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L.U.M.S.A. ANNO ACCADEMICO 2017-2018 CORSO DI TEOLOGIA-SACRA SCRITTURA Prof. Pezzoli don Gianluca DISPENSE AD USO ESCLUSIVO DEGLI STUDENTI II PARTE

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L.U.M.S.A.

ANNO ACCADEMICO 2017-2018

CORSO DI TEOLOGIA-SACRA SCRITTURAProf. Pezzoli don Gianluca

DISPENSE AD USO ESCLUSIVO DEGLI STUDENTI

II PARTE

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Gen 2-32,16Il Signore Dio diede questo comando all'uomo: "Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, 17ma dell'albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, nel giorno in cui tu ne mangerai, certamente dovrai morire".

Dio comincia con una grande liberalità, collocando l’uomo in un giardino meraviglioso: l’uomo può mangiare di tutti gli alberi del giardino (2,16). Soltanto un albero fa eccezione, ma chiedersi a quale scopo miri la proibizione divina è totalmente fuori luogo e senza senso. Dio non vuole che il bene dell’uomo.La proibizione non è una minaccia di morte, ma una messa in guardia o un avvertimento che mostra la cura paterna di Dio. Dio non è avaro! Ma se l’uomo vorrà mangiare del frutto dell’albero della conoscenza, ci sarà per lui la rovina. Sia nei profeti (cfr Ez 3,18; 33,13) sia nelle formule giuridiche (cfr Gen 20,7; Es 10,28; 2Sam 22,16) la morte è richiamata per mettere in guardia dal peccato. L’uomo si gioca la sua vita: la “morte” come “conseguenza della colpa” sottolinea che si tratta di una decisione senza alternativa e che l’uomo da solo non potrebbe rimediare agli effetti negativi di una scelta sbagliata, così come non può niente contro la “morte”. Resta tuttavia che il comandamento non è spiegato ed è anche inspiegabile. Esso apre uno spazio di libertà, una possibilità di risposta libera a Dio, pro o contro la sua volontà. Senza il precetto non ci sarebbe libertà: il “mistero” della libertà è correlativo al “mistero” del precetto. Con la possibilità di decisione libera è posto anche un limite, una proibizione: la libertà dell’uomo non è illimitata, il “no” al precetto divino è un “no” alla vita che proviene

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da Dio, è consegnarsi alla morte. Donde nasce la vita, là nasce anche il comandamento.Ma l’enigma della libertà umana non è ancora chiarito. Come avverrà che l’uomo possa dire di no? Disobbedirà l’Uomo? Soltanto se l’uomo ha fiducia che Dio gli vuol bene potrà vedere nel comandamento un dono, una via per la Vita, e osservare il precetto. Il comandamento dunque obbliga a scegliere, interpretando il mondo e la nostra vita come dono dell’amore di Dio o come diritto nostro da contrapporre a Dio, come se Dio volesse fare concorrenza all’uomo e fosse invidioso della gioia dell’uomo. È quanto viene descritto nel cap. 3, 1-7.

1Il serpente era il più astuto di tutti gli animali selvatici che Dio aveva fatto e disse alla donna: "È vero che Dio ha detto: "Non dovete mangiare di alcun albero del giardino"?". 2Rispose la donna al serpente: "Dei frutti degli alberi del giardino noi possiamo mangiare, 3ma del frutto dell'albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: "Non dovete mangiarne e non lo dovete toccare, altrimenti morirete"". 4Ma il serpente disse alla donna: "Non morirete affatto! 5Anzi, Dio sa che il giorno in cui voi ne mangiaste si aprirebbero i vostri occhi e sareste come Dio, conoscendo il bene e il male". 6Allora la donna vide che l'albero era buono da mangiare, gradevole agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza; prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al marito, che era con lei, e anch'egli ne mangiò. 7Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e conobbero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture.

In Gen 3,1-5 il dialogo tra il serpente e la donna rivela acutezza di osservazione psicologica: il processo della tentazione è descritto con molta finezza. Il serpente dice: “È vero che Dio ha detto: “Non dovete mangiare di alcun albero del giardino”?” (v. 1b). Il serpente fa un’osservazione

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apparentemente innocua, ma provocante, quasi si trattasse di una semplice constatazione.E cambia il senso del precetto divino; dice: “Non dovete mangiare di alcun albero”, mentre il precetto divino era: “Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma...”. La donna corregge l’affermazione del serpente, ma anch’essa aggiunge: “e non lo dovete toccare” (3,3), che non c’era nel comando divino. Ella rincara la dose negativa del precetto e già tradisce un certo disagio di fronte alla proibizione.Allora il serpente attacca di nuovo: “Non morirete affatto!” (3,4). Questa è la sua promessa, seguita dalla spiegazione: se mangiate, si aprirebbero gli occhi e sareste come Dio, conoscendo il bene e il male. È in gioco non più soltanto il precetto di 2,16-17, ma l’immagine stessa di Dio. Il precetto è manifestazione della volontà divina: cominciando a distorcere il precetto, il serpente - maestro del sospetto - ha insinuato una distorta immagine di Dio. Chi è Dio? Che cosa rivela di Dio il precetto? La tesi del serpente è che Dio è un limite per l’uomo, un suo concorrente, un “no” autoritario e avaro.L’Uomo tenta di acquistare una sapienza divina-regale mangiando il frutto proibito, cerca di strappare un sapere universale che lo renda come un dio ascoltando il “maestro del sospetto” che è il serpente il quale fa vedere nel precetto non la manifestazione della sapienza divina ma una falsità e una limitazione, frutto di invidia e di avarizia divina. Si arriva così al fallimento: l’Uomo si ritrova con la sua sola nudità, vulnerabile e fragile. Cerca di ovviare a questa vulnerabilità in modo ridicolo, coprendosi con foglie di fico, uno scudo molto fragile!

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L’astuzia del serpente sta nel suggerire il sospetto circa la bontà di Dio, mettendo in dubbio che il comandamento sia una via promettente e non uno sbarramento mortificante. L’utopia del serpente suona così: “Non morirete affatto! Si apriranno i vostri occhi - diventerete come Dio, conoscendo il bene e il male” (v. 4-5). Viene suggerito un atto che colmi e soddisfi il desiderio illimitato dell’uomo attraverso un esperimento indiscriminato e basato solo sull’audacia del “provare”, al di fuori di ogni buon rapporto di fiducia verso Dio.La donna si lascia illudere dall’illimitatezza del desiderio: “vide che l’albero era buono da mangiare, gradevole agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza” (v. 6). L’albero risveglia, dietro il suggerimento del serpente, un desiderio insaziabile e senza confini. L’illusione della donna, simbolo di ogni essere umano, è di smascherare le vere intenzioni di Dio, che il comandamento nasconderebbe e di sottoporre Dio alla prova dell’esperimento del mangiare, desiderando essere come Dio. Il “desiderio irresponsabile”, quello che non richiede una presa di posizione libera e buona nei confronti dell’Altro, ma si configura come un desiderio di “mangiare” e di “acquistare”.L’uomo è ogni uomo, ogni persona umana, ciascuno di noi; così la donna è ogni essere umano, ciascuno di noi. Il testo biblico rivela anche in questo la sua caratteristica sapienziale: si interessa all’Uomo in generale. E il personaggio di questo racconto è l’Uomo adulto, posto di fronte a una opzione fondamentale: accettare o no il precetto divino come condizione di sapienza, vedere o no il precetto divino come promessa di Dio. L’Uomo opta per la concezione che vede in Dio colui che vuole impedire all’uomo di essere adulto, autonomo e indipendente. Rifiuta di concepire Dio

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come Padre e sé stesso come figlio; rifiuta la vera sapienza che è il timore di Dio. La vera sapienza è quella che accetta come regola di vita la sapienza stessa di Dio manifestata dal precetto, ossia accetta Dio che dona e che comanda.

Caino e Abele (Gen 4,1-16)1Adamo conobbe Eva sua moglie, che concepì e partorì Caino e disse: "Ho acquistato un uomo grazie al Signore". 2Poi partorì ancora Abele, suo fratello. Ora Abele era pastore di greggi, mentre Caino era lavoratore del suolo.3Trascorso del tempo, Caino presentò frutti del suolo come offerta al Signore, 4mentre Abele presentò a sua volta primogeniti del suo gregge e il loro grasso. Il Signore gradì Abele e la sua offerta, 5ma non gradì Caino e la sua offerta. Caino ne fu molto irritato e il suo volto era abbattuto. 6Il Signore disse allora a Caino: "Perché sei irritato e perché è abbattuto il tuo volto? 7Se agisci bene, non dovresti forse tenerlo alto? Ma se non agisci bene, il peccato è accovacciato alla tua porta; verso di te è il suo istinto, e tu lo dominerai". 8Caino parlò al fratello Abele. Mentre erano in campagna, Caino alzò la mano contro il fratello Abele e lo uccise. 9Allora il Signore disse a Caino: "Dov'è Abele, tuo fratello?". Egli rispose: "Non lo so. Sono forse io il custode di mio fratello?". 10Riprese: "Che hai fatto? La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo! 11Ora sii maledetto, lontano dal suolo che ha aperto la bocca per ricevere il sangue di tuo fratello dalla tua mano. 12Quando lavorerai il suolo, esso non ti darà più i suoi prodotti: ramingo e fuggiasco sarai sulla terra". 13Disse Caino al Signore: "Troppo grande è la mia colpa per ottenere perdono. 14Ecco, tu mi scacci oggi da questo suolo e dovrò nascondermi lontano da te; io sarò ramingo e fuggiasco sulla terra e chiunque mi incontrerà mi ucciderà". 15Ma il Signore gli disse: "Ebbene, chiunque ucciderà Caino subirà la vendetta sette volte!". Il Signore impose a Caino un segno, perché nessuno, incontrandolo, lo colpisse. 16Caino si allontanò dal Signore e abitò nella regione di Nod, a oriente di Eden.

