0 Prospettive Di Morale Cristiana Citta Nuova Editrice Roma 1986 Con Schuermann y Balthasar (1)

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RATZINGER, J. - SCHÜRMANN, H., - BALTHASAR, H.U. von, Prospettive di Morale Cristiana, (Tr. di U. Brehme e M. Devena, Prinzipien Christlicher Moral, Johannes Verlag, Einsiedeln 1975), Città Nuova Editrice, Roma 1986. 0 CONTRIBUTI DI TEOLOGIA: collana di brevi saggi, a una o più voci, pensati come ipotesi di lavoro e tracce di approfondimento, sui temi più attuali della teologia nel suo dialogo irrinunciabile con la cultura contemporanea, nella gioiosa certezza che in Cristo ci è offerta la parola decisiva sul mistero di Dio e sulla storia dell'uomo. J. RATZINGER / H. SCHÜRMANN / H.U. von BALTHASAR PROSPETTIVE DI MORALE CRISTIANA Sul problema del contenuto e del fondamento dell'ethos cristiano città nuova editrice Titolo originale: Prinzipien Christlicher Moral © Johannes Verlag, Einsiedeln 1975 Traduzione dal tedesco di Uta Brehme e Mario Devena Grafica di copertina di György Szokoly © 1986, Città Nuova Editrice via degli Scipioni 265 - 00192 Roma Con approvazione ecclesiastica ISBN 88-311-3233-4 5 INDICE Prefazione..............pag. 7 La questione del valore obbligante delle valutazioni e degli insegnamenti neotestamentari - Un abbozzo (di Heinz Schürmann)....... » 9 Il problema.............. » 9 I. Il comportamento e la parola di Gesù come metro ultimo di valutazione etica..... » 14 1. Il comportamento di Gesù come esempio e metro dell'amore che serve e si dona..... » 16 2. La parola di Gesù come norma etica ultima .............. » 18 II. Il carattere obbligante delle valutazioni e degli insegnamenti apostolici e protocristiani . . » 21 1. Valutazioni e insegnamenti di tipo teologico/escatologico........ » 24 2. Valutazioni e insegnamenti particolari......... » 27 Riepilogo.............. » 33 Magistero ecclesiastico - Fede - Morale (di Joseph Ratzinger).............. » 37 6 1

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RATZINGER, J. - SCHÜRMANN, H., - BALTHASAR, H.U. von, Prospettive di Morale Cristiana, (Tr. di U. Brehme e M. Devena, Prinzipien Christlicher Moral, Johannes Verlag, Einsiedeln 1975), Città Nuova Editrice, Roma 1986.0CONTRIBUTI DI TEOLOGIA: collana di brevi saggi, a una o più voci, pensati come ipotesi di lavoro e tracce di approfondimento, sui temi più attuali della teologia nel suo dialogo irrinunciabile con la cultura contemporanea, nella gioiosa certezza che in Cristo ci è offerta la parola decisiva sul mistero di Dio e sulla storia dell'uomo.

J. RATZINGER / H. SCHÜRMANN / H.U. von BALTHASARPROSPETTIVE DI MORALE CRISTIANASul problema del contenuto e del fondamento dell'ethos cristianocittà nuova editrice

Titolo originale: Prinzipien Christlicher Moral© Johannes Verlag, Einsiedeln 1975Traduzione dal tedesco di Uta Brehme e Mario DevenaGrafica di copertina di György Szokoly© 1986, Città Nuova Editricevia degli Scipioni 265 - 00192 RomaCon approvazione ecclesiastica ISBN 88-311-3233-4

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INDICE

Prefazione..............pag. 7

La questione del valore obbligante delle valutazioni e degli insegnamenti neotestamentari - Un abbozzo (di Heinz Schürmann)....... » 9Il problema.............. » 9I. Il comportamento e la parola di Gesù come metro ultimo di valutazione etica..... » 14

1. Il comportamento di Gesù come esempio e metro dell'amore che serve e si dona..... » 162. La parola di Gesù come norma etica ultima .............. » 18

II. Il carattere obbligante delle valutazioni e degli insegnamenti apostolici e protocristiani . . » 211. Valutazioni e insegnamenti di tipo teologico/escatologico........ » 242. Valutazioni e insegnamenti particolari......... » 27

Riepilogo.............. » 33

Magistero ecclesiastico - Fede - Morale (di Joseph Ratzinger).............. » 37

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Quadro della problematica........ pag. 37Prime obiezioni............ » 42Tre esempi di interdipendenza tra fede e ethos...... » 44Fede - Morale - Magistero........ » 53

Nove tesi sull'etica cristiana (di Hans Urs von Balthasar).............. » 59Premessa .............. » 59I. Il compimento dell'etica in Cristo .... » 60

1. Cristo come norma concreta..... » 602. Universalità della norma concreta ...... » 633. Il senso cristiano della regola d'oro...... » 654. Il peccato........... » 66

II. Gli elementi veterotestamentari della sintesi futura.............. » 681. La promessa (Abramo)....... » 682. La legge............ » 70

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III. Frammenti di etica extrabiblica..... » 731. La coscienza morale ....... » 732. Ordine naturale prebiblico..... » 773. Etica antropologica postcristiana...... » 78

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PREFAZIONE

La questione relativa al contenuto e al fondamento dell'ethos cristiano va assumendo oggi un valore prioritario nella discussione teologica; in maniera più diretta di altri problemi, essa tocca il punto nevralgico della vita cristiana. Pertanto, la Commissione Teologica Internazionale, dopo anni di lavori preliminari, ha affrontato questa problematica durante la sua seduta del dicembre 1974. Dei molti contributi raccolti in quell'occasione, senza che fosse stato possibile tuttavia comparli in un insieme, qui di seguito ne sono stati pubblicati due di rilevanza fondamentale. Nella sua qualità di membro della Sottocommissione competente per le questioni morali, Heinz Schürmann ha lavorato per anni alla questione del contributo neotestamentario alla problematica etica. Fondate su questa ricerca, le sue tesi sul valore obbligante delle valutazioni e degli insegnamenti neotestamentari furono accettate in linea generale dalla Commissione dopo un approfondito dibattito. In nove tesi, Hans Urs von Balthasar traccia a grandi linee un quadro della morale cristiana, in cui la logica interna di quest'ultima si fa trasparente nell'ampio contesto della problematica antropologica e dei modelli fondamentali storici dell'ethos. Questo quadro tracciato da Balthasar fu accolto dalla Commissione come disegno orientativo. Il contributo di Joseph Ratzinger,

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pubblicato per la prima volta in una serie di articoli su L'Osservatore Romano, non e direttamente connesso al lavoro svolto dalla Commissione. Tuttavia, dal momento che esso sviluppa taluni aspetti tracciati negli altri due scritti, è sembrato utile includerlo in questo volume. Purtroppo, per i limiti che ci siamo imposti, non è stato possibile inserirvi altri lavori della Sottocommissione, diretta con grande impegno da mons. Philippe Delhaye.Gli Autori ai quali qui è stata data la parola — tutt'e tre non sono teologi moralisti —, sono ben consapevoli del carattere frammentario delle loro affermazioni, che non intendono in nessun modo ridurre a minor proporzione o addirittura vanificare l'ampia discussione specialistica. Le grandi questioni fondamentali della teologia, intanto, non si lasciano mai costringere nettamente nell'ambito di una disciplina; esse necessitano sempre della riflessione comune di tutte le parti: cosa sarebbe la dogmatica senza le obiezioni e senza gli apporti degli esegeti? Come potrebbe l'esegesi percorrere la sua via senza la riflessione filosofica e teologica sui principi fondamentali? Pertanto, gli Autori, contribuendo proprio dall'angolazione di altre discipline alla riflessione sulla problematica dei principi fondamentali della teologia morale, sperano di dare un loro apporto ad una questione che infine concerne la teologia nella sua interezza, anzi la fede nella sua interezza.

Pasqua 1975Gli Autori

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LA QUESTIONE DEL VALORE OBBLIGANTE DELLE VALUTAZIONI E DEGLI INSEGNAMENTI NEOTESTAMENTARI - UN ABBOZZO 1 di HEINZ SCHÜRMANN

IL PROBLEMA

Il Concilio Vaticano II ha «preparato la mensa della parola di Dio con maggiore abbondanza» e ha «aperto più largamente i tesori della Bibbia» 2; e le Sacre Scritture così diventano «parola di vita» («viva vox») quando, nelle omelie, «vengono presentati, dal testo sacro, i misteri della fede e le norme della vita cristiana» 3. Infatti: «Le Sacre Scritture contengono le parole di Dio e, perché ispirate, sono veramente parola di Dio». Pertanto, il «ministero della parola... si nutre con profitto e santamente vigoreggia con la parola della Scrittura» 4, dato che «nella parola di Dio poi è insita tanta efficacia e potenza, da essere sostegno e vigore della Chiesa, e per i figli della Chiesa saldezza della fede, cibo

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1 Le «tesi» qui brevemente commentate, ossia completate, furono sottoposte all'esame della Commissione Teologica Internazionale durante la seduta plenaria del dicembre 1974, e furono da essa approvate «in forma generica ut textus CTI». Da taluni contributi alla discussione e «modi» ho imparato con gratitudine; quanto ad altro, le «tesi» hanno qui subito soltanto trascurabili correzioni stilistiche.2 Sacrosanctum Concilium 51; cf. Dei Verbum 22.3 Ibid., 52; cf. Dei Verbum 24.4 Dei Verbum 24.

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dell'anima, sorgente pura e perenne della vita spirituale» 5. Ciò che delle Sacre Scritture «fu trasmesso dagli Apostoli, poi, comprende tutto quanto contribuisce alla condotta santa del Popolo di Dio e all'incremento della fede» 6. Alla luce di tale valutazione della Sacra Scrittura, che può definire quest'ultima «come l'anima di tutta la teologia» 7, si fa comprensibile l'insegnamento che invita a porre «speciale cura nel perfezionare la teologia morale», la cui esposizioneil Concilio desidera «maggiormente fondata sulla Sacra Scrittura» 8.Ora, alla teologia morale postconciliare, più dei compiti di orientamento ecclesiologico, sembrano stare a cuore compiti mondiali; più che di «illustrare la vocazione dei fedeli in Cristo», sembra stare a cuore di chiarire «il loro obbligo di apportare frutto nella carità per la vita del mondo» 9; più dell'«etica della comunità», sembra stare a cuore dunque il superamento morale dei problemi mondiali; di conseguenza, più della ricerca esegetica spirituale sembra starle a cuore l'elaborazione razionale di norme operative. Tuttavia, qui non si deve costruire nessuna antitesi, poiché la teologia morale può rifarsi anche per questi compiti mondiali al Vaticano II, che ha appunto indicato anche «gli aspetti missionari contenuti nelle discipline morali»10, per cui «l'apostolato» deve «tenere presenti le varie esigenze degli uomini: non solo spirituali e morali, ma anche quelle sociali, demografiche ed economiche»11. La Costituzione pastorale

5 Ibid., 21.6 Ibid., 8.7 Optatam totius 16; cf. Dei Verbum 24.8 Optatam totius 16.9 Ibid.10 Ad gentes 39.11 Christus Dominus 17.

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sulla Chiesa nel mondo contemporaneo insiste molto sulla necessità 12 di solidarizzare con l'odierna umanità nello sforzo di pervenire a utili valutazioni e insegnamenti nei diversi ambiti esistenziali, e non soltanto ricercando insegnamenti di carattere generale e di validità universale, bensì anche conseguendo norme giuste e operative e singole direttive concrete. Un simile ministero della teologia morale è davvero un'autentica missione apostolica e caritatevole. Ad essa, tuttavia, non è dato di lavorare precipuamente sulle proposizioni etiche delle Sacre Scritture, che poco o punto trattano molti dei problemi concreti che agitano l'umanità di oggi. Inoltre, se si constata che non solo «i libri del Vecchio Testamento... contengono cose imperfette e temporanee» 13, ma anche quelli neotestamentari (vedi più avanti), si pone senz'altro l'interrogativo: in quale misura compete alla Sacra Scrittura e in quale misura compete all'esperienza ovvero alla ragione etica di trovare ciò che è giusto, a livello generale e in particolare?Ora, i giudizi etici che, condizionati dal tempo e imperfetti, si riscontrano nelle Sacre Scritture, permettono la generalizzazione secondo cui sono tutti da sottoporre ad un esame razionale circa il loro valore obbligante permanente? Ciò non vale almeno per le valutazioni e gli insegnamenti di tali giudizi riferiti ad ambiti particolari, o almeno, in questi ambiti, per le norme operative e le singole direttive concrete? Non bisogna molto realisticamente ascrivere agli autori biblici un offuscamento, condizionato dal tempo, della coscienza morale, da un lato, e tenere conto della situazione storica in trasformazione, dall'altro; sicché né a

12 Gaudium et spes (passim).13 Dei Verbum 15.

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valutazioni etiche di ordine generale né a insegnamenti e direttive concreti è possibile rivendicare una validità permanente o addirittura assoluta? Tuttavia, se si fosse persuasi di una tale validità, non bisognerebbe affermare che insegnamenti, direttive e esortazioni biblici, al di là del loro tempo, hanno carattere obbligante soltanto come «paradigmi» o «modelli comportamentali»? Infine, la decisione di ordine etico sarebbe dunque soggetta all'esperienza umana e alla ragione etica, non già alle affermazioni della Sacra Scrittura? Simili questioni che, ovviamente, qui non è possibile definire, e alle quali tuttavia, al più, è possibile contribuire con alcuni punti di vista 14, vanno tenute senz'altro nel massimo conto.La questione del valore obbligante e delle modalità di tale valore obbligante inerente alle valutazioni e agli insegnamenti biblici è, in definitiva, una questione dell'ermeneutica della teologia morale. Questa comprende però il problema esegetico relativo al tipo di valore obbligante che le Scritture bibliche si attribuiscono ovvero esprimono.

14 Qui si può solo accennare alle motivazioni neotestamentarie. Per maggiori particolari cf. I.H. Schürmann, Die Gemeinde des Neuen Bundes als der Quellenort des sittlichen Erkennens nach Paulus, «Catholica», 26 (1972), pp. 15-37; II. Id., Das Gesetz des Christus (Gal 6, 2). Jesu Verhalten una Wort als letzgultige sittliche Norm nach Paulus, in Neues Testament una Kirche (pubblicazione celebrativa per R. Schnackenburg), Freiburg-Basel-Wien 1974, anche (ampliata) in Id., Jesu ureigener Tod. Exegetische Besinnungen una Ausblicke, Freiburg 1974, pp. 97-120; III. Id., Haben die paulinischen Wertungen una Weisungen Modellcharakter? Beobachtungen una Anmerkungen zur Frage nach ihrer formalen Eigenart una inhaltlichen Verbindlichkeit, «Gregorianum», 56 (1975), pp. 237-271.

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Anche «i libri del Vecchio Testamento... divinamente ispirati, conservano valore perenne...» (Rm 15, 4) 15. Dio sapientemente dispose,«che il Nuovo (Testamento) fosse nascosto nel Vecchio e che il Vecchio diventasse chiaro nel Nuovo (Augustinus, Quaest. in Hept. 2, 73: PL 34, 623)» 16. Qui di seguito ci limiteremo agli scritti della Nuova Alleanza, dato che «i libri del Vecchio Testamento, integralmente assunti nella predicazione evangelica, ricevono e manifestano il loro pieno significato nel Nuovo Testamento» 17, e dato che, di conseguenza, la questione relativa al valore obbligante delle valutazioni e degli insegnamenti biblici va posta alla luce degli scritti neotestamentari. — Ovviamente, andrebbe considerato che gli scritti neotestamentari, ad onta della sorprendente diversità delle loro concezioni etiche (ad es., quella di Paolo, di Giovanni, di Matteo, di Giacomo ecc.), hanno tuttavia molto in comune riguardo al nostro quesito e si fondano su una diffusa tradizione protocristiana. Dato che, notoriamente, la problematica etica è già riflessa nel pensiero paolino in una maniera particolare, in seguito la nostra questione potrà essere esemplificata innanzi tutto in base alle valutazioni e agli insegnamenti paolini.Gli scritti neotestamentari possono rivendicare un particolare carattere normativo, perché in essi è riflesso il giudizio etico della «Chiesa delle origini», la quale, come «Chiesa in divenire», fu destinataria della rivelazione (cf. Ef 2, 20 con 3, 5) e fu improntata in modo eccezionale allo Spirito del Signore innalzato che ispira e aspira (cf. At 11, 15). «La predicazione apostolica è espressa in modo

15 Dei Verbum 14. 16 Ibid., 16. 17 Ibid., 16.

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speciale nei libri ispirati» 18; tuttavia, gli apostoli «tramandarono ciò che avevano ricevuto» a loro volta (cf. Eh 2, 3) dalla tradizione delle comunità protocristiane e, infine, dal Signore stesso.Nelle valutazioni e negli insegnamenti neotestamentari possiamo distinguere con Paolo (cf. 1 Cor 7, 10.25 con 7, 12.40) due tipi di insegnamento: I) Il comportamento e la parola di Gesù, come tipo di insegnamento etico infine obbligante — visti alla luce postpasquale del Signore innalzato —, determinarono II) le valutazioni e gli insegnamenti degli apostoli e di altri pneumatici protocristiani nonché le diverse tradizioni delle comunità protocristiane. Su questa distinzione paolina è tracciata l'impostazione delle argomentazioni che seguono.

