i libri, mi strinsi a lui.

«Ehi, anche a me fa piacere rivederti. Tutto bene?»«Sì.» Affondai il viso nel suo petto e aspirai il suo profumo. «Mi sei mancato.»«Siamo stati lontani solo un’ora! Forza, usciamo.»Ci avviammo verso il parcheggio. Gabriel e Ivy gli avevano dato il permesso di

accompagnarmi a casa in macchina e la cosa, secondo lui, era molto positiva. La sua auto era parcheggiata al solito posto, all’ombra di alcune querce. Xavier mi aprì la portiera. Non osavo pensare a cosa sarebbe successo se avessi osato aprirla da sola. Chissà, forse temeva che si scardinasse e mi cadesse addosso, o che potessi slogarmi il polso per lo sforzo. Più probabilmente, però, dipendeva dal fatto che gli piaceva comportarsi da cavaliere.

Prima di mettere in moto, Xavier aspettò che avessi sistemato lo zaino sul sedile posteriore e allacciato la cintura di sicurezza. Gabriel gli aveva spiegato che, di noi tre, io ero l’unica soggetta al dolore e alle ferite. La mia forma umana non era invulnerabile. Xavier l’aveva preso molto sul serio e infatti uscì dal parcheggio a passo d’uomo.

Ma nemmeno la sua guida iperprudente poté evitare quello che successe. Mentre c’immettevamo nella strada principale, una scintillante motocicletta nera sbucò dal nulla e ci tagliò la strada. Xavier inchiodò e sterzò, evitando la collisione per un pelo. L’auto urtò il marciapiede, il contraccolpo mi scaraventò in avanti e la cintura mi trattenne dolorosamente contro il sedile. La

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moto sfrecciò via, rombando, in una nuvola di gas di scarico. Xavier rimase un attimo a fissarla, sbalordito, poi si voltò per assicurarsi che non mi fossi fatta male. «Chi diavolo era quell’imbecille? Ma hai visto come guidava? Se scopro chi è, gli infilzo la testa su un palo.»

«Difficile riconoscerlo, sotto il casco», dissi piano.«Non ci vorrà molto per scoprirlo. Non ce ne sono mica tante in giro, di Kawasaki Ninja

ZX-14.»«Come fai a sapere il modello?»«A noi maschietti piacciono le moto.»Durante il tragitto, Xavier lanciò occhiatacce alle auto che incrociavamo e ai loro

conducenti, come se temesse un altro incidente. Quando arrivò davanti a casa, si tranquillizzò.«Ho preparato la limonata», annunciò Ivy, aprendo la porta. «Perché non entri, Xavier? Puoi

fare i compiti con Bethany.»«No, grazie, ho qualche commissione da fare per mia madre», rispose lui, evasivo.«Gabriel non c’è.»«Ah... Allora mi fermo.»Sentite le voci, Phantom si precipitò fuori della cucina e venne a strofinarsi contro le nostre

gambe, in segno di saluto.«Prima i compiti, poi la passeggiata», dissi.Aprimmo i libri sul tavolo del soggiorno. Xavier doveva finire una relazione di psicologia;

invece io, per il corso di storia, avevo il compito di analizzare una vignetta politica: raffigurava re Luigi XVI accanto al trono, con l’aria molto compiaciuta. Dovevo spiegare il significato degli oggetti attorno a lui.

«Come si chiama quell’affare che tiene in mano?»«Sembra un attizzatoio», rispose Xavier.«Dubito che Luigi XVI accendesse il fuoco da solo. Secondo me, è uno scettro. E come si

chiama quella cosa che ha addosso?»«Un poncho?» suggerì lui.Alzai gli occhi al cielo. «Certo che sei proprio di grande aiuto.»In verità, non m’interessavano per niente né il compito né il voto che avrei preso. Le cose

che volevo imparare non erano scritte nei libri di testo; si acquisivano con l’esperienza e attraverso i contatti con gli altri. Ma Xavier era impegnato con la sua relazione e io non volevo distrarlo, così tornai a studiare la vignetta. La mia concentrazione svanì dopo qualche istante. «Se tu potessi cancellare una cosa che hai fatto in passato, quale sarebbe?» gli chiesi, mentre solleticavo il naso di Phantom con la piuma attaccata alla mia penna. Lui la prese tra i denti, convinto di aver catturato un animaletto peloso, e se ne andò tutto contento.

Xavier mi guardò, perplesso. «Secondo me, volevi chiedermi qual è la variabile indipendente nell’esperimento della prigione di Stanford.»

«Che noia...»«Mi spiace, ma uno di noi non gode dell’onniscienza divina.»Sospirai. «Ma come fa a interessarti questa roba?»«Infatti non m’interessa particolarmente, Beth, però non ho scelta. Devo andare al college e

poi trovarmi un lavoro, se voglio combinare qualcosa nella vita. È questa la realtà.» Rise. «Be’, forse non è la tua realtà, ma di sicuro è la mia.»

Non sapevo come replicare. L’idea di Xavier che invecchiava, che faceva lo stesso lavoro giorno dopo giorno per mantenere la famiglia mi fece quasi piangere. Desideravo che avesse una vita tranquilla e che la passasse con me. «Scusami.»

Lui spostò la sedia più vicino alla mia. «Non importa. Anch’io preferirei fare questo...» Si sporse per baciarmi i capelli, poi le sue labbra continuarono a muoversi fino a trovare il mento e, alla fine, la bocca. «Preferirei passare tutto il mio tempo a parlare con te, a stare con te, a scoprirti. Però, anche se mi sono ritrovato in questa incredibile situazione, non posso trascurare il resto. I miei genitori desiderano che io venga ammesso in un buon college.» Si accigliò. «Per loro è importante.»

«E per te?»

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«Suppongo di sì.»Annuii. Sapevo cosa significava assecondare le aspettative della propria famiglia. «Però

devi fare anche quello che ti rende felice.»«Per questo ho te.»«Come faccio a studiare se continui a dire cose del genere?»«Il mio repertorio è molto ampio.»«È così che passi il tuo tempo libero?»«Beccato. Non faccio altro che scrivere poesie per impressionare le donne.»«’Le donne’?»«Scusa, una donna», rettificò, mentre lo guardavo, torva. «Ma una donna che ne vale mille.»«Oh, piantala! Non te la caverai così facilmente.»«Com’è buona lei.» Xavier scosse la testa. «Così clemente e compassionevole.»«Non provarci.»Xavier chinò la testa. «Okay, chiedo perdono...»Mentre lui finiva la relazione, andai avanti con l’esercizio di storia. Gli restavano ancora

parecchi compiti da fare ma, a quanto pareva, io rappresentavo una distrazione troppo grossa. Era solo alla fine del terzo esercizio di trigonometria, quando sentii la sua mano solleticarmi la pancia. Gliela allontanai con una bottarella.

«Continua a studiare», gli dissi.Lui sorrise e scarabocchiò qualcosa su un foglio. Adesso la soluzione diceva:

Trova x se x [x] = 2sen3x, con 2π < x < 2πx = Beth

«Smettila di giocare!»«Non sto giocando, è la pura verità. Tu sei la mia soluzione a tutto. Il risultato finale sei

sempre tu: x è sempre uguale a Beth.»

19 Dai Woods

L’incontro di sabato con la famiglia di Xavier mi preoccupava. Mi aveva già invitato diverse volte e sarebbe stato impossibile rifiutare ancora senza essere maleducata. Senza contare che lui non avrebbe accettato un altro «no».

Non che non volessi conoscerli, però mi terrorizzava la loro possibile reazione.A scuola, esaurito il nervosismo da primo giorno, non mi ero mai preoccupata di come mi

vedessero i miei coetanei. Ma con la famiglia di Xavier era diverso: di loro m’importava eccome. Volevo che mi apprezzassero e che pensassero che avevo migliorato la vita di loro figlio. Per farla breve, desideravo la loro approvazione. Molly mi aveva parlato fino alla nausea del fatto che i suoi genitori non sopportavano Kyle, il suo ex, e gli avevano addirittura proibito di mettere piede in casa loro. Non mi aspettavo una cosa del genere, però, se non avessi fatto una buona impressione, temevo che potessero influenzare negativamente il nostro rapporto.

Quel sabato pomeriggio, Xavier arrivò puntualissimo, due minuti prima delle cinque. Lui

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abitava dalla parte opposta della città, a una decina di minuti d’auto. Fin dalla mattina, una miriade di pensieri pessimisti mi ronzava in testa. E se il mio pallore avesse fatto sospettare loro qualche malattia o una dipendenza dalla droga? E se avessero pensato che non ero all’altezza di Xavier e che lui meritava di meglio? E se, per sbaglio, avessi detto o fatto qualcosa d’imbarazzante, come succedeva spesso quand’ero nervosa? E se i suoi genitori – entrambi medici – si fossero accorti che in me c’era qualcosa di diverso? Non era quello il loro lavoro? E se Claire o Nicola avessero giudicato antiquato il mio modo di vestire? Be’, forse almeno su quel fronte potevo stare abbastanza tranquilla: Ivy mi aveva aiutato a scegliere un vestito blu scuro, coi bottoni color panna e col colletto tondo. Molly l’avrebbe definito un abito raffinato e con un tocco francese. Ma su tutto il resto gravava ancora un grosso punto interrogativo.

«Vuoi darti una calmata?» disse Xavier mentre mi passavo le dita tra i capelli e mi lisciavo il vestito. Era almeno la decima volta che lo facevo, da quand’eravamo usciti di casa. «Sono brave persone. Vanno in chiesa. Gli piacerai. E, se così non fosse, per quanto impossibile, non te lo faranno neppure capire. Ma sono sicuro che ti adoreranno, anzi già ti adorano.»

«Che vuoi dire?»«Non faccio che parlare di te e non vedono l’ora di conoscerti. Quindi smettila di

comportarti come se stessi per salire sul patibolo.»«Potresti anche mostrarti un po’ più comprensivo», replicai, stizzita. «Ho le mie buone

ragioni per preoccuparmi. Talvolta sei proprio antipatico!»Xavier scoppiò a ridere. «Antipatico?»«Già. Non te ne importa niente della mia angoscia!»«Certo che m’importa», ribatté lui, paziente. «Però ti ripeto che non hai niente da temere.

Mia madre fa già il tifo per te e gli altri sono entusiasti di conoscerti. Per un po’ hanno creduto che tu fossi una mia invenzione. Te lo dico solo per farti stare meglio, proprio perché m’importa. Perciò adesso rimangiati quell’insulto. Non potrei sopravvivere col marchio di ’antipatico’.»

«Ritiro tutto.» Risi. «Però sei uno scemo.»«La mia autostima oggi è messa a dura prova. Prima antipatico, adesso scemo... Immagino

che questo faccia di me uno scemo antipatico.»«Sono solo preoccupata.» Il mio sorriso si spense. «E se mi paragonano a Emily? E se non

reggo il confronto con lei?»«Beth, tu sei incredibile.» Xavier mi prese il viso tra le mani per costringermi a guardarlo.

«E loro se ne accorgeranno subito, vedrai. Senza contare che, alla mamma, Emily non piaceva.»«Perché no?»«Perché era troppo impulsiva.»«In che senso?»«Aveva dei problemi. I suoi genitori erano divorziati, non vedeva mai suo padre, e spesso

agiva senza riflettere. Grazie a Dio, ero sempre al suo fianco per proteggerla, ma lei non era molto popolare nella mia famiglia.»

«Se potessi cambiare le cose e riaverla con te, lo faresti?»«Emily è morta. Questo mi ha riservato la vita. Poi sei arrivata tu. Potevo anche essere

innamorato di lei allora, però adesso amo te. E, se lei oggi fosse qui, sarebbe sempre la mia migliore amica, ma tu saresti sempre la mia ragazza.»

«Scusami. È che talvolta ho la sensazione che tu stia con me solo perché hai perso la persona con cui eri destinato a stare.»

«Ma non capisci, Beth?» insistette lui. «Per quanto riguarda Em, ero destinato ad amarla e a perderla. È con te che sono destinato a stare.»

«Sì, ho capito.» Gli presi la mano e la strinsi. «Grazie per avermelo spiegato. Lo so, sembro una bambina capricciosa.»

Xavier mi strizzò l’occhio. «Una bambina adorabile.»

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La casa di Xavier era in stile georgiano, con siepi ben tenute e colonne ai lati del portone d’ingresso. Le pareti erano bianche e il pavimento era un bel parquet. L’elegante soggiorno occupava la parte anteriore dell’edificio, ma era nel grande spazio sul retro e nel patio affacciato sulla piscina che gli otto membri della famiglia trascorrevano la maggior parte del tempo. Ampi divani fronteggiavano il televisore a schermo piatto. Il tavolo da pranzo era invaso da una miriade di oggetti, in un angolo c’era un cesto di biancheria piegata e svariate paia di scarpe da ginnastica erano allineate accanto alla porta posteriore. Accanto al televisore, c’era l’angolo dei giochi, con una collezione di Barbie, camioncini e puzzle evidentemente destinati a tenere impegnati i bambini più piccoli. Un gatto rossiccio era acciambellato in un cesto.

Forse per l’odore di cibo che aleggiava nell’aria o per le voci che si chiamavano da una stanza all’altra, la casa dava un’impressione accogliente, nonostante le dimensioni.

Xavier mi guidò in cucina, dove la madre stava cercando di preparare la cena e, nel contempo, di fare le pulizie. Si muoveva a velocità supersonica, eppure trovò un attimo per rivolgermi un sorriso caloroso. Nel suo viso, riconobbi subito quello di Xavier. Avevano lo stesso naso dritto e gli stessi vividi occhi turchesi.

«Quindi tu sei Beth!» esclamò, mettendo un tegame sul fornello prima di abbracciarmi. «Abbiamo tanto sentito parlare di te. Io sono Bernadette, ma chiamami pure Bernie.»

«È un piacere conoscerla, Bernie. Posso darle una mano?» chiesi.«Oh, ecco una cosa che non si sente spesso da queste parti.» Mi prese sottobraccio e mi

mostrò una pila di tovaglioli da piegare e alcuni piatti da asciugare.Il padre di Xavier lasciò il barbecue che stava accendendo nel patio, all’ombra di alcuni teli

bianchi triangolari, e si affacciò in cucina. Era alto e snello, coi capelli castani e con gli occhiali rotondi da professore. Ecco da chi Xavier aveva preso la corporatura. «L’hai già messa al lavoro», ridacchiò. Poi mi strinse la mano e mi disse di chiamarsi Peter.

Con una strizzata rassicurante alla spalla, Xavier si allontanò per dare una mano al padre. Aiutando Bernie ad apparecchiare, notai la piacevole confusione domestica. La TV trasmetteva una partita di baseball; dal piano di sopra venivano lo scalpiccio di piedi che correvano e il suono di un clarinetto.

Bernie andava e veniva per portare i cibi in tavola. Era tutto così splendidamente normale. «Mi spiace per il disordine. Qualche giorno fa è stato il compleanno di Jasmine ed è ancora tutto sottosopra.»

Sorrisi. Non m’importava del disordine: mi sentivo a mio agio.«Ti avevo detto di non toccare il mio rasoio!» gridò una voce femminile mentre qualcuno

scendeva rumorosamente le scale.Xavier, rientrato a prendere qualche piatto, sospirò. «Se vuoi filartela, è il momento buono.»«Per l’amor di Dio, ne hai un pacco intero, non fare la lagna», ribatté un’altra voce.«Invece era l’ultimo, e adesso ci sono i tuoi peli schifosi.» Si sentì sbattere una porta e

comparve una ragazza coi capelli ricci, trattenuti a stento da una fascia. Indossava un paio di calzoncini elasticizzati e una canottiera rossa, come se stesse facendo ginnastica. «Mamma, vuoi dire a Claire di starsene alla larga dalla mia stanza?»

«Non ci sono entrata, in camera tua. L’avevi lasciato in bagno», strillò Claire attraverso la porta.

«Perché non te ne vai a stare con Luke?» le gridò la sorella.«Credimi, se potessi lo farei.»«Ti odio! Non è giusto!» Di colpo la ragazza sembrò accorgersi di me e mi squadrò dalla

testa ai piedi. «E questa chi è?»«Nicola!» scattò Bernie. «Che maniere sono? Ti presento Beth. Lei è Nicola, la mia

gentilissima quindicenne.»«Piacere», borbottò Nicola a denti stretti. «Anche se non capisco cosa ci trovi in lui»,

aggiunse, con un cenno verso Xavier. «È uno sfigato e non fa ridere.»«Nicola sta attraversando la fase nevrotica dell’adolescenza e non sa divertirsi», spiegò lui.

«Altrimenti apprezzerebbe il mio sottile umorismo.»

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Nicola gli lanciò un’occhiataccia. Per fortuna, in quel momento, arrivò Claire, la sorella maggiore di Xavier. Aveva gli stessi capelli lisci del fratello e li teneva sciolti sulle spalle. Indossava un cardigan di lana nero e stivali alti: nonostante il recente battibecco, aveva l’aria rilassata. «Ehi, Xav, non ci avevi detto che Beth era così bella.» Mi salutò con un abbraccio.

«In realtà l’ho fatto», protestò lui.«Be’, non ci avevamo creduto.» Claire rise. «Ciao, benvenuta allo zoo.»«Congratulazioni per il tuo fidanzamento», le dissi.«Grazie, anche se per adesso è una maratona. Non so se lo sai, ma proprio ieri mi hanno

chiamato quelli del catering per dirmi che...»Xavier ci lasciò alle nostre chiacchiere. Non che avessi molto da dire, ma Claire cominciò a

raccontarmi dei preparativi per il matrimonio e io ero felice di ascoltarla. Mi chiedevo perché un’occasione così gioiosa dovesse causare tanti problemi. Secondo lei, tutto quello che poteva andare storto andava storto, sempre: aveva persino il dubbio di aver rotto uno specchio o fatto qualcosa per attirarsi una sfortuna simile.

Bernie rientrò in cucina e chiamò Xavier, che si affacciò dalla porta sul retro con un paio di pinze in mano. «Ti spiace andare di sopra a prendere i piccoli, così vengono a conoscere Beth? Stanno guardando Il re leone.» Si girò verso di me. «È l’unico modo per farli stare tranquilli per un po’.»

Xavier mi strizzò l’occhio e scomparve in corridoio. Pochi minuti dopo, lo sentii scendere le scale, seguito dal rumore di piedini nudi sul pavimento.

Jasmine, Madeline e Michael irruppero nella stanza ma, quando mi videro, si fermarono di botto, fissandomi senza imbarazzo, come solo i bambini sanno fare. Madeline e Michael erano i più piccoli, biondi, con grandi occhi marroni e le faccine sporche per i biscotti al cioccolato che evidentemente avevano divorato. Jasmine, che aveva appena compiuto nove anni, era una bambina dall’espressione seria e dai grandi occhi azzurri. Aveva capelli lunghi, da Alice nel paese delle meraviglie, trattenuti da un nastro di raso.

«Beth!» gridarono Michael e Madeline, superando subito l’iniziale timidezza. Mi corsero incontro e mi presero per mano, trascinandomi verso l’angolo dei giochi. Bernie sembrò piuttosto preoccupata per quell’assalto improvviso, ma io ero abituata alle anime dei bambini, e con quei due era più o meno lo stesso, solo più chiassoso.

«Giochi con noi?» mi pregarono.«Non ora», disse Bernie. «Dopo cena, forse.»«Io voglio sedermi vicino a Beth», annunciò Michael.«No, mi ci siedo io», affermò Madeline spingendolo via. «L’ho vista prima io.»«No!»«Sì!»«Ehi, potete sedervi tutti e due vicino a Beth», intervenne Claire, abbracciandoli e

cominciando a far loro il solletico.Di colpo, mi resi conto di avere una figuretta accanto. Jasmine mi guardava coi suoi

occhioni chiari. «Fanno un sacco di rumore. Io preferisco la tranquillità.»Xavier rise e le arruffò i capelli. «Lei è la nostra sognatrice. Con la testa sempre fra le

nuvole.»«Io credo nelle fate», disse Jasmine. «E tu?»«Ci credo anch’io», risposi, inginocchiandomi accanto a lei. «Credo nelle fate, nelle sirene e

negli angeli.»«Davvero?»«Certo. E ti rivelo un segreto: io li ho visti.»Jasmine sgranò gli occhi e la sua boccuccia rosa si spalancò per la meraviglia. «Sul serio?

Vorrei tanto vederli anch’io.»«Certo! Basta guardare con molta attenzione. Spesso sono dove meno te l’aspetti.»Al momento di metterci a tavola, mi resi conto che Bernie e Peter avevano preparato un vero

banchetto. Guardai i vassoi piene di braciole di maiale, salsicce e costolette alla griglia e cominciai

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a preoccuparmi. Xavier doveva essersi scordato di avvertirli: non è che fossi proprio vegetariana, ma la nostra forma umana non andava troppo d’accordo con la carne. Faticavamo a digerirla. E comunque a me non piaceva neppure. Però si erano dati tanto da fare che non avevo il coraggio di dirlo. Per fortuna non ce ne fu bisogno.

«Beth non mangia carne», annunciò Xavier, tranquillo. «Non ve lo avevo detto?»«Perché no?» chiese Nicola.«Cerca ’vegetariano’ sul dizionario», rispose lui, sarcastico.«Va bene», disse Bernie, riempiendo il mio piatto di patate al forno, verdure grigliate e

insalata di riso. «Non c’è problema.» Continuava ad aggiungere roba, anche se il piatto era già pieno.

«Mamma...» Xavier le tolse di mano il piatto stracarico e me lo mise davanti. «Credo che così basti.»

Quando tutti furono serviti, Nicola impugnò la forchetta e stava per ingollare un boccone d’insalata di riso quando sua madre le lanciò un’occhiataccia. «Xav, tesoro, la reciti tu la preghiera?»

Nicola lasciò cadere di botto la forchetta sul piatto.Xavier si fece il segno della croce. «Siamo grati al Signore per quello che stiamo per

ricevere. E Lo preghiamo di essere sempre consapevoli dei bisogni del nostro prossimo, per amore di Gesù Cristo. Amen.» Quindi mi fissò per una frazione di secondo, prima di bere un sorso d’acqua. Nel suo sguardo avevo letto una tale comprensione, un legame di fede così saldo, che in quel momento non avrei potuto amarlo di più.

«Allora, Xavier ci ha detto che ti sei trasferita qui con tuo fratello e tua sorella», esordì Peter.

«Infatti.» Annuii, col cibo che mi si bloccava in gola in attesa dell’inevitabile domanda: E i tuoi genitori? Ma mi sbagliavo.

«Mi piacerebbe conoscerli», disse Bernie. «Sono anche loro vegetariani?»«Sì, lo siamo tutti.»«Che strano», borbottò Nicola.Bernie la incenerì con lo sguardo, mentre Xavier si mise a ridere. «Sai, Nic, scoprirai che al

mondo esistono molti vegetariani.»«Sei la fidanzata di Xavier?» intervenne Michael, spingendo i fagioli che aveva nel piatto e

infilzandoli poi con la forchetta.«Non si gioca col cibo», lo rimproverò Bernie.Michael mi fissava, aspettando una risposta.Guardai Xavier. Non sapevo cosa dire davanti alla sua famiglia.«Vero che sono fortunato?» disse Xavier al fratellino.«Oh, per favore», cominciò Nicola, ma Claire le diede una gomitata.«Io mi farò presto la fidanzata», dichiarò Michael in tono così serio che scoppiammo tutti a

ridere.«Giovanotto, hai un sacco di tempo per trovarla», replicò il padre. «Non avere fretta.»«Be’, io il fidanzato non lo voglio», disse Madeline. «Quando mangiano, i maschi si

sporcano tutti.»«A sei anni suppongo di sì», ridacchiò Xavier. «Ma non preoccuparti, dopo migliorano.»«Però io non lo voglio lo stesso», insistette Madeline, imbronciata.«Sono d’accordo con te», affermò Nicola.«Come sarebbe? Tu il ragazzo ce l’hai», disse Xavier. «Anche se per te è come non averlo.»«Taci, tu», scattò Nicola. «E comunque da due ore il ragazzo non ce l’ho più.»Nessuno sembrò preoccuparsene tranne me. «Oh, ma è terribile! E tu come stai?»Claire rise. «Lei e Hamish si lasciano almeno una volta alla settimana. Ora di domani

staranno di nuovo insieme.»Nicola mise il broncio. «Stavolta è finita davvero. E sto bene, Beth, grazie per averlo

chiesto.» Guardò storto tutti gli altri.

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«Nic rimarrà una zitella», ridacchiò Michael.«Come?» sbottò lei. «Ma se non sai neanche cosa vuol dire. Hai solo quattro anni!»«L’ha detto la mamma», replicò Michael.Bernie tossì e il boccone le andò quasi di traverso. «Grazie, Michael. Volevo solo dire che

forse dovresti cambiare il tuo modo di trattare le persone. Non essere sempre così scostante.»«Ma quando mai!» Nicola sbatté il bicchiere sul tavolo.«Hai tirato una palla da tennis in testa a Hamish», intervenne Claire.«Aveva detto che il mio vestito era troppo corto!» gridò Nicola.«E allora?» chiese Xavier.«Doveva tenerselo per sé. Non erano affari suoi.»«E quindi si merita una palla da tennis in testa.» Xavier annuì. «Adesso sì che è tutto

chiaro.»Bernie tentò di cambiare argomento. «È così bello avere finalmente una ragazza a cena. Ci

sono sempre Luke e Hamish, ma avere te come ospite è diverso.»«Grazie. Sono molto contenta di essere qui con voi.»Il cellulare di Claire squillò e lei, dopo essersi scusata, si allontanò per rispondere. Ritornò

pochi attimi dopo, la mano sul microfono. «È Luke. È in ritardo, ma dovrebbe arrivare a momenti.» Fece una pausa. «Sarebbe più semplice se potesse fermarsi a dormire qui.»

«Sai già come la pensiamo tuo padre e io», disse Bernie.Claire si girò implorante verso il padre, che finse di essere occupato col cibo. «Non dipende

da me», borbottò imbarazzato.«Che male c’è?» disse Xavier alla madre. «In fondo, hanno già fissato la data del

matrimonio.»Bernie era irremovibile. «Non sta bene. Pensa che esempio darebbero.»«Potrebbe dormire nella camera degli ospiti.»«Ti offri tu per fare la guardia tutta la notte? No, eh? Finché voi ragazzi vivrete sotto questo

tetto, le regole le stabiliremo noi genitori.»Xavier gemette, come se avesse già sentito molte volte quel discorso.«Non c’è bisogno di reagire così», continuò Bernie. «Ho cresciuto i miei figli nel rispetto di

certi valori, e in questa famiglia il sesso prima del matrimonio non è ammesso. Spero che tu non abbia cambiato idea, vero, Xavier?»

«Certo che no!» dichiarò lui ostentando serietà. «La sola idea mi ripugna.»Le sorelle non riuscirono più a trattenersi e la loro risata irrefrenabile alleggerì l’atmosfera.

A loro si unirono anche i piccoli, che non avevano idea del motivo per cui tutti ridevano, ma che non volevano sentirsi esclusi.

«Scusa, Beth», disse Claire non appena ebbe ripreso fiato.«Ogni tanto la mamma ci fa morire.»«Non c’è bisogno di scusarsi, cara. Sono certa che Beth mi capisce. Sembra una ragazza

molto responsabile. La tua famiglia è religiosa?»«Molto», risposi con un sorriso. «Penso che andreste d’accordo.»Per il resto della serata, chiacchierammo di argomenti più leggeri. Bernie sondò con

discrezione i miei interessi scolastici e i miei progetti per il futuro. Xavier aveva previsto che la conversazione avrebbe preso quella piega e io mi ero preparata le risposte. Poi Claire portò a tavola un numero di Brides, una rivista tutta dedicata alle spose, e mi chiese un’opinione su una miriade di vestiti e sulle torte nuziali. Nicola era ancora imbronciata e rispondeva in tono sarcastico ogni volta che veniva interpellata. Al momento del dolce, i piccoli mi si sedettero in grembo, mentre Peter si mise a raccontare quelle che Jasmine definiva le «barzellette di papà». Xavier mi cinse le spalle con un braccio: sembrava estremamente soddisfatto e ogni tanto faceva qualche commento.

Quella sera fu quanto di più vicino alla normalità terrena avessi mai sperimentato. Mi piacque oltre ogni dire. Nonostante i battibecchi, la famiglia di Xavier era così unita, così affettuosa, così umana... Ciascuno conosceva pregi e difetti degli altri e li accettava senza problemi. Mi meravigliava quanto fossero aperti tra loro e quanto a fondo si conoscessero, dalle cose più

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importanti fino alle minuzie come il gusto di gelato o il film preferito.«Secondo te, dovrei vedere l’ultimo film di James Bond?» chiese Nicola a un certo punto.«Non ti piacerebbe», rispose Xavier. «Troppa azione.»Con Ivy e Gabriel condividevo un legame di fiducia reciproca, ma in realtà non ci

conoscevamo fino a quel punto. La maggior parte dei nostri pensieri restava inespressa. Forse perché da noi non ci si aspettava che avessimo personalità individuali, e quindi non sprecavamo tempo a svilupparle. Eravamo più spettatori che giocatori, non dovevamo prendere delle decisioni e non avevamo dilemmi morali da risolvere. Avendo raggiunto l’unione con l’universo, non avevamo bisogno di rapporti interpersonali. L’unico amore che ci era dato di provare era generico, diretto a tutti gli esseri viventi.

Mi angosciò rendermi conto che cominciavo a identificarmi più con gli umani che con le creature della mia specie. Sembrava che gli umani desiderassero molto più di noi avere un rapporto coi propri simili; era come se temessero e, nel contempo, desiderassero l’intimità. All’interno di una famiglia, era impossibile avere dei segreti. Se Nicola era di malumore, lo sapevano tutti. Se la loro madre era delusa, bastava guardarla in faccia per capirlo. Fingere era uno spreco di tempo e di energia.

Alla fine della serata, ero enormemente grata a Xavier. Farmi conoscere la sua famiglia era stato uno dei regali più belli che avesse potuto farmi.

«Come ti senti?» chiese quando mi riaccompagnò a casa.«Esausta. Ma felice.»Quella sera, pensai a una cosa che non mi era mai venuta in mente prima e che era stata

evocata dal commento di Bernie sul sesso prima del matrimonio. Sapevo che per me e Xavier era possibile fare sesso: avendo preso una forma umana, potevo avere ogni tipo d’interazione fisica. Però quali sarebbero state le conseguenze?

Decisi di affrontare l’argomento con Ivy, ma non subito. Ero troppo di buon umore per rischiare una litigata.

20 Segnali di pericolo

Aprii la porta dell’aula di letteratura inglese e trovai Jake Thorn seduto sul bordo della cattedra, gli occhi fissi sul viso in fiamme di Miss Castle. Non mi avevano sentito entrare: nessuno dei due si girò verso di me. I lucenti capelli scuri di Jake erano pettinati all’indietro, gli zigomi erano taglienti come lame e gli occhi verdi da gatto fissavano l’insegnante con l’intensità ipnotica di un serpente pronto a colpire. Sulla cattedra c’era una rosa rossa e la mano affusolata di Jake era appoggiata su quella di lei.

«È del tutto fuori luogo», sussurrò Miss Castle.«E chi lo stabilisce?» Jake parlava con voce bassa, sicura di sé.«La scuola, per cominciare. Sei un mio studente!»Lui ridacchiò. «Sono adulto e vaccinato, grande abbastanza da prendere le mie decisioni.»«E se ci scoprono? Perderei il lavoro, non potrei più insegnare, io...» Trattenne il fiato

quando Jake le appoggiò un dito sulle labbra e poi lo fece lentamente scivolare fino all’incavo della gola.

«Potremmo essere discreti.»Proprio mentre si chinava verso di lei e Miss Castle chiudeva gli occhi, alle mie spalle

risuonò uno schianto fragoroso, seguito da una serie d’imprecazioni. Ben non riusciva a entrare

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perché la borsa si era incastrata nella porta.Jake balzò dalla scrivania con grazia felina, mentre un’agitata Miss Castle rimescolava i

fogli sul tavolo e cercava di sistemarsi i capelli.«Salve», grugnì Ben, mentre mi superava per raggiungere il suo posto. Si lasciò cadere sulla

sedia e guardò l’ora. «Non sono neanche in ritardo.»Mentre gli altri studenti entravano in classe, mi sistemai dietro di lui e finsi di concentrarmi

sul piano del mio banco, dove qualcuno aveva inciso: LA LETTERATURA È MORTE. LA MORTE È UNA STRONZATA. Non volevo guardare Jake, ero scioccata da quello che avevo visto. Ma sapevo pure che Jake aveva diciotto anni, dunque poteva provarci con chiunque volesse. Oltretutto non erano affari miei.

Però dovevo immaginare che non mi avrebbe concesso d’ignorarlo.Si lasciò scivolare sulla sedia accanto alla mia. «Ciao», disse in tono mellifluo. Gli occhi

erano persino più accattivanti della voce. Quando li fissai, mi fu difficile distogliere lo sguardo.

Alla Bryce Hamilton, le cose stavano impercettibilmente cambiando. Difficile capire cosa fosse di preciso, però a scuola c’era un’atmosfera diversa. Le attività scolastiche non avevano mai goduto di tanta popolarità e, a giudicare da alcuni volantini comparsi in giro, era nata una nuova consapevolezza dei problemi globali. Su quei miglioramenti non potevo rivendicare nessun merito; ero stata troppo occupata ad ambientarmi e a conoscere Xavier per avere il tempo di pensare ad altro. Era tutta opera di Ivy e di Gabriel.

Da subito, la gente si era accorta di quanto impegno Ivy mettesse nell’aiutare gli altri. Pur senza frequentare la scuola, si adoperava a sostegno delle cause più disparate, dal benessere degli animali ai problemi dell’ambiente. Conduceva le sue campagne con l’abituale pacatezza; non aveva bisogno di alzare la voce per difendere le sue ragioni. La Bryce Hamilton le aveva chiesto d’intervenire alle assemblee per ragguagliare gli studenti sulle iniziative benefiche e sulle raccolte fondi che si tenevano in città. Che si trattasse di una gara di torte o di lavaggio auto oppure dell’elezione di Miss Venus Cove, lo scopo era sempre quello: raccogliere soldi per una buona causa. E dietro c’era sempre Ivy. Sembrava che fosse riuscita a creare un programma completo di servizi sociali in città, e un gruppetto di volontari, all’inizio limitato ma in costante crescita, era a sua disposizione tutti i mercoledì pomeriggio. La scuola aveva persino introdotto il volontariato come alternativa alle attività sportive pomeridiane. Ciò significava aiutare le associazioni benefiche del posto, fare la spesa per gli anziani o dare una mano alla mensa dei poveri di Port Circe. Alcuni ammettevano di fingersi interessati solo per stare vicini a Ivy, ma la maggior parte si sentiva davvero ispirata dalla sua dedizione.

Arrivati però a sole due settimane dal ballo, tutti i progetti di servizi sociali furono temporaneamente accantonati. A scuola, le ragazze stavano diventando ossessive. Difficile credere che il tempo fosse trascorso così in fretta. Sembrava passato solo un giorno da quando Molly aveva cerchiato la data sul mio diario e mi aveva rimproverato per la mancanza d’entusiasmo. Con mia sorpresa, adesso ero impaziente come tutte le altre per la grande serata. Strillavo e battevo le mani ogni volta che veniva fuori l’argomento, senza vergognarmi di sembrare sciocca.

Quel venerdì pomeriggio, mi ritrovai davanti alla scuola con Molly e le altre, pronta per lo shopping a Port Circe. Distante una mezz’ora di treno, Port Circe, coi suoi duecentomila abitanti, era molto più grande di Venus Cove, e molti ci andavano tutti i giorni per lavoro; per i ragazzi rappresentava la meta ideale per fare shopping e per intrufolarsi nelle discoteche, magari grazie a un falso documento d’identità.

Gabriel mi aveva dato una carta di credito, con la raccomandazione di usarla con giudizio e di tenere a mente che i beni materiali erano irrilevanti. Sapeva benissimo quanto fosse rischioso dare soldi a un branco di adolescenti esaltate, ma nel mio caso non aveva molto da preoccuparsi, considerando che le probabilità di trovare qualcosa di mio gusto erano scarse. Quando si trattava di abbigliamento, avevo gusti difficili e mi ero fatta un’idea molto chiara di come volevo vestirmi per

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il ballo. Almeno per quella sera volevo davvero sentirmi, e anche sembrare, un angelo sceso in Terra.

Lungo la strada per la stazione ero nervosa: era la prima volta che prendevo il treno. Da una parte non vedevo l’ora, dall’altra un po’ di apprensione era inevitabile. Seguii le altre in un sottopassaggio pedonale e poi su una banchina antiquata. Dopo aver fatto la fila, comprammo i biglietti da un tizio coi baffoni grigi, seduto dietro uno sportello. Parlavamo a voce così alta che lui ci fissò, scuotendo il capo, ma io gli scoccai un gran sorriso mentre infilavo il mio biglietto al sicuro nel portafogli.

Ci sedemmo sulle panchine di legno lungo il binario, in attesa dell’espresso delle quattro e un quarto. Le ragazze chiacchieravano fitto fitto e mandavano SMS alla velocità della luce, per fissare appuntamenti coi ragazzi della Saint Dominique di Port Circe. Molly comprò una bibita dietetica a un distributore automatico, mentre io me ne stavo lì, tranquillamente seduta.

Almeno fino all’arrivo del treno.Cominciò con un semplice brontolio, simile a quello di un tuono lontano. Poi il rumore

divenne sempre più forte e la banchina prese a vibrare sotto i miei piedi. Il treno sembrò sbucare dal nulla, lanciato sui binari a una velocità tale da farmi dubitare che il conducente potesse fermarlo in tempo. Schizzai in piedi e mi appiattii contro il muro dell’area d’attesa mentre le carrozze, che sembravano agganciate in maniera approssimativa, si fermavano con un clangore assordante. Le ragazze mi fissarono, sbalordite.

«Che stai facendo?» chiese Taylah, guardandosi attorno, imbarazzata, per controllare che nessuno si fosse accorto della scena.

«È normale che faccia tanto rumore?»Le porte di metallo si aprirono e una marea di gente si riversò fuori. Quindi una porta si

richiuse, intrappolando il cappotto di un uomo. Rimasi a bocca aperta, mentre le ragazze strillavano divertite. L’uomo picchiò rabbiosamente sulle porte finché non si spalancarono di nuovo. Poi si allontanò in fretta, lanciandoci un’occhiataccia.

«Oh, Beth», farfugliò Molly tenendosi la pancia per le risate. «Sembra che tu non abbia mai visto un treno in vita tua!»

Quella serie di scatole metalliche collegate tra loro mi pareva più un’arma di distruzione di massa che un mezzo di trasporto affidabile. «Non mi sembra tanto sicuro», mormorai.

«Non fare la scema!» Molly mi afferrò per il polso e mi trascinò verso le porte aperte. «Dai, che lo perdiamo!»

All’interno invece non era male. Molly e le sue amiche si gettarono su una fila di sedili, ignorando gli sguardi irritati dei passeggeri. Mentre sferragliavamo verso Port Circe, osservai le persone attorno a me. Come spesso mi accadeva, era la varietà degli esseri umani a sorprendermi: c’era di tutto, dagli uomini d’affari in giacca e cravatta ai ragazzini sporchi e sudati a una vecchia barbona coi mocassini foderati di pelliccia. Non che mi sentissi a mio agio, circondata da tutta quella gente e quasi catapultata giù dal sedile ogni volta che il treno si fermava, eppure mi ripetei che dovevo essere riconoscente per ogni esperienza umana che stavo accumulando. Tutto quello sarebbe finito anche troppo presto.

Giunte a destinazione, ci accodammo alla folla che si accalcava per scendere dal treno, poi ci avviammo verso la piazza principale di Port Circe. Era tutta un’altra cosa rispetto alla sonnacchiosa Venus Cove. Le strade erano ampie e alberate, e all’orizzonte si stagliavano le guglie delle chiese e le sagome dei grattacieli. Molly insistette per zigzagare nelle strade trafficate anziché seguire il flusso dei pedoni. Ovunque c’era gente che si spostava da un negozio all’altro. Passammo davanti a un mendicante seduto sui gradini della cattedrale; era anziano, con la barba bianca e con rughe profonde come crepacci attorno agli occhi tristi. Aveva una coperta militare gettata sulle spalle e batteva su una tazza di metallo per attirare l’attenzione. Mi frugai in tasca alla ricerca di qualche spicciolo, ma Molly mi bloccò.

«Non avvicinarti. Potrebbe essere un drogato o chissà cosa.»«Ti sembra un drogato?»Lei alzò le spalle e proseguì, così io tornai indietro a infilare una banconota da dieci dollari

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nella mano del vecchio.Lui mi afferrò il braccio. «Che Dio ti benedica.» Quando il suo sguardo mi superò senza

vedermi, mi accorsi che era cieco.Le ragazze decisero che era meglio dividerci. Un gruppetto puntò verso un negozietto in una

viuzza dietro la piazza, mentre io, Molly e Taylah c’infilammo nella porta girevole di un grande centro commerciale dal pavimento di marmo.

«Siamo da Madisons», mi spiegò Molly, come se parlasse con un marziano. «Ci si trova un po’ di tutto.»

«Grazie, credo di aver afferrato l’idea. Dove sono i negozi da donna?»«Non vorrai mica andare in qualche negozio sfigato. A noi serve Mademoiselle, al terzo

piano. Hanno cose fantastiche e costano poco. Solo perché Megan ha i soldi che le escono da tutte le parti...»

Ci vollero due ore e l’aiuto di qualche commessa molto tollerante prima che Molly e Taylah trovassero finalmente abiti di loro gusto: uno era squallido, l’altro era volgare, quell’altro ancora era da vecchia, da scema oppure non abbastanza sexy... Scordandosi di averne già parlato fino alla nausea, s’impelagarono di nuovo in una lunga discussione sulla lunghezza ideale. A quanto pareva, appena sopra il ginocchio era da scolaretta, sotto era da nonna, a metà polpaccio faceva vestito di seconda mano. Restavano solo due possibilità: abito mini o lungo. Sembrava una faccenda di rilevanza nazionale e ben presto coinvolse una serie di altri fattori: dritto o a pieghe? Con lo scollo tondo o senza spalline? Di raso o di seta? Io le seguivo come una sonnambula, facendo del mio meglio per nascondere che non ne potevo più.

Dopo un dibattito apparentemente interminabile, Taylah si decise per un abito di taffetà color pesca, corto e svasato, con uno scollo profondo sulla schiena. Secondo lei, le permetteva di sfoggiare le lunghe gambe atletiche. A mio parere, la faceva sembrare un bignè alla panna.

Individuai un capo che secondo me si adattava perfettamente alla carnagione di Molly e glielo indicai.

La commessa fu subito d’accordo con me. «Quel colore ti starebbe benissimo.»«È splendido», concordò Molly.«E allora provalo», intervenne Taylah.Quando Molly uscì dal camerino, fu come se si fosse trasformata da goffa liceale a dea.

Persino gli altri clienti si fermarono ad ammirarla. La facemmo girare su se stessa per osservarla da ogni angolazione. Il vestito le lasciava una spalla scoperta ed era sostenuto da un’unica, sottile spallina dorata. La stoffa accarezzava la sua figura a clessidra in lievi strati sovrapposti, che si riversavano a terra come una cascata. Ma la cosa più incredibile era il colore: un bronzo cangiante che scintillava sotto la luce. Si sposava con le sfumature color mogano dei ricci di Molly, mettendo in risalto la sua carnagione.

«Cavolo...» sussurrò Taylah. «Mi sa che abbiamo trovato il vestito giusto per te. Tu e Ryan farete faville.»

«Aspetta, te l’ha chiesto?» domandai.Molly annuì. «Se l’è presa comoda, comunque sì.»«Perché non me l’hai detto?»«Be’, non è mica una notizia da prima pagina.»«Scherzi?» esclamò Taylah. «Ci hai fatto una testa così per settimane. Adesso è perfetto.

Hai tutto quello che volevi.»«Suppongo di sì», ammise Molly, ma sul suo viso non c’era il solito entusiasmo. Mi chiesi

se pensasse ancora a Gabriel. Forse Ryan Robertson, per quanto bello e muscoloso, non le bastava più.

Per Taylah e Molly, la tormentata ricerca dell’abito si era conclusa. Scarpe e accessori potevano aspettare. Quanto a me, non avevo visto niente che mi attirasse anche solo vagamente. I vestiti mi sembravano tutti uguali: o troppo complicati e pieni di gale e lustrini oppure troppo anonimi. Io volevo qualcosa di semplice e, nel contempo, di particolare, qualcosa che lasciasse Xavier senza fiato. Era un’impresa difficile, forse impossibile. Una parte di me si vergognava per

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quello slancio di vanità, ma il desiderio d’impressionare Xavier era più forte.«Coraggio, Beth!» mi esortò Molly, incrociando le braccia, ostinata. «Ci sarà pure qualcosa

che ti piace! Non ce ne andremo finché non l’avrai trovato.»Tentai di protestare, ma lei ormai aveva risolto il suo problema, quindi poteva dedicarsi

completamente a me. Insistette perché mi provassi un vestito dopo l’altro, ma nessuno mi convinceva.

«Tu sei matta», mi disse dopo un’ora. «Ti stanno bene tutti.»«Infatti, sei così magra», commentò Taylah a denti stretti.«Eccolo!» Molly mi mostrò un abito di raso bianco con le pieghe della gonna che si

allargavano a ventaglio. «Una replica del vestito di Marylin Monroe. Provalo!»«È carino», ammisi. «Ma non è quello che cerco.»Sospirò e lo riappese.Lasciai Madisons con un misero bottino: un flacone di smalto Rosa Sussurro e un paio di

orecchini, due semplici cerchi d’argento. Quanta fatica e quanto tempo sprecati...Ritrovammo le altre da Starbucks. Ai loro piedi, erano sparpagliate parecchie borse col logo

di vari stilisti. Notai che si erano uniti a loro un paio di ragazzi che indossavano una giacca a righe.«Sto morendo di fame», annunciò Molly. «Potrei uccidere per uno di quei dolci.»Taylah la minacciò con un dito. «Da qui al ballo solo insalata.»«Hai ragione», gemette Molly. «Almeno il caffè è permesso?»«Latte scremato e niente zucchero.»Quando arrivai a casa, ero così abbattuta che non riuscii a nasconderlo. La spedizione era

fallita e non sapevo dove trovare un vestito. Avevo perlustrato i negozi di Venus Cove già settimane prima e restavano solo un paio di negozi di roba usata.

«Non hai avuto fortuna, eh?» Ivy non sembrava sorpresa. «Almeno ti sei divertita?»«In realtà, no. È stata una perdita di tempo. Dopo che hai provato un po’ di vestiti,

cominciano a sembrarti tutti uguali.»«Non temere, troverai qualcosa. C’è ancora tempo.»«Mi sa che quello che voglio io non esiste. Faccio prima a non andarci proprio, al ballo.»«Non esagerare. Xavier non se lo merita. Ho un’idea. Perché non mi spieghi che vestito

vuoi, così te lo faccio io?»«Non posso chiederti una cosa simile! Hai faccende più importanti cui pensare.»«Ma dai. Non mi ci vorrà molto e sai che posso farlo esattamente come lo desideri.»Aveva ragione. Ivy sarebbe diventata un’ottima sarta nel giro di qualche ora. Non c’era nulla

che lei e Gabriel non potessero fare.«Perché non sfogliamo qualche rivista e vediamo se c’è qualcosa che ti piace?»«Non mi servono le riviste. Ce l’ho già in mente.»Lei rise. «Va bene, allora chiudi gli occhi e trasmettimelo.»Obbedii e tentai d’immaginare la sera del ballo. Mi vidi al braccio di Xavier, sotto una volta

di luci soffuse. Lui era in smoking, profumava di buono e i capelli gli ricadevano sulla fronte. Al suo fianco, vedevo il vestito dei miei sogni. Era lungo, color avorio cangiante, ed era composto da una sottoveste d’impalpabile seta color panna e da una tunica di pizzo antico. Il corpetto era tempestato di perle e una fila di bottoncini di raso delineava le maniche aderenti. La scollatura era smerlata, con un’intricata decorazione di minuscoli boccioli di rosa. La stoffa sembrava intessuta con raggi di luce e risplendeva di un vago bagliore perlaceo. Ai piedi portavo raffinatissime ballerine di raso adorne di perline.

Guardai timidamente Ivy. Non era proprio semplicissimo da realizzare.«Una bazzecola», ridacchiò lei. «Posso fartelo in men che non si dica.»

Lunedì a pranzo ero in mensa da sola. Xavier aveva un allenamento di pallanuoto, mentre Molly e le altre – che facevano parte del comitato organizzatore del ballo – si erano riunite per

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decidere gli ultimi dettagli delle decorazioni e l’assegnazione dei posti a sedere. Piluccavo distrattamente la lattuga avvizzita e mi sentivo osservata: parevano tutti stupiti di vedermi da sola. Però io non ci badai più di tanto. Nei miei pensieri c’era Xavier, come accadeva sempre più spesso, soprattutto se eravamo fisicamente lontani. Quando mi scoprii a calcolare quanti minuti mancavano al nostro prossimo incontro, decisi che c’erano modi migliori per occupare il tempo e mi diressi in biblioteca, dove, se non altro, la mia solitudine non avrebbe destato sospetti. L’idea era sfruttare il resto della pausa pranzo per fare qualche ricerca sulla Rivoluzione Francese.

Avevo appena recuperato i miei libri dall’armadietto e stavo tagliando per un sentiero, quando mi sentii chiamare.

«Ciao!»Mi girai e vidi Jake Thorn appoggiato a un muro, con le braccia conserte. I capelli scuri gli

incorniciavano il volto pallido e le labbra erano incurvate in un sorriso beffardo. Aveva finalmente adottato la divisa della Bryce Hamilton, ma a modo suo: senza cravatta, teneva il colletto della camicia alzato e, al posto della giacca, aveva un giubbotto grigio col cappuccio, coi pantaloni che cadevano flosci sui fianchi stretti. Invece delle scarpe regolamentari, calzava un paio di oxford bianche stringate. Notai per la prima volta che, oltre al misterioso ciondolo al collo, portava un brillantino all’orecchio sinistro. Aspirò una lunga boccata dalla sigaretta e sbuffò un anello di fumo.

«Qui non si può fumare», lo avvertii, stupita di come se ne fregasse delle regole della scuola. «Ti metterai nei guai.»

«Davvero?» Jake si finse preoccupato. «Si dà il caso che questo lo chiamino ’l’angolo dei fumatori’.»

«Ci sono ancora gli insegnanti di guardia.»«Ho notato che non si avventurano mai così lontano; restano sempre nei paraggi della sala

professori a contare i minuti che mancano per tornare ai loro caffè e ai loro cruciverba.»«Faresti meglio a spegnerla prima che se ne accorga qualcuno.»«Se lo dici tu.» Jake schiacciò il mozzicone col tacco della scarpa e poi lo scalciò via,

proprio mentre Miss Pace, l’anziana e bisbetica bibliotecaria, ci passava davanti lanciandoci occhiate sospettose.

«Grazie, Beth. Mi hai appena salvato la pelle.»«Prego», dissi, arrossendo. «Ci vuole un po’ ad abituarsi alle regole. Nella tua vecchia

scuola doveva esserci parecchia libertà.»«Diciamo che mi piace rischiare. Talvolta mi è andata male... ed eccomi qua. Sai, gli antichi

romani preferivano la morte all’esilio. Se non altro, il mio non è permanente.»«Quanto tempo resterai?»«Il tempo di darmi una raddrizzata.»Risi. «La vedo dura!»«Chi lo sa? Magari con le persone giuste...» Socchiuse le palpebre, come se si fosse appena

accorto di qualcosa. «Non capita spesso di vederti da sola. Dov’è finito il tuo opprimente principe azzurro? Non sarà malato, spero.»

«Xavier ha un allenamento», mi affrettai a rispondere.«Ah, lo sport, un’invenzione per tenere a bada gli ormoni scatenati.»«Come?»«Lasciamo perdere.» Jake si strofinò pensieroso la barba corta. «Senti, so che il tuo ragazzo

è un atleta, ma se la cava anche con la poesia?»«Xavier è bravo in un sacco di cose.»«Ma davvero? Allora sei fortunata.»Il suo modo di comportarsi mi lasciava perplessa, però non volevo farglielo capire. Decisi

che la cosa migliore era cambiare argomento. «Ma tu dove abiti? Vicino alla scuola?»«Sopra il negozio di tatuaggi. Almeno finché non troverò una sistemazione migliore.»«Credevo fossi ospite di qualche famiglia.»«Be’, sarebbe come abitare con dei parenti noiosi, no? Preferisco stare da solo.»«E i tuoi genitori sono d’accordo?» Mi metteva a disagio l’idea che vivesse da solo. Per

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quanto apparisse maturo e sicuro di sé, era pur sempre molto giovane.«Ti racconterò dei miei genitori se tu mi racconti dei tuoi.» I suoi occhi scuri sembravano

voler perforare i miei. «Sospetto che, nonostante le apparenze, noi due abbiamo parecchio in comune. A proposito, cosa fai domenica mattina? Potremmo lavorare al nostro capolavoro.»

«La domenica vado in chiesa.»«Ah, già, certo.»«Saresti il benvenuto anche tu.»«Grazie, ma sono allergico all’incenso.»«Che peccato.»«È l’incubo della mia esistenza.»«Be’, adesso devo andare a studiare.»Mi si parò davanti. «Prima che te ne vada, ho pensato al verso iniziale della nostra poesia.»

Prese di tasca un foglietto appallottolato e me lo porse. «Non essere troppo severa, è solo un punto di partenza.»

Poi mi sorrise e se ne andò. Andai a sedermi sulla panchina più vicina e spiegai il foglio. La scrittura di Jake era elegante e regolare, con le lettere allungate; niente a che fare con lo stampatello infantile di Xavier, che detestava scrivere in corsivo: ci si perdeva un sacco di tempo e sembrava troppo affettato. La scrittura di Jake sembrava un esercizio di calligrafia, le lettere si distendevano sulla pagina come se danzassero. Ma furono le cinque parole che aveva scritto a farmi girare la testa.

Aveva un viso d’angelo.

21 In profondità

Aveva un viso d’angelo. Quelle parole si erano impresse a fuoco nel mio cervello. Come se, in una frazione di secondo, Jake mi avesse smascherato. Possibile che avesse intuito il mio segreto? Era forse l’inizio di un giochetto perverso?

Qualcosa scattò dentro di me; venni travolta da un’ondata di rabbia. Dimenticando di colpo la Rivoluzione Francese, mi lanciai alla ricerca di Jake. Sfrecciai per i corridoi vuoti, mi affacciai nella sala mensa per controllare che non fosse lì. Il cuore cominciò a battermi forte per la paura; dovevo trovarlo e chiedergli della poesia prima della lezione successiva, o l’ansia mi avrebbe divorato.

Era davanti al suo armadietto.«Che significa?» lo assalii sventolandogli il foglio sotto il naso.«Come?»«Non è divertente.»«Non voleva esserlo.»«Non sono dell’umore adatto. Dimmi solo cosa intendevi con questo.»«Mi sembra di capire che non ti piace», replicò Jake. «Non importa, possiamo scartarlo, non

c’è bisogno di prendersela.»«A cosa pensavi quando l’hai scritto?»«Pensavo che fosse un buon punto di partenza.» Scrollò le spalle. «Ti sei offesa, per caso?»

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Trassi un respiro profondo e cercai di ripensare al modo in cui Miss Castle aveva presentato il compito alla classe. Ci aveva riassunto la tradizione dell’amor cortese e ci aveva letto qualche sonetto di Petrarca e di Shakespeare. Ci aveva quindi parlato dell’idealizzazione e della venerazione a distanza dell’amata. Possibile che Jake si stesse semplicemente attenendo all’argomento del compito? Finii per prendermela con me stessa; ero stata avventata.

«Non mi sono offesa.» Mi sentii ridicola. Non era colpa di Jake se gli era venuta in mente la parola «angelo» per una poesia d’amore. Ero io che diventavo paranoica a ogni allusione a riferimenti celesti. Era più che probabile che non ci fosse nessuna malizia. Non era neanche originale; nei secoli, quanti poeti avevano usato il medesimo paragone? «No, no, va bene. Ci lavoreremo ancora in classe. Scusa se mi sono comportata come una pazza.»

«Nessun problema.» Mi sorrise. Un sorriso vero, privo di arroganza o di sarcasmo. Allungò la mano a sfiorarmi un braccio, rassicurante.

«Meno male che l’hai presa per il verso giusto», dissi, cercando di comportarmi come avrebbe fatto Molly in un’occasione simile.

«È quello che faccio sempre.»Rimasi a guardarlo mentre andava a raggiungere Alicia, Alexandra e Ben, del corso di

letteratura, e alcuni studenti di musica. Tutti gli si strinsero attorno con aria adorante e iniziarono subito a parlare. Mi faceva piacere che avesse trovato un gruppo di amici.

Andai verso il mio armadietto, continuando tuttavia a provare la vaga sensazione di qualcosa che non andava. Solo dopo aver preso i libri mi resi conto che si trattava di un disagio fisico. Mi concentrai per un attimo per localizzare il fastidio. Non era un dolore vero e proprio; somigliava più a una lieve scottatura sotto il gomito. Nel punto in cui Jake mi aveva toccato, la pelle mi bruciava. Ma com’era possibile? Mi aveva solo sfiorato e, in quel momento, non avevo avvertito nessun dolore.

«Sembri soprappensiero», disse Xavier, mentre andavamo insieme a francese. Mi conosceva così bene che non gli sfuggiva niente.

«Stavo solo pensando al ballo.»«E questo ti rende triste?»Decisi di togliermi dalla mente Jake Thorn. Il fastidio al braccio probabilmente non aveva

nulla a che fare con lui. Forse mi ero graffiata senza neppure accorgermene. Dovevo smetterla di preoccuparmi in quel modo. «Non sono triste. È la mia espressione pensierosa.»

«Mi sarò sbagliato.»«Si vede che non t’impegni abbastanza.»«Lo so. Sentiti libera di punirmi come preferisci.»«Te l’ho detto che, alla fine, ti ho trovato un soprannome?»«Non sapevo che ne stessi cercando uno.»«Be’, ho riflettuto molto.»«E la conclusione?»«’Biscottino’», annunciai, orgogliosa.Xavier fece una smorfia. «Non se ne parla.»«Non ti piace? Allora ’Bombolino’?»«Peggio.»«’Pucci Pucci’?»«Sparami.»«Be’, certo che sei difficile da accontentare.»Passammo davanti a un gruppetto di ragazze che sfogliavano una rivista di gossip e fu allora

che mi ricordai della novità. «Te l’ho detto che il vestito me lo farà Ivy? Spero di non averle chiesto troppo.»

«Le sorelle ci sono per questo, giusto?»«Sono così felice che ci andremo insieme.» Sospirai. «Sarà tutto perfetto.»«Certo», sussurrò Xavier. «Sono io quello che ci andrà con un angelo.»«Zitto!» Gli tappai la bocca con una mano. «Ricordati cos’abbiamo promesso a Gabe.»

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«Tranquilla, qui attorno nessuno ha il superudito.» Mi diede un bacetto sulla guancia. «E il ballo sarà grandioso. Dimmi del tuo vestito.»

Mi rifiutai di svelargli anche il minimo dettaglio.«Su, dai!»«No, dovrai aspettare fino al gran giorno.»«Almeno il colore...»«No.»«Sei così crudele.»«Xavier?»«Sì, piccola?»«Mi scriveresti una poesia, se te lo chiedessi?»Mi guardò, perplesso. «Stiamo parlando di poesie d’amore?»«Direi di sì.»«Be’, non è che siano il mio forte, però dovrei riuscire a mettere insieme qualcosa.»«Non devi farlo davvero. Era solo per sapere.» Ero sempre più meravigliata di quanto

Xavier fosse disponibile a compiacermi. Esisteva qualcosa che non avrebbe fatto se glielo avessi chiesto?

Quel giorno, lui e io dovevamo recitare un dialogo in francese e, come argomento, avevamo scelto Parigi, la città dell’amore. In realtà, non avevamo dovuto fare molte ricerche: Gabriel ci aveva dato tutte le informazioni necessarie. Non c’era stato neppure bisogno di consultare libri o Internet. Quando Xavier prese la parola, mi accorsi che le altre ragazze lo fissavano, rapite, e cercai d’immaginare cosa significava desiderarlo da lontano senza poterlo conoscere davvero. Ammirai la sua pelle liscia e abbronzata, il sorriso, le braccia forti e i capelli castani. Al collo, aveva sempre il crocifisso d’argento appeso al cordoncino di cuoio. Era davvero bello, ed era tutto mio.

Ero così intenta ad ammirarlo che, quando venne il mio turno, persi la battuta. Xavier si schiarì la gola e io allora iniziai a parlare dei panorami romantici e dell’ottimo cibo che si mangiava a Parigi. Mentre procedevo, mi resi conto che, anziché cercare di coinvolgere il resto della classe, continuavo a sbirciare Xavier. Sembrava proprio che non riuscissi a staccare gli occhi da lui neanche per un minuto.

Finita la presentazione, Xavier mi abbracciò, d’impulso.«Ehi, voi due. C’est très disgustoso, sapete?» ironizzò Taylah.«Sì, direi che così è sufficiente», intervenne Mr Collins, separandoci.«Mi dispiace, professore», replicò Xavier con un sorriso. «Cercavamo solo di dare un tocco

di autenticità al nostro dialogo.»Mr Collins ci guardò storto, ma tutta la classe scoppiò a ridere.La notizia della nostra esibizione si sparse per tutta la scuola. Alla prima occasione, Molly

mi si parò davanti e chiese: «Quindi tu e Xavier fate proprio coppia fissa, eh?»«Sì.» Cercai di non apparire troppo raggiante, come mi succedeva ogni volta che pensavo a

lui.«Ancora non ci credo che stai con lui», commentò Molly, scuotendo la testa. «Voglio dire,

state benissimo insieme eccetera, ma le ragazze gli sono corse appresso per anni e lui non le ha mai calcolate. Erano tutti convinti che non avrebbe mai superato la tragedia di Emily, invece poi sei arrivata tu e...»

«A volte non ci credo neanch’io», cercai di schermirmi.«Devi ammettere che è molto romantico, il modo in cui si preoccupa per te, come un vero

principe azzurro.» Sospirò. «Lo vorrei anch’io un ragazzo che mi trattasse così.»«Ma ne hai un codazzo! Ti seguono ovunque come cagnolini.»«Sì, ma non è come fra te e Xavier. Sembrate davvero innamorati. Quelli vogliono una cosa

sola.» Esitò. «Be’, sono sicura che pure voi due ve la spassiate, però sembra che ci sia qualcosa di più.»

«In che senso ce la spassiamo?» chiesi, curiosa.«Be’, sai, a letto», ridacchiò Molly. «Non devi vergognarti a parlarne con me, io ho già fatto

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praticamente di tutto... o quasi.»«Non è che mi vergogno... In realtà non abbiamo fatto nulla.»Sgranò gli occhi. «Vuoi dire che tu e Xavier non avete...»Le feci segno di tacere mentre i ragazzi del tavolo accanto si giravano a guardarci. «No,

certo che no!» sibilai.«Scusa. È che non me lo aspettavo. Insomma, be’, pensavo che l’aveste fatto. Ma avete fatto

altre cose, vero?»«Certo. Passeggiamo, ci teniamo per mano, mangiamo insieme...»«Mio Dio, Beth, ma quanti anni hai? Devo proprio spiegarti tutto?» Socchiuse le palpebre.

«Aspetta, ma... almeno l’hai visto?»«Visto cosa?»«Lo sai... Quello!» Fece un gesto in prossimità dell’inguine.Finalmente capii cosa intendeva. «Oh! No!»«E lui non ti ha mai fatto capire che vorrebbe di più?»«No», risposi, indignata. «A Xavier non interessano certe cose.»«È quello che dicono tutti, all’inizio. Dagli solo un po’ di tempo. Per quanto Xavier ti

sembri speciale, devi metterti in testa che i ragazzi vogliono tutti la stessa cosa.»«Sicura?»«Certo, mia cara.» Molly mi diede un colpetto sul braccio. «Voglio solo che tu sia

preparata.»Ammutolii. Se c’era un campo in cui mi fidavo delle opinioni di Molly, erano i ragazzi. Era

la sua area di specializzazione e aveva abbastanza esperienza da essere affidabile. Provai un certo disagio. Davo per scontato che a Xavier non importasse il sesso. Dopotutto non aveva mai sollevato l’argomento, non aveva mai lasciato intendere che rientrasse nelle sue aspettative. Possibile che mi nascondesse i suoi veri desideri? Solo perché non ne parlava, non voleva dire che non ci pensasse. Mi amava perché ero diversa, però gli umani avevano certe necessità, alcune delle quali non si potevano certo ignorare all’infinito.

«Oddio, ma l’hai visto quello nuovo?» Molly interruppe il filo dei miei pensieri.Sollevai lo sguardo in tempo per vedere Jake Thorn che ci passava davanti. Lui non mi

guardò, attraversando la sala per andarsi a sedere a capo della tavolata di una quindicina di ragazzi dell’ultimo anno, che lo guardavano con una strana miscela di adorazione e di rispetto.

«Non ci ha messo molto a farsi degli amici», commentai.«E ti stupisci? Quello è da sballo.»«Dici?»«Sì, ha un suo fascino da bello e dannato. Con quella faccia, potrebbe anche fare il

modello.»Gli amici di Jake si somigliavano. Avevano tutti occhiaie profonde, tendevano a stare a testa

bassa e a evitare gli sguardi di chiunque non facesse parte del gruppo. Lui li osservava col sorriso compiaciuto di un gatto davanti a una ciotola di latte.

«Facciamo letteratura insieme», buttai lì.«Oddio, che fortuna!» cinguettò Molly. «Allora che tipo è? Un ribelle?»«In effetti, è piuttosto intelligente.»«Uffa. Quelli neanche mi guardano. Io attiro solo i tipi grandi, grossi e scemi. Anche se

tentar non nuoce...»«Non credo che sia una buona idea.»«Facile a dirsi per chi ha Xavier Woods.»C’interruppe uno strillo acuto proveniente dalle cucine, seguito da un coro di voci

terrorizzate e dal rumore di passi di corsa. I ragazzi si scambiarono occhiate nervose e alcuni si alzarono per andare a vedere. Uno di loro, Simon Laurence, raggiunse la soglia della cucina e s’immobilizzò. Poi fece un passo indietro, pallido in viso e con una mano sulla bocca, come se stesse per vomitare.

«Ehi, cos’è successo?» Molly agguantò Simon mentre ci passava davanti.

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«Una delle cuoche... Le si è rovesciata addosso la friggitrice... Si è ustionata le gambe, di brutto. Stanno chiamando l’ambulanza.» Si allontanò barcollando.

Abbassai la testa sul piatto e cercai di convogliare la mia energia guaritrice verso la cucina, almeno per attenuare il dolore. Sarebbe stata più efficace se avessi potuto vedere o toccare la persona ferita, ma non potevo entrare in cucina senza destare sospetti, e comunque mi avrebbero probabilmente buttato fuori prima che potessi avvicinarmi alla cuoca. Così restai al mio posto e feci quello che potevo. Però c’era qualcosa che non andava: non riuscivo a incanalare l’energia. Ogni volta che ci provavo, qualcosa mi bloccava e il flusso benefico sembrava rimbalzare all’indietro. Era come se un’altra forza, impenetrabile come il cemento, intercettasse la mia e la respingesse verso di me. Forse ero solo stanca. Moltiplicai gli sforzi, ma incontrai solo una maggiore resistenza.

«Beth? Che stai facendo? Sembra che hai mal di pancia», borbottò Molly, scuotendomi dalla trance.

Cercai di sorridere. «Fa caldo, qui dentro.»«Sì, usciamo. Tanto non possiamo fare niente.»La seguii in silenzio.Mentre passavamo davanti al tavolo dov’erano seduti Jake e i suoi nuovi amici, lui alzò lo

sguardo. I nostri occhi s’incontrarono e, per una frazione di secondo, mi sembrò di annegare nelle sue profondità.

22 S come...

Quel weekend, Molly venne per la prima volta a casa mia. Era da un po’ che provava a farsi invitare e alla fine avevo ceduto.

Non ci mise molto per mettersi a proprio agio e si lasciò cadere sull’ampio divano. «Questa casa è una meraviglia. Ci potresti fare una festa da urlo.»

«Anche no.»Ignorando la mia mancanza d’entusiasmo, Molly saltò in piedi per andare a esaminare il

quadro appeso sopra il camino. Attorno al simbolo centrale si allargava una serie di cerchi blu, via via sempre più tenui fino a diventare bianchi. «Cosa dovrebbe rappresentare?»

Secondo me, esprimeva l’essenza della realtà, era la raffigurazione del ruolo del Creatore nell’universo. Lui era la sorgente e il centro di tutte le cose. Da Lui traeva origine la trama della vita, che Gli restava indissolubilmente legata. I cerchi potevano rappresentare la portata della Sua sovranità, mentre il bianco simboleggiava il tempo e lo spazio. Il Suo potere era illimitato e raggiungeva i margini della tela, lasciando intendere che proseguivano oltre, riempiendo ogni spazio. Non era solo il mondo ad appartenergli, era l’intero universo. L’infinito e ciò che andava oltre l’infinito. La sola e unica realtà innegabile era Lui.

Di certo non avevo intenzione di mettermi a spiegarlo a Molly. E non per un senso di superiorità nei suoi confronti. Ormai avevo capito che gli umani avevano paura di tutto ciò che andava oltre il loro mondo terreno. E, se anche si chiedevano cosa ci fosse oltre quel mondo, era impossibile che arrivassero a formulare una risposta. Un giorno, la loro vita sarebbe finita e persino la Terra sarebbe scomparsa, ma l’esistenza era destinata a continuare.

A ogni modo, Molly aveva già perso interesse per il quadro e stava sollevando con cautela la chitarra appoggiata a una sedia. «È di Gabriel?»

«Sì, e ci tiene molto», risposi, augurandomi che la rimettesse a posto.Mi guardai attorno per controllare che Gabriel o Ivy non si fossero appostati dietro qualche

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angolo. No, non c’erano. Ci avevano dunque concesso un po’ di privacy.Molly reggeva lo strumento con delicatezza, palesemente affascinata, e faceva scorrere le

dita sulle corde. «Vorrei tanto saper suonare. Da piccola ho studiato pianoforte, ma non mi sono mai esercitata con costanza. Mi sembrava solo una gran fatica. Mi piacerebbe sentir suonare tuo fratello.»

«Be’, glielo possiamo chiedere quando torna. Ti andrebbe uno spuntino?»La guidai in cucina, dove Ivy ci aveva premurosamente lasciato dei muffin e un vassoio di

frutta. Alla fine, i miei fratelli si erano ripresi dalla storia della festa e avevano accettato la mia amicizia con Molly. In realtà non avevano avuto scelta: negli ultimi tempi, sembrava che io avessi sviluppato una mia volontà autonoma.

«Buonissimo!» esclamò Molly dopo aver dato un morso al muffin ai mirtilli. Di colpo, però, si bloccò. «Questo non vale come insalata, vero?»

In quell’istante, Gabriel fece la sua comparsa dalla porta sul retro, con la tavola da surf sottobraccio e la T-shirt bagnata incollata al torso muscoloso. Nella sua forma umana, Gabriel aveva bisogno di fare molta attività fisica: per lui, era l’unico modo efficace per scaricare la tensione. Di recente, poi, si era appassionato al surf. Inutile dire che non aveva avuto bisogno di prendere lezioni. Che bisogno c’era, quando le onde stesse gli obbedivano?

Senza farsi notare, Molly lasciò cadere il muffin sbocconcellato sul piatto.«Ciao, Molly», la salutò Gabriel.A mio fratello non sfuggiva nulla e si accorse subito del mezzo muffin. Probabilmente si

chiedeva cos’avesse fatto per farle perdere l’appetito. «Bethany, forse possiamo offrire a Molly qualcos’altro. Sembra che i muffin di Ivy non le piacciano.»

«No, sono deliziosi», si affrettò a dire lei.«È che Molly è a dieta per il ballo», spiegai.Gabriel scosse la testa. «Alla vostra età, le diete fanno male. E poi tu non ne hai certo

bisogno.»Molly lo fissò per un attimo in silenzio. «È molto gentile da parte tua. Voglio perdere solo

qualche chilo.» Si pizzicò con pollice e indice all’altezza della vita.Gabriel si appoggiò al bancone della cucina e la studiò. «Vedi, il corpo umano è sempre

bellissimo, indipendentemente dalla forma e dalle dimensioni che assume. Un giorno arriverai a capirlo.»

«Ma non trovi che certi corpi siano più belli di altri?» chiese Molly. «Hai presente le top model?»

«Non c’è niente di più affascinante di una ragazza che sa apprezzare il buon cibo», replicò Gabriel. Quel commento mi stupì: non lo avevo mai sentito esprimere opinioni sul fascino femminile, che di solito gli era del tutto indifferente.

«Sono assolutamente d’accordo!» esclamò Molly, riprendendo a sbocconcellare il muffin.Gabriel sembrò soddisfatto di averla convinta e fece per andarsene.«Aspetta! Verrai al ballo?» chiese Molly.Gabriel si voltò a guardarla, con un guizzo di divertimento negli occhi grigi. «Sì.

Sfortunatamente fa parte del mio lavoro.»«Potresti anche divertirti», suggerì lei, timidamente.«Vedremo.»Nonostante la risposta vaga, Molly sembrò soddisfatta. «Allora ci vediamo lì.»Passammo il resto del pomeriggio alla ricerca di pettinature da copiare, sfogliando riviste di

moda e scandagliando Google grazie al computer portatile che Molly si era portata dietro. Lei aveva deciso di tenere i capelli raccolti in uno chignon o in una corona di ricci. Io non ci avevo ancora pensato, ma sapevo di poter contare sui consigli di Ivy.

«Ho riflettuto su quello che hai detto», dissi a un certo punto, mentre Molly studiava una foto di Gwyneth Paltrow nel ruolo di Emma Woodhouse. «A proposito di Xavier e... della parte fisica della nostra relazione.»

«Oddio, raccontami tutto! Com’è stato? Ti è piaciuto? Non importa se non ti è piaciuto. Non

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ti puoi aspettare che la prima volta sia tutto perfetto. Con la pratica migliora.»«No, no, non è successo niente. Mi stavo solo chiedendo se è il caso di parlarne con

Xavier.»«Parlarne? E perché?»«Per sapere cosa ne pensa.»«Se gli creasse qualche problema, te ne avrebbe già parlato lui. Perché ti preoccupi?»«Be’, mi piacerebbe sapere cosa vuole, cosa si aspetta, cosa lo renderebbe felice...»«Beth, non devi farlo solo per far felice un ragazzo. Se non ti senti pronta, è meglio

aspettare. Forse avrei dovuto aspettare anch’io.»«Ma io voglio parlarne con lui. Non voglio sembrargli una bambina.»Molly chiuse la pagina web che stava scorrendo e si girò per guardarmi in faccia. Aveva

un’espressione molto seria. «È un argomento di cui tutte le coppie devono parlare, prima o poi. La cosa migliore è essere onesta. Lui lo sa che non hai esperienza, giusto?»

Annuii.«Bene, così non ci saranno sorprese. Devi solo dirgli che ci hai pensato e che vuoi sapere

cosa prova lui. Così capirai come regolarti.»«Grazie.» Le sorrisi. «Sei la migliore.»«Lo so. Comunque ti ho detto che ho escogitato un piano fantastico?»«No. Qual è l’obiettivo?»«Attirare l’attenzione di Gabriel.»«Molly, non ricominciare. Ne abbiamo già parlato.»«Lo so, ma non ho mai conosciuto uno come lui. E poi adesso le cose sono cambiate... Io

sono diversa.»«Come sarebbe a dire?»«Be’, mi sono resa conto di una cosa.» Sorrise. «L’unico modo per piacere a Gabriel è

diventare una persona migliore. Così ho deciso di sviluppare una coscienza sociale, sai, di mostrarmi più ’impegnata nella comunità’.»

«E cosa vorresti fare, di preciso?»«Intanto qualche ora di volontariato alla casa di riposo. Devi ammettere che è una tattica

micidiale.»«Sai, la maggior parte delle persone non aiuta il prossimo per tattica. A Gabriel non

piacerebbe.»«Ma lui non lo sa, giusto? E poi lo faccio per i motivi giusti. Lo so che adesso lui non mi

vede come lo vedo io, ma un giorno potrebbe farlo. Magari non succederà subito. Però gli dimostrerò che sono degna di lui.»

«E come pensi di dimostrarglielo, se lo fai per finta?»«Forse voglio cambiare davvero.»«Molly...»«Non cercare di farmi cambiare idea. Voglio provarci e vedere cosa succede. Devo fare un

tentativo.»Non andrai da nessuna parte. Non c’è verso, pensai, ricordando gli avvertimenti che avevo

ricevuto io non molto tempo prima. «Non sai niente di Gabriel. Non è quello che sembra. Lui è sensibile come quell’angelo di pietra in giardino.»

«Ma cosa dici? Tutti hanno dei sentimenti, solo che per qualcuno è più difficile esprimerli. Non m’importa aspettare.»

«Con Gabriel perdi tempo. Lui non prova quello che provano le persone normali.»«Be’, se verrà fuori che hai ragione tu, allora lascerò perdere.»«Scusami. Non volevo metterti in crisi. Vorrei solo che non ci rimanessi male.»«Lo so che quello che provo per lui è rischioso», ammise Molly. «Ma è un rischio che sono

disposta a correre. E ormai è troppo tardi per tornare indietro. Come vuoi che faccia a prendere in considerazione un altro, dopo aver conosciuto lui?»

La osservai con più attenzione. La sua espressione era così aperta e sincera che fui costretta

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a crederle. «Ti ha per caso dato motivo di pensare che potrebbe nascere qualcosa tra voi?»«Non ancora. Sto ancora aspettando un segnale.»«Perché ti piace tanto? Perché è bello?»«All’inizio era per quello. Ma adesso c’è qualcosa di più. Ogni volta che lo vedo, provo una

strana sensazione di déjà-vu, come se fossi già stata con lui. È un po’ inquietante, però è anche bellissimo. È come se sapessi cosa sta per dire o per fare.» Scosse la testa, risoluta. «Allora, mi aiuterai?»

«Cosa posso fare?»«Portami con te la prossima volta che vai a Fairhaven.»Possibile che l’interesse di Molly per la casa di riposo rientrasse nel piano divino? Si

trattava comunque d’incoraggiare lo spirito di carità, anche se le motivazioni erano discutibili. «Vedremo, ma non ci contare troppo.»

Quando Molly fu pronta per andare via, stava già facendo buio. Cortese come sempre, Gabriel si offrì di accompagnarla a casa in auto.

«No, non serve», disse Molly, che non voleva essere di peso. «Posso tornare a piedi. Non è lontano.»

«Temo di non poterlo permettere», rispose Gabriel, prendendo le chiavi della jeep. «A quest’ora, è meglio non rischiare.»

Inutile discutere, come sempre. Mentre mi salutava con un abbraccio, Molly mi strizzò l’occhio e mi sussurrò: «Ecco il segnale!» Poi, cercando di darsi un contegno, seguì Gabriel verso l’auto.

Tornata in camera, cercai di rimettermi al lavoro sulla poesia, ma scoprii di essere preda della classica sindrome del foglio bianco. Non riuscivo a farmi venire neppure un’idea. Scarabocchiai qualche parola, ma sembravano tutte così trite e ritrite che finirono nel cestino. Era stato Jake a iniziare, perciò non sentivo nessun legame con la poesia, né mi veniva in mente qualcosa di adatto per continuarla. Alla fine, rinunciai e scesi in soggiorno per telefonare a Xavier.

La mia mancanza di creatività non si rivelò un problema.«Mi sono preso la libertà di scrivere il resto della prima strofa», annunciò Jake quando ci

sedemmo in fondo all’aula di letteratura, il giorno successivo. «Spero che non ti dispiaccia.»«No, anzi. Posso sentirla?»Con uno scatto del polso, aprì il quaderno e lesse:

Aveva un viso d’angelomi specchiavo nel suo sguardoeravamo uniti e uguali, lei e iola menzogna il nostro accordo.

Sollevai lentamente lo sguardo. Non sapevo neanch’io cosa mi fossi aspettata.«È orrenda?» Jake mi scrutò in attesa di una reazione.Avrei giurato che, fino a quel momento, i suoi occhi mi erano sembrati verdi. Adesso erano

neri come il carbone. «No, il contrario. Ci sai fare con queste cose.»«Grazie. Ho provato a immaginarmi come Heathcliff che scrive di Cathy. Per lui, niente

contava più di lei. L’amava di un amore così intenso da non lasciare niente per gli altri.»«Era un amore distruttivo», concordai.Abbassai lo sguardo, ma Jake mi prese la mano e fece scorrere le dita sul mio polso. Erano

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caldissime; le sentii bruciare sulla pelle. Era come se volesse mandarmi un messaggio in codice Morse. «Sei molto bella. Non ho mai toccato una pelle così delicata. Ma immagino che te lo dicano di continuo.»

Ritrassi il polso. «No. Non me l’ha mai detto nessuno.»«Ci sono molte altre cose che vorrei dirti, se me ne dessi l’opportunità.» Adesso sembrava

quasi in trance. «Potrei aiutarti a capire cosa significa davvero amare.»«Io amo già qualcuno. Non ho bisogno del tuo aiuto.»«Potrei farti provare cose che non hai mai provato.»«Xavier mi dà tutto quello che voglio.»«Potrei mostrarti il piacere a livelli che non riesci neanche a immaginare», insistette lui. La

sua voce era un mormorio ipnotico.«Non credo che a Xavier piacerebbe», replicai con freddezza.«Bethany, pensa a quello che piace a te. A mio parere, racconti anche troppe cose a Xavier.

Se fossi in te, gli direi solo lo stretto necessario.»La sua impudenza mi sorprese. «Be’, tu non sei me e non è così che mi comporto io. Il mio

rapporto con Xavier si basa sulla fiducia, un concetto che forse non ti è familiare.» Volevo sottolineare l’abisso morale che ci separava. Spinsi via la sedia e mi alzai. Alcuni studenti si voltarono a guardarmi, curiosi e in attesa. Persino Miss Castle sollevò lo sguardo dalla pila di compiti che stava correggendo.

«Non arrabbiarti», disse Jake, d’un tratto implorante. «Ti prego, siediti.»Mi rimisi a sedere di malavoglia, solo perché non volevo attirare l’attenzione e alimentare

pettegolezzi. «Non credo di voler continuare questo lavoro con te. Sono sicura che Miss Castle capirà.»

«Non fare così. Mi dispiace. Possiamo semplicemente dimenticare quello che ho detto?»Sbuffai e incrociai le braccia, ma non avevo speranza di tenere testa all’espressione

innocente di Jake.«Ho bisogno della tua amicizia. Non vuoi darmi un’altra occasione?»«Solo se prometti di non dire più niente del genere.»«Certo, certo.» Jake sollevò le mani in segno di resa. «Lo prometto, neanche una parola.»Quando ritrovai Xavier, dopo la lezione, non gli raccontai del dialogo con Jake. Temevo che

si arrabbiasse e che si mettesse in testa di affrontarlo. Avevamo già i nostri problemi cui pensare. Eppure nascondere qualcosa a Xavier mi diede una sensazione sgradevole. Poi, d’un tratto, mi resi conto che era proprio quello lo scopo di Jake Thorn.

«Posso parlarti di una cosa?» chiesi a Xavier mentre ce ne stavamo distesi sulla spiaggia, dopo la scuola.

In realtà, saremmo dovuti andare dritti a casa a studiare per gli esami di fine trimestre, ma ci eravamo lasciati tentare dalla prospettiva di un gelato. Con un cono in mano, avevamo preso la strada più lunga, quella che passava appunto dalla spiaggia. Ovviamente mi era venuta voglia d’immergere i piedi in acqua. Poi avevamo cominciato a rincorrerci, finché Xavier non mi aveva acchiappato, trascinandomi a terra.

Xavier rotolò su un fianco per guardarmi e mi tolse qualche granello di sabbia dal viso. «Di tutto quello che vuoi.»

«Be’, non so da che parte cominciare... E non vorrei dirlo nel modo sbagliato...»Lui si mise a sedere e si scostò i capelli dagli occhi, serio in viso. «Vuoi rompere?»«Cosa? No, certo che no, è proprio il contrario.»«Bene.» Tornò a stendersi e sorrise, sornione. «Allora vuoi chiedermi di sposarti. Sai, negli

anni bisestili tocca alle ragazze...»«Così non mi aiuti.»«Scusa. Dimmi tutto.»

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«Volevo sapere cosa ne pensi di... cosa provi riguardo a...» Esitai e abbassai la voce. «Alla parola che inizia per S.»

«Non sono bravo con gli indovinelli. Dovresti essere un po’ più chiara.»Ero piuttosto a disagio.«Qual è la seconda lettera?» rise Xavier, cercando di aiutarmi.«E. Seguita da due S.»«Vuoi parlare di sesso?»«Non voglio parlarne. Volevo solo chiederti se... be’, se ci hai mai pensato.»«E questa da dove esce?» chiese lui dolcemente. «Non mi sembra da te.»«Ho parlato con Molly e, secondo lei, è strano che noi non abbiamo... lo sai, che non lo

abbiamo fatto.»«È proprio necessario che Molly sappia tutti i dettagli del nostro rapporto?»«Non pensi mai a me in quel senso?» gli chiesi, con un’improvvisa stretta al cuore. Era una

possibilità che non avevo considerato. «Ho qualcosa che non va?»«Ehi, certo che no.» Xavier mi prese la mano. «Beth... per molti ragazzi il sesso è quello che

tiene insieme la coppia, ma per noi è diverso. Noi abbiamo molto di più. Non te ne ho mai parlato perché credevo che non ce ne fosse bisogno. Sono sicuro che sarebbe bellissimo, ma io ti amo per quello che sei, non ho bisogno d’altro.»

«Tu ed Emily lo avete fatto?» Quasi non l’avevo ascoltato.«Oddio.» Xavier si lasciò ricadere sulla sabbia. «Non di nuovo.»«Allora?»«È così importante?»«Rispondimi e basta!»«Sì, lo abbiamo fatto. Contenta, adesso?»«Ecco! Un’altra cosa che lei ti ha dato e io no.»«Beth, una relazione non si basa solo su quello.»«Però ne fa parte», protestai.«Certo, ma non è essenziale.»«Però tu sei un maschio. Non hai delle... ’necessità’?» chiesi, abbassando la voce.Xavier rise. «Quando incontri una famiglia di messaggeri celesti, le tue ’necessità’ tendono

a passare in secondo piano.»«E se ti dicessi che io lo desidero?» dissi all’improvviso, sorpresa delle mie stesse parole.

Cosa mi passava per la testa? Mi rendevo conto del pasticcio in cui mi stavo cacciando? Sapevo solo di amare Xavier più di ogni altra cosa al mondo e che stargli lontana mi provocava un dolore fisico. Odiavo l’idea che ci fosse una parte di lui che non avevo scoperto, che mi era preclusa. Volevo conoscerlo dentro e fuori, imparare a memoria il suo corpo e scolpirmelo nella mente. Volevo stargli vicino il più possibile, unendomi a lui nel corpo e nell’anima. «Allora? Diresti di sì?»

«No.»«Perché?»«Perché non credo che tu sia pronta.»«Non sta a me deciderlo?» ribattei testarda. «Non puoi impedirmelo.»«Bisogna essere in due.» Mi accarezzò il viso. «Beth, io ti amo e niente mi rende più felice

che stare con te. Sei inebriante.»«E quindi?»«Quindi, se vuoi farlo davvero, sono d’accordissimo, ma non prima di averci pensato bene.»«Allora quando?»«Quando avrai avuto modo di rifletterci da sola e non perché ne hai parlato con Molly.»Sospirai. «Non ha niente a che fare con lei.»«Hai pensato alle possibili conseguenze?»«Suppongo...»«E vuoi farlo comunque? È da pazzi.»«Ma non capisci? Non me ne importa più nulla.» Sollevai il viso al cielo. «Quella non è più

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la mia casa. Adesso la mia casa sei tu.»Xavier mi cinse con le braccia e mi attirò a sé. «E tu sei la mia. Ma non farei mai qualcosa

che potesse ferirti. Dobbiamo giocare secondo le regole.»«Non è giusto. Detesto che qualcun altro governi la mia vita.»«Lo so, però adesso non possiamo farci nulla.»«Invece sì.» Cercai di trattenermi, ma le parole sembravano uscirmi di bocca senza

controllo. «Potremmo andarcene, dimenticarci di tutto.» Capii di aver trattenuto quel pensiero troppo a lungo. «Potremmo nasconderci. Non ci troverebbero mai.»

«Lo sai che ci troverebbero. E io non voglio perderti», disse Xavier con determinazione. «E, se ciò significa adeguarci alle loro regole, così sia. Lo so che sei arrabbiata, ma vorrei che riflettessi su quello che stai dicendo. Pensaci, almeno per un po’.»

«Per un paio di giorni?»«Facciamo per un paio di mesi.»Sospirai, ma lui era irremovibile.«Non ti permetterò di fare qualcosa di cui potresti pentirti. Rallenta. Dobbiamo essere calmi

e ragionevoli. Fallo per me, vuoi?»Gli appoggiai la testa sul petto e sentii svanire la rabbia. «Per te, farei questo e altro.»

«Cosa succederebbe se un angelo e un essere umano facessero l’amore?» chiesi quella sera a Ivy, mentre mi versavo una tazza di latte.

Mi lanciò uno sguardo tagliente. «Perché me lo chiedi? Bethany, ti prego, dimmi che non l’hai fatto!»

«Certo che no», risposi subito. «Sono solo curiosa.»«Be’...» Si fece pensierosa. «Lo scopo della nostra esistenza è servire Dio aiutando gli esseri

umani, non mescolarci a loro.»«È mai successo?»«Sì, con conseguenze disastrose.»«Sarebbe a dire?»«Sarebbe a dire che l’umano e il divino non sono destinati a unirsi. Se succedesse, temo che

l’angelo perderebbe la propria divinità. E non avrebbe speranza di redenzione.»«E l’umano?»«Non potrebbe mai più tornare alla sua esistenza normale.»«Perché?»«Perché avrebbe provato un’esperienza che supera ogni umana comprensione.»«Quindi ne porterebbe per sempre il segno?»«Già. Si può anche metterla così: diventerebbe un emarginato. Fargli intravedere un’altra

dimensione e poi impedirgli l’accesso sarebbe una crudeltà bella e buona, a mio parere. Gli angeli esistono oltre il tempo e lo spazio e viaggiano liberamente tra i mondi. Per buona parte, la nostra esistenza è del tutto incomprensibile per gli umani.»

Il concetto non mi era del tutto chiaro, ma una cosa l’avevo afferrata: non potevo far niente di avventato con Xavier, per quanto lo desiderassi. Un’unione come quella era pericolosa e proibita. Avrebbe provocato una fusione innaturale fra Terra e Cielo, la collisione di due mondi. E, come aveva detto Ivy, le conseguenze sarebbero state devastanti.

«Xavier e io abbiamo deciso di aspettare», annunciai a Molly il giorno dopo, in mensa. Talvolta mi sembrava che il suo interesse per la mia vita sentimentale avesse un che di morboso. Ma non potevo certo spiegarle quello che mi aveva detto Ivy. «Non c’è bisogno di fare qualcosa di particolare per dimostrare quello che proviamo l’uno per l’altra.»

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«Tu non vorresti provare? Non sei curiosa?»«Sì, però non abbiamo fretta.»«Mamma mia, voi due vivete davvero in un mondo tutto vostro.» Molly rise. «Tutti gli altri

non vedono l’ora di farlo, ogni volta che possono.»«Di fare cosa?» chiese Taylah, che spuntò alle nostre spalle, succhiando un leccalecca. Feci

un cenno a Molly per farle capire di cambiare argomento, ma lei m’ignorò.«Di fare sesso.»«Ah, vuoi buttare alle ortiche la verginità?» chiese Taylah, sedendosi accanto a noi.Dovevo avere un’espressione inorridita, perché Molly scoppiò a ridere. «Rilassati, Beth. Di

Taylah ti puoi fidare. Anzi forse può aiutarti.»«Se vuoi sapere qualcosa sul sesso, sono la persona che fa per te.»Ero decisamente scettica. Di Molly mi fidavo; delle sue amiche con la lingua lunga molto

meno. «No, grazie. Niente d’importante.»«Lo vuoi un consiglio?» chiese Taylah, imperterrita. «Non farlo con qualcuno che ami.»«Come?» La guardai, sbalordita. «Volevi dire il contrario, spero.»«Oh, Tay, non dirle così», intervenne Molly.«No, sul serio», continuò Taylah, agitandomi un dito davanti al naso. «Se la prima volta è

con qualcuno che ami davvero, dopo va tutto in malora.»«Ma perché?»«Perché, quando la storia finisce, perdi qualcosa di speciale e lo perdi per sempre. Se invece

lo fai con qualcuno che non t’interessa tanto, sarà meno doloroso.»«E se la storia non finisce?» chiesi, con un groppo in gola.«Finisce sempre, credimi.»Provai l’improvviso, incontenibile impulso di fuggire da quelle due ragazze.«Beth, non farci caso», disse Molly, quando spinsi indietro la sedia per alzarmi. «Ecco,

guarda che hai fatto, l’hai sconvolta.»«Certo che no», mentii, cercando di mantenere salda la voce. «Ho un appuntamento. Ci si

vede dopo e... grazie per il consiglio, Taylah.»Appena fuori dalla mensa, allungai il passo. Dovevo trovare Xavier. Avevo bisogno che mi

stringesse a sé. Lo trovai vicino al suo armadietto, pronto per l’allenamento di pallanuoto.«Non finirà, vero?» Affondai il viso nel suo petto. «Promettimi che non lascerai che

finisca.»«Ehi, cos’hai?» Xavier mi allontanò dolcemente, ma con fermezza, e mi costrinse a

guardarlo. «Cos’è successo?»«Niente», risposi con voce tremante. «È solo che Taylah ha detto...»«Beth...» sussurrò. «Quando la smetterai di ascoltare quelle ragazze?»«Ha detto che tutte le storie finiscono. Ma non lo sopporterei se succedesse a noi. Non mi

resterebbe più niente per cui vivere. Se tra noi finisse, finirei anch’io.»«Non dire così. Io sono qui, e ci sei anche tu. Nessuno di noi andrà da nessuna parte.»«E non mi lascerai mai?»«Non finché vivo.»«Come faccio a sapere che è vero?»«Perché, quando ti guardo, io vedo tutto il mio mondo. Non ho intenzione di andarmene;

non mi resterebbe nulla.»«Ma perché hai scelto me?» Conoscevo la risposta, sapevo quanto mi amava, però avevo

bisogno di sentirglielo dire.«Perché tu mi avvicini a Dio e a me stesso. Quando sono con te, capisco cose che non

credevo di poter capire, e quello che provo per te annulla tutto il resto. Il mondo potrebbe pure crollare e non me ne fregherebbe niente.»

«Vuoi sentire un’altra assurdità?» gli mormorai. «Talvolta, di notte, sento la tua anima accanto a me.»

«Non è assurdo.»

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«Stabiliamo un posto. Un posto tutto nostro; un posto dove potremo sempre ritrovarci se qualcosa andasse male.»

«Sotto le scogliere di Shipwreck Coast?»«No, intendo nella nostra mente. Un posto in cui rifugiarci se mai dovessimo perderci o

essere separati, o anche solo per metterci in contatto. L’unico posto che nessun altro potrà mai scoprire.»

«Mi piace», disse Xavier. «Perché non lo chiamiamo il Punto Bianco?»«È perfetto.»

23 R.I.P.

Nel sistema di conoscenze accettato dalla maggior parte dell’umanità, esistono solo due dimensioni esistenziali: la vita e la morte. In realtà, ne esistono molte altre. La vita quotidiana sulla Terra si svolge in parallelo a quella di altri esseri, vicini ma invisibili all’occhio inesperto. Per esempio, ci sono gli Esseri dell’Arcobaleno, immortali capaci di viaggiare tra i mondi e fatti solo di saggezza e conoscenza. Talvolta se ne coglie un guizzo mentre saettano tra una dimensione e l’altra. Appaiono come un bagliore di luce bianco-dorata o come un fioco arcobaleno sospeso nell’aria. Chi li vede di solito si convince che sia uno scherzo della luce. Sono in pochi ad avvertire una presenza divina. Ero convinta che Xavier fosse uno di loro.

Trovai Xavier in mensa, scivolai accanto a lui e mangiai qualche nachos. Quando si mosse sulla sedia, la sua coscia sfiorò la mia e mi fece rabbrividire. Ma non potei godermi a lungo quella sensazione, perché un coro di voci rabbiose si levò dal bancone. Due ragazzi si erano messi a litigare.

«Ehi, mi sei passato davanti!»«Figurati, sono in coda da una vita.»«Stronzate! Chiedilo agli altri!»Senza insegnanti in giro, la discussione degenerò rapidamente in spintoni e insulti. Alcune

ragazzine del primo anno cominciarono a impaurirsi quando l’uno prese per il collo l’altro.Xavier scattò in piedi per intervenire, ma si rimise subito a sedere perché qualcun altro lo

aveva battuto sul tempo. Era Lachlan Merton, un tizio dai capelli ossigenati, sempre attaccato all’iPod, e che in tutto l’anno non si era mai degnato di consegnare nemmeno un compito. Strano, di solito se ne fregava di quello che gli succedeva attorno. Non riuscimmo a sentire cosa stava dicendo, ma i ragazzi si separarono e obbedirono persino al suo invito a stringersi la mano.

«Lachlan Merton che si comporta in maniera responsabile... questa è nuova», sottolineò Xavier.

Mi resi conto che avevamo appena assistito a uno dei cambiamenti in atto alla Bryce Hamilton. Ivy e Gabriel sarebbero stati contenti di sapere che i loro sforzi stavano facendo effetto. Certo, Venus Cove non era il mondo intero, tuttavia la nostra missione era lì; il resto rientrava nei compiti di altri guardiani. E, a essere sincera, in fondo ero contenta che non mi fosse toccato un Paese devastato dalla guerra, dalla povertà o dai disastri naturali. Le immagini di quei luoghi che passavano ai telegiornali erano già abbastanza sconvolgenti. Cercavo di non guardarle, perché spesso mi portavano alla disperazione. Non ce la facevo a vedere i bambini che morivano di fame o

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di malattie provocate dalla carenza d’acqua potabile. Quando pensavo a tutto quello che gli uomini fingevano di non vedere, mi veniva da urlare. Perché certe persone meritavano meno di altre? Nessuno dovrebbe patire la fame o la solitudine, né augurarsi di morire per mettere fine a una situazione disperata. Continuavo a pregare per un intervento divino, ma talvolta il semplice pensiero mi mandava su tutte le furie.

Quando ne avevo parlato con Gabriel, lui mi aveva detto che non ero ancora pronta, ma che un giorno avrei capito. «Affronta solo ciò che sei in grado di affrontare», aveva concluso.

Il giorno successivo, partimmo per Fairhaven, la casa di riposo. C’ero già stata un paio di volte a trovare Alice – come le avevo promesso –, ma poi non mi ero più fatta vedere, perché ormai dedicavo a Xavier la maggior parte del tempo libero. Invece Ivy e Gabriel ci andavano regolarmente, insieme con Phantom. Mi raccontavano che ogni volta correva dritto da Alice.

Dato che pure Molly si era offerta di venire, passammo a prenderla. Era già pronta, alle nove di un sabato mattina: sapevo benissimo che di solito non si alzava prima di mezzogiorno. Era vestita come se dovesse fare un servizio fotografico: camicetta a quadri, minigonna di jeans e tacchi alti. Taylah si era fermata a dormire da lei e rimase sbalordita quando scoprì che l’amica, di sua spontanea volontà, avrebbe rinunciato a una maratona di Gossip Girl per fare volontariato con gli anziani.

«Perché vai in una casa di riposo?» chiese a Molly mentre io le aprivo la portiera.«Prima o poi ci finiremo tutti», rispose lei con un sorriso. Poi controllò il lucidalabbra nel

riflesso del finestrino.«Non io», giurò Taylah. «Quei posti puzzano.»«Ti chiamo più tardi.»«Ma dovevamo vedere Adam e Chris!»«Salutameli!»Taylah rimase a guardarci mentre ci allontanavamo. Di certo si stava chiedendo chi avesse

rapito la sua migliore amica per rimpiazzarla con un’aliena.A Fairhaven, il personale era abituato alle visite regolari di Gabriel e Ivy, ma la presenza di

Molly li sorprese.«Vi presento Molly», disse Gabriel. «Oggi si è gentilmente offerta di aiutarci.»«C’è sempre bisogno d’aiuto», disse Helen, una delle infermiere. «Soprattutto quando siamo

a corto di personale come oggi.» Sembrava tesa e stanca.«Sono felice di essere qui.» Molly scandì le parole come se Helen fosse mezza sorda. «È

molto importante fare qualcosa per la comunità.» Lanciò un’occhiata a Gabriel, ma lui non se ne accorse, perché stava aprendo la custodia della chitarra.

«Siete in tempo per la colazione», disse Helen.«Grazie, ho già mangiato», replicò Molly.«Parlavo degli ospiti. Potete aiutarli a mangiare, se volete.»La seguimmo lungo uno squallido corridoio che portava a una tetra sala da pranzo. La

moquette a fiori era logora e i frutti stampati sulle tende erano scoloriti. Gli anziani sedevano su sedie di plastica davanti a tavoli di formica. Chi non riusciva a tenersi dritto, era stato messo in poltroncine con lo schienale avvolgente. Nonostante i deodoranti per ambienti infilati nelle prese a muro, nell’aria aleggiava un odore sgradevole di ammoniaca misto a quello delle verdure bollite. Un televisore acceso in un angolo trasmetteva un documentario naturalistico e il sonoro si confondeva con un concerto di Vivaldi che usciva da un vecchio lettore CD. Ad assistere gli anziani c’erano soprattutto donne, impegnate nella routine di piegare tovaglioli, pulire i tavoli e annodare bavaglini al collo di chi non era in grado di farlo da sé. Qualche viso incuriosito si sollevò al nostro ingresso, ma erano molti quelli non abbastanza in sé da accorgersi di noi.

I vassoi della colazione erano impilati su un carrello e i pasti erano sigillati in confezioni di alluminio. Sopra c’erano file di tazze di plastica.

Alice non c’era, così passai la mezz’ora seguente a imboccare una donna di nome Dora, in sedia a rotelle e con un plaid multicolore sulle ginocchia. Sedeva tutta insaccata, con la bocca semiaperta e lo sguardo vacuo. Aveva la pelle giallastra, sottile come carta, il viso coperto da un

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reticolo di capillari e le mani piene di macchie. Non sapevo esattamente in cosa consistesse la «colazione» a Fairhaven: a me sembrava un ammasso di poltiglia gialla. Mi era stato detto che alcuni ospiti consumavano i pasti frullati per non rischiare di soffocare.

«Che cos’è?» chiesi a Helen.«Sono uova strapazzate.»Un uomo molto anziano cercò di mettersi in bocca una cucchiaiata di cibo, ma le mani gli

tremavano tanto che finì per rovesciarselo addosso. In un attimo, Gabriel gli fu accanto. «Ci penso io», disse, e lo ripulì con un tovagliolo di carta.

Molly era così presa a guardarlo che dimenticò d’imboccare la donna che le era stata affidata e che aspettava il cibo con la bocca aperta.

Non appena ebbi finito con Dora, passai a Mabel, che aveva una pessima reputazione. Spinse via il cucchiaino che le stavo offrendo e serrò le labbra.

«Non ha fame?» chiesi.«Oh, lasciala perdere», intervenne Helen. «Lei vuole Gabriel. Quando c’è lui, non accetta

cibo da nessun altro.»«Va bene. Oggi non ho visto Alice, dov’è?»«L’abbiamo spostata in una camera singola. Temo che sia peggiorata dalla tua ultima visita.

Sta perdendo la vista e ha avuto un’infezione polmonare. La sua stanza è in fondo al corridoio, la prima porta a destra. Sono sicura che le farà bene vederti.»

Perché Ivy e Gabriel non mi avevano detto niente? Ero così concentrata sul mio mondo da indurli a pensare che non me ne importasse?

Phantom mi aveva battuto sul tempo ed era già lì, di guardia in corridoio. Aprii la porta ed entrammo. Faticai a riconoscere la donna sdraiata nel letto: era così diversa dall’Alice che ricordavo! Sembrava fragile come un uccellino. Spariti i cardigan colorati, adesso indossava solo una semplice camicia da notte bianca.

Quando la chiamai, non aprì gli occhi ma tese la mano verso di me. Phantom ci appoggiò il naso prima che potessi stringerla.

«Sei tu, Phantom?» chiese Alice con voce fioca.«Ci sono anch’io, Bethany. Siamo venuti a trovarla.»«Bethany...» ripeté lei. «Che piacere. Mi sei mancata.» Gli occhi erano ancora chiusi, come

se aprirli le richiedesse un grande sforzo.«Come si sente? Vuole che le porti qualcosa?»«No, cara, ho tutto quello che mi serve.»«Mi spiace di non essere venuta prima. È solo che...» Non sapevo come giustificare la mia

negligenza.«Lo so, la vita continua. Non scusarti. Adesso sei qui e questo è l’importante. Spero che

Phantom si comporti bene.»Sentendo il suo nome, il cane emise un breve latrato.«È un compagno perfetto.»«Bravo, cagnone», disse Alice.«Cos’è questa storia che è stata male? Bisognerà rimetterla in piedi alla svelta», esclamai in

tono allegro.«Non penso di averne voglia. Credo che sia ora...»«Non lo dica nemmeno. Ha solo bisogno di riposo e...»All’improvviso, Alice sollevò il capo e aprì gli occhi. Lo sguardo era perso nel vuoto. «Io lo

so chi sei.»«Meglio così», dissi, con una fitta di preoccupazione. «Sono contenta che non si sia

dimenticata di me.»«Sei venuta a prendermi. Non adesso, ma presto.»«Per andare dove?» Non volevo accettare quello che stava dicendo.«In Paradiso. Non riesco a vederti in viso, Bethany, però vedo la tua luce.»La fissai, incapace di ribattere.

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«Mi mostrerai la strada, vero?»Le toccai il polso e sentii il battito. Era come una candela consumata fin quasi allo stoppino.

Non potevo lasciare che l’affetto per lei m’impedisse di fare il mio lavoro. Chiusi gli occhi e ripensai a quello che ero nel Regno: una guida, un mentore per le anime in transito. Il mio compito era confortare le anime dei bambini dopo il trapasso. «Quando verrà il momento, non sarà sola.»

«Sono un po’ spaventata. Dimmi, Bethany, sarà buio?»«No, Alice. Ci sarà soltanto luce.»«E i miei peccati? Sai, non sono sempre stata una brava persona.»«Il Padre perdona tutto.»«E rivedrò i miei cari?»«Diventerà parte di una famiglia molto più grande. Sarà tutt’uno con le creature di questo

mondo e oltre.»Alice si lasciò ricadere sul cuscino, esausta ma soddisfatta. Sbatté le palpebre.«Adesso dovrebbe cercare di dormire», dissi.Chiusi le dita sulla sua mano fragile e Phantom le appoggiò la testa contro il braccio.

Restammo insieme a vegliarla finché non si addormentò.Sulla via del ritorno, pensavo ancora ad Alice e a quello che aveva detto. Guardare la morte

dall’alto era triste, ma sperimentarla sulla Terra era devastante. Era un dolore per il quale non c’era rimedio. Mi sentii in colpa per essermi lasciata trasportare dal mio amore per Xavier fino a sottrarmi alle altre responsabilità. Il Cielo aveva approvato la nostra relazione, almeno per il momento, però non poteva essere un’esperienza totalizzante. Eppure, nel contempo, non desideravo altro che respirare il suo profumo. Nessun’altra persona riusciva a farmi sentire così viva.

Il giorno successivo, ci giunse la notizia che Alice era spirata nel sonno. La cosa non mi sorprese perché quella notte mi ero svegliata per la pioggia che sferzava la finestra e avevo visto il suo spirito aleggiare nell’aria. Sorrideva e sembrava serena. Alice aveva vissuto una vita ricca e piena ed era pronta a passare oltre. Sarebbe stata soprattutto la sua famiglia ad avvertire la perdita, perché non aveva fatto tesoro del tempo che avevano condiviso. Ancora non lo sapevano, ma un giorno avrebbero avuto una seconda occasione.

24 Solo umano

Il giorno del funerale di Alice, il cielo era grigio e il terreno bagnato per la pioggia caduta durante la notte. C’erano poche persone, tra cui alcuni infermieri del Fairhaven. E ovviamente officiava padre Mel. La tomba era su una collinetta, al riparo di una quercia: pensai che Alice avrebbe sorriso, sapendo che dal luogo del suo ultimo riposo si godeva una bella vista.

La morte di Alice mi aveva fatto capire che non potevo trascurare la nostra missione, perciò decisi di dedicarmi il più possibile a servire la comunità. Non era che un piccolo gesto nel grande schema delle cose; mi sentivo anche un po’ stupida, visto che il nostro scopo avrebbe dovuto essere salvare la Terra dalle Forze Oscure. Però in quel modo mi sembrava di contribuire alla causa. Spesso Xavier mi accompagnava. La sua famiglia si era dedicata al volontariato per anni, e per lui non era una novità.

«Non sei obbligato a venirci tutte le volte», gli dissi una sera, mentre aspettavamo il treno per andare alla mensa dei poveri di Point Circe.

«Lo so. Ma voglio venirci. È importante anche per me.»«Tu però hai molti più impegni di me. Non voglio metterti sotto pressione.»

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«Smettila di preoccuparti. So come gestire il mio tempo.»«Non hai l’orale di francese, domani?»«No, domani abbiamo l’orale di francese. Ecco perché mi sono portato questo.» Tirò fuori

un libro dallo zaino. «Possiamo studiare in treno.»Avevo cominciato a prendere confidenza coi treni e, di sicuro, viaggiare con Xavier aiutava.

Trovammo posto in una carrozza vuota, a parte una vecchia rugosa che annuiva di continuo e sbavava sulla camicia. Accanto a lei c’era una bottiglia in una busta di carta marrone.

Stavamo leggendo solo da pochi minuti quando Xavier alzò lo sguardo e sussurrò: «Il Paradiso dev’essere bello grande... Quanto spazio ci vuole per far entrare tutte quelle anime? Mah, ammetto di avere qualche difficoltà col concetto d’infinito».

«In effetti i Regni dei Cieli sono sette», replicai, spinta dal bisogno di condividere le mie conoscenze con Xavier, pur sapendo che era contro le regole.

Lui sospirò e si abbandonò contro lo schienale. «Però! Come mai sette?»«Nel Primo Cielo ci sono solo un Trono e gli angeli che predicano la parola del Signore. Il

Padre, il Figlio e lo Spirito Santo dimorano nel Settimo Cielo, che è il più elevato.»«Ma perché?»«I Cieli hanno funzioni diverse. È come salire una scala gerarchica, su su fino al presidente

di una società.»Xavier si massaggiò le tempie. «Ho parecchio da imparare, vero?»«Eh, ci sono tante regole da tenere a mente. Il Secondo Cielo è lontano quanto lo è il Primo

dalla Terra, gli angeli che stanno sulla destra sono sempre più gloriosi di quelli sulla sinistra; l’ingresso al Sesto Cielo è piuttosto complicato e occorre librarsi fuori dalla porta del Paradiso. Mi rendo conto che tutto questo rischia di confonderti, ma il modo per capire in quale Cielo sei è la luce, perché i Cieli inferiori sono bui in confronto alla luminosità del Settimo...»

«Basta così», m’interruppe Xavier.«Scusa», dissi imbarazzata. «In effetti è un po’ troppo, tutto insieme.»Mi sorrise. «Cerca di ricordarti che sono solo umano.»

Xavier m’invitò a vedere l’ultima partita della stagione della sua squadra di rugby. Sapevo che per lui era importante, così mi organizzai per andarci con Molly e le sue amiche, che di solito facevano le cheerleader della Bryce Hamilton... una banale copertura per poter ammirare con comodo i ragazzi in pantaloncini corti che correvano sul campo. Le ragazze facevano sempre in modo da trovarsi al posto giusto per offrire bibite fredde durante gli intervalli, nella speranza di guadagnarsi la promessa di un appuntamento.

Quando arrivammo, i giocatori si stavano riscaldando. Gli avversari – la squadra della Middleton Preparatory School – erano dalla parte opposta del campo, e indossavano una divisa verde e gialla. Ascoltavano il loro allenatore, così paonazzo in viso che sembrava sull’orlo di un aneurisma. Quando mi vide, Xavier sollevò la mano in un rapido saluto e riprese gli esercizi. Prima della partita, i ragazzi della Bryce Hamilton si strinsero per intonare una specie di coro d’incitamento che parlava del «potente esercito rosso e nero». Poi si misero in posizione, in attesa del fischio dell’arbitro.

«Tipico», borbottò Molly. «Niente come lo sport per tirargli fuori un po’ di sentimento.»Quando la partita cominciò, mi resi conto che non sarei mai diventata una fanatica del

rugby. Era troppo aggressivo. Le due squadre non facevano altro che scontrarsi violentemente per impadronirsi della palla. Guardai uno dei compagni di Xavier, la palla ben salda sotto il braccio, schivare due della Middleton e, arrivato a pochi metri dalla linea di meta, tuffarsi a terra. Le mani che stringevano la palla erano appena oltre la linea. Uno dei giocatori della Middleton, che aveva tentato un placcaggio disperato, gli piombò addosso. I compagni di squadra della Bryce Hamilton esultarono, lo aiutarono ad alzarsi e gli assestarono robuste pacche sulle spalle.

Mi stavo coprendo gli occhi per non vedere lo scontro fra due giocatori quando Molly mi

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diede una gomitata. «E quello chi è?» Indicò una figura dalla parte opposta del campo. Un uomo apparentemente giovane, con addosso una lunga giacca di pelle e con in testa un ampio cappello.

«Non saprei. Forse il padre di qualcuno?»«Strano. Perché se ne sta lì tutto solo?»Tornammo a seguire la partita. Mi sentivo sempre più nervosa. I ragazzi della Middleton

erano spietati e molti di loro erano grossi come carri armati. Ogni volta che qualcuno si avvicinava a Xavier, mi veniva il batticuore e ansimavo. E Xavier non era certo tipo da evitare lo scontro. Voleva essere al centro della partita ed era competitivo come e più degli altri. Pur detestando il rugby, dovevo ammettere che era un ottimo giocatore, forte e veloce. Lo guardai correre verso il fondo del campo e scaraventare la palla a terra in meta. Ogni volta che uno degli avversari lo placcava, lui si rialzava in un attimo. Non cedeva mai. Alla fine, smisi di preoccuparmi per i lividi, nonché di temere per la sua incolumità, e cominciai a sentirmi fiera di lui. Esultavo e agitavo in aria i pompon di Molly ogni volta che lui aveva la palla.

Alla fine del primo tempo, la Bryce Hamilton era in vantaggio di tre punti. Xavier si avvicinò al bordo del campo e io gli corsi incontro.

«Grazie per essere venuta», mi disse, col fiatone. «Lo so che non è il tuo sport preferito.» Mi scoccò uno dei suoi affascinanti sorrisi mentre si rovesciava una bottiglietta d’acqua sulla testa.

«Sei stato fantastico.» Gli scostai i capelli bagnati dalla fronte. «Però stai attento: quelli della Middleton sono enormi.»

«L’agilità vale più della stazza.»Guardai impensierita un lungo graffio sul suo avambraccio. «E quello?»«Non è niente.»«Forse, ma è un graffio sul braccio che appartiene a me.»«Allora adesso appartengo per intero a Bethany Church, oppure la cosa vale solo per il

braccio?»«Ogni tuo centimetro è mio. Quindi sta’ attento.»«Okay, Mister.»«Non scherzare. Altrimenti non potrai più dire a me di stare attenta.»«Tesoro, qualche botta è inevitabile. Se vuoi, puoi giocare all’infermiera, dopo.» Mentre si

voltava per andarsene, mi fece l’occhiolino. «Non temere, sono invincibile.»Lo guardai dirigersi verso i compagni e, in quel momento, notai che il tizio in giacca di pelle

era sempre lì, immobile, con le mani affondate nelle tasche. Non riuscivo a scorgere il suo viso.A dieci minuti dalla fine, sembrava che i ragazzi della Bryce Hamilton avessero la vittoria in

pugno. L’allenatore della squadra avversaria continuava a scuotere la testa e ad asciugarsi il sudore dalla fronte; i suoi ragazzi apparivano nervosi e frustrati. Poi si misero a giocare sporco. Xavier aveva la palla e stava correndo lungo la linea laterale quando due avversari lo puntarono come treni in corsa. Gridai quando uno dei due allungò una gamba e agganciò la caviglia di Xavier, facendolo volare a terra e perdere la palla. Batté la testa sul terreno e socchiuse le palpebre per il dolore. I suoi compagni protestarono con l’arbitro, che infatti fischiò il fallo, ma ormai era tardi.

Due ragazzi corsero ad aiutare Xavier, ancora disteso a terra. Lui cercò di alzarsi, ma la sua caviglia formava un angolo innaturale e, non appena tentò di camminare, fece una smorfia. Sostenendolo, i compagni lo aiutarono a raggiungere la panchina, dove c’era il medico. Xavier vacillava, come se fosse sul punto di svenire.

Dalla mia posizione non riuscivo a sentire cosa stesse dicendo. Vidi che il medico gli faceva lampeggiare una luce negli occhi e scuoteva il capo all’indirizzo dell’allenatore. Xavier strinse i denti e abbassò la testa, frustrato.

Cercai di sgusciare in mezzo alle altre ragazze per raggiungerlo, ma Molly mi bloccò. «No, Beth, sanno quel che fanno. Saresti solo d’impiccio.»

Prima che potessi ribattere, Xavier venne caricato su una barella e quindi sull’ambulanza. La partita riprese. Notai che il tizio ai bordi del campo era scomparso. «Dove lo portano?»

«All’ospedale», rispose Molly. «Ehi, sono certa che non è niente di serio, che è solo una distorsione. Vedrai che lo fasciano e lo rimandano a casa.» Poi indicò il tabellone: «Guarda, siamo

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ancora in vantaggio di sei punti».Ma io preferii tornare subito a casa da Gabriel e Ivy per farmi accompagnare all’ospedale. Li

convocai mentalmente mentre correvo, casomai non fossero in casa. Ero così distratta dal pensiero di Xavier che, nel parcheggio, andai a sbattere contro Jake Thorn.

«Ehi, sembra che qualcuno abbia molta fretta. Cos’è successo?»«Xavier si è infortunato durante la partita», spiegai, strofinandomi gli occhi coi pugni, come

una bambina. Ma in quel momento non m’importava quale impressione stessi comunicando. Volevo solo essere certa che il mio amore stesse bene.

«Poverino», disse Jake, ma in tono ironico. «Dai, sono sicuro che starà benissimo. Capita.»«Avrei dovuto saperlo», sibilai, anche se la rabbia era più contro me stessa che contro di lui.«Non è mica colpa tua, no? Non piangere...»Mi abbracciò. La sua stretta non somigliava affatto a quella di Xavier, anche perché lui era

troppo magro. Eppure piansi lo stesso nella sua camicia. Quando cercai di staccarmi, lui però continuò a stringermi, e dovetti dimenarmi per liberarmi.

«Scusa», disse, con una strana luce negli occhi. «Volevo solo assicurarmi che stessi bene.»«Grazie, però adesso devo proprio andare.» Corsi via, e fu con un’ondata di sollievo che vidi

venire verso di me Ivy e Gabriel.«Abbiamo sentito il tuo richiamo», disse subito Ivy. «Sappiamo cos’è successo.»«Devo andare in ospedale. Posso aiutarlo!» esclamai, piangendo.Gabriel mi si parò davanti e mi afferrò per le spalle. «Bethany, calmati! Non puoi farlo, non

se lo stanno già curando.»«Perché no?»«Rifletti», intervenne Ivy. «Lo hanno già portato all’ospedale; hanno già avvisato i suoi

genitori. Se la sua caviglia guarisse di colpo, come credi che reagirebbero tutti?»«Ma lui ha bisogno di me.»«Devi comportarti in maniera sensata», replicò Gabriel. «Xavier è giovane e forte. Si

rimetterà senza problemi da solo. Se in seguito vorrai accelerare la guarigione, d’accordo; ma in questo momento devi controllarti. Non è in pericolo.»

«Posso almeno andare a trovarlo?» Detestavo ammettere che avevano ragione.«Certo», annuì Gabriel. «Ci andiamo tutti.»L’ospedale di Venus Cove non mi piaceva per niente. Era grigio e anonimo, e le scarpe delle

infermiere stridevano sul pavimento di linoleum. Non appena ebbi superato le porte automatiche, percepii un’ondata di sofferenza e di lutto. Sentivo che lì erano ricoverati pazienti che non sarebbero guariti, vittime d’incidenti d’auto o colpiti da malattie incurabili. In ogni momento, in ogni angolo, c’era qualcuno che stava perdendo la madre, il padre, il marito, la sorella, il figlio. Avvertivo il dolore compresso tra quelle mura come il bruciore di uno schiaffo in pieno viso. Eppure quello era il luogo da cui molti intraprendevano il loro viaggio verso il Paradiso. Ricordai tutte le anime che avevo accompagnato: in molti riscoprivano la fede negli ultimi giorni di vita. Ma, come sempre, nel momento esatto in cui ripensai al viso di Xavier, ogni traccia di responsabilità e colpa scomparve.

Seguii Ivy e Gabriel lungo l’ampio corridoio con le luci fluorescenti. Xavier era in una camera al quinto piano. La sua famiglia se ne stava andando proprio allora.

«Oh, Beth!» esclamò Bernie quando mi vide. Di colpo mi ritrovai circondata. Tutti volevano informarmi sulle sue condizioni. Gabriel e Ivy osservavano in disparte, meravigliati.

«Grazie per essere venuta, cara», riprese Bernie. «Lui sta bene, non temere, anche se è un po’ giù di morale.» Lanciò un’occhiata interrogativa a Gabriel e Ivy. «Questi devono essere tuo fratello e tua sorella...» Tese la mano per salutarli. «Entra, Beth, sarà contento di vederti.»

Un letto era vuoto, attorno all’altro erano tirate le tende.«Toc toc», mormorai.«Beth? Vieni!» Xavier era seduto, con la schiena contro i cuscini, e aveva un braccialetto

azzurro al polso. «Perché ci hai messo tanto?»Corsi al suo fianco, gli presi il viso fra le mani e lo studiai. Gabe e Ivy erano rimasti fuori;

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non volevano intromettersi. «Così impari a fare il gradasso. Come sta la caviglia?»Sollevò la borsa del ghiaccio: la caviglia era grossa il doppio del normale. «Mi hanno fatto

le lastre e c’è una frattura. M’ingesseranno non appena diminuisce il gonfiore. Sembra che per un po’ dovrò girare con le grucce.»

«Be’, non è la fine del mondo. Così avrò un’ottima scusa per occuparmi di te, tanto per cambiare.»

«Non è niente, dai. Mi trattengono per la notte in osservazione, ma domattina sarò già a casa. Devo solo evitare di forzarla per qualche settimana...»

«Benissimo.»«C’è un’altra cosa.» Xavier era a disagio, quasi imbarazzato di dover ammettere una

debolezza.«Cos’è?» chiesi dolcemente.«Pare che abbia una commozione cerebrale. Io ho detto e ripetuto che sto bene, ma non mi

danno retta. Devo restare a letto per qualche giorno. Ordine del medico.»«Questa sembra una cosa più seria. Ma ti senti bene?»«Certo che sto bene! Ho solo un gran mal di testa.»«Be’, mi occuperò io di te. Non importa.»«Beth, ti stai dimenticando una cosa.»«Sì, lo so. Non ti piace dipendere da qualcuno, però se pratichi uno sport violento come...»«No, non hai capito. Il ballo è questo venerdì.»Mi si strinse lo stomaco. «Non me ne importa niente!» esclamai per mascherare la

delusione. «Vorrà dire che non ci andrò.»«No, ci devi andare. Sono settimane che ti prepari, Ivy ti ha fatto il vestito, le limousine

sono già prenotate e ti aspettano tutti.»«Ma io voglio andarci con te. Altrimenti non ha senso.»«Mi dispiace che sia andata così», disse lui, serrando il pugno. «Sono stato un idiota.»«Xavier, non è colpa tua.»«Avrei dovuto stare più attento.» La rabbia gli defluì dal viso e la sua espressione si

ammorbidì. «Per favore, promettimi che ci andrai. Così non mi sentirò troppo in colpa. Non voglio che te lo perda a causa mia. È l’evento dell’anno. E poi così mi potrai raccontare tutto.»

«Non so...»«Ti prego! Fallo per me.»Alzai gli occhi al cielo. «E va bene...» Sapevo che Xavier si sarebbe sentito in colpa per anni

se mi fossi persa il ballo.«Allora siamo d’accordo?»«Sì. Però sappi che penserò a te tutta la sera.»Mi sorrise. «Assicurati che qualcuno ti faccia delle foto.»«Passi da me, prima che vada?» gli chiesi. «Così vedi il vestito.»«Puoi contarci. Non vedo l’ora.»«Odio doverti lasciare qui, senza nessuno a farti compagnia», sospirai, lasciandomi cadere

sulla sedia accanto al letto.«Starò bene. Se conosco bene la mamma, si starà organizzando per passare la notte qui.»«Okay, però ti serve qualcosa per tenerti occupato.»Xavier accennò al grosso libro nero dal titolo dorato che giaceva semiaperto sul comodino.

«Posso sempre leggere la Bibbia e imparare qualcosa di più sulla dannazione eterna.»«Sarebbe la tua idea d’intrattenimento?» chiesi, sarcastica.«È una storia piuttosto movimentata, col vecchio Lucifero a metterci un po’ di pepe.»«La conosci tutta?»«So che Lucifero era un Arcangelo che ha preso una bella cantonata.»«Allora stavi attento, al catechismo», scherzai. «In effetti, il suo nome significa ’portatore di

luce’. Nel Regno era il favorito del Padre, creato per essere il più bello e il più intelligente. Gli si chiedeva consiglio nei momenti di pericolo e tutti gli altri angeli lo tenevano nella più alta

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considerazione.»«Però non gli era sufficiente», aggiunse Xavier.«No. Era diventato arrogante. Disprezzava gli esseri umani, non capiva perché il Padre li

considerasse l’apice della Sua Creazione. Era convinto che solo gli angeli fossero importanti. E aveva cominciato a riflettere su come spodestare Dio.»

«Ma è stato buttato fuori a calci.»«Sì. Il Padre lo ha cacciato insieme coi suoi seguaci. Lucifero, però, in qualche modo, ha

realizzato il suo desiderio di autonomia, diventando il dominatore degli Inferi.»«Tu lo sai com’è... laggiù?»«Io no, ma Gabriel lo sa. Lui ha conosciuto Lucifero. Erano fratelli... tutti gli Arcangeli lo

erano. Ma non ne parla mai.»L’arrivo di Gabriel e Ivy – preoccupati per la salute di Xavier – interruppe bruscamente

quella conversazione.

«Stai dicendo sul serio?» Molly sembrava inorridita. «Credevo che l’avessero portato in ospedale solo per precauzione. Ha davvero una commozione cerebrale? Ma è un disastro! Dovrai andare al ballo da sola!»

Rimpiangevo di averglielo detto: quella reazione isterica non contribuiva certo a consolarmi. Il ballo avrebbe dovuto essere una serata magica, da trascorrere con Xavier e da ricordare per tutta la vita. Adesso era tutto rovinato. «Farei anche a meno di andarci. Però lui non vuole.»

Molly sospirò. «Com’è dolce.»«Lo so, ed ecco perché non m’interessa andare senza cavaliere.»«No, no. Ci sarà pure qualcuno per sostituirlo all’ultimo momento.»Sapevo che stava immaginando l’inizio del ballo, quando le coppie fanno il loro ingresso per

la foto ufficiale. Arrivare da sola, per lei, equivaleva a un suicidio.Ma, in fin dei conti, non ci fu bisogno che Molly ci pensasse troppo. La soluzione si

presentò da sola quello stesso pomeriggio.Ero seduta con Jake Thorn al nostro solito posto, in fondo all’aula di letteratura. Lui

scribacchiava in silenzio, mentre io lavoravo sulla nostra poesia.«Non è per niente facile, anche perché l’hai scritta da un punto di vista maschile», mi lagnai.«Le mie più sincere scuse», rispose Jake con la sua solita cortesia esagerata. «Ma sentiti

pure libera di osare. Il primo verso può essere di un uomo a una donna, ma niente impedisce che il successivo sia il contrario. Non t’incagliare su questo compito, Beth. Finiamolo alla svelta, così potremo passare a qualcosa di più interessante.»

«Non mettermi fretta. Non so tu, ma io voglio farlo al meglio.»«Non hai mica bisogno di alzare la media.»«E perché no?»«Che prendiamo un buon voto è scontato, Miss Castle mi adora.» Sogghignò e si rimise a

scrivere. Non gli chiesi cosa stesse facendo.Comunque seguii il suggerimento di Jake e composi i versi successivi pensando a Xavier.

Mi bastò immaginare il suo viso e le parole fluirono, come se la penna fosse dotata di vita propria. Anzi la struttura a quattro versi della strofa non mi parve sufficiente. Mi sembrava di poter riempire tutti i quaderni del mondo. Avrei potuto dedicare pagine e pagine a descrivere la sua voce, il suo tocco, il suo profumo... E così, prima che me ne rendessi conto, il mio contributo prese forma sotto la calligrafia svolazzante di Jake.

Aveva un viso d’angelomi specchiavo nel suo sguardo

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eravamo uniti e uguali, lei e iola menzogna il nostro accordo.

In lui vidi il futuroin lui vidi il mio confinein lui vidi un amicoil mio inizio e la mia fine.

«Funziona», commentò Jake. «Forse in te c’è una vena artistica, dopotutto.»«Grazie. Su cosa stavi lavorando?»«Appunti... osservazioni.»«Su cosa?»«Sul fatto che le persone sono così credulone e così prevedibili.»«Ed è un difetto?»«È patetico.» Il suo tono era amaro. «È così facile capirle. Non c’è gusto. Non c’è un

minimo di sfida.»«La gente non esiste per far divertire te. Non è un passatempo.»«Per me lo è. La maggior parte delle persone è un libro aperto... tranne te. Tu mi disorienti.»«Io?» Finsi una risata. «Come faccio a disorientarti? Sono uguale a chiunque altro.»«Non direi.»Ecco che Jake faceva di nuovo il misterioso. Cominciava a diventare preoccupante. «Non so

a cosa ti riferisca...»«Se lo dici tu.»Alicia e Alexandra si avvicinarono e rimasero in attesa che lui si accorgesse di loro.«Sì?» disse Jake con aria seccata quando si rese conto che non se ne sarebbero andate. Non

gli avevo mai sentito usare quel tono.«Ci vediamo stasera?» sussurrò Alicia.Jake la guardò, esasperato. «Non hai ricevuto il mio messaggio?»«Sì.»«Allora? Qual è il problema?»«Nessuno», rispose lei con l’aria mortificata.«Dai, ci vediamo più tardi», concluse lui, in tono più affabile.Le ragazze si scambiarono un sorriso prima di tornare ai loro posti.In risposta al mio sguardo perplesso, Jake alzò le spalle, come a dire che pure lui era stupito

delle loro attenzioni. «Non vedi l’ora che sia venerdì, eh?» disse poi. «Anche se per via di un piccolo incidente sportivo sei rimasta senza accompagnatore. È un peccato che il tuo amichetto non possa venire.» I suoi occhi scuri brillarono e le labbra s’incurvarono in un sogghigno.

«Già...» Ignorai la sua frecciata. «Tu con chi ci vai?» gli chiesi quindi, per pura cortesia.«Sarò solo anch’io.»«E il tuo fan club?»«Le reggo a piccole dosi.»Mi lasciai sfuggire un sospiro. «Spesso la vita è ingiusta, non credi?» Cercavo di fare del

mio meglio per trovare il lato positivo delle cose, ma non sempre funzionava.«Non necessariamente. Certo, l’ideale sarebbe partecipare all’evento al braccio dell’amato,

ma talvolta è d’uopo essere pratici, soprattutto se il suddetto è in altre faccende affaccendato.»Il suo discorso pomposo riuscì a farmi sorridere.«Così va meglio. La tristezza non ti si addice.» Si raddrizzò sulla sedia. «Bethany, so di non

essere la tua prima scelta, ma vorresti concedermi l’onore di accompagnarti al ballo e toglierti così dall’imbarazzo?»

Poteva anche essere un gesto sincero, però accettare mi metteva a disagio. «Non saprei. Ti

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ringrazio per l’offerta, ma vorrei prima parlarne con Xavier.»«D’accordo. Sappi che l’offerta è sempre valida.»

Quando sollevai la questione con Xavier, lui non esitò: «Ma certo che ci devi andare con qualcun altro».

Era disteso sul divano a guardare la TV, con un cuscino che gli teneva sollevata la caviglia. Era evidente che si annoiava: era irrequieto e continuava a cambiare posizione. Non si lamentava, però sapevo che la testa gli faceva ancora male dopo la botta che aveva preso. «È un ballo. Ti serve per forza un accompagnatore.»

«D’accordo. E se ci andassi con Jake Thorn?»«Davvero?» Il sorriso di Xavier svanì e gli occhi turchesi si strinsero quasi

impercettibilmente. «Quel ragazzo ha qualcosa che non mi convince.»«Be’, è l’unico che si è offerto.»«Beth, chiunque sarebbe felicissimo di accompagnarti.»«Ma Jake è mio amico.»«Ne sei sicura?»«In che senso?»«Nel senso che non lo conosci da molto. C’è qualcosa di strano in lui.»«Xavier...» Gli presi la mano e me la premetti contro la guancia. «È solo per una sera.»«Lo so... E voglio che tu ti goda il ballo sino in fondo, ma preferirei che fosse con qualcun

altro...»«Non importa con chi ci vado, continuerò comunque a pensare a te per tutto il tempo.»«Brava, cerca di convincermi a forza di moine», sbuffò. Ma adesso sorrideva. «Se ti fidi di

Jake, allora vai pure con lui. Basta che non ti comporti come se fossi io.»«Come se qualcuno potesse reggere il confronto con te.»Si sporse verso di me per baciarmi e, come al solito, un bacio non fu sufficiente.

Ricademmo insieme sul divano, le mie mani tra i suoi capelli, le sua braccia attorno ai miei fianchi, i corpi premuti insieme. Nello stesso momento, ci accorgemmo della sua caviglia ingessata che sporgeva a una strana angolazione e scoppiammo a ridere.

25 Sostituto

«Fantastico!» esclamò Jake quando gli diedi la notizia. «Saremo una splendida coppia.»Poco convinta, mi limitai ad annuire.In fondo alla mia mente restava ancora un dubbio, una specie di premonizione che mi faceva

correre qualche brivido lungo la schiena. Al sicuro, tra le braccia di Xavier, l’idea non mi era sembrata poi così male, ma nella fredda luce del giorno cominciavo a rimpiangere quella decisione. Però era un disagio che non riuscivo a spiegare, quindi decisi d’ignorarlo. Senza contare che non potevo più tirarmi indietro.

«Non te ne pentirai», disse lui con voce carezzevole, come se mi leggesse nel pensiero. «Ti farò divertire. Passo a prenderti alle sette?»

Esitai per un attimo prima di rispondere. «Facciamo alle sette e mezzo.»

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Molly rimase a bocca aperta quando seppe del cambiamento di programma. «Ma che hai?» Allargò le braccia, esasperata. «Sei praticamente una calamita per i ragazzi carini. E stavi pure per dirgli di no!»

«Non è Xavier», dissi di malumore. «Non sarà la stessa cosa.»Sapevo che cominciavo a sembrare un disco rotto, ma la delusione era insopportabile.«Però Jake non è mica male come sostituto!»La guardai severamente e lei sospirò.«Okay, dovrai soffrire in silenzio al fianco di un ragazzo fighissimo... Mi dispiace per te.»«Oh, Molly, piantala.»«Sul serio, Jake è fantastico. Metà delle ragazze della scuola è innamorata di lui. Vedrai che

non ti farà rimpiangere Xavier.»Sbuffai.«Va bene, nessuno può reggere il confronto con Xavier Woods, ma lui vuole che tu ti

diverta, giusto?»Non potevo darle torto.Sapendo che la febbre del ballo avrebbe colpito tutti gli studenti dell’ultimo anno e che

quindi ben pochi si sarebbero presentati a lezione, la scuola ci aveva concesso il venerdì pomeriggio di vacanza per i preparativi. Ovviamente nessuno riuscì a concentrarsi neanche durante la mattinata e molti insegnanti non provarono neppure a farsi ascoltare sopra il cicaleccio generale.

Molly e le sue amiche si presentarono colorite come mandorle tostate grazie agli spray autoabbronzanti. Erano fresche di manicure e di colpi di sole. I capelli di Taylah, già biondissimi, erano quasi bianchi.

Alla campanella delle undici, Molly mi agguantò e mi trascinò fuori dall’aula. Non rallentò il passo e neppure mi mollò prima di avermi sistemato sull’auto di Taylah. Entrambe avevano un’aria molto determinata.

«Primo passo: trucco!» annunciò Molly con un tono da sergente maggiore. «Muoversi!»Percorsa Main Street, ci fermammo davanti allo Swan Aesthetics, uno dei due saloni di

bellezza della città. L’interno profumava di vaniglia e lungo le pareti, rivestite di specchi, erano allineate le ultime novità cosmetiche. I proprietari avevano scelto un arredamento a metà tra il fricchettone e il finto naturale: nella sala d’attesa, ci si sedeva su grossi cuscini colorati alternati a ciotole di pot-pourri; le porte erano schermate da tende di perline e ovunque c’erano piccoli bracieri in cui bruciava l’incenso. Dagli altoparlanti uscivano i suoni rilassanti di una foresta pluviale e, a disposizione delle clienti, su un tavolino, c’era una selezione di tisane. Le due tipe che ci accolsero avevano capelli biondo platino, T-shirt attillatissime e trucco pesante. Non appena entrammo, abbracciarono calorosamente Molly e lei ce le presentò come Melinda e Mara.

«Stasera è la gran sera!» esclamarono. «Siete emozionate? Okay, ragazze, diamoci da fare, così il trucco avrà il tempo di posarsi bene.»

Ci sistemarono su alte poltroncine girevoli di fronte alla parete a specchio. Sperai che non ci conciassero come loro.

«Io voglio un look da bambolina», disse Taylah, facendo le fusa come una gatta. «Ombretto scintillante, labbra rosa chiaro...»

«Io voglio un trucco da Catwoman degli anni ’60, con un sacco di eyeliner e ciglia finte», annunciò Hailey.

«Io voglio sembrare morbida e impalpabile», intervenne Molly.«Io vorrei non sembrare truccata», dichiarai, quando venne il mio turno.«Credimi, non ne avresti bisogno», commentò Melinda, studiando la mia pelle.Cercando di non dimenarmi sulla sedia, ascoltai le spiegazioni di Melinda e Mara sui

trattamenti di bellezza previsti per il pomeriggio. A me sembrava quasi che parlassero un’altra lingua.

«Prima faremo una pulizia profonda per eliminare ogni impurità, con una maschera alle erbe

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e un esfoliante leggero», illustrò Mara. «Poi applicheremo una base, useremo un correttore color avorio per coprire piccole macchie o imperfezioni, quindi stenderemo un fondotinta con una sfumatura rosa od olivastra, a seconda della tonalità della pelle. Poi passeremo a fard, ombretti, ciglia e gloss!»

«Sembra che la tua pelle non abbia nessuna imperfezione», mi disse Melinda. «Quali prodotti usi?»

«In realtà, nessuno. Di solito mi lavo la faccia prima di andare a letto.»Melinda alzò gli occhi al cielo. «È un segreto, vero?»«No, davvero, non uso prodotti per la pelle.»«Va bene, come vuoi.»«È vero, Mel», intervenne Molly. «È probabile che la famiglia di Beth non ci creda neppure,

ai prodotti di bellezza. Sono tipo... amish.»«A quanto pare, leggere la Bibbia fa davvero miracoli», borbottò Melinda.

Anche se non credevo di starle simpatica, dovetti ammettere che Melinda sapeva quel che faceva. Quando mi mostrò nello specchio il risultato del suo lavoro, rimasi senza fiato. Per la prima volta c’era un po’ di colore sul mio viso, e le guance risplendevano di un rosa delicato. Le labbra sembravano più piene e rosse, anche se forse erano un po’ troppo lucide. Gli occhi erano enormi e luminosi, incorniciati da lunghe ciglia; sulle palpebre, sottolineate da una tenue linea nera, c’era giusto un tocco argenteo. Ero così affascinante che quasi non mi riconoscevo. Ma la cosa migliore era che continuavo a essere io... Molly e le altre, invece, coi visi abbronzati e incipriati, sembravano aver indosso una maschera.

Dopo il trucco, le altre andarono dal parrucchiere, ma io preferii tornare a casa e lasciare che dei miei capelli si occupasse Ivy. Ero già stanca morta, e poi non c’era nessuno di cui mi fidassi più di lei.

Quando arrivai, Gabriel e Ivy erano già pronti e vestiti. Gabriel era seduto al tavolo della cucina, in smoking. I capelli biondi erano pettinati all’indietro: sembrava un incrocio fra una star di Hollywood e un gentiluomo ottocentesco. Ivy stava lavando i piatti e indossava un lungo abito verde smeraldo. Aveva raccolto i capelli sulla nuca. Era strano vederla così, elegantissima eppure con un paio di guanti di gomma rosa. Dimostrava quanto poco le importasse della bellezza terrena.

Mi salutò con un cenno quando entrai. «Sei bellissima. Andiamo di sopra a sistemarti i capelli?»

Prima però mi aiutò a infilare il vestito, lisciando e sistemando il tessuto perché cadesse perfettamente. Sembravo una colonna di scintillante luce lunare. Le scarpette argentate sbucavano appena dalle pieghe del vestito. La felicità mi si leggeva in viso.

«Sono contenta che ti piaccia», affermò Ivy, raggiante. «So che non è andata proprio come avresti voluto, per stasera. Ma voglio che tu comunque sia radiosa e che passi una splendida serata.»

«Sei la sorella migliore del mondo», dissi, abbracciandola.«Be’, non avere fretta», rise lei. «Vediamo prima cosa riesco a combinare coi tuoi capelli.»«Niente di complicato, eh? Vorrei solo che fossero... come me.»«Non temere», mi assicurò lei, con un colpetto amorevole sulla testa. «So esattamente quello

che hai in mente.»A Ivy non occorse molto tempo per pettinarmi alla perfezione. Prese due grosse ciocche dei

miei capelli ondulati, le intrecciò e le unì sulla sommità del capo, così da formare una fascia attorno alla testa. Il resto dei capelli mi ricadeva libero sulle spalle. Impreziosì l’intreccio con un filo di minuscole perline, che si accompagnavano bene al vestito.

«È tutto perfetto», dissi. «Non so come avrei fatto senza di te.»Alle sei, arrivò Xavier. Almeno per un po’, avremmo potuto fingere che la nostra serata

magica non fosse stata rovinata da quel disgraziato placcaggio. Lo sentii al piano di sotto che chiacchierava con Gabriel, e un esercito di farfalle cominciò a frullarmi nello stomaco. Non sapevo

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perché mi sentissi così nervosa; di solito, stare con Xavier mi veniva naturale come respirare. Forse era perché volevo far colpo su di lui, avere la conferma che mi amava dalla faccia che avrebbe fatto nel momento in cui mi avesse visto. Ivy mi prese per mano e mi accompagnò in cima alla scala.

«Vai prima tu?» le chiesi, deglutendo.«Certo. Ma non credere che lui sia qui per vedere me.»La osservai scendere con grazia e mi domandai perché le avessi chiesto di andare per prima.

Nessuno poteva apparire elegante dopo di lei: era un’impresa impossibile. Sentii il flebile applauso di Xavier e i suoi complimenti. Sapevo che Gabriel la stava aspettando per uscire insieme. Adesso era il mio turno.

In fondo alle scale, il gruppetto era in silenziosa attesa della mia apparizione.«Vieni, Bethany?» Era Gabriel.Respirai a fondo e cominciai a scendere, incerta. E se a Xavier non fosse piaciuto il vestito?

E se fossi inciampata? E se, vedendomi, lui avesse concluso che non ero all’altezza dell’immagine che si era fatto di me? I pensieri mi saettavano in testa come minuscoli lampi di luce ma, non appena superai la curva delle scale e lo scorsi, tutte le preoccupazioni e le paure scivolarono via come polvere nel vento. Nel momento stesso in cui mi vide, i suoi occhi si spalancarono come due pozze azzurre. Era appoggiato alla ringhiera, la caviglia sinistra costretta nell’ingessatura, la testa quasi rovesciata all’indietro per guardarmi meglio. Sembrava stordito e mi chiesi se ero io a fargli quell’effetto o se era la botta in testa.

Quando arrivai in fondo alle scale, mi tese la mano per farmi superare l’ultimo scalino. Non mi aveva ancora tolto gli occhi di dosso. Il suo sguardo percorse i contorni del mio viso e del mio corpo, come se lui temesse di lasciarsi sfuggire qualche dettaglio.

«Che ne pensi?» chiesi, mordendomi il labbro.Xavier aprì la bocca, scosse il capo e la richiuse. I suoi occhi mi fissarono con

un’espressione che nemmeno io riuscivo a decifrare.Ivy rise. «Però, sei un tipo di poche parole!»«E cosa posso dire?» Le sue labbra s’incurvarono nel familiare sorriso. «Nessuna parola

sarebbe adatta a descriverti, Beth. Sei meravigliosa.»«Grazie», mormorai. «Ma non sei costretto a dirlo se...»«Smettila. Stento a credere che tu sia reale. Vorrei poter venire con te, stasera, solo per

vedere le facce di tutti gli altri quando farai il tuo ingresso trionfale.»«Non fare lo scemo. Saranno tutti bellissimi.»«Beth, ma ti sei vista? Emani luce. Non ho mai visto nessuno così simile a... be’, a un

angelo.»Arrossii, e lui mi cinse il polso con una delicata composizione di minuscoli boccioli di rose

bianche. Avrei voluto abbracciarlo forte, infilargli le dita tra i capelli, accarezzare la pelle liscia del suo viso e baciare quelle sue labbra dalla perfetta forma arcuata. Ma non volevo rovinare l’accurato lavoro di Ivy, così mi limitai a chinarmi verso di lui con circospezione, per un unico bacio.

Mi sembrava di aver avuto a malapena il tempo di scambiare due parole con Xavier quando bussarono alla porta. Gabriel andò ad aprire e tornò in compagnia di Jake Thorn.

Forse era soltanto una mia sensazione, però Gabriel, che fino a quel momento era stato tranquillissimo, adesso sembrava teso, con la mascella serrata e con una vena che gli pulsava sul collo. Anche Ivy, nel vedere Jake, parve irrigidirsi: i suoi occhi grigio pioggia erano vitrei, come succedeva le rare volte in cui era davvero preoccupata.

La loro reazione mi mise in allarme, risvegliando tutti i miei dubbi a proposito di Jake. Colsi lo sguardo di Xavier e qualcosa nella sua espressione mi rivelò che lui stava provando lo stesso disagio.

Andando in cucina, a prendere qualcosa da bere, Gabriel mi passò accanto e mi appoggiò una mano sulla spalla. Di solito, i miei fratelli erano molto circospetti nei confronti degli estranei. Avevano accettato Molly e Xavier, ma nessun altro. Tuttavia la loro diffidenza nei confronti di Jake mi metteva in ansia. Cosa percepivano? Cosa poteva avere mai fatto, nella sua vita, perché due angeli si ritraessero in sua presenza? Sapevo che Ivy e Gabriel non mi avrebbero mai rovinato il

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ballo con una scenata, quindi cercai di allontanare ogni preoccupazione. Avvertendo la mia inquietudine, Xavier mi rimase accanto, il palmo caldo della mano premuto contro la mia schiena in un gesto di conforto.

Da parte sua, Jake sembrava del tutto inconsapevole della reazione che aveva suscitato. Non era in smoking, come mi aspettavo: indossava un paio di calzoni neri attillati e un giubbotto di pelle. Ovvio, doveva sempre apparire anticonformista.

«Buonasera a tutti», disse, avvicinandosi a me. «Ciao, piccola, sei bellissima.»«Ciao, Jake.»Feci un passo in avanti per salutarlo. Lui mi prese la mano e se la portò alle labbra.Scorsi un guizzo sul viso di Xavier, ma un attimo dopo era sparito e lui si fece avanti per

stringere la mano a Jake. «Ciao.»«Ah, finalmente ci conosciamo.»Al contrario di Xavier, Phantom non fece il minimo sforzo per mostrarsi socievole. Si

sedette ed emise un ringhio gutturale.«Ehi, bello», disse Jake, chinandosi e allungando la mano.Phantom scattò in piedi, cercando di addentargliela e abbaiando furiosamente. Jake la

ritrasse subito e Ivy si affrettò a trascinare via il nostro cane per il collare.«Mi dispiace», intervenni. «Di solito non si comporta così.»«Non preoccuparti.» Dalla tasca del giubbotto estrasse un minuscolo astuccio. «Questo è per

te. Credo che i mazzolini di fiori siano un po’ superati.»Xavier si accigliò, ma si trattenne dal commentare.«Oh, grazie, ma non avresti dovuto...»Dentro c’era un paio di orecchini ad anello, d’oro bianco. Ero in imbarazzo perché dovevano

essere costati parecchio.«Non è niente», si schermì Jake. «Solo un pensiero.»«Grazie per esserti offerto di accompagnare Beth», disse Xavier in tono allegro. «Come

vedi, io ho qualche problema.»«È un piacere essere il suo cavalier servente.» Come al solito, il tono di Jake era affettato e

un po’ troppo pretenzioso. «Mi è dispiaciuto per il tuo incidente. Che peccato che sia successo proprio nella settimana del ballo. Ma non preoccuparti, farò in modo che Bethany si diverta. È il minimo che ci si possa aspettare da un amico.»

«Be’, come suo ragazzo avrei preferito esserci io», replicò Xavier. «Ma troverò il modo di rimediare.»

Stavolta toccò a Jake accigliarsi. Xavier gli voltò le spalle e mi prese il viso fra le mani, baciandomi dolcemente sulla guancia prima di avvolgermi nel mio scialle argenteo. «Siete pronti?»

In realtà, avrei voluto restare in casa, rannicchiarmi sul divano con Xavier e dimenticarmi completamente del ballo. Avrei voluto togliermi il vestito, mettermi una felpa e rifugiarmi tra le sue braccia, dove mi sentivo al sicuro. Tuttavia mi sforzai di sorridere e annuii.

«Prenditi cura di lei.» Xavier era amichevole, ma c’era una nota di avvertimento nella sua voce.

«Non la perderò mai di vista.»Jake mi offrì il braccio e uscimmo per strada, dove una limousine ci aspettava.

Dall’espressione di Gabriel, capii che lui la considerava un’esagerazione.Prima che salissi in auto, Ivy mi sistemò una spallina del vestito. «Saremo vicini tutta la

sera, se avrai bisogno di noi.»Cosa poteva mai capitarmi? mi chiesi. Eppure le sue parole suonarono stranamente

confortanti.All’interno, la limousine era ancora più spaziosa di quanto avessi immaginato, con un lungo

sedile di pelle bianca che occupava l’intero abitacolo. L’illuminazione, blu e viola, veniva da alcune lampadine alogene nel tettuccio. Sulla destra, c’era un bar incassato nella parete, con una luce blu che metteva in risalto le file di bicchieri e di bottiglie, messe lì per ragazzi che non avevano ancora l’età minima per bere alcolici. C’era anche un televisore a schermo piatto, con gli altoparlanti

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montati in alto e un lettore CD, da cui usciva una canzone allegra – mi sembrò che parlasse di ragazze che si stavano divertendo un mondo –, sparata a volume così alto da far vibrare l’intero abitacolo. Quando salimmo, la limousine era già quasi al completo: eravamo gli ultimi del giro. Un ampio sorriso si aprì sul viso di Molly, che soffiò un bacio nella mia direzione. Un paio di ragazze mi squadrò da capo a piedi, e i sorrisi si gelarono sulle loro labbra.

«Malattia tremenda, l’invidia», mi sussurrò Jake all’orecchio. «Sei di gran lunga la più bella. E sarai la reginetta del ballo.»

«Non ha la minima importanza. E poi non hai ancora visto le altre.»«Non ce n’è bisogno. Punto tutto su di te.»

26 Il ballo

Il ballo si teneva al Pavilion Tennis Club. La limousine superò l’alto muro di pietra e il cancello di ferro battuto, percorrendo un vialetto che si snodava tra prati ben curati e siepi perfettamente potate, una delle quali raffigurava un maestoso leone rampante con uno zampillo d’acqua che scaturiva da ciascun artiglio. C’era persino un laghetto, con tanto di ponte e, sulla riva, sorgeva addirittura un gazebo. Venus Cove era una cittadina senza pretese e tutto quello mi sembrò un po’ fuori luogo. Jake, invece, non ne sembrava colpito: aveva la solita espressione annoiata e le labbra che si piegavano in un sorriso sarcastico ogni volta che i nostri sguardi s’incrociavano.

Lungo il percorso, la limousine superò vari campi da tennis e si diresse verso il padiglione principale: una grande costruzione circolare, con ampie terrazze bianche. C’era un flusso costante di coppie che entravano: i ragazzi camminavano impettiti e le ragazze stringevano minuscole borsette, mentre si sistemavano le spalline degli abiti.

Qualcuno era arrivato in limousine, altri avevano scelto l’autobus a due piani con musica a bordo, che proprio in quel momento stava scaricando i passeggeri. All’interno sembrava un vero night-club, completo di luci stroboscopiche.

Almeno per quella sera, le ragazze avevano messo da parte ogni traccia di anticonformismo e si lasciavano guidare sulla scalinata come principesse delle favole. Molly era troppo presa da ciò che aveva attorno per preoccuparsi di fare conversazione con Ryan Robertson... che, bisognava ammetterlo, in smoking era veramente bello ed elegante. Taylah invece stava scattando centinaia di foto, ansiosa com’era d’immortalare anche il minimo dettaglio della serata. E continuava a scoccare occhiate a Jake. Lui se ne accorse e la ricompensò, facendole l’occhiolino. Taylah diventò così rossa che temetti di veder sciogliersi il suo fondotinta.

Il dottor Chester, il preside della Bryce Hamilton, era nel foyer, circondato da composizioni floreali. Gli insegnanti erano stati strategicamente disposti in modo da poter osservare le giovani coppie che facevano il loro ingresso. Qualche goccia di sudore imperlava la fronte del preside, ma era l’unico segno palese di nervosismo. Sotto il suo sorriso, però, mi parve di cogliere la verità: avrebbe di gran lunga preferito trovarsi a casa, sprofondato in poltrona, anziché dover sorvegliare un branco di studenti dell’ultimo anno decisi a fare di quell’occasione la serata più memorabile della loro vita.

Jake e io ci unimmo alla fila di coppie in attesa di entrare. Molly e Ryan erano davanti a noi: li tenevo d’occhio per capire come comportarmi e non fare passi falsi.

«Dottor Chester, ecco la mia dama, Molly Amelia Harrison», annunciò Ryan in tono formale. Un tono parecchio strano, per uno che, di solito, si divertiva con gli amici a disegnare genitali di dimensioni gigantesche sull’asfalto davanti all’ingresso della scuola. Sapevo che Molly

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l’aveva minacciato di morte se non si fosse comportato bene.Il preside sorrise, benevolo, gli strinse la mano, e fece cenno alla coppia di entrare.Fu il nostro turno. «Dottor Chester, la mia dama, Bethany Rose Church.»Il preside mi scoccò un caldo sorriso di approvazione.«Come sapevi il mio secondo nome?» chiesi a Jake non appena fummo all’interno.«Non te l’ho detto che leggo nel pensiero?»La sala era più sontuosa di quanto mi fossi aspettata. Le pareti di vetro offrivano una vista

mozzafiato sulla baia, la spessa moquette era di un ricco color borgogna e il parquet della pista da ballo risplendeva sotto la luce dei lampadari di cristallo che disegnavano minuscole falci di luce. Fuori, si scorgeva la distesa ondulata dell’oceano e una costruzione bianca che ricordava una saliera. Mi ci volle un attimo per riconoscere il faro. Lungo il perimetro della sala erano sistemati i tavoli, apparecchiati con tovaglie bianche e porcellane finissime. I centrotavola erano boccioli di rosa giallo chiaro e rosa pallido e, sulle tovaglie, erano sparpagliati lustrini argentati. In fondo al salone, i musicisti stavano accordando gli strumenti. I camerieri erano affaccendati a servire punch analcolico.

Scorsi Gabriel e Ivy da soli, in disparte, così ultraterreni che faceva quasi male agli occhi guardarli. L’espressione di Gabriel era imperscrutabile, ma era chiaro che non si stava godendo la serata. Gli studenti osservavano Ivy, rapiti; tuttavia nessuno di loro aveva il coraggio di avvicinarsi. Gli occhi di Gabriel percorsero la folla sino a fermarsi su Jake Thorn. Lo fissò con penetrante intensità per qualche secondo, prima di voltarsi.

«Siamo allo stesso tavolo!» esclamò Molly, abbracciandomi. «Andiamo a sederci, queste scarpe mi stanno già uccidendo.» Poi vide Gabriel. «Anzi vado prima a salutare tuo fratello... Non vorrei sembrare scortese!»

Andammo insieme verso mio fratello, che teneva le mani intrecciate dietro la schiena e sorvegliava la sala con espressione cupa.

«Salve!» disse Molly, arrancando sui tacchi alti.«Buonasera», replicò Gabriel. «Sei davvero abbacinante, Molly.»Lei mi guardò, incerta.«Vuol dire che stai bene», le sussurrai.«Oh... grazie! Sei molto abbacinante anche tu. Ti diverti?»«Non direi. Gli eventi sociali non mi hanno mai attirato.»«Oh, so cosa intendi. Il ballo in sé è sempre un po’ noioso. La parte divertente è dopo. Tu ci

vieni?»L’espressione di Gabriel sembrò ammorbidirsi per un attimo e gli angoli della bocca si

sollevarono in un accenno di sorriso. Ma si ricompose subito. «Come insegnante, fingerò di non aver sentito parlare di un dopofesta. Chester l’ha proibito.»

«Ah, be’, non credo che lui possa farci molto, no?» rise Molly.«Chi è il tuo cavaliere?» chiese Gabriel, per cambiare argomento. «Non credo di

conoscerlo.»«Si chiama Ryan, è seduto laggiù.» Molly indicò lui e un suo amico: stavano giocando a

braccio di ferro sul tavolo imbandito e, in quel preciso istante, fecero cadere a terra un bicchiere.Gabriel scoccò loro un’occhiata di disapprovazione.Molly avvampò per l’imbarazzo. «A volte è un po’ immaturo, ma è un bravo ragazzo. Be’,

meglio che vada, prima che ci buttino fuori! Ci vediamo dopo, comunque. Ti ho riservato un ballo.»In realtà, dovetti quasi trascinarla al nostro tavolo, perché continuava a voltarsi a guardare

Gabriel. Ryan non sembrò neppure accorgersene.Ben presto, mi resi conto che non mi stavo divertendo affatto. Mi sorpresi a guardare di

continuo l’orologio. Volevo trovare il momento adatto per scusarmi e andare a telefonare a Xavier. Mi ero fatta prestare il cellulare di Molly, ma non c’era un posto abbastanza tranquillo da cui chiamarlo. Gli insegnanti stavano di guardia davanti alle porte per impedire ai ragazzi d’imboscarsi in giardino e i bagni erano pieni di ragazze intente a rifarsi il trucco.

Mi sembrava una serata decisamente fiacca, dopo tanta attesa e trepidazione. Non per colpa

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di Jake: lui ce la stava mettendo tutta. Era un cavaliere attento: cercava di fare battute e di vivacizzare la conversazione con quelli seduti al nostro tavolo. Tuttavia, guardandomi in giro, osservando le ragazze che spizzicavano il cibo o si lisciavano il vestito, avevo la netta impressione che quella festa non avesse nessuno scopo: una volta che ci si era messe in mostra, restava ben poco da fare.

Anche mentre parlava con gli altri, Jake non staccava mai lo sguardo da me. Seguiva ogni mia mossa. Talvolta cercava di tirarmi dentro nella conversazione con qualche domanda precisa, ma il più delle volte io rispondevo a monosillabi e tenevo gli occhi bassi. Non volevo rovinare la serata a nessuno né sembrare di malumore, tuttavia non riuscivo a scacciare il pensiero di Xavier. Come sarebbe stato diverso il ballo se ci fosse stato lui, al mio fianco! Ero nel posto giusto e col vestito giusto, ma col ragazzo sbagliato, e non potevo fare a meno di sentirmi un po’ giù.

«Cosa c’è, principessa?» chiese Jake, vedendomi fissare malinconicamente l’oceano.«Niente. Va tutto benissimo.»«Bugiarda... Facciamo un gioco?»«Se vuoi.»«Come mi descriveresti, con una parola sola?»«’Determinato’?»«Niente affatto. Tanto per dire: non faccio mai i compiti. Ti sembro determinato? Allora,

cos’altro mi rende unico?»«Il tuo gel per i capelli? Le tue buone maniere? Il fatto che hai sei dita dei piedi?»«Questo non c’era bisogno di tirarlo fuori. Mi sono fatto togliere il sesto anni fa.» Sorrise.

«Adesso descriviti in una parola sola.»«Oh... Non saprei... non è facile.»«Eh, già. Non mi piacerebbe una ragazza che può essere ridotta a una parola sola. Amo la

complessità. Senza complessità, non c’è intensità.»«Molly sostiene che voi desiderate solo ragazze senza complicazioni.»«Cioè facili da portare a letto», ribatté Jake. «Suppongo non ci sia niente di male, in

questo.»«Non è il contrario d’intenso? Dovresti deciderti!»«Una partita a scacchi può essere intensa.»«Be’, sì. Quindi, per te, ragazze e pezzi degli scacchi sono intercambiabili?»«Per carità, no! Hai mai spezzato il cuore a qualcuno?»«No, e non vorrei farlo mai. E tu?»«Molte volte, però sempre per una ragione precisa.»«E quale?»«Non era la ragazza giusta per me.»«Spero almeno che tu abbia chiuso la storia di persona. Non per telefono o con un’e-mail.»«Per chi mi prendi? Avevano diritto almeno a quell’ultimo brandello di dignità, certo.»«’Ultimo brandello’? Cosa significa?» chiesi, incuriosita.«Diciamo che, quando t’innamori, hai già perso in partenza», ribatté lui.

Arrivò il momento del noiosissimo discorso del dottor Chester, che sottolineò come quella fosse una serata speciale, aggiungendo che si aspettava da noi un comportamento responsabile e in linea con la reputazione della Bryce Hamilton. Precisò che, alla fine del ballo, dovevamo tornare dritti a casa e finse d’ignorare le risatine che quel consiglio aveva suscitato. Ci ricordò anzi di aver spedito a tutti i genitori una lettera in cui scoraggiava qualsiasi iniziativa che fosse eventualmente stata prevista per il dopoballo.

Il dottor Chester non sapeva che la festa era programmata da mesi, ma non a casa di qualcuno, magari coi genitori al piano di sopra. Si sarebbe tenuta in una vecchia fabbrica abbandonata, appena fuori città. Il padre di uno degli studenti dell’ultimo anno era l’architetto

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incaricato di convertire la struttura in appartamenti, ma aveva incontrato qualche resistenza da parte degli ambientalisti locali e il progetto era temporaneamente sospeso, in attesa del rilascio di alcuni permessi. La fabbrica era spaziosa, buia e, soprattutto, isolata. Nessuno avrebbe sospettato che la festa si sarebbe tenuta lì. E, quale che fosse stato il volume della musica, nessuno si sarebbe lamentato, perché non c’erano zone residenziali nei dintorni. Ci sarebbe pure stato un DJ professionista, che si era offerto di partecipare gratuitamente alla serata. I ragazzi non vedevano l’ora che il ballo ufficiale finisse per cominciare la «vera festa». Xavier o non Xavier, io non avevo nessuna intenzione di andarci. Ero già stata a un party nel corso della mia esistenza umana e mi era bastato.

Finita la cena, ci mettemmo in fila per le foto ufficiali. La maggior parte delle coppie assunse una posa convenzionale: le braccia allacciate attorno alla vita, le ragazze con un sorriso timido e i ragazzi rigidi come baccalà, atterriti all’idea di fare la mossa sbagliata.

Avrei dovuto immaginare che Jake avrebbe fatto qualcosa di diverso. Quando venne il nostro turno, si lasciò cadere su un ginocchio, e infilò tra i denti una rosa che aveva preso da un tavolo. «Sorridi, principessa», mi sussurrò all’orecchio.

Non appena lo vide, il fotografo, sino ad allora parecchio annoiato, s’illuminò, divertito. Scendendo dalla pedana, vidi alcune ragazze che guardavano male i compagni, come a dire: Perché non sei stato anche tu romantico come Jake Thorn? Ci fu addirittura uno che cercò d’imitare il gesto di Jake ma, dopo essersi ferito al labbro con le spine della rosa, dovette farsi accompagnare in bagno dalla sua dama, rossa come un gambero.

Dopo le foto arrivò il dessert, una tremolante crème caramel, seguito da una serie di balli. Poi c’invitarono a riprendere i nostri posti per la proclamazione dei vincitori. Il comitato di premiazione, che comprendeva Molly e Taylah, salì sulla pedana con buste e trofei.

«Abbiamo il piacere di annunciare i vincitori dei premi del ballo annuale della Bryce Hamilton», esordì una ragazza di nome Bella. «Abbiamo riflettuto e dibattuto a lungo per raggiungere questa decisione... Ma vorremmo anzitutto dire che in fondo siete tutti vincitori!»

Sentii Jake che soffocava una risata.«Quest’anno, abbiamo aggiunto qualche nuova categoria», continuò la ragazza.

«Cominciamo col premio per la Migliore Acconciatura.»Ebbi l’impressione che fossero tutti impazziti. Ricambiai lo sguardo incredulo di Jake

mentre la premiazione procedeva: dopo la Migliore Acconciatura toccò a categorie tipo Miglior Vestito, Miglior Cravatta, Migliori Scarpe, Miglior Trucco... Finalmente i premi minori si conclusero e arrivò il momento dell’annuncio che tutti aspettavano: la proclamazione del Re e della Regina del ballo. Sussurri eccitati percorsero la sala: tutte le ragazze trattenevano il fiato, mentre i ragazzi ostentavano indifferenza. Non capivo il motivo di tutta quell’agitazione. Mica lo si poteva mettere in curriculum...

«E i vincitori di quest’anno sono...» Una pausa a effetto. «Bethany Church e Jake Thorn!»Tutti scoppiarono in un fragoroso applauso e, per una frazione di secondo, percorsi la sala

con lo sguardo, alla ricerca dei vincitori, prima di rendermi conto che avevano chiamato proprio me e il mio cavaliere. Con un’espressione impietrita – come se fossi vittima di un clamoroso errore di persona – mi avvicinai alla pedana insieme con Jake, che invece sembrava divertito e compiaciuto. Molly mi mise in testa la corona e mi offrì la fascia. Poi i musicisti attaccarono un valzer, e io mi resi conto che dovevamo aprire le danze. Offrii la mano a Jake e lui mi fece scivolare l’altra attorno alla vita. Sebbene mi fossi esercitata con Xavier, non mi sentivo a mio agio a ballare senza di lui. Per fortuna gli angeli imparano in fretta, quindi ben presto riuscii a adeguarmi al ritmo di Jake. Mi muovevo fluida come acqua e mi accorsi con sorpresa che lui era altrettanto aggraziato.

Ivy e Gabriel ci volteggiarono accanto, muovendosi in perfetta sincronia, morbidi come la seta. Parevano fluttuare a mezz’aria. Nonostante l’espressione impassibile, erano così affascinanti che molti smisero di ballare per osservarli. Ma loro due si stancarono in fretta di tutta quell’attenzione e tornarono al loro tavolo.

Non appena la musica cambiò, Jake mi condusse al bordo della pista e si chinò su di me. «Sei splendida», mi sussurrò all’orecchio.

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«Anche tu.» Risi, cercando di alleggerire l’atmosfera. «Lo pensano tutte le ragazze.»«E tu lo pensi?»«Be’... credo che tu sia affascinante.»«Affascinante», ripeté lui. «Suppongo di dovermi accontentare, per ora. Sai, non ho mai

incontrato una ragazza con un viso come il tuo. La tua pelle ha il colore della luna e i tuoi occhi hanno una profondità insondabile.»

«Su, non esagerare.» Sentivo che stava per lanciarsi in uno dei suoi panegirici e volevo fermarlo subito.

«Non sei molto brava ad accettare i complimenti, eh?»Arrossii. «Non molto. Non so mai cosa dire.»«Che ne diresti di un semplice ’grazie’?»«Grazie, Jake.»«Vedi? Non è così difficile. Adesso prenderei volentieri una boccata d’aria, che ne dici?»«Non sarà facile.» Feci un cenno in direzione degli insegnanti che bloccavano l’uscita.«Ho scoperto una via di fuga. Vieni.»La via di fuga di Jake era una porta sul retro dell’edificio, che nessuno si era preso la briga

di sorvegliare. Era oltre i bagni, attraverso uno sgabuzzino. Mi aiutò a superare lo sbarramento di spazzoloni e secchi appoggiati alla parete e di colpo mi ritrovai fuori, sulla balconata che girava attorno al padiglione. Era una notte serena e il cielo era trapunto di stelle. Attraverso le vetrate, si vedevano le coppie che ancora danzavano, anche se le ragazze parevano ormai un po’ stanche e si appoggiavano ai loro cavalieri. Scorsi pure Gabriel e Ivy, che risplendevano come cosparsi di polvere d’oro.

«Quante stelle», mormorò Jake. Sembrava che stesse parlando con se stesso. «Ma nessuna è bella come te.»

Era così vicino che sentivo il suo fiato sulla guancia. Abbassai gli occhi, sperando che la smettesse di farmi complimenti. Cercai di spostare l’attenzione su di lui. «Vorrei avere la tua sicurezza. Niente sembra turbarti.»

«Perché dovrebbe?» ribatté lui. «La vita è un gioco, e si dà il caso che io sappia come giocare.»

«Persino a te capiterà di fare qualche errore, ogni tanto.»«È proprio questo l’atteggiamento che ostacola la vittoria.»«Tutti perdiamo, prima o poi. Tuttavia possiamo imparare dalle nostre sconfitte.»«Chi l’ha detto?» Jake scosse il capo. «A me non piace perdere e ottengo sempre ciò che

voglio.»«Quindi adesso hai tutto quello che vuoi?»«Non proprio. Manca ancora una cosa.»«E quale?» Avevo il sospetto che ci stessimo avventurando su un terreno pericoloso.«Manchi tu», disse semplicemente.Non sapevo cosa replicare. «Be’, Jake, sono lusingata», mormorai, cercando di nascondere

l’imbarazzo. «Però sai bene che non sono disponibile.»«Questo è irrilevante.»«Non per me!» Arretrai di un passo. «Io amo Xavier.»Mi guardò con freddezza. «Non ti sembra ovvio che stai con la persona sbagliata?»«Sbagliata? Ma niente affatto! Sei così arrogante da credere che tu sia la persona giusta?»«Credo di meritare almeno una possibilità.»«Avevi promesso di non tornare sull’argomento. Noi due siamo amici, e dovresti dare il

giusto valore alla nostra amicizia.»«Oh, lo faccio, solo che per me non è sufficiente.»«Non sta a te deciderlo! Non sono un giocattolo che puoi avere solo perché lo desideri.»«Non sono d’accordo.»Con uno scatto mi afferrò per le spalle e mi attirò a sé. Le sue labbra cercarono le mie.

Cercai di ribellarmi, ma Jake mi costrinse a voltarmi verso di lui e schiacciò la bocca sulla mia.

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Sebbene fosse impossibile, mi sembrò di scorgere un lampo nel cielo terso. Il bacio fu violento e le sue mani mi stringevano in una morsa di ferro. Lottai, spinsi contro il suo petto e alla fine riuscii a staccarmi.

«Cosa credi di fare?» gridai, infuriata.«Quello che vogliamo entrambi.»«Io non lo voglio! Cos’ho fatto per fartelo credere?»«Ti conosco, Bethany Church, non sei tipo da tirarti indietro», ringhiò Jake. «Ho visto come

mi guardi e so quello che c’è tra noi.»«Tra noi non c’è proprio niente. Mi spiace se te l’ho fatto pensare.»I suoi occhi lampeggiarono pericolosamente. «Mi stai davvero respingendo?»«Ci puoi scommettere. Io sto con Xavier. Te l’ho detto fin dall’inizio. Non è colpa mia se

hai deciso di non credermi.»Jake fece un passo verso di me, l’espressione incupita dalla rabbia. «Sei sicura di sapere

cosa stai facendo?»«Non sono mai stata più sicura», ribattei, gelida. «Tu e io non potremo mai essere altro che

amici.»Fece una risata roca. «Grazie, ma non m’interessa.»«Non potresti almeno dimostrare un po’ di maturità?»«Non credo che tu capisca, Beth. È destino che noi stiamo insieme, ti ho atteso per tutta la

vita.»«Che vuoi dire?»«Ti ho cercato per secoli. Avevo quasi rinunciato.»Uno strano gelo mi serpeggiò nel petto. Di cosa stava parlando?«Mai, nemmeno nelle mie più sfrenate fantasie, avrei immaginato che saresti stata... una di

loro. All’inizio ho cercato di resistere, ma è stato inutile. Il nostro destino è scritto nelle stelle.»«Ma di che parli? Non abbiamo nessun destino insieme.»«Sai cosa vuol dire vagare sulla Terra senza scopo, alla ricerca di qualcuno che potrebbe

essere ovunque? Non ho certo intenzione di rinunciare adesso.»«Be’, forse non hai scelta.»«Sarò io a offrirti ancora una possibilità. Non so se te ne rendi conto, ma stai facendo un

terribile errore, un errore che ti costerà molto caro.»«Non rispondo alle minacce», dissi, imperturbabile.«E sia.» L’espressione di Jake s’incupì ulteriormente e lui fece un passo indietro, tremando,

come se la mia semplice presenza lo facesse infuriare. «Ho finito di comportarmi bene con gli angeli.»

27 Giocando col fuoco

Un attimo dopo, Jake girò sui tacchi e sparì nella direzione da cui eravamo venuti. Io rimasi immobile, il gelo che ancora mi attanagliava. Speravo di aver frainteso la sua minaccia, ma in realtà avevo capito benissimo. Di colpo mi sembrò che la notte mi soffocasse. C’erano due cose di cui ormai ero certa: la prima era che Jake Thorn sapeva di noi, la seconda era che lui rappresentava un pericolo. Mi resi conto di essere stata davvero cieca a non accorgermene prima. Avevo testardamente cercato in lui qualche tratto di bontà, ignorando gli innumerevoli segni di cattiveria. E quei segni adesso lampeggiavano come insegne al neon.

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Mi sentii afferrare per un gomito e trattenni il fiato, ma poi scoprii che era Molly.«Cos’è successo qui? Vi abbiamo visto attraverso la vetrata! Ti sei messa con Jake? Hai

litigato con Xavier?»«No... no...» balbettai. «Ovvio che non sto con Jake, ci mancherebbe! È che lui... Non so

cosa sia successo... Devo tornare a casa.»«Come? Perché? Non puoi andartene così!»Ma io ero già fuggita.Trovai Gabriel e Ivy al tavolo degli insegnanti e li trascinai via. «Dobbiamo andare.»Gabe non fece domande e, insieme con Ivy, mi fece strada fuori dal padiglione. Mentre

tornavamo verso casa sulla jeep, entrambi ascoltarono il racconto di quello che era successo con Jake. Infine ripetei le parole con cui mi aveva lasciato. «Sono stata una vera stupida», gemetti, prendendomi la testa tra le mani. «Avrei dovuto accorgermene... Avrei dovuto capirlo...»

«Non è colpa tua, Bethany», disse Ivy.«Ma cos’ho di sbagliato?» ribattei. «Voi avevate capito che qualcosa non andava, vero? Ve

ne siete accorti non appena ha messo piede in casa.»«Abbiamo percepito un’energia oscura», ammise Gabe.«E perché non me l’avete detto? Perché non mi avete impedito di uscire con lui?»«Non ne eravamo sicuri», disse Gabriel. «La sua mente era schermata, era quasi impossibile

leggerla. Magari non era così importante... Non volevamo spaventarti senza ragione.»«Anche gli umani tormentati possono avere un’aura oscura», precisò Ivy. «È la conseguenza

delle brutte esperienze: tragedie, dolore, angosce...»«Ma dipende anche dalle cattive intenzioni», intervenni.«Sì», disse Gabriel. «Sul momento, non abbiamo voluto trarre conclusioni affrettate. Però,

se quel ragazzo sa chi siamo, allora esiste la possibilità che sia... be’, qualcosa di più che umano.»«Di più? Quanto di più?»«Non lo so. A meno che... magari Xavier...»Gli lanciai un’occhiataccia. «Xavier non rivelerebbe mai il nostro segreto. Mi rifiuto di

credere che tu ci abbia anche solo pensato. Ormai dovresti conoscerlo.»«D’accordo. Allora diciamo che Xavier non ha nulla a che fare con questo. Rimane il fatto

che c’è qualcosa d’inumano in Jake Thorn: lo sento io e lo senti anche tu, Bethany.»«Allora? Cosa facciamo?»«Dobbiamo aspettare il momento buono», rispose Gabriel. «Tutto a tempo debito. Non

dobbiamo agire di fretta. Se Jake è davvero pericoloso, uscirà allo scoperto.»Quando arrivammo a casa, Ivy si offrì di prepararmi una cioccolata calda, ma rifiutai. Andai

di sopra e mi tolsi il vestito, come se volessi liberarmi di un peso. Era andato tutto così bene... e adesso quel ragazzo minacciava di distruggere ogni cosa. Mi tolsi le perle dai capelli e mi struccai, con l’improvvisa sensazione di essere un’ipocrita. Era troppo tardi per telefonare a Xavier, anche se sapevo che parlare con lui mi avrebbe fatto sentire meglio. Mi misi invece il solito pigiama e m’infilai a letto, stringendomi al petto un peluche che mi aveva regalato Xavier. Lasciai che le lacrime bagnassero il cuscino. Non ero più arrabbiata né spaventata; ero solo triste. Perché non poteva essere tutto semplice, senza complicazioni? Perché la nostra missione doveva essere funestata da tanti ostacoli? Sapevo che era puerile, ma riuscivo solo a pensare che non era giusto. Ero troppo preoccupata per abbandonarmi al sonno, eppure mi sforzai, sapendo che la bufera stava per abbattersi su di noi.

Non sentii Xavier per l’intero weekend. Immaginai che avesse saputo dell’incidente al ballo e non volevo pressarlo. In più, il pensiero di Jake mi tormentava al punto che non mi soffermai neppure a chiedermi il perché di quel silenzio. Di solito, non resistevamo più di qualche ora senza parlarci.

Per sentire Jake, invece, non dovetti aspettare molto. Il lunedì mattina, aprii il mio armadietto e un pezzo di carta volteggiò a terra, come una foglia in autunno. Lo raccolsi, aspettandomi uno di quei messaggi di Xavier che mi facevano sospirare, adorante, oppure ridacchiare come una bambina. Ma la grafia era diversa e la riconobbi all’istante. Lessi il testo e mi

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si gelò il sangue.

L’angelo venne.L’angelo vide.L’angelo cadde.

Mostrai il biglietto a Gabriel, che lo accartocciò, esasperato, senza dire una parola. Cercai di non pensare a Jake per il resto della giornata, ma non era un’impresa facile. Xavier non era a scuola e avevo un bisogno disperato di parlare con lui. Mi sembrava trascorsa un’eternità dalla sera del ballo.

La giornata passò in una nebbia indistinta. Ripresi vita per circa cinque minuti durante l’intervallo per il pranzo, quando presi in prestito il cellulare di Molly e cercai di telefonare a Xavier, ma ripiombai nella nebbia quando partì la segreteria telefonica. La mancanza di contatti con lui mi aveva fatto precipitare in uno stato quasi letargico. Era come se una nuvola m’ingombrasse la mente e non riuscissi ad afferrare i pensieri perché scivolavano via troppo in fretta.

Alla fine della giornata, tornai a casa. Da Xavier, ancora nessun segno. Riprovai a telefonargli, ma il bip della segreteria telefonica mi fece salire le lacrime agli occhi. Per tutto il pomeriggio, rimasi seduta ad aspettare una sua chiamata o una visita. Non voleva sapere com’era andato il ballo? Gli era successo qualcosa? Qual era il motivo di quell’improvviso silenzio? Non capivo.

«Non riesco a parlare con Xavier», mormorai mentre cenavamo. «A scuola non c’era e non risponde alle mie telefonate.»

«Non farti prendere dal panico, Beth», replicò Ivy. «Magari è impegnato.»«E se stesse male?»«L’avremmo percepito», mi rassicurò Gabriel. «Se non sarai riuscita a parlargli entro

domani pomeriggio, allora andremo a vedere cosa sta succedendo.»Annuii e cercai di mandare giù la cena, però il cibo mi si appiccicava in gola come colla. Poi

mi trascinai a letto, ma faticai a addormentarmi. Era come se le pareti si stessero richiudendo attorno a me.

Il giorno successivo, a scuola, non c’era traccia di Xavier. Avrei voluto lasciarmi cadere a terra, in attesa che qualcuno mi raccogliesse e mi portasse via. Non ce l’avrei fatta per un altro giorno senza di lui... Anzi non potevo resistere neppure un altro minuto. Dov’era? Stava cercando di dirmi qualcosa?

Molly mi vide afflosciata contro l’armadietto e mi posò una mano sulla spalla. «Beth, tesoro, ti senti bene?»

«Devo parlare con Xavier. Ma non riesco a mettermi in contatto con lui.»Molly si morse il labbro. «Mi sa che devi vedere una cosa.»«Xavier sta bene?» chiesi con una voce che tradiva i miei timori.«Sì, sta bene. Però vieni con me.»Mi condusse in una sala al terzo piano. Era una stanza cupa, senza finestre, con file di

computer che sembravano fissarmi con occhi nerissimi. Molly ne accese uno e accostò un paio di sedie. Tamburellò sul banco con le lunghe unghie artificiali. Quindi cliccò un’icona e digitò rapidamente qualcosa nella barra di ricerca.

«Cosa fai?»«Ti ricordi che ti ho parlato di Facebook e di quant’è figo?»Annuii.«Be’, ogni tanto fa schifo.»«Cioè?»

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«Non rispetta granché la privacy, tanto per dirne una.»Sapevo che stava cercando di dirmi qualcosa, ma non riuscivo a immaginare cosa e, a

giudicare dalla sua espressione, non ero sicura di volerlo sapere. Mi fissava con un misto di timore e di preoccupazione. Molly aveva la tendenza a esagerare, quindi cercai di non spaventarmi troppo.

«Okay... ti faccio vedere», mormorò.Digitò qualcosa e sullo schermo apparve la sua pagina Facebook. «Vedi? ’Facebook ti aiuta

a connetterti e a rimanere in contatto con le persone della tua vita.’» Poi aggiunse, in tono cupo: «Però questo sarebbe stato meglio non condividerlo».

Cominciavo a stancarmi di quell’attesa. «Sbrigati a dirmi cos’è successo, su.»«Va bene, va bene. Ma cerca di essere preparata.» Cliccò su un album fotografico dal titolo

Foto del ballo di Kristy Peters.«Chi è?»«Una ragazza del nostro anno. Ha scattato foto per tutta la sera.»«Aspetta, c’è scritto che sono taggata in questo album?»«Infatti. Tu e... qualcun altro.»Molly cliccò per ingrandire un’immagine. Aspettai che la foto comparisse sullo schermo.

Avevo il cuore in gola. Cosa poteva mai essere? Che Kristy fosse riuscita a fotografare le mie ali? O forse era solo una foto orrenda che per Molly costituiva una «tragedia»?

Quando apparve l’immagine, capii che non era niente del genere. Era peggio, molto peggio. Un’ondata di nausea mi travolse e non riuscii a vedere altro che quelle due facce sullo schermo: la mia e quella di Jake Thorn, unite in un bacio. Le fissai a lungo. Notai le mani di Jake sulla mia schiena e le mie sulle sue spalle, che cercavano di allontanarlo. Io avevo gli occhi chiusi: era per lo shock, ma l’impressione che se ne ricavava era diversa. Sembrava che io fossi in preda a una sfrenata passione.

«Dobbiamo farla sparire», gridai, afferrando il mouse. «Cancellala!»«Non si può», sospirò Molly.«Non possiamo eliminarla?» urlai con voce strozzata.«Solo Kristy la può cancellare dal suo album. Possiamo staggarti, ma la foto rimarrebbe.»«Ma deve sparire prima che Xavier la veda!»Molly mi guardò, comprensiva. «Beth, tesoro, temo che l’abbia già vista.»

Mi lanciai fuori dalla sala computer e uscii dalla scuola. Non sapevo dov’era Gabriel, ma non potevo aspettarlo. Xavier doveva sapere la verità. E doveva saperla subito.

La sua casa non era lontana e io la raggiunsi di corsa, guidata dal mio infallibile senso dell’orientamento. Bernie e Peter erano al lavoro, Claire era impegnata nella prova del vestito con le sue damigelle e gli altri erano a scuola. Così, quando suonai il campanello, fu Xavier ad aprirmi. Indossava una tuta da ginnastica grigia e non si era sbarbato. Non portava più il tutore alla caviglia, ma usava ancora le grucce. I capelli lisci erano un po’ arruffati e il viso era aperto e bellissimo come sempre, ma gli occhi avevano qualcosa di diverso. Quegli occhi turchesi che avevano sempre brillato per me adesso sembravano ostili.

Quando mi vide, non disse nulla. Si limitò a voltarsi, lasciando la porta aperta. Non sapevo se voleva che lo seguissi, ma lo feci comunque. Stava mangiando una ciotola di cereali, benché fosse quasi mezzogiorno. Non mi guardò.

«Posso spiegarti tutto», mormorai. «Non è come sembra.»«Ah, no? Io credo che sia esattamente come sembra.»«Xavier, ti prego», dissi, cercando di trattenere le lacrime. «Ti supplico, ascoltami.»«Cercavi di fargli una respirazione bocca a bocca?» chiese, sarcastico. «O raccoglievi

campioni di saliva a scopo di ricerca? Ha una malattia incurabile e quello era il suo ultimo desiderio? Non prendermi in giro, Beth. Non sono dell’umore adatto.»

Gli presi una mano, ma lui la ritrasse. Stavo malissimo. Cos’era successo? Xavier sembrava

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aver eretto fra noi un muro, una barriera e io non lo tolleravo. Quel ragazzo freddo e distaccato era così diverso da quello che conoscevo.

«È stato Jake a baciare me. E la foto è stata scattata nel momento in cui cercavo di spingerlo via.»

«Che coincidenza», borbottò lui. «Non sarò un essere celeste, ma ciò non significa che sia un idiota.»

«Chiedilo a Molly. O a Gabriel e Ivy...»«Io mi fidavo di te. E ti è bastata una sera senza di me per metterti con un altro.»«Non è vero!»«Potevi almeno dirmelo di persona, che era finita, invece di farmelo scoprire in questo

modo.»«Non è finita», esclamai, con voce strozzata. «Non dirlo! Ti prego...»«Ma ti rendi conto di quanto sia umiliante per me? C’è una foto della mia ragazza che se la

fa con un altro, mentre io sono a casa con una stupida commozione cerebrale. Tutti i miei amici mi hanno telefonato per sapere se mi avevi piantato.»

«Lo so, e mi dispiace tanto, ma...»«’Ma’ cosa?»«Be’... tu...»«Io sono un idiota. Ti ho lasciato andare al ballo con Jake... Suppongo di essermi fidato

troppo di te. Un errore che non ripeterò.»«Perché non vuoi ascoltarmi? Perché sei così pronto a credere a tutti tranne che a me?»«Credevo che ci fosse qualcosa di speciale tra noi.» Sollevò lo sguardo su di me e notai che

aveva gli occhi lucidi. Sbatté le palpebre con rabbia, per ricacciare indietro le lacrime. «Dopo tutto quello che abbiamo passato per stare insieme, te ne vai e... È ovvio che il nostro rapporto non significava molto, per te.»

Non riuscii più a trattenermi e scoppiai in lacrime, le spalle che sussultavano a ogni singhiozzo. Xavier d’istinto si alzò per venire a consolarmi, ma poi ci ripensò e si fermò. Aveva la mascella tesa, come se soffrisse a vedermi in quello stato, ma non potesse farci nulla.

«Ti prego», mormorai. «Ti amo. L’ho detto anche a Jake che amo te. Lo so che con me è difficile, ma non arrenderti.»

«Ho bisogno di stare un po’ solo.»Corsi via e non mi fermai prima di aver raggiunto la spiaggia, dove crollai, singhiozzando

sino allo sfinimento. Sentivo che qualcosa dentro di me si era rotto, come se fossi andata letteralmente in frantumi e niente potesse rimettermi insieme. Amavo Xavier così tanto che faceva male, eppure lui mi aveva respinto. Non so per quanto tempo rimasi sulla spiaggia e, a un certo punto, mi accorsi che le onde cominciavano a lambirmi i piedi. La marea stava salendo. Non m’importava; speravo anzi che mi avrebbe spazzato via, spinta sott’acqua, risucchiando ogni stilla di energia dal mio corpo e ogni pensiero dalla mia mente. Si alzò un forte vento. Era quello il modo scelto dal Padre per punirmi? La mia condanna era stata sperimentare l’amore per poi farmelo strappare via, come i punti da una ferita? Xavier mi amava ancora? Mi odiava? Aveva davvero perso ogni fiducia in me?

Quando Gabriel e Ivy mi trovarono, l’acqua aveva già raggiunto i miei fianchi. Non parlai né mi mossi, neppure quando Gabriel mi sollevò dall’acqua e mi riportò a casa. Ivy mi aiutò a infilarmi sotto la doccia e mi aiutò a uscirne mezz’ora dopo: mi ero scordata dov’ero ed ero rimasta immobile sotto lo scroscio d’acqua. Gabriel mi portò qualcosa da mangiare, ma non riuscii a mandare giù niente. Rimasi seduta sul letto, con lo sguardo fisso nel vuoto, pensando a Xavier e, nel contempo, cercando di non pensarci. Compresi quanto mi sentissi al sicuro con lui. Agognavo il suo tocco, il suo profumo, la semplice certezza di averlo vicino. Invece adesso mi sembrava lontanissimo. L’impossibilità di raggiungerlo mi faceva sentire come se fossi sul punto di sgretolarmi, di smettere di esistere.

Quando il sonno finalmente arrivò, fu un sollievo, anche se sapevo che al mattino sarebbe ricominciato tutto da capo. Ma persino i miei sogni furono tormentati. Sognai di essere davanti al

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faro di Shipwreck Coast. Era buio e c’era molta nebbia, ma d’un tratto scorsi una figura raggomitolata a terra. Quando gemette e si girò sulla schiena, vidi che era Xavier. Gridai e cercai di correre da lui, ma una dozzina di mani umide si tese a trattenermi. Poi, dal faro, uscì Jake Thorn, con gli occhi scintillanti e taglienti come frammenti di vetro. Aveva i capelli raccolti all’indietro e indossava una lunga giacca di pelle nera, col bavero sollevato per proteggersi dal vento. «Non volevo arrivare a questo, Bethany. Però talvolta non abbiamo scelta.»

«Cosa gli stai facendo?» singhiozzai, mentre Xavier sembrava in preda alle convulsioni. «Lascialo stare.»

«Sto solo finendo quello che avrei dovuto cominciare molto tempo fa», ringhiò Jake. «Non temere, non sarà doloroso. In fondo è già mezzo morto...»

Con uno scatto del polso, sollevò Xavier e lo spinse verso la scogliera. In uno scontro fisico alla pari, Xavier avrebbe potuto sconfiggere facilmente Jake, ma non poteva certo competere coi suoi poteri soprannaturali.

«Sogni d’oro, ragazzo», disse Jake, mentre i piedi di Xavier scomparivano nell’abisso.Il mio grido venne ingoiato dalla notte.

I giorni successivi trascorsero in una specie di nebbia. Non mi sembrava di vivere davvero; era piuttosto come osservare il centro dell’esistenza dalla periferia. Non mi presentai a scuola, e Ivy e Gabriel non fecero nulla per convincermi ad andare. Non mangiai molto né uscii di casa; in realtà, feci ben poco a parte dormire. Il sonno era l’unico modo per sfuggire al dolore per la mancanza di Xavier.

Phantom era la mia unica fonte di consolazione. Sembrava percepire il mio sconforto e stava sempre con me. Era il solo che mi strappava un mezzo sorriso, ogni tanto. Una volta, da un cassetto semiaperto, tirò fuori parecchi capi di biancheria e me li sparpagliò per la stanza; un’altra, s’ingarbugliò nei gomitoli di lana di Ivy e mi toccò liberarlo; un’altra ancora, mi portò in camera una scatola intera di croccantini, nella speranza di ottenerne uno come ricompensa. Ma non erano che piccole oasi nell’interminabile deserto di vuoto e silenzio che si stendeva davanti a me. Non appena finivano, ripiombavo nel mio limbo.

La preoccupazione di Ivy e Gabriel cresceva di giorno in giorno. Ero diventata il fantasma di una persona e di un angelo.

«Così non può continuare», disse Gabriel, un pomeriggio. «Non puoi vivere in questo modo.»

«Mi dispiace», replicai in tono piatto. «M’impegnerò di più.»«No. Stasera ce ne occuperemo Ivy e io.»«Cosa volete fare?»«Vedrai.»Dopo cena, Gabriel e Ivy uscirono, mentre io rimasi distesa sul letto a fissare il soffitto.

Infine mi sforzai di alzarmi e mi trascinai in bagno. Scrutai il mio riflesso nello specchio. Di certo sembravo diversa. Persino in quel pigiama informe si vedeva che ero dimagrita: avevo il viso scavato e le scapole sporgenti. I capelli pendevano flosci e opachi, e pure gli occhi apparivano più grandi, scuri e tristi. Ero curva come se faticassi a sostenere il mio stesso peso. Mi chiedevo se sarei mai riuscita a rimettere insieme i pezzi della mia vita terrestre. Per un attimo, mi venne in mente che, in effetti, Xavier non aveva detto apertamente che tra noi era finita... però me l’aveva fatto capire. Gliel’avevo letto in faccia. Trascinando i piedi, tornai a letto e mi raggomitolai sotto le coperte.

Un’ora più tardi, bussarono alla porta. Ero così intontita che quasi non lo udii. Bussarono ancora, stavolta più forte. Poi sentii che la porta si apriva e che qualcuno entrava nella stanza. Nascosi la testa sotto il cuscino.

«Oh, Beth, come ti sei ridotta?» disse la voce di Xavier.Rimasi immobile. Non riuscivo a credere che fosse davvero lui. Trattenni il fiato, sicura che,

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non appena avessi sollevato la testa, mi sarei ritrovata in una stanza vuota.«Beth, mi senti? Gabriel mi ha spiegato tutto... cosa ti ha fatto Jake, le sue minacce. Oddio,

mi dispiace tanto.»Mi rizzai a sedere. Eccolo, in T-shirt bianca e jeans sbiaditi, alto e bello come lo ricordavo.

Era più pallido del solito, con le occhiaie scure. Trasalì. Probabilmente aveva notato com’ero smunta ed esausta.

«Credevo che non ti avrei mai più rivisto», sussurrai, squadrandolo da capo a piedi, come se cercassi la prova che quello non era un sogno.

Xavier si avvicinò e mi prese la mano, premendosela contro il petto. Rabbrividii e mi persi nel suo sguardo di zaffiro, pieno di preoccupazione. Allora non riuscii a trattenere le lacrime.

«Sono qui... Non piangere, sono qui», continuò a ripetere, mentre mi abbandonavo tra le sue braccia. «Non avrei mai dovuto lasciarti andare via in quel modo. Ero sconvolto. Credevo... Be’, lo sai cosa credevo.»

«Sì. Perché non ti sei fidato di me? Perché non mi hai dato il tempo di spiegarti?»«Hai ragione. Ti amo e avrei dovuto crederti. Sono stato così stupido...»«Credevo di averti perso per sempre. Credevo che ti fossi allontanato da me perché avevo

fallito. Ho aspettato che tornassi...»«Mi dispiace tanto», disse Xavier, con la voce che si spezzava. Deglutì a fatica e abbassò lo

sguardo sulle mie mani. «Farò quello che vuoi per rimediare, io...»Gli posai un dito sulle labbra. «Adesso è passato. Voglio dimenticarmi tutto.»«Ma certo. Come vuoi.»Restammo distesi in silenzio sul mio letto, semplicemente felici di essere di nuovo insieme.

Ero aggrappata alla sua camicia, come se temessi di vederlo sparire. Mi disse che Gabriel e Ivy erano usciti per lasciarci soli.

«Sai, non parlare con te è stato la cosa più difficile di tutta la mia vita», disse lui a un tratto.«Io avrei voluto morire.»Mi lasciò andare di colpo. «Non pensarlo neppure. Non importa cosa può succedere. Io non

valgo tanto.»«Invece sì.»«Già, sembra la fine del mondo, vero?»«Sembra la fine di tutto.»Lui sorrise. «Allora suppongo che non siamo stati molto furbi. Ma non lo rimpiango.»«Neppure io.» Rimasi in silenzio per qualche istante, poi strofinai il naso contro le sue dita.

«Xavier...»«Cosa?»«Se pochi giorni ci hanno quasi ucciso, cosa succederà quando...»«Non ora», m’interruppe lui. «Ti ho appena ritrovato. Non voglio pensare che posso perderti

di nuovo. E non permetterò che succeda.»«Non potrai farci niente. Non puoi affrontare le forze del Regno. Non c’è niente che desideri

più di stare con te, ma ho tanta paura.»«Un uomo innamorato può compiere imprese straordinarie. Non m’interessa se sei un

angelo: sei il mio angelo, e io non ti lascerò andare.»«E se non ci dessero nessun preavviso? Se una mattina mi svegliassi e mi ritrovassi nel

posto da cui sono venuta? Ci hai mai pensato?»Xavier socchiuse le palpebre. «Non credi che sia questa la mia paura peggiore, Beth? Temo

sempre di arrivare a scuola una mattina e di scoprire che non ci sei. Di venire qui a cercarti e che nessuno venga ad aprire la porta. Che nessuno in città sappia dove siete andati tranne me. E io so perfettamente di non poterti riportare indietro. Non chiedermi se ci ho mai pensato, perché la risposta la sai. Sì, tutti i giorni.» Con un sospiro, si abbandonò sul cuscino.

Guardandolo, mi resi conto che il mio mondo era proprio lì, accanto a me, disteso sul mio letto. Nello stesso istante, capii che non avrei mai potuto lasciarlo. Non sarei mai potuta tornare a casa mia perché adesso era lui la mia casa.

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Mi alzai dal letto e rimasi a piedi nudi sulla moquette. Xavier mi guardò, incuriosito. Sostenni il suo sguardo senza parlare e, lentamente, mi sfilai la parte superiore del pigiama e la lasciai cadere a terra. Non provavo il minimo imbarazzo, mi sentivo semplicemente libera. Mi sfilai anche i pantaloni e lasciai che si afflosciassero sul pavimento. Xavier non parlò, sapendo che avrebbe rotto il mormorio del silenzio che riempiva la stanza. Un attimo dopo, si alzò e lasciò cadere jeans e T-shirt sul pavimento. Si avvicinò e fece scorrere le dita calde contro la mia schiena. Sospirai e mi abbandonai al suo abbraccio. La sensazione della sua pelle contro la mia mi fece serpeggiare un brivido caldo lungo il corpo. Mi premetti contro di lui, sentendomi viva per la prima volta da giorni.

Baciai le sue labbra morbide e gli feci scorrere le mani sul viso, ripercorrendo il profilo familiare di naso e zigomi. Avrei riconosciuto il suo viso ovunque; potevo leggerlo come un cieco leggeva un libro in Braille. Aveva un profumo fresco e dolce. Ai miei occhi non aveva un solo difetto, ma non era quella la cosa importante. L’avrei amato comunque, anche se fosse stato deforme o un mendicante coperto di stracci. L’avrei amato perché era Xavier.

Ci stendemmo e restammo così, abbracciati, finché non sentimmo Ivy e Gabriel che rincasavano. Molly l’avrebbe considerato una pazzia. Ma noi avevamo bisogno di quel contatto. Volevamo sentirci un’unica persona anziché due individui separati. Gli abiti ci nascondevano. Senza di essi, non avevamo niente dietro cui rifugiarci, non avevamo modo di nascondere nessuna parte di noi, per quanto piccola. Era quello che volevamo: essere totalmente e completamente noi stessi e sentirci al sicuro.

28 Angelo di distruzione

Il mattino seguente, Xavier venne a far colazione da noi e Gabriel cercò di farlo ragionare. Era furibondo con Jake e pronto a fargliela pagare: proprio quello che Gabriel voleva evitare a tutti i costi, anche perché ancora non sapevamo quanto fosse potente il nostro avversario.

«Qualunque cosa tu faccia, non devi affrontarlo», affermò Gabriel, serio.«Ha minacciato Beth. L’ha praticamente aggredita. Non possiamo lasciare che se la cavi

così.»«Jake non è uno studente come gli altri. Non sappiamo ancora di cosa sia capace.»«Non può essere così pericoloso, mingherlino com’è», borbottò Xavier.Ivy lo guardò, severa. «Sai bene che l’apparenza inganna.»«Allora cosa volete fare?» chiese Xavier.«Non possiamo fare niente, non senza attirare su di noi troppa attenzione», rispose Gabriel.

«Possiamo solo sperare che non abbia cattive intenzioni.»Xavier si lasciò sfuggire una risata. «Dici sul serio?»«Sì.»«E quello che ha fatto al ballo?»«Be’, non la definirei una prova schiacciante.»«E la cuoca che si è ustionata con la friggitrice?» intervenni. «E l’incidente stradale

all’inizio del trimestre?»«Credi che Jake sia coinvolto?» chiese Ivy. «Ma, quand’è successo l’incidente, lui non era

ancora arrivato a scuola.»«Gli sarebbe bastato essere in città», replicai. «E di sicuro quel giorno alla mensa lui c’era.

Gli sono passata accanto.»

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«Ho letto di un altro incidente, al molo, due giorni fa», aggiunse Xavier. «E di recente ci sono stati un paio d’incendi che sembrano di origine dolosa. Non era mai successo niente del genere, da queste parti.»

Gabriel si prese la testa fra le mani. «Devo rifletterci.»«Non è tutto», continuai. «Ha anche dei seguaci: lo seguono ovunque vada e si comportano

come se lui fosse il loro capo. Ha cominciato con poche persone ma, ogni volta che lo vedo, ce ne sono di più.»

«Beth, va’ a prepararti per la scuola», disse Gabriel.«Ma...»«Vai. Ivy e io dobbiamo parlare.»

Dopo il ballo, la popolarità di Jake Thorn era schizzata alle stelle e i suoi seguaci erano raddoppiati. A scuola, giravano con lo sguardo perso nel vuoto, come drogati, le pupille stranamente dilatate e le mani affondate nelle tasche. I loro volti si riaccendevano solo se vedevano Jake, assumendo una sgradevole espressione adorante, neanche fossero disposti a fare qualsiasi cosa per lui.

Si verificarono strani atti di vandalismo. Le porte della chiesa di Saint Mark furono profanate da scritte oscene e le finestre degli uffici municipali vennero mandate in frantumi con ordigni artigianali. Al Fairhaven si registrò un caso d’intossicazione alimentare e molti anziani dovettero essere ricoverati.

Jake Thorn non era implicato direttamente in tutto ciò, però era sempre presente, come osservatore. Sembrava deciso a provocare dolore e sofferenza, e non potevo trattenermi dal pensare che la sua motivazione fosse la vendetta. Lo faceva forse per mostrarmi le conseguenze del mio rifiuto?

Il giovedì pomeriggio decisi di uscire presto da scuola e passai a prendere Phantom dal dog-sitter. Quel giorno, Gabriel si era dato malato: in realtà, lui e Ivy stavano recuperando le forze dopo una settimana trascorsa a rimediare ai disastri provocati da Jake. Non erano abituati a essere così impegnati e, nonostante il loro potere, lo sforzo continuo li aveva prosciugati.

Avevo appena recuperato la mia borsa e stavo puntando verso l’uscita per raggiungere l’auto di Xavier, quando notai una piccola folla nel corridoio, davanti ai bagni delle ragazze. Una voce dentro di me gridò di tenermi alla larga, ma l’istinto e la curiosità ebbero la meglio. Gli studenti si erano raccolti in capannelli e parlavano a voce bassa. Alcuni di loro piangevano. Una ragazza singhiozzava sul petto di un giocatore di hockey, ancora in tenuta da gioco. Molti fissavano la porta del bagno con un’espressione tra l’incredulo e l’addolorato.

Mi feci largo tra la folla. Mi sembrava di muovermi al rallentatore e avevo la strana sensazione di essere fisicamente lontana da lì, quasi stessi assistendo a uno spettacolo televisivo. In mezzo agli studenti, scorsi alcuni membri della cricca di Jake: era facile distinguerli dagli altri per via delle facce scavate e degli abiti neri. Alcuni di loro mi seguirono con lo sguardo. Io li fissai e mi resi conto che avevano tutti gli stessi occhi: dilatati, infossati e neri come la pece.

Accanto all’ingresso dei bagni c’erano il dottor Chester e due agenti di polizia. Uno di loro stava parlando con Jake Thorn. La sua espressione addolorata era in netto contrasto con lo scintillio degli occhi da gatto. In più, le sue labbra erano impercettibilmente tese, come se da un momento all’altro lui intendesse affondare i denti nella gola del poliziotto. Mi pareva di essere l’unica in grado di percepire la minaccia, mentre per gli altri lui era soltanto un adolescente innocuo. Mi avvicinai per ascoltare.

«Non capisco come possa essere successa una cosa del genere proprio qui, alla Bryce Hamilton», stava dicendo Jake. «È un colpo per tutti noi.»

Poi cambiò posizione e non riuscii ad afferrare altro, se non qualche parola: «tragedia», «nessuno presente», «informare la famiglia»... Alla fine, il poliziotto annuì e Jake si voltò per andarsene. I suoi seguaci si guardarono, con una traccia di divertimento negli occhi e un sorriso a

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fior di labbra. Sembravano avidi, quasi famelici, e segretamente soddisfatti per qualunque cosa stesse succedendo.

A un segnale di Jake, cominciarono a disperdersi con discrezione. Avrei voluto urlare di fermarlo, spiegare a tutti quanto fossero pericolosi, ma avevo la gola strozzata dalla tensione.

Di colpo, mi resi conto di essermi avvicinata ancora di più alla porta dei bagni, come trascinata da una forza invisibile. Due infermieri stavano sollevando una barella coperta con un telo azzurro, sul quale c’era una macchia rossa. Poi scorsi una mano pallida e affusolata, con la punta delle dita già bluastra.

Una fitta di angoscia e paura mi tolse il fiato. Ma non erano sensazioni mie; appartenevano a qualcun altro, alla ragazza sulla barella. Percepii le sue mani che afferravano il manico di un coltello, poi il suo terrore, mentre una forza misteriosa guidava la lama verso la sua gola. Aveva lottato contro quella forza, ma non controllava più il proprio corpo. Provai il suo stesso dolore lacerante mentre il metallo lacerava la pelle e sentii la risata crudele che le risuonava nella testa. L’ultima cosa che vidi fu il suo viso, ma l’immagine fu rapida come un lampo. La conoscevo. Quante volte mi ero seduta vicino a lei a pranzo, ad ascoltare i suoi incessanti pettegolezzi? Quante volte avevo riso alle sue scenette, o seguito i suoi consigli? Il viso di Taylah era inciso nella mia mente. Sentii il suo corpo che si piegava in avanti, che lottava in cerca d’aria mentre il sangue usciva a fiotti dalla ferita e le colava lungo la gola. Vidi il terrore e il panico nei suoi occhi un attimo prima che si velassero e che lei si afflosciasse a terra, morta. Allora aprii la bocca per urlare, ma non ne uscì nessun suono.

Qualcuno mi si parò davanti e mi afferrò per le spalle. Annaspai, cercando di arretrare, ma la sua presa era ferma. Sollevai il viso, aspettandomi di vedere guance incavate e occhi penetranti... invece era Xavier, che mi abbracciò forte e mi trascinò via, all’aria aperta.

«No», dissi più a me stessa che a lui. «Ti prego, no...»Continuò a tenermi il braccio attorno alla vita e mi portò quasi di peso verso la sua auto.

«Respira», disse, appoggiandomi una mano fresca sul viso e fissandomi negli occhi. «Calmati.»«Non può essere... era... quella ragazza era...» Scoppiai a piangere.«Sali in macchina, Beth.»«È stato Jake!» gridai, mentre Xavier metteva in moto: aveva fretta di tornare a casa da Ivy e

Gabriel. Loro avrebbero saputo cosa fare.«La polizia ha detto che si è suicidata», spiegò lui in tono piatto. «Non ha niente a che fare

con Jake. Anzi è stato lui a dare l’allarme.»«No... Taylah non avrebbe mai fatto una cosa del genere. È stato Jake.»«Jake può avere tanti difetti, ma non è un assassino.»«Tu non capisci.» Mi asciugai le lacrime. «Io l’ho visto. Era come se fossi lì mentre

succedeva.»«Cosa?» Xavier si voltò a guardarmi. «Come?»«Quando ho visto il suo cadavere, ho rivissuto gli ultimi istanti della sua vita. Si è tagliata la

gola da sola, ma non voleva farlo, qualcuno l’ha costretta. Lui la stava controllando, e poi ha riso mentre lei moriva. Era Jake, lo so.»

Xavier scosse il capo. «Ne sei sicura?»«Sì, l’ho percepito. È stato lui.» Dopo qualche istante di silenzio, chiesi: «Cos’è successo

dopo che lei è morta?»«L’hanno trovata sul pavimento. È tutto quello che so. Una ragazzina del primo anno è

entrata e l’ha vista: era in una pozza di sangue. Accanto al cadavere c’era un coltello da cucina.» Xavier stringeva il volante così forte che le nocche erano bianche.

«Secondo te, perché Jake ha scelto lei?»«Magari è stata soltanto sfortuna. Si è trovata nel posto sbagliato al momento sbagliato. So

che era una tua amica, Beth. Mi dispiace molto.»«È colpa nostra?» chiesi con un filo di voce. «L’ha fatto per vendicarsi di noi?»«L’ha fatto perché è malvagio.» Fissava la strada, impassibile, come se cercasse di trattenere

dentro di sé quello che provava. «Vorrei solo che tu non fossi stata costretta a vedere tutto.» C’era

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rabbia nella sua voce, anche se sapevo che non era rivolta a me.«Ho visto di peggio.»«Davvero?»«Vediamo molte cose brutte, nel luogo da cui vengo», spiegai. Ma non gli dissi com’era

diverso affrontare la morte sulla Terra, soprattutto se la vittima era tua amica. «La conoscevi anche tu?»

«Vado a scuola con questi ragazzi dalle elementari. Li conosco tutti.»«Mi dispiace.» Gli posai una mano sulla spalla, che era tesa e rigida.«Anche a me.»

Quando arrivammo a casa, Gabriel e Ivy avevano già saputo cos’era successo.«Dobbiamo agire subito», disse Ivy.«E cosa proponi?» chiese Gabriel.«Dobbiamo fermarlo», intervenni. «Distruggerlo, se necessario.»«Non possiamo semplicemente distruggerlo», affermò Gabriel. «Non possiamo sottrarre una

vita senza ragione.»«Ma lui ha preso la vita di un’altra persona!» gridai.«Bethany, non possiamo fargli del male finché non sapremo con assoluta certezza chi è o

cosa è. Perciò affrontarlo adesso è fuori questione.»«Voi forse non potete fargli del male, ma io sì», sibilò Xavier. «Lasciate che gli dia una

bella lezione.»Lo sguardo di Gabriel era inflessibile. «Da morto non saresti particolarmente utile a

Bethany.»«Gabe!» strillai, sconvolta all’idea che qualcuno potesse far del male a Xavier.«Sono più forte di lui. So di esserlo.»Ivy gli posò una mano sulla spalla. «Tu non sai con cosa abbiamo a che fare.»«È solo un ragazzo», ribatté Xavier. «Quanto può essere pericoloso?»«Non è solo un ragazzo», insistette Ivy. «Abbiamo percepito la sua aura, che adesso sta

crescendo. È allineato con forze così oscure che nessun umano è in grado di comprendere.»«Cosa vuoi dire? Che è un demone?» chiese Xavier, incredulo. «È impossibile!»«Tu credi negli angeli, no? È così difficile concepire che esista una nostra controparte

malvagia?» domandò Gabriel.«Preferisco non pensarci», replicò Xavier.«C’è il Paradiso, quindi c’e anche l’Inferno», mormorò Ivy.«Mi state dicendo che Jake Thorn è un demone?» sussurrai.«Sì, crediamo che possa essere un emissario di Lucifero», dichiarò Gabriel. «Tuttavia, prima

di agire per fermarlo, ci serve una prova.»La prova arrivò poco più tardi, quando aprii il mio zaino. Sotto la cerniera, era stato infilato

un foglio. Riconobbi subito la calligrafia di Jake.

Quando le lacrime dell’angelo inonderanno la Terra,le porte dell’Inferno assisteranno alla rinascita.Quando la fine incomberà sull’angelo,il ragazzo umano incontrerà la morte.

Avvertii un groppo in gola e afferrai il braccio di Xavier. Sentivo i suoi muscoli sotto le dita,

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ma la sua forza era soltanto umana.«Ti sembra una prova sufficiente?» chiese lui a voce bassa.«È solo una poesia», rispose Gabriel. «Senti, io credo che ci sia Jake dietro la morte di

Taylah e dietro tutti gli altri incidenti successi a Venus Cove. Credo che il suo scopo sia provocare morte e distruzione, però ho bisogno di prove concrete. Sono le leggi del Regno a esigerlo.»

«E allora cosa farai?»«Tutto quello che sarà necessario per mantenere la pace.»«Anche se questo significherebbe ucciderlo?» Xavier non aveva fatto giri di parole.«Sì», fu la gelida risposta di Gabriel. «Se è davvero colui che sospettiamo sia, prendere la

sua vita umana significa rimandarlo là da dov’è venuto.»Xavier annuì. «Ma cosa vuole da Beth?»«Beth lo ha respinto», spiegò Gabriel. «Uno come Jake Thorn è abituato a ottenere tutto ciò

che vuole. In questo momento, la sua vanità è ferita.»Strusciai i piedi, a disagio. «Ha detto che mi ha cercato per secoli...»«Ha detto cosa?» esplose Xavier.Gabriel e Ivy si scambiarono uno sguardo preoccupato.«Spesso i demoni cercano un essere umano per impadronirsene», spiegò Ivy. «È la loro

versione distorta dell’amore, suppongo. Attirano l’umano negli Inferi e, col trascorrere del tempo, gli corrompono l’anima e lo soggiogano.»

«Ma che senso ha?» chiese Xavier. «I demoni sono in grado di provare sentimenti?»«Lo fanno soprattutto come gesto di sfida verso il Padre», chiarì Ivy. «La corruzione delle

Sue creature Gli provoca un grande dolore.»«Ma io non sono neppure una vera umana!» esclamai.«Esatto», rispose Gabriel. «Quale premio migliore di un angelo in forma umana? Catturare

uno di noi sarebbe la vittoria più grande.»«Beth è in pericolo?» chiese Xavier, accostandosi a me.«Lo siamo tutti», rispose Gabriel. «Dobbiamo solo avere pazienza. A tempo debito, il Padre

ci rivelerà il cammino.»Insistetti che Xavier si fermasse a dormire da noi: Ivy e Gabriel non sollevarono obiezioni.

Anche se non avevano detto molto, sapevo che erano preoccupati per lui. Jake era imprevedibile. Era una bomba che poteva scoppiare da un momento all’altro.

Xavier telefonò ai genitori per avvisarli che si sarebbe fermato a casa di un amico, a studiare. Sua madre non gli avrebbe certo permesso di rimanere se avesse saputo che era a casa mia: Bernie era troppo tradizionalista. Lei e Gabriel sarebbero andati proprio d’accordo.

Dopo aver dato la buonanotte, salimmo in camera mia. Mentre mi facevo la doccia e mi lavavo i denti, Xavier uscì sul terrazzo. Non gli chiesi cosa stesse pensando o se avesse tanta paura quanta ne avevo io. Sapevo che non lo avrebbe mai ammesso, almeno non con me. Per dormire, rimase in boxer e canottiera. Io m’infilai un paio di leggings e una T-shirt.

Non parlammo molto. Distesa in silenzio, ascoltavo il suo respiro regolare, sentivo il petto che si alzava e abbassava. Con le sue braccia che mi stringevano, mi sentivo coccolata e protetta. Non mi sarei spaventata neppure se un drago avesse scoperchiato il tetto, perché sapevo che lui era con me.

Mi svegliai in piena notte, angosciata da un sogno che non riuscivo a ricordare. Xavier era disteso accanto a me. Era così bello mentre dormiva, con le labbra perfette appena socchiuse e i capelli arruffati sul cuscino. L’ansia ebbe la meglio su di me e tesi la mano verso di lui. Si svegliò subito. I suoi occhi erano dello stesso incredibile color turchese persino al chiaro di luna.

«Cos’è?» sussurrai, improvvisamente impaurita dalle ombre. «Là, lo vedi?»Xavier si guardò attorno. «Dove?» chiese con la voce ancora roca di sonno.Indicai l’angolo opposto della stanza.Si alzò. «Qui? Sono abbastanza sicuro che sia un attaccapanni.»«Credevo di aver visto qualcuno, in piedi. Un uomo con cappotto e cappello.» Detto così,

sembrava proprio ridicolo.

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«Mi sa che hai le visioni, tesoro.» Xavier sbadigliò e spinse l’attaccapanni col piede. «Sì, è proprio un attaccapanni.»

«Scusa», gli dissi quando tornò a letto. Mi raggomitolai nel suo tepore.«Non avere paura. Nessuno ti farà del male se ci sono io.»Mi fidavo di lui e dopo un po’ smisi di tendere l’orecchio per sentire rumori e movimenti.«Ti amo», disse Xavier, sul punto di riaddormentarsi.«Io di più.»«Non è possibile», affermò lui, adesso completamente sveglio. «Sono più grosso, contengo

più amore.»«Io sono più piccola, ma le mie particelle d’amore sono più compresse, e ciò significa che ce

ne sono di più.»Xavier rise. «Questa spiegazione non ha senso.»«È semplicemente basata su quanto sento la tua mancanza se non sei con me.»«Perché non sai quanto manchi tu a me! Hai per caso un mancometro incorporato?»«Sono una ragazza: certo che ce l’ho, un mancometro incorporato.»Mi abbandonai dolcemente al sonno, rassicurata dal contatto del suo petto contro la mia

schiena. Sentivo il suo respiro sul collo. Percorsi la pelle liscia delle sue braccia. Alla luce della luna, riuscivo a distinguere ogni pelo, ogni vena, ogni lentiggine, e amavo ogni dettaglio. Il mio ultimo pensiero prima di addormentarmi fu che la paura mi aveva finalmente abbandonato.

29 Un’amica in difficoltà

Taylah invase i miei sogni. La vidi come un fantasma senza volto, le mani bianche e insanguinate che annaspavano. Poi mi ritrovai dentro di lei, distesa in una pozza di sangue tiepido e viscoso. Sentii lo sgocciolio lento del lavandino nei bagni delle ragazze mentre scivolavo verso la morte. Poi sperimentai il dolore e la devastante tristezza della sua famiglia. Si sentivano in colpa per non essersi accorti della sua depressione, continuavano a chiedersi se avrebbero potuto fare qualcosa. Nel sogno c’era anche Jake, sempre ai margini, appena fuori fuoco. Sghignazzava.

Quando mi svegliai, le coperte erano ingarbugliate e il posto accanto a me vuoto. Premendo il viso sull’altro cuscino, avvertii una traccia leggera del profumo di Xavier. Rotolai fuori dal letto e andai ad aprire le tende, facendo entrare nella stanza la luce dorata del sole.

In cucina, trovai Xavier, e non Gabriel, a preparare la colazione. Si era rimesso jeans e T-shirt, e aveva i capelli ancora arruffati. Sembrava riposato e bellissimo, mentre rompeva con cura le uova nella padella sfrigolante.

«Ho pensato che ci volesse proprio una bella colazione», disse, vedendomi entrare.Gabriel e Ivy erano già seduti a tavola, i piatti pieni di uova strapazzate e di fette di pane

tostato.«È tutto buonissimo», commentò Ivy, a bocca piena. «Com’è che sai cucinare?»«Ho dovuto imparare per forza. La mia famiglia è negata in cucina, a parte la mamma.

Quando lei rimane a lavorare in ospedale fino a tardi, cucino io. Non mi vanno i surgelati o i cibi precotti.»

«È un uomo pieno di virtù nascoste», commentai, entusiasta.Xavier era rimasto da noi solo una notte, eppure si era inserito nella nostra famigliola con

estrema naturalezza. Non ci sembrava di avere un ospite: era già uno di noi.«Quello che è successo ieri è stato un colpo terribile», disse infine Ivy. «Ma ce ne

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occuperemo.»«Come?» chiesi.«Il Padre ci mostrerà la strada.»«Spero solo che lo faccia alla svelta, prima che sia troppo tardi», borbottò Xavier, ma fui

l’unica a sentirlo.Dopo il suicidio di Taylah, sulla scuola si era abbattuta un’ondata di shock. Le lezioni

ripresero, per mantenere un minimo di normalità, però si respirava un’aria molto pesante. Seppi che si stavano preparando lettere in cui si offriva sostegno psicologico alle famiglie e si suggeriva loro di stare il più vicino possibile ai ragazzi. Gli studenti erano silenziosi; nessuno voleva rischiare di apparire insensibile. Invece Jake e i suoi seguaci si fecero notare per la loro assenza.

A metà mattinata, fu indetta un’assemblea e il preside spiegò agli studenti che le autorità scolastiche avevano affidato le indagini alla polizia. Poi il suo tono si fece meno formale. «La scomparsa di Taylah McIntosh è una tragedia che ha colpito tutti noi. Era un’ottima studentessa e sentiremo molto la sua mancanza. Se qualcuno di voi vuole parlare di quello che è successo, può prendere un appuntamento con Miss Hirche, la nostra bravissima psicologa.»

«Mi dispiace per il dottor Chester», disse Xavier. «È stato al telefono tutta la mattina per rassicurare i genitori.»

«Perché?»«Se succedono cose del genere, una scuola rischia di essere chiusa. Tutti vogliono sapere

perché i responsabili non hanno fatto niente per prevenire una simile tragedia. Si preoccupano per i figli.»

«Ma il suicidio di Taylah non ha niente a che fare con la scuola.»«Be’, i genitori non la pensano così.»Dopo l’assemblea, incontrai Molly, che aveva gli occhi rossi e gonfi. Xavier capì che voleva

parlarmi in privato e disse che doveva andare all’allenamento di pallavolo.«Come va?»Molly scosse il capo e nuove lacrime le scorsero sul viso. «È così strano ritrovarsi qui. Non

è lo stesso senza di lei.»«Lo so», mormorai.«Non capisco. Non posso credere che abbia fatto una cosa del genere. Perché non ne ha

parlato con me? Non sapevo neppure che fosse depressa... Sono l’amica peggiore del mondo!» Si lasciò sfuggire un singhiozzo.

Mi affrettai ad abbracciarla. «Non è colpa tua. Certe cose capitano all’improvviso.»«Ma...»«No. Fidati di me, non c’è niente che avresti potuto fare.»«Vorrei poterti credere. Hai sentito come l’hanno trovata, con tutto quel sangue? Una scena

da film horror.»«Sì.» L’ultima cosa che desideravo era rivivere quell’esperienza. «Forse dovresti parlarne

con la psicologa. Potrebbe esserti d’aiuto.»«No.» Molly scosse il capo con forza e poi rise. Una risata acuta, quasi isterica. «Voglio

solo dimenticare che è successo. Voglio dimenticare Taylah.»«Ma non puoi fare finta che sia tutto normale.»«Ah, no? Senti qui!» esclamò a voce troppo alta e falsamente allegra. «Qualcosa di buono è

successo, ieri.» Fece un ampio sorriso, gli occhi ancora lucidi di lacrime. Mi faceva paura.Provai ad assecondarla. «Cosa?»«Be’, pare che Jake Thorn sia nella mia classe d’informatica.»«Oh... Fantastico.»«Già. Anche perché mi ha chiesto di uscire.»«Come?» sbottai.«Lo so. Non ci credevo neanch’io.» Era ovvio che lo shock le aveva fatto perdere la testa.

Cercava di aggrapparsi a qualunque cosa potesse distoglierla dal dolore.«E tu, che gli hai risposto?»

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Lei rise, aspra. «Non fare la scema, Beth. Cosa credi che gli abbia risposto? Usciamo domenica, coi suoi amici. Ah, quasi me ne scordavo, per te va bene, dopo quello che è successo al ballo? Perché avevi detto che non provavi niente per lui...»

«No! Cioè, volevo dire... certo, non provo niente per lui.»«Allora non ti secca?»«Molly, mi secca eccome, ma non per le ragioni che pensi tu. Jake è un poco di buono; non

puoi uscire con lui. E vuoi per favore piantarla di fingere che sia tutto a posto?» La mia voce era salita di un’ottava e sapevo di avere un’aria davvero arrabbiata.

«Qual è il problema? Perché sei così strana? Credevo che saresti stata felice per me.»«Lo sarei se tu uscissi con chiunque altro. Non puoi fidarti di lui, lo capisci anche tu, ne

sono sicura. Quello li attira, i guai.»Molly si mise sulla difensiva. «Non ti piace solo perché a causa sua stavi per rompere con

Xavier.»«Non è vero. Pensaci. Non sei lucida, in questo momento.»«Forse è perché sei gelosa», sibilò Molly. «L’ha detto anche lui, che ci sono persone così.»«Come?» balbettai. «Ma non ha senso!»«Certo che ce l’ha. Sei convinta che tu e Xavier siate gli unici che meritano di essere felici.

Me lo merito anch’io, Beth, soprattutto ora.»«Molly, smettila!»«E allora perché non vuoi che esca con lui?»«Perché mi fa paura», le confessai. «E non voglio vederti fare un errore grosso come una

casa solo perché, dopo quello che è successo a Taylah, ti senti uno straccio.»Molly non mi ascoltava più. «Lo vuoi tutto per te? È per questo? Be’, non puoi avere tutti i

ragazzi del mondo, Beth, devi lasciarne qualcuno alle altre.»«Non voglio nemmeno che mi si avvicini. E non dovrebbe stare accanto neanche a te...»«Perché no?»«Perché ha ucciso Taylah!» gridai.Molly sgranò gli occhi.Quasi non ci credevo di aver detto quelle parole a voce alta. Però, se fossero servite a

scuoterla, ne sarebbe valsa la pena.«Sei fuori di testa», sibilò Molly, facendo un passo indietro.«No, aspetta, ascoltami...»«No! Non voglio ascoltarti! Puoi detestare Jake quanto ti pare, ma io uscirò lo stesso con lui

perché lo voglio. È il ragazzo più fantastico che abbia mai incontrato e non rinuncerò certo a un’occasione del genere solo perché tu sei in piena sindrome premestruale.» Mi scrutò con aria maligna. «E, tanto perché tu lo sappia, Jake dice che sei una stronza.»

Aprii la bocca per replicare quando un’ombra oscurò il marciapiede e una figura comparve al fianco di Molly. Jake mi lanciò un’occhiata maliziosa, poi con un braccio cinse le spalle di Molly e l’attirò a sé. Lei gli appoggiò la testa sul petto e ridacchiò.

«L’invidia è un peccato mortale, Bethany», disse lui con voce flautata. I suoi occhi erano completamente neri, adesso: non si distingueva la pupilla dall’iride. «Dovresti saperlo. Perché non ti congratuli con la tua amica e non cerchi di essere gentile con lei?»

«Magari potrei addirittura scrivere il suo elogio funebre...» ribattei.«Ahi, ahi, questo è un colpo basso. Non temere, mi prenderò cura di lei. Sembra che

abbiamo molto in comune.» E si voltò di scatto, portandosi via Molly.La guardai sparire in lontananza, i riccioli rossi che ondeggiavano sulla schiena.Per il resto del pomeriggio la cercai disperatamente; volevo chiarirmi, spiegarle la situazione

in un modo più comprensibile, ma non la trovai da nessuna parte. Raccontai a Xavier quello che era successo e insieme setacciammo la scuola. A ogni aula vuota, lo stomaco mi si torceva per l’ansia.

Quando cominciai ad ansimare, Xavier mi costrinse a sedermi su una panca. «Ehi, ehi. Calmati, vedrai che andrà tutto bene.»

«Ma che dici? Jake è pericoloso! Lo so cosa sta cercando di fare. Vuole arrivare a me

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tramite lei. Lo sa che è mia amica.»«Rifletti, Beth. Jake non ha mai fatto del male a nessuno del suo circolo, per ora. Vuole

reclutare gente, tutto qui. Finché Molly starà dalla sua parte, non le farà del male.»«Non puoi saperlo. Lui è imprevedibile.»«Imprevedibile o no, non le farà del male. Dobbiamo rimanere lucidi. Non possiamo perdere

la testa.»«Allora cosa dovremmo fare?»«Credo che Jake ci abbia fornito un indizio per trovare la prova di cui Gabriel ha bisogno.»«Davvero?»«Molly ti ha detto dove l’avrebbe portata?»«Mi ha solo detto che si vedranno domenica, e che ci saranno anche i suoi amici.»«Be’, Venus Cove non è certo una metropoli. Lo scopriremo.»Non appena ci fu possibile, aggiornammo Ivy e Gabriel.«Dove potrebbe andare?» si domandò Ivy. «Al cinema? Da Sweethearts? Oppure al

bowling?»«Non ha senso pensare a luoghi così scontati», obiettai. «Lui è tutto tranne che prevedibile.»«Beth ha ragione», confermò Xavier. «Dobbiamo metterci nei suoi panni e pensare come

lui.»Chiedere a un angelo di mettersi nei panni di un demone era un’impresa non da poco, ma

Gabriel e Ivy cercarono di mascherare il loro disgusto e di adattarsi alla richiesta di Xavier.«Non sarà un luogo pubblico», disse all’improvviso Ivy. «Soprattutto se pensa di portarsi

appresso i suoi amici. Formano un gruppo troppo numeroso e appariscente.»Gabriel annuì. «Andranno in qualche posto tranquillo e appartato, dove non correranno il

rischio di essere interrotti.»«C’è qualche casa o fattoria abbandonata, da queste parti?» chiesi. «E se si riunissero nel

complesso in cui è stata organizzata la festa post ballo?»Xavier scosse il capo. «Secondo me, Jake preferisce qualcosa di più teatrale.»«Allora pensiamo a qualcosa di esagerato e di drammatico», suggerì Ivy.«Appunto.» Xavier mi lanciò uno sguardo penetrante. «I suoi seguaci... come si vestono...»«Sono dei dark», suggerii.«E cosa c’è al centro della cultura dark?» chiese Gabriel.Ivy lo guardò con gli occhi sbarrati. «La morte.»«Già», disse Xavier con espressione cupa. «Allora qual è il posto migliore per un branco di

tizi strampalati con l’ossessione della morte?»«Il cimitero», sussurrai.«Ecco», approvò Xavier.Le dita di Gabriel stringevano la tazza di caffè. «Credo che tu abbia ragione.»«Francamente, mi sarei aspettata qualcosa di più originale», sbottò Ivy. «Il cimitero! Be’,

suppongo che uno di noi dovrà seguirli laggiù, domenica.»«Ci andrò io», disse subito Gabriel.Ma Xavier scosse il capo. «Sarebbe una dichiarazione di guerra. Persino io arrivo a capire

che non si possono mettere un angelo e un demone l’uno di fronte all’altro. Tocca a me andarci.»«È troppo pericoloso», esclamai.«Non ho paura di loro.»«Tu non hai paura di niente. Ma forse dovresti.»«È l’unico modo.»Guardai Gabriel e Ivy. «Va bene. Ma, se ci va lui, ci vado anch’io.»«Nessuno di voi due andrà da nessuna parte», tagliò corto Gabriel. «Se Jake decidesse di

prendersela con voi, spalleggiato da tutto il suo gruppo di seguaci...»«Baderò io a lei.» Xavier sembrò offeso dalla scarsa considerazione di Gabriel. «Lo sai, non

permetterei mai che le succedesse qualcosa.»«Non dubito della tua forza fisica, ma...»

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«’Ma’ cosa?» Xavier abbassò la voce. «Darei la vita per lei.»«Non ti rendi conto di cos’hai di fronte.»«Devo proteggere Beth...»«Xavier...» Ivy gli posò una mano sul braccio. Sapevo che gli stava trasmettendo la sua

energia rassicurante. «Ascoltaci, ti prego. Ignoriamo cosa sono... Non sappiamo quale sia la loro forza né di cosa siano capaci. Da quanto abbiamo visto finora, è probabile che non si facciano scrupoli a uccidere. Per quanto tu sia coraggioso, saresti comunque un umano che affronta... solo il Padre sa cosa.»

«Allora? Cosa proponete di fare?»«Dobbiamo prima consultarci con un’autorità superiore.» Il viso di Gabriel era privo

d’espressione. «Mi metterò subito in contatto con l’Alleanza.»«Ma non c’è tempo!» strillai. «Molly potrebbe essere in grave pericolo!»«La nostra preoccupazione principale è proteggere voi due!» La rabbia nella voce di Gabriel

fece calare il silenzio nella stanza.Nessuno parlò finché, guardandoci con improvvisa determinazione, Ivy non disse: «Xavier,

qualunque cosa decidiamo di fare, per adesso tu non puoi tornare a casa. È troppo pericoloso. Dovrai restare con noi».

La scena a casa di Xavier non fu piacevole.Bernie gli lanciò un’occhiataccia. «Questa poi!» esclamò. Poi seguì Xavier in camera sua e

rimase sulla soglia, con le mani sui fianchi, mentre lui preparava una borsa. «Abbiamo dei programmi per il weekend.»

Sembrava essersi persa la parte in cui lui le aveva annunciato che sarebbe rimasto da me, anziché chiederglielo.

«Mi dispiace, mamma. Ma devo andare.»Bernie mi squadrò con aria accusatoria, considerandomi la responsabile della trasformazione

di suo figlio. Era un vero peccato, andavamo così d’accordo... Avrei tanto desiderato che ci fosse un modo per dirle la verità, ma era impossibile farle capire che sarebbe stato troppo pericoloso lasciare Xavier senza protezione.

«Ascoltami», gli intimò Bernie. «Ti ho detto di no.»Xavier non le diede retta. «Tornerò domenica sera.»«Ora basta! Lo dirò a tuo padre.» Bernie girò sui tacchi e si allontanò lungo il corridoio.

«Peter! Peter, vieni a parlare con tuo figlio, ha perso la testa!»Xavier mi guardò, rattristato.«Sono solo preoccupati. È naturale.»Pochi attimi dopo, il padre di Xavier comparve sulla soglia, con le mani affondate nelle

tasche dei pantaloni. «Hai fatto arrabbiare tua madre.»«Lo so, scusami.» Xavier appoggiò una mano sulla spalla del padre. «Adesso non posso

spiegarvi tutto, ma devo andare. Ti prego, fidati di me.»Peter mi guardò. «State bene?»«Staremo bene», risposi. «Dopo questo weekend, tornerà tutto a posto.»«Va bene, penserò io a tua madre», replicò lui. «E voi due cercate di non mettervi nei guai.»

Indicò la finestra della camera. «Passate di là.» Lo fissammo sbalorditi. «Sbrigatevi!»Xavier sorrise, aprì la finestra e gettò fuori la borsa, prima di aiutarmi. «Grazie, papà.»Dall’esterno, sentimmo Bernie che rientrava nella stanza.«Dove sono andati?»«Non saprei», rispose Peter con aria innocente. «Devono essere sgusciati via senza farsi

vedere.»«Stai bene?» chiesi a Xavier non appena fummo al sicuro, in auto. Sapevo che lui voleva un

gran bene ai suoi genitori.

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«Sì, le passerà presto. Sei tu la mia priorità, non scordartelo.»

30 Si scatena l’inferno

Per quanto lo desiderassi, non potevo aspettare istruzioni dall’alto. La cauta reazione di Gabriel era stata tanto insolita quanto illuminante: Jake Thorn rappresentava una grave minaccia, quindi mi era impossibile starmene a casa mentre Molly era alla sua mercé.

Molly era stata la mia prima amica a Venus Cove. Mi aveva preso sotto la sua ala protettrice, aveva avuto fiducia in me, aveva fatto del suo meglio perché non mi sentissi esclusa. Così non ci pensai due volte. Sapevo esattamente cosa dovevo fare.

«Vado a fare un po’ di spesa», dissi a Gabriel, attenta a non tradire la minima emozione perché non si accorgesse che mentivo.

Mio fratello si accigliò. «Ivy l’ha fatta ieri. Non ci serve niente.»«È che ho bisogno di distrarmi.»Gabriel mi scrutò, socchiudendo gli occhi d’argento, coi lineamenti perfetti scolpiti in

un’espressione severa. Mentirgli non era davvero facile.«Ho solo bisogno di uscire di qui.»«Vengo con te. Non voglio che tu vada in giro da sola.»«Non sarò sola. C’è Xavier. E poi starò via solo dieci minuti.» Ingannarlo mi faceva stare

malissimo, ma non avevo scelta.«Smettila di preoccuparti così.» Ivy gli diede un colpetto sul braccio. Lei era sempre pronta

a fidarsi. «Un po’ d’aria fresca farà bene a tutti e due.»Gabriel serrò le labbra e incrociò le mani dietro la schiena. «Va bene. Ma tornate presto.»Presi per mano Xavier e lo trascinai fuori. Lui mise in moto. Gli dissi di svoltare a sinistra in

fondo alla strada.«Hai un senso dell’orientamento terrificante», mi prese in giro.«Non stiamo andando a fare shopping.»«L’avevo capito. E credo che tu sia pazza.»«Devo fare qualcosa. Jake ha già ucciso qualcuno, e Molly è in grave pericolo.»«Beth, credi davvero che io sia disposto a portarti da un assassino? Hai sentito cos’ha detto

tuo fratello?»«Non sono preoccupata per me.»«Be’, io sì! Ti rendi conto in quale guaio stai per cacciarti?»«È il mio lavoro! Perché credi che sia stata mandata qui? Solo per dare una mano alla mensa

dei poveri? Questa è la nostra missione! Non posso cedere alla paura.»«Forse ha ragione Gabriel. Talvolta bisogna aver paura.»«E altre volte invece bisogna affrontarla, la paura.»Xavier era esasperato. «Senti, ci vado io al cimitero a prendere Molly. Tu resta qui.»«Ottima idea», commentai, sarcastica. «Se c’è una persona che Jake odia più di me, quella

sei tu. Puoi venire con me o restare a casa: comunque sia, sarò io a occuparmi di Molly. Se volessi tirarti indietro, ti capirei...»

Xavier svoltò bruscamente e continuò a guidare in silenzio. Davanti a noi c’era un lungo rettilineo. Via via, le case si facevano sempre più rade. «Dove vai tu, vado anch’io», dichiarò.

Il cimitero si trovava in fondo a un lungo stradone, appena fuori città. Accanto c’era un vecchio tratto di ferrovia abbandonata, con alcuni vagoni in disuso. Gli unici edifici dei dintorni

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erano varie case diroccate, coi balconi invasi dalla vegetazione e con le finestre coperte con assi inchiodate.

La parte più recente del cimitero ospitava monumenti funebri di marmo splendente. Le foto dei defunti erano circondate da lampade votive e ovunque c’erano piccoli altari, crocifissi e statue di Cristo e della Vergine con le mani giunte in preghiera.

Xavier parcheggiò dalla parte opposta della strada, a una certa distanza dal cancello, per non attirare l’attenzione. Per fortuna, a quell’ora il cimitero era ancora aperto. A una prima occhiata, sembrava tutto tranquillo. Notammo una sola persona, una donna anziana vestita di nero. Stava pulendo una lapide e aveva sostituito i fiori appassiti con un mazzo di crisantemi. Era così presa che quasi non si accorse di noi. Per il resto, il cimitero era deserto e silenzioso, a parte qualche corvo che volteggiava in cerchio e il sommesso ronzio delle api attorno ai cespugli di lillà. Tuttavia io percepii la presenza di numerose anime perdute. Avrei voluto aiutarle nel loro viaggio, ma avevo questioni più urgenti di cui occuparmi.

«So dove trovarli», disse Xavier, guidandomi verso la parte più vecchia del cimitero.Ci accolse uno scenario completamente diverso. Le tombe erano cadenti, abbandonate, con

le ringhiere di ferro ormai arrugginite. L’edera aveva sopraffatto ogni altra pianta e adesso regnava incontrastata, tendendo i viticci tenaci attraverso le inferriate. Le lapidi erano semplici ed essenziali. Vidi un piccolo riquadro di terra, ingombro di statuette che raffiguravano mulini a vento e altri giocattoli, e capii che si trattava di tombe di bambini appena nati. Mi fermai a leggere una delle minuscole targhe: AMELIA ROSE, 1949, 5 GIORNI. Pensare a quella piccola anima che aveva rallegrato la Terra soltanto per cinque giorni mi riempì di tristezza.

Ci facemmo strada fra le rovine. Parecchie lapidi erano sprofondate nell’erba; le iscrizioni erano sbiadite e a malapena leggibili. Di altre era rimasto giusto un cumulo di pietre rotte ed erbacce. C’erano pure alcune statue di angeli, con l’espressione triste e le mani tese, come a darci il benvenuto.

Percepivo i corpi sepolti nella terra che stavamo calpestando. La pelle mi formicolava. Non erano però i defunti a preoccuparmi; era quello che avremmo potuto scoprire di lì a poco. Avvertivo pure che Xavier si era pentito della decisione di venire lì, ma non mostrava il minimo segno di paura.

Sentendo alcune voci, ci fermammo di colpo. Sembrava una nenia, un lamento funebre. Procedemmo in silenzio finché le voci non divennero più forti, poi ci nascondemmo dietro una grande betulla. Sbirciando tra i rami, riuscimmo a vedere una piccola folla, composta da una trentina di persone. Jake era accanto a una tomba coperta di muschio. Indossava una lunga giacca di pelle e al collo portava un pentacolo rovesciato. In testa aveva un cappello di feltro grigio, una fedora. Quel cappello risvegliò un ricordo sepolto nella mia memoria: la strana figura alla partita di rugby, il ragazzo a bordo campo, col viso nascosto. Dopo l’infortunio di Xavier, era sparito nel nulla. Dunque era stato Jake a orchestrare tutto! Il pensiero che avesse cercato di fare del male a Xavier mi suscitò un impeto di rabbia bruciante, che però soffocai subito. Dovevo rimanere lucida. Era indispensabile.

Alle spalle di Jake, e a fargli ombra, come a proteggerlo, c’era una statua alta almeno tre metri. Era una delle cose più agghiaccianti che avessi mai visto. La forma era quella di un angelo, però aveva qualcosa di sinistro: gli occhi socchiusi, le enormi ali nere che si allargavano sulle spalle e un corpo possente che sembrava in grado di schiacciare tutto e tutti...

Il gruppo dei seguaci era vestito in modo strano: alcuni con cappucci che nascondevano il viso, altri in pizzo nero sbrindellato e catene. Molti avevano le guance bianche di cipria e le labbra color rosso sangue. A uno a uno, si avvicinavano a Jake, s’inchinavano con deferenza, estraevano un oggetto da una sacca chiusa con un laccio e deponevano l’offerta ai suoi piedi. Mi chiesi con quali promesse lui avesse soggiogato quei ragazzi.

Jake si tolse il cappello e sollevò una mano. Il gruppo s’immobilizzò.«Benvenuti nel lato oscuro», disse Jake, con una voce che sembrava scaturire dall’angelo

stesso. «Anche se io preferisco definirlo il lato ’divertente’.»Mormorii di approvazione.

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«Vi assicuro che nulla è più seducente del peccato. Perché non dedicarci al piacere, se la vita ci tratta con tanta indifferenza? Siamo qui, tutti noi, perché vogliamo sentirci vivi!» Fece scorrere una mano affusolata sulla ruvida superficie di pietra della coscia dell’angelo. «Dolore, sofferenza, distruzione, morte... Tutto questo è musica per le nostre orecchie ed è dolce come miele sulle nostre lingue. Ne godiamo. È cibo per la nostra anima. Voi dovete imparare a rifiutare una società che promette tutto e non mantiene niente. Sono qui per mostrarvi come dare un senso alla vostra vita, liberandovi dalla prigione in cui siete incatenati come bestie. Siete stati creati per regnare, ma chi vi ha creato è diventato debole e stolto. Sta a noi reclamare il potere sulla Terra!» Si guardò attorno e afferrò l’elsa della spada di pietra dell’angelo. Poi la sua voce divenne amorevole come quella di un padre che blandisce un bambino. «Finora vi siete comportati bene, e sono compiaciuto dei vostri progressi. Ma adesso v’invito a fare di più, a essere di più, e a gettare via le catene che ancora vi legano alla società. Che gli spiriti perversi della notte ci assistano!»

I suoi seguaci gettarono indietro la testa e presero a mormorare qualcosa che non compresi. Era un suono ipnotico, pieno di dolore e di risentimento.

Jake annuì, sorrise e poi guardò l’orologio d’oro che aveva al polso. «Non abbiamo molto tempo. Torniamo al lavoro.» Percorse con lo sguardo la folla. «Dove sono? Portateli da me.»

Due persone coperte da un mantello col cappuccio furono spinte in avanti e caddero ai suoi piedi. Jake fece alzare la più vicina e scostò il cappuccio, rivelando il viso di un mio compagno di scuola. Non lo conoscevo: sapevo soltanto che era piuttosto timido e che faceva parte del club degli scacchi. Notai che non aveva le stesse profonde occhiaie degli altri, e che i suoi occhi erano verde chiaro anziché neri. Ma era sconvolto.

Jake gli posò una mano sopra la testa. «Non avere paura. Sono qui per aiutarti.» Poi si mise lentamente a tracciare segni circolari nell’aria. Il ragazzo seguiva i suoi movimenti e, nel frattempo, scrutava le facce degli altri. Forse si stava chiedendo se quella fosse una burla particolarmente elaborata oppure un rito d’iniziazione per essere accettato nel gruppo.

Io sapevo che si trattava di qualcosa di ben più sinistro.Uno dei seguaci porse a Jake un libro. Era rilegato in pelle nera e aveva le pagine ingiallite.

Con reverenza, Jake lo sollevò e lasciò che si aprisse da solo. Un’improvvisa folata di vento scosse gli alberi e alzò una nuvola di polvere tra le lapidi.

«Oh, no», mormorai.«Cosa succede? Cos’è quello?»«È un Libro delle Ombre, un testo di magia nera. Contiene le istruzioni per evocare gli

spiriti e resuscitare i morti.»«Mi stai prendendo in giro?»Mi resi conto di quanto fosse ingenuo e quasi mi sentii male per averlo trascinato in quella

situazione. «È un bruttissimo segno. I Libri delle Ombre sono potenti.»Jake cominciò ad agitarsi e prese a cantilenare: «Exorior meus atrum amicitia quod

vindicatum is somes...»Era una lingua molto simile al latino. Forse era la lingua degli Inferi.«... is est vestri pro captus.»«Cosa sta dicendo?»Stranamente riuscivo a capirlo. «’Vieni avanti, mio oscuro amico, e reclama questo corpo. È

a tua disposizione.’»Xavier pareva ipnotizzato da quella scena. Ma si riscosse di colpo – e io sussultai con lui –

allorché uno schianto riempì l’aria. Era un rumore fortissimo e stridente, come di unghie sulla lavagna. Poi improvvisamente cessò e una nuvola di fumo nero uscì dalla bocca del grande angelo di pietra. La nube fluttuò verso Jake e sembrò sussurrargli qualcosa all’orecchio. Allora lui afferrò la testa del ragazzo e gliela rovesciò all’indietro, obbligandolo ad aprire la bocca.

«Cosa fai?» riuscì a gridare il ragazzo.La nube nera turbinò per qualche istante, poi s’infilò nella bocca di quel poveretto.Jake lo lasciò andare. Con un urlo gutturale, il ragazzo si afferrò la gola e cadde a terra, in

preda alle convulsioni, col viso contratto per il dolore.

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Sentii Xavier fremere di rabbia.Poi il ragazzo s’immobilizzò e si guardò attorno. La sua espressione sconcertata svanì,

sostituita da un ampio sorriso compiaciuto.Jake gli tese la mano e lo aiutò ad alzarsi. «Bentornato, amico mio.»Quando il ragazzo si girò, vidi che i suoi occhi verdi erano diventati neri come il carbone.«Non posso credere di non essermene accorta prima», sibilai. «L’ho frequentato, volevo

essere sua amica... Avrei dovuto capire che era un demone.»«Non è colpa tua», mormorò Xavier. «Ma... sono tutti demoni?»«Non credo. Secondo me, Jake sta offrendo quei ragazzi ad alcuni spiriti maligni.»«Ah, grandioso. E da dove vengono gli spiriti? Sono delle persone sepolte in queste tombe?»«Ne dubito. Probabilmente sono anime dannate. I demoni sono stati creati dallo stesso

Lucifero e adorano soltanto lui. È lo stesso concetto degli angeli del Regno: milioni di anime vanno in Cielo, ma non per questo diventano angeli. Angeli e demoni non sono mai stati umani. Sono una razza a sé.»

«Ma questi spiriti sono comunque pericolosi, giusto? Che ne è delle persone di cui s’impadroniscono?»

«Il loro scopo è provocare sofferenza e distruzione. Quando s’impossessano di una persona, possono costringerla a fare qualunque cosa. È come mettere due anime in un solo corpo. La maggior parte di loro sopravvive, sempre che lo spirito non danneggi intenzionalmente il corpo. Per noi non sono una grossa minaccia: i nostri poteri sono molto più forti. È solo Jake quello di cui dobbiamo preoccuparci.»

Non potevo neppure immaginare ciò che mi aspettava.A quel punto, Jake si dedicò all’altra vittima. E, quando scostò il cappuccio, riconobbi

all’istante la cascata di riccioli ramati e i grandi occhi azzurri, pieni di terrore.«Non temere, mia cara», disse Jake, accarezzando con un dito la guancia di Molly e

scendendo poi fino al petto. «Non sarà molto doloroso.»Afferrai il braccio di Xavier. «Dobbiamo fermarlo. Non possiamo lasciare che faccia del

male a Molly!»Xavier era impallidito. «Anch’io voglio eliminare Jake ma, se interveniamo adesso, non

abbiamo nessuna possibilità di riuscirci. Sono troppi. Ci serve l’aiuto di Gabriel e Ivy.»Sopraffatta dalla gelosia e dal desiderio, una delle seguaci di Jake si gettò a terra e cominciò

a dibattersi, con gli occhi rovesciati nelle orbite e con la bocca che si apriva e si chiudeva. Riconobbi subito Alexandra, che frequentava letteratura inglese con me. Jake si chinò e la immobilizzò, afferrandola per i capelli. Poi fece scorrere un dito sulla gola e lo fermò sulle labbra. Lei ansimava, inarcandosi verso di lui, in preda a chissà quale estasi demoniaca.

Poi, d’un tratto, Jake si allontanò da lei e le diede un calcio con la punta della scarpa.«Dobbiamo andarcene», mormorò Xavier.«Non senza Molly.»«Rischiamo di farci scoprire da Jake.»«Non posso lasciarla qui, Xavier.»Lui sospirò. «D’accordo, credo di avere un’idea per liberarla, ma devi fidarti di me e

obbedirmi. Una mossa sbagliata potrebbe costarle la vita.»Aspettai che mi dicesse qualcosa di più, ma fui distratta da un urlo che mi gelò il sangue.Vidi Molly in ginocchio, con le mani legate dietro la schiena, terrea in volto. Jake l’aveva

afferrata per la nuca, evidentemente in attesa della nube nera che stava di nuovo uscendo dalla bocca dell’angelo di pietra.

Non potevo sopportare oltre. Incespicando, e senza badare al grido di protesta di Xavier, abbandonai il mio nascondiglio. «Cosa vuoi fare?» urlai. «Smettila, Jake! Lasciala andare!»

Il viso di Jake si contorse in una smorfia di rabbia.In due balzi, Xavier mi si parò davanti.Quando lo vide, Jake sembrò calmarsi. Si staccò da Molly, incrociò le braccia sul petto e

inarcò un sopracciglio con aria divertita. «Bene, bene...» disse. «Ma guarda un po’ chi ci è venuto a

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trovare... L’Angelo della Pietà e il suo...»«Molly, vieni qui!» le gridò Xavier.Lei si alzò da terra e fece qualche passo incerto verso di lui.Jake emise un ringhio. «Non muoverti!» le ordinò.Molly s’immobilizzò.«Tu!» intervenni, puntando il dito contro Jake. «Noi sappiamo chi sei.»Lui batté le mani, beffardo. «Complimentoni. Non vi sfugge niente, eh?»«Non ti permetteremo di continuare», sibilò Xavier. «Noi siamo in quattro e tu sei solo.»Jake rise. «In realtà, siamo molti di più e il nostro numero aumenta di giorno in giorno. A

quanto pare, sono piuttosto popolare.»Lo fissai, orripilata. La mia sicurezza si stava dileguando.«Voi e le vostre buone azioni...» sbottò Jake. «Datevi per vinti subito. Facciamo in fretta,

eh?»«Non succederà mai», ruggì Xavier.«Oh, ma che carino... Il giovane umano crede di poter difendere il suo angelo.»«Posso difenderlo e lo farò. Credimi.»«Sei davvero convinto di potermi nuocere?» chiese Jake.«Provaci a farle del male e te ne accorgerai», ribatté Xavier.Le labbra di Jake si ritrassero, scoprendo i denti aguzzi. «Stai giocando col fuoco. Dovresti

averlo capito.»«Non ho paura di bruciarmi.»Rimasero a fissarsi per un lungo istante.Feci un passo avanti. «Lascia andare Molly», dissi a Jake. «Non c’è bisogno di farle del

male. Non ci guadagni niente...»«La lascerò andare molto volentieri, ma a una condizione...»«E quale sarebbe?» chiese Xavier.«Beth deve prendere il suo posto.»Il corpo di Xavier s’irrigidì e nei suoi occhi si accese un lampo. «Va’ all’Inferno!»«Povero umano indifeso!» lo schernì Jake. «Hai già perduto un’innamorata, e adesso stai per

perderne un’altra.»«Cos’hai detto?» sibilò Xavier, socchiudendo le palpebre. «Tu cosa sai di lei?»«Oh, me la ricordo piuttosto bene», rispose Jake, con un sorriso ripugnante. «Si chiamava

Emily, vero? Non ti sei mai chiesto come mai tutta la sua famiglia sia sopravvissuta, e lei no?»Xavier sembrava sul punto di vomitare. Lo presi per mano, mentre Jake proseguiva: «È stato

sin troppo facile, legarla al letto mentre la casa bruciava. Tutti hanno pensato che avesse continuato a dormire nonostante l’allarme. Non l’hanno sentita urlare».

«Figlio di puttana!» Xavier si slanciò in avanti, ma Jake non si mosse. Fece un semplice cenno e Xavier cadde a terra, contorcendosi per il dolore. Non appena cercò di raddrizzarsi, Jake lo respinse con un semplice scatto del polso.

«Xavier!» gridai, correndo in suo aiuto. Poi guardai Jake. «Lascialo stare! Basta, ti prego!» Disperata, invocai silenziosamente l’aiuto di Dio. Padre Onnipotente, Creatore del Cielo e della Terra, liberaci dal male. Manda il Tuo spirito a soccorrerci, e chiama gli angeli della salvezza. Perché Tuo è il regno, Tua è la potenza, nella gloria dei secoli...

Ma la forza di Jake soffocò la mia preghiera: una fitta nebbia nera sembrò invadermi la testa, dissolvendo le mie parole. Jake Thorn prosperava sulla miseria e sul dolore altrui. Non potevo sconfiggerlo da sola. Aveva ragione Xavier. Avrei dovuto ascoltarlo. E, visto che nessuno sarebbe accorso in mio aiuto, allora restava un unico modo per aiutare lui e Molly.

«Puoi avere me!» gridai, spalancando le braccia.«No!» Xavier si rimise in piedi a fatica, ma era incapace di contrastare il potere oscuro di

Jake. Dopo qualche istante, si accasciò di nuovo.Senza esitare, corsi verso il gruppo di seguaci, che cominciò a richiudersi su di me,

intonando la sua oscura cantilena. Poi Jake alzò una mano, ordinando a tutti di arretrare.

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Di slancio, afferrai Molly. «Corri!» le gridai.Quando Jake mi strinse, fu come se i miei polmoni si svuotassero di colpo. La nebbia nera

mi travolse e scivolai a terra, battendo la testa contro lo spigolo di pietra del piedistallo dell’angelo. Un rivolo di sangue mi colò dalla fronte. Cercai di rialzarmi, ma non ci riuscii. Era come se ogni stilla di energia mi stesse abbandonando.

Aprii gli occhi e vidi Jake che torreggiava su di me.«Mio fratello e mia sorella non te la faranno passare liscia», mormorai.«Credo che me la caverò», ringhiò lui. «Ricorda che ti ho offerto la possibilità di unirti a me

e tu sei stata così folle da rifiutarla.»«Tu sei malvagio. Io non mi unirò mai a te.»«Ma il male può essere così... piacevole», rise lui.«Preferisco morire.»«E sia!»«Lasciala stare!» urlò Xavier, con voce roca per il dolore. Era ancora raggomitolato a terra,

incapace di muoversi. «Non osare toccarla!»«Oh, sta’ zitto», sbottò Jake. «A che ti serve quel tuo bel faccino, adesso, eh?»Prima che tutto diventasse buio, riuscii a scorgere un bagliore di pura cattiveria negli occhi

verdi, da rettile, di Jake. E sentii Xavier che gridava, disperato, il mio nome.

31 Salvezza

Mi svegliai sul sedile posteriore di una grossa auto. Quando cercai di muovermi, mi resi conto che una forza invisibile mi teneva bloccata. Alla guida c’era Jake Thorn e, accanto a me, c’erano Alicia e Alexandra. Pallide e inespressive, mi fissavano come se fossi un oggetto da museo e stavano immobili, con le mani guantate in grembo. Mi dimenai, assestando una gomitata nelle costole ad Alexandra.

«Si sta agitando», borbottò lei.Jake le tirò qualcosa. Era avvolto nella carta stagnola. «Una di queste dovrebbe bastare»,

disse.Alicia mi costrinse ad aprire la bocca, mentre Alexandra mi faceva cadere in gola una pillola

verde chiaro, seguita da un liquido che veniva da una fiaschetta d’argento. Rischiavo di soffocare: non potei far altro che deglutire. Tossii e sputacchiai – il liquido mi bruciava in gola – e le due ragazze si scambiarono un sorriso soddisfatto. Poi i loro visi bianchi si confusero in una foschia azzurrognola e un trillo nelle orecchie coprì ogni altro rumore. Sentii che il mio cuore accelerava, poi ricaddi in grembo alle ragazze e tutto diventò nero.

Quando riaprii gli occhi, ero seduta su un tappeto sbiadito, la schiena appoggiata contro un muro freddo. Dovevo essere in quella posizione da un po’, perché il gelo della stanza era penetrato attraverso i vestiti. Avevo le mani legate dietro la schiena, le dita mi formicolavano e facevano pure male le braccia. Faticavo a respirare per via di un bavaglio, probabilmente uno straccio sudicio. Mi sembrò di sentire odore di benzina.

Mi guardai attorno, cercando di capire dove mi avesse portato Jake. Sulle prime, credetti di trovarmi in un sotterraneo, forse in un magazzino, poi mi resi conto che ero nel salotto di quella che

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avrebbe potuto essere una casa dell’epoca vittoriana. La stanza era ampia, con alti soffitti e lampadari che parevano di cristallo. I colori e i disegni del tappeto mi fecero supporre che fosse persiano, ma puzzava di muffa. Nell’aria aleggiava pure un odore di fumo di sigaro. Due grandi divani in stile Chesterfield, che avevano visto giorni migliori, erano disposti l’uno di fronte all’altro, e avevano accanto tavolini dal piano di marmo e con le gambe dorate. Una grande credenza di mogano ospitava bottiglie così polverose da rendere difficile distinguere i liquidi color ambra e color prugna che contenevano. In mezzo alla stanza, c’era un lungo tavolo da pranzo di lucido legno di cedro, dalle gambe intagliate, e circondato da sedie dall’alto schienale, rivestite di velluto color borgogna. Al centro del tavolo, c’era un enorme candelabro d’argento, le cui candele accese gettavano lunghe ombre. Strane litografie e antiche carte geografiche erano appese alle pareti, la cui tappezzeria era rotta in più punti. Sopra il camino di marmo, dalle loro pesanti cornici dorate, alcuni ritratti mi fissavano con espressione maliziosa, come se conoscessero un segreto che io ancora ignoravo. Scorsi un gentiluomo rinascimentale, con l’ampio colletto increspato, e una dama, circondata dalle cinque figlie abbigliate da ninfe, con lunghe chiome e abiti vaporosi.

Tutto – ritratti compresi – era coperto da uno strato di polvere. Mi chiesi chi fosse stato l’ultimo abitante di quella casa, apparentemente congelata nel tempo. Un’enorme ragnatela pendeva mollemente dal soffitto, simile a una tenda di mussola. Mi resi conto che ogni cosa pareva in via di decomposizione. Le sedie attorno al tavolo erano divorate dalle tarme, le cornici erano storte, i divani di pelle erano sfondati e sul soffitto c’erano grosse macchie di umidità. Eppure ogni cosa era al proprio posto, come se i proprietari di quella casa se ne fossero andati in tutta fretta, pensando di tornare, ma non lo avessero mai fatto. Le finestre erano sbarrate con le assi e lasciavano filtrare solo qualche raggio di sole, che tracciava strisce irregolari sul tappeto.

Ero tutta indolenzita e mi sentivo la testa pesante e confusa. Sentivo alcune voci in lontananza. Rimasi così, immobile, seduta per quelle che mi sembrarono ore e cominciai a capire quello che intendeva Gabriel quando diceva che il corpo umano aveva certe necessità. Mi sentivo debole per la fame, avevo la gola secca per la disidratazione e un disperato bisogno di andare in bagno. Scivolai in uno stato di semincoscienza... poi mi sembrò che qualcuno fosse entrato nella stanza.

Socchiusi le palpebre per mettere a fuoco e mi raddrizzai. Fu allora che scorsi Jake Thorn, seduto a capotavola. Era in giacca da camera, a braccia conserte, e sul suo viso c’era l’ormai familiare sogghigno.

«Mi dispiace che sia finita così, Bethany», disse. Si avvicinò per togliermi il bavaglio. La sua voce era dolce come il miele. «Ho provato a offrirti la possibilità di una vita insieme.»

«Una vita con te sarebbe peggiore della morte», replicai in un sussurro roco.L’espressione di Jake s’indurì. Gli occhi neri da gatto scintillarono. «Il tuo stoicismo è

ammirevole. In effetti è una delle cose che più mi piacciono di te. Ma, in questo caso, temo che arriverai a rimpiangere la scelta che hai fatto.»

«Non puoi farmi del male. Non farò che tornare alla mia vita precedente.»«Verissimo.» Sorrise. «Però che peccato che la tua ’dolce metà’ non possa seguirti. Mi

chiedo che ne sarà di lui quando non sarai più qui.»«Non osare minacciarlo!»«Ho toccato un nervo scoperto, eh?» chiese Jake. «No, davvero: chissà come reagirà Xavier

quando scoprirà che la sua amata è scomparsa misteriosamente. Spero che non faccia nulla di avventato... Il dolore può spingere a strane reazioni.»

«Lascialo fuori da tutto questo.» Lottai contro le corde. «Possiamo risolvere tutto fra noi.»«Non mi sembri in condizioni di trattare.»«Perché stai facendo tutto questo, Jake? Cosa vuoi guadagnarci?»«Dipende da cosa intendi per ’guadagno’. Sono solo un servo di Lucifero. Sai qual è stato il

suo peccato più grande?»«L’orgoglio», risposi.«Esatto. Perciò non avresti dovuto ferire il mio. Non l’ho apprezzato.»«Io non intendevo ferirti, Jake...»

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«È stato questo il tuo errore. Ma vi porrò rimedio. Sarà un bello spettacolo vedere il rappresentante degli studenti della scuola che si toglie la vita. Poveri noi, cosa dirà la gente?»

«Xavier non lo farebbe mai!» sibilai, sentendo che il mio cuore perdeva un colpo.«No, non lo farebbe», concordò lui. «Non senza un piccolo aiuto da parte mia. Posso entrare

nella sua testa e dargli qualche utile suggerimento. Non dovrebbe essere difficile: ha già perso l’amore della sua vita, no? Questo dovrebbe renderlo molto vulnerabile. Cosa potrei costringerlo a fare? A gettarsi dalla scogliera di Shipwreck Coast? Ad andare a sbattere con l’auto contro un albero? A tagliarsi le vene? Ad affogarsi nell’oceano? Ci sono tante possibilità...»

«Dici così perché ti senti ferito», mormorai. «Ma uccidere Xavier non ti renderà felice. E uccidere me non ti darà nessuna soddisfazione.»

«Basta con questi discorsi noiosi!»Estrasse dalla giacca un coltello affilato, e si chinò su di me. Poi, con un movimento rapido

e deciso, tagliò la corda che mi legava i polsi. Quindi mi tirò in ginocchio davanti a sé. Osservai le sue lucide scarpe nere a punta e, in quel momento, non mi curai più del dolore alle braccia e alle gambe né della testa che mi pulsava, né della debolezza e della nausea che provavo. Volevo solo alzarmi. Non mi sarei inginocchiata davanti a un Agente delle Tenebre. Sarei morta, piuttosto che tradire la mia fedeltà al Regno.

Appoggiai una mano alla parete e mi rimisi in piedi. Ci volle tutta la mia forza e non sapevo per quanto avrei resistito; le ginocchia minacciavano di cedere da un momento all’altro.

Jake mi guardava, divertito. «Non è proprio il momento ideale per la lealtà. Ti rendi conto che la tua vita è nelle mie mani? Sottomettiti a me, se vuoi vivere abbastanza a lungo da rivedere il tuo Xavier.»

«Respingo te e tutte le tue lusinghe», dissi con calma.D’un tratto, s’infuriò. Mi sollevò di peso e mi lanciò verso il tavolo. Ci sbattei contro con la

testa prima di scivolare a terra e afflosciarmi. Da un taglio sulla fronte uscì il sangue.«Tutto bene?» chiese Jake, appoggiato al tavolo. Poi strofinò rudemente la mia ferita. La sua

mano emanava calore. «Non deve andare per forza così», dichiarò. E rimase in attesa di un cenno di assenso.

Rimasi impassibile.«Be’, se questa è la tua risposta, allora non mi lasci scelta», mormorò. «Dovrò strapparti

ogni brandello di bontà. E, quando avrò finito, in te non rimarrà neppure una traccia di onestà e integrità.»

Si chinò su di me e i capelli gli ricaddero sugli occhi scintillanti. Era a pochi centimetri dal mio viso: distinguevo ogni dettaglio degli zigomi pronunciati e della bocca sottile e ogni pelo della sua barba.

«Corromperò la tua anima e poi la reclamerò come mia.»Cominciai a tremare. Mi aggrappai disperatamente alle gambe del tavolo, come se potessero

aiutarmi. Jake fece scorrere la mano sul mio braccio, assaporando il contatto. La mia pelle bruciava e pulsava. Poi, abbassando lo sguardo, vidi una striscia rossa: il suo tocco mi aveva ustionato.

«Temo che non tornerai mai più nel Regno, Bethany. Quando avrò finito con te, non ti vorranno più.»

Con un dito mi accarezzò il viso e seguì il contorno delle mie labbra.La mia faccia divenne una maschera rovente.Mi voltai e cercai di divincolarmi, ma Jake mi bloccò, costringendomi a girarmi verso di lui.

Era come se le sue dita mi scavassero nelle guance.«Non stare in pena, angelo mio. Siamo molto ospitali all’Inferno.»Mi baciò con violenza, schiacciandomi col peso del suo corpo. Spasmi di calore bruciante

mi percorsero da capo a piedi.Poi disse: «È il momento di dire addio a Miss Church».

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Jake chiuse gli occhi e si concentrò con tanta forza che la sua fronte s’imperlò di sudore. Poi, lentamente, si raddrizzò, tese le braccia e strinse le mani attorno alla mia testa.

E allora accadde: uno strappo violentissimo, accompagnato da aghi roventi che mi perforavano la mente. In un attimo, vidi tutto il male perpetrato dall’alba dei tempi. Ogni calamità conosciuta dall’uomo frammentata in immagini disconnesse, una serie di lampi così intensi che credevo mi sarebbe esploso il cervello.

Vidi bambini resi orfani dalla guerra, villaggi rasi al suolo dai terremoti, uomini abbattuti da raffiche di mitra, famiglie ridotte a morire di fame e di sete. Vidi omicidi, sentii le urla strazianti delle vittime. Provai tutte le ingiustizie del mondo. Ogni malattia conosciuta si avventò sul mio corpo. Ogni sensazione di terrore, dolore e impotenza mi travolse. Sperimentai ogni morte violenta. Ero nell’auto dell’incidente con Grace. Ero il naufrago che affogava nell’oceano, schiacciato dal peso delle onde. Ero Emily, inghiottita dalle fiamme nel suo letto.

Il dolore di milioni di persone mi penetrò nella pelle e fu come se ogni sofferenza fosse una scheggia di vetro. Ero vagamente consapevole del mio corpo che si dibatteva, in preda alle convulsioni, e delle mie mani sulle tempie. Ero un angelo ed ero satura di tutto il dolore e di tutta l’oscurità del mondo. Sapevo che mi avrebbe ucciso. Aprii la bocca per supplicare Jake, ma non riuscii a emettere nessun suono. Non mi restava più nemmeno la voce per implorare la morte. L’assalto continuò: le immagini di orrore scorrevano da Jake dentro di me finché semplicemente respirare non diventò un’impresa improba. Intanto, Jake continuava a ridere, a ridere...

Poi, d’un tratto, lui staccò le mani dalla mia testa e io mi sentii avvolgere da un sollievo incontenibile. Fu allora che vidi il fuoco: si stava diffondendo, altissimo, consumando ogni cosa. L’aria era densa di fumo. Il lampadario tremò e cadde, mentre parti del soffitto cedevano; sul tavolo, piovvero calcinacci e frammenti di vetro. Le tende presero fuoco in una marea di scintille. Cercai di proteggermi la testa, però qualcuna mi cadde addosso. Ero ancora tutta tremante per l’impatto di quelle immagini orribili, avevo i polmoni pieni di fumo, mi bruciavano gli occhi e mi girava la testa. Stavo per svenire, lo sapevo. Cercai di reagire, ma stavo perdendo la battaglia. L’unica cosa che riuscivo a vedere con chiarezza era il viso di Jake, incorniciato da un cerchio di fuoco.

La parete di fronte fu squarciata da una specie di esplosione. Per un attimo, scorsi la strada deserta, poi un bagliore accecante riempì la stanza. Jake barcollò all’indietro, riparandosi gli occhi. Dalle macerie, emerse Gabriel, con le ali distese in tutta la loro maestà e con la spada che risplendeva tra le sue mani come un pilastro di luce bianca. I suoi capelli parevano nastri d’oro. Dietro di lui, c’erano Ivy e Xavier, che corsero subito da me. Col viso rigato di lacrime, Xavier si slanciò nella mia direzione, ma Ivy lo trattenne.

«Non muoverla. Le sue ferite sono troppo gravi. Dobbiamo cominciare subito il processo di guarigione.»

Xavier mi prese il viso tra le mani. «Beth?» Sentii le sue labbra che mi sfioravano la guancia. «Riesci a sentirmi?»

«Non può risponderti», replicò Ivy. Quindi percepii il suo tocco fresco sulla fronte e sussultai, mentre la sua energia guaritrice fluiva in me.

D’un tratto, le convulsioni tornarono. I miei occhi si rovesciarono nelle orbite e la mia bocca si aprì in un grido silenzioso.

«Cosa le sta succedendo?» gridò Xavier. «Le stai facendo male!»«Sto prosciugando i ricordi», rispose Ivy con pacatezza. «Se non lo faccio, la uccideranno.»Xavier mi era così vicino che sentivo il battito del suo cuore. Mi aggrappai a quel suono,

convinta che fosse l’unica cosa in grado di mantenermi in vita.«Andrò tutto bene», mormorò lui. «È tutto finito, adesso. Siamo qui. Nessuno può farti del

male. Resta con noi, Beth. Ascolta solo la mia voce.»Lottai per mettermi a sedere e vidi Gabriel che emergeva da un muro di fiamme, emanando

ondate di luce. Era così bello e splendente che faceva quasi male agli occhi guardarlo. Si fermò davanti a Jake Thorn e, per la prima volta, sul viso di quel demone scorsi un’ombra di paura. Ma lui si ricompose in fretta e piegò le labbra nel solito ghigno.

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«Sei venuto a giocare, vedo», sibilò. «Proprio come ai vecchi tempi.»«Sono venuto a mettere fine ai tuoi giochi», rispose cupamente Gabriel.Si levò un vento fortissimo, che fece vibrare i pochi vetri ancora intatti delle finestre e

staccò i ritratti dalla parete. Alcuni lampi squarciarono il cielo cremisi. E, in mezzo a tutto ciò, c’era Gabriel, possente, luminoso come un pilastro d’oro. La spada ronzò nelle sue mani, come se fosse un essere vivente.

Jake indietreggiò.«Ti concederò una possibilità, e una sola», gli disse allora Gabriel con voce tonante. «Puoi

ancora pentirti dei tuoi peccati. Puoi ancora ripudiare Lucifero e rinunciare alle sue opere.»Jake sputò ai piedi di Gabriel. «È un’offerta generosa, tuttavia è un po’ tardi per accettarla,

non credi?»«Non è mai troppo tardi», rispose Gabriel. «C’è sempre speranza.»«L’unica mia speranza è vedere il tuo potere distrutto», sibilò Jake.«E allora così sia», disse Gabriel. Ogni traccia di pietà era scomparsa dalla sua voce.

«Questo non è il tuo posto. Tornatene nell’Inferno in cui sei stato esiliato.»Sollevò la spada e le fiamme divamparono come creature vive, avvolgendo Jake. Gli

circondarono la testa come avvoltoi pronti a piombare sulla preda, poi di colpo si fermarono. Jake non aveva ancora perso il suo potere.

Rimasero così, angelo e demone, a fronteggiarsi in una silenziosa battaglia di volontà, con la spada fiammeggiante in mezzo a loro come a segnare la divisione tra i due mondi. Negli occhi di Gabriel scintillava la furia del Cielo, e in quelli di Jake divampava la sete di sangue dell’Inferno.

Attraverso la nebbia di dolore che mi attanagliava il corpo e la mente, mi sentii pervadere da una gelida paura. E se Gabriel non fosse riuscito a sconfiggere Jake? Che ne sarebbe stato di noi? Ero consapevole delle mie dita avvinghiate a quelle di Xavier, e del fatto che le sue mani sembravano rinfrescare la mia pelle ustionata. Poi scorsi una strana luce che pareva scaturire dal punto in cui le nostre dita si toccavano. E mi resi conto che, se stringevo la sua mano e lo attiravo a me, la luce sembrava rispondere, intensificandosi e allargandosi, quasi fosse uno schermo protettivo. Ma cos’era? Cosa voleva dire? Troppo preoccupato per me, compresi che Xavier non l’aveva neppure notata.

Invece Ivy mi sorrise e si chinò per sussurrarmi all’orecchio: «È il tuo dono, Bethany. Fanne buon uso».

«Non capisco», gemetti. «Non puoi dirmi come?»«Tu hai il dono più potente in assoluto, e sai come usarlo.»La mia mente non afferrava il messaggio di Ivy, però il mio corpo sapeva cosa fare. Raccolsi

gli ultimi brandelli di energia, spinsi da parte il dolore che minacciava di sommergermi e sollevai la testa verso Xavier. Quando le nostre labbra si toccarono, ogni pensiero negativo scomparve dalla mia mente. L’unica cosa che riuscivo a vedere era lui. Mentre la luce esplodeva in raggi abbaglianti, che scaturivano dai nostri corpi uniti e invadevano la stanza, Jake Thorn arretrò, urlando e cercando di proteggersi con le braccia. Ma la luce lo avvolse, come fuoco bianco. Lui si dibatté ancora per qualche istante, poi si arrese a quei nastri di luce che avviluppavano come tentacoli.

«Ma cos’è?» gridò Xavier, riparandosi gli occhi dalla luce accecante.Ivy e Gabriel, che stavano osservando la scena, si girarono verso di lui.«Proprio tu dovresti saperlo meglio di chiunque altro», gli disse Ivy. «È amore.»Xavier e io restammo aggrappati mentre la stanza si mise a tremare e la luce apriva un foro

nel pavimento.Fu in quell’abisso che scomparve Jake Thorn. Precipitando, fissò i suoi occhi nei miei. Era

in preda a un tormento indicibile, eppure sorrideva ancora.

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32 Conseguenze

Nelle settimane seguenti, Ivy e Gabriel fecero del loro meglio per far sparire ogni traccia della confusione che Jake si era lasciato alle spalle. Andarono a trovare le famiglie che avevano sofferto per i crimini da lui commessi e passarono molto tempo a ristabilire la fiducia reciproca tra la gente di Venus Cove.

Ivy si occupò di Molly e di tutti coloro che erano caduti sotto l’influsso di Jake. Per fortuna, gli spiriti oscuri erano stati risucchiati nell’Inferno insieme con colui che li aveva evocati. Con estrema attenzione, cercando di non toccare nessun ricordo che non fosse collegato a quella terribile esperienza, mia sorella cancellò dalle loro menti ogni memoria dell’attività di Jake. Era come cancellare le parole da una storia: bisognava sceglierle con cura per non rischiare di perdere qualcosa d’importante. Quando completò la sua opera, tutti ricordavano uno studente di nome Jake Thorn, però nessuno rammentava di aver avuto a che fare con lui. Alle autorità scolastiche arrivò un messaggio in cui si spiegava che Jake era stato ritirato dalla Bryce Hamilton su espresso desiderio del padre e che sarebbe tornato a frequentare la scuola in Inghilterra. Fu argomento di pettegolezzi per un paio di giorni, finché i ragazzi non passarono a faccende per loro più interessanti.

«Che fine ha fatto quell’inglese?» mi chiese Molly un paio di settimane dopo la sua liberazione. Era seduta sul mio letto, a limarsi le unghie. «Com’è che si chiamava... Jack, James?»

«Jake», dissi. «È tornato in Inghilterra.»«Peccato», commentò lei. «Mi piacevano i suoi tatuaggi. Credi che dovrei farmene uno

anch’io? Pensavo alla scritta LEIRBAG.»«Vuoi farti un tatuaggio col nome ’Gabriel’ scritto al contrario?»«Oh, cavolo, era così ovvio? Dovrò pensare a qualcos’altro.»«A Gabriel i tatuaggi non piacciono. Secondo lui, il corpo umano non è una lavagna.»«Grazie, Beth», sospirò Molly, grata. «Meno male che ci sei tu a impedirmi di prendere

decisioni sbagliate.»Mi riusciva difficile parlare con lei nello stesso modo di prima. Qualcosa in me era

cambiato. Ero l’unica della famiglia a non essere ancora completamente guarita dal confronto con Jake. Anzi, a settimane di distanza dall’incendio, non avevo neppure lasciato la mia stanza. All’inizio, era stato per via delle mie ali: essendo state gravemente ustionate, avevano bisogno di tempo per guarire. Poi era stato perché mi mancava il coraggio. Non desideravo più fare esperienze umane; adesso anelavo solo alla pace di casa mia. Inoltre non potevo pensare a Jake senza che mi venissero le lacrime agli occhi: non appena ero sola, piangevo senza ritegno, sia per il dolore che lui aveva provocato sia perché, se mi avesse permesso di aiutarlo, probabilmente si sarebbe salvato. Non lo odiavo. L’odio era un’emozione potente, e io ero troppo debole. Pensavo piuttosto a Jake come a una delle creature più tristi dell’universo. Era venuto sulla Terra per rovinare la nostra vita ed era stato ricacciato all’Inferno senza aver ottenuto nulla. Cercavo inoltre di non riflettere su quello che sarebbe successo se Gabriel non avesse mandato in frantumi la mia prigione... ma non ci riuscivo e formulavo ipotesi agghiaccianti. Ecco perché camera mia era l’unico luogo in cui mi sentissi al sicuro.

Talvolta mi mettevo alla finestra, a osservare il mondo. La vita proseguiva. La primavera aveva lasciato il posto all’estate. Le giornate si allungavano. Alcuni passeri fecero il nido sotto il tetto della casa. Dalla terrazza, osservavo il moto pigro delle onde sulla spiaggia.

La visita di Xavier era l’unico momento della giornata che aspettavo con ansia. Naturalmente Ivy e Gabriel mi erano di grande conforto, ma sembravano sempre un po’ lontani, legati com’erano alla patria celeste. Nella mia mente Xavier era invece l’incarnazione della Terra: solido come una roccia, saldo e affidabile. Avevo temuto che la sua esperienza con Jake arrivasse a cambiarlo, ma la sua reazione era stata proprio quella di non avere nessuna reazione. Pensava soltanto come prendersi cura di me e sembrava aver accettato il mondo soprannaturale senza porsi troppe domande.

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Un pomeriggio, gli chiesi se, per caso, non si stesse trattenendo dal porle a me, quelle domande.

«Forse non voglio risposte», ribatté. «Ho visto quanto basta per crederci.»«Ma non sei curioso?»«È come dici tu.» Si sedette accanto a me e mi sistemò una ciocca di capelli dietro

l’orecchio. «Ci sono cose che vanno oltre l’umana comprensione. So che esistono il Paradiso e l’Inferno e ho visto cosa può venire da entrambi. Per ora, non ho bisogno di sapere altro. Le domande non avrebbero senso, adesso.»

Sorrisi. «Quand’è che sei diventato un vecchio saggio?»Alzò le spalle. «Be’, mi è capitato di uscire con gente che è in giro dai tempi della creazione.

Mi pare normale acquisire un minimo di prospettiva storica. Aiuta, se la propria dolce metà è un angelo.»

«Mi consideri la tua ’dolce metà’?» gli chiesi, sognante, percorrendo col dito il cordoncino che aveva al collo.

«Certo. Quando non sono con te, mi sembra di portare un paio di occhiali che fanno vedere tutto grigio.»

«E, quando sei con me, cosa succede?»«Tutto diventa in Technicolor.»Si stavano avvicinando gli esami di fine anno, eppure lui continuava a venire tutti i giorni. In

più, studiava di continuo il mio viso alla ricerca di qualche segno di miglioramento. E portava sempre qualche regalino: un articolo di giornale, un libro della biblioteca, una bella storia da raccontare, dei biscotti preparati da lui. Non c’era posto per l’autocommiserazione, con Xavier. Forse, in passato, mi era capitato di dubitare del suo amore. Ormai ne ero certa.

«Vogliamo fare due passi, oggi, magari fino alla spiaggia?» mi chiese. «Puoi portare Phantom, se vuoi.»

Per un attimo fui tentata, poi il pensiero del mondo esterno mi sopraffece e mi tirai le coperte fino al mento.

«D’accordo», sorrise lui. «Magari domani. Che ne dici se stasera prepariamo insieme la cena?»

Annuii, mi strinsi a lui e sollevai lo sguardo verso quel suo bellissimo viso, che ormai conoscevo quasi meglio del mio. Era tutto così meravigliosamente familiare...

«Hai la pazienza di un santo», commentai. «Credo che dovremo chiedere la tua canonizzazione.»

Rise e mi prese la mano, contento di ritrovare un guizzo della mia vecchia personalità. In pigiama, lo seguii al piano di sotto, ascoltandolo declamare le ricette che aveva in mente. La sua voce era come un balsamo fresco che placava la mia mente agitata. Sapevo che sarebbe rimasto con me finché non mi fossi addormentata. Ogni sua parola mi richiamava dolcemente verso la vita.

Ma la presenza di Xavier non riusciva a proteggermi dagli incubi. Ogni notte era uguale alla precedente. Al risveglio, mi rendevo subito conto di aver sognato. Lo sapevo persino mentre stavo sognando. Ed erano settimane che facevo sempre lo stesso sogno. Eppure continuava a terrorizzarmi e mi destavo madida di sudore, col cuore in gola e coi pugni serrati.

Nel sogno, mi trovavo di nuovo nel Regno, dopo aver abbandonato la Terra per sempre. La profonda tristezza che avvertivo era così reale che, al risveglio, mi sembrava di avere una pallottola nel petto. Lo splendore del Regno mi lasciava indifferente e io imploravo il Padre di concedermi più tempo sulla Terra. Peroravo la mia causa con veemenza e piangevo calde lacrime, ma le mie suppliche cadevano nel vuoto. Disperata, vedevo i cancelli che si richiudevano e sapevo di non avere scampo. Avevo avuto la mia occasione e me l’ero lasciata scappare.

Pur essendo a casa mia, mi sentivo un’estranea. Non era il ritorno in sé a provocarmi tanto dolore, quanto il pensiero di ciò che mi ero lasciata dietro. Il pensiero di non poter più toccare Xavier, di non vedere più il suo viso, mi dilaniava come se avesse gli artigli. Nel mio sogno, lo avevo perduto. Se pensavo al suo viso, non riuscivo a rammentare i suoi lineamenti: mi apparivano indistinti, vaghi. Ma, a addolorarmi di più, era il fatto che non avevo avuto modo di dirgli addio.

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L’eternità si stendeva davanti a me, e io desideravo soltanto essere una creatura mortale. Tuttavia non potevo farci niente. Non potevo alterare le leggi della vita e della morte, del Cielo e della Terra. Non potevo neppure sperare, perché non c’era speranza. I miei fratelli e le mie sorelle cercavano di confortarmi, ma invano. Senza Xavier, il mio mondo non aveva più senso.

Eppure, nonostante l’angoscia che quel sogno mi procurava, sarei stata disposta a farlo tutte le notti se, al risveglio, avessi avuto la certezza di ritrovare Xavier. Il risveglio era l’unica cosa che contava: sentire il calore del sole che entrava dalla portafinestra, vedere Phantom che dormiva ai miei piedi e i gabbiani che roteavano sul mare... Il futuro poteva aspettare. Avevamo superato una prova difficilissima, lui e io, ed eravamo sopravvissuti. Ne eravamo riemersi segnati, ma più forti. Non potevo credere che i poteri del Regno fossero tanto crudeli da separarci. Ignoravo cosa avesse in serbo il futuro, però sapevo che l’avremmo fronteggiato insieme.

Da settimane, ormai, soffrivo d’insonnia. Me ne stavo seduta nel letto, guardando le strisce di luce lunare che avanzavano sul pavimento. Avevo rinunciato a dormire: ogni volta che chiudevo gli occhi, mi sembrava di sentire una mano che mi strofinava il viso e percepivo una sagoma scura che scivolava attraverso la porta. Una notte, guardando le nuvole dalla finestra, arrivai persino a scorgervi il viso di Jake Thorn.

Quella notte, scesi dal letto e andai sul terrazzo. Un vento freddo entrò nella stanza: il cielo era coperto da nuvole basse e c’era un temporale in arrivo. Desiderai che Xavier fosse con me: immaginai che mi stringesse fra le braccia, premendo il suo corpo caldo contro il mio. Avrei sentito le sue labbra vicino all’orecchio e la sua voce che mi rassicurava sul futuro. Ma Xavier non c’era. L’avrei visto al mattino, quando fosse venuto a prendermi per accompagnarmi a scuola; eppure il giorno sembrava così lontano e l’idea di stare seduta al buio ad aspettarlo così a lungo mi dava la nausea. Mi appoggiai alla ringhiera e inspirai l’aria frizzante, che gonfiava la mia camicia da notte. Il mare sembrava un animale dal pelo scurissimo, una bestia inquieta che respirava al ritmo delle onde. Poi, d’un tratto, il vento diventò impetuoso e mi si avventò contro, ululando. Fu allora che uno strano pensiero mi si affacciò alla mente. Era come se quel vento stesse cercando di sollevarmi, di portarmi verso il cielo. Guardai la sveglia sul comodino: era mezzanotte passata e le case all’intorno parevano immerse nel sonno. In quell’istante, ebbi la netta sensazione che il mondo intero mi appartenesse. Così, quasi senza rendermene conto, mi ritrovai in equilibrio sul bordo della ringhiera e distesi le braccia sopra la testa. L’aria era così rinfrescante... Catturai una goccia d’acqua sulla lingua e risi nel sentirmi di colpo così rilassata. Un lampo illuminò l’orizzonte, là dove cielo e mare sembravano incontrarsi. Un inesprimibile desiderio di avventura s’impadronì di me.

Spiccai un salto.Per qualche istante, mi sembrò di precipitare. Poi mi resi conto che qualcosa mi teneva

sollevata. Le mie ali avevano squarciato la stoffa sottile della camicia da notte e battevano dolcemente nell’aria. Lasciai che mi portassero in alto e feci oscillare le gambe, come un bambino eccitato. In breve, i tetti delle case furono lontani. Mentre salivo e scendevo nel cielo notturno, il fragore dei tuoni faceva tremare la terra e i lampi squarciavano le tenebre. Però io non avevo paura. Sapevo esattamente dove volevo andare. Conoscevo benissimo la strada che portava a casa di Xavier.

Scivolai in silenzio verso il retro dell’edificio, dov’era la sua camera. La finestra era aperta per far entrare la brezza notturna e la lampada sul comodino era ancora accesa. Xavier era disteso sul letto, col libro di chimica appoggiato di traverso sul petto. Il sonno lo faceva sembrare ancora più giovane. Aveva addosso i pantaloni della tuta e una T-shirt bianca. Teneva una mano dietro la testa, mentre l’altra gli era ricaduta lungo il fianco. Aveva le labbra socchiuse. Rimasi a osservare il movimento lieve del suo respiro. La sua espressione era serena, come se lui non avesse una sola preoccupazione al mondo.

Poi ritrassi le ali, m’infilai silenziosamente nella camera, mi avvicinai in punta di piedi e allungai una mano per togliergli il libro dal petto. Xavier si mosse appena, ma senza svegliarsi.

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Rimasi ai piedi del letto a guardarlo dormire e d’un tratto mi sentii più vicina al Creatore di quanto mai mi fossi sentita nel Regno. Di fronte a me, c’era la Sua creazione più grande. Gli angeli erano stati creati per servire come guardiani, ma in Xavier avvertivo un potere più grande, il potere di cambiare il mondo. Poteva fare tutto quello voleva, essere chi voleva. Capii improvvisamente qual era la cosa che più desideravo al mondo: che fosse felice, con o senza di me. Quindi mi lasciai cadere in ginocchio, chinai il capo e pregai Dio, chiedendogli di benedire Xavier e di proteggerlo dal male. Pregai che avesse una vita lunga e felice. Pregai che tutti i suoi sogni si avverassero. Pregai di avere sempre la possibilità di restare in contatto con lui in qualche modo, anche se non fossi più stata sulla Terra.

Prima di andarmene, lanciai un ultimo sguardo alla sua stanza, allo stendardo dei L.A. Lakers appeso al muro e alle iscrizioni sui trofei allineati sugli scaffali; feci anche scorrere le dita sugli oggetti che ingombravano la scrivania. Una scatola di legno intagliato attirò la mia attenzione. Sembrava fuori posto in mezzo a quegli oggetti da ragazzo. La presi e sollevai lentamente il coperchio. Era foderata di raso rosso e conteneva un’unica piuma bianca. La riconobbi subito: era quella che Xavier aveva trovato nella sua auto, dopo il nostro primo appuntamento. Sapevo che l’avrebbe conservata per sempre.

Epilogo

Tre mesi più tardi, tutto era più o meno tornato alla normalità. Ivy, Gabriel e io ci eravamo adoperati per risanare la città e gli studenti della Bryce Hamilton, in modo che le terribili disgrazie che avevano subito o alle quali avevano assistito si riducessero a immagini frammentarie e indistinte, o a parole che sarebbe stato impossibile ricollegare in una sequenza logica. L’unico ad avere completo accesso ai ricordi era Xavier. Non ne parlava mai, ma sapevo che non aveva dimenticato, che non avrebbe mai dimenticato. E sapevo pure che era forte, che aveva già affrontato dolori atroci e angosce terribili, sebbene fosse solo un ragazzo. Ma neppure quel carico ulteriore lo avrebbe fatto cedere.

Col trascorrere delle settimane, la nostra routine riprese. Io ero persino riuscita a fare qualche progresso con Bernie.

«In una scala da uno a dieci, a che punto del perdono mi trovo?» chiesi a Xavier quella mattina, mentre andavamo a scuola.

«Dieci», rispose. «So che la mamma è severa, ma per quanto tempo credi che riesca a tenerti il broncio? Ormai è tutto passato.»

«Lo spero.»Mi prese la mano. «Non c’è più niente di cui avere paura.»«A parte qualche demone di passaggio», scherzai. «Ma noi non lasceremo che ci rovinino la

festa.»«Anche perché erano loro che stavano per fare la festa a noi.»«Hai mai paura di vederli tornare?»«No, perché sono convinto che tu e io potremo sempre ricacciarli indietro.»«Sai sempre cosa dire.» Gli sorrisi. «Ti eserciti a casa?»«Fa parte del mio fascino», replicò lui, strizzandomi l’occhio.«Beth!» Molly ci raggiunse di corsa prima che superassimo i cancelli della scuola. «Che ne

pensi del mio nuovo look?»Mi piroettò davanti. La trasformazione era davvero notevole. Aveva allungato la gonna fin

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sotto il ginocchio, abbottonato la camicetta fino al mento e annodato con cura la cravatta. I capelli erano raccolti in una treccia severa e si era liberata di tutti i gioielli. Portava persino i calzettoni regolamentari.

«Sembri pronta per entrare in convento», commentò Xavier.«Bene!» Lei sembrò compiaciuta. «Sto cercando di sembrare più matura e responsabile.»«Oh, Molly», sospirai. «Tutto ciò non ha niente a che fare con Gabriel, vero?»«Uffa», sbottò lei. «Altrimenti perché dovrei andare in giro conciata come una sfigata?»«Ah-ha», fece Xavier. «Con buona pace della maturità.»«Non credi che sarebbe meglio essere semplicemente te stessa?» le chiesi.«Se fosse se stessa, potrebbe spaventarlo», commentò Xavier.«Oh, piantala», gli dissi, dandogli una pacca sul braccio. «Quello che voglio dire, Molly, è

che a Gabriel devi piacere per come sei...»«Immagino di sì», ammise lei. «Però mi fa piacere cambiare: posso essere tutto quello che

vuole.»«Lui vuole che tu sia Molly.»«Non è vero», intervenne Xavier. «Lui vuole che tu sia...»Gli mollai una gomitata. «Potresti almeno sforzarti di renderti utile», dissi, ridendo.«D’accordo, d’accordo.» Lui sorrise. «Allora: le ragazze che fingono di essere altro da

quello che sono fanno cascare le braccia. Devi darti una calmata, smettere di dargli la caccia.»«Ma non devo dimostrargli che sono interessata?» chiese Molly.«Credo che lo sappia già», sospirò Xavier, alzando gli occhi al cielo. «Adesso devi aspettare

che sia lui a venire da te. Anzi perché non provi a uscire con un altro?»«E perché dovrei fare una cosa del genere?»«Per vedere se Gabriel s’ingelosisce. La sua reazione ti dirà tutto quello che vuoi sapere.»«Ma questa è un’idea fantastica!» esclamò Molly, raggiante. Si sciolse i capelli, sbottonò la

camicetta e corse via, probabilmente a cercare qualche poveretto da usare come cavia nel suo piano per la conquista di Gabriel.

«Non dovremmo incoraggiarla», commentai.«Non si sa mai... Magari è proprio il tipo di Gabriel.»«Gabriel non ha un tipo», replicai con un sorriso. «E poi, è già impegnato. Per sempre.»«Gli umani possono essere incredibilmente seducenti.»«Ma non mi dire...» Mi alzai in punta di piedi per stuzzicargli il lobo dell’orecchio.«Temo che questo sia un comportamento poco appropriato nel cortile della scuola»,

ridacchiò lui. «Capisco che sia difficile resistere al mio fascino, ma ti prego di controllarti.»

Ci separammo nel corridoio. Mentre lo guardavo allontanarsi, avvertii un senso di sicurezza che non avevo più provato da molto tempo. Per qualche istante, mi convinsi che il peggio fosse passato.

Avevo torto. Avrei dovuto saperlo che non era passato, che non poteva passare così facilmente. Xavier era appena sparito alla vista che un cilindretto di carta cadde dalla sommità del mio armadietto. Mentre lo srotolavo, già sapevo che quel messaggio era stato vergato in inchiostro nero e con una calligrafia sinuosa.

Poi il terrore mi avvolse come una nebbia e le parole mi s’impressero a fuoco nella mente.

Il lago di fuoco attende la mia signora.

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Ringraziamenti

Il ciclo di Rebel è un progetto in cui ho investito passione ed energia. Ma non avrebbe trovato compimento senza il contributo di molte persone.

La mia agente, Jill Grinberg, così entusiasta e convinta della storia.Mia madre che, oltre ad avermi sempre sostenuto, è stata implacabilmente sincera.Jean Feiwel, Liz Szabla e tutta la squadra della Feiwel and Friends, che hanno dedicato tanto

tempo ed energia a questo progetto.Lisa Berryman, mia mentore fin da quando avevo tredici anni.Il mio ispirato preside, dottor David Warner, con la sua profonda comprensione dei giovani

e dei loro sogni.Uno speciale ringraziamento va a Matthew DeFina (Moo-Moo) per la sua inestimabile

conoscenza della psicologia maschile, per le accurate risposte alle mie infinite domande e per avermi fatto sorridere quando le cose diventavano troppo difficili.

Note

1. Annabel Lee, in Edgar Allan Poe, Opere scelte, 1971 Arnoldo Mondadori Editore, Milano – per gentile concessione.

Indice1. Discesa2. Incarnazione3. Venus Cove4. Terrestre5. Piccoli miracoli6. Lezione di francese7. Fiesta8. Phantom9. Vietato l’ingresso ai ragazzi10. Ribelle11. Sottosopra12. La grazia13. Il suo bacio14. Sfidare la gravità15. L’Alleanza16. Legami familiari

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17. La quiete prima della tempesta18. Il Principe delle Tenebre19. Dai Woods20. Segnali di pericolo21. In profondità22. S come...23. R.I.P.24. Solo umano25. Sostituto26. Il ballo27. Giocando col fuoco28. Angelo di distruzione29. Un’amica in difficoltà30. Si scatena l’inferno31. Salvezza32. ConseguenzeEpilogoRingraziamenti