Il racconto di Caino e Abele ha conservato e dispiegato attraverso i secoli la sua forza di suggestione nella nostra cultura occidentale. Nella brevità delle sue 25-30 righe è di una densità straordinaria, capace di scatenare una energia incalcolabile. Su di esso pesa

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infatti uno dei problemi radicali dell’umanità: se tutti gli uomini sono fratelli, ogni omicidio è un fratricidio. Da dove spunta la violenza che annienta la vita umana? Una domanda ineludibile e sempre attuale. Il racconto della Genesi si pone la stessa domanda? Credo di sì: l’autore proietta alle origini ciò che si presenta come esperienza generale. Caino e Abele sono prototipi.Il racconto di Caino e Abele è un «racconto delle origini», non meno di quello di Adamo e Eva. L’autore si interroga sull’origine del peccato universale, di tutti gli uomini e risponde facendolo risalire alle origini dell’umanità. Alla stessa maniera si interroga sull’origine della violenza fratricida e risponde facendola risalire all’origine della fraternità. Il racconto presenta uno sviluppo lineare abbastanza semplice. Cacciata dal Paradiso, Eva dà vita ad un primo figlio e poi ad un secondo, il “fratello”. La fraternità, ridotta esemplarmente a due persone, introduce la differenziazione: differenza di cultura: uno è pastore, l’altro contadino; differenza di culto: il contadino offre frutti vegetali e il pastore offre animali; differenza di accoglienza divina: il Signore gradisce Abele e non Caino. Caino non accetta l’ultima differenza, che si presenta come discriminazione, e incomincia a covare un dispiacere che diventa rancore e minaccia di trasformarsi in odio. In questo momento interviene Dio, rivolgendosi a Caino con un ammonimento paterno e grave. Questi non ascolta e uccide suo fratello. Dio interviene di nuovo e questa volta per chiedere conto: un interrogatorio, una sentenza di condanna e un limite al castigo. Caino, esiliato, si allontana. Vediamo alcuni elementi del brano: v. 6: Interrogando, Dio sollecita una presa di coscienza. La domanda di Dio sveglia la coscienza riflessa, produce una distanza

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dell’uomo dal suo mondo affettivo, amorfo o confuso. È una esigenza di lucidità. Caino non deve lasciarsi travolgere dal turbine del sentimento. Se l’uomo non si interroga, Dio stesso lo interroga, ed essere interpellati è un dono prezioso. A Caino Dio sta ponendo delle domande, vale a dire lo sta invitando a parlare, mentre egli è rinchiuso in se stesso, nella propria sofferenza; lo spinge ad entrare in dialogo e a parlare di quello che vive con difficoltà.v. 7: Proseguendo, Dio apre a Caino una specie di alternativa: puoi “agire bene” o “non agire bene”. Dio mette Caino di fronte alla responsabilità di scegliere una via o un’altra. La prima gli permetterà di rialzare il volto. La seconda sembra al contrario una via pericolosa: qui il peccato è «accovacciato alla porta; verso di te è il suo istinto». Il peccato non giace lontano, come se sperasse in un incontro casuale, e non si aggira a casaccio. Sta accovacciato e insidia la porta. Esattamente sul punto che controlla il passaggio dall’esterno all’interno dell’uomo, dalla coscienza all’azione, dalla personalità alla sua manifestazione. E ha intenzioni aggressive: l’espressione ebraica riproduce la frase di Gen 3,16, che esprime la brama della donna per l’uomo. Lo stesso termine viene applicato da Ct 7,11 al desiderio dell’uomo verso la donna. Attenzione! Non si dice che è negativa. Si tratta di una poderosa forza vitale. Ma questa forza deve essere dominata affinché Caino non sia travolto dal suo slancio, dalla sua violenza potenziale. Tale dominio passa attraverso la parola: lo suggerisce l’ultimo termine usato da Dio, poiché il verbo che egli utilizza per dire “dominare” significa anche “parlare, raccontare”. Si può quindi capire la finale dell’invito di Dio in questo modo: “e tu puoi parlarne, puoi raccontarlo”. Insomma, Dio designa in Caino la presenza di una forza vitale, potente, violenta, che rischia di impadronirsi di lui, ma aggiunge che Caino

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ha la possibilità di rendersene padrone attraverso una parola che potrebbe dire, dialogando con colui che lo sta invitando a parlare rivolgendogli delle domande.

v. 8: Il seguito è illuminante a questo proposito: quando il testo racconta l’omicidio di Abele, sottolinea proprio l’assenza di parola da parte di Caino. «Caino parlò al fratello Abele…». Mentre il lettore aspetta che sia riportato quanto dice, nulla viene detto. Caino dovrebbe parlare della sofferenza che lo abita, delle sue difficoltà a vivere quello che vive. Ma, proprio perché non dice niente, Caino uccide, invece di parlare. In questo modo nel racconto è attestato che la violenza scoppia laddove la parola non riesce ad aprirsi un varco: una parola giusta rispetto a quello che sta ribollendo interiormente e che, non dominato, non umanizzato dalla parola, genererà la violenza omicida.Ecco come il racconto della storia di Caino propone una lettura delle radici della violenza umana e della scelta imposta dalle forze vitali interiori dalle quali essa attinge la propria energia: o si riesce a canalizzarle parlandone o, al contrario, si lascia che prendano il sopravvento, che si impadroniscano della persona e la precipitino in una violenza che risulta negativa nella misura in cui uccide la vita.Questa violenza non è di per sé negativa; in fondo, una certa aggressività è una manifestazione della vita che si muove, cerca, intraprende. Se questa però viene abbandonata a sé stessa, se non è canalizzata in modo adeguato, può diventare una forza selvaggia, una forza di distruzione. L’intervento di Dio presso Caino suggerisce che la parola ha un ruolo capitale nel canalizzare questa forza, nell’impedirle di diventare distruttrice. Del resto, un racconto come questo ha il pregio, penso, di invitare ciascuno a riconoscere la

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parte di violenza che ha in sé. Perché, se qualcuno crede di non avere violenza in sé e che le violenze dipendono sempre dagli altri, rischia di chiudere gli occhi sulle violenze che produce senza saperlo e sul fatto che queste violenze non viste possono portare le vittime a commettere delle violenze visibili. Così la Genesi ratifica in un certo senso la violenza, prende in considerazione la sua realtà, perché ogni essere umano deve fare i conti con lei. La violenza è umana e bisogna imparare a gestirla. La Bibbia suggerisce del resto un modo per farlo: la parola, che permette di non passare all’atto o almeno di vivere la violenza diversamente. Se nella Bibbia la parola appare come una delle vie d’uscita per gestire la violenza, la parola tuttavia non è una panacea. C’è sempre modo, infatti, di fare un uso violento della parola, che genera violenza, anche se apparentemente il sangue non viene versato. Freud diceva: «Con le parole possiamo rendere felice o infelice l’altro. Si può effettivamente uccidere con le parole».

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Giuseppe e i suoi fratelli (Gen 37-50)

37,1Giuseppe all'età di diciassette anni pascolava il gregge con i suoi fratelli. Essendo ancora giovane, stava con i figli di Bila e i figli di Zilpa, mogli di suo padre. Ora Giuseppe riferì al padre di chiacchiere maligne su di loro. 3Israele amava Giuseppe più di tutti i suoi figli, perché era il figlio avuto in vecchiaia, e gli aveva fatto una tunica con maniche lunghe. 4I suoi fratelli, vedendo che il loro padre amava lui più di tutti i suoi figli, lo odiavano e non riuscivano a parlargli amichevolmente. 5Ora Giuseppe fece un sogno e lo raccontò ai fratelli, che lo odiarono ancora di più. 6Disse dunque loro: "Ascoltate il sogno che ho fatto. 7Noi stavamo legando covoni in mezzo alla campagna, quand'ecco il mio covone si alzò e restò diritto e i vostri covoni si posero attorno e si prostrarono davanti al mio". 8Gli dissero i suoi fratelli: "Vuoi forse regnare su di noi o ci vuoi dominare?". Lo odiarono ancora di più a causa dei suoi sogni e delle sue parole.9Egli fece ancora un altro sogno e lo narrò ai fratelli e disse: "Ho fatto ancora un sogno, sentite: il sole, la luna e undici stelle si prostravano davanti a me". 10Lo narrò dunque al padre e ai fratelli. Ma il padre lo rimproverò e gli disse: "Che sogno è questo che hai fatto! Dovremo forse venire io, tua madre e i tuoi fratelli a prostrarci fino a terra davanti a te?".11I suoi fratelli perciò divennero invidiosi di lui, mentre il padre tenne per sé la cosa.12I suoi fratelli erano andati a pascolare il gregge del loro padre a Sichem. 13Israele disse a Giuseppe: "Sai che i tuoi fratelli sono al pascolo a Sichem? Vieni, ti voglio mandare da loro". Gli rispose: "Eccomi!". 14Gli disse: "Va' a vedere come stanno i tuoi fratelli e come sta il bestiame, poi torna a darmi notizie". Lo fece dunque partire dalla valle di Ebron ed egli arrivò a Sichem…Allora Giuseppe ripartì in cerca dei suoi fratelli e li trovò a Dotan. 18Essi lo videro da lontano e, prima che giungesse vicino a loro, complottarono contro di lui per farlo morire. 19Si dissero l'un l'altro: "Eccolo! È arrivato il signore dei sogni! 20Orsù, uccidiamolo e gettiamolo in una cisterna! Poi diremo: "Una bestia feroce l'ha divorato!". Così vedremo che ne sarà dei suoi sogni!". 21Ma Ruben sentì e, volendo salvarlo dalle loro mani, disse: "Non togliamogli la vita". 22Poi disse loro: "Non spargete il sangue, gettatelo in questa cisterna che è nel deserto, ma non colpitelo con la vostra mano": egli intendeva salvarlo dalle loro mani e ricondurlo a suo padre. 23Quando Giuseppe fu arrivato presso i suoi fratelli, essi lo spogliarono della sua tunica, quella tunica con le maniche lunghe che egli indossava, 24lo afferrarono e lo gettarono nella