I. IL COMPORTAMENTO E LA PAROLA DI GESÙ COME METRO ULTIMO DI VALUTAZIONE ETICA

Per gli autori neotestamentari, il comportamento e la parola di Gesù rappresentano il metro determinante di valutazione e la norma etica ultima; rappresentano la «legge di Cristo» (Gal 6, 2) «iscritta» (ci. 1 Cor 9, 21)

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nei cuori dei credenti. Per gli autori neotestamentari, gli insegnamenti prepasquali di Gesù si inseriscono in maniera determinante nel contesto del valore obbligante — e quindi dell'invito all'imitazione — quale risulta dal comportamento del Gesù terreno e più ancora da quello del preesistente Figlio di Dio.Il comportamento obbligante di Gesù, visto alla luce della sua parola, ha, come «legge di Cristo» (Gal 6, 2),

18 Ibid., 8.

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carattere di insegnamento ultimo, pertanto da qui derivano «gli stessi sentimenti ad esempio di Cristo Gesù» (Rm 15, 5), i «sentimenti che furono in Cristo Gesù» (Fil 2, 5). «In Gesù Cristo», tuttavia, la «legge» eteronoma si fa «legge-metro» autonoma: Il credente è colui nel quale è «iscritta» la legge di Cristo (cf. 1 Cor 9, 21), colui che possiede il «pensiero di Cristo» (1 Cor 2, 16), perché la «verità di Cristo» è in lui (2 Cor 11,10). I singoli scritti neotestamentari pongono tuttavia in modo alquanto differente l'accento su kerygma e insegnamento, sulle affermazioni indicative e imperative.Negli scritti neotestamentari, la parenesi è in qualche modo sempre nell'ambito — o comunque nell'ottica — di formule di fede cristologiche (cf. solo Fil 2, 6-11; Rm 15, 1-5). Già il comportamento prepasquale di Gesù diventa intelligibile in ultimo soltanto alla luce della sua parola; per contro gli insegnamenti prepasquali di Gesù vanno compresi alla luce del suo comportamento prepasquale: dall'angolazione della sua consapevolezza — che determina il suo comportamento e le sue opere — di essere il «Venuto» e il «Figlio», il «Figlio venuto», si fa comprensibile il suo annuncio della «vicinanza» del Regno di Dio cosi come l'indicazione dell'amore del Padre che è in cerca dei peccatori. Gli scritti postpasquali, anche quando pongono l'accento ora più sulla parola che esorta di Gesù (cosi i Vangeli sinottici, le fonti scritte sinottiche) ora più sugli insegnamenti apostolici (ad es., la Lettera di Giacomo, le lettere pastorali), fanno rientrare questi nell'ambito dell'invito a seguire e a imitare il «Venuto» con autorità, il «Figlio» ovvero il «Christos» crocifisso e risorto. Paolo, Pietro nella sua prima lettera e (diversamente) Giovanni si sentono di sottolineare il comportamento esemplare di Gesù a tal segno da includere e ricordare gli insegnamenti etici di Gesù solo come secon-

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dari. — È opportuno considerare separatamente (1.) il comportamento di Gesù e (2.) la parola di Gesù.

1. Il comportamento di Gesù come esempio e metro dell'amore che serve e si dona

Negli scritti neotestamentari, il comportamento di Gesù viene definito infine come amore che serve e che si dona «per noi», come amore che si impegna «pro-esistente», che palesa in maniera escatologica l'impegno «pro-esistente» di Dio «per noi» (ad es., 5, 8; 8, 31 ss. e Gv 3, 16; 1 Gv 4, 9). L'accoglienza e l'accettazione per fede di questo amore escatologico di Dio, amore che si fa donare, e l'imitazione di tale amore nella vita con Cristo e in Cristo debbono determinare fondamentalmente la vita morale dei credenti.Già sinotticamente la venuta di Gesù, la sua vita e le opere sono intese come servizio (Le 22, 27 s.), che raggiunge l'acme nella donazione della vita (Me 10, 45). Dalla concezione prepaolina e paolina, questo amore viene interpretato in termini di kenosis, come un amore che trova il «compimento» (Gv 19, 28.30) nell'incarnazione e nella morte di croce del «Figlio» (cf. Fil 2, 6 ss.; 2 Cor 8, 9); dalla concezione giovannea, nella «discesa» del «Figlio dell'uomo» in incarnazione e morte (Gv 6, 41 s. 48-51 e altrove), nel servizio della morte che purifica (Gv 13, 1-11) come compimento dell'«opera» di Gesù (Gv 17, 4; cf. 4, 34) 19.a) Negli scritti neotestamentari — in particolare in Paolo e in Giovanni —, l'invito all'amore più che dalla

19 Cf. al riguardo il II. scritto citato nella n. 14.

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sua impronta escatologica, deriva la sua motivazione, e con questa anche la sua proprietà, la sua radicalità che travolge se stesso, e forse addirittura un contenuto specifico; deriva la sua motivazione dal comportamento del Figlio ovvero del Figlio dell'uomo che spogliò se stesso (Paolo) ovvero discese (Giovanni), tanto più che questo amore che si da dentro nell'esistenza umana e nella morte rappresenta e illustra l'amore di Dio.L'invito all'amore neotestamentario deriva senz'altro la sua proprietà e radicalità dall'escatologia, in quanto

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questa — in particolare nell'annuncio prepasquale di Gesù — definisce la vita cristiana motivandola alla luce del futuro. Infine deriva proprietà e radicalità dal fatto che l'eschaton ha avuto ormai il suo avvento con la venuta di Gesù, e definitivamente nella morte e risurrezione di Gesù. Ed è la stessa imitazione amorevole di servizio di Gesù, di vita e morte, da parte dei discepoli di Gesù a dover essere intesa come l'avvento dell'eschaton.Dal momento che l'amore di Dio, che si rivela nell'incarnazione e morte di Gesù, viene descritto — in particolare per mezzo di Paolo e di Giovanni — nella sua diversità qualitativa, poiché non è possibile renderlo intelligibile soltanto come rinuncia umana di sé o come «umiltà», la pretesa imitazione di tale amore 20 e l'associazione e la conformità con il Crocifisso 21 risulteranno un singolare postulato dell'etica neotestamentaria. Non è certo un'etica secolare, e difficilmente un'etica trascendentale-religiosa al

20 Cf. Fil 1, 3 ss.; 2 Cor 8, 9; Rm 15, 2 s. 7; Col 3, 13; Ef 5, 1 s.; Eb 12, 1 s.; 13, 11 s.; 1 Gv 3, 16.21 Cf. ad es. Mc 8, 34 ss.; 9, 33-37; Fil 3, 10; Gal 6, 14; 2 Cor 12, 10; 1 Pt 2, 22-25.

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di fuori del cristianesimo, a poter rendere comprensibile questo amore come actus humanus cui aspirare moralmente, e tanto meno a poterlo raggiungere praticamente.b) La sequela e l'imitazione di Gesù, l'«associazione» all'Incarnato e Crocifisso e la vita del battezzato in Cristo definiscono, al di là del precetto dell'amore, in maniera distintiva, il concreto comportamento umano-etico dei credenti nel mondo.L'intero comportamento etico dei credenti deriva — in cerchi che si allargano — la sua proprietà dal proprium cristologico menzionato: da qui diventano comprensibili: il precetto della rinuncia di sé fino al martirio (cf. Mc 8, 35 e altrove), il precetto di amare il nemico (cf. solo Mt 5, 43-47), quello della rinuncia alla giustizia (cf. ad es. 1 Cor 6, 1-8), la rinuncia al divorzio (Mc 10, 2-12; 1 Cor 1, 10 s.). Da qui sono resi possibili e improntati in maniera distintiva anche il comportamento distaccato, da un lato, impegnato nel mondo, dall'altro (cf. 1 Cor 1, 29 ss.), le rinunce e la povertà volontarie (cf. solo 2 Cor 6, 4-10), l'abbandono della famiglia (Lc 14, 26), il celibato (cf. Mt 19, 12; 1 Cor 7). L'intero comportamento etico del credente è infine definito e radicalizzato in maniera distintiva da questa realtà centrale.

2. La parola di Gesù come norma etica ultima

Le parole del Signore spiegano il comportamento amorevole di Gesù, del Venuto e Crocifisso; senza di esse, tale amore non sarebbe intelligibile. Tuttavia, è anche vero che le parole del Signore chiedono di essere interpretate alla luce del comportamento prepasquale di Gesù, in definitiva

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alla luce del mistero dell'incarnazione e della Pasqua (v.s.). Alla luce di questo duplice mistero, le parole del Signore «ricordate» dallo Spinto (cf. Gv 14, 26) sono la norma ultima del comportamento etico dei credenti, come afferma esplicitamente Paolo, 1 Cor 7, 10 s. 25, e come mettono in rilievo già le tradizioni presinottiche e i Vangeli, quando danno alle comunità e ai credenti l'ordinamento di vita e di comunità sotto forma di «discorsi di Gesù», del «Venuto» e del «Sacrificato», e quindi con assoluto valore obbligante.Già le parole di Gesù pronunciate prima della Pasqua ricevono spesso luce dal suo comportamento, e d'altronde il suo comportamento va inteso alla luce delle sue parole, come ci è stato già dato di comprendere più sopra. Tuttavia, poiché il comportamento di Gesù giunse a compimento soltanto nel suo «andarsene», nella sua morte e nella sua risurrezione (innalzamento), le parole del Signore sono pienamente intelligibili soltanto dopo la Pasqua (Gv 3, 11 s.). Pertanto, esse sono considerate come normative nella forma — spesso adattata alla situazione nuova — in cui la Chiesa dell'era apostolica le tramanda negli scritti neotestamentari, ossia in quegli scritti in cui sono state «trasformate» dallo Spirito del Signore innalzato (cf. Gv 14, 25 s.; 16, 13 ss.).a) Se le parole di Gesù sono valutate come la norma etica ultima, bisogna che si tenga conto anche del loro carattere letterario: come genere letterario, la maggior parte delle parole di Gesù non vuole essere intesa intrinsecamente come «leggi»; talune parole si configurano chiaramente come modelli comportamentali, sono dunque intese in modo paradigmatico.Il genere della metafora (cf. Lc 6, 41 s.), parole esempli-

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ficative casistiche (cf. Lc 6, 25 s.) o parole legali formulate in modo paradossale o esasperato (cf. Mt 5, 21 s. 27 s. 23-34a.37) fanno trasparire qua e là il «carattere paradigmatico» delle parole di Gesù. Gran parte delle parole del Signore argomenta e motiva nel senso della sapienza etico-religiosa.b) Al di là di quanto si è detto sopra, bisogna chiedersi se esistano mai parole del Signore che — nell'accezione rabbinica — debbano intendersi come «leggi». L'allievo rabbino Paolo comunque non le comprende come tali; verosimilmente, -perché sostanzialmente le interpreta alla luce dello «spogliarsi» e dell'«abbassarsi» amorevoli di Gesù (v.s.). Nelle due occasioni in cui cita esplicitamente insegnamenti di Gesù (cf. Lc 10, 7b par. e Mc 10, 11 s. parr.), egli consiglia di osservare — in una situazione diversa o più difficile — gli insegnamenti di Gesù non al modo tardo ebraico legalisticamente, bensì secondo le intenzioni ossia approssimativamente (cf. 1 Cor 9, 14, da un lato; 7, 12-16, dall'altro 22).Lc 10, 7b par. Paolo non lo comprende come precetto da adempiere, ma, in adeguamento alle situazioni diverse, come «permesso» (diversamente ad es. anche Luca, Lc 22, 35-38). Il precetto di Gesù ha un significato obbligante solo intenzionale, che tenga conto dello spirito del precetto. — Quanto al divieto di separazione dei coniugi (Me 10, 11 s. parr.), egli consiglia in 1 Cor 7, 10.25 (40) — evidentemente nel caso di una separazione già avvenuta — di attenervisi almeno approssimativamente (se non altro, niente nuove nozze!). Nel caso in cui l'uomo non credente vi insista, Paolo

22 Cf. il III. scritto citato nella nota 14 (ivi, in particolare, la parte conclusiva di II, 2b ss.).

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in 1 Cor 7, 12-16 concede, ad onta di Mc 10, 11 s., la separazione dei coniugi; esige dunque anche qui solo un'osservanza approssimativa — conforme alla situazione —; cosi come, anche se diversamente, Matteo, il quale trasforma l'appello etico di Gesù in una norma per la comunità e sembra conoscere, con la «clausola del concubinato» (Mt 5, 32; 19, 9), concessioni sul piano giuridico. (Se questi esempi documentano di un'autorità dell'era apostolica o anche di quella della Chiesa postapostolica o di singoli cristiani, l'esegeta non è in grado di deciderlo con i mezzi a sua disposizione).

II. IL CARATTERE OBBLIGANTE DELLE VALUTAZIONI E DEGLI INSEGNAMENTI APOSTOLICI E PROTOCRISTIANI

Gli scritti neotestamentari derivano il loro carattere obbligante, oltre che dal comportamento e dalla parola di Gesù, anche dal fatto che in essi sono riflessi il comportamento e la parola degli apostoli e di altri pneumatici protocristiani, nonché il modo di vita e la tradizione delle comunità del primo periodo della Chiesa, normativo sotto molti aspetti (v.s.), in quanto e per quanto la «Chiesa delle origini» veniva ancora edificata e improntata dallo Spirito del Signore innalzato. A ciò bisogna dare rilievo, anche se non si deve ignorare che «lo Spirito di verità guiderà alla verità tutta intera» i discepoli anche successivamente (Gv 16, 13) — promessa che varrà in modo particolare per la conoscenza etica.Infine, la tradizione apostolica normativa deriva il suo valore obbligante dal fatto che in essa è stato «accolto» il

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«Kyrios Christus Jesus» (Col 2, 6) e il suo modo di vita viene continuato — non solo a parole, ma anche nella vita vissuta (cosi 1 Ts 2, 13; 1 Cor 15, 2 e altrove) 23: dal fatto che in essa si «impara a conoscere Cristo» (Ef 4, 20 s.). E la parola degli apostoli e la tradizione delle comunità -in particolare misura della «Chiesa in divenire» — sono sorrette dallo Spirito del Signore innalzato (cf. solo 2 Cor 3, 1-18) 24. Nell'annuncio del Kyrios, egli rivela se stesso (2 Cor 4, 5 s. e altrove); nella sua parola, egli è «vicino» (cf. Rm 10, 5-8a).In particolare, poi, nel comportamento (cf. 1 Ts 2, 11 s.; 1 Cor 4, 14 ss. e altrove) e nella parola degli apostoli rifulse lo «splendore di Cristo» (2 Cor 4, 4), che opera e parla per mezzo di essi (2 Cor 3, 1 ss.; Rm 15, 18), sicché la loro parola potè diventare la «parola di Dio» (1 Ts 2, 13). Paolo ammonisce «da ambasciatore di Cristo» (2 Cor 5, 20), «esorta» (1 Ts 4, 10 s.), «da istruzioni» (1 Cor 7, 17 e altrove) «come il Signore» (1 Cor 9, 14), perché «indica le vie in Cristo» (1 Cor 4,17). Sebbene negli scritti neotestamentari gli apostoli siano presentati anche alla stregua di altri pneumatici, essi sono tuttavia esplicitamente posti in primo piano (cf. solo 1 Cor 12, 28 s.; Ef 4,11), sicché perfino gli scritti pseudoepigrafici — tradizioni apostoliche, ma anche apocrife — si richiamarono in tempi successivi alla loro autorità.

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La teologia dell'Epistola agli Efesini associa strettamente i «profeti» con gli «apostoli» perché hanno ricevuto la rivelazione (Ef 3, 5; cf. Ef 3, 3) e in quanto sono ministeri di fondazione (cf. Ef 2, 20) della «Chiesa in divenire», un'associazione, questa, che riflette un'antica tradizione (cf.

23 Cf. 1 Ts 1, 6; Fil 2, 6-11; 3, 18; Rm 15, 1-5.24 Per maggiori particolari cf. il III. scritto citato nella n. 14.

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solo 1 Cor 12, 28 s.; Ef 4, 11). Accanto all'apostolato, nella Chiesa delle origini esisteva inoltre — in misura più forte e con il carattere normativo universale degli inizi — il carisma della profezia (cf. 1 Ts 5, 20; 1 Cor 12, 20 e altrove) e della «ricezione della rivelazione» (1 Cor 14, 6.26; cf. 1 Cor 14, 30; 2 Cor 12, 1; Ef 1, 17).La cristianità primitiva elenca tra i carismi, oltre ai ministeri riportati, anche il dono del «linguaggio della sapienza» (1 Cor 12, 8; Ef 1, 17; 1 Cor 2, 6 s. e altrove) e della «gnosi» (1 Cor 12, 8; 13, 8 e altrove), anche la capacità della «correzione» reciproca (Rm 15, 14 e altrove), e poi, fondato su tali carismi, il ministero della «dottrina» (1 Cor 14, 6.26; cf. 12, 28; Rm 12, 7 e altrove). Le valutazioni e gli insegnamenti della Chiesa primitiva non sono dunque per niente improntati unicamente ai doni degli «apostoli e profeti» (cf. solo 1 Cor 12, 28 ss.; Rm 12, 6 s.); in modo più o meno istituzionalizzato, accanto ad essi troviamo i «maestri» (cf. 1 Cor 12, 28; Gal 1, 12; 6, 6), successivamente «pastori e maestri» (Ef 4, 11), i quali tuttavia possono «istruire» soltanto coloro che già «conoscono Dio» (1 Ts 4, 9 secondo Ger 31, 34). Tutti questi carismi modellarono le tradizioni delle comunità; le loro esperienze e la loro parola diventano infine un «tipo di insegnamento» (Rm 6, 17b) e «logoi» catechetici (cf. Lc 1, 4; 1 Tm 1, 15; 3, 1 e altrove). E da notare che la rivendicazione di essere obbligante e il carattere obbligante delle singole valutazioni e insegnamenti protocristiani si differenziano moltissimo per forma e contenuto. In gran parte, tali insegnamenti hanno un fine praticamente pastorale. Se volessimo valutare il carattere etico obbligante della paradosi protocristiana, cosi come questo carattere si riflette negli scritti neotestamentari, faremmo bene a distinguere 1) valutazioni e insegnamenti di tipo teologico/escatologico, che descrivono il comporta-

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mento, adeguato a situazioni e fatti, nei confronti del Dio che, in Cristo, si rivela escatologicamente e che opera la salvezza dell'uomo, da 2) valutazioni e insegnamenti «particolari» che si riferiscono a differenti ambiti della vita e del mondo 25, dato che, nella distinzione, la questione del valore obbligante si pone in termini diversi.

1. Valutazioni e insegnamenti di tipo teologico/escatologico

Negli scritti neotestamentari, l'interesse principale parenetico e, corrispondentemente, l'accento (per intensità e frequenza) sono posti sulle valutazioni e sugli insegnamenti — per lo più generali e non concreti — che, in risposta all'amore escatologico di Dio in Cristo 26, esigono una donazione amorevole totale: il (duplice) comandamento per eccellenza (cf. Mc 12, 28-34 parr.) che riguarda l'amore per Dio (ossia per Cristo) e — a questo strettamente connesso — l'amore per il prossimo. Un comportamento adeguato a fatti

25 Noi evitiamo qui la distinzione sempre più usata in insegnamenti «trascendentali» e «categoriali» (per eludere il fraintendimento per cui si accosta alla fattispecie una determinata filosofia). Né parliamo di insegnamenti «formali» e «materiali» (dato che anche esortazioni e precetti possono rimanere generali, e in questo senso «formali»); né infine distinguiamo tra «ethos salvifico» e «ethos mondano», poiché anche l'agire mondano assume significato nella salvezza.26 S'intende che, secondo il Nuovo Testamento, orientamento e motivazione teologici e escatologici possono essere considerati sempre solo nella correlazione «centrata»; tuttavia, vogliamo menzionarli l'uno accanto all'altra — sottolineandone la correlazione — perché rimanga chiaro ciò che vale per la maggior parte degli insegnamenti neotestamentari: nei, con e tra i motivi etici «escatologici» esistono anche motivi «teologici» che non radicano solo a livello funzionale, ma, in ultimo, a livello personale-ontico.

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e situazioni, che voglia essere all'altezza dell'ora escatologica, e, in essa, dell'amore escatologico di Dio, ossia dell'opera salvifica di Cristo, nonché della propria condizione di battezzato, ha il suo centro in quell'amore che risponde verticalmente e orizzontalmente.Chi volesse negare il valore obbligante universale di dette esortazioni e imperativi (di carattere generale)

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degli scritti neotestamentari, verrebbe a relativizzare il messaggio salvifico neotestamentario, sul quale si fonda la parenesi: messaggio secondo il quale, nell'incarnazione (cf. Gv 1, 14 s.) e nell'«una volta per tutte» della morte di Gesù (cf. Rm 6, 10; Eb 7, 27; 9, 12; 10, 10), l'eschaton è irrevocabilmente entrato di forza nella storia e nel mondo e, quale rivelazione escatologica dell'amore di Dio, opera e esige risposta amorevole dell'uomo.a) Gran parte delle esortazioni e degli imperativi contenuti negli scritti neotestamentari invitano ad avere, credendo e amando, nei confronti dell'avvento della salvezza escatologica — rispettivamente nell'opera salvifica di Cristo e nel proprio battesimo — un comportamento adeguato a fatti e situazioni. Altre esortazioni e imperativi invitano a lasciarsi determinare dalla vicinanza del regno, ossia dalla parusia, sperando, vigilando, essendo sempre pronti.Già nell'annuncio di Gesù a noi sembrava (v.s.) che l'esortazione etica, più che giustificata dalla vicinanza della fine, fosse motivata dall'avvento dell'eschaton nella donazione salvifica di Dio in Gesù (cf. solo Lc 11, 20; Mt 18, 23-34; Lc 7, 36-47). Ciò vale chiaramente per Paolo, Giovanni e per gli autori neotestamentari successivi: innanzi tutto l'anamnesi dell'opera salvifica di Cristo (cf. Fil 2, 6 ss.; 1

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Cor 14, 7 s. 15; 2 Cor 8, 9; Rm 12, 1) e il ricordarsi dello stato battesimale (cf. solo Rm 6, 1-23; 2 Cor 6, 14-7, 1; Col 3,1 ss.; cf. 1 Pt 1, 3-4.11) giustificano e motivano l'imperativo etico.b) L'anima di tutte le esortazioni e imperativi di tipo teologico/escatologico è l'amore che — in risposta all'amore escatologico ricevuto da Dio — reagisce verticalmente e orizzontalmente, o meglio: che — strutturato per incarnarsi — riconosce Dio nel prossimo e il prossimo in Dio. Il precetto centrale degli scritti neotestamentari è — in altre parole — l'esortazione alla donazione totale esatta dall'amore per Cristo o per Dio. Questo precetto rivendica — come comando ultimo — un valore obbligante assoluto.Il teocentrismo incomparabilmente radicale di Gesù deriva la sua motivazione in definitiva dall'esperienza della bontà assoluta e della signoria assoluta di Dio, che si rivelano con l'avvento dell'eschaton. — Dopo la Pasqua, la parola salvifica di Dio, che esige risposta, si fa particolarmente chiara nella morte e risurrezione di Gesù, sicché in Paolo — e non sarà un caso — il comando dell'amore per Cristo (ad es. 1 Cor 16, 22; 2 Cor 5, 14 ss.; Rm 14, 7 ss.; cf. Ef 6, 24) acquista spazio maggiore che quello dell'amore per Dio (esplicitamente solo 1 Cor 2, 9; 8, 3; Rm 8, 28). Il precetto della donazione totale — diversamente formulato nei vari scritti neotestamentari — è l'orizzonte di tutte le proposizioni etiche del Nuovo Testamento.Con particolare frequenza, tuttavia, negli scritti neotestamentari ricorre — sempre diversamente articolato — il comandamento dell'amore per il prossimo ossia dell'amore per il fratello, spesso con il rimando al comportamento del

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Figlio di Dio (ad es. Fil 2, 6 ss.; 2 Cor 8, 9 e altrove) o all'amore di Dio (cf. solo 1 Gv 4, 11 e altrove). Il precetto dell'amore rivendica di essere «la legge di Cristo» (Gal 6, 2), il «comandamento nuovo» (Gv 13, 34; 15, 12; 1 Gv 2, 7 s.), e rivendica quindi — comunque per quanto esso rimane generale e indeterminato — il diritto all'adempimento assoluto.Nel comandamento dell'amore è appunto «riassunta» (Rm 13, 8 ss.), «trova la sua pienezza» (Gal 5, 14) la legge del Vecchio Testamento, ossia questa è «concentrata» in esso e «intenzionalizzata» in esso (cf. Mt 7, 12; 22, 40). Questo comandamento ha dunque valore effettivo e incondizionato come rivelano la Thorà di Mosè, la stessa terminologia «la legge di Cristo», «il comandamento nuovo» — anche se qui il concetto di legge sarà paradossalmente esasperato e quindi in definitiva sarà vanificato (cosi come il comportamento del «Figlio»: il suo amore che s'abbassa e si spoglia, va al di là dell'uomo e delle sue «leggi»; v.s.).

2. Valutazioni e insegnamenti particolari

Quanto alle valutazoni e agli insegnamenti teologici/escatologici prima citati, se ne trovano negli scritti neotestamentari anche di quelli che si riferiscono a singoli ambiti particolari del mondo e della vita o a determinate azioni singole, e che in un certo qual senso — certo in modo alquanto differente — possono ugualmente rivendicare il valore obbligante permanente. — A questo riguardo sembra opportuno scandagliare e distinguere i molti «insegnamenti spirituali» degli scritti neotestamentari da quelli «etici» in senso più stretto (v.a.), senza che tuttavia sia possibile sempre una netta distinzione.

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Nelle valutazioni e negli insegnamenti particolari — anche se in misura diversa — è presente un giudizio «misto»: già nelle valutazioni e negli atteggiamenti generali il rilevamento dei relativi ambiti del mondo e della vita può essere fatto in modo insufficiente — in proporzioni sbagliate, in parte sottovalutandoli, in parte sopravvalutandoli —; e per questa ragione, o per altre, l'ottica di valutazione può rimanere condizionata dal tempo e dall'ambiente. Nelle valutazioni e negli insegnamenti concreti, poi, non soltanto il giudizio di valore può essere offuscato nella maniera indicata; nella formulazione di norme operative o nelle direttive relative ad azioni concrete singole è possibile inoltre giudicare in maniera errata il dato di fatto concreto e la situazione storica. Nelle valutazioni e negli insegnamenti particolari, giudizi di valore condizionati dal tempo e un insufficiente inquadramento del mondo e della vita o del dato di fatto concreto e della situazione possono codeterminare le proposizioni degli autori biblici, sicché, dinanzi a situazioni storiche mutate, occorrerà eventualmente valutare o giudicare in maniera diversa. In simili casi, di un carattere obbligante «permanente» si può parlare solo in senso analogico o approssimativo, solo adattivamente o intenzionalmente. In tutti gli ambiti particolari, l'esegeta non può decidere da solo il tipo di valore obbligante che si continua, dal momento che il giudizio su dato di fatto e situazione può formarsi solo nel dialogo con altre discipline teologiche e non teologiche.a) Non si può non notare la natura fortemente «spirituale» di gran parte, delle valutazioni e degli insegnamenti particolari, che, come tali, intendono definire la vita di comunità. Infatti, le valutazioni e gli insegnamenti neotestamentari trattano in larga misura di «etica di comunità

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fraterna». Le esortazioni alla gioia (Fil 3, 1; Rm 12, 15), alla preghiera incessante (cf. 1 Ts 5, 17), al rendere grazie (1 Ts 5, 18; Col 3, 17), alla «stoltezza» (1 Cor 3, 18 ss.), all'impassibilità (I Cor 7, 29 ss.) sono certamente precetti cristiani ultimi permanenti ovvero «frutti dello Spirito» (cf. Gal 5, 22); altre esortazioni sono di «consiglio» (ad es. 1 Cor 7, 17.27 ss.). Le une e le altre specificano in modo particolare l'esortazione fondamentale: «Siate ricolmi dello Spirito» (Ef 5, 18) e: «Camminate secondo lo Spirito» (Gal 5,16). — Negli scritti neotestamentari, questi «insegnamenti spirituali» hanno una forte accentuazione; là dove sono formulati in termini generali, difficilmente è possibile mettere in questione il loro carattere obbligante permanente, né è possibile ridurre la loro rilevanza nemmeno con religiosità mondana positiva e con l'ethos dell'impegno.Taluni di questi insegnamenti spirituali sono però formulati alquanto concretamente e non sono più osservabili al modo proposto nelle situazioni delle comunità del XX secolo (cf. solo alcuni punti in 1 Cor cc. 7-14; Col 3, 16; Ef 5, 19). Tuttavia, anche a siffatti insegnamenti e direttive non si dovrebbe attribuire precipitosamente carattere paradigmatico e farne modelli d'azione; si dovrebbe piuttosto chiedersi seriamente se ancora oggi possono essere osservati in maniera analogica o approssimativa, adattivamente o intenzionalmente.b) Tra le esortazioni e gli insegnamenti «etici» in senso più stretto, è possibile individuare innanzi tutto il gran numero di atteggiamenti e azioni sociali, nei quali l'amore del prossimo si storicizza e concretizza, e che è possibile distinguere da altri atteggiamenti e azioni particolari, sebbene anche qui non sia possibile una distinzione netta. L'amore

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del prossimo può incorporarsi — dentro in atteggiamenti e azioni sociali — in tanti modi quanti richiede la convivenza quotidiana degli uomini: L'amore è paziente, è benigno, tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta; esso non è invidioso, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell'ingiustizia (cf. 1 Cor 13, 4-7; cf. anche 1 Ts 5, 14 s.; Col 3, 12 s. e altrove). Poiché questi e simili comportamenti «sociali» sono particolarmente vicini al comandamento dell'amore (v.s.), poiché il cristiano è inoltre battezzato-dentro in una confraternita cristiana, ed è, per natura, un essere sociale che dovrà sempre convivere con uomini imperfetti, simili proposizioni non perderanno in nulla di significato e di intenzione obbligante.Là dove poi il comandamento dell'amore «prende corpo» in norme operative e singole direttive concrete, bisogna esaminare se e in che maniera non solo le valutazioni condizionate dal tempo, ma anche particolari situazioni storiche incidano sul precetto fondamentale, sicché in una situazione mutata non si potrà pretendere che un'osservanza analogica ossia approssimativa, adattiva o intenzionale. Non lo si può ignorare: talune delle esortazioni paoline sono profondamente determinate da situazioni particolari della «Chiesa ancora in divenire»; in termini ancora più concreti: esse si fondano su situazioni delle comunità del tempo

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27, oppure esse sono concretamente influenzate anche da valutazioni condizionate dal momento 28. L'ermeneutica della teo-

27 Cf. 1 Cor 4, 1-13; 10, 23-11, 1; Rm 14, 1-15, 6.28 1 Cor 7, 1-7; Col 3, 19; cf. Ef 5, 25-30, anche Col 3, 22 s.; Fm.

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logia morale deve chiedere come sarebbe possibile oggi formulare la loro rivendicazione di validità.Oltre agli atteggiamenti e alle azioni «sociali» indicati, negli scritti neotestamentari sono contenuti anche valutazioni e insegnamenti etici che si riferiscono primariamente ad altri ambiti esistenziali particolari, sebbene anche questi si collochino — più o meno — nel contesto dei precetti d'amore. Quanto a valutazioni e norme d'azione etiche o a singole direttive concrete, si dovrà considerare in quale maniera possano essere motivate alla luce di postulati teologici ossia escatologici, del precetto dell'amore o anche di fondamentali postulati etici con valore generale obbligante; e si dovrà considerare anche quale «posto nella vita» delle comunità esse hanno, quando si intende approfondire il loro carattere obbligante. A questo riguardo, non si può non notare che per non poche valutazioni e insegnamenti etici concreti, e riferiti ad ambiti esistenziali particolari, l'ottica etica è offuscata, ossia relativizzata da giudizi condizionati dal tempo inerenti a valori e a fatti. Anche se fosse possibile rilevare negli scritti neotestamentari un solo esempio del genere — e ciò sembra possibile (v.s.) —, sarebbe fondamentalmente giustificata l'analisi ermeneutica di simili valutazioni e insegnamenti.Gli avvertimenti relativi all'idolatria (Gal 5, 20 e altrove), ma anche ai principali vizi pagani 29 dell'«impudicizia» (1 Ts 4, 3 ss. e altrove) e dell'«inganno» (1 Ts 4, 6)

29 Cf. l'accostamento stereotipo di impudicizia e inganno, 1 Ts 4, 3-8; 1 Cor 5, 9 ss.; Col 3, 5; cf. Ef 4, 19; 5, 3 ss.: evidentemente una locuzione schematica della parenesi battesimale (cf. Ef 4, 17-24).

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rivendicano con forza carattere di precetto, poiché a questo proposito — nella parenesi battesimale (cf. Ef 4, 17-24!) — ai battezzati viene impartito un ammaestramento etico fondamentale. Se gli autori neotestamentari vedevano però, ad esempio, la donna in subordinazione dell'uomo (cf. 1 Cor 11, 2-16; 14, 33-36 e altrove), cosa comprensibile alla luce del tempo; noi tendiamo invece a credere che a questo proposito — rispetto alla generazione della Chiesa primitiva— lo Spirito Santo abbia fatto approfondire maggiormente all'attuale cristianità — insieme con il mondo circostante moderno — i postulati etici relativi al mondo della persona umana. Il precetto di sottomettersi alle autorità costituite (Rm 13, 1-7) deve essere integrato con 1 Cor 6, 1-7, dove lo stesso Paolo si dimostra cauto nei confronti delle autorità costituite; cosi come con 1 Cor 2, 8, dove egli è consapevole dell'esistenza di una autorità costituita ingiusta (tanto più che simili precetti vanno posti nel contesto del Nuovo Testamento nel suo insieme; cf. ad es. Lc 4, 5 ss., Ap passim). In 1 Cor 11, 2-16 Paolo infine si occupa — per un certo riguardo dell'ambiente — semplicemente (cf. v. 16) di una pratica comunitaria («consuetudine») — che desidera sia osservata — inerente alla donna, la quale, pregando, deve portare il velo e non parlare profeticamente. Soltanto un criterio analitico del tutto astorico può fare carico a Paolo di non opporsi con impegno sociale alla società schiavista (cf. 1 Cor 7, 21-24; Col 3, 22 - 4 1; Fm), sebbene qui si debba constatare oggettivamente il carattere preconcetto — condizionato storicamente e molto comprensibile— del giudizio etico. Non può essere considerata comunque come modello per tutti i tempi la maniera unilaterale con cui — in espressioni verbali temporanee! — Matteo, riportando le parole del Signore, squalifica i farisei (ad es. Mt 23), e la successiva tradizione squalifica ebrei (ad es. 1 Ts

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2, 15 s.) o pagani (ad es. Rm 1, 26-32), gli eretici (2 Pt 2, 10-22; Gd 8-16 e altrove).

RIEPILOGO

La stragrande maggioranza delle valutazioni e degli insegnamenti neotestamentari invita ad un comportamento, adeguato a fatti e situazioni, verso l'amore di Dio, che in Cristo si manifesta escatologicamente; schiude cosi un orizzonte teologico e escatologico e esige la risposta d'amore per Dio

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(per Cristo) e per il prossimo. Ciò non vale soltanto per i precetti considerati negli scritti neotestamentari di valore obbligante assoluto, precetti che sono posti per il comportamento e la parola di Gesù (I), ma anche per la più parte degli insegnamenti apostolici e protoecclesiastici (II, 1). Valutazioni e insegnamenti del genere rispecchiano — in maniera diversa — una volontà di impegno assoluto e di valore obbligante permanente. Perfino le valutazioni e gli insegnamenti che riguardano ambiti esistenziali particolari (II, 2), partecipano in larga misura di quell'orizzonte, in particolare là dove si impartiscono insegnamenti «spirituali» di tipo generale (II, 2a). Nello spazio — relativamente ristretto — delle valutazioni e degli insegnamenti etici in senso più stretto (II, 2b), il carattere obbligante permanente non si è potuto mettere in dubbio a proposito degli insegnamenti «sociali», per quanto conservano del carattere generale e partecipano del comandamento dell'amore, ma nemmeno a proposito dei precetti fondamentali della parenesi battesimale quando sono formulati in termini generali. Diversamente stanno le cose per talune norme operative e singole direttive concrete che, anche come «spirituali», possono essere state chiaramente condizionate dal tempo (cf. II, 2a);

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nonché per taluni particolari insegnamenti «etici» in senso più stretto (cf. II, 2b), dove i giudizi e le parenesi degli scritti neotestamentari non possono sottrarsi a interrogativi.Il quadro d'insieme tracciato sopra non incoraggia dunque affatto al giudizio generalizzante secondo il quale tutte le valutazioni e gli insegnamenti neotestamentari, almeno quelli particolari o, tra essi, almeno le norme operative o le singole direttive concrete, sono condizionati dal tempo. Il loro carattere «paradigmatico», il loro carattere di «modello d'azione» dovrebbe essere affermato solo là dove è possibile rilevarlo esegeticamente come forma letteraria. In altri casi, si colgono meglio gli insegnamenti neotestamentari, se ci si interroga sulla possibilità di una loro osservanza approssimativa o adattiva, analogica o intenzionale.Ora, dal momento che tra le valutazioni e gli insegnamenti particolari contenuti negli scritti neotestamentari qua e là esistono giudizi di valore e di fatti condizionati dal tempo — cosa che prova che, nel corso della storia della Chiesa e del genere umano, lo Spirito Santo ha approfondito il giudizio etico — l'ermeneutica della teologia morale ha fondamentale diritto d'essere nei confronti di simili valutazioni e insegnamenti etici degli scritti neotestamentari. Tuttavia, per pervenire ai criterio, moralitatis e anche per pervenire ai criteria theologiae moralis, questa ermeneutica — se si prende sul serio il significato delle Sacre Scritture (v.s., all'inizio) — non potrà procedere né biblicisticamente né a livello puramente razionale; essa dovrà pervenire alle sue conoscenze nell'«incontro»: nel confronto sempre nuovo delle conoscenze critiche moderne con le conoscenze etiche delle Sacre Scritture. Tuttavia, solo nell'ascolto della parola di Dio («Dei Verbum audiens» 30) si potrà sicuramente dare

30 Cf. Dei Verbum 1.

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l'esatta interpretazione alle conoscenze critiche moderne come a «segni del tempo» in cui opera lo Spirito di Dio. Ciò però deve avvenire nella comunione del popolo di Dio 31, nell'unione del sensus fidelium e del magistero con l'aiuto della teologia nel suo insieme. L'esegeta non può decidere da solo questioni dell'ermeneutica della teologia morale; le «tesi» sopra riportate miravano a contribuirvi solo con alcuni aspetti che si impongono sotto il profilo esegetico.

31 Cf. al riguardo il I. scritto citato nella n. 14.

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MAGISTERO ECCLESIASTICO - FEDE - MORALE di JOSEPH RATZINGER

QUADRO DELLA PROBLEMATICA

La crisi della fede, che incalza la cristianità in misura crescente, si manifesta sempre più chiaramente anche come una crisi di coscienza dei valori fondamentali della vita umana. Da un lato, quella è alimentata dalla crisi morale dell'umanità e, dall'altro, aggrava quest'ultima a sua volta. Nel tentativo di tracciare a grandi linee il panorama del dibattito attuale inerente alla questione, ci si imbatte in singolari contrasti, che tuttavia sono strettamente correlati. Da un lato, soprattutto dopo il sinodo del Consiglio Mondiale della Chiesa ad

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Uppsala, si delinea sempre più chiaramente la tendenza a definire il cristianesimo primariamente non come «ortodossia», bensì come «ortoprassi». In questa opzione confluiscono svariate cause. Se pensi, ad esempio, alla serietà che ha assunto per il cristianesimo il problema razziale in America, dove una medesima professione di fede non riesce tuttavia a cambiare nulla della barriera di separazione e dove sembra quindi anche posta in dubbio la professione di fede nel suo valore reale, dal momento che non possiede la forza per rendere viva la radice del Vangelo: l'amore. Una questione di ordine pratico diventa cosi pietra di paragone per il contenuto reale della dottrina, diventa

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la verifica effettiva del credo cristiano — là dove l'« ortoprassi» manca in maniera così eclatante, l'«ortodossia» appare dubbia.Un'altra radice alla base dello spostamento verso la «prassi» risiede nelle varie correnti della «teologia politica», che hanno a loro volta motivazioni differenti. Comune a tutte è certamente un forte coinvolgimento nei problemi che pone il marxismo. Qui il concetto di «verità» appare sospetto in sé, quanto meno come privo di valore. Sotto questo aspetto, tale visione coincide con la concezione di fondo, dalla quale nasce il positivismo. La verità è considerata come irraggiungibile, la sua affermazione come alibi per interessi di gruppi, che intendono consolidarsi in questo modo. Solo la prassi (sempre secondo tale visione) può decidere su valore o disvalore di una teoria. Se dunque il cristianesimo intende contribuire alla costruzione di un mondo migliore, deve gettare le basi per una prassi migliore; non deve cercare la verità come teoria, ma produrla come realtà. Il postulato che il cristianesimo deve farsi «ortoprassi» di un'azione comune in vista di un futuro più umano e lasciarsi alle spalle l'ortodossia come infeconda o dannosa, qui assume un carattere di gran lunga più fondamentale di quanto fosse necessario alla luce dei punti di partenza prammatici descritti. Inoltre, evidentemente, ambedue le visioni tenderanno all'interconnessione e alla conferma reciproca. Nell'un caso come nell'altro, rimane poco spazio per un magistero, sebbene con l'attuazione coerente di queste visioni si riproponga necessariamente in forma mutata. Tuttavia, un magistero che formuli una verità già data sulla giusta prassi dell'uomo e misuri la prassi su tale verità, verrebbe a trovarsi esattamente sul lato negativo della realtà, come ostacolo della prassi creativa, futura: esso si manifesterebbe come espressione degli interessi celati dietro l'etichetta

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«ortodossia», interessi che impediscono il progredire della storia della libertà. D'altro canto, si ammette che la prassi necessita della riflessione e della tattica meditata, pertanto è senz'altro logico il vincolo della prassi marxista al «magistero» del partito.Alla corrente di pensiero che vuole definire e realizzare il cristianesimo come ortoprassi, si oppone all'altro estremo una posizione (che spesso sconfina improvvisamente nella prima) che afferma che non esiste affatto una specifica morale cristiana; il cristianesimo deriva piuttosto le sue norme comportamentali dalle conoscenze antropologiche del tempo. La fede non costituisce alcuna fonte autonoma di norme morali, ma al riguardo rimanda rigorosamente alla ragione; e tutto ciò che non è coperto dalla ragione, non viene sostenuto nemmeno dalla fede. Tale affermazione è cosi motivata: anche nelle sue fonti storiche la fede non sviluppa una sua morale, ma si accoda sempre alla ragione pratica dei contemporanei 1. È possibile rilevarlo già nel

1 Così per ultimo, dopo altri, H. Küng, Christ sein, München 1974, pp. 532 ss.: «A distinguere l'ethos veterotestamentario non sono i singoli comandi e divieti, ma è la fede in Jahvè... Gli insegnamenti della «seconda tavola»... trovano numerose analogie in Medio Oriente... Ad essere specificamente israelitico non sono dunque questi fondamentali precetti minimi... Specificamente israelitico è che questi precetti sono subordinati all'autorità del Dio dell'alleanza...» (p. 532). Domanda come risposta: L'immagine di Dio di Israele si è forse formata senza acquisizioni e confronti con il mondo circostante? Nel resto dell'Oriente, non sono stati correlati i precetti etici e giuridici con l'autorità della relativa divinità? Domande del genere s'impongono, quando Küng, riferendosi al Nuovo Testamento, afferma: «Anche i precetti etici del Nuovo Testamento... non sono caduti dal ciclo né sotto l'aspetto formale né sotto quello contenutistico» (p. 534). Ciò che rimane del N.T. è forse caduto dal cielo? Parrebbe evidente l'impossibilità di argomentare in questa maniera.

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Vecchio Testamento, dove, dal tempo dei patriarchi fino alla letteratura sapienziale, le concezioni dei valori sono in una continua trasformazione determinata dal confronto con le concezioni morali in formazione delle culture circostanti. Non è possibile trovare un solo principio morale del Vecchio Testamento, che derivi

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esclusivamente dalla fede in Jahvè; in materia di morale, tutto è acquisito e la cosa vale anche per il Nuovo Testamento: i cataloghi di virtù e vizi contenuti nelle lettere degli apostoli rispecchiano l'ethos stoico, e sono dunque acquisizione di ciò che, in quel tempo, doveva essere considerato come l'insegnamento della ragione relativo al comportamento umano. Tali lettere sono pertanto significative non sul piano contenutistico, ma strutturale: come rimando alla ragione quale unica fonte di norme morali. Sarà superfluo rilevare che anche da questo punto di vista un magistero ecclesiastico non conserva alcun posto in materia di morale. Infatti, una normativa contenutistica fondata sulla tradizione della fede avrebbe origine dunque dal fraintendimento che concepisce le affermazioni della Bibbia come segnavia contenutistici permanenti, mentre — secondo tale tesi — non sarebbero che l'indicazione del rispettivo livello della conoscenza acquisibile unicamente mediante la ragione.E chiaro che, nell'un caso come nell'altro, sono in discussione problemi fondamentali del cristianesimo; problemi che non è possibile trattare sufficientemente in poche pagine. Nel primo caso — dove l'interpretazione del cristianesimo come «ortoprassi» è compiuta non solo prammaticamente, ma teoricamente — è in discussione il problema della verità e quindi il problema di fondo relativo a cos'è la realtà. In definitiva, occupandosi del problema dell'essere, si viene a discutere sul primo articolo di fede, sebbene di volta in volta non se ne sia affatto sempre consapevoli e

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sebbene di rado le posizioni siano attuate nella loro radicalità ultima. Nel secondo caso, sembra trattarsi, a tutta prima, di un problema storico particolare: del problema dell'origine storica di talune proposizioni bibliche. A guardare più da vicino, risulta che qui si è in presenza di una questione più fondamentale, ossia della questione del come il proprium, ciò che è specificamente, cristiano vada definito rispetto alle configurazioni storiche variabili del cristianesimo. Ad un tempo, è implicito il problema del come bisogna intendere il rapporto della fede con la ragione, con l'umano in genere; ed è infine implicita la questione relativa alle possibilità e ai limiti della ragione nei confronti della fede 2.

2 La questione è oggetto di accurato esame — anche se sotto tutt'altro profilo — in B. Schüller, Die Bedeutung des natürlichen Sittengesetzes fùr den Christen, in G. Teichtweier — W. Dreier, Herausforderung una Kritik der Moraltheologie, Würzburg 1971, pp. 105-130. Il suo tentativo di stabilire un equilibrio tra i singoli aspetti può essere formulato sinteticamente nella frase: «data la razionalità fondamentale di tutti i precetti etici, l'annuncio etico del N.T. deve essere considerato come una meditazione maieutica del giudizio etico» (p. 118). Qui tutto dipende dal come si interpreta la «razionalità fondamentale» e dal tipo di qualità che si attribuisce conformemente a «mediazione maieutica». Non posso del tutto negare l'impressione che Schuller faccia un uso troppo aproblematico del concetto di «ragione». Rimando in particolare a p. IlI: «Con Rm 1... verrebbe sottinteso che l'uomo... ha la consapevolezza di essere un individuo morale. Per questa premessa, la ragione ben comprende come logico il comandamento dell'amore per Dio e per il prossimo». E chiaro che tale «sottinteso» è fondamentale per tutto ciò che segue; qui, però, manca il contesto di esperienza realistica con cui Paolo lo spiega e delimita.

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PRIME OBIEZIONI

Prendiamo l'avvio dal più ovvio, dal più semplice, per metterci sulle tracce della questione; ossia prendiamo l'avvio dal problema dell'origine storica delle affermazioni bibliche in materia di morale. A questo punto, va esaminato innanzi tutto un problema metodologico generale. L'affermazione sottintesa, secondo cui le cose tramandate non possono mai assumere un proprio carattere specifico, è semplicemente errata. Lo apprendiamo dalla nostra stessa vita: la proposizione teologica: «Che cosa mai possiedi che tu non abbia ricevuto?» (1 Cor 4, 7) è possibile verificarla anche a livello puramente umano; ma lo apprendiamo anche dall'intera storia della civiltà: la grandezza di una civiltà risulta dalla sua capacità di comunicazione, dalla sua capacità di dare e di prendere, ma appunto di prendere, di ricevere e di assimilare. L'originalità del cristianesimo non risiede nella somma dei principi per i quali non si è riusciti a trovare analogie altrove (ammesso che sia possibile riscontrare principi siffatti, cosa assai dubbia); il proprium cristiano non si fa distillare con l'eliminazione di tutto ciò che è «divenuto» nello scambio con altri. L'originalità cristiana consiste piuttosto nella configurazione globale nuova, in cui la ricerca e la lotta umane sono fuse nel nucleo di orientamento della fede nel Dio di Abramo, nel Dio di Gesù Cristo. Il rimando della morale alla pura ragione non è dunque ancora dato con la constatazione della derivazione delle proposizioni morali della Bibbia da altre civiltà o dal pensiero filosofico: una simile affermazione costituisce una conclusione fallace, cui non bisogna dare più a lungo spazio. A mettere conto non è la possibilità di riscontrare principi siffatti

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anche altrove; a mettere conto è unicamente la questione relativa

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alla posizione che essi assumono nella configurazione spirituale del cristianesimo. È questo il problema da porre.Anche a questo proposito, prendiamo le mosse da un'osservazione molto semplice. In una visione storica, è inesatto affermare che la fede biblica abbia assimilato, di volta in volta, la morale del suo ambiente, ossia il livello della conoscenza morale razionale. Infatti, «l'ambiente» come tale non esisteva affatto e non esisteva una grandezza unitaria «morale», che sarebbe stata possibile acquisire semplicemente. Constatiamo piuttosto che, secondo il criterio di ciò che corrispondeva alla figura di Jahvè, in una lotta più che spesso assai drammatica, si distinguevano, tra gli elementi della tradizione giuridica e morale dell'ambiente, quelli che potevano essere assimilati da Israele e quelli che Israele doveva respingere alla luce della sua immagine di Dio. A questo problema, in definitiva, si riferisce la lotta dei profeti. Si pensi a Natan che impedisce a David di trasformarsi in un despota orientale che di tutto disponga, che possa anche prendersi la moglie del vicino se gli aggrada; si pensi a Elia il quale, con il diritto di Nabot, difende dall'assolutismo reale il diritto garantito dal Dio d'Israele; si pensi ad Amos il quale, nella sua battaglia per il diritto dei salariati, dei dipendenti in genere, difende l'immagine del Dio di Israele; comunque sia, il risultato è sempre il medesimo; e anche l'insieme del conflitto tra Jahvè e Baal non si lascia ridurre ad una questione puramente «dogmatica», ma richiama all'unità inscindibile di fede e vita, che qui è in gioco: la scelta per il Dio unico o per gli dèi è sempre una scelta di vita.

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TRE ESEMPI DI INTERDIPENDENZA TRA FEDE E ETHOS

a) I/ Decalogo — Con queste affermazioni entriamo nel vivo della discussione prammatica che qui intendiamo chiarire appena con tre esempi caratteristici. Volgiamo innanzi tutto uno sguardo al Decalogo (cf. Es 20, 1-17; Dt 5, 6-21) come ad una delle formulazioni centrali della volontà di Jahvè relativa a Israele, volontà alla quale l'ethos si è sempre nuovamente rifatto, in Israele e nella Chiesa. Indubbiamente, è possibile dimostrare l'esistenza di modelli di Decalogo sia negli inventati egizi delle trasgressioni in cui non bisogna cadere, sia nei cataloghi di domande dell'esorcismo babilonese. Anche la formula introduttiva «Io sono il Signore, tuo Dio» non è del tutto nuova. E tuttavia essa conferisce alle «Dieci Parole» un volto nuovo: esse vengono legate alla fede nel Dio di Israele, al Dio dell'alleanza e alla sua volontà di alleanza. Le «Dieci Parole» evidenziano il contenuto della credenza in Jahvè, l'accettazione dell'alleanza con Jahvè. Esse definiscono cosi ad un tempo la configurazione stessa di Dio, l'essenza che si rivela nella sua volontà; e cosi ricollegano il Decalogo con la fondamentale autorivelazione di Dio in Es 3; infatti, anche qui la rappresentazione di sé di Dio è concretata nella rappresentazione del suo valore etico: Egli ha udito i gemiti degli oppressi ed è venuto a liberarli. Sia nella versione di Es 20 che in quella del Deuteronomio, il Decalogo riprende questo inizio: Jahvè si presenta come il Dio che ha portato Israele fuori dall'Egitto, dalla casa della schiavitù. Ciò significa: in Israele, il Decalogo è parte dello stesso concetto di Dio. Esso non vive accanto alla fede, accanto all'alleanza, ma rivela chi è il Dio di cui Israele è alleato 3.

3 Cf. H. Cazelles, Dekalog, in H. Haag, Bibel-Lexikon, Benziger 19682, pp. 319-323 (Lit.); G. von Rad, Theologie des Alten Testaments, I, München 1958, pp. 188-230.

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Ad esso è correlato lo sviluppo particolare del concetto di «santità», cosi come è venuto delineandosi nella religione biblica. In termini di storia delle religioni, la «santità» definisce innanzi tutto l'essere radicalmente-altro della divinità, la sua atmosfera specifica dalla quale derivano le regole particolari della frequentazione con la divinità. Inizialmente, anche in Israele la cosa non sta diversamente; numerosi passi lo dimostrano. Intanto, rappresentando Jahvè il suo carattere particolare, il suo essere radicalmente-altro proprio nelle Dieci Parole, si fa evidente (ed è sempre più chiarito dai profeti) che il radicalmente-altro di Jahvè, la sua santità, è una grandezza etica il cui riscontro è nell'agire etico umano conforme al Decalogo. Il concetto della santità, come categoria specifica del divino, si fonde già fin dagli strati antichissimi della tradizione ai quali appartiene il Decalogo con il concetto dell'etico; e proprio in ciò risiede l'elemento nuovo, l'unicità di questo Dio e della sua santità; in ciò risiede però anche la nuova posizione che viene assegnata all'etico, e da qui si

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determina il criterio di scelta nel confronto con l'ethos dei popoli fino a quella massima elevazione del concetto di santità, che nel Vecchio Testamento anticipa l'immagine di Dio di Gesù: «Non darò sfogo all'ardore della mia ira..., perché sono Dio e non uomo, sono il Santo in mezzo a te...» (Os 11, 9). «E ora non vi può essere dubbio che con la proclamazione del Decalogo per Israele si compia l'elezione di Israele», cosi Gerhard von Rad, nella sua Teologia del Vecchio Testamento, formula questo rapporto, di cui espone anche le conseguenze nella vita liturgica di Israele 4. Tutto ciò non vuole affermare che

4 Loc. cit., p. 193.

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fin dall'inizio il significato del Decalogo fu compreso in tutta la sua profondità, e che la semplice parola di per sé palesa in maniera definitiva l'essenza della conoscenza etica; la storia dell'esegesi, dai più antichi strati della tradizione fino alla rilettura del Decalogo nel Discorso della Montagna, di Gesù, dimostra piuttosto come proprio dalle Dieci Parole poteva e doveva scaturire una comprensione sempre più profonda della volontà divina e in questa la comprensione di Dio e dell'uomo stesso. Da quanto si è detto, tuttavia, risulta che la derivazione di singoli punti del Decalogo dall'ambito extraisraelitico non viene a dire nulla sulla sua separabilità dal nucleo della fede dell'alleanza; ciò si potrà in fondo sostenere soltanto partendo dal presupposto che la ragione dei popoli e la rivelazione di Dio si contrappongono senza alcuna analogia, come puro paradosso, ossia partendo da una determinata posizione sul rapporto tra rivelazione e ragione, una posizione che appunto non si ha alla luce dei testi biblici dai quali anzi viene chiaramente falsificata.b) La denominazione «cristiano» — Questa volta, dall'ambito protocristiano, scegliamo un secondo esempio in cui, come per Israele nel Decalogo, si parla ancora di un punto centrale: il significato dei termini «cristiano» e «cristianesimo» nella fase costituente della Chiesa 5. Da At 11, 26 apprendiamo che questa denominazione fu data per la prima volta in Antiochia alla comunità dei credenti. Sebbene il punto di partenza e l'iniziale significato della

5 Cf. al riguardo in particolare E. Peterson, Christianus, in Id., Frühkirche, Judentum una Gnosis, Freiburg 1959, pp. 64-87. Indicazioni preziose relative alla questione debbo alla tesi di laurea ancora inedita e data a Ratisbona da K. Bommes, Das Verständnis des Martyriums bei Ignatius von Antiochien (1974).

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denominazione siano discussi, e per la sussistente situazione delle fonti rimarranno ancora discussi, è tuttavia evidente che a questa denominazione fu ben presto attribuito un sapore ironico, e che essa nel diritto romano espresse inoltre un delitto punibile: i christiani sono gli appartenenti al movimento di congiura del Cristo; pertanto, da Adriano in poi, il nomen christianum è esplicitamente equivalente a punibile. Peterson ha evidenziato che le accuse contro i cristiani, come si leggono ad esempio in Svetonio e in Tacito, sono parte integrante della propaganda politica «che fu fatta contro congiurati reali o presunti» 6. Tuttavia, già in Ignazio di Antiochia l'assunzione di questo termine pericoloso risulta come autodefinizione dei seguaci di Cristo; si è anzi orgogliosi di portare questo nome e di mostrarsene degni. Cosa accade se si assume e si porta consapevolmente un nome ingiurioso, che è ad un tempo titolo di condanna secondo il diritto penale?A questa domanda è possibile dare una duplice risposta. È una spiccata teologia del martirio innanzi tutto ad indurre Ignazio all'assunzione di un termine che in certo qual modo porta in se stesso il martirio. La comunione con Gesù Cristo — per lui è questa comunione la fede —, agli occhi del mondo è l'aver parte in una congiura allora punita con la pena capitale. Per il vescovo di Antiochia, questa è una visione esterna, che in certo qual senso presagisce in tutt'altro modo il suo stesso contenuto: La comunione con Gesù è di fatto partecipazione alla sua morte e solo cosi anche alla sua vita 7. Ciò però significa: dell'idea della congiura comune dei cristiani con Cristo è esatto l'aspetto secondo cui i cristiani fanno propria non soltanto una teoria

6 Peterson, p. 80.7 Magn. 5, 1 s. (ed. J.A. Fischer, p. 164).

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di Gesù, ma ne condividono la scelta di vita e di morte e, a modo loro, la ripetono. «Essendo noi divenuti suoi discepoli, bisogna imparare a vivere in conformità del cristianesimo» 8. In questo senso, per il vescovo martire siriano, il cristianesimo è senz'altro un'«ortoprassi»: esso significa ripetere il tipo di vita di Gesù Cristo. Ma come si configura questa possibilità? Tale domanda porta ad un secondo passo. Per il pagano, il

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termine christianus sta ad indicare il congiurato che, nello schema della propaganda politica, si immagina come una persona che si distingue per terribili «flagitia» (delitti), in particolare per l'«odio nei confronti del genere umano» e lo «stuprum» (libidine)9. A questo proposito, Ignazio ricorre ad un gioco di parole che avrebbe avuto a lungo risonanza nell'apologetica cristiana. Nella fonetica greca, il termine chrestos (=buono) veniva (e viene) pronunciato con la i, christos. E questo dato che Ignazio riprende quando, alla frase «impariamo a vivere in conformità del cristianesimo (christianismos)», premette le parole «non siamo insensibili alla sua bontà (chrestotes, pronunciato christotes)» 10. La congiura del Christos è una congiura ad essere chrestos, una congiura volta al bene. Ancora cento anni più tardi, Tertulliano cosi si esprimerà: «Il termine cristiano è derivato dal termine essere buono» 1. La connessione tra il concetto di Dio e l'idea etica che abbiamo riscontrata nel Decalogo, è qui ripetuta nel cristianesimo in una maniera estremamente sublime e esigente: il nome

8 Magri. 10, 1 (ibid., p. 168).9 Peterson, pp. 77 ss.10 Magn. 10, pp. 1.11 Apolog. III 5 (C. Chr. I 92); Ad Nat. I 3, 8 s. (C. Cbr. I 14): «Christianum vero nomen... de unctione interpretatur. Etiam cum corrupte a uobis Chrestiani pronuntiamur... sic quoque de suauitate uel bonitate modulatum est». Cf. Peterson, p. 85.

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cristiano significa comunione con Cristo, di conseguenza anche la disponibilità a prendere su di sé il martirio del bene. Il cristianesimo è una congiura volta al bene; la qualità teologica e quella etica sono indissolubilmente fuse proprio nel nome e, più profondamente, nel concetto fondamentale stesso del cristianesimo 12.e) L'esortazione apostolica — In questo modo, tuttavia, Ignazio e la teologia protocristiana dopo di lui si pongono rigorosamente sul terreno della predicazione apostolica, che vogliamo citare ancora come terzo esempio. La stretta connessione tra fede e «imitazione» dell'apostolo, che si realizza nell'« imitazione» di Gesù Cristo, è caratteristica proprio dell'annuncio paolino. Nella Prima Epistola ai Tessalonicesi, è formulata in modo particolarmente puntuale: «...avete appreso da noi come comportarvi... Voi conoscete infatti quali norme vi abbiamo dato da parte del Signore Gesù» (1 Ts 4,1 ss.). Il «comportamento» fa parte della tradizione, il suo insegnamento non proviene da una fonte qualsiasi, ma dal Signore Gesù. Le argomentazioni successive ripren-

12 A ciò corrisponde l'associazione di insegnamento e vita nella catechesi battesimale cristiana nonché nel rituale battesimale, in cui il concetto di impegno e rinuncia viene a connettere alla professione di fede una professione (e voto) etica. Questa unità è fondamentale non soltanto per l'intera tradizione patristica, da Giustino (ad es. Apol. I 61, 1: «», fino a Basilio (De Spiritu Sancto 15, 35 s.: PG 32, 130 s., dove tutta la interpretazione dell'evento centrale del battesimo poggia su tale connessione); ma anche nello stesso N.T., dove la paraclesi etica contenuta nelle lettere indica chiaramente la catechesi e l'obbligo battesimali, tanto che la predica di Giovanni Battista si è potuta leggere come catechesi cristiana prebattesimale: cf. l'interpretazione di Lc 3, 1-20 in H. Schürmann, Das Lukasevangelium, I, Freiburg 1969, pp. 148-187.

50 Magistero ecclesiastico - Fede - Morale (J. Ratzinger)

dono un po' liberamente il Decalogo, spiegandolo in chiave cristiana in vista della situazione particolare dei tessalonicesi. Ora, si potrebbe obiettare che qui ci si occupa essenzialmente dell'intenzione formale verso il «bene», che senza dubbio è caratteristica del cristianesimo. Ma la questione contenutistica, in cosa consista tale bene, questa non viene decisa appunto da fonti teologiche, ma, di volta in volta, dalla ragione e dal tempo. Apparentemente, a questo riguardo, è possibile rimandare ad un testo come Fil 4, 8, che sembra dare una conferma in tal senso: «In conclusione, fratelli, tutto quello che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato, quello che è virtù e merita lode, tutto questo sia oggetto dei vostri pensieri». Qui sono trattati i concetti della filosofia popolare, nei quali chiaramente i criteri validi del bene sono appunto offerti anche ai cristiani come loro criteri. Ma si potrebbe subito opporre che il testo continua: «Ciò che avete imparato, ricevuto, ascoltato e veduto in me, è quello che dovete fare» (4, 9); si potrebbe evidenziare che in definitiva qui si spiega 2, 5: «Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù»: le parole con le quali è data nuovamente la connessione tra i sentimenti di Gesù come criterio contenutistico e l'esistenza cristiana, la connessione che abbiamo incontrato in Ignazio.

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Tuttavia, a livello storico e prammatico si dovrà procedere ad un ulteriore approfondimento. E indubbiamente esatto che qui come anche altrove Paolo indica la conoscenza etica che la coscienza morale ha destato tra i pagani; è indubbiamente esatto che egli identifica, in conformità dei principi sviluppati in Rm 2, 15, tale conoscenza con la vera legge di Dio. Ciò non significa tuttavia che qui il kerygma si riduce ad un'indicazione priva di contenuto, a ciò che di volta in volta è ritenuto dalla ragione il bene. Sono due qui le obiezioni da fare: una è quella secondo cui questa

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«ragione del tempo» storicamente non è proprio esistita né mai esisterà. Ciò che Paolo trovò non fu appunto un determinato «livello di ricerca» sul bene da acquisire, bensì un guazzabuglio di posizioni contrastanti, nell'ambito del quale Epicuro e Seneca rappresentano solo due esempi dell'ampio arco delle concezioni esistenti. Per andare avanti si richiese non già l'assunzione, bensì una cernita decisamente critica, nella quale la fede cristiana, in base al criterio della tradizione veterotestamentaria e, concretamente, sulla base dei «sentimenti di Gesù Cristo», fece le sue nuove scelte che, dall'esterno, furono giudicate come «congiura», dall'interno, furono tanto più decisamente attuate come il «bene» vero. La seconda obiezione è quella che contrasta con la concezione menzionata, secondo cui per Paolo coscienza morale e ragione non sono due grandezze variabili, che oggi dicono cosi e domani diversamente; la coscienza morale si dimostra ciò che è proprio perché viene ad affermare quello che Dio disse agli ebrei nella parola dell'alleanza; come coscienza morale essa scopre il permanente e cosi conduce necessariamente ai sentimenti di Gesù Cristo. La vera visione dell'apostolo Paolo si manifesta nella maniera più chiara forse nel primo capitolo della Lettera ai Romani, dove viene ripetuta esattamente quella connessione dell'etico con il concetto di Dio, che prima abbiamo definita come caratteristica del Vecchio Testamento: il fallimento nel concepire Dio mette a nudo il fallimento morale del mondo pagano; il volgersi verso Dio in Gesù Cristo è identico al volgersi verso la via di Gesù Cristo. Lo stesso Paolo lo aveva già specificato in I Ts: l'empietà dei pagani è legata al fatto che essi non conoscono Dio; la volontà di Dio è la «santificazione» che, proprio nel messaggio della grazia, è intesa eticamente. Chi legge attentamente le lettere paoline non tarderà ad avvedersi che la paraclesi apostolica

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non è un'appendice moralizzante, i cui contenuti potrebbero anche essere scambiati, ma è l'indicazione concreta di ciò che significa fede e pertanto è indissolubilmente connessa con il punto centrale. L'Apostolo segue in ciò solo il modello di Gesù che, nei versetti relativi a entrata e esclusione dal Regno di Dio, aveva connesso indissolubilmente questo tema centrale della sua predicazione alle decisioni etiche fondamentali conseguenti all'immagine di Dio e ad essa intimamente legate 13.

13 Queste argomentazioni non si addentrano volutamente nella discussione specialistica della moderna teologia morale sulla normativa «deontologica» o semplicemente «teleologica» dell'etico, sulla quale ci orienta con acume e esaurientemente B. Schüller, Neuere Beiträge zum Thema «Begründung sittlicher Normen», in J. Pfammatter - F. Furger, Theologische Berichte, IV, Einsiedeln 1974, pp. 109-181. Nella misura in cui si tratta della concettualizzazione e dell'elaborazione metodica di un contesto sistemico, una risposta va ricercata nella discussione specialistica, e non può essere anticipata univocamente alla luce del preconcettuale dei fatti biblici fondamentali. Ad onta di questo necessario limite metodologico, risultano indicazioni che, a mio avviso, finora non sono state tenute in sufficiente conto nella discussione. Da questa angolazione appaiono senz'altro inadeguate «formule concise» del pensiero normativo ideologico come questa: «Intrinsece malum e pertanto bisogna astenersi assolutamente da qualunque azione che oggettivamente — secundum rectam rationem — non corrisponda alla concreta realtà umana» (J. Fuchs, Der Absolutheitscharakter sittlicher Handlungs-normen, in Testimonium Veritatis, Frankfurt 1971, pp. 211-240, citazione p. 236). A questo punto, ci sarebbe da chiedersi cos'è la «concreta realtà umana» e cosa «recta ratio»; in simili argomentazioni, ambedue le locuzioni rimangono formali e, in definitiva, insignificanti, perfino quando con Schuller, loc. cit., p. 173, si tenta di riempirle e concretizzarle nel senso dell'imperativo categorico kantiano. Anche lasciando aperti i problemi della concettualizzazione e della sistematizzazione, bisogna tuttavia chiedersi se le chiare costanti contenutistiche, che sono risultate nel corso della storia della fede biblica e sono state fissate nella catechesi battesimale, non rendano irrinunciabile una base di normativa «deontologica». Il problema vero e proprio a me sembra (come già accennato in n. 2) risiedere nella neutralità astratta del concetto di ragione, concetto che impera senza una effettiva riflessione; su questo punto, dovrebbe forse concentrarsi in misura particolare una discussione progressiva.

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FEDE - MORALE - MAGISTERO

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Con il rimando all'esortazione apostolica, al di là della connessione tra fede e morale, è entrato in gioco il magistero. Infatti, le lettere apostoliche sono l'esercizio dell'autorità all'insegnamento. In esse, Paolo decide anche «magistralmente» sulla forma etica della fede; lo stesso dicasi della restante letteratura epistolare neotestamentaria, nonché dei Vangeli, che sono pieni di insegnamento etico, e infine dell'Apocalisse. Nella sua paraclesi, Paolo non dibatte delle teorie sull'umanamente razionale, ma egli spiega la rivendicazione intrinseca della grazia, come ha efficacemente scritto H. Schlier nel bell'articolo sulla peculiarità dell'esortazione cristiana 14. È vero, l'Apostolo non ricorre di frequente alla forma del comando esplicito (cf. 1 Ts 4,10 s.), sebbene fosse consapevole di averne l'autorità (cf. 2 Cor 8, 8); egli non intende porsi di fronte alle comunità cristiane con invettive e incitamenti, che i pedagoghi dell'antichità usavano adottare nei confronti dei bambini; egli predilige le sollecitazioni paterne nell'ambito della famiglia cristiana. Ma proprio così viene ad evidenziare che a parlare nella sua parola è la stessa misericordia di Dio. Nella sua esortazione è la grazia ad esortare, è Dio che esorta; essa non è un accessorio variabile del Vangelo, ma è coperta dall'autorità del Signore, anche là dove non si esprime in forma di comando o di scelta

14 H. Schlier, Besinnung auf das Neue Testament, Freiburg 1964, pp. 340-357.

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dottrinale 15. Il medesimo risultato si ha quando si bada ai motivi centrali della sua esortazione: l'evento salvifico in Cristo stesso, il battesimo, la comunione del corpo di Cristo, lo sguardo al giudizio universale 16. La linea di separazione che dalla grazia viene tracciata riguardo alla forma esistenziale di coloro che non conoscono Dio, è del tutto chiara: essa si chiama abbandono di impudicizia, avidità, idolatria, di invidia e discordia; accostamento ad ubbidienza, pazienza, verità, serenità, gioia! In questi atteggiamenti si dispiega il comando fondamentale dell'amore 17.Ciò che constatiamo in Paolo, si continua negli scritti dei discepoli dell'Apostolo, nei quali l'esortazione apostolica viene sviluppata come tradizione normativa per la relativa situazione18. Ciò significa: per il Nuovo Testamento, il magistero ecclesiastico non termina con gli apostoli; è un dono permanente della Chiesa che, nel periodo postapostolico, rimane Chiesa apostolica, dal momento che i successori legittimi degli apostoli hanno cura che si sia assidui nell'ascolto dell'insegnamento degli apostoli. Luca ne parla enfaticamente nella crisi della transizione, nella quale egli indica come metro della Chiesa di tutti i tempi la comunità

15 Schlier, pp. 341-344.16 Ibid., pp. 344-352. Qui, Paolo conosce il motivo «teleologico» (giudizio e ricompensa futuri) non meno dell'argomentazione «deontologica» alla luce delle implicazioni dell'essere membra di Cristo.17 Ibid., pp. 352 ss., in particolare p. 355.18 «I discepoli degli apostoli però e gli altri cristiani esortano tutti in base all'esortazione apostolica, sviluppando questa come tradizione normativa della loro relativa situazione» (p. 343). Questa mi sembra un'affermazione fondamentale per la base contenutistica permanente dell'etica cristiana, così come per la sua essenza in genere: sviluppo dell'esortazione apostolica come tradizione normativa per la relativa situazione.

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di Gerusalemme con il suo «essere assidua nell'ascolto dell'insegnamento degli apostoli» (At 2, 42) e descrive i presbiteri come gli avvocati appunto di tale assiduità nell'ascolto (At 20, 17-38) 19. A questo proposito, non si richiede lo sviluppo di una teoria dettagliata del magistero ecclesiastico e del suo accentramento nel magistero del successore di Pietro, sebbene non sia difficile rilevare le linee tracciate in questo senso nel Nuovo Testamento dal concetto sempre più chiaro della tradizione e della successione, da un lato, e dalla teologia di Pietro, dall'altro. È evidente che il contenuto fondamentale della successione apostolica risiede proprio nell'autorità di salvaguardia della fede apostolica; ed è evidente che l'autorità di insegnamento data in questo modo comprende essenzialmente anche la missione di concretare e di puntualizzare, in vista dei relativi tempi, la rivendicazione etica della grazia 20.Il cerchio delle nostre considerazioni si chiude così con un ritorno alle argomentazioni iniziali. Della fede cristiana fa di fatto parte la prassi della fede; un'ortodossia senza ortoprassi smarrisce il senso del cristianesimo: l'amore che viene dalla grazia. In questo modo, tuttavia, si viene ad un tempo ad affermare che la prassi cristiana è alimentata dal nucleo della fede cristiana: dalla grazia manifestatasi in Cristo, donata alla Chiesa nel sacramento. La prassi della fede è legata alla verità della fede, nella quale, per mezzo della verità di Dio, si palesa e si eleva ad un livello nuovo la verità dell'uomo. La prassi della fede, pertanto, nega

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19 Cf. a questo riguardo F. Mussner, Die «Una Sancta» nach Apg 2, 42, in Id., Praesentia salutis, Düsseldorf 1967, pp. 212-222.20 Cf. L. Bouyer, L'Église de Dieu. Corps du Christ et temple de l'Esprit, Paris 1970, pp. 401-447; Y. Congar, Ministères et communion ecclésiale, Paris 1971, pp. 51-94.

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radicalmente una prassi che intenda creare prima fatti e, mediante questi, verità: da una tale possibilità di manipolazione totale del reale, essa difende la creazione movendo dal Creatore stesso. Per essa, sono sottratti a qualsiasi manipolazione i valori umani fondamentali, di cui essa è consapevole guardando all'esempio di Gesù Cristo. Essa difende l'uomo difendendo la creazione; questo tener presente l'insegnamento apostolico è una missione incontestabile dei successori degli apostoli. È perché la grazia è riferita alla creazione e al Creatore che l'esortazione apostolica (come continuazione dell'insegnamento veterotestamentario) ha a che vedere con la ragione. Sia la fuga nella pura ortoprassi che lo sforzo di enucleare la morale dall'ambito della fede (e del magistero appartenente alla fede) significano nella fattispecie, contrariamente ad una prima impressione, un'accusa d'eresia alla ragione: nell'un caso, alla ragione viene contestata la capacità cognitiva della verità e la rinuncia alla verità viene elevata a metodo; nell'altro caso, la fede è enucleata dallo spazio della ragione e il razionale non è ammesso come possibile contenuto anche del mondo della fede. In questo modo o si dichiara la fede come irrazionale o la ragione come miscredente oppure tutt'e due le cose. Contemporaneamente viene attribuito in ogni tempo alla ragione, da un lato, una univocità che non ha, e, dall'altro, si lega il suo enunciato al relativo spirito del tempo, e a tal segno che la verità scompare dietro i tempi, tanto che per ogni tempo è razionale qualcos'altro, e si finisce così in ultima analisi movendo dal lato opposto nelle opzioni del puro dominio della ragion pratica. La fede degli apostoli, così come risulta ad esempio in Rm 1 e 2, ha una considerazione maggiore della ragione. Essa è convinta che la ragione è capace della verità e che, di conseguenza, la fede non deve essere costruita al di fuori della tradizione della ragione,

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ma trova il suo linguaggio nella comunicazione con la ragione dei popoli, assimilando e rigettando. Ciò significa che sia il processo dell'assimilazione che il processo della negazione e della critica debbono partire dalle scelte fondamentali della fede e debbono avere in queste ultime i loro punti di riferimento fermi. La capacità della ragione alla verità significa ad un tempo la costanza contenutistica della verità, che si accorda con la costanza della fede.Da quanto si è detto, risulta evidente il compito del magistero ecclesiastico in materia di morale. La fede, come abbiamo visto, include scelte di contenuto fondamentali in materia di morale. Compito del magistero è innanzi tutto quello di continuare l'esortazione apostolica e di difendere queste scelte fondamentali dall'abbandono della ragione in balia del tempo, nonché dalla capitolazione della ragione dinanzi all'onnipotenza della prassi. Di queste scelte fondamentali si deve dire che esse corrispondono a conoscenze fondamentali della ragione umana, le quali, al contatto con la fede, sono state ovviamente purificate, approfondite e ampliate. Il colloquio positivamente critico con la ragione deve, come detto, continuare per ogni tempo. Da un lato, non viene mai del tutto alla luce ciò che è veramente ragione e ciò che è solo apparentemente «razionale»; d'altro canto, in ogni tempo esistono ambedue: la ragione apparente e l'apparire della verità per mezzo della ragione. In questo processo di assimilazione del veramente razionale e di ripulsa del razionale apparente va collocata l'intera Chiesa; questo processo non può essere attuato in ogni dettaglio da un magistero isolato e con una infallibilità da oracolo. La vita e le sofferenze dei cristiani che vivono la loro fede nel loro tempo, ne fanno parte non meno del pensiero e delle domande degli studiosi, che tuttavia sono vanificate se ad essi manca la copertura dell'esistenza cristiana, che, nella

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passione della vita quotidiana, insegna il discernimento degli spiriti. L'esperienza di fede della Chiesa intera, la ricerca e le domande fatte con fede dagli studiosi sono due fattori: lo stare a guardare e l'ascoltare e il decidere con attenzione del magistero un terzo fattore: che la vera dottrina non prende piede automaticamente, ma che necessita dell'«esortazione e correzione» dei pastori responsabili, è un'esperienza fatta già dalla Chiesa del primo secolo, e pertanto essa ha istituito il ministero di coloro che, con preghiere e imposizione delle mani, vengono chiamati nella successione degli apostoli. Anche oggi questo ministero è per la Chiesa irrinunciabile, e là dove in linea di principio si nega ad esso la competenza della decisione contenutistica a favore o a sfavore di una interpretazione della morale risultante dalla grazia, là si scuote la

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configurazione fondamentale della tradizione apostolica.

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NOVE TESI SULL'ETICA CRISTIANA di HANS URS VON BALTHASAR

PREMESSA

Il cristiano che vive di fede, ha il diritto di motivare il suo agire etico alla luce della sua fede. Poiché il contenuto di quest'ultima, Gesù Cristo, il Rivelatore dell'amore divino trinitario, ha assunto la forma del primo Adamo e, ad un tempo, ha preso su di sé non solo la colpa di lui, ma anche le miserie, le perplessità, le decisioni della sua esistenza, non sussiste il pericolo per il cristiano di non ritrovare nel secondo Adamo il primo e quindi la propria problematica etica. Anche Gesù dovette scegliere tra suo Padre e la sua famiglia: «Figlio, perché ci hai fatto così?» (Lc 2, 48). Il cristiano farà quindi le scelte decisive della sua vita dall'angolazione di Cristo, ossia dall'angolazione della fede. Un'etica che parta dalla pienezza della luce della rivelazione e che da lí retroceda ai livelli preliminari carenti non la si può definire un'etica propriamente detta «discendente» (rispetto ad un'etica «ascendente» dall'antropologico quale fondamento solido).Ugualmente, non la si può accusare di astoricità, perché antepone il Vangelo alla legge del Vecchio Testamento. Il cammino è determinato e illuminato dalla mèta, anche e proprio questo cammino unico della storia della salvezza che raggiunge la sua mèta solo nella dialettica tra disfacimen-

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to e superamento (prevalentemente Paolo) e pienezza interiore (prevalentemente Matteo e Giacomo). Ovviamente, sotto l'aspetto storico-cronologico, si sarebbe dovuto anteporre le tesi 5 e 6 a quelle cristologiche e le tesi 7-9 alle prime. Il cristiano però vive qualitativamente nel «tempo della fine» e deve adoperarsi di continuo per promuovere, nel definitivo, ciò che in lui fa parte dei livelli preliminari. Ciò non esclude, ma include che anche Cristo compi la sua ubbidienza al Padre, non solo in modo profetico e indiretto, bensì anche mediante l'osservanza della legge e mediante la «fede» nella promessa; né esclude ma include che il cristiano lo imiti.Le nostre tesi sono estremamente sommarie e non trattano molti problemi essenziali. Della Chiesa, ad esempio, parlano solo marginalmente, dei suoi sacramenti per niente, del rapporto verso il suo autorevole ministero per niente; così come non trattano delle decisioni casistiche di ampia portata, dinanzi alle quali si vede posta oggi la Chiesa, decisioni che essa deve prendere nello spazio decisionale dell'umanità.

I. IL COMPIMENTO DELL ETICA IN CRISTO

1. Cristo come norma concreta

L'etica cristiana deve essere configurata movendo da Gesù Cristo, dal momento che questi, quale Figlio del Padre, ha compiuto pienamente la volontà di Dio (tutto il dovuto) nel mondo; e tutto ciò «per noi», perché da lui, dalla norma concreta di ogni agire etico compiuta, acquisissimo la libertà di compiere la volontà di Dio e di vivere il nostro destino di figli liberi del Padre.

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1. Cristo è l'imperativo categorico concreto, in quanto egli non è soltanto norma formale-universale dell'agire etico, bensì norma personale-concreta, che, in virtù delle sue sofferenze per noi e della donazione eucaristica del suo corpo a noi e dentro-in noi (per ipsum et in ipso), ci da interiormente la forza di fare con lui (cum ipso) la volontà del Padre. L'imperativo si fonda sull'indicativo (cf. Rm 6, 7 ss.; 2 Cor 5,15 ecc.) la volontà del Padre però è ambedue: amare in lui e con lui i suoi figli (cf. 1 Gv 5,1 s.) e adorare in spirito e verità (Gv 4, 23). La vita di Cristo è azione e culto insieme e questa unità è per il cristiano la norma compiuta. Solo con infinito timore e tremore (Fil 2, 12) possiamo collaborare all'opera salvifica di Dio, il cui amore assoluto ci sovrasta — nella maior dissimilitudo — infinitamente. La «leiturgia» è inseparabile dall'agire etico.

2. L'imperativo cristiano ci pone al di là della problematica di autonomia e eteronomia.

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a) Perché il Figlio di Dio, che è generato dal Padre, è, rispetto a lui, «heteros» ma non «heteron», è chi, quale Dio, corrisponde autonomamente a suo Padre (la sua persona con la sua processio ovvero missio), quale uomo, invece, ha in sé la volontà divina e il proprio consenso ad essa come fondamento della sua esistenza (cf. Eb 10, 5 s., Fil 2, 6 s.) e come fonte interiore del suo agire personale (cf. Gv 4, 34 ecc.), perfino là dove egli vuole passare per le sofferenze provocate dalle opposizioni a Dio dei peccatori.Nota: Ove non venga riconosciuta la divinità di Cristo, egli appare necessariamente un esempio umano; e l'etica cristiana si fa di nuovo eteronoma, nel caso in cui la norma di Cristo è obbligante per il mio agire, o autonoma là dove

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il suo agire viene interpretato solo come la perfetta determinazione di sé del soggetto etico umano.b) Perché l'eucaristia del Figlio, la nostra nascita con lui per grazia dal seno del Padre e la trasmissione del loro comune Spirito danno a noi, che come creature siamo permanentemente «heteron», la facoltà di sviluppare dalla potenza del divino (la «bevanda» diventa in noi «sorgente»: Gv 4, 13 s.; 7, 38) il nostro agire più autonomo, libero. E poiché Dio nella sua grazia opera «gratuitamente» e poiché noi, amando, dobbiamo ugualmente operare «gratuitamente» (Mt 10, 8; Lc 14,12-14), la «grande ricompensa nei cieli» (Lc 6, 23) non può essere altro che l'amore stesso; nel progetto eterno di Dio (Ef 1, 1-10), il fine ultimo coincide con il primo impulso della nostra libertà (interior intimo meo, cf. Rm 8, 15 s., 26 s.).3. Di conseguenza, tutto l'agire cristiano nella realtà di figli di Dio è un poter fare e non un dover fare. Più esattamente: per Cristo, tutta la gravita del suo dover fare («dei») salvifico fino alla croce dipende dal suo poter fare liberissimo (rivelare la volontà salvifica del Padre). Per noi peccatori, il poter fare di figli di Dio assume tanto spesso carattere di crocifissione, sia nelle scelte personali che nell'ambito della comunità ecclesiastica, i cui insegnamenti, intrinsecamente, hanno il fine di condurre il credente dall'alienazione, del peccato alla sua autentica identità e libertà, mentre possono (e spesso devono) apparire esteriormente come duri e legalistici all'individuo imperfetto, così come apparve al Crocifisso la volontà del Padre.

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2. Universalità della norma concreta

La norma dell'esistenza concreta di Cristo è, con il suo carattere personale, ad un tempo universale, dal momento che la sua attualizzazione dell'amore del Padre per il mondo è ampia e piena in modo insuperabile, e pertanto comprende in sé tutte le differenze degli uomini e delle loro situazioni etiche e unisce tutti gli esseri umani (con la loro individualità e libertà) nella sua persona, regna su di loro nello Spirito Santo della libertà per condurli tutti nel regno del Padre.1. L'esistenza concreta di Cristo — la sua vita, passione, morte e definitiva risurrezione corporea — annulla in sé tutti gli altri sistemi di normativa etica; l'agire morale dei cristiani deve, in ultimo, rendere conto solo a quella norma, che è l'archetipo dell'ubbidienza perfetta a Dio Padre. L'esistenza di Cristo annulla le differenze tra «coloro che sono sotto la legge» (giudei) e «coloro che sono senza legge» (pagani) (1 Cor 9, 20 s.), tra servo e padrone, tra uomo e donna (Gal 3, 28) e così via; in Cristo, tutti sono dotati di una medesima libertà di figli e tendono verso la stessa mèta. Il «nuovo» comandamento di Gesù (Gv 13, 34) (che nella sua realizzazione cristologica è più anche del maggiore comandamento della Vecchia Alleanza, Dt 6, 4 ss.) è più della somma di tutti i singoli comandamenti delle «Dieci Parole» e di tutte le loro applicazioni. La sintesi dell'intera volontà del Padre compiuta nella persona di Cristo è escatologica e insuperabile, pertanto è a priori universalmente normativa.2. Per quanto Cristo è la Parola incarnata e il Figlio di Dio Padre, Cristo annulla in sé la duplicità diastasata

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della «alleanza» veterotestamentaria. Egli, al di là del concetto di «mediatore» (che si pone tra le due parti), è il punto d'incontro personificato e in questo senso «uno»: «Ora non si da mediatore per una sola persona e Dio è uno solo» (Gal 3, 20). La Chiesa di Cristo altro non è che pienezza di questo Uno, essa è il suo «corpo» che lui vivifica (Ef 1, 22 s.), la sua «sposa» in quanto egli forma con essa «una sola carne» (Ef 5, 29) o «un solo spirito» (1 Cor 6, 17); anche come «popolo di Dio», la Chiesa non è più composta da molti: «tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3, 28). Poiché il gesto di Gesù fu «per tutti», la vita in comunione con lui è ad un tempo personalizzante e socializzante.

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3. Perché il gesto della croce per il quale si è disposto di noi a priori («Uno è morto per tutti e quindi tutti sono morti... perché quelli che vivono non vivano più per se stessi», 2 Cor 5, 14 s.), per il quale siamo posti dentro «in Cristo», non costituisce la nostra alienazione, ma il nostro «trapianto» dalle «tenebre» della nostra condizione di peccatori e di alienati nella verità e libertà dei figli adottivi di Dio (Col 1, 13) per cui siamo stati creati (Ef 1, 4 ss.). Dalla croce siamo dotati dello Spirito Santo di Cristo e di Dio (Rm 8, 9.11), nel quale la persona e l'opera di Cristo sono sempre presenti e attuali in noi, cosi come noi siamo continuamente attualizzati in Cristo.Questa reciproca immanenza ha per il credente dimensione esplicitamente ecclesiale. Infatti, quell'essere l'uno per l'altro nell'amore, secondo il senso del nuovo comando dato da Gesù, è riversato nei cuori dei credenti ancor più aprioristicamente mediante l'effusione dello Spirito Santo del Padre e del Figlio, del divino «Noi» (Rm 5, 5). Essere membra effettive del «solo corpo» include, sul piano (più che organico, e cioè personale) ecclesiale, il conferimento della persona-

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le consapevolezza delle membra del Noi, quella consapevolezza la cui attuazione viva è il fare etico dei cristiani. La Chiesa è aperta al mondo quanto Cristo è aperto al Padre e al suo regno onnicomprensivo (1 Cor 15, 24); ambedue «mediano» solo nell'immediatezza, cosa che già da sempre determina fin nei particolari ogni atteggiamento e azione della Chiesa.

3. Il senso cristiano della regola d'oro

La «regola d'oro» (cf. Mt 7, 12; Lc 6, 31), in bocca a Cristo e nel contesto del sermone della montagna, può essere presentata come la quintessenza della legge e dei profeti solo perché essa fonda l'aspettativa e l'offerta reciproche sul dono di Dio (che è Cristo), supera quindi il semplice senso d'umanità verso il prossimo e include lo scambio interpersonale della vita divina.1. In Mt e (in modo ancora più diretto) in Lc, la «regola d'oro» è collocata nel contesto delle beatitudini, della rinuncia alla giustizia perequatrice, dell'amore per i nemici, del precetto di essere «perfetti» e «misericordiosi» come il Padre nei cieli. Il dono da lui ricevuto viene quindi considerato come il contenuto di ciò che un membro di Cristo può attendersi dall'altro e che a costui deve corrispondentemente rendere. Così si conferma ancora una volta che sia la «legge» che il comune «senso d'umanità verso il prossimo» hanno da sempre il loro «termine» (cf. Rm 10, 4) in Cristo.2. Già la «legge» non fu semplice espressione del senso d'umanità verso il prossimo, bensì la manifestazione della

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fedeltà salvifica di Dio, che volle stringere un patto con il popolo (cf. tesi 6). I «profeti» però previdero un compimento della legge, che si rese possibile solo allorché Dio annullò ogni eteronomia e infuse la sua legge, come suo Spirito, nei cuori degli uomini (Ger 31, 33; Ez 36, 26 s.).3. Sotto il profilo cristiano, nessuna etica personale e nessuna etica sociale è astraibile dalla parola efficace, donatrice, rivolta da Dio: il dialogo interumano, per essere eticamente giusto, ha come suo presupposto il «dialogo» inter-divino-umano, ne sia l'uomo esplicitamente consapevole o non. Per contro, il rapporto di Dio rimanda espressamente al dialogo, che va ripreso su un livello nuovo (tra ebreo e pagano, tra padrone e servo, tra uomo e donna, tra genitori e figli, tra povero e ricco e così via).Pertanto, tutta l'etica cristiana è cruciforme: verticale e orizzontale, ma questa «forma» non è in alcun momento astraibile dal contenuto concreto, dal Crocifisso tra Dio e gli uomini. Questo Crocifisso si attualizza come quell'una norma in ogni rapporto singolo, in ogni situazione. «Tutto mi è lecito» (1 Cor 6,12; cf. Rm 14,14-15), se solo considero che la mia libertà deriva dalla mia appartenenza a Cristo (1 Cor 6, 19; cf. 3, 21-23).

4. Il peccato

Solo là dove l'amore di Dio è «giunto fino in fondo», la colpa umana si rivela come peccato, e i sentimenti umani si rivelano come derivanti da uno spirito positivamente antidivino.1. L'unicità e la concretezza della norma etica personale hanno come conseguenza che ogni colpa etica, voglia o no,

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si riferisce a Cristo; egli se ne rende responsabile e la deve soffrire sulla croce. La vicinanza del cristiano che agisce eticamente, questa vicinanza al principio della santità divina, che vivifica il cristiano come membro di Cristo, trasforma la colpa in peccato al cospetto di una pura e semplice «legge» (ebraica), al cospetto di una pura e semplice «idea» (greca). La santità dello Spirito Santo nella Chiesa di Cristo convince il mondo del suo peccato (Gv 16, 8-11), un mondo al quale apparteniamo anche noi («se diciamo che non abbiamo peccato, facciamo di lui un bugiardo», 1 Gv 1, 10).2. La presenza dell'amore assoluto nel mondo aggrava il no colpevole dell'uomo fino ad un no demoniaco, che è più negativo di quanto si renda conto l'uomo, e che tenta di farlo rientrare nel risucchio anticristiano (cf. le bestie apocalittiche, Paolo sulle potenze del cosmo, 1 Gv ecc.). -Il singolo deve invece combattere anche lui con l'« armatura di Dio» la battaglia della Chiesa di Cristo. — Il demoniaco si manifesta innanzi tutto in una gnosi disamorata, autoritaria, che all'agape ubbidiente a Dio dà ad intendere di essere coestensiva (Gn 3, 5), mentre «gonfia» (1 Cor 8, 1) invece di edificare. Poiché tale gnosi non vuole accettare per vera la norma personale-concreta, fa apparire il peccato nuovamente come pura e semplice colpa al cospetto di una legge o di un'idea, che essa tenta di giustificare progressivamente (mediante psicologia, sociologia ecc.).3. La cuspide del peccato anticristiano mira direttamente al centro della norma personale: essa trafigge il cuore del Crocifisso, che rappresenta nel mondo la concretezza dell'amore trinitario donato. L'assunzione del peccato da parte del Crocifisso rimane un mistero di fede, che nessuna filosofia è in grado di spiegare come «ineluttabile» o come

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«impossibile». Pertanto, anche il giudizio sul peccato rimane riservato al Figlio dell'uomo trafitto, al quale «è rimesso ogni giudizio» (Gv 5, 22). «Non giudicate» (Mt 7, 1).

II. GLI ELEMENTI VETEROTESTAMENTARI DELLA SINTESI FUTURA

1. La promessa (Abramo)

Il soggetto etico (Abramo) viene costituito dalla chiamata di Dio e dall'ubbidienza a tale chiamata (Eb 11, 8).1. Dopo l'atto di ubbidienza, il senso intrinseco della chiamata si rivela come promessa incalcolabile, universale («tutte le genti», riassunta in termini personali: «semini tuo»: Gal 3, 16). Il nome dell'ubbidienza è quello della sua missione (Gn 17,1-8); poiché la promessa e il suo compimento provengono da Dio, ad Abramo viene donata una fecondità soprannaturale.2. L'ubbidienza è fede in Dio e quindi valida corrispondenza (Gn 15, 6) che coinvolge non solo lo spirito, ma anche la carne (Gn 17, 13). Pertanto, l'ubbidienza deve giungere fino alla restituzione del frutto donato per grazia (Gn 22).3. Abramo esiste in una ubbidienza che, guardando alle stelle (irraggiungibili) in alto, attende la promessa.Riferito a 1. Tutta l'etica biblica è fondata sulla chiamata del Dio personale e sulla risposta dell'uomo che crede a

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lui. Nella sua chiamata, Dio si definisce come il fedele, veritiero, giusto, misericordioso (e altre circonlocuzioni del suo nome); in rapporto a questo nome viene stabilito il nome di colui che risponde, ossia la sua personalità unica. La chiamata isola il soggetto per l'incontro (Abramo deve abbandonare la sua stirpe e il suo paese); reggendo alla chiamata («eccomi», Gn 22,1), viene investito della missione che per lui diventa norma. Nella isolata situazione dialogica con Dio, Abramo, in virtù della sua missione, diventa fondatore di comunità, le cui leggi di riferimento orizzontali dipendono tutte, biblicamente, da quella verticale del fondatore o mediatore verso Dio o dall'atto di fondazione di Dio (cf. Es 22, 20; 23, 9; Dt 5, 14 s.; 15, 12-18; 16, 11 s.; 24, 17 s.). L'atto di fondazione di Dio è la grazia illimitata, che rimane indirizzo di ogni disposizione dell'uomo (la parabola di Gesù del servo malvagio Mt 18,21 ss.). L'apertura della benedizione su Abramo, nel Vecchio Testamento, è intesa sempre più chiaramente come quella verso il compimento messianico: nella focalizzazione su Gesù e nel conferimento (per mezzo della fede in lui) dello Spirito Santo si attua l'apertura verso le «genti» (Gal 3, 14).Riferito a 2. Nell'«alleanza» fondata su chiamata e risposta di fede (cf. Gn 15, 18 ecc.), il soggetto etico viene coinvolto in tutte le sue dimensioni: nell'osare della fede, ma anche nella carne e nella sua capacità («la

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mia alleanza sussisterà nella vostra carne come alleanza perenne», Gn 17, 13). E perché Isacco, nato dalla potenza di Dio, venga sottratto ad ogni tentativo di disporre di lui a posteriori, è nuovamente richiesto da Dio. Se la fede dell'infecondo fu già fede in Dio «che dà vita ai morti e chiama all'esistenza le cose che ancora non esistono» (Rm 4, 17), la fede del padre che restituisce il figlio alla promessa, è fede nella

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risurrezione, potenziata: «Egli pensava infatti che Dio è capace di far risorgere dai morti» (Eb 11, 19).Riferito a 3. L'esistenza di Abramo (e con essa di tutta la Vecchia Alleanza, incluso il tempo della legge) può essere solo un esistere nella fede in Dio, senza la possibilità di tradurre in atto la promessa di Dio. Il vecchio popolo può solo «aspettare» (Eb 11, 10) in una «ricerca» (ibid., 14), che non può essere più che un «aver veduto e salutato di lontano» e un aver riconosciuto che esso rimane «straniero e pellegrino» su questa terra (ibid., 13). Il vecchio popolo ricevette da Dio la buona testimonianza (martyrêthentes: 11, 39) proprio in questo librarsi della sua impossibilità di raggiungere e tuttavia di perseverare. La cosa mette conto per ciò che segue.

2. La legge

La legge del Sinai va al di là della promessa di Abramo, in quanto essa rivela espressamente — anche se per ora dall'esterno e dall'alto — i sentimenti intimi di Dio nell'intenzione di approfondire la corrispondenza dell'alleanza: «lo sono santo, perciò siate santi anche voi». Questo imperativo, che ha il suo fondamento nell'essenza intima di Dio, mira ai sentimenti intimi dell'uomo. La possibilità di corrispondere all'imperativo risiede nella verità assoluta di Dio che offre l'alleanza (Rm 7,12). A questa verità, tuttavia, non corrisponde intanto la stessa verità assoluta dell'uomo; questa sta solo nella promessa (ad Abramo) che, in modo nuovo e più puntuale, viene emanata come promessa profetica.1. La legge viene successivamente e non annulla il disegno della promessa (Rm 7; Gal 3); pertanto, può essere

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intesa solo come una definizione più esatta dell'atteggiamento della fede che attende. Essa chiarisce da vari lati il comportamento dell'«uomo giusto» dinanzi a Dio. Tale comportamento corrisponde indubbiamente alle strutture fondamentali della condizione umana («diritto naturale»), perché l'Iddio donatore della grazia è lo stesso Creatore; la causa di questo comportamento giusto non è però l'uomo, bensì una maggiore rivelazione della santità di Dio nella sua fedeltà all'alleanza. Di conseguenza, non siamo dinanzi ad un'«imitazione» (dell'essenza) di Dio nel senso greco, ma ad una corrispondenza al suo comportamento di «prodezze» nei confronti di Israele. Tuttavia, poiché la corrispondenza perfetta rimane oggetto della promessa, la legge rimane dialettica nel senso descritto da Paolo: di per sé buona, ma rivelatrice delle mancanze, in questo senso positivamente e negativamente «correttrice» in vista di Cristo.2. Visto dalla parte di Dio, l'imperativo della legge è l'offerta di vivere dinanzi a lui, nell'alleanza, in modo conforme a Dio. Tuttavia, questa offerta per grazia non è che il primo atto di un'azione salvifica, che solo con Cristo si compie e che, per ora, rivela, con la precisione (positiva) della corrispondenza, l'incapacità (negativa) del saper corrispondere, mentre questa continua ad essere sempre oggetto della promessa. Il divario che si spalanca, e al quale era stato dato di resistere solo nell'attesa, nella pazienza della fede colma di speranza, viene però dall'uomo sentito come insopportabile, e questi tenta di eluderlo in due direzioni:a) Elevando la legge (la Thorà) ad un assoluto astratto che subentra al posto del Dio vivente. Con il tentativo di adempiere letteralmente la lettera astratta, il fariseo crede di riuscire a determinare la corrispondenza impossibile. E

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da questa istituzione di un dovere astratto, formale, che derivano molte forme dell'etica; ad esempio, quella neokantiana del regno dei «valori assoluti», l'etica strutturalistica e quella fenomenologica (Scheler); e tutte quante hanno la tendenza ad erigere il soggetto umano infine a proprio facitore della legge, a soggetto idealisticamente autonomo, che limita se stesso per realizzarsi, com'è già abbozzato nel formalismo etico di Kant.b) Diluendo la legge percepita come un corpo estraneo nel movimento della promessa e della speranza: la legge come imposta dall'esterno e come colpevolizzante verso l'interno (Kafka) non può essere

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un'emanazione del Dio fedele e misericordioso, ma solo quella di un demiurgo tirannico (da qui il patto con la gnosi di E. Bloch; cf. il Super-io di Freud), il quale, in virtù di una speranza in prospettiva realizzata dall'origine autonoma dell'uomo, va superato come una follia del passato.c) Tutt'e due le scappatoie si incontrano nel materialismo dialettico, che identifica la legge con il movimento dialettico della storia e la diluisce in questo modo. Marx sa che non è l'eliminazione negatrice della legge («comunismo») a portare alla riconciliazione anelata, ma solo l'umanesimo positivo, che fa coincidere la legge con la spontaneità della libertà, in una corrispondenza ateistica con Ger 31 e Ez 34. In corrispondenza del carattere temporaneo dell'etica veterotestamentaria rispetto a quello dell'etica cristiana, da ultimi tempi, nell'etica veterotestamentaria (come nelle sue moderne forme alienate) la «riconciliazione» trascendente rimane anzitutto «liberazione» politica immanente, e il soggetto di questa rimane primariamente il popolo (ossia il collettivo umano) e non l'individuo, la cui unicità traspare solo in Cristo.733. Là dove viene meno la fede cristiana nella promessa compiuta in Cristo, a dominare con forza storica l'umanità sono, più che le etiche frammentarie extrabibliche, quelle veterotestamentarie, le più vicine al cristianesimo, e più esattamente — dal momento che è presente una coscienza della compiutezza in Cristo - - le loro forme deformate assolutistiche: la legge come assoluta e la profezia come assoluta.

III. FRAMMENTI DI ETICA EXTRABIBLICA

1. La coscienza morale

1. L'uomo (extrabiblico) si desta alla coscienza teorico-pratica di sé grazie ad una chiamata libera, amorevole, del prossimo. Rispondendo, egli sperimenta (nel «cogito/sum») sia la luminosità della realtà per eccellenza (come vera e buona), che si schiude da se stessa e libera l'uomo in vista di sé, sia il carattere interumano della sua libertà 1.2. In tutta la sua costituzione, l'uomo è configurato incline al bene trascendentalmente risplendente in modo incondizionato («necessitate naturalis inclinationis»: Tommaso de Ver. 22, 5) («synderesis», coscienza primordiale); e anche negli aspetti materiali del suo essere penetrato dallo spirito esistono inclinazioni ad esso.Né il velarsi della luminosità originaria, né l'essere trascinato attraverso beni direttamente presenti, né infine l'ottenebramento del carattere di dono del bene, mediante1 Cf. al riguardo: Hansjürgen Verweyen, Ontologische Voraussetzungen des Glaubensaktes, Patmos 1969.

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il peccato, possono impedire un orientamento segreto dell'uomo verso la luce del bene, pertanto anche i pagani saranno giudicati «per mezzo di Gesù Cristo, secondo il mio vangelo» (Rm 2, 16).3. Formulazioni astratte della configurazione dell'uomo incline al bene come «legge naturale» — ad esempio la formulazione del senso d'umanità verso il prossimo come «imperativo categorico» — sono derivazioni e hanno carattere di rimando.Riferito a 1. Nella chiamata interumana, l'uomo si desta al cogito/sum come all'identità della luminosità fattasi per lui e della realtà, un'identità che però, quale identità destata, viene ad un tempo sperimentata come non assoluta, perché donata. Nell'apertura trascendentale si scorgono contemporaneamente tre elementi:a) Un «essere dato» dell'identità assoluta di spirito e essere, quindi possesso assoluto di sé in pienezza e libertà, un «essere dato» che fa partecipare a se stesso (e tale assoluto «chiamiamo Dio, qui interius docet, inquantum huiusmodi lumen animae infundit»: S. Tommaso, de An. 5 ad 6).b) Nell'essere stato destato a questo Che-si-dà, la differenza tra libertà assoluta e donata, e ivi la rivendicazione di richiamo di corrispondere al dono assoluto in libertà.c) L'indifferenziato trascendentale dapprima sussistente tra la chiamata dell'Assoluto e quella del prossimo si differenzia per mezzo dell'esperienza aposterioristica (secondo cui il prossimo è ugualmente «solo» un soggetto destato), ma fa apparire come inseparabile l'originaria unità trascendentale di ambedue le rivendicazioni di richiamo.

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Riferito a 2. Come nell'originaria identità di essere e luminosità (come assolutamente Vero e quindi Buono e quindi Fascinosum: Bello) sono insieme libertà come governo di se stesso e grazia come far-partecipare (diffusivum sui), così nell'identità destata, derivata, libertà e inclinazione (al bene primordiale) sono

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inseparabili. L'attrazione attiva dell'incondizionatamente buono conferisce all'atto della libertà che risponde un momento di «passività», che non intacca la sua libertà (S. Th. I, q. 80, a. 2; q. 105, a. 4; de Ver. 25, 1; 22, 13, 4).Questa inclinazione alla potenza persuasiva del semplicemente buono governa l'uomo intero, anche la sua materialità informata dallo spirito, materialità che tuttavia, quando si astrae dall'interezza umana, non può giungere fino alla visione del bene per eccellenza e si ferma ai beni particolari. All'uomo compete, quale opera propriamente etica, l'eticizzazione di tutta la sua essenza corporeo-spirituale (ethizesthai); il risultato si chiama virtù. Ciò tanto più perché la chiamata del prossimo obbliga l'uomo a fare determinare la sua libertà da altre libertà ugualmente incarnate e a determinare a sua volta queste, cosa che infine dovrebbe avvenire alla luce del bene, anche se ogni volta richiede la luce della materialità mediatrice.L'apertura originaria del semplicemente buono sullo sfondo del cogito/sum (o la trasparenza della Imago Dei fino al suo archetipo paradigmatico) non riesce a conservarsi attuale. Malgrado ciò, essa permane nella memoria «tamquam nota artificis operi suo impressa» (Descartes, Med. III; Adam-Tannery, VII, 51). Dal momento che ha codeterminato la prima presa di coscienza dello spirito, essa non può essere dimenticata totalmente, nemmeno là dove avviene un allontanamento consapevole o abituale dalla luce del bene allo scopo di inseguire singole cose da godere o utili.

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E inoltre essa è se non altro una precognizione trascendentale di ciò che è rivelazione, e il luogo dal quale già da sempre emana la rivelazione «positiva» dell'Alleanza Vecchia e Nuova per l'intera umanità. Se tale rivelazione emana tuttavia dallo spazio aposterioristico della storia, non bisogna dimenticare che la chiamata del prossimo è (in senso trascendentale-dialogico) originaria allo stesso modo della chiamata del Bene per eccellenza.In quale misura e intensità di chiarezza emani simile rivelazione «positiva» al di fuori dello spazio biblico, dipende unicamente dal giudizio del Magister Interior, che però, a dire di Paolo, giudica i cuori anche dei pagani secondo la norma, divenuta sufficientemente esplicita, del donarsi di Dio in Gesù Cristo.Riferito a 3. Nel tempo dell'offuscamento della luce originaria del bene come grazia e amore, che attende una risposta libera di sentirsi in debito per amore, subentra il richiamo dell'«indicazione della via» che, in quanto tale, non intende sostituire e nemmeno rappresentare, ma solo richiamare alla mente il Bene-Se. Per quanto esso prende in considerazione le situazioni più importanti di uno spirito incarnato e socialmente costituito, esso si dispiega come «legge naturale», che non deve essere divinizzata, ma che deve piuttosto conservare il suo carattere essenzialmente relativo di indicazione per non irrigidire, bensì per poter mostrare la vivezza e il donarsi del bene. Ciò vale anche per l'imperativo categorico di Kant che, a causa del suo formalismo, deve contrapporre il «dovere» astratto alla «tendenza» materiale, mentre in verità si dovrebbe ottenere all'«inclinazione» (inclinatio) assoluta dell'individuo al bene assoluto il predominio su particolari tendenze contrastanti. Ciò di cui l'uomo dinanzi alla norma assoluta si appropria

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(stoicamente: oikeiosis) coincide con l'espropriazione di sé in vista del bene divino e del prossimo.

2. Ordine naturale prebiblico

Là dove manca una rivelazione di sé del Dio personale, libero, l'uomo, quanto all'ordine etico della sua vita, tenta di orientarsi sull'ordine del cosmo che lo circonda. Poiché egli deve la sua esistenza a leggi cosmiche, è ovvio che per lui l'ambito dell'origine (del divino) si fonda con l'ambito naturale. Una simile etica teo-cosmologica si frantuma, quando il fatto biblico ha acquisito risonanza di rilevanza storica.1. L'etica prebiblica che si orienti sulla realtà fisica può interrogarsi su un bene adeguato alla natura umana (honestum) in analogia al bene degli esseri naturali. Questo bene umano sarà tuttavia contenuto nell'ambito di un ampio ordine universale, che, avendo un aspetto assoluto (divino), schiude un certo spazio all'agire etico ordinato, mentre, conservando un aspetto mondano e finito, impedisce al libero arbitrio umano di attuarsi pienamente. Pertanto, i fini dell'agire rimangono in parte politici (all'interno di una micro- o macropoli), in parte individualistici-intellettualistici per quanto teoria e conoscenza delle leggi ritmiche dell'universo appaiono come ciò che c'è di più aspirabile.2. Con l'evento del fatto biblico l'uomo viene autorizzato dal Dio libero — che si distingue radicalmente dalla natura creata — ad una libertà, che non può derivare ulteriormente il suo modello d'azione dalla natura subumana. Quando questa libertà non intende rendersi cristianamente debitrice al Dio della grazia, essa, di

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conseguenza,

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cerca il suo fondamento in se stessa, e comprende l'agire etico come autolegislazione; dapprima, forse, in una ricapitolazione dell'esemplare comprensione del cosmo (cf. Spinoza, Goethe, Hegel); successivamente, abbandonando questo livello preliminare (cf. Feuerbach, Nietzsche).3. Lo sviluppo verifìcatosi è irreversibile. Sebbene esista la tendenza (cf. sopra, 6.3) a riportare l'etica cristiana nuovamente nelle sue forme preliminari veterotestamentarie, si può d'altro canto costatare un riflesso della luce cristiana nelle religioni e nelle etiche non bibliche (cf. ad es. il rafforzamento della componente sociale in India: Tagore, Gandhi). La distinzione tra conoscenza esistenziale ed esplicitamente dogmatica conduce ancora una volta all'ammonizione: «Non giudicate».

3. Etica antropologica postcristiana

Il fondamento di un'etica postcristiana ma non cristiana può, come tentativo, essere ancora cercato unicamente nel rapporto dialogico delle libertà umane (Io-Tu, Io-Noi). Poiché qui l'essere-in-debito cultuale (verso Dio) non risiede più nell'atto originario permanente della persona libera, il reciproco essere-in-debito tra i soggetti diventa un atto secondario, di valore relativo, la reciproca limitazione di soggetti, di per sé illimitatamente liberi, appare come esterna e forzata. Non è possibile pervenire alla sintesi tra la perfezione del singolo e quella della comunità.1. La rimanente «natura» o «struttura» postcristiana della condizione umana è la reciprocità delle libertà, ognuna delle quali solo nella chiamata dell'altra si desta alla coscienza di sé e alla capacità di rispondere e chiamare. In questo modo, sembra nuovamente raggiunta la «regola d'oro».

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Tuttavia, poiché la libertà chiamata non può in quanto tale essere in debito verso quella che chiama del prossimo (altrimenti essa sarebbe infine eteronoma), e poiché viene esclusa la chiamata di Dio, su cui si fondano tutt'e due le libertà, scambio e donazione di sé di ambedue rimangono limitati e calcolati. O l'intersoggettività viene intesa come un modo secondario (che non si può rendere logico) dell'un soggetto che comprende in sé, o i soggetti rimangono l'uno di fronte all'altro come monadi e impenetrabili.2. Le cosiddette «scienze antropologiche» possono apportare preziose conoscenze particolari al fenomeno della condizione umana, ma non sono in grado di risolvere quest'aporia fondamentale del senso d'umanità verso il prossimo.3. L'aporia antropologica raggiunge la sua acme là dove la morte dell'individuo impedisce la sintesi tra il suo perfezionamento personale e la sua integrazione sociale. I frammenti di significato che si formano lungo le due linee rimangono sconnessi e, pertanto, impediscono lo sviluppo di un'etica intramondana in sé evidente; dinanzi all'assurdità della morte — e quindi della vita che muore —, l'uomo può rifiutare di attenersi a qualunque norma etica. Le linee si incontrerebbero unicamente nella risurrezione di Cristo, che è la caparra tanto del perfezionamento del singolo che della comunità ecclesiale e, quindi, del mondo, sí che Dio, senza annullare il mondo, può essere «Tutto in tutto».

45864Finito di stampare nel mese di novembre 1986dalla tipografia Città Nuova della P.A.M.O.M. Largo Cristina di Svezia, 17 00165 Roma tel. 5813475/82

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