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BETEIDE Narrami, o musa, dell'eroe multiforme, che tanto vagò, dopo che distrusse la Rocca sacra di Troia: di molti uomini vide le città e conobbe i pensieri, molti dolori patì sul mare nell'animo suo, per riacquistare a sé la vita e il ritorno ai compagni .”

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BETEIDE

“ Narrami, o musa, dell'eroe multiforme, che tanto vagò, dopo che distrusse la Rocca sacra di Troia: di molti uomini vide le città e conobbe i pensieri, molti dolori patì sul mare nell'animo suo, per riacquistare a sé la vita e il ritorno ai compagni .”

                                                                                                   Omero, Odissea

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Ed ecco l'uomo ricco d'astuzie,  Odisseo politropo,  intento a sacrificare  i  cento buoi pingui alla glaucopide Atena, che tanto lo aveva giovato nel compimento del suo viaggio. Ma, mentre nell' αγορά maestosa itacese egli con il bronzo affilato rosso di sangue si sporcava le mani e dispensava l'ecatombe, tergeva lacrime e il suo cuore si straziava al pensiero del povero Telemaco: Poseidone enosìctono   infatti,  adirato  per   l'accecamento  del  figlio   suo  Polifemo,  aveva  privato  della   luce l'Ulisside cavandogli   i  bulbi oculari  e  lasciando spoglie le orbite. Lacrime amare inumidivano la pelle morbida dei  buoi,  dapprima  lacerati da Odisseo, dove la carne era più tenera mentre  le membra fuoriuscivano dagli animali possenti. L'accorto Odisseo già bramava vendetta per Telemaco gagliardo, pertanto invocò la dea Atena. Dal recinto dei denti volavano sfuggenti parole: "O, Pallade Atena,  ascoltami, tu che Delfi proteggi e sopra Atene regni sovrana, se mai ti ho bruciato cosce pingui accoglimi all'Olimpo e fammi sedere vicino a te, cui devo il mio  νόστος." La dea occhiazzurra rispose: "Paziente chiaro Odisseo, per quanto sia grande il mio affetto per te e ti abbia accompagnato lungo il tuo ritorno verso Itaca, 

adesso   mi   chiedi   troppo: fammi   consultare   il   padre nostro  Cronide  per  esaudire o negare la tua richiesta." La Pallade Atena così implorò Zeus   che  addensa   le  nubi  e domandò   ansiosa   la convocazione   del   concilio mentre   il   cuore   suo scalpitava.   Così  Zeus   egìoco indisse   un   concilio   per discutere   della   sorte   del 

mortale." Amata Atena, giá una volta acconsentii al suo ritorno, sai anche tu che non è bene violare le leggi che l'Olimpo ci impone; ma riporto alla mente quando Odisseo presso le navi argive sacrificava vittime e onorava gli dei nella vasta terra di Troia e allora sì mi fu gradito il divino eroe che supera per senno i mortali. Quindi accetto la sua richiesta." Così disse e mandò l'Arghifonte Hermes dal lungimirante uomo. Sull'Olimpo tutto era adornato a festa, una τραπεζα imbandita di nettare, ambrosia e cibo per il mangiatore di pane; vi era un meraviglioso συμπόσια al quale prendevano parte tutti gli dei: Zeus sedeva tra tutti i suoi figli mentre celebrava l'ospite desiderato; Era, stante dirimpetto al marito, discuteva   con  Hermes   delle   colpe   che   gli   uomini   spesso   attribuiscono   agli   dei;   Poseidone   a capotavola prendeva posto e sguardi  bui scambiava con Odisseo,  il  quale si  accomodava dalla 

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parte apposta del tavolo. Il padrone dei mari aveva posato incurante il suo tridente ornato d’oro, inconsapevole dell'inganno che tra i commensali stava avvenendo.Zeus indiceva un brindisi per onorare il pasto gradito al palato che veniva consumato; nel mentre, Odisseo –accorto- aveva rubato fuggitivo il tridente poichè era riuscito a distogliere l'attenzione da sé per rivendicare il dolore del figlio. Ma quando Pallade  Atena scoprì   il  misfatto del  mortale,   si   adirò  per   la  violazione  delle   leggi dell'ospitalitá e apostrofò l'uomo che tanto aveva giovato nel compimento del suo viaggio:" Stolto Odisseo, così conosci Poseidone? Certo non ti curi delle conseguenze delle tue azioni, mai avresti dovuto permetterti di compiere un gesto così oltraggioso. Mi rincresce dirti che sono da te ormai delusa ."Odisseo allora rispose alla meravigliosa donna:" Ti supplico, dea, mai nè uomo né donna una tale creatura divina i miei occhi hanno veduto: ti guardo e mi stupisco. Così, o guerriera, dinnanzi a te resto incantato, ti ammiro. Perdonami per il misfatto che ho recato a Poseidone, ma ora ti spiego: un grande dolore mi ha portato a compiere ciò,   l'afflizione   che un padre prova nel  vedere  il proprio figlio soffrire supera ogni limite umano." Proprio per questo Atena comprese e decise di appoggiare, seppur in parte, il piano ideato da Odisseo.Pertanto la glaucopide procurò al mortale un vantaggioso  φαρμακον, domandatole da Odisseo, indispensabile per il compimento della sua vendetta nei confronti di Poseidone. Esso infatti aveva il potere di rendere possibile la respirazione persino nel profondo degli abissi. L'acqua salata sfiorava il suo corpo immersosi ormai nel mar Egeo, scendeva senza sosta verso il fondale dove migliaia di creature vagavano verso l'ignoto, come Odisseo aveva fatto in passato diretto a Itaca. Fluttuava nell'oceano immenso e sconfinato, un brivido di collera lo percorreva, adirato per  le sventure arrecate da Poseidone enosictono; percepiva sulla pelle un senso di potere: nessuno mai l'avrebbe trattenuto nel suo intento ancora sconosciuto ad Atena e a tutti gli altri dei. Scendeva verso il più profondo dei mari, nel blu intenso incontrava esseri dalle forme e dai colori svariati   e   aveva   occhi   rapiti   dai  mille   coralli   che   riempivano   il   paesaggio  marino.   E  mentre rimaneva affascinato da tanta bellezza, improvvisamente, dinnanzi a lui, apparve un animale dai dodici tentacoli;  sei occhi lo fissavano con sguardo tenebroso. Il mostro era pronto ad ostacolare il suo tragitto: "Ascoltami attentamente, risolvi l'enigma e potrai fare di me ciò che vorrai, ma, se così non farai, diventerai la mia cena: ce l'hanno tutti  e  nessuno può perderla. Cos'è?"La creatura godeva nel vedere l'insignificante mortale in difficoltà,  come già era accaduto a tanti altri  sventurati prima di  lui,  e rideva al  pensiero che  l'uomo potesse anche solo minimamente avvicinarsi alla soluzione del dilemma: immaginava di pregustare la sua appetitosa cena. Il mostro marino ignorava peró la vera identità del mortale, inconsapevole della sua astuzia e della sua μετις. Ed ecco che l'uomo ricco d'astuzie lo sorprese rispondendo: " Tu non conosci il  mio nome, ma io conosco la risposta alla tua domanda; non fu saggia la decisione di rischiare la tua vita senza conoscere l'avversario che ti é innanzi, stolto! L'ombra é ció che tutti hanno ma che nessuno puó perdere ed è ciò che rimarrà di te!".  Estrasse così dal balteo il medesimo tridente del sommo Poseidone e lo trafisse dove la pelle era più tenera attraverso il morbido collo; lacerata la carne, strappò il cuore che pulsava un’ultima volta; le mani erano impregnate di rosso sangue, mentre il corpo, ormai privo di vita, si lasciava cadere straziato verso il fondale marino. 

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E, mentre nuotava nel più profondo dei mari, scorse una grotta imponente, vi entrò e udì una voce soave, gli pareva di sentire quella di una sirena. Occhi ammalianti, di un azzurro intenso, incrociavano lo sguardo di Odisseo e lui ne rimaneva affascinato; qualsiasi uomo ne sarebbe stato stregato, ma non un eroe come lui. Una   donna   dalla   nera   chioma   gli   venne incontro,   essendosi   accorta   dell'arrivo   di un   ospite   inaspettato.   Egli   appariva splendido   agli   occhi   della   donna   poiché Atena   lo   aveva   reso   simile   ad   un   dio. Inginocchiandosi   le   disse   alate   parole: "Donna, io so chi tu sei: Anfitrite, ninfa dei mari, bellezza incantevole, beati tre volte il marito   Poseidone,   i   figli   Tritone,   Rode, Cimoplea e Bentesicima e le tue sorelle. Ti porgo in dono il cuore della belva che uccisi in tuo onore, infatti lo offro a te affinchè tu mi accolga nella tua dimora. Ti prego di rispettare i vincoli di ospitalità e porgermi aiuto".Anfitrite, meravigliata dal fascino dell'uomo, rispose:" Straniero, svela il tuo nome e cosa ti porta nel grande oceano; ospite tu sei e ti ricevo al mio banchetto: serviti di ciò che l'ancella offre" . E lui:"  Odisseo  porto  come nome e  Atena  giova   il  mio  viaggio  perché  io  possa  avventurarmi  e conoscere nuove genti" così mentì l'accorto, non svelò infatti il vero motivo per cui era giunto alla grotta della ninfa. Dopo aver gustato ciò che Anfitrite gli  aveva offerto,  l'ancella portò giare colme di rosso vino, inebriante; Odisseo trasse in inganno la donna facendole bere gran parte della bevanda che si trovava nel vaso. Allora la ninfa si addormentò. Finalmente il mortale poteva mettere in atto il suo fatale tranello: con una potenza infinita le cavò gli occhi d'un azzurro intenso con le possenti mani, mentre lei urlava parole atroci tendando di ribellarsi alla forza bruta: "Infimo, che Zeus maledica te, la tua famiglia e la tua gente. Un dolore terrificante mi affligge. I vincoli di ospitalità mi avevi chiesto  di   seguire  e   così   io   feci,  ma   tu,  ospite   ingrato,  mai  avresti  dovuto   compiere  un   tale misfatto". Il mortale, dopo aver ascoltato le strazianti parole, impugnò il tridente che aveva prima rubato al marito della donna e trafisse violentemente il suo sinuoso corpo uccidendola. Lui  fuggiasco scappò  immediatamente senza curarsi  del corpo di Anfitrite esanime e, dopo un lungo viaggio di ritorno, riemerse dal mare. Finalmente dopo tanto tempo ritornò a camminare sulla terra ferma e a respirare aria. I piedi bagnati calpestavano sabbia dorata e l’ἠ baciava la sua pelle ancora umida.Intanto nell'Olimpo Hermes giá aveva annunciato la morte di Anfitrite, moglie di Poseidone, per mano   di   Odisseo;   pertanto,   il   dio   dei  mari,   venuta   a   sapere   la   struggente   notizia,   si   adirò profondamente in cuore,    la sua anima era straziata dal dolore. Il possente dio pianse dunque lacrime amare di disperazione; ne versò così tante da inumidire il terreno provocando una terribile disgrazia: una voragine che portò gli dei a sprofondare nel tartaro, precicpizio all’interno del quale sostavano per nove giorni le anime malvagie.Odisseo μεν godeva nel vedere il πανθεον scendere verso gli inferi, δε si tormentava nel notare che anche Atena stava precpitando.

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Arrivato ad Itaca, vide l'amata moglie che lo attendeva con nostalgia e nuovamente ne rimase incantato come la prima volta; un abbraccio profondo li riunì e un bacio passionale sigillò il loro amore. Poi scorse Telemaco, privo della vista, e un brivido di gioia invase sia il padre che il figlio, il quale riconobbe immediatamente la voce paterna. Odisseo estrasse quindi un cofanetto il quale conteneva un dono prezioso per il figlio: ammalianti occhi d'un azzurro intenso, quelli  che aveva sottratto ad Anfitrite;  glieli  pose nelle cavità  delle orbite spoglie donando nuovamente il privilegio della vista a Telemaco. Ο μυθος δελοι οτι το βουλεσθαι το δυνεσθαι εστι.

Consonni MaddalenaCorbellini BeatriceGullà GiuliaLucchi Camilla

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SOL LUCET OMNIBUSUna pallida brezza aveva inseguito le dita rosate dell'Aurora, quella mattina, quando le navi di Odisseo erano approdate alla città ciconia di Ismara. In quel momento, mentre il giorno soffocava nell'abbraccio   selvaggio   della   notte,   gli   itacesi   dissipavano   le   ultime   reliquie   della   cittadella saccheggiata. L'eroe osservava, dal posto d'onore degli ospiti, l'umile capanna dentro cui aveva fatto irruzione e davanti alla quale si era impietosito.Pietà per il vecchio dalle carni tremolanti e le ossa scricchiolanti i cui occhi opachi tradivano una riconoscenza  per   aver   risparmiato  moglie   e  figlio   tale  da   sembrar  ossequio.  Maro   si   sedette davanti   a   lui,   le   bende   sacerdotali   ormai   consunte   ed   ingiallite,   eppure   scrupolosamente custodite. Era stato il timore nei confronti di Febo Apollo, al cui cospetto era già reo della devastazione di una sua città sacra, a indurre Odisseo a risparmiare un suo così fervente servitore? Stava a cercando di reificare il perdono, di redimersi attraverso la pietà? L'anziano sacerdote inspirò stancamente, mentre la moglie entrava nella grezza stanza vacillando e trascinando una pesante giara dal cui interno giungeva un tiepido gorgoglio. Una manina cerea e emaciata scostò le  logore vesti della madre e un minuto bambino si  affacciò trepidamente da dietro le sue gambe. I suoi occhi acquosi esitavano fra la gratitudine del padre e l'ostile rabbia e paura della donna. «Dobbiamo ritenerci amnistiati dagli  dei- esordì  il  sacerdote sorridendo- se un siffatto eroe, re addirittura, ha deciso di graziarci in tal modo. O straniero ed ospite, magnanimo Odisseo, lascia 

che   ti   tratteniamo   ancora   fra questi   arredi,   di   modo   che, ristorato da un pasto e dal vino, tu   possa   ripartire   rifornito   di viveri. Sei la riprova che il divino signore Apollo Liceo è partecipe delle   nostre   sventure   e   ci assisteste   dal   celeste   Parnaso. Ma   ora,   ospite,   lascia   che   ti diletti   con   un   racconto   che   lo 

vede protagonista: un aedo mi insegnò tali parole. Ascoltami, e il dio ti sarà propizio.

«Febo Apollo si materializzò davanti ad uno dei suoi templi preferiti, il tempio per cui era noto anche con l'epiteto "Timbreo". Non poteva rimandare l'aurora ancora per molto, forse aveva solo pochi minuti prima che l'alba imminente lo richiamasse al dovere. Aveva chiesto a sua sorella Artemide di dilungarsi quanto le fosse possibile nel cielo notturno e lei, stranamente, lo aveva assecondato, rimproverandolo solo con un sospiro sconsolato. Perciò la Luna stava tramontando solo in quel momento, e gli

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impalpabili raggi che, obliqui, riuscivano a insinuarsi nel santuario rimbalzavano sul marmo bianco come sulla superficie di uno specchio d'acqua. I sacri serpenti del dio scivolavano frusciando, sinuosi e silenziosi, ai piedi dell'altare.Squame verdi, denti scintillanti , guizzi rossi, sibili, sussurri primitivi che parevano la voce del rimorso. E due figure umane dormivano beate, cullate dalla danza flessuosa dei rettili che, accarezzandoli, li purificavano. Cosa mai poteva esserci da purificare in due bambini addormentati?Due gemelli, due figli di re, come lo erano stati Febo e Artemide. Il dio raggiunse l'ara con movenze così armoniose e cadenzate che pareva stesse danzando, vi si appoggiò sopra e richiamò a sé i propri serpenti per non spaventare i bambini.Chi mai poteva essere così sventato da lasciare due principi incustoditi, sia pur in un tempio, sia pur in un suo tempio?Avvolto in un corto chitone di stoffa incorporea ed impalpabile, immerso nella sommessa ed evanescente luminescenza lunare, poteva sembrare solo un'apparizione. Un'apparizione, ecco quello che fu per Cassandra. Apollo apparso nello sfolgorio dei raggi, così come si sarebbe abituata a vederlo da quel momento in avanti. Fu la prima a svegliarsi, la prima a scorgere la figura celestiale dell'Arciere che si stagliava ai piedi del suo maestoso e imponente simulacro.Fra i due, solo la statua aveva un volto umano. Apollo non si mosse. Guardava la stupenda bambina dai ricci bruni ancora adagiata sul marmo gelido come gli uomini assistono alla schiusa di un uovo da cui non sanno che creatura nascerà.Cassandra si sarebbe messa a tremare, se solo avesse conosciuto abbastanza il mondo da interpretare il significato dello sguardo del dio. Ma fino ad allora era stata cresciuta da figlia di re, con l'orgoglio di una principessa, la fierezza nel portamento e l'alterigia nello sguardo. Al tempo era ancora la figlia favorita di re Priamo, non si era piegata davanti a nessuno, se non in adorazione davanti a suo padre. Aveva sempre riverberato la fiamma della dinastia Dardanide, amata dal suo popolo perché venerata dai fratelli. Non sapeva ancora, come non sapeva Apollo, che quello stesso popolo e quegli stessi fratelli l'avrebbero rinnegata.[Abbassa lo sguardo davanti al tuo dio, Cassandra. Abbassalo.]Ma gli occhi castani della giovane troiana rimanevano incatenati, fermi e palpitanti, soavi e duri insieme, in quelli del color del sole di Apollo che, ironicamente, trovava quella meravigliosa contraddizione più provocatoria del suo sguardo ostinato. Cassandra sentì il gemello muoversi contro la sua schiena e una mano della stessa dimensione della propria le tirò la stoffa candida e stropicciata del chitone. « Eleno, » sussurrò la bambina scuotendo trafelata il fratellino assonnato « Eleno, Eleno, guarda». [Guardalo. Non privarti della visione di un dio.]« Brilla come le lucciole del nostro boschetto.» rispose lui, aprendo appena gli occhi acquosi, traboccanti di una spensieratezza che forse gli dei avevano destinato ad entrambi i gemelli, ma che a Cassandra era stata precocemente preclusa.

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La giovane figlia di Priamo sarebbe volentieri rimasta a contemplare il dio fino a quando il dovere non lo avesse richiamato a splendere nel cielo, ma quando il suo sguardo si rivolse nuovamente verso l'altare, dell'empirea apparizione di Febo non erano rimasti che i due serpente guizzanti. Lo strillo di Ecuba squarciò la tersa immobilità del tempio. Cassandra capì che Apollo aveva percepito, con il suo udito vigile e raffinato, il sobbalzare del carro reale sulla strada dissestata e che aveva deciso di celarsi alla madre. Frastornata dalle urla della regina, quasi delusa per il brusco ritorno alla dimensione terrena, la bambina non comprese il motivo di tanta agitazione finché non si accorse che i sacri serpenti, prima inibiti dalla presenza del dio, si erano lentamente avvicinati a colei che aveva suscitato tale interesse nel loro padrone. Sentì il flebile pianto di Eleno, spaventato alla vista dei rettili, e il nitrito infastidito dei cavalli quando Ecuba, scendendo affannata dal carro, corse per i gradini del tempio e scacciò i serpenti. [Come se Apollo avesse davvero potuto lasciare che venisse fatto del male a due bambini in un suo tempio.]Il dio non poté non avvertire una punta di irritazione pizzicare il proprio sensibile orgoglio per questa mancanza di fiducia e anche, constatò contrariato, perché la regina non aveva rivolto una sola occhiata al santuario per accertarsi delle sue condizioni dopo i festeggiamenti per il genetliaco di Priamo. Si acquattò meglio dietro una delle imponenti colonne del tempio, il che fu completamente superfluo dato che si era reso invisibile ai mortali, e continuò ad osservare la scena. Ecuba sospinse i figli verso il carro e impartì qualche distratta istruzione all'auriga. Cassandra non aveva battuto ciglio per tutto il tempo, al contrario di Eleno che, attaccato al peplo della madre, stava ancora piagnucolando.Il dio sospirò e si diresse a grandi passi verso il boschetto che circondava il tempio di Apollo Timbreo per andare a recuperare i suoi serpenti, rifugiatisi in un cespuglio. Quando si voltò indietro prima di scomparire all'ombra delle scure fronde, Cassandra stava ancora guardando nel punto in cui l'aveva scorto l'ultima volta.

C'era stato un momento in cui Cassandra aveva pensato che non Apollo non si sarebbe più mostrato. Non si sarebbe certamente stupita, in fondo gli dei elargivano visite ai mortali sotto le proprie reali spoglie con la stessa assiduità della pioggia nel deserto del Sahara, all'epoca non ancora scoperto.I loro incontri avvenivano sempre dopo il tramonto, Apollo non aveva mai trascurato il proprio dovere divino per lei, nonostante da piccola le avessero narrato molte volte storie di passioni talmente ardenti da far negligere agli dei i propri obblighi. Quando capitava che gli aedi cantassero questi miti dopo l'episodio del tempio, Cassandra si alzava dal tavolo del simposio e stizzita si allontanava, con lo sguardo fiero ed incredibilmente adulto. Poco alla volta, in seguito, si era rassegnata alla spietata evidenza che il Sole avrebbe brillato sempre per tutti. Momenti sacri viveva con Apollo alla luce di poche fiaccole nella notte, attimi inviolabili come il sacrificio delle vittime sull'altare.Forse le stanze della principessa avevano un'aura numinosa che intimoriva tutti gli abitanti della reggia, servi e reali, poiché nessuno aveva mai osato irromperne all'interno.

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Forse era lo stesso Febo a tenerli lontani, Cassandra non si era mai interrogata a tal proposito: per lei, nelle sue convinzioni vertiginose e suggestionate, Eleno, l'unico altro a cui il dio si era mostrato, credeva che l'apparizione fosse frutto di estrosi e visionari sogni puerili. «È una sacerdotessa di Apollo.» la giustificavano genitori e fratelli quando non si presentava ai banchetti. Nel palazzo di Priamo quelle parole divennero una cantilena, una nenia innaturale che si mescolava ai canti delle nutrici per cullare i bambini che continuamente nascevano.«È pazza.» si erano giustificati in seguito se la voce del dio decideva di parlare attraverso la sacerdotessa in presenza di ospiti. Le risate dei bambini cresciuti si trasformarono sempre più in sorrisi di scuse. Una principessa che profetizzava la caduta della propria città in tempo di guerra era sicuramente folle. Non si poteva redimere un pazzo.A Cassandra cosa importava?Lei ed Eleno avevano smesso di essere gemelli quel giorno nel tempio. Come avrebbero potuto continuare a sentirsi tali? Eleno considerava solo una chimera trasognata la visione del dio al cui servizio Cassandra si era consacrata. Ogni volta che il dio si recava a visitarla, tutti i giorni, per la verità, il corpo di Febo Apollo aveva quel bagliore diafano che a lungo le aveva fatto pensare che fosse stato scolpito nella luce pura. Adorava affondare le mani in quei capelli ricci e fluidi come nettare, scompigliare deliziata la chioma bionda per verificare se i frammenti di luce che rimanevano aggrovigliati fra le ciocche bionde del dio sarebbero scivolati a terra in una pioggia d'oro. Eppure più dell'amore divino del dio del Sole aveva voluto, quasi preteso, quel dono che Apollo non avrebbe mai potuto negarle [e lei lo sapeva, lo sapeva da quando, ancora bambina, si lasciava prendere sulle ginocchia mentre il dio la guardava con la stessa tenerezza dolorosamente umana che le aveva brevemente riservato Priamo.]«Gli dei non concedono facoltà di tale portata a chiunque, mia profetessa. Ti conferisco il dono della Profezia, l'arte celestiale per eccellenza, ti concedo l'accesso alla mia essenza più genuina. Ciò equivale ad amore eterno per me. Cassandra, promettimi che mi amerai sempre.»La fanciulla non aveva realizzato la portata della promessa, oppressa, accecata dalla nuova vista che attraverso specchi incrinati le rivelava realtà distorte, velleità frammentarie che edificavano il suo mondo di apparenze dietro il velo della verità.[Ah, Cassandra, come se non sapessi fin dal primo momento che l'amore che ti chiede non è la sacra venerazione a cui ti sei votata!]Il nome di Apollo era sempre accompagnato dal suono della lira, nella testa della figlia di Priamo risuonava sempre la melodia che il dio stava suonando quando lei entrò nella propria stanza e lo trovò lì, seduto a terra, con la stoffa incorporea del chitone che si spiegazzava indolentemente sul corpo eburneo del giovane dio. Cassandra sorrise [tutti sorridevano quando lo vedevano] e i suoi bei boccoli bruni le molleggiarono sulle esili spalle. Continuò a sorridere, negando che fosse giunto il giorno in cui Apollo avrebbe reclamato l'amore che non aveva potuto chiedere ad una bambina finché non si rese conto di quanto la Vista l'avesse accecata. «Ti ricordi ciò che mi hai promesso, mia profetessa?» Cassandra crollò in ginocchio e cominciò a implorare, ma era lui l'unico dio che aveva da pregare, voltò la testa per non vedere la delusione, talmente irata da sembrare quasi umana, che

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adombrava lo sguardo del dio. Inquisì gli occhi di Apollo alla ricerca di una sfumatura dell'antico calore, ma scorse solo i riflessi duri e tetri dei lapislazzuli nelle sue iridi. Eppure continuò a sperare, quando lo vide avvicinarsi, che stesse cercando di perdonarla.Febo giunse così vicino al suo viso che Cassandra quasi riuscì ad udire la risata beffarda e sovrumana della vendetta del dio mischiata al suo fiato gelido. Un bacio, uno solo, poteva anche concederglielo. Ma lo sputo fu così inaspettato e tagliente che la vista le si annebbiò di quelle lacrime che d'allora in avanti non avrebbe potuto evitare.Ghigni opalescenti rilucevano al lucore di timide fiammelle, denti perlacei affilati come zanne. Quando Apollo le parlò per l'ultima volta, la sua voce riesumava l'ira degli dei dimenticati nel Tartaro, lo sguardo palpitante di un piacere feroce e sconvolgente.«Io ti maledico, Cassandra. Che nessuno creda mai ai tuoi oracoli.»E il dio scomparve in una vampata che spense i ceri della camera e rapì l'ultima scintilla di calore della profetessa, lasciandola a singhiozzare, nel tentativo di lavare via, con le lacrime che le bagnavano le labbra, l'onta della promessa frantumata. Da quel giorno i templi divennero tuguri. Nel suo vaticinare di fiamme e di eredi e di eroi, i fratelli erano caduti uno ad uno per le strade spazzate da venti di tomba.Da allora Sole, sempre Sole, Febo sadicamente onnipotente nel cielo opaco, offuscato dai fumi delle pire funerarie. Anche la notte dopo che Troia era bruciata, sarebbe sorto dietro alle ceneri della rocca come la città non avrebbe fatto.

Il Sole di Micene era lo stesso che l'aveva accarezzata a Troia. Quando Cassandra lo vide per l'ultima volta, era intriso e grondante di quel sangue con cui tingeva il cielo al tramonto. Era già giunto il tramonto? Le pareva che la notte si fosse appena conclusa.Forse... forse era la sua vista ad essere caliginosa di sangue. »

Così   Maro   terminò   il   suo   racconto,   il bambino   ormai   addormentato   dal   suono cadenzato   delle   sue   parole.   Il   volto   di Odisseo,  in parte rischiarato dalla  luna, in parte   adombrato   da   riflessi   di presentimenti   e   sospetti,   verteva   a espressioni  diverse.  Ma fu  una scintilla  di sincera   e   perita   ammirazione   quella   che accalorò   la   sua   voce:   «Devono   averti istruito le Muse, maestro ti è stato il Apollo ispiratore. Narrami ancora del dio.»

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«I boccioli dei fiori del giardino si stavano schiudendo in quel momento, dopo il sonno notturno, a poco a poco, come socchiudendo gli occhi per non rimanere abbagliati dal Sole, eppure anelando di vederlo a costo di incenerirsi all'istante. E splendeva, Apollo, brillava in quel momento come ogni giorno faceva nel cielo tanto distante.Lì, nel mezzo del prato fiorito, Febo rubava colore a tutto ciò che lo circondava, pareva che frammenti di luce gli fossero rimasti aggrovigliati fra i capelli ricci, che gli cadevano fluidi sulle spalle come l'acqua delle limpide sorgenti vegliate dalle sue amate ninfe.Gigli e fiori bianchi nascevano intorno ai suoi piedi nudi, sui suoi passi, pudici, acerbi, timidi di comparire di fronte al Dio. Animali di ogni genere si affacciavano alla radura, facevano capitolino dalle loro tane, incerti ma irresistibilmente affascinati, mostrandosi con un timore quasi reverenziale. Fili d'erba si attorcigliavano intorno alle caviglie di Apollo, forse tentando di trattenerlo, e piante di alloro protendevano i rami nella sua direzione, quasi volessero cingerlo, come se Dafne cercasse di perdonarlo, o di farsi perdonare.Apollo si spostava incerto di pochi passi, sembrava brancolasse, in prossimità di quel laghetto limpido e gelido. Cigni bianchi si stavano avvicinando a lui, non intimoriti come gli altri animali, ma superbi, eleganti, regali, come lo era stato lui.Apollo si chiese come avesse potuto sceglierli come animali sacri: fra tutte le creature che proteggeva, nessuna, in quel momento, gli era più estranea dei cigni, puri, liliali, incorrotti come lui non era mai stato. Un dio non poteva essere immacolato. L'onnipotenza non conosceva innocenza. Riguardo alla morte di Giacinto non era meno colpevole di Zefiro, il principe era rimasto vittima dell'amore capriccioso e volubile degli dei. Un amore divorante, eppure effimero come la vita che gli era stata tolta. La sua luce abbagliante aveva incenerito un'anima mortale. Il corpo del principe spartano giaceva su un tappeto di gigli candidi, che illuminavano la lieve sfumatura ambrata della sua pelle, in riva al lago. Il braccio era piegato in una posa innaturale, le dita eburnee che tanto aveva amato sentire sul suo corpo sfioravano appena l'acqua del lago, increspandone la superficie in un succedersi di cerchi concentrici. Apollo si inginocchiò accanto al corpo dell'amato, rimase a contemplarlo a lungo, passandogli le dita sottili e affusolate fra i capelli quasi corvini e sulle gote, restituendo loro con le sue carezze il colore perso. Sulla tempia, rossa e vivida come il dolore del dio lucente, spiccava la mortale ferita che l'aveva ucciso. Febo aveva fermato il sangue, ripulito e ricucito il taglio, cosicché ora poteva addirittura passare inosservato. La bellezza del suo principe era equiparabile a quella di un fiore raro, sembrava forgiata per essere amata da un dio. Possedeva un'armonia di lineamenti destinata a diventare arte nelle mani del dio Musagete.Avrebbe voluto baciarlo, ma non osava per paura di contaminarlo, sporcarlo con la sua colpa. E intanto boccioli nuovi seguitavano a sorgere dal terreno intorno a Giacinto, lambivano la sua pelle, come reclamandolo a loro, fra quanto di più genuino vi fosse al mondo.Il dio prese la lira fra le mani raffinate e marmoree, chiuse gli occhi e suonò la disperazione, suonò la sofferenza, suonò il lutto. Lacrime che parevano il distillato del puro strazio scendevano lungo le

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gote di Apollo, ma erano poche, come se si sentissero colpevoli di incidere con il dolore il volto celestiale del Sole.Quando Febo riaprì gli occhi, le iridi avevano rapito il colore dall'acqua limpida e gelida del lago. Davanti a lui, fra i boccioli candidi, svettava un nuovo fiore, scarlatto e vivido di colore, coltivato dal pianto di un dio, nutrito dalla luce divina del Sole in persona. »

L'Aurora   si   aveva   appena   iniziato   a   levarsi   dal   giaciglio   notturno,   ancora   assonnata,   e   il   suo risveglio faceva arrossire di gioia gli  angoli  più bassi del cielo.  Le sue rosee dita strangolavano l'ultimo spasmo della notte morente. Ma al risveglio del cielo si accompagnavano le ingiuriose e venefiche voci delle Erinni, cori di sussurri perseguitavano  i fautori di una strage iniqua. Le dee si avvicinavano, Odisseo poteva udire il fruscio dei loro passi, oltre il bosco sacro. Si avvicinano, nelle vesti degli armati abitanti di Isamara li costrinsero in fuga.

Nicotra Rita Nadir

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NELLA TELA DI ARACNEMi stavo accingendo ad uscire dall’Ade: quell’incredibile esperienza aveva lasciato tracce indelebili nel mio cuore . Tiresia mi si avvicinò immediatamente e, titubante perché sicuro che mi avrebbe sconvolto,   mi   disse   che   nel   mio   futuro   vedeva   nero.   Pur   colpito   da   questa   sconvolgente rivelazione,  cercai  di  non farmi  condizionare dal  mio destino,  così  tornai  dai  miei  compagni  e partimmo. Ma appena cominciammo a scorgere felici   la nostra  Itaca, Poseidone scosse la terra con il suo tridente e scatenò una terribile tempesta. Io ordinai  tempestivamente ai miei compagni di ammainare le vele e di mettere in mare i remi. Loro eseguirono con prontezza i miei ordini, ma la corrente ruppe immediatamente i remi. Il vento era contrario, perciò non potevamo usare la vela. Eravamo totalmente in balia della corrente che ci trascinava via, sempre più lontano da Itaca e dal nostro sogno di ritornare in patria. La tempesta si placò solo due giorni dopo, nel cuore della notte.   Dovevamo   trovare   un   luogo   dove   attraccare.   Subito.   Arrivammo   ad   un’isola   di   cui ignoravamo l’esistenza. Legammo subito una gomena ad un albero presso la foce di un fiume. Tagliammo la legna e prendemmo dalla stiva della carne e del formaggio che ci erano stati  offerti da Circe. Accendemmo perciò   un fuoco per poter cuocere la carne, poi, affamati, la divorammo con  il   formaggio.  Dopo aver consumato  il  pasto e avere   spento  il   fuoco ci  addormentammo, finalmente non più in balìa delle onde. Il giorno dopo ci svegliammo presto e i miei compagni si misero   a   cacciare   per   rimediare   alla   scarsità   di   viveri   nella   stiva.   Pronti   per   andarcene,   ci accorgemmo purtroppo di  una falla sullo scafo della nave. Era impossibile metterci   in mare in quelle condizioni, perciò i miei compagni più esperti iniziarono a riparare l’imbarcazione, mentre io ne  approfittai  per  esplorare   l’isola,   un  paradiso  meraviglioso   caratterizzato  da   luci   e  profumi ineguagliabili rispetto alla mia petrosa Itaca. La foresta di pini che si estendeva di fronte a me era incredibile: altissima anche se non particolarmente fitta. Chiamai i miei compagni e riferii loro che avevo intenzione di addentrarmi nella parte più interna dell’isola. Loro, timorosi, mi supplicarono, dissero che non volevano venire, ma io, spinto dalla mia sete di conoscenza, non li ascoltai  e scelsi i tre più valorosi perché mi accompagnassero. Dopo esserci inoltrati nel fitto della foresta udimmo un canto così meraviglioso che credetti che le muse stessero cantando per noi. Seguimmo quelle voci melodiose e ci trovammo davanti a una grotta: entrammo e trovammo una donna che filava: i suoi occhi erano neri, come una notte senza stelle, i suoi capelli bruni avevano lo stesso colore del tronco degli alberi e la sua pelle sembrava ghiaccio. Era molto bella, ma la parte inferiore del suo corpo tradì la sua vera natura: sembrava un centauro, come Chirone, ma le zampe erano quelle di un ragno. Un mio compagno urlò, mi girai per zittirlo, ma mi accorsi che l’ingresso della caverna era stato bloccato da una ragnatela. La donna si accorse di noi e si avvicinò; io terrorizzato pregai tutti gli dei, ma lei si diresse verso uno dei miei compagni e lo uccise, poi afferrò il corpo e se ne andò. Era quasi sparita alla nostra vista quando improvvisamente si girò e ci fece segno di seguirla. L a seguimmo dentro quella che sembrava una cucina; lei mise il cadavere su un letto di paglia.Cautamente, decisi di parlare: “Mia signora, noi siamo eroi di nobile stirpe, veniamo a implorare la tua benevolenza. Concedimi l’onore di sapere quale sia il nome di una creatura stupenda come te!”. “Il mio nome è Aracne” sibilò con voce ripugnante.

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“Aracne, il  suono del tuo nome pare una poesia. Il tuo cuore non può che essere generoso. Ti supplico come non ho mai supplicato neanche gli dei, lasciaci andare, la mia sposa mi aspetta a casa: è destino che io la veda”. Il mostro sembrò pensarci su. ” E sia” annuncio lei con freddezza, e mi si gelò il sangue nelle vene, intuendo che non era finita lì “Ma i tuoi compagni resteranno qui e tu giacerai con me questa notte”. I due uomini rimasti guardarono il cadavere e sbiancarono in volto. Io provai a dirle qualcosa per farla desistere dai suoi propositi, ma lei non mi ascoltava. Per non essere ucciso fui costretto a trascorrere la notte con lei, così come quella dopo e quella dopo ancora. Ovviamente non mi lasciò partire, né concedette ai miei due compagni di tornare alla nave e di salpare immediatamente con gli altri superstiti. Passarono tre mesi, poi Aracne scoprì che la dea che l’aveva maledetta, Atena, era la mia protettrice. Furiosa, tentò di uccidermi, ma io riuscii a ferirla colpendola con un coltello a una zampa. Tentai di fuggire, ma mi ero dimenticato della ragnatela all’ingresso. Aracne mi raggiunse con il pugnale e in quel momento mi venne un’idea: mi posizionai  davanti alla ragnatela e mi spostai  solo quando  lei  mi si  avventò contro.   Il  pugnale rimase incastrato e squarciò la ragnatela da un lato; lei mise gli occhi su di me con uno sguardo omicida, pronta al contrattacco. Io ebbi appena la forza di spostarmi dall’altra parte e per poco non venni colpito dal pugnale, tale era la sua velocità, ma il piano aveva funzionato: la ragnatela era lacerata in due punti e non mi fu difficile strapparla completamente. Appena la ragnatela fu lacerata,  vidi due figure fuggire verso la nave e capii  che erano  i  miei compagni sopravvissuti. Aracne, però, fu più veloce: uccise il secondo, che era inciampato, e colpì il primo a una gamba. Io allora lo caricai sulle mie spalle e lo portai fin sulla nave; solo allora mi accorsi che il mostro non ci aveva seguiti. I miei compagni, vedendomi correre, misero in acqua i remi nuovi e, dopo averci caricato a bordo, ripartirono verso Itaca. L’ultima ricordo che ho di quell’isola è la voce di Aracne che mi maledice, ma le sue parole si persero nel vento come l’acqua di un fiume che si tuffa nel mare. Piangemmo molto e per   molti giorni i compagni morti e tutto il tempo perso, ma in cuor mio sapevo che cosa la Moira stava preparando per noi:  sarebbero tutti morti in un modo o in un altro, ad uno ad uno, come le foglie degli alberi in autunno.  

Saldarini Simone

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ODISSEO , I GALLI

E NUBICUCULIAEra   un   giorno   come   tanti   in   quell’immenso  mare.  Odisseo   si   era   ormai   rassegnato   alla   sua tremenda situazione.  Una nave  ,però,  stava passando da quelle  parti:  quella  dei  potenti Galli, storici  rivali  del popolo Romano.  Il   loro capo si  rivolse al  figlio di Laerte: ”O naufrago ,vedo e comprendo   la   tua  difficile   situazione.  Ti  offro   infatti una  vantaggiosa   soluzione:   se   riuscirai   a 

condurci   alla   meravigliosa   città   sulle nubi   ,potrai   far   parte   del   nostro equipaggio: avrai un tetto sulla testa, cibo e   nuove   vesti   pulite.   L’astuto   Odisseo accettò   immediatamente   l’offerta,   ma nella  mente   aveva   già   pronto   il   piano: avrebbe   condotto   i   Celti   con   l’inganno verso Itaca, e, con la scusa di scaricare le merci,   sarebbe   fuggito   verso   la   sua reggia,   per   riabbracciare   la   sua   amata moglie Penelope. Allora Ulisse simile a un dio   cominciò   a   dare   indicazioni   per   la terra di Laerte. Nel frattempo Poseidone 

lo   Scuotiterra,   irato   con  Odisseo  per   l'accecamento  del   figlio  Polifemo,   vide   che   l'eroe   stava navigando in direzione di Itaca: scatenò una tremenda tempesta con il suo tridente, e radunò le nuvole per provocare un temporale. La nave si distrusse, e tutto l'equipaggio naufragò. Finirono così  su un'isola  nell'ombelico del  mare:  essa era composta di  rocce rossicce ed era spoglia di piante  di   qualsiasi   genere;   spiccava   solo  un'alta  montagna,   ricoperta   sulla   cima  da   soffici   ed argentee nubi. I poveri uomini, sopravvissuti al naufragio, decisero di andare a cercare un tempio per ringraziare gli dei della loro sorte compiendo un sacrificio, ma, non avendo buoi o animali a disposizione,  decisero che avrebbero sacrificato Odisseo, poiché era  l'ultimo arrivato ed anche l'ultimo nelle gerarchie di quell'equipaggio. Lo legarono perciò con delle corde e partirono verso la cima della montagna,  poiché era probabile  ci   fosse un tempio:  non era raro trovare templi  o santuari sulle cime di montagne, perché gli antichi erano convinti che una posizione sopraelevata potesse permettere un contatto più diretto con l’Olimpo. 

Dopo  ore  ed  ore  di   cammino,   arrivarono   sulla   cima:   lì   non   trovarono   templi   o   santuari,  ma addirittura  un’intera   città:  Nubicuculia.   Subito  due  uomini   andarono  incontro  all'equipaggio  e chiesero: "Che cosa cercate ,o viandanti, qui a  Nubicuculia? “ "Cercavamo un rifugio e ospitalità, 

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e, se possibile, anche un tempio per fare un sacrificio agli dei: abbiamo avuto una sorte favorevole e intendiamo rendergli grazie".

Ma gli uomini risposero: "Voi qui non troverete nulla di ciò che cercate: questa non è una città atta a fare  beneficenza"  .  Chiamarono perciò  un  imponente stormo di  uccelli  che scagliò  giù  dalla montagna  i   galli  e  Odisseo.  Si   ritrovarono dall'altro   lato dell'isola  e,   siccome prima di  partire avevano lasciato viveri e oggetti sull' altra sponda, decisero di circumnavigare l'isola a nuoto. Ma lo scuotiterra voleva ostacolare Ulisse, non permettendogli di tornare facilmente a casa: scatenò un violento   terremoto,   che  a   sua   volta   causò  un  maremoto  dalle  onde  gigantesche.   I   naufraghi decisero   quindi   di   rifugiarsi   in   una   grotta   sulla   riva,   spaventati   dal   nuovo   terremoto.Entrarono nella spelonca e trovarono altri uomini, già precedentemente naufragati e in seguito cacciati da Nubicuculia. Uno di loro si alzò e disse: "Anche a voi è toccata la nostra stessa sorte? Siete stati respinti nel vostro tentativo di entrare nella magnifica città sulle nubi? Beh, non siete i primi, e credo che non sarete neanche gli ultimi.";  subito il re dei galli raccontò la loro vicenda, e lo  stesso  fecero gli  altri  calunniatori.  Dopo  il  drammatico racconto,  uno degli  uomini  prese  la parola:  "Perché non ci  alleiamo e  conquistiamo  la  città?"  "Sembra una buon  idea  "disse  il   re gallico.  Odisseo a quel punto prese parola ed espose un piano per conquistare la città: uno di loro avrebbe distratto i due re, attirando il temibile stormo di corvi, mentre gli altri compagni, aggirando la città, priva di guardie, avrebbero catturato gli uccelli con delle reti da pesca. A quel punto i re, rimasti senza difese, avrebbero potuto essere facilmente sconfitti. Il piano fu messo in pratica: Odisseo, sfruttando la sua capacità oratoria, chiamò i due re fuori dalla città, con la scusa di cercare un rifugio sicuro, e articolò un lungo discorso sul fatto che la Moira era adirata con lui; i due re, senza indugio, fecero il fischio di richiamo per attirare lo stormo, in modo che cacciasse il viandante. Ma, nel frattempo ,i calunniatori avevano prima attirato poi catturato lo stormo di corvi con delle reti da pesca: i re si trovarono spiazzati dal mancato arrivo dei volatili e cominciarono a rassegnarsi al proprio destino. Arrivarono anche i compagni di Odisseo puntando le spade, e i sovrani si videro costretti ad arrendersi   .Spartite le ricchezze tra  i  calunniatori  e  i  galli,  questi ultimi decisero di ripartire per la Gallia con Odisseo, mentre i calunniatori restarono a governare Nubicuculia,dopo aver gettato nelle segrete i precedenti sovrani. Odisseo, forte del fatto che il suo ruolo era stato determinante nella sconfitta del nemico, chiese ai galli di essere lasciato a Itaca, poiché riteneva di meritar una ricompensa per il suo geniale piano, e i galli acconsentirono. Partirono perciò alla volta di Itaca:   Odisseo era pazzo di gioia all’idea di poter finalmente tornare a casa, nella sua amata Itaca, dalla sua amata Penelope. Ma i Galli, con un disonesto inganno, lo riportarono all'isoletta da cui era partito. Uno smacco temporaneo per il nostro Odisseo, che, attraverso la sua astuzia e la sua politropia, sarebbe sicuramente riuscito a cavarsela, come di fronte ad ogni avversità, anche questa volta. Ma questa…è un’altra storia.

Mazzoccato Damiano

Porro Luca

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EMOZIONI SENZA VOCEDa lungo tempo ormai Ermes Argifonte seguiva le avventure dell' abile Odisseo, eroe dalle mille astuzie. Sin dalla vicenda nell'altro di Polifemo, il messaggero alato, figlio di Zeus, provava una profonda   stima  nei     confronti  dell'accorto   re.     Ermes  ψυχοπομπος  aveva   fornito  ad  Odisseo 

numerosi aiuti nel corso del suo lungo viaggio. L’abile oratore, in un giorno   di     cielo   terso,   nel   quale   i raggi     del     sole   accarezzavano   tiepidamente   la   sua candida     pelle,   si   imbattè   nella   temibile   Isola   dei Ciclopi. Forse erano state le Moire, tessitrici di sorti, a condurlo in  quel luogo inospitale tanto  amato quanto odiato.     Ermes,   dopo   aver   portato   a   termine   per l'ennesima  volta   il   suo   compito  di  messaggero  degli dei,   appena sfiorato  il suolo dell'isola, venne attratto da   una   voce   profonda   e   armoniosa.   Un   brivido percorse la schiena del Dio, che si  sentì  invaso   da  un sentimento    di     terrore      ed  eccitazione.    Trovó     la fonte     di     quella       voce     tanto   familiare     quanto estranea  e  la paura lo  attanaglió quando si rese conto che tale suono proveniva da un luogo  così terrificante: 

la  caverna di un ciclope. Attraverso uno spiraglio che dava sull'interno dell'antro scorse finalmente la sorgente di tale richiamo. Era Odisseo, il multiforme, che  stava discutendo con uno dei figli del Dio del Mare, Polifemo. Il mostro dall'unico occhio afferrò  tre dei compagni dell'eroe e li ingurgitò brutalmente, come un leone montano   sbrana le proprie prede indifese. Il Dio rimase sconvolto dalla cattiveria che dimostrava il ciclope, tanto  da decidere di  fuggire. Per il resto  della giornata continuò a rammentare Odisseo. Il   ricordo di   ciò   che aveva visto lo torturava, lo sconvolgeva. Comprese  infine di  essere terribilmente preoccupato per  il  magnifico eroe,   temeva per  la sua salvezza.   Quindi   decise   di   tornare   nel   luogo   maledetto.   Appena   arrivato   trovò   la   caverna nuovamente bloccata dall'enorme  masso.  Riprese perciò ad osservare gli  avvenimenti  all'interno dell'antro  attraverso lo spiraglio . In quel  momento Odisseo stava  parlando con voce suadente ed ipnotica al gigante mostruoso, che sembrava irrimediabilmente ubriaco. Il Dio ascoltò ciò che   Odisseo   stava   raccontando   e   rimase profondamente   affascinato.   Il  modo   in   cui l'eroe   si   esprimeva,   le  parole  accurate  e   il tono ammaliante con cui l’abilissimo oratore dava prova delle sue doti retoriche   resero Odisseo un maestro di eloquenza agli  occhi di Hermes. Il Dio rimase a lungo ad osservare la  scena  che  si  stava  svolgendo  all'interno 

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dell'antro          affascinato          e spaventato.   Improvvisamente, non   appena   il   ciclope   cadde addormentato,  Odisseo     e     i suoi     compagni   appuntirono un     grande     ramo   secco   di quercia       e     lo     resero incandescente  bruciandone la punta     sull'  enorme    fuoco crepitante     al     centro     della grotta.     Subito    il    bastone ardente     venne       conficcato 

brutalmente   nell'occhio   del ciclope, il quale inizió a gridare in preda al dolore.

 Il dio era sconvolto dalla brutalità di quell'uomo, fino a pochi momenti prima così affascinante, ma anche ammaliato dall'astuzia che tale umano era riuscito a dimostrare. In preda al terrore Hermes se ne andó, viaggiando velocemente attraverso il cielo notturno costellato di astri luminescenti.Fu costretto a vedere troppe volte la candida luna rincorrere il sole Iperione nella volta celeste prima di imbattersi nuovamente in Odisseo. Avvenne sull'isola dei Feaci il tanto atteso incontro. Hermes, tornando all'Olimpo, sentì nuovamente quella magica voce che lo condusse a seguirla e a trovarne l'origine. Era nuovamente il suo adorato eroe Greco, ma questa volta stava narrando le sue avventure terrificanti. Odisseo raccontava. Il pubblico ascoltava, ammaliato e magnetizzato, tali terribili storie. E sopra gli ascoltatori, ben nascosto da un pilastro marmoreo che svettava verso il cielo, il Dio Hermes si smarriva stregato in quella miriade di parole e di avventure. Riviveva con Odisseo la sventura nell'isola dei Lotofagi, rivedeva di fronte a se' l'immensa schiera di animali che popolavano l'esterno della casa di Circe. Un brivido risaliva placido lungo la schiera, vertebra dopo 

vertebra, fino ad arrivare alla punta dei capelli  dorati ed irradiarsi inesorabile nei nervi del suo corpo fragile. Una lacrima fredda scese improvvisamente dagli occhi vitrei di Odisseo, rigò il suo volto, solcato dai segni del tempo, percorse lentamente la sua guancia scavata, sfiorò le sue labbra secche e impazienti, fino a scendere sul suo mento pronunciato e abbandonarsi nell'aria pesante  del caldo estivo. Migliaia di lacrime calde scendevano rapide dai suoi occhi limpidi e, nonostante Odisseo cercasse di nasconderle, persino Hermes dall'alto della sua colonna riusciva a vederle e a seguirne il tragitto intricato.                                                 

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Sentendo tutti quei racconti il dio era rimasto esterrefatto e sentiva una sensazione mai provata prima crescere lenta e pacata e sobbollire nel suo petto, come fuoco ardente.  Mai aveva visto nè sentito parlare di un uomo con tali capacità,   un   eroe   coraggioso   e   astuto.   Sembrava impossibile che un essere umano, cosí triste e sperduto, potesse   essere   così   abile   fino   ad   eguagliare,   se   non addirittura a superare, un dio stesso. La   stima  si   trasformó   in  amore  quel   giorno.  Un  amore 

senza futuro, un amore basato sulle storie e sui racconti, nessun rapporto ancora, nessuna parola scambiata,  nessun sorriso condiviso,  un amore platonico di  un dio onnipotente per un misero uomo. Ermes decise di rimanere sull'isola fino alla partenza di Odisseo, per osservarlo e per avere il   tempo  di   decidere   il   da   farsi.   Prese   forma  umana,   in  modo  da   potersi  mostrare   ad   altri, trasformandosi   in  un ragazzo  splendido,  simile  ad Achille  massacratore: aveva lunghi capelli biondi che scendevano fino alle spalle e vicino ai lobi delle   orecchie   formavano   dei   piccoli   boccoli   ambrati,   due   gemme smeraldine,   al   posto   degli   occhi,   brillavano   tenacemente   con   un'aurea divina, il naso aveva tratti perfetti, così come le labbra scarlatte e carnose.L'uomo era  piuttosto  alto   e  muscoloso,   con   lunghi   fasci  di   tendini   che scattavano   ad   ogni   suo   movimento.   Per   qualche   giorno   si   finse   un collaboratore dei Feaci, incaricato da Alcinoo di aiutare gli abitanti di Itaca a preparare il necessario per affrontare il viaggio di ritorno. Spiò ogni movimento di Odisseo: come muoveva  le mani callose quando  lavorava,   il  modo in cui  si  strofinava il  mento bruno quando rifletteva,   come strizzava  gli  occhi  olivastri   intrisi  di  nostalgia  quando  ripensava  alla   sua   città amata, a sua moglie, a suo figlio e al suo cane. L’eroe e il dio dialogarono più e più volte nel corso di quelle giornate assolate, discussero di navi possenti, parlarono di venti, ricordarono la propria patria natia, e il dio dovette aguzzare l’ingegno per non far trapelare la propria identità e i propri sentimenti. Il giorno prima della partenza degli Achei, Ermes decise che l’ora era ormai giunta. Sul 

far della sera, quando il tramonto tingeva con le sue dita il cielo, donandogli   sfumature   crocee,   celesti   e   blu   come   la   notte profonda, il dio cercò Odisseo e, quando lo trovò, lo condusse in 

un posto isolato, di fronte al mare limpido. Appena furono soli il dio iniziò a parlare ad   Odisseo:   <<  Mio   caro   amico,   ormai   è   giunta   l’ora   che   le   tue   vele   lascino   questa   terra sconosciuta, e ritornino ad assaporare il vento di Itaca. Il mio cuore serba nel profondo il desiderio di parlarti,  di rivelarti ciò che sto provando, chi  sono realmente,  ma è pieno anche di timore. Timore che tu, o mio caro, possa non accettare ciò che desidero, poiché troppo innamorato di tua moglie.>> L’eroe, nel sentire queste parole, provò sconcerto e timore, poiché lui e quel giovane ragazzo si conoscevano da meno di sette lune. << O amico mio, sciogli  i nodi che legano il tuo cuore>> rispose << e liberati del peso che affligge la tua anima. Nessun amore può impedirti di rivelare ciò che ritieni giusto io sappia.>>. Sentendosi finalmente libero, il dio si mostrò per quello che era, senza timore, paura, tensione. Si mostrò a quell’uomo così retto ed astuto come il dio che era. Per un momento si domandò come si sarebbero comportati gli altri dei in una situazione come 

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quella. Capì che probabilmente si sarebbero precipitati con   violenza   nella   vita   dell’amato,   senza   mantenere nessuna forma di rispetto nei confronti di quell’umano. Lui aveva deciso di trattare Odisseo con una deferenza riservata solamente ai propri simili. Credeva, infatti, che l’amore   dovesse   andare   oltre   l’orgoglio   e   la   vanità, nonostante le differenze presenti tra i due amanti. 

Lentamente   i   suoi   lunghi   capelli   color   dell’oro   si accorciarono,   tornando   ricciuti   e   ramati.   I   suoi   occhi smeraldini   rimasero   tali,   conservando   quell’aurea magica   e   divina   che   li   caratterizzavano.   La   statura diminuì  visibilmente,  ma  la  muscolatura   rimase  molto accentuata.   L’elmo   e   i   sandali   alati   tornarono   a troneggiare   sul   suo   corpo,   mentre   una   lunga   veste candida copriva parte del suo petto glabro e circondava i 

suoi fianchi. Il caduceo ricomparve nelle sue mani delicate, conferendogli una maggiore autorità e facendo comprendere ad Odisseo che realmente si trovava alla presenza del dio Ermes.

                                                                                                               L’uomo si  sentì impotente per qualche secondo e, colto dal  timore,  si  prostrò di  fronte al  dio inginocchiandosi e chinando il capo. Dentro di sé provava una forte paura, ma il suo animo era attanagliato dal dubbio: quali emozioni provava una tale divinità nei suoi confronti?

Immediatamente il dio parlò:<< Odisseo, uomo dalle mille astuzie, sei molto rispettoso verso di me, ma ti prego, alzati. Sarei io a dovermi inginocchiare alla tua presenza. Sei sopravvissuto a vent’anni di tragedie terrificanti, sei un uomo di estremo coraggio ed ingegno. Da molto tempo ti osservo, amato Odisseo.>> Quella parola fece sussultare il cuore dell’eroe, che sentiva un forte tumulto crescere nel suo petto. << E sono tante le emozioni che provo per te. Ma una sovrasta tutte le altre: l’amore. Ebbene sì, mio caro eroe, il  mio cuore è pieno di amore per te. Questa sentimento così meraviglioso cresce di giorno in giorno, avvampando ogni parte del mio corpo, e riducendomi schiavo. Quindi ti prego Odisseo di venire con me, di seguirmi, e di trascorrere il resto della tua vita al mio fianco>>.

L’eroe Acheo si sentì travolto da quelle parole, come se fossero una miriade di cavalli al galoppo che scappano da predatori   feroci.  Non seppe cosa rispondere,  solamente due parole uscirono involontarie dalla sua bocca socchiusa: << Non posso>>. All’udire ciò,   il  dio si  sentì distrutto: tutto ciò che aveva sperato,   il  destino che a  lungo aveva sognato al fianco di Odisseo, erano improvvisamente diventati frutto della sua immaginazione. L’eroe  non ricambiava  il   suo amore,  e  capì  che non  l’avrebbe mai  amato senza che  lui   fosse intervenuto. Così , preso da un impeto di follia e rancore, stregò Odisseo per farlo innamorare di lui, per avere finalmente ciò che desiderava. 

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Il re di Itaca si voltò improvvisamente verso di lui e si fissarono a lungo intensamente, per infiniti secondi,   scanditi  solamente  dallo   sciabordio   ritmico delle  onde e  dallo   stridio  acuto di  alcuni uccelli in lontananza.Gli   occhi   smeraldini   di   Ermes   incontrarono   quelli   olivastri   di   Odisseo,   per   un   tempo immensamente   lungo,   quantificabile   solamente   da   Xρονος.   L’emozione   addensava   l’aria, rendendola  più   leggera  e  più  grave  allo   stesso   tempo.  Eρως,   l’amore   incondizionato,   l’amore involontario, l’amore vero era presente tra quei due uomini in quegli attimi così intensi. Erano immobili   l’uno di   fronte all’altro,  fino a quando Ermes avanzò  lentamente,  con passo  incerto, lasciando cadere   il  Caduceo.  Si   ritrovarono  faccia  a   faccia,   i  due nasi  erano a  pochi  attimi  di distanza, gli occhi più vicini che mai, le labbra si stavano sfiorando, le bocche erano premute l’una sull’altra. Si stavano baciando, su quella spiaggia, dove fino a poche ore prima moltissimi marinai fremevano nella  preparazione della  partenza.  Baciando Odisseo,  Ermes si   sentì  invaso da una sensazione mista di  emozione e… rimorso.  Tutto ciò a cui  aveva pensato poco prima riguardo l’importanza del rispetto reciproco l’aveva rinnegato con quel bacio. Quel gesto era spontaneo solamente da parte sua.  Non stava carezzando  le   labbra di  Odisseo,  ma solamente quelle  del proprio   incantesimo.   Questo   pensiero   gli   fece   aprire   gli   occhi,   lo   costrinse   ad   allontanarsi dall’uomo che amava, a ritrasformarsi nel giovane dai lunghi capelli biondi, a disincantare l’eroe, e a cancellare dalla sua memoria tutto ciò di cui avevano parlato. Ermes si intrufolò nella selva a fianco della spiaggia, si sedette sopra un ceppo di un salice appena tagliato e scoppiò in lacrime. Pianse amaramente per ore, solo, nel bosco, sentendo il rumore delle onde non poco distanti, che segnavano il ritmo dei suoi singhiozzi.Odisseo, nel frattempo, era rimasto sulla spiaggia tutto solo, senza sapere con certezza il motivo per il quale si trovasse lì.Quando l’ora della partenza si fece vicina, Ermes decise di ritrasformarsi in se stesso, di alzarsi in 

volo   e   di   seguire   la   nave   Achea   sino   ad   Itaca,   per assicurarsi  che   il   suo  amato  arrivasse  sano e  salvo da colei che amava. Si fece forza, respirò profondamente e partì. E con lui la nave. 

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Il dio si promise che avrebbe portato per sempre nel cuore il ricordo di quel dolce bacio maledetto e del suo amato eroe dalla grande abilità oratoria.  Da quel giorno il  dio fece tutto il  possibile affinchè  Odisseo e Penelope potessero stare insieme. L’amore vero, l’amore puro è questo: saper comprendere quando è il momento   di   farsi   da parte   e   lasciare   che l’amato sia felice,  anche se  in questa felicità non si   è   compresi.   Ermes imparò   questa   morale con la storia che oggi noi vi abbiamo raccontato, e che,   speriamo,   vi   possa aver   insegnato   ad amare, magari anche con un’emozione senza voce.

Bruno Viviana

Fattori Sofia Gaia

Marzorati Anna Lisa 

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Περί ονειρατος ή γράμματος ;Le onde impetuose, mosse dal potente Poseidone, travolsero la solida zattera facendola ruotare; Odisseo cadde  lontano dal  timone e  l'albero si  ruppe a metà.  A lungo rimase sommerso,  non riuscendo a riemergere a causa della potente forza delle correnti terribili. Alcune ore dopo l'eroe si risvegliò   fradicio  e  privo  di   vesti  sulla   riva  di  un'ignota   isola:  non  sapeva  ancora  che  cosa   lo attendeva. Appena comprese ciò che era accaduto, iniziò ad avvertire quel senso di incontrollabile curiosità che non sempre lo aveva portato a situazioni favorevoli, e cominciò ad osservare ciò che lo circondava. Subito notò una serie di particolari a lui familiari che gli ricordavano la sua amata Itaca.  All'improvviso   sentì   il   cuore   riempirsi   e  quel   sentimento  di   nostalgia   ,   quell’inguaribile nostos per   le   sue   radici   piano  piano   svanire;   si   avvicinò   il   più   veloce   possibile   a  quella   che sembrava la sua reggia, ma qualcosa lo bloccò: Euriclea, la sua anziana nutrice, stava lavando i panni vicino ad un pozzo; Odisseo la riconobbe subito e la raggiunse. La donna, inizialmente, si spaventò, ma, vedendolo in difficoltà, gli prestò aiuto: gli concesse il dono, preziosissimo per gli antichi,   dell'ospitalità   e   lo   condusse   per   vie   segrete   fino   al   palazzo.   Cominciò   a   lavarlo. Improvvisamente     le   sue   mani   rugose   e   vissute   incontrarono   una   cicatrice.   La   riconobbe palpandola, subito.   Sconvolta lasciò andare il piede di quell’ospite misterioso. Dentro il  lebete cadde la gamba e risuonò il bronzo. Il suo cuore ormai stanco si riempì di angoscia e di gioia, calde e riconoscenti lacrime rigarono il suo volto, la voce uscì rotta dalla commozione. Sorridendo disse ad Odisseo: "O mio re, sei tu, cara creatura! E io stolta non ti ho riconosciuto se non dopo aver toccato il  tuo ginocchio!".  "Balia, è passato molto tempo dalla mia partenza, ma ora sono qui. Dimmi cosa è accaduto nella mia amata terra "rispose l’eroe. "Caro padrone, nulla è cambiato, a parte   il   tuo   amatissimo   figlio,   ormai   diventato   un   uomo”.  Queste     parole   lo   rasserenarono conferendogli   rinnovato   coraggio.  Così  Odisseo,   una   volta   vestito,   si   sentì  pronto  a   rivedere, finalmente, dopo tanti travagli, la sua famiglia;  si diresse perciò verso la sala principale. Appena lo vide, Penelope riconobbe in lui il marito rimpianto e tanto atteso e, piangendo, gli corse incontro, gettandogli le braccia al collo e baciandogli il cap. Col cuore sciolto disse :" Odisseo, marito caro, il mio animo aveva sempre timore nel petto che qualche mortale venisse a riferirmi il tuo mancato ritorno, ed ora sei qui, tra le mie braccia. Nulla mi è mai sembrato così irreale e così meraviglioso".Forse, caro eroe, era davvero tutto irreale!Giunse   Telemaco,   appena   tornato   dalla   caccia,   che,   assistendo   a   quella   scena   tanto incomprensibile ai suoi occhi, chiese perplesso: "Madre, chi è costui? È forse un tuo pretendente?E se fosse così, perché ha le tue candide braccia al collo?Solo a mio padre avresti dovuto rivolgerti con tanta passione!".  Penelope e Odisseo intrecciarono i  loro sguardi e sorridendo l'uomo rispose :"Telemaco, figlio mio, ti sembrerà strano il mio ritorno improvviso, ma sono stato trattenuto da molte avventure e sventure. Il mio cuore non ha mai subito tale dolore come nel  non vederti crescere, ma ora sono qui, pronto a rimediare al tempo perduto." "Padre, anche in cuor mio regna la malinconia per la tua lunga assenza nei miei anni più spensierati e delicati; ma ora sei qui. Solo questo conta".   Colto dalla profonda emozione di quel momento tanto atteso e immaginato per anni, solo allora l'eroe si accorse della presenza del cane Argo, suo fedele amico. Era tutto tornato come  prima, finalmente.

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Penelope si rivolse al marito: "Seguimi, caro Odisseo, voglio mostrarti qualcosa". Usciti dalla reggia si recarono presso un'altra dimora; la sposa riprese il suo discorso:" Ti ricordi chi vive in questo palazzo?". Odisseo, con le lacrime agli occhi, annuì e si avviò all'interno, ma qualcosa lo bloccò: la madre Anticlea era di fronte a lui.   Inizialmente il suo cuore si riempì di felicità, ma uno strano sospetto si   insinuò nella   sua mente:  come faceva ad essere  viva  se aveva  visto   la   sua anima nell'Ade?La sua mente cominciò a porsi innumerevoli domande : " Era tornata sulla terra?", "Quella era davvero Itaca?", "Era solo un sogno?" .Decise di scavare a fondo in questo mistero mantenendo però  un’ingenuità  di   facciata  nei  confronti dei   falsi  parenti,  così,   sorridendo,   rispose  alla  cara madre  :"  Da quanto tempo!  Avevo così   tanta paura di  non rivederti,  madre!”   .  Provò   così  a scoprire qualcosa interagendo con la falsa madre, ma purtroppo ciò non bastò .Passarono giorni e notti, e la preoccupazione continuava a crescere all'interno del cuore del politropo Odisseo,  la paura inondava come un fiume in piena il suo corpo: e se non ci fosse via di uscita? Ma questo non era possibile per un uomo astuto come Odisseo, doveva trovare una soluzione ,a tutti i costi.Così una notte, sfuggendo agli eidolon, si recò all'unico tempio di Itaca dedicato ad Atena, l'unica dea che lo aveva sempre protetto ed aiutato."O   Pallade   Atena,   tu   che   hai   sempre   vegliato   sulla   mia   persona   ,dove   sei   ora?   Cosa   sta succedendo? Perché sono qui?" così si rivolse a lei l'eroe con una voce flebile .Dopo poco una donna, che pareva appartenere ad un alto ceto sociale, comparve dietro di lui e iniziò a parlargli : “ Eccomi, caro Odisseo, sono la Glaucopide Atena, pronta ad aiutarti: Avrei voluto presentarmi a te prima, ma il perfido scuotitore di terre e acque mi   ha tenuta prigioniera affinché non potessi salvarti".                                                                                                                                                L'eroe  Deluso e amareggiato, l’eroe rispose:" Sapevo che in qualche modo si sarebbe ancora vendicato. 

Questa non è la mia patria e questi non sono i  miei cari,   vero?   O   stolto   me,   come   ho   fatto   a   non accorgermene prima? Quale via   posso prendere per andarmene?"La dea disse:" Sono solo degli eidolon che eseguono gli ordini del potente re del mare. Purtroppo non posso ricondurti  in  patria,  ma posso  consigliarti  una via  di uscita: durante la notte recati nelle varie stanze dove essi  dormono,  porta   con   te  un  pugnale  cosparso  di verbena:  questa pianta  farà   in modo che  i   tuoi   falsi parenti si  dissolvano  lasciando al   loro posto  il  nulla. L'unico luogo dove puoi trovarla è la palude ai confini dell'   isola, ma a questo ci penserò io. Ora tu va', ed illudili di non sapere niente". Tornato alla  reggia,   l'eroe,  chiudendosi  nella  propria stanza, pianificò l'attacco   che lo avrebbe riportato in patria. 

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Il giorno seguente, svegliato dalla luce abbagliante del sole, trovò ai piedi del letto una boccettina contenente  della   verbena.  Deciso   a   vendicarsi,   intrise   il   pugnale  della   sostanza   letale  per   gli eidolon e attese la fatidica notte.Finalmente l’oscurità giunse come un manto nero e Odisseo, più convinto che mai, si recò nelle stanze e compì il gesto mortale, senza pietà: l'unica cosa che voleva era riabbracciare la sua vera famiglia, nella sua vera terra; questa volta Poseidone non glielo avrebbe impedito.Così, in men che non si dica, appena le creature del nemico marino scomparvero, lui raccolse tutto il necessario e si imbarcò, nella speranza di raggiungere la sua città e le persone che amava, le persone per  le quali  continuava a  lottare contro  il  destino,  contro gli  dei,  contro  le avversità, contro il rischio di una morte imminente, in ogni momento. Vivere per loro. Morire per loro. Solo questo contava per Odisseo, l’uomo ricco di astuzie.

Caslini Lucrezia

Orofino Alessandra

Lipani Ilaria

NAUFRAGO DELLA FOLLIA

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Lo  studio era  pervaso  da  una  luce  pigra  e   intorpidita  dal  gelo   invernale  che filtrava  pallida  e stentata dalle enormi finestre del raffinato bovindo. Il giovane era sdraiato languidamente su una chaise-longue porpora, costante  immutabile delle sale degli psichiatri; i  ricci capelli bruni erano sparpagliati   scomposti   sul   poggiatesta,  mentre   gli   occhi   verdi,   in   quel momento   quasi   vitrei, fissavano fuori dalla finestra. Ulisse stava cercando di concentrarsi sul rumore del traffico che imperversava per le strade, unica effimera possibilità di distrazione dagli imminenti pensieri che gli affollavano la mente. Tuttavia, gli risultava estremamente difficile ignorare lo psichiatra che sedeva, rigido e serio, a pochi metri da lui. La costituzione dell'uomo era talmente massiccia e ciclopica da impedirgli completamente la vista della porta di ebano alle sue spalle,  situazione che non faceva che accrescere  il  senso di claustrofobia che lo assaliva sempre durante le sedute. Ulisse lo scrutò di sbieco e lo vide lisciarsi la camicia elegante,  in ridicolo contrasto con i selvaggi capelli che gli ricadevano sulla fronte, celando l'occhio   destro.   A   distanza   di   tre   sedute,   Ulisse   non   aveva   ancora   capito   perché   fosse immancabilmente costretto a frequentare quei settimanali supplizi.« Le dispiace se vado a guardare i suoi libri?»« Le dispiace se prendo appunti?»Ulisse reclinò la testa distrattamente la testa, un gesto indecifrabile, si alzò e si diresse verso la libreria:  volumi  di  psicologia   si  alternavano  a  numerosi   tomi  di  botanica.  Aveva  già  notato   in passato la passione del dottore per quest'ultima disciplina: lo studio era costellato di piante di ogni genere, curate con notevole meticolosità.Sfiorò con lo sguardo tutti gli scaffali, fino a quando i suoi occhi vennero attrattati da un libro dalla copertina blu e il titolo scritto in caratteri dorati: Ὀδύσσεια. Istintivamente,   si   alzò   in   punta   di   piedi,   allungò   il   braccio   e   prese   fra   le   mani   il   libro, accarezzandone il dorso con le dita delicatamente. Con la coda dell'occhio intravide lo psichiatra bloccato, la penna sospesa a mezz'aria, in attesa della sua prossima mossa. Credeva forse che non riuscisse a leggere il titolo? Stando ben attento a non pungersi con una delle affilate spine del cactus accanto alla  libreria, Ulisse tornò a sedersi sul lettino porpora, con il suo solito passo rigido e strascicato. « Scelta interessante. Come mai si è sentito particolarmente attratto da questo libro?» Era curioso osservare qualche segno di interesse in un soggetto apatico come Ulisse. « Invece cosa la spinge a farmi questo tipo di domande? O a mettere un libro di epica tra altri di botanica e psicologia? Mi piacerebbe sapere se lei è in grado di leggere il titolo in greco, invece di domandarsi se ci riesco io.» Ulisse si sistemò meglio sul lettino, cercando di assumere una posa scomposta e spontanea. «Provi a interrogare se stesso come interroga me. Non è semplice, vero?» perseverò sporgendosi dalla chaise-longue. Lo   psichiatra   sospirò   pacato,   massaggiandosi   una   tempia   con   la   mano   e   sorrise   in   modo accondiscendente al paziente. Non era insolito, da parte dei malati psichiatrici,  ed in particolare quelli  soggetti al trattamento coatto e forzato, rifiutare diagnosi, patologia e quindi anche ogni cura. Lo stesso dottore aveva saputo fin dall'inizio della terapia che quello di Ulisse non sarebbe stato un caso facile. 

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Il giovane, in risposta a quei pensieri, gli restituì uno sguardo algido e distratto. « Mi dica, perché pensa di essere qui?» Ulisse indugiò: « Esclusivamente per arbitrio di mio padre: mi crede pazzo, come lei, d'altronde.»Lo sguardo dei due cadde sull'orologio appeso alla parete e si accorsero che la seduta era finita. Il giovane si alzò e sollevò l'Odissea, mostrandola allo psichiatra.« Potrei portare a casa il libro per qualche giorno, dottore? Almeno fino alla prossima seduta?»« Certamente. Ma solo se lei in cambio rifletterà sul perché il libro abbia catturato la sua attenzione così repentinamente.» controbatté inclinando il capo « Do ut des.»Ulisse stava già uscendo dalla stanza, ma, mentre richiudeva la porta dietro di sé, il suo sguardo dardeggiò per l'ultima volta all'interno, in tempo per vedere lo psichiatra accarezzare teneramente un'acerba piantina che teneva, dalla prima seduta, sulla scrivania.Può accadere che le Moire filino due volte lo stesso destino? Ulisse si richiuse alle spalle la porta dell'edificio, adorna di orpellature dipinte con patinata vernice verde.   Aveva   rimandato   la   restituzione   dell'Odissea   allo   psichiatra   per   ben   due   sedute, discolpandosi con la scusa  di non essere ancora riuscito a finirla. Chi crederebbe mai che un pazzo possa leggere da solo un poema greco? Sapeva ciò che dicevano. Inutili millantamenti.Sul suo volto era ancora dipinta quella smorfia di cordiale supponenza che sempre persiste fra chi è costretto a farsi aiutare e chi invece tenta di alleviarlo da una sorte ingrata. Mentre camminava in mezzo alla strada, incurante degli acuti clacson che trafiggevano la superficie della sua bolla di pensieri che, vividi e squillanti, incrinavano la sua mente, un vago e insistente fastidio si stava insinuando in lui.Cercava di ignorare i sempre più insistenti bisbigli alle sue spalle, tentando di convincersi che le madri  non   stringessero   i   propri  figli   sempre  più   saldamente,   allontanandosi   o   imboccando   le stradine più interne, a causa sua. Come poteva immaginare con che aspetto apparisse agli altri? Un essere curvo, disarmonico nei movimenti, che procedeva con gli occhi bassi, strascicandosi apaticamente, come fosse esiliato dal mondo. Il volto appariva solcato dallo sforzo di disciplinare idee e inquietudini che stentavano a sgorgare dalla massa informe delle sue riflessioni. Tutto ciò stava prendendo andatura e dimensioni di una travagliata Odissea della quale i passanti giudicavano solo l'apparenza. Si   accorse   che   stava   accelerando   il   passo,   nel   tentativo   di   allontanarsi   il   più   possibile   dallo studio psichiatrico, isola maledetta a cui continuava a riapprodare, naufrago, come Odisseo che, avveduto ed insieme avventato, aveva disseppellito la tomba dei compagni da un destino macabro e altrimenti latente. D'altronde,   poteva   lo   psichiatra   essere   la   speculare   immagine   del   raccapricciante   Polifemo, grottesco, selvaggio e incivile come quel caricaturale medico, che, invasivo, pretendeva di scavare nel suo inconscio recandogli tanti tormenti quanti quelli  dei compagni di Odisseo, deviscerati e divorati dal mostro? Avevano in comune anche una sviscerata passione per creature viventi sicuramente diverse dagli umani, poco differiva fra pecore e piante. 

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Pensieri  e  allucinazioni   comparivano,   si  affollavano e  poi   si  eclissavano come  le   isole   stregate dell'astuto eroe, spesso sfuggivano precoci,  irraggiungibili  per due volte di seguito al pari  della fatidica Ogigia. Una voce si levò improvvisamente: i fiati delle inesorabili Erinni persecutrici. « Ha bisogno di aiuto? Si sente bene?» Ulisse voltò la testa e sfregò la guancia contro l'asfalto. Era caduto? Sollevando   gli   occhi   scorse   il   ragazzo   con   cui   si   era   scontrato   che   lo   osservava   apprensivo, preoccupato dai tempi di risposta innaturalmente prolissi. Aveva l'impressione di essere sopraggiunto in un universo di Lotofagi. Cercavano di convertirlo ad un mondo marcescente, corrotto, in cui tutti torcevano in follia ogni forma di personalità atipica.Ulisse si  guardò allo   specchio:   le  pupille  visibilmente  dilatate parevano divorare  tutto  il   verde dell'iride. Non avrebbe mai creduto che avrebbe accettato la sua malattia, che si sarebbe fatto curare con dei farmaci. Il ritorno dalla follia alla realtà era stato repentino: un fulmineo affioramento alla superficie dopo una vita di  apnea.  Era emerso da un'inestricabile  nebbia di  terre maledette e  incantante,  ma, infine, era tornato alla sua limpida e petrosa Itaca. 

Chinaglia Anna

Lietti AnnaNicotra Rita Nadir

“Caelum non animum mutant qui trans mare currunt”

Non mutano il loro animo, ma solo il cielo coloro che attraversano il mare

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Quanti mari attraverseremo…quanti cieli diversi vedremo sopra di noi…alla ricerca della nostra “Itaca”…