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cisterna: era una cisterna vuota, senz'acqua. 25Poi sedettero per prendere cibo. Quand'ecco, alzando gli occhi, videro arrivare una carovana di Ismaeliti provenienti da Gàlaad, con i cammelli carichi di resina, balsamo e làudano, che andavano a portare in Egitto. 26Allora Giuda disse ai fratelli: "Che guadagno c'è a uccidere il nostro fratello e a coprire il suo sangue? 27Su, vendiamolo agli Ismaeliti e la nostra mano non sia contro di lui, perché è nostro fratello e nostra carne". I suoi fratelli gli diedero ascolto. 28Passarono alcuni mercanti madianiti; essi tirarono su ed estrassero Giuseppe dalla cisterna e per venti sicli d'argento vendettero Giuseppe agli Ismaeliti. Così Giuseppe fu condotto in Egitto. 29Quando Ruben tornò alla cisterna, ecco, Giuseppe non c'era più. Allora si stracciò le vesti, 30tornò dai suoi fratelli e disse: "Il ragazzo non c'è più; e io, dove andrò?". 31Allora presero la tunica di Giuseppe, sgozzarono un capro e intinsero la tunica nel sangue. 32Poi mandarono al padre la tunica con le maniche lunghe e gliela fecero pervenire con queste parole: "Abbiamo trovato questa; per favore, verifica se è la tunica di tuo figlio o no". 33Egli la riconobbe e disse: "È la tunica di mio figlio! Una bestia feroce l'ha divorato. Giuseppe è stato sbranato". 34Giacobbe si stracciò le vesti, si pose una tela di sacco attorno ai fianchi e fece lutto sul suo figlio per molti giorni. 35Tutti i figli e le figlie vennero a consolarlo, ma egli non volle essere consolato dicendo: "No, io scenderò in lutto da mio figlio negli inferi". E il padre suo lo pianse. 36Intanto i Madianiti lo vendettero in Egitto a Potifàr, eunuco del faraone e comandante delle guardie.42,1Giacobbe venne a sapere che in Egitto c'era grano; perciò disse ai figli: "Perché state a guardarvi l'un l'altro?". 2E continuò: "Ecco, ho sentito dire che vi è grano in Egitto. Andate laggiù a comprarne per noi, perché viviamo e non moriamo". 3Allora i dieci fratelli di Giuseppe scesero per acquistare il frumento dall'Egitto. 4Quanto a Beniamino, fratello di Giuseppe, Giacobbe non lo lasciò partire con i fratelli, perché diceva: "Che non gli debba succedere qualche disgrazia!". 5Arrivarono dunque i figli d'Israele per acquistare il grano, in mezzo ad altri che pure erano venuti, perché nella terra di Canaan c'era la carestia.6Giuseppe aveva autorità su quella terra e vendeva il grano a tutta la sua popolazione. Perciò i fratelli di Giuseppe vennero da lui e gli si prostrarono davanti con la faccia a terra. 7Giuseppe vide i suoi fratelli e li riconobbe, ma fece l'estraneo verso di loro, parlò duramente e disse: "Da dove venite?". Risposero: "Dalla terra di Canaan, per comprare viveri". 8Giuseppe riconobbe dunque i fratelli, mentre essi non lo riconobbero. 9Allora

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Giuseppe si ricordò dei sogni che aveva avuto a loro riguardo e disse loro: "Voi siete spie! Voi siete venuti per vedere i punti indifesi del territorio!". 10Gli risposero: "No, mio signore; i tuoi servi sono venuti per acquistare viveri. 11Noi siamo tutti figli di un solo uomo. Noi siamo sinceri. I tuoi servi non sono spie!". 12Ma egli insistette: "No, voi siete venuti per vedere i punti indifesi del territorio!". 13Allora essi dissero: "Dodici sono i tuoi servi; siamo fratelli, figli di un solo uomo, che abita nella terra di Canaan; ora il più giovane è presso nostro padre e uno non c'è più". 14Giuseppe disse loro: "Le cose stanno come vi ho detto: voi siete spie! 15In questo modo sarete messi alla prova: per la vita del faraone, voi non uscirete di qui se non quando vi avrà raggiunto il vostro fratello più giovane. 16Mandate uno di voi a prendere il vostro fratello; voi rimarrete prigionieri. Saranno così messe alla prova le vostre parole, per sapere se la verità è dalla vostra parte. Se no, per la vita del faraone, voi siete spie!". 17E li tenne in carcere per tre giorni.18Il terzo giorno Giuseppe disse loro: "Fate questo e avrete salva la vita; io temo Dio! 19Se voi siete sinceri, uno di voi fratelli resti prigioniero nel vostro carcere e voi andate a portare il grano per la fame delle vostre case. 20Poi mi condurrete qui il vostro fratello più giovane. Così le vostre parole si dimostreranno vere e non morirete". Essi annuirono. 21Si dissero allora l'un l'altro: "Certo su di noi grava la colpa nei riguardi di nostro fratello, perché abbiamo visto con quale angoscia ci supplicava e non lo abbiamo ascoltato. Per questo ci ha colpiti quest'angoscia". 22Ruben prese a dir loro: "Non vi avevo detto io: "Non peccate contro il ragazzo"? Ma non mi avete dato ascolto. Ecco, ora ci viene domandato conto del suo sangue". 23Non si accorgevano che Giuseppe li capiva, dato che tra lui e loro vi era l'interprete.24Allora egli andò in disparte e pianse. Poi tornò e parlò con loro. Scelse tra loro Simeone e lo fece incatenare sotto i loro occhi. 25Quindi Giuseppe diede ordine di riempire di frumento i loro sacchi e di rimettere il denaro di ciascuno nel suo sacco e di dare loro provviste per il viaggio. E così venne loro fatto.26Essi caricarono il grano sugli asini e partirono di là. 27Ora, in un luogo dove passavano la notte, uno di loro aprì il sacco per dare il foraggio all'asino e vide il proprio denaro alla bocca del sacco. 28Disse ai fratelli: "Mi è stato restituito il denaro: eccolo qui nel mio sacco!". Allora si sentirono mancare il cuore e, tremanti, si dissero l'un l'altro: "Che è mai questo che Dio ci ha fatto?".29Arrivati da Giacobbe loro padre, nella terra di Canaan, gli riferirono tutte le cose che erano loro capitate: 30"Quell'uomo, che è il signore di quella terra, ci ha parlato duramente e ci ha trattato come spie del territorio. 31Gli abbiamo detto: "Noi siamo sinceri; non siamo spie!

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32Noi siamo dodici fratelli, figli dello stesso padre: uno non c'è più e il più giovane è ora presso nostro padre nella terra di Canaan". 33Ma l'uomo, signore di quella terra, ci ha risposto: "Mi accerterò se voi siete sinceri in questo modo: lasciate qui con me uno dei vostri fratelli, prendete il grano necessario alle vostre case e andate. 34Poi conducetemi il vostro fratello più giovane; così mi renderò conto che non siete spie, ma che siete sinceri; io vi renderò vostro fratello e voi potrete circolare nel territorio"".35Mentre svuotavano i sacchi, ciascuno si accorse di avere la sua borsa di denaro nel proprio sacco. Quando essi e il loro padre videro le borse di denaro, furono presi da timore. 36E il loro padre Giacobbe disse: "Voi mi avete privato dei figli! Giuseppe non c'è più, Simeone non c'è più e Beniamino me lo volete prendere. Tutto ricade su di me!".37Allora Ruben disse al padre: "Farai morire i miei due figli, se non te lo ricondurrò. Affidalo alle mie mani e io te lo restituirò". 38Ma egli rispose: "Il mio figlio non andrà laggiù con voi, perché suo fratello è morto ed egli è rimasto solo. Se gli capitasse una disgrazia durante il viaggio che voi volete fare, fareste scendere con dolore la mia canizie negli inferi".44,16 Giuda disse: "Che diremo al mio signore? Come parlare? Come giustificarci? Dio stesso ha scoperto la colpa dei tuoi servi! Eccoci schiavi del mio signore, noi e colui che è stato trovato in possesso della coppa". 17Ma egli rispose: "Lontano da me fare una cosa simile! L'uomo trovato in possesso della coppa, quello sarà mio schiavo: quanto a voi, tornate in pace da vostro padre".18Allora Giuda gli si fece innanzi e disse: "Perdona, mio signore, sia permesso al tuo servo di far sentire una parola agli orecchi del mio signore; non si accenda la tua ira contro il tuo servo, perché uno come te è pari al faraone! 19Il mio signore aveva interrogato i suoi servi: "Avete ancora un padre o un fratello?". 20E noi avevamo risposto al mio signore: "Abbiamo un padre vecchio e un figlio ancora giovane natogli in vecchiaia, il fratello che aveva è morto ed egli è rimasto l'unico figlio di quella madre e suo padre lo ama". 21Tu avevi detto ai tuoi servi: "Conducetelo qui da me, perché possa vederlo con i miei occhi". 22Noi avevamo risposto al mio signore: "Il giovinetto non può abbandonare suo padre: se lascerà suo padre, questi ne morirà". 23Ma tu avevi ingiunto ai tuoi servi: "Se il vostro fratello minore non verrà qui con voi, non potrete più venire alla mia presenza". 24Fatto ritorno dal tuo servo, mio padre, gli riferimmo le parole del mio signore. 25E nostro padre disse: "Tornate ad acquistare per noi un po' di viveri". 26E noi rispondemmo: "Non possiamo ritornare laggiù: solo se verrà con noi il nostro fratello minore, andremo; non

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saremmo ammessi alla presenza di quell'uomo senza avere con noi il nostro fratello minore". 27Allora il tuo servo, mio padre, ci disse: "Voi sapete che due figli mi aveva procreato mia moglie. 28Uno partì da me e dissi: certo è stato sbranato! Da allora non l'ho più visto. 29Se ora mi porterete via anche questo e gli capitasse una disgrazia, voi fareste scendere con dolore la mia canizie negli inferi". 30Ora, se io arrivassi dal tuo servo, mio padre, e il giovinetto non fosse con noi, poiché la vita dell'uno è legata alla vita dell'altro, 31non appena egli vedesse che il giovinetto non è con noi, morirebbe, e i tuoi servi avrebbero fatto scendere con dolore negli inferi la canizie del tuo servo, nostro padre. 32Ma il tuo servo si è reso garante del giovinetto presso mio padre dicendogli: "Se non te lo ricondurrò, sarò colpevole verso mio padre per tutta la vita". 33Ora, lascia che il tuo servo rimanga al posto del giovinetto come schiavo del mio signore e il giovinetto torni lassù con i suoi fratelli! 34Perché, come potrei tornare da mio padre senza avere con me il giovinetto? Che io non veda il male che colpirebbe mio padre!".

Ho pensato di ripercorrere con voi una storia biblica, che è una storia di famiglia e di una famiglia problematica, in conflitto. È la storia della famiglia di Giuseppe e la storia di Giuseppe e dei suoi fratelli, dove il problema che si pone è, innanzitutto, un problema di fratellanza. Giacobbe, il padre di questi dodici fratelli, ha un amore di preferenza per Giuseppe. Non si sa bene perché, nel senso che in genere si dà la spiegazione che Giuseppe era nato nella sua vecchiaia. Però lo stesso vale anche per Beniamino, il fratello di Giuseppe, tutti e due i figli della moglie amata da Giacobbe, Rachele.

Dunque: Giacobbe ama Giuseppe con un amore di preferenza. Fondamentalmente senza motivo, perché sempre l'amore di preferenza è senza motivo. L'amore di preferenza dipende dal fatto che una persona ama un'altra più di tutte. Perché? Perché di sì! È il problema che c'è alla base della scelta di Israele. Perché mai Dio ha scelto Israele e l'ha preferito rispetto a tutti gli altri popoli? Perché

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era il più grande? No! Perché era il migliore? No! Perché allora? Perché di sì! Perché ha scelto quello!

Le preferenze non hanno spiegazioni, però ci sono e nelle famiglie spesso è presente questo problema. Nelle famiglie, quando ci sono dei fratelli, inevitabilmente ci sono delle situazioni di differenza tra questi fratelli, che poi possono essere lette da ciascuno di questi fratelli come situazioni di preferenze di amore da parte dei genitori.

Il testo è molto raffinato anche da un punto di vista psicologico. Queste sono situazioni che si ritrovano continuamente nelle nostre famiglie. Giacobbe aveva avuto problemi di preferenza con suo padre Isacco. Il padre preferiva Esaù e Giacobbe era invece il preferito dalla madre, Rebecca. Giacobbe aveva avuto problemi di preferenza e adesso, come avviene spesso inconsciamente, li riproduce nella sua famiglia con i suoi figli. Così si pone questa situazione di una figliolanza mal vissuta, che è quindi anche una fratellanza mal vissuta.

Giuseppe, amato dal padre, riceve in dono una tunica particolare. C'è tutta una serie di segni che dicono che lui è il preferito e lui, non si sa bene se, ingenuamente o meno, sembra non tentare di diminuire le tensioni, ma anzi addirittura le provoca, andandosene in giro a raccontare i suoi sogni, soprattutto quello dei covoni che si inchinano e quindi dei fratelli che dovrebbero rendergli omaggio. E allora, già questo era il preferito del padre, poi va in giro a dire che i fratelli dovranno omaggiarlo! Di per sé non è che questo aiuti molto le relazioni fraterne. Tanto non aiuta le relazioni fraterne, che i fratelli smettono definitivamente di essere fratelli di Giuseppe. Per cui Giuseppe viene inviato dal padre dove stavano i fratelli, che

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appunto non sono più fratelli, non lo salutano neppure e loro, invece di accoglierlo come fratello mandato dal padre, decidono di ucciderlo. Un po' perché non ne possono più - e quindi l'omicidio come manifestazione del rifiuto e della rabbia - un po' anche probabilmente per cercare di sfuggire a quest'ombra che incombe su di loro e cioè il rischio che i sogni di Giuseppe si avverino. C'è dunque una volontà di morte che è rifiuto dell'amore del padre e tentativo di mettersi in qualche modo in salvo.

Ruben e Giuda intervengono. Non vogliono che il fratello sia ucciso e dicono: buttiamolo nella cisterna! Non è un granché come soluzione, però è un modo per tenerlo vivo e per prendere tempo, se non che passa la carovana e Giuseppe viene venduto. La vendita è una specie di trasposizione simbolica dell'omicidio. In realtà Giuseppe in questo modo è stato eliminato e quindi per i fratelli lui è definitivamente morto.

A questo punto c'è un'annotazione interessante che fa il testo: dopo averlo gettato nella cisterna, dopo aver compiuto un fatto veramente agghiacciante – questi che sono dei fratelli – si mettono a mangiare. Questo è un bel modo con cui il testo sottolinea l'assoluta crudeltà di questi fratelli e anche l'esasperazione radicale a cui ormai erano arrivati, per cui questi si mettono a mangiare tranquillamente. Ma questo crea anche un gioco perché loro lo gettano nella cisterna e mangiano e poi quando non ci sarà proprio più niente da mangiare, essi dovranno andare in Egitto e lì se lo ritroveranno davanti, vivo, senza saperlo, loro che pensavano in questo modo di essersene liberati per sempre. C'è dunque il cibo che fa da filo conduttore.Non bisogna dimenticarsi che, quando Giacobbe, il padre di questi

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fratelli, aveva ingannato il fratello e il padre, anche lui aveva ingannato il padre con una questione di cibo, portandogli la cacciagione che il padre amava. Siamo davanti ad una famiglia divisa ed in realtà come famiglia è distrutta.

Nelle nostre famiglie non ci sono tanto figli e fratelli gettati nelle cisterne, però di famiglie distrutte ce ne sono tante e questa storia di Giuseppe può diventare una specie di paradigma, da assumere non nella sua materialità, ma per il senso che rivela. Qui noi siamo davanti ad una famiglia che non ha più nessun punto di coesione, perché la situazione è quella di fratelli che hanno la loro unità tutta basata solo sulla complicità in un delitto e, dall'altra parte, c'è un padre ingannato e disperato. Dunque, la famiglia non c'è più! C'è un padre che non è più capace di essere tale e che viene in qualche modo ridotto all'impotenza dai suoi stessi figli e questi figli che rifiutano il padre e non sono più fratelli, perché sono fratelli, solo perché complici. E la complicità non è fraternità.

E allora: ecco che si dipana tutta la nostra storia. Tra l'altro la notizia della morte di Giuseppe al padre viene data mandando la tunica di Giuseppe intrisa di sangue, così che lui pensi che Giuseppe è stato divorato da una belva feroce. Ed è significativo ancora una volta tutto il gioco, perché prendono del sangue di capretto per ingannare il padre e Giacobbe per ingannare suo padre Isacco aveva ugualmente usato il capretto. C'è questa specie di cicli che ritornano e che ritroviamo nella nostra storia e nelle nostre famiglie di uomini, proprio perché ciò che i padri hanno vissuto, poi comunque, in qualche modo, tendono a riprodurlo con i figli e questa è una dimensione che bisogna tenere d'occhio.Giuseppe viene dunque venduto e portato in Egitto. Sappiamo lì di

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varie vicende; ci sono ancora di mezzo i sogni e proprio per l'interpretazione dei sogni Giuseppe diventa secondo solo a Faraone nel paese d'Egitto per tutta la nota faccenda del grano messo da parte che poi serve per il tempo della carestia. Carestia che tocca anche il paese di Canaan, cosicché a un certo punto Giacobbe deve inviare i suoi figli in Egitto a cercare il grano e li invia, però, tenendosi con sè Beniamino. Lui è l'unico altro figlio di Rachele, la moglie amata da Giacobbe… Giacobbe ha già perso Giuseppe, è chiaro che non vuole perdere anche Beniamino e se lo tiene a casa, perché è il più piccolo, e così gli altri fratelli partono.

Arrivano in Egitto, si incontrano con Giuseppe, si inchinano davanti a lui e – questo è significativo – i sogni cominciano ad avverarsi - ma loro non lo sanno, perché loro non riescono a riconoscere Giuseppe. Ormai è passato del tempo, lui si è “egizianizzato”. Ma, soprattutto, l'impossibilità di Giuseppe di riconoscere i fratelli è simbolicamente l'impossibilità per questi fratelli di accettarlo come fratello. Essi lo hanno voluto morto e per loro è morto e quindi, quando se lo ritrovano davanti vivo, non riescono a riconoscerlo.

Ciò è simbolicamente molto significativo. Giuseppe decide di recuperare questi fratelli lui, che è ancora fratello, mentre loro non sono più fratelli di lui. E così decide di aiutare i suoi fratelli a ridiventare tali. E comincia allora il cammino di presa di coscienza che Giuseppe fa fare loro e che comincia con il mettere i fratelli in una situazione di difficoltà; non tanto per vendicarsi e per ripagarli con la loro stessa moneta, ma perché è necessario che il cammino di peccato che questi fratelli hanno percorso sia ripercorso a ritroso, sia recuperato e per trasformare il male in bene bisogna passare inevitabilmente attraverso la sofferenza. Allora Giuseppe crea una

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situazione di difficoltà e di sofferenza per i suoi fratelli, non per vendetta, ma per amore, perché vuole che i suoi fratelli facciano un cammino di conversione.

Così li accusa di essere spie ed essi davanti a questa accusa sono costretti a rivelarsi e a dire chi sono. Sono pieni di paura, perché sono davanti ad un uomo straniero, che non conoscono, che parla una lingua diversa dalla loro, potente. Sanno che la vita è nelle sue mani e si sentono improvvisamente dire: voi siete spie! Come fare a dimostrare che non è vero? E allora dicono chi sono, dicendo più di quello che dovrebbero dire. Dicono: noi siamo figli di un solo padre; eravamo dodici, adesso un fratello non c'è più, l'altro è rimasto con il padre… No! Noi non siamo spie! Giuseppe li sta accusando di essere spie e loro dicono di non esserlo! Non siamo spie, perché siamo figli di un solo uomo! Non si vede bene perché mai l'essere figli di un solo uomo sia in contraddizione con il fatto di essere spie. Loro probabilmente stanno cercando di portare la cosa su un piano familiare; perché dunque sono accusati su un piano nazionale? Però il loro parlare non è pertinente e soprattutto che c'entra il fatto che un fratello non c'è più e che c'entra il fatto che l'altro fratello è rimasto in Canaan? Perché mai questo dovrebbe essere una prova della loro onestà? La loro risposta non è pertinente nei confronti dell'accusa di Giuseppe, ma è perfettamente pertinente, invece, nella misura in cui si capisce che, quando uno si porta dietro il peso del peccato, quando poi si trova in difficoltà e ha paura, in qualche modo cerca di confessarlo, in qualche modo il peccato ritorna su, in qualche modo si rivela, anche se uno non vuole. E questi cominciano a rivelare che un fratello non c'è più! Giuseppe coglie la palla al balzo e, prima li sconcerta, mettendoli in prigione,

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lasciandoli lì nel loro brodo per tre giorni, poi, operando un cambiamento di decisione, che li sconcerta ancora di più. Infatti prima aveva detto: uno di voi andrà a prendere l'altro fratello e voi rimanete qui. Poi li lascia in prigione e poi dice ancora: andate via tutti, uno solo di voi rimane qui! Essi capiscono sempre di meno e sempre più vivono il fatto di essere in balia di questo che, oltretutto, sembra uno che cambia idea continuamente, mezzo matto. Vai a capire questo cosa fa! Dunque cresce l'angoscia nei fratelli, questo sentirsi in balia di Giuseppe; uno allora viene tenuto e tutti gli altri vengono inviati ad andare a prendere Beniamino per portarlo da Giuseppe, con questo discorso che va nella linea dei fratelli, ma che è appunto del tutto non pertinente e che è quello di Giuseppe che dice: se voi mi riportate qui il fratello che avete lasciato in Canaan, io saprò che voi non siete spie. Giuseppe va nella linea tracciata dai fratelli, dove il fatto delle spie è molto chiaramente solo un modo perché questi si rendano conto. E loro si rendono conto. Perché loro a questo punto sanno di essere completamente in mano di questo potentissimo sconosciuto. “E allora si dissero l'un l'altro: certo su di noi grava la colpa nei riguardi di nostro fratello, perché abbiamo visto la sua angoscia quando ci supplicava e non lo abbiamo ascoltato, per questo ci è venuta addosso questa angoscia!” Il sangue del fratello pesa addosso e quello che sta avvenendo viene da loro percepito come una punizione, perché l'angoscia che stanno provando adesso ricorda loro l'angoscia di Giuseppe. E questo essere completamente in balia di questo qui ricorda quell'essere totalmente in balia di Giuseppe, gettato in fondo alla cisterna e poi addirittura venduto come se fosse un oggetto.Giuseppe sta cominciando a ottenere i primi risultati, perché sta cominciando a far emergere la coscienza della colpa in questi suoi

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fratelli e contemporaneamente si prende cura di loro, perché gli dà il grano e consente quindi a loro di tornare in patria e di dare vita alle loro famiglie e quindi al padre Giacobbe. Allora: questi ritornano, ritornano da Giacobbe. C'è a questo punto la strana scena, ripetuta due volte, di loro che aprono il sacco e trovano dentro il denaro. Così si spaventano ancora di più, perché quello là, mezzo matto, gli aveva detto: voi siete spie! Adesso avrà l'occasione per dire: voi siete anche ladri! Infatti si ritrovano con il denaro, come se avessero portato via il grano senza pagare. Non capiscono e hanno paura! Comunque tornano da Giacobbe e adesso in qualche modo loro si ritrovano nella stessa situazione dei tempi di Giuseppe, perché ancora una volta tornano dal padre e ancora una volta c'è un fratello in meno. A quei tempi c'era in meno Giuseppe e hanno detto: un leone lo ha sbranato! Adesso non c'è Simeone e se l'è sbranato un altro leone, cioè il potente, folle d'Egitto. Tornano senza uno e questo tornare senza uno, a motivo di quell'altro uno che è lì adesso, condiziona tutto. Perché loro tornano dicendo: se vogliamo riavere Simeone, dobbiamo tornare lì con Beniamino. E Giacobbe, davanti a questa prospettiva dice: no! Io Beniamino non lo lascio andare; anzi ancora di più! Giacobbe dice: voi mi avete privato dei figli. Lo dice solo perché è angosciato, addolorato e amareggiato, ma sta dicendo la verità senza saperlo! Voi mi avete privato dei figli, Giuseppe non c'è più! Simeone non c'è più e Beniamino me lo volete prendere! No! Perché tutto questo ricade su di me! Allora c'è Ruben che dice: mi faccio garante e lui dice: no! Il mio figlio non verrà laggiù con voi, perché suo fratello è morto ed egli è rimasto solo! Se gli capitasse una disgrazia, voi fareste scendere la mia canizie negli inferi! Allora: vedete che cosa è riuscito a fare Giuseppe! Giuseppe, che è vivo, sta guidando il

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gioco, perché è lui che ha tenuto lì Simeone, è lui che ha chiesto che gli riportino Beniamino! È lui, dunque, che tira le file del gioco, perché è vivo, ma in realtà sta condizionando tutto, perché è creduto morto. Giacobbe non vuole mandare Beniamino, perché è convinto che Giuseppe sia morto e allora, avendo perso Giuseppe, non vuole perdere anche l'unico altro figlio di Rachele. Se Giacobbe sapesse che Giuseppe è vivo potrebbe mandare Beniamino, ma invece, siccome lui sa che Giuseppe è morto, allora non manda Beniamino; ma se non manda Beniamino, allora non riesce neanche a riprendere Simeone. Questo fatto che Giuseppe è morto impedisce la liberazione di Simeone, ma tutto questo sta avvenendo perché in realtà lui è vivo e sta facendo questo suo gioco. Allora, questo essere contemporaneamente vivo e morto di Giuseppe è ciò che condiziona tutto quanto e, d'altra parte, questo suo essere contemporaneamente vivo e morto è determinato dal fatto che i fratelli hanno commesso il loro peccato e non lo hanno confessato. Giuseppe è contemporaneamente vivo e morto, perché i fratelli hanno mentito, dicendo che è morto! Non hanno saputo confessare il fatto di averlo venduto e allora questo peccato non confessato dei fratelli, adesso fa sì che Giuseppe sia contemporaneamente vivo e morto e che di fatto tutta la storia venga bloccata.

Beniamino non parte, Simeone rimane laggiù, loro rimangono lì e aspettano di morire, perché, quando poi il grano finisce, non resta che morire. Solo che poi, davanti alla morte, l'istinto di sopravvivenza prende il sopravvento e poiché finisce il grano Giacobbe cede e manda Beniamino. Questi devono necessariamente tornare in Egitto per prendere altro grano. I fratelli

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si rimettono in marcia e ritornano in Egitto; hanno il problema di quel denaro nei sacchi, si ingraziano il vice di Giuseppe. Questi li rassicura, ma loro non capiscono cosa sta succedendo, non sanno se credere o non credere a queste rassicurazioni, poi però vengono invitati al banchetto. Quindi prima sono lì che pensano: chissà adesso questi che cosa ci fanno per questa faccenda del denaro! Poi invece vengono invitati al banchetto e quindi cominciano a pensare che tutto sommato è vero; le parole che gli hanno detto sono vere, non devono temere nulla! Lì, nel banchetto, però cominciano a succedere cose strane: viene data una porzione doppia a Beniamino. Perché? Che cosa sta succedendo? Questi poi parlano un'altra lingua; quindi non riescono a capire cosa succede. Il pazzo là dovrebbe restituire Simeone, però dà la doppia razione a Beniamino. Che cosa sta succedendo? Si volesse tenere Beniamino! E l'angoscia cresce, finché vengono rimandati, partono… gran sospiro di sollievo! Non c'è più da avere paura e nel momento in cui la tensione si abbassa, nel momento in cui non sono più sulla difensiva, in cui si è più vulnerabili, Giuseppe dà l'ultima mazzata! Perché? Mentre loro sono tranquilli, perché finalmente è andata, e sono nel viaggio di ritorno, li fa inseguire, bloccare da quello stesso suo vice che li aveva rassicurati e che adesso invece è diventato una belva. E quindi ancora una volta questo sconcerta i fratelli, e vengono accusati di aver rubato la coppa di Giuseppe, che non è una coppa qualsiasi, ma che è la coppa attraverso cui Giuseppe fa le divinazioni e interpreta i sogni. I fratelli si sanno innocenti di questa colpa, come si sapevano innocenti del fatto di essere spie. Dunque, ancora una volta dicono: non è vero! E allora: aprite pure i sacchi e se trovate la coppa, chi ha la coppa sarà nostro prigioniero! Loro sono tranquilli, tanto non hanno commesso questa colpa. Ne

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hanno commessa un'altra molto peggiore, ma quella tanto non la sa nessuno! E allora: aprite pure i sacchi! Aprono i sacchi e la coppa viene trovata nel sacco di Beniamino e quindi ora Beniamino deve essere tenuto in ostaggio; ora è Beniamino quello che deve morire.

Davanti a questo i fratelli finalmente non sono più complici, ma diventano solidali e davanti alla prospettiva che Beniamino debba pagare, loro dicono: allora no! Paghiamo tutti insieme! La complicità è diventata solidarietà! Ora i fratelli sono ritornati ad essere fratelli, pronti a pagare insieme. Con una frase molto significativa che dice Giuda: che diremo al mio signore, come parlare, come giustificarci? Dio ha scoperto la colpa dei tuoi servi. Ed eccoci schiavi del mio signore noi e colui che è stato trovato in possesso della coppa. Dio ha scoperto la colpa dei tuoi servi, solo che la colpa di cui lui sta parlando non è quella della coppa, è quella di aver venduto il fratello, ma Giuda pensa che tanto colui a cui sta dicendo questa frase non possa saper nulla di quello che è avvenuto, lui non sa che quello è Giuseppe! E lui parla a Giuseppe di quello che hanno fatto a Giuseppe, convinto che tanto Giuseppe non possa capire e che Giuseppe avrebbe interpretato come la colpa della coppa. E invece Giuseppe capisce ed era lì che li voleva portare. E allora Giuseppe interviene e offre la libertà a tutti in cambio di Beniamino. A questo punto Giuda di nuovo interviene raccontando tutta la storia, gli incontri precedenti, di come loro avevano convinto il padre a lasciare Beniamino, del fatto che lui si era fatto garante, perché Beniamino potesse partire e dice Giuda: e adesso, se noi torniamo senza nostro fratello, per nostro padre è la fine, perché nostro padre ama Beniamino più di tutti. E c'è la frase: l'amore del padre per Beniamino è troppo grande, la vita dell'uno è legata alla vita

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dell'altro. Questo Giuda non lo può dire di se stesso e infatti può dire tranquillamente: tieni me, ma rimanda Beniamino! Perché, se Beniamino non torna, nostro padre muore. Se invece non torno io, nostro padre continua a vivere. Dunque, Giuda sta dicendo: Beniamino è amato più di me! Beniamino è amato più di tutti noi fratelli messi insieme. Ebbene, proprio a motivo di questo, Giuda dice: prendi me! Allora, l'amore del padre che, ai tempi di Giuseppe, era stata proprio la causa della decisione di uccidere Giuseppe, l'amore del padre, che era stato il motivo per quella decisione, adesso quello stesso amore di preferenza diventa invece il motivo per offrire la propria vita. L'amore di preferenza del padre era stato il motivo per uccidere, adesso diventa il motivo per consegnare la propria vita e morire al posto del fratello amato. Non si tratta più di uccidere il fratello amato dal padre, ma di morire al suo posto. E proprio a motivo del fatto che il padre lo ama di più!La gelosia è completamente riassorbita ed è diventata amore fraterno ed è diventata anche amore filiale, perché è l'amore fraterno nei confronti di Beniamino, ma è soprattutto l'amore filiale nei confronti del padre. Giuda, per amore del padre, accetta di morire e per amore di un padre che ama Beniamino più di tutti gli altri; accetta di morire per amore di un padre che ama un altro più di lui.Questo è il vero amore filiale; questa è la vera accoglienza del Padre e questo è anche il vero amore fraterno. E questo è, per i fratelli di Giuseppe, il compimento del cammino che Giuseppe voleva far fare loro. Voleva farli ritornare ad essere fratelli, perché voleva che tornassero ad essere figli ed ora questo è avvenuto. Il peccato è stato completamente riassorbito, perché quello che era motivo di peccato, adesso è diventato motivo dell'amore più

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grande, che è dare la vita per gli amici. La conversione ora è totale. Chi ha ucciso è diventato invece capace di morire per gli altri. Il peccato è stato completamente riassorbito e allora adesso Giuseppe può anche manifestarsi. Giuseppe si manifesta, i fratelli possono finalmente riconoscerlo, perché avendo finalmente riconosciuto il padre si possono anche riconoscere come fratelli e questo ricrea la famiglia. Ma questo è possibile solo perché Giuseppe ha perdonato! Non c'era cammino possibile per i fratelli, per convertirsi e non c'era cammino possibile perché la famiglia potesse ritornare ad essere tale, se non perché c'è stato qualcuno che ha subito l'ingiustizia, la violenza, qualcuno che è stato vittima e che invece di rispondere al male con il male, ha risposto al male con il bene, ha perdonato. Ed è solo su questo perdono di Giuseppe che si basa tutta la storia. Poiché Giuseppe ha perdonato, ha potuto aiutare i fratelli a fare il cammino della figliolanza e della fratellanza. E poiché Giuseppe ha perdonato, la famiglia è tornata ad essere famiglia.E questo è paradigmatico, dove paradigma vuol dire che non è la materialità che è significativa, ma il senso che il testo rivela. Il senso che il testo rivela e che è significativo per le nostre famiglie è che, perché le famiglie siano tali, perché possano restare unite e perché possano eventualmente ricomporsi dopo la frattura, bisogna che ci sia qualcuno che perdona! Bisogna che ci sia qualcuno che rinuncia alle proprie rivendicazioni per far prevalere il bene dell'altro e il bene comune. Bisogna che ci sia qualcuno che cede, ma non per debolezza, quanto perché portatore di una forza più grande. Bisogna che il più forte, quello cioè che è capace di amare di più, perché quella è la vera forza, accetti di cedere. Il più forte

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accetti di difendere la debolezza, accetti di perdonare, di rinunciare anche ai propri diritti per salvaguardare invece il bene comune.

Questo è vero delle famiglie, ma questo è vero anche di quella grande famiglia che è la chiesa. E allora adesso, quando si è capito questo, i fratelli ridiventano fratelli, ridiventano figli e compare allora, a questo punto, il vero protagonista che è Dio. Dio che, da Giuseppe, viene proclamato come colui che si inserisce nella storia degli uomini per cambiarla. Dio come Colui che trasforma la storia di morte in storia di vita. “Dio che è Colui che mi ha mandato qui prima di voi, perché io potessi farvi vivere e se voi avevate pensato il male contro di me, Dio ha pensato di farlo servire al bene per compiere quello che oggi si avvera: far vivere un popolo numeroso!” Il Dio della vita che entra dentro la storia di morte degli uomini per trasformarla. Ma questo è possibile perché il perdono di Dio si incarna nel perdono di un uomo. Dio può perdonare perché Giuseppe ha perdonato. Allora, cambiano le prospettive: il male è cambiato in bene e i sogni di Giuseppe si avverano, ma non come pensavano i fratelli. Perché effettivamente i fratelli si prostrano davanti a Giuseppe, ma non è per l'umiliazione, quanto perché l'hanno ritrovato. E il sole, cioè il padre, non si prostra. Il padre, Giacobbe, invece abbraccia Giuseppe. Ecco il compimento dei sogni di Giuseppe; il compimento dei sogni non è la prostrazione, ma è che finalmente Giuseppe entra nel suo ruolo di figlio e, da fratello, consente anche ai fratelli di entrare pienamente nella loro verità di fratelli e di figli capaci di lasciarsi amare come il padre vuole amare e come Dio vuole amarci.

Così la famiglia si ricompone e Dio può rivelarsi e può farsi presente dentro questa famiglia e può allora veramente ricolmarla del suo

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amore, che si incarna poi nell'amore del Padre, nell'amore dei fratelli, facendo definitivamente trionfare la vita, perché la vita – quella vera – è possibile solo quando è una vita perdonata.

LA STORIA DI DAVIDE«Eccolo, è lui»

(1 Sam 16,1-13)

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Il rifiuto di Saul

Il re Saul, il primo re di Israele, ha vissuto una regalità controversa, presto smentita da quello stesso Dio che lo aveva scelto come sovrano del suo popolo.

La storia di Saul è in realtà una storia drammatica. Divenuto re suo malgrado (cfr 1 Sam 10,17-24), viene presto contagiato dalla «malattia del potere», divenendo un re come quello degli altri popoli. Il momento di massima crisi si verifica in due occasioni cruciali, in cui il nuovo re è chiamato a confrontarsi con la propria capacità di obbedienza e la propria fede. Gli eventi sono narrati nei capitoli 13 e 15 del Primo Libro di Samuele, e mostrano Saul come definitivamente inadatto al proprio compito regale. Saul viene rifiutato da Dio, e la decisione è irrevocabile.

La storia è giunta ad una svolta decisiva, e il profeta Samuele viene ora mandato a scoprire e designare l’altro, ungendo il nuovo re di Israele.

L’invio di Samuele (vv. 1-5)

1 Il Signore disse a Samuele: "Fino a quando piangerai su Saul, mentre io l'ho ripudiato perché non regni su Israele? Riempi d'olio il tuo corno e parti. Ti mando da Iesse il Betlemmita, perché mi sono scelto tra i suoi figli un re". 2Samuele rispose: "Come posso andare? Saul lo verrà a sapere e mi ucciderà". Il Signore soggiunse: "Prenderai con te una giovenca e dirai: "Sono venuto per sacrificare al Signore". 3Inviterai quindi Iesse al sacrificio. Allora io ti farò conoscere quello che dovrai fare e ungerai per me colui che io ti dirò". 4Samuele fece quello che il Signore gli aveva comandato e venne a Betlemme; gli anziani della città gli vennero

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incontro trepidanti e gli chiesero: "È pacifica la tua venuta?". 5Rispose: "È pacifica. Sono venuto per sacrificare al Signore. Santificatevi, poi venite con me al sacrificio". Fece santificare anche Iesse e i suoi figli e li invitò al sacrificio.

Il vero protagonista della vicenda narrata in 1 Sam 16 è Dio, che prende l’iniziativa e costringe Samuele a piegarsi alle esigenze della nuova realtà.

Tutto comincia con un rimprovero e con un comando: Samuele deve smettere di piangere per Saul e andare dove Dio lo manda, a fare ciò che lui vuole.

La prospettiva è inquietante. Si tratta di consacrare un nuovo Unto, mentre Saul è ancora in vita. Un’azione rischiosa, fatta alle spalle di un re già turbato, che conosce la decisione di Dio di rifiutarlo e sostituirlo, ed è perciò all’erta, ben sapendo che il proprio potere è in pericolo.

L’obiezione di Samuele al comando di Dio va appunto in quella linea: «Come posso andare? Saul lo verrà a sapere e mi ucciderà» (v. 2). Il profeta esterna la propria paura, e mette un ostacolo alla parola divina, ma Dio lo aggira aggiustando il comando e aprendo la via d’uscita: Samuele giustificherà il suo viaggio con un sacrificio da compiere.

Forse non è totalmente una menzogna. Il sacrificio si farà, anche se in realtà non viene descritto, e tutto si limita all’unzione di Davide, dopo la quale, dice il testo, «Samuele si alzò e andò a Rama» (v. 13). In effetti, non è il sacrificio che conta, avendo solo funzione di copertura e non rappresentando un tema centrale dal punto di vista narrativo. Ma resta importante come elemento di inganno, o almeno di mezza verità. Perché i problemi di Saul vengono proprio da quei sacrifici che non avrebbe dovuto fare ai

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tempi dei Filistei e poi degli Amaleciti (cfr 1 Sam 13.15), e sarà poi ancora la scusa di un sacrificio da fare a Betlemme che coprirà la fuga di Davide, con la complicità di Gionata, il figlio del re (cfr 1 Sam 20). In tutta la vicenda, la sfera del sacro invade il campo, pur da diverse angolazioni e con varie tonalità.

Risolta dunque la difficoltà posta da Samuele, al vecchio giudice non resta che mettersi in cammino per eseguire il comando. La funzione di Samuele è solo di esecutore, tutta incentrata sulla sua obbedienza. Dio è esplicito nel riferire a sé, e a sé solo, tutta la vicenda (cfr v. 3). L’iniziativa è di Dio e tutto si deve risolvere tra Lui e il re. Samuele, ancora una volta, compie la propria missione, portando a compimento la propria funzione di mediatore.

Comincia così qualcosa di nuovo, ma in stretto collegamento con la storia che precede. Non solo con il rigetto di Saul da parte di Dio, causa di questa nuova unzione, ma anche con la stessa elezione e consacrazione di Saul.

Samuele, ancora una volta, deve ricominciare da capo una cerimonia che non ha mai voluto fare. La prima volta perché non voleva che su Israele ci fosse un re, e ora, la seconda volta, perché quel re che non voleva ormai c’è ed è anche pericoloso.

Ma Samuele non è il solo ad essere reticente ed impaurito. Quando infine giunge a Betlemme, gli anziani della città gli si fanno incontro pieni di timore. Sembrano preoccupati per quella venuta inconsueta e inaspettata, forse percepiscono il rischio di venir coinvolti in qualcosa di rischioso. È comunque inquietante veder arrivare senza preavviso l’autorevole giudice, soprattutto dopo la sua dichiarata rottura con il re.

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Essi non sanno che anche Samuele ha paura e, ignorando il motivo del suo arrivo, lo interrogano, ansiosi di sentirsi rassicurati: «È pacifica la tua venuta?» (v. 4).

Samuele li rassicura, e indice il sacrificio invitandovi anche Iesse e i suoi figli. Ormai il racconto è giunto ad una svolta decisiva, e il lettore, come Samuele, aspetta di sapere finalmente chi sarà il nuovo re di Israele.

La scelta del piccolo (vv. 6-13)

6Quando furono entrati, egli vide Eliàb e disse: "Certo, davanti al Signore sta il suo consacrato!". 7Il Signore replicò a Samuele: "Non guardare al suo aspetto né alla sua alta statura. Io l'ho scartato, perché non conta quel che vede l'uomo: infatti l'uomo vede l'apparenza, ma il Signore vede il cuore". 8Iesse chiamò Abinadàb e lo presentò a Samuele, ma questi disse: "Nemmeno costui il Signore ha scelto". 9Iesse fece passare Sammà e quegli disse: "Nemmeno costui il Signore ha scelto". 10Iesse fece passare davanti a Samuele i suoi sette figli e Samuele ripeté a Iesse: "Il Signore non ha scelto nessuno di questi". 11Samuele chiese a Iesse: "Sono qui tutti i giovani?". Rispose Iesse: "Rimane ancora il più piccolo, che ora sta a pascolare il gregge". Samuele disse a Iesse: "Manda a prenderlo, perché non ci metteremo a tavola prima che egli sia venuto qui". 12Lo mandò a chiamare e lo fece venire. Era fulvo, con begli occhi e bello di aspetto. Disse il Signore: "Àlzati e ungilo: è lui!". 13Samuele prese il corno dell'olio e lo unse in mezzo ai suoi fratelli, e lo spirito del Signore irruppe su Davide da quel giorno in poi. Samuele si alzò e andò a Rama.

Il ritmo narrativo ora rallenta, e descrive nei dettagli l’incontro di Samuele con i figli di Iesse. Secondo le regole, si inizia con il

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primogenito che, in quanto tale, è il più importante e che, per di più, è anche il più imponente. Samuele resta impressionato dalla sua apparenza ma subito il Signore interviene a correggere il suo giudizio: «Non guardare al suo aspetto né alla sua alta statura. Io l'ho scartato, perché non conta quel che vede l'uomo: infatti l'uomo vede l'apparenza, ma il Signore vede il cuore» (v. 7).

Merita un breve trattamento a parte questo v. 7. La frase di Dio pone un’immediata relazione tra Eliàb, il figlio maggiore di Iesse, e Saul: ambedue sono alti di statura, e per questo sembrano i più adatti a fare da condottieri. Un re imponente è infatti più autorevole, sembra dare maggiore garanzie di coraggio e di forza, e la sua prestanza lo rende più gradito ai suoi sudditi. Ma Dio ha criteri diversi, e rifiuta l’aitante Eliàb, proprio come ha già rifiutato Saul.

Il vecchio Samuele, che in quanto profeta dovrebbe saper vedere la realtà nella sua vera dimensione, nel momento cruciale non sa vedere con gli occhi di Dio, e questi deve intervenire ancora, con un nuovo rimprovero, per riportare il suo mediatore nella giusta direzione. È come se il giudice di Israele non riuscisse più a stare al passo con Dio: prima resta passivo a piangere per il rigetto di Saul e non vuole partire, ora cerca invece di accelerare i tempi, precipitando una decisione non maturata secondo i criteri di Dio.

Samuele è rimasto legato ai vecchi schemi del re grande e potente, quello scelto dal Signore la prima volta. Ma proprio quello è stato rigettato, e ora bisogna cercare qualcosa di diverso, senza altri punti di riferimento che l’indicazione che Dio deciderà di dare, quando Lui vorrà.

Sfilano così, uno dopo l’altro, i figli di Iesse davanti a Samuele. Dopo Eliàb, Abinadàb, poi Sammà, e poi gli altri quattro. E per

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ognuno il giudice si interroga, e per ognuno deve accettare che non è quello l’Unto del Signore.

La scena è letterariamente ben costruita, con una certa vena ironica. Per tre volte si dice che Iesse fa passare i suoi figli davanti a Samuele (vv. 8.9.10), e per tre volte si ripete la frase desolata del giudice: «Il Signore non ha scelto» (vv. 8.9.10). La delusione è totale. Il nuovo re lì non c’è. Allora Samuele, patetico e testardo, butta là la domanda che precede la rinuncia: «Sono qui tutti i giovani?» (v. 11).

Ebbene no, non sono finiti. Il prolifico Iesse ha ancora un figlio, il più piccolo, talmente piccolo che ci si era dimenticati di lui. Anche lui viene fatto chiamare, ed eccolo infine: «fulvo, con gli occhi belli e bello di aspetto. Allora il Signore disse: Àlzati e ungilo, è lui» (v. 12).

Come già indicato, il tema del vedere gioca un ruolo importante in questa narrazione. Dio ha visto il re per sé, Samuele vede Eliàb, Dio corregge la visione e dice di non guardare con gli occhi ma con il cuore. E quando infine i criteri di scelta di Dio si incarnano nell’ultimo figlio di Iesse, ci si accorge che anche l’apparenza è importante: del nuovo re non si evidenzia la sua interiorità, ma il suo aspetto fisico, che era bello.

I criteri di Dio sono diversi da quelli degli uomini, e il suo Unto non è grande, autorevole, appariscente. È invece un piccolo ragazzo, che proprio per la sua piccolezza è adatto a diventare il segno della potenza di Dio in mezzo al suo popolo. Ed è un pastore, che è il vero modo di essere re, prendendosi cura di coloro che gli vengono affidati. Così la piccolezza è preferita all’imponenza, e il pastore all’uomo d’armi, ma non per questo il nuovo re è meno bello. Dio interviene con Samuele per chiarire i suoi criteri, ma in un gioco che ne mantiene intatta la complessa ambivalenza.

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Oltre agli occhi, di questo figlio minore di Iesse si evidenzia che era fulvo. Questo inconsueto colore della cute e/o dei capelli è descritto nella Bibbia solo per Davide e per Esaù al momento della sua nascita (cfr Gen 25,25). Due personaggi molto diversi tra loro, ma con un importante punto in comune: ambedue hanno a che fare con il capovolgimento delle usuali graduatorie di importanza tra fratelli. Esaù, il cacciatore, è il primogenito di Isacco ma viene soppiantato dal fratello minore, Giacobbe, che era nomade e pastore. Davide invece, il pastorello, il più piccolo tra i figli di Iesse, soppianta i fratelli maggiori, viene scelto per diventare re d’Israele nonostante gli altri fossero più grandi di lui. Forse c’è, velatamente, un gioco di personaggi, una starna somiglianza nel destino cui sono destinati, a parti invertite, questi due “rossi” protagonisti della storia d’Israele.

Siamo così giunti alla conclusione del nostro brano. Identificato il nuovo re, Samuele lo consacra con l’unzione, e lo spirito del Signore si posa su di lui. E allora, finalmente, anche il nome del prescelto viene rivelato: è Davide (v. 13). Ormai il giovane ragazzo è entrato nella storia di Israele, e il suo destino dovrà incrociarsi con quello tragico del re Saul, perché è ora lui il nuovo e definitivo portatore della promessa di Dio.

La piccolezza, secondo una costante della storia della salvezza, si rivela luogo privilegiato di elezione e di manifestazione del divino. Così è stato per Abele, preferito al primogenito Caino, per Giacobbe che soppianta Esaù, Gedeone che è il più piccolo della più piccola casa di Manasse, Geremia che è troppo giovane per essere portatore di parola autorevole, le donne che nella loro apparente fragilità diventano mezzo di vittoria e di salvezza (cfr ad es., Debora, Giuditta, Ester).

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La scelta di Dio è sul piccolo per poter fare, attraverso di lui, cose grandi; sul debole, per poter con esso confondere i forti (cfr 1 Cor 1,27-29). Si tratta di una economia misteriosa che giunge a pienezza in quel Messia, prefigurato da Davide, che come lui nasce nella piccola Betlemme, e nel quale definitivamente si compie la salvezza nella totale insignificanza di una morte infamante e vissuta nell’abbandono.

Il re folle e il giovane musico(1 Sam 16,14-23)

L’incontro tra Saul e Davide segna l’inizio di un tragico incrociarsi di due destini ormai indissolubilmente congiunti.

Da una parte c’è il re rifiutato da Dio, dall’altra il nuovo eletto, da un lato un uomo malato e solo, perso nel proprio delirio di potere e di persecuzione, dall’altro un giovane pieno di doti, prescelto dal Signore, che si affaccia a una vita colma di promesse.

La loro sarà una storia di amore e di rifiuto, di guerra e di ripensamenti, in cui resteranno coinvolti non solo i familiari e le persone a loro più vicine, ma l’intero popolo di Israele.

Lo spirito e la musica (vv. 14-18)14Lo spirito del Signore si era ritirato da Saul e cominciò a turbarlo un cattivo spirito, venuto dal Signore. 15Allora i servi di Saul gli dissero: "Ecco, un cattivo spirito di Dio ti turba. 16Comandi il signore nostro ai servi che gli stanno intorno e noi cercheremo un uomo abile a suonare la cetra. Quando il cattivo spirito di Dio sarà su di te, quegli metterà mano alla cetra e ti sentirai meglio". 17Saul rispose ai ministri: "Ebbene, cercatemi un uomo che suoni bene e fatelo venire da me". 18Rispose uno dei

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domestici: "Ecco, ho visto il figlio di Iesse il Betlemmita: egli sa suonare ed è forte e coraggioso, abile nelle armi, saggio di parole, di bell'aspetto, e il Signore è con lui".

Dopo il racconto dell’unzione di Davide, la storia di Saul riprende e il re torna ad essere protagonista, ma in una dimensione sempre più tragica, perché «lo spirito del Signore si era ritirato» da lui (v. 14). Egli era stato investito dallo spirito dopo l’unzione a re, subendo una trasformazione dagli effetti visibili, che lo aveva reso profeta (cfr 1 Sam 10, 1.6-7.9-10). Ma poi c’era stata l’unzione di Davide, e lo spirito, posatosi sul nuovo prescelto, abbandona il re in carica (cfr vv. 13 e 14).

È lo stesso spirito che abbandona l’uno e si posa invece sull’altro, segnando in tal modo il loro destino. E, paradossalmente, proprio questo “passaggio” dello spirito provoca l’incontro fatale fra i due.

L’abbandono da parte di Dio, infatti, accompagna e provoca in Saul un’esperienza patologica di grave disagio e di malessere psichico.

Il testo parla di “cattivo spirito, venuto da Dio” che terrorizzava, leggendo in chiave teologica lo stato psicotico del re. L’ansia del potere, l’esperienza traumatica di essere stato rifiutato da Dio, l’abbandono di Samuele, lo sgomento davanti ad una regalità divenuta incerta, tutto ciò contribuisce a creare una situazione di incertezza, solitudine e paura, che afferra il re e lo spinge inesorabilmente sui cammini angosciosi della follia.

Il re forte che aveva combattuto e vinto alla testa del suo popolo, il re imponente che con la sua statura sovrastava tutti dando un’impressione di grande solidità e di potenza, è ora

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costretto a mostrare le ferite della sua anima a coloro che lo circondano e a permettere che mettano a nudo la sua debolezza consigliandogli rimedi. E il rimedio è qualcuno che suoni per lui, sfruttando le virtù terapeutiche della musica.

Il consiglio degli uomini di Saul è sensato, e il re lo accetta, segnando così irrimediabilmente il proprio destino. Perché la persona adatta è già stata individuata da uno dei servi di Saul, e si tratta proprio di Davide.

La descrizione che ne viene fatta è molto elogiativa e accattivante: «…egli sa suonare ed è forte e coraggioso, abile nelle armi, saggio di parole, di bell'aspetto, e il Signore è con lui» (v. 18). Una presentazione di tutto rispetto, che farebbe sperare in una soluzione al problema di Saul, se a chi legge non sorgesse il legittimo sospetto che questo “figlio di Iesse” sia proprio “quel” figlio di Iesse di cui si è appena parlato pochi versetti prima, il giovane pastore scelto dal Signore per prendere il posto del re rifiutato.

In realtà, il servo nel suo discorso non nomina Davide, ma semplicemente descrive un figlio e Iesse di figli aveva otto. In più, la descrizione è di un uomo forte, avvezzo alle armi, qualità che potrebbero meglio adattarsi a uno dei fratelli maggiori di Davide, piuttosto che a lui, destinato, in quanto minore, a pascolare il gregge.

Al di là delle varie possibilità di spiegare l’incongruenza, rimane il fatto che l’allusione alle capacità militari del figlio di Iesse finisce per creare un gioco di ambiguità, alludendo a Davide ma evocando insieme l’immagine di qualche suo fratello maggiore. La descrizione fatta dal servo di Saul resta perciò aperta a diverse possibilità di interpretazione, ma il lettore è abilmente condotto

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dallo svolgersi del racconto a pensare al giovane appena unto da Samuele e a intravedere e immaginare i nuovi intricati sviluppi della vicenda.

Così, le parole del servo di Saul, tanto benevole e rassicuranti, assumono un tono cupamente ironico, e quel finale “il Signore è con lui” subito richiama sinistramente quanto detto di Saul dopo la sua unzione (cfr 10,7), con la susseguente tragica smentita dell’abbandono da parte di Dio. Il candidato a calmare le crisi del re ