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ITALIA La prima volta che l’Italia è esistita davvero è stato nel momento in cui, all’incirca nell’estate del 1831, alcune migliaia di ragazzi pronunziaro- no, a memoria, questo testo, al momento di giurare fedeltà alla Giovi- ne Italia: «Nel nome di Dio e dell’Italia, nel nome di tutti i martiri della santa causa italiana, caduti sotto i colpi della tiranni- de, straniera o domestica… Io … credente nella missione commessa da Dio all’Italia, e nel dovere che ogni uomo nato Italiano ha di contribuire al suo adempimento; Convinto che dove Dio ha voluto che fosse nazione, esisto- ettera E-M.indd 117 11-04-2011 11:59 Copyright Egea

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La prima volta che l’Italia è esistita davvero è stato nel momento in cui, all’incirca nell’estate del 1831, alcune migliaia di ragazzi pronunziaro-no, a memoria, questo testo, al momento di giurare fedeltà alla Giovi-ne Italia:

«Nel nome di Dio e dell’Italia, nel nome di tutti i martiri della santa causa italiana, caduti sotto i colpi della tiranni-de, straniera o domestica…Io … credente nella missione commessa da Dio all’Italia, e nel dovere che ogni uomo nato Italiano ha di contribuire al suo adempimento;Convinto che dove Dio ha voluto che fosse nazione, esisto-

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no le forze necessarie a crearla – che il popolo è depositario di quelle forze, – che nel dirigerle pel popolo e col popolo sta il segreto della vittoria;Convinto che la virtù sta nell’azione e nel sacrificio – che la potenza sta nell’unione e nella costanza della volontà;Do il mio nome alla Giovine Italia, associazione d’uomini credenti nella stessa fede, e giuro:Di consacrarmi tutto e per sempre a costruire con essi l’Ita-lia in nazione una, indipendente, libera, repubblicana…»

Questo momento, altissimo, decisivo, ci è stato restituito da Mario Martone nella sesta scena del suo film – Noi credevamo, grandioso affre-sco di una generazione che scelse il dovere, gli ideali, e venne travolta dalla politica – quando Angelo, Domenico e Salvatore recitano la for-mula del giuramento e, a notte fonda, staccano ciascuno un rametto di ginepro. Era stato sempre il cinema, nel 1987, nel film Rai Il genera-le di Luigi Magni a far leggere la formula intera del giuramento a Franco Nero – che interpretava Garibaldi – nella mani di un Mazzini interpre-tato da Flavio Bucci. Quando, la sera del 17 febbraio 2011, si è assisti-to al Festival di Sanremo all’incredibile esegesi di Roberto Benigni dei versi del giovane poeta genovese Goffredo Mameli, abbiamo pensato che il canto donato da Benigni a 20 milioni di italiani dovesse avvici-narsi al tono semplice e vero con cui, possiamo immaginare, Mameli pronunziò il suo giuramento alla Giovine Italia.

Cosa ci suggerisce quel testo? È chiaro che l’Italia esiste se noi lo vogliamo. Non solo. Quel testo magnifico ci dice che il gesto di intima adesione a una comunità da parte di ciascuno di noi, anche nel nostro intimo, non è indifferente rispetto all’esistenza della patria. Certo, era più difficile, certamente più rischioso, coraggioso, farlo per dei ragaz-zi come Angelo, Domenico e Salvatore, ma non appare del tutto inuti-le neppure oggi.

Il testo del giuramento mazziniano sottende una tesi sul patriotti-smo basato su un insieme di fattori di partenza che però non si con-

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densano senza un atto di volontà consapevole. È la tesi su cui venne ricostruito un patriottismo francese gravemente ferito dopo la sconfit-ta di Sedan, con i famosi discorsi di Enest Renan, nel 1881: la patria è un plebiscito di tutti i giorni. È la tesi volontaristica – contrapposta a quella tradizionalistica di origine tedesca – che giunge fino alle lezioni di Federico Chabod, nei giorni in cui decide di raggiungere i partigiani sulle montagne nel 1944. La natura di volontaria adesione a valori civi-li di libertà, ma anche di comuni doveri, rende il patriottismo mazzi-niano radicalmente differente da ogni nazionalismo. D’altra parte non è un caso che nel febbraio 1854, in quel ricevimento londinese organiz-zato dall’ambasciatore americano senatore James Buchanan – poi 15° presidente degli Stati Uniti, democratico – Mazzini, Garibaldi, ameri-cani, francesi, tedeschi, polacchi, tutti i presenti intonassero la Marsi-gliese. Anche i fratelli Taviani fanno cantare la Marsigliese al gruppo di disperati carbonari, con l’aristocratico traditore interpretato da Marcel-lo Mastroianni, nelle scene finali di Allonsanfan del 1974.

Per i francesi, il conflitto tra la Francia millenaria e la Francia rivolu-zionaria si materializzò nel dibattito parlamentare all’Assemblea nazio-nale del 1880 su quale dovesse essere il giorno della festa nazionale. Giovanna D’Arco, il 9 maggio, era la scelta dei tifosi della Francia mille-naria. Il 14 luglio fu la scelta repubblicana che prevalse. Ma fu scelta di rottura, non accettata, contrastata dalla Chiesa, dai socialisti, da oppo-sizioni lealiste e bonapartiste, che impiegò mezzo secolo per affermar-si compiutamente.

Anche in Italia esiste un fondo di scetticismo, del tutto motivato, sull’idea che l’età dell’Italia sia quella del suo Stato, ovvero 150 anni. Non appare plausibile. L’Italia è una delle comunità umane più anti-che al mondo, nonostante le trasformazioni, le invasioni, le catastrofi. La società italiana è antichissima, si comporta come tale, sente di esser-lo. Lo Stato italiano è giovane, fu pensato come macchina di moderniz-zazione della società e così funzionò. L’antichità millenaria di un popo-lo è talvolta anche un peso, non solo un segno di nobiltà. La presenza ossessiva, schiacciante del mito di Roma, della Roma repubblicana e

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imperiale, ha sempre spinto in basso le possibili velleità delle generazio-ni successive. Un modello troppo alto, inarrivabile.

Come poteva rinascere la terra dei morti? Un punto di partenza venne offerto dalla monumentale Histoire des républiques italiennes du moyen age, i cui 16 volumi (di cui possiedo gelosamente un’edizione di inizio Ottocento) uscirono tra il 1807 e il 1818 prima a Zurigo, poi a Parigi. Teniamo presente che il successo dell’opera fu tale che l’autore, il ginevrino Sismonde de Sismondi, amico dei Necker, della figlia dell’an-tico ministro di Luigi xvi, Madame de Staël, dei fratelli von Humboldt, amico di Foscolo e della contessa d’Albany, discendente di nobile fami-glia ghibellina pisana bandita dalla patria, dovette scriverne una sintesi, che diventò uno dei libri obbligati per ogni patriota italiano, per ogni carbonaro: Histoire de la renaissance de la liberté en Italie, de ses progrès, de sa décadance et de sa chute, pubblicata a Parigi nel 1832 in 2 volumi. In molti se lo portarono in prigione come libro per tenere alti e forti i pro-pri pensieri, insieme a Dante. La tesi del Sismondi è nota. Il maggior fulgore nella storia del mondo l’Italia lo ha raggiunto nel Medioevo con le sue città, i comuni, che hanno ricostruito i concetti di libertà e di civiltà nella notte barbarica dei regni feudali. Le cento città con le loro libere istituzioni sono il contributo italiano all’evoluzione della civiliz-zazione europea. È interessante vedere come Sismondi veda nascere i comuni quali «associazioni» di privati per difendersi, darsi comune assi-stenza. È dubbioso sulla conservazione di tracce di istituzioni roma-ne. Certamente, li vede in contrapposizione con l’istituzione del potere feudale, generalmente germanico. Sismondi aveva tradotto in un testo brillante, dotato di una tesi forte, ma anche ricco di enormi quantità di dettagli, l’opera di Ludovico Muratori. Da Sismondi origina la tesi che l’Italia abbia prodotto il concetto stesso di repubblica dei tempi moder-ni. Mazzini la trae da Sismondi. Così come si ispirano a lui d’Azeglio per Ettore Fieramosca e il siciliano Michele Amari, che viene spinto dalla lettura di Sismondi a intraprendere la grande ricerca sui Vespri siciliani. Tutta l’epopea di Pontida e Legnano, romanzi, poemi, opere liriche, pit-ture nascono da Sismondi. È sempre Sismondi che motiva Manzoni ad

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approfondire nel dettaglio la questione longobarda che porta al Discor-so sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia del 1822: ma dove è finito il popolo dei romani? Chi ha assorbito chi? Concludendo che la fusione in una nazione non vi fu per colpa dei germanici che non volle-ro una comune titolarità di diritti politici con quel «volgo disperso che nome non ha». Si segnala di passaggio che di Sismondi esiste in Italia una traduzione pubblicata da Bollati Boringhieri nel 1996 della sintesi del 1832, ma nessuna traduzione dal secolo xix è stata fatta di un’opera di importanza eccezionale. Certo, leggiamola in francese, ma è perfino impresa complessa trovarla nelle biblioteche!

E Carlo Cattaneo ne trae la tesi centrale del suo fondamentale La città considerata come principio ideale delle istorie italiane, pubblicato nel 1858. Di recente è stato Giorgio Ruffolo in Quando l’Italia era una superpotenza (2003) a ricordarci che nel Trecento l’Italia, con lo svilup-po delle città, aveva il prodotto interno lordo pro capite più alto d’Eu-ropa. Non aver creato istituzioni, cittadinanza, sistemi politici comuni ha prodotto per via militare e politica la catastrofe economica che ha condotto a una miseria spaventosa, il cui punto più basso di mille anni di storia si ebbe proprio dopo il Congresso di Vienna.

In ogni caso, se Mazzini recuperava in chiave mistica il ricordo della Roma repubblicana, anche lui partiva fondando l’idea repubbli-cana sulle associazioni medievali e sui comuni. In fondo si tratta sem-pre di un’Italia che nasce nel Medioevo, come sosterrà molti anni dopo Gioacchino Volpe nella celebre disputa con Benedetto Croce sul punto di partenza di una possibile storia d’Italia.

Roma rimane sullo sfondo come un mondo perduto al quale guarda-re con la nostalgia struggente che si trasformerà in atto di accusa nell’or-mai censuratissimo (inconsciamente) Alle fonti del Clitumno del mazzi-niano Giosuè Carducci: «… quando una strana compagnia tra i bianchi templi spogliati e i colonnati infranti procedé lenta in neri sacchi avvol-ta, litaniando, e sovra i campi del lavoro umano sonanti e i clivi memo-ri d’impero fece deserto, et il deserto disse regno di Dio». È la Roma del nobile inglese Edward Gibbon, autore di History of the Decline and Fall

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of the Roman Empire, un’opera anch’essa amata dai patrioti (Mazzini ne possedeva una decina di copie) e che li spinse a considerare il cristiane-simo come origine della grande catastrofe del mondo romano. La fine del mondo romano non è un evento della storia d’Italia ma è un even-to che ha pesato sempre nel formarsi della coscienza italiana, nella sua cultura, nella sua rappresentazione del mondo almeno fin dal Rinasci-mento. Ma certamente rappresenta una sorta di trauma originario, volu-tamente irrisolto, per i patrioti dell’Ottocento appassionati di storia, e sulla storia infervorati nell’affermare la propria virtù civile.

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Eh no! Non vorrete mica incominciare questo capitoletto citando, per l’ennesima volta, l’infelice frase attribuita a Massimo Taparelli d’Azeglio, ovvero «fatta l’Italia ora bisogna fare gli italiani». No, per favore! Alme-no quest’anno, leggiamola davvero la frase del grande pittore, romanzie-re, cospiratore, seduttore, viaggiatore, generale pontificio, presidente del Consiglio del Regno di Sardegna dei tempi difficili, quello che salvò la Costituzione nel 1849, nemico dei democratici ma patriota sincero. Leg-giamola finalmente! La troveremo profonda, attuale, non banale:

«… i più pericolosi nemici d’Italia non sono i Tedeschi, sono gl’Italiani. E perché? Per la ragione che gl’Italiani hanno voluto far un’Italia nuova, e loro rimanere gl’Italiani vecchi di prima, colle dappocaggini e le miserie morali che furono ab antico la loro rovina; perché vogliono riformare l’Italia, e nessuno s’accorge che per riuscirci bisogna, prima, che si riformino loro, perché l’Italia, come tutt’i popoli, non potrà diventar nazione, non potrà essere ordinata, ben amministrata … finché grandi e piccoli e mezzani, ognuno nella sua sfera non faccia il suo dovere, e non lo faccia bene, od almeno il meglio che può…».

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trIColore

Sotto la nostra bandiera riuniamo e ritroviamo la nostra identità storica e i nostri valori, che sono nostre radici, fatto molto

significativo in particolare in questa fase di globalizzazione.(Luigi Buffon, 7 gennaio 2011)

Da Nord a Sud, da Milano a Palermo la penisola sembra un unico gran-de tricolore. L’emozione è forte, la gente si ritrova in piazza con un unico obiettivo: festeggiare la vittoria. È il 10 luglio 2006. I tre colo-ri sono declinati nei modi più bizzarri e creativi, dai graffiti sui muri ai volti dipinti. Non mancano indelebili quanto insensate pennellate sul patrimonio monumentale. L’Italia ha vinto i Mondiali di calcio e almeno per qualche ora è tutta unita sotto un’unica bandiera, reale ed

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ideale. È Gigi Buffon ad interpretare lo sventolar di quelle bandiere, e soprattutto, a dare una chiave di lettura del significato di raccogliersi intorno ad un tricolore prima e dopo una vittoria in un mondo globa-le. Intorno ad una gara agonistica l’Italia dei «campanili» sembra sopi-ta in un unico slancio. Del resto è negli stadi, secondo Eric Hobsbawm, che si vede come cambiano l’idea di nazione e i fondamenti identitari nell’ottica transnazionale, multietnica.

Si fa presto a dire verde, bianco e rosso ma in un mondo dilatato e globalizzato, in cui la prevalenza dei vessilli nazionali è tricolore, nel 2004 è stato necessario anche formalizzare le effettive tonalità, identifi-candole con specifici riferimenti alla scala cromatica.

Il nostro tricolore del resto raccoglie in sé la molteplicità. Oggi come allora, troppo spesso «calpesta e derisa», la bandiera tricolore è e resta comunque il simbolo in cui si identifica l’intero Paese festeggiando una vittoria o commemorando i tanti eroi caduti per difenderla e ancora celebrando l’alto valore dell’identità nazionale, in una parola l’italianità riconosciuta negli scenari sociali e bellici più difficili.

«Se c’è stata una memoria del nostro lungo processo storico nazio-nale, che nei decenni dell’Italia repubblicana non si è mai omesso di coltivare e celebrare, è stata precisamente quella della nascita del trico-lore» (Giorgio Napolitano, 7 gennaio 2011, discorso per la Festa del tri-colore a Reggio Emilia).

La data di nascita del tricolore come bandiera non solo simbolica ma ideale e politica di un’Italia che allora ancora non era definita nei suoi confini nazionali è il 18 nevoso (7 gennaio 1797). Tutta un’altra storia. Una storia di giovani multilingue e che credevano e volevano costruire una Nazione in uno slancio unitario sull’onda di quella «fra-ternità, uguaglianza, libertà». Nasce prima dell’Italia unita e intorno ad esso si addensano ideali, sogni e disillusioni. È il 21 ottobre 1866, l’Ita-lia è ormai quasi del tutto unificata, anche a Venezia sventola il primo tricolore mentre si preparano i festeggiamenti del plebiscito. Una folla di donne invade Piazza San Marco inscenando un’imprevista manife-stazione di festa ma anche di protesta, sventolando fazzoletti bianchi.

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Intendono esprimere «l’amarezza e l’umiliazione» per la loro esclusione «da tutto ciò che si attiene al governo della cosa pubblica», come scri-vono a chiare lettere in un messaggio inviato al re. Espressione più ecla-tante ed esplicita di altre azioni che si registrano in vari luoghi della penisola al momento dei plebisciti, nel 1860 e nel 1866, dal Nord al Sud, con modalità e forme diverse, sospese appunto tra la festa e la pro-testa. Azioni di protesta che con modalità e intenti diversi si ripropon-gono ai giorni nostri.

Del resto lo aveva già messo in rilievo Giosuè Carducci celebrando i cento anni del tricolore a Reggio Emilia nel 1897, con un discorso che riconosceva la simbologia del primo tricolore come bandiera «naziona-le» preesistente alla effettiva unità. Un discorso sui fondamenti identi-tari comuni, emersi dopo un lungo travaglio in un’Italia nata legando faticosamente le di ver si tà.

Verde, bianco e rosso: la storia della bandiera italiana, la storia dei «tanti tricolori» nell’Italia giacobina fino all’affermarsi di quello che oggi conosciamo è custodita nel Museo del tricolore di Reggio Emilia. Giosuè Carducci sottolineò come nei tre colori della bandiera fossero espressi i valori dell’identità nazionale: nel verde, la natura, l’uguaglian-za, la libertà, la gioia; nel bianco, la vittoria, la prudenza, l’autorità; nel rosso, l’ardire e il valore. Il tricolore d’allora si apparenta senza identi-ficarsi col distintivo bianco rosso e verde indossato da Luigi Zambo-ni e Giovanni Battista de’ Rolandis, autori del fallimentare complotto del 1794 contro il cardinal legato di Bologna – punito con la tortura a morte dell’uno e l’impiccagione del l’altro. L’Italia giacobina, in effetti, di tricolori ne produce tanti e non sempre coi colori dettati da Napoleo-ne per quell’area subalpina che allora veniva chiamata Italia e che oggi più o meno geograficamente definiamo area padana. I tricolori allora giocavano e si distinguevano per fogge e tonalità: con l’azzurro, il gial-lo, il nero, a scacchi e bordati, simboli di giustizia e scritte, che nel 1800-1802 si associano alla bandiera verde-bianca-rossa della Repubbli-ca italiana di Napoleone. Giuseppe Mazzini adotta per la Giovine Ita-lia il «tricolore bianco-rosso-verde» nel 1831. Nel 1848 Carlo Alberto fa

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cucire lo stemma Savoia sul tricolore, e con quella bandiera attacca gli austriaci il 23 marzo. Di questo tricolore «italiano» il patriottismo del primo cinquantennio d’unità cerca ascendenze in Dante, nel paesag-gio della penisola, o nell’evocazione del sangue dei caduti: una ricerca che accomuna chi cade sotto la ghigliottina di Pio ix o davanti ai fuci-li austriaci. Anche in quegli anni il tricolore non emoziona tutti, fiori-scono barzellette e canzonette sarcastiche mentre il Sant’Uffizio, anco-ra nel 1887, vieta il tricolore ai funerali.

L’esperienza del fascismo sferrò un altro duro colpo al tricolore: associata al ventennio, la bandiera tricolore ne uscì logora e consunta. Poi, in sede di Assemblea costituente, si arrivò al superamento di anti-che antinomie e di guasti profondi, al recupero di ideali, valori, simboli. I costituenti, scrivendo l’articolo 12, vollero farne un riferimento essen-ziale ma imprescindibile che fissa un patriottismo costituzionale seve-ro, sigillato dalla consapevole rigorosa mancanza d’enfasi autocelebrati-va: «La bandiera della Repubblica è il tricolore italiano: verde, bianco e rosso, a tre bande verticali di eguali dimensioni». È un gesto che sigla non tanto la generica «continuità» dello Stato quanto la metamorfo-si dei simboli dello Stato. «Il tricolore è il simbolo concreto dell’unità nazionale, il profondo legame fra gli ideali del Risorgimento, della Resi-stenza e della Costituzione repubblicana» ha avuto modo di sottolinea-re più volte il presidente emerito della Repubblica Carlo Azeglio Ciam-pi.

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Perchè ci sia vera unità, questa deve sopportare la tensione più pesante senza spezzarsi.

(Mahatma Ghandi)

«L’offerta è fatta e non si torna indietro. Concederemo al pontefice le guarentigie che gli spettano, e in cambio faremo di Roma il salot-to buono d’Italia. Al Meridione ho già pensato. Invierò miei uomini di fiducia a governare e varerò riforme fiscali, avviandone la moder-nizzazione. Sarà lì il giardino di questo Paese». Dimentichiamo, per un attimo soltanto, i libri di storia e le riflessioni di pensatori eccellen-ti. Sintetizziamo così le parole di Cavour che, pensando alla sua Ita-lia finalmente unita politicamente, era convinto che andasse «fatta» per leggi, cultura e tradizioni dei suoi abitanti. Serviranno allo scopo le armi della politica e della diplomazia. Purtroppo infruttuosamente. Tanto la difficile mediazione con il pontefice, da cui sarebbe nata la «questione romana», quanto la spinosa gestione del Meridione, all’origi-ne dell’omonima questione, si risolsero in un parziale insuccesso.

«Per me l’unità è azione – avrebbe risposto Giuseppe Garibaldi. – Sellerò il cavallo e domattina partirò di buon’ora, alla testa di un mani-polo di uomini fidati». La sua è l’unità dei fatti, raccolta avventurosa-mente, passo dopo passo, tra marce, combattimenti all’arma bianca, tattiche militari e cartine topografiche. Non tanto diversa da quella che aveva in mente Colomba Antonietti. Lei, però, nell’unità vedeva qual-cos’altro: l’amore per il marito e l’orgoglio di poter combattere al suo fianco. Capelli corti e casacca militare, accovacciata tra i ruderi di una Roma insolita: cannoneggiata dalle truppe francesi fuori, ed ebbra di democrazia e repubblica dentro.

Dall’unità combattuta a quella cantata. È così quella di Mameli. Un canto di gioia e di sofferenza, di parole e simboli forti. Quella di Giuseppe Mazzini, invece, è un’unità inquieta. Da difendere ideologi-camente dai federalisti, dovendone restare lontano, in esilio. Da ipo-

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tizzare a tavolino, ma poi da realizzare con il supporto di giovani ardi-mentosi e pronti al sacrificio. «Pensare e operare, la vita è dovere. Il dovere è sacrificio». Da legittimare agli occhi degli italiani, ma anche a quelli dell’Europa affinché non pensasse più alla Penisola come ad una terra di conquista, ma le riconoscesse giusta dignità e onore.

Non l’avevano pensata così Pisacane, Cattaneo e Ciceruacchio. «Il pane agli italiani, tutti e senza distinzioni di censo, questa è la vera unità!», avrebbero esclamato. Non era, a ben vedere, solo una questio-ne di priorità. Un’ipotesi, quella mazziniana, che dispiacque anche ai federalisti, ma per ragioni diverse. «La vogliamo unita questa Italia, ma la pensiamo più organizzata, divisa in federazioni, articolata sul territo-rio». Balbo, Gioberti, lo stesso Pio ix: uniti (loro, non l’Italia) nel pro-pugnare la diversità incolmabile del territorio, se non con un regime apposito, che dalle differenze avrebbe tratto la sua linfa vitale. I Savo-ia la vollero – e la ottennero, ma a tempo determinato – monarchica. D’Azeglio l’avrebbe sintetizzata in un rilancio dell’economia. Un inve-stimento sullo sviluppo, da realizzarsi attraverso programmi riformisti e lungimiranti.

È così paradossale l’unità del Risorgimento che concepirla unitaria-mente sarebbe impossibile, e ingiusto. Bisogna invece riconoscere – e difendere – la pluralità delle voci che ne parlarono, la moltitudine di penne che ne scrissero, le tante vite che per Lei si spensero e i tanti sacrifici che per Lei furono compiuti. Fu questo l’unità italiana: raggiun-ta attraverso la confluenza di strategie e tattiche diverse; un intreccio complesso di componenti moderate e rivoluzionarie. «Una combinazio-ne prodigiosa – per dirla con le parole del presidente Napolitano – che risultò vincente perché più forte delle tensioni anche aspre che l’attra-versarono». E se è vero che furono aspre queste tensioni, è vero anche che condussero ad un finale sorprendente: l’unificazione. Gli anni suc-cessivi, fino ai giorni nostri, ne hanno più volte messo in discussione la stabilità, a riprova del fatto che certe divergenze sono dure a morire. Ma anche questo è un pregio. Come ogni paradosso, in cui si cela la ric-

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chezza di opposti che si incontrano e convivono, anche quello dell’uni-tà italiana merita di essere celebrato ogni giorno.

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