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Può un presidente neorivoluzionario, come Mahmoud Ahmadinejad, governare a lun- go uno Stato postrivoluzionario? Può il ritorno alle origini della rivoluzione khomei- nista, in attesa dell’avvento del Mahdi – l’imam che porterà alla vittoria l’Islam – con- tinuare ad affascinare una società che si sente persiana, prima che iraniana; e che in- clude élite avanzate e cosmopolite? La risposta di questo numero di Aspenia è no. È vero: i tempi non sono probabilmente maturi, scrive Trita Parsi, per un cambiamento di regime a Teheran. Il singolare con- nubio fra democrazia e teocrazia su cui si regge il potere della Repubblica islamica dal 1979 è destinato a continuare: i rappresentanti eletti, da una parte, il potere del clero sciita dall’altra, all’ombra del ruolo apparentemente arbitrale della Guida suprema, Ali Khamenei. Ma sono gli equilibri politici che potrebbero cambiare, con il consolidamen- to di un’alleanza fra riformisti e pragmatici in grado di sconfiggere – prima alle ele- zioni parlamentari del marzo prossimo, poi alle elezioni presidenziali del 2009 – il ver- tice attuale, basato sull’ascesa dei pasdaran: la casta militare forgiata negli anni terri- bili della guerra contro l’Iraq (1980-1988), con il suo mezzo milione di vittime, una ca- sta che ha progressivamente occupato il potere economico e poi quello politico. Ahmadi- nejad ne è l’esponente; ma potrebbe diventarne la vittima, se il clero sciita finisse per sen- tirsi minacciato da una sorta di “Stato nello Stato”. Il vento, difatti, è apparentemente cambiato da un anno a questa parte, con la ripresa della corrente pragmatica di Rafsanjani, eletto alla guida dell’Assemblea degli Esperti (l’organismo che nomina la Guida suprema); e con il declino politico dei conservatori radicali, simboleggiato dalla sconfitta elettorale dell’ayatollah Yazdi, il vero sponsor del presidente Ahmadinejad. Se un cambiamento di regime appare difficile in Iran, un cambiamento dei suoi com- portamenti, esterni e interni, è quindi possibile. Come risultato di uno spostamento di pesi fra le varie fazioni che lo compongono. Il potere di Mahmoud Ahmadinejad è al cre- puscolo? La risposta verrà in larga parte dalla società iraniana stessa, dove sono anzi- tutto le condizioni dell’economia – segnate da inflazione e disoccupazione – a generare editoriale

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Può un presidente neorivoluzionario, come Mahmoud Ahmadinejad, governare a lun-

go uno Stato postrivoluzionario? Può il ritorno alle origini della rivoluzione khomei-

nista, in attesa dell’avvento del Mahdi – l’imam che porterà alla vittoria l’Islam – con-

tinuare ad affascinare una società che si sente persiana, prima che iraniana; e che in-

clude élite avanzate e cosmopolite?

La risposta di questo numero di Aspenia è no. È vero: i tempi non sono probabilmente

maturi, scrive Trita Parsi, per un cambiamento di regime a Teheran. Il singolare con-

nubio fra democrazia e teocrazia su cui si regge il potere della Repubblica islamica dal

1979 è destinato a continuare: i rappresentanti eletti, da una parte, il potere del clero

sciita dall’altra, all’ombra del ruolo apparentemente arbitrale della Guida suprema, Ali

Khamenei. Ma sono gli equilibri politici che potrebbero cambiare, con il consolidamen-

to di un’alleanza fra riformisti e pragmatici in grado di sconfiggere – prima alle ele-

zioni parlamentari del marzo prossimo, poi alle elezioni presidenziali del 2009 – il ver-

tice attuale, basato sull’ascesa dei pasdaran: la casta militare forgiata negli anni terri-

bili della guerra contro l’Iraq (1980-1988), con il suo mezzo milione di vittime, una ca-

sta che ha progressivamente occupato il potere economico e poi quello politico. Ahmadi-

nejad ne è l’esponente; ma potrebbe diventarne la vittima, se il clero sciita finisse per sen-

tirsi minacciato da una sorta di “Stato nello Stato”.

Il vento, difatti, è apparentemente cambiato da un anno a questa parte, con la ripresa

della corrente pragmatica di Rafsanjani, eletto alla guida dell’Assemblea degli Esperti

(l’organismo che nomina la Guida suprema); e con il declino politico dei conservatori

radicali, simboleggiato dalla sconfitta elettorale dell’ayatollah Yazdi, il vero sponsor del

presidente Ahmadinejad.

Se un cambiamento di regime appare difficile in Iran, un cambiamento dei suoi com-

portamenti, esterni e interni, è quindi possibile. Come risultato di uno spostamento di

pesi fra le varie fazioni che lo compongono. Il potere di Mahmoud Ahmadinejad è al cre-

puscolo? La risposta verrà in larga parte dalla società iraniana stessa, dove sono anzi-

tutto le condizioni dell’economia – segnate da inflazione e disoccupazione – a generare

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scontento verso la ricetta populista dell’ex sindaco di Teheran, ormai screditata nei fat-

ti. Ma il comportamento occidentale avrà un suo peso: come osserva Karim Sadjadpour,

soltanto mosse sbagliate degli Stati Uniti potrebbero a questo punto risollevare le sorti

di Ahmadinejad.

La priorità, nel breve termine, è quindi semplice: non fare danni. E ciò significa che

Washington dovrà evitare due opzioni opposte ma che avrebbero entrambe – perlomeno

a breve termine – l’effetto di rafforzare la corrente neoradicale: un attacco militare o

un’apertura diplomatica sostanziale, il “grand bargain” insomma.

Un attacco militare, nella fase finale della presidenza Bush, è improbabile. Per quan-

to l’amministrazione americana mantenga in teoria l’opzione sul tavolo, e per quanto

Israele non sia affatto disposta a escluderla, la realtà è che i risultati della National

Intelligence Estimate (NIE), resi noti all’inizio del dicembre scorso, la rendono politi-

camente impraticabile. Come noto, Teheran continua il processo di arricchimento del-

l’uranio, che le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza chiedono di sospendere. Ma ha

interrotto nell’autunno del 2003 – secondo le nuove valutazioni della NIE – i program-

mi per la “weaponization”, il disegno di armi nucleari. In breve: le agenzie di intelli-

gence americane non hanno escluso il rischio di un Iran con la bomba. Lo hanno pe-

rò spostato avanti nel tempo, indebolendo così il partito dell’urgenza (Dick Cheney al-

la Casa Bianca) e quindi del ricorso alla forza. Mentre ne è uscita rafforzata la tesi del

contenimento, prevalente nel dipartimento di Stato (e nel Pentagono): una riedizione

della vecchia politica contro il nemico russo, adattata al nemico persiano dall’ex so-

vietologa Condoleezza Rice.

Per Israele, lo spostamento americano sui tempi lunghi del contenimento diplomatico

è rischioso, perché – scrive Ely Karmon – lascia il paese più esposto di fronte a una mi-

naccia considerata esistenziale. Per gli europei, da sempre favorevoli a un dosaggio di

“bastone e carota” verso Teheran, è uno spostamento benvenuto, ma che è destinato a

complicare il dibattito internazionale sulle sanzioni economiche e quindi i rapporti con

Washington: nell’anno finale di Bush e con i suoi successori.

Per la Russia assertiva di Putin, l’intelligence americana ha solo confermato l’intelli-

gence di casa propria; per la Cina – nuovo grande interlocutore economico di Teheran,

nonostante una qualche stretta recente sui crediti bancari – il rapporto NIE ha raffor-

zato la tesi gradualista, quanto a pressioni su Teheran. Né Mosca né Pechino sono in

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realtà disposte ad accettare l’ascesa di una potenza islamica nel Golfo dotata di armi

nucleari; ma la Russia vuole anche controllare un potenziale competitore energetico;

mentre la Cina, di energia, ha bisogno vitale. Entrambe giocano comunque sul fatto-

re tempo, un tempo che il rapporto NIE ha allungato, perlomeno al 2010-2015.

Nella visione di Washington, contenimento dell’Iran significa anzitutto rafforzare quel-

la alleanza de facto fra Israele e regimi arabi-sunniti (Egitto, Giordania, Arabia Sau-

dita) che ha fatto le sue prove al tavolo della conferenza di Annapolis, a fine novembre

2007. Con l’aggiunta della Siria, nel primo serio tentativo americano di staccare Da-

masco da Teheran. Si sarà anche trattato di una conferenza sul problema israelo-pa-

lestinese, il prezzo chiesto dai paesi arabi agli Stati Uniti e a Israele per decidere di

partecipare a questa prima dimostrazione di isolamento politico dell’Iran. Non c’è dub-

bio che i regimi arabo-sunniti, a cominciare dall’Arabia Saudita, condividono l’obiet-

tivo di contenere l’ascesa regionale della potenza sciita, con i suoi alleati in Libano

(Hezbollah) e a Gaza (Hamas). Un’egemonia iraniana in Medio Oriente è considera-

ta inaccettabile anche per ragioni interne, ossia i rischi di radicalizzazione delle ri-

spettive società islamiche. Ma i governi arabi concepiscono il contenimento in modo

flessibile: balance of power, da una parte (aiutato da nuovi aiuti militari americani);

e, dall’altra, ricerca di accordi con Teheran, nell’OPEC e nel Consiglio di Cooperazione

del Golfo. L’interrogativo, quindi, è quanto la coalizione anti-iraniana reggerà alle più

che possibili difficoltà di progressi sul fronte israelo-palestinese.

Anche l’America non esclude un dialogo a basso profilo con l’Iran là dove esista un pre-

ciso interesse a farlo, ossia sull’Iraq (oltre che sull’Afghanistan). Un dialogo è comin-

ciato, in effetti; ma resta difficile capire fino a che punto Washington riuscirà a conci-

liare l’isolamento/contenimento di Teheran con il tentativo di fare leva sul controllo

iraniano delle milizie sciite per stabilizzare l’Iraq. Per Vali Nasr e Ray Takeyh, si trat-

ta di una classica “mission impossible”. La loro tesi è che gli Stati Uniti non dovreb-

bero guardare all’Iran come a nuova Unione Sovietica; ma dovrebbero invece tentare

un’apertura alla cinese, alla Nixon dei primi anni Settanta: imboccando così la stra-

da di una sorta di rovesciamento delle alleanze a favore del mondo sciita. Conteni-

mento o “grand bargain” quindi? L’Iran come nuova URSS o come nuova Cina?

Secondo Vali Nasr e Ray Takeyh, l’amministrazione Bush dovrebbe avere il coraggio

di aprire subito negoziati diretti con Teheran, dopo trent’anni di interruzione dei rap-

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porti diplomatici e di sanzioni che non hanno prodotto grandi risultati. E se ciò è sta-

to vero in passato, un nuovo contenimento/isolamento continuerebbe a non funzionare.

Se Nasr e Takeyh credono in una tesi che si potrebbe definire europea – le virtù del-

l’engagement come moderatore dei comportamenti di Teheran – il dialogo diretto è di-

feso a questo punto anche da chi l’ha sempre osteggiato; ma pensa che a George W.

Bush convenga comunque proporlo, per non lasciare gestire l’apertura all’Iran dalla

prossima amministrazione, probabilmente democratica.

È la linea espressa sul Washington Post da Robert Kagan, secondo cui Bush deve an-

ticipare i tempi con Teheran perché non ha più a disposizione l’opzione militare, perché

non può contare su sanzioni internazionali veramente efficaci e perché può farlo alle

sue condizioni, dopo i progressi registrati in Iraq grazie al “surge”, l’aumento di trup-

pe gestito dal generale Petraeus. In altri termini: meglio aprire all’Iran oggi, con un

presidente “duro”, che non aprire domani con i democratici. E se il dialogo fallisse al-

le condizioni di Bush, se insomma non ci fossero progressi sul dossier nucleare, anche

l’opzione militare tornerebbe sul tavolo già nel 2009.

Se la tesi di Kagan è “opportunistica” (a Bush conviene giocare d’anticipo per condi-

zionare le scelte future di Washington), la visione di Nasr e Takeyh nasce invece dalla

convinzione che esistano in realtà interessi strategici convergenti fra America e Iran,

cancellati dagli strascichi della crisi degli ostaggi del 1979: la priorità americana è di

ridurre la propria dipendenza dall’Arabia Saudita, di gestire una “exit strategy” dall’I-

raq e di difendere la sicurezza di Israele – tutti obiettivi possibili riconoscendo all’Iran

il ruolo regionale cui aspira.

Per Robert Kagan, trattare con l’Iran è invece parte integrante del contenimento. Il

paragone è di nuovo con l’Unione Sovietica: “gli Stati Uniti sono riusciti contempora-

neamente a contenere la minaccia sovietica, negoziare con i dignitari dell’URSS e pro-

muovere una svolta politica in quel paese [...] Non si vede perché gli Stati Uniti non pos-

sano dialogare con l’Iran e, al tempo stesso, rafforzare le strategie di contenimento nel-

la regione e caldeggiare una svolta all’interno del paese”, sostenendo in modo più atti-

vo i dissidenti e attraverso contatti diretti con una società iraniana in realtà molto me-

no ostile agli Stati Uniti di quanto non sia il regime.

In teoria, un’apertura americana alla Repubblica islamica avrebbe molti vantaggi:

fra cui quello di togliere una carta all’armamentario propagandistico di Ahmadine-

jad e di produrre ulteriori divisioni o tensioni nella leadership iraniana. Ma la tesi di

Aspenia è che un vero e proprio “grand bargain”, nell’anno finale della presidenza

Bush, sia poco realistico. E non è detto sia davvero producente a breve termine, per le

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ragioni citate da Karim Sadjadpour: la legittimazione di un leader iraniano che è vis-

suto di retorica anti-israeliana e antisemita, di sfide alle Nazioni Unite, di appoggi

a movimenti estremistici.

Guardare alla storia recente può aiutare le scelte di oggi. Nel 2003, parallelamente

alla sospensione del programma nucleare militare, Teheran fece pervenire all’Ameri-

ca (attraverso l’ambasciata svizzera in Iran) una importante offerta negoziale, allo-

ra respinta da Washington, in una delle varie occasioni mancate nei rapporti bilate-

rali. Ma va detto che si trattava dell’epoca pre-Ahmadinejad: dal 2005 in poi, il po-

tere iraniano non ha mai dimostrato di essere realmente interessato a un accordo ne-

goziale. Né sul nucleare (nonostante il pacchetto di incentivi messi a punto prima

dagli europei e poi, nell’estate del 2006, dal formato “5+1”: i cinque membri del

Consiglio di Sicurezza più Germania); né sul futuro della sicurezza nel Golfo, con

l’eccezione dell’Afghanistan. Un “grand bargain” sarebbe stato possibile nel 2003,

quando anche l’Europa lo propose per la prima volta, ma sapendo che a fare la diffe-

renza sarebbe stato solo un impegno diretto degli Stati Uniti. E potrà essere possibile

dopo le elezioni del 2008, con una nuova leadership iraniana pronta a trattare la au-

spicabile offerta di una nuova leadership americana. Oggi, sembra arduo concepirlo.

Non vanno trascurati altri precedenti, al di là del 2003. Come scrive Bernard Lewis in

uno dei suoi libri recenti (“The Crisis of Islam”), la crisi degli ostaggi americani –

apertasi il 4 novembre 1979 e durata fino al 20 gennaio 1981 – non fu prodotta dal

deterioramento dei rapporti fra Stati Uniti e Iran ma avvenne per la ragione opposta,

per impedire il loro possibile miglioramento. Nell’autunno di quell’anno, infatti, il pri-

mo ministro relativamente moderato di allora, Mehdi Bazargan, decise di incontrarsi

ad Algeri con Zbigniew Brzezinski, consigliere alla sicurezza nazionale di Jimmy Car-

ter. Sembrava aprirsi una reale possibilità – agli occhi dei radicali una vera minaccia

– di accomodamento con gli Stati Uniti: possibilità che venne volutamente distrutta

dagli studenti di Khomeini, secondo il quale gli Stati Uniti dovevano essere conside-

rati, quali eredi dell’impero britannico, il principale nemico dell’Islam.

La storia, inclusa la storia delle occasioni mancate, serve a capire una parte notevo-

le della complessità del problema attuale, fra Stati Uniti e Iran. E serve a misurare

quanto il fattore America continui a influenzare le dinamiche interne iraniane, a qua-

si trent’anni dalla crisi degli ostaggi e dall’avvio della Rivoluzione islamica. Oggi, la

generazione dei pasdaran sogna proprio un ritorno alle origini, al khomeinismo/po-

pulismo degli inizi.

Ma è evidente che la storia recente non basta, per capire “cosa fare con l’Iran”. Perché

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dietro l’Iran c’è la Persia. E ciò in fondo significa – questa la conclusione di Aspenia

– che impostare la politica occidentale verso l’Iran come se fosse una nuova URSS (Ka-

gan) o una nuova Cina (Takeyh e Nasr) potrebbe essere sviante o molto deludente. Me-

glio vedere l’Iran quale erede rivoluzionario della Persia – che è stata a sua volta un

impero, una sorta di impero di mezzo fra Asia e Occidente.

La Persia prima dell’Iran e prima della Repubblica islamica. Tutto ciò ha implicazio-

ni precise e resistenti nel tempo: un forte orgoglio nazionale, che spiega ad esempio il

consenso interno sul programma nucleare (già all’epoca dello scià) o l’ambizione a ve-

dersi riconosciuto un ruolo di grande potenza regionale; un disprezzo per gli arabi che

il passare dei secoli non ha cancellato e che è figlio della storica opposizione della Per-

sia all’impero Ottomano; l’esistenza di élite modernizzatici e aperte verso i paesi occi-

dentali (grazie anche alla diaspora), che non sono state spazzate via dalla rivoluzione

islamica; la complessità della questione identitaria in un paese con forti minoranze ma

unificato dal passato imperiale.

Come trattare con l’Iran – attore cruciale per ragioni geopolitiche e per risorse ener-

getiche – è insomma una sfida culturale e non solo politica. L’Iran non è solo il regi-

me della Repubblica islamica. E non è solo ayatollah, più chador, più ambizioni nu-

cleari. È anche all’origine del “Persian Puzzle”, il mosaico dell’arco sciita dal Golfo

al Medio Oriente. Ed è anche una società così complessa – quanto a composizione et-

nica, tradizioni religiose, influenze imperiali – da generare una sorta di “schizofrenia

culturale”, per riprendere l’espressione coniata da uno dei più noti filosofi iraniani,

Dariush Shayegan.

Se non proprio di schizofrenia, si tratta di continua tensione fra opposte polarità. L’I-

ran è profondamente imbevuto di cultura islamica, ma è tuttora segnato dal suo pas-

sato preislamico. Anzi, lo stesso Islam ha assorbito nel suo impianto filosofico, grazie

al ruolo di spicco di pensatori persiani, profondissime influenze della Persia antica. La

stessa dualità è evidente anche a livello personale, e non solo filosofico: non sono po-

chi gli iraniani, uomini e donne, registrati all’anagrafe con un nome derivante dalla

tradizione arabo-islamica e che usano in famiglia un nome persiano preislamico.

L’Iran è ancora oggi uno dei paesi più cosmopoliti del mondo, con una forte diaspora

(il fenomeno più eclatante è “TehrAngeles”), spesso composta da persone di alto livel-

lo culturale ed economico, che non solo mantengono i contatti con le proprie radici, ma

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spesso tornano in Iran per rimanerci dopo lunghi anni di emigrazione. Ma chi ha vi-

sto l’inaugurazione dell’Assemblea degli Esperti, si è sentito trasportare nel più lonta-

no e chiuso passato clericale.

L’Iran vive, nelle sue zone urbane, tutti gli aspetti e le problematiche di una società svi-

luppata, dalla droga al consumismo all’inquinamento; ma ha zone rurali che, a parte

la scuola e l’elettricità, appartengono economicamente e culturalmente a un sottosvi-

luppo non estremo ma ugualmente profondo e soprattutto contrastante con le punte di

benessere e di edonismo della capitale.

E si potrebbe continuare: gli iraniani hanno una profonda religiosità mistica (la com-

ponente sufi è diffusa, anche se in modo discreto, vista l’avversione del regime nei suoi

confronti) e sono al tempo stesso sempre più anticlericali; il regime cerca di bloccare le

televisioni estere o l’accesso a internet ma gli iraniani sono informatissimi; i canoni

estetici dell’Islam promuovono, attraverso la censura del ministero della Guida islami-

ca, un’arte fatta di calligrafia e miniature, ma gli artisti iraniani di avanguardia so-

no tra i più apprezzati a Londra e a Dubai; il cinema iraniano produce capolavori che

hanno successo ai festival in tutto il mondo ma che non vengono quasi mai mostrati al

pubblico iraniano, che tuttavia li conosce dato che circolano in DVD.

Perché allora una società in alcuni settori avanzata, e con una vocazione cosmopoli-

ta, con professionisti (medici, architetti, scienziati) di alto livello, non produce un’op-

zione alternativa al regime attuale, che è chiaramente non funzionale agli interessi

del paese considerati con un minimo di obiettività? Torniamo così al punto da cui sia-

mo partiti: perché lo scontento, anche se diffuso, non può condurre a un vero e proprio

cambio di regime? Perché l’unica politica che esiste è costretta nei recinti del regime?

E al punto tale che il regime stesso potrebbe risparmiarsi la fatica, e la vergogna, di

reprimere studenti ribelli e intellettuali la cui capacità di aggregazione politica resta

molto ridotta.

La repressione spiega perché non possano consolidarsi, all’esterno del circuito del regi-

me, organizzazioni politiche. Ma un’altra ragione, più profonda, è la persistenza di una

profonda spaccatura – antica come la Persia e interrotta solo durante brevi periodi –

fra élite e gente comune. Una spaccatura clamorosa a livello economico, in un sistema

che non è né capitalista né socialista, ma corporativo, con una forte presenza dello Sta-

to (società pubbliche, fondazioni pseudoreligiose e pseudocaritative: in realtà strumen-

ti di potere), mentre gli imprenditori privati operano solo nella misura in cui abbiano

stabilito con il regime un modus vivendi fatto di corruzione dei funzionari, facile eva-

sione fiscale, assenza di veri sindacati.

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Il risentimento delle classi meno abbienti, il sospetto nei confronti di tutte le élite –

quelle di oggi ma anche quelle precedenti o di segno riformista – è profondissimo, e

spiega fra l’altro il fenomeno populista, ancora prima che neoradicale, della elezione

di Ahmadinejad alla presidenza nel 2005.

La delusione per le promesse non mantenute del presidente populista è ormai evidente.

E, come prima si diceva, potrebbe produrre, alle prossime elezioni parlamentari di

marzo 2008, la vittoria della nascente coalizione pragmatici/riformisti (Rafsanja-

ni/Khatami); o, in alternativa, il prevalere di una nuova alleanza fra la corrente prag-

matica di Rafsanjani e i modernizzatori autoritari, guidati da Larijani (ex negoziato-

re iraniano sul nucleare) e Qalibaf (attuale sindaco di Teheran). Ma in Iran una ve-

ra democrazia non nascerà fino a quando questa antica, profonda spaccatura, non

verrà in qualche modo colmata. I comportamenti dell’Occidente, per essere utili, do-

vranno facilitare l’evoluzione del regime politico; ma tenendo presente la società, al di

là del regime stesso.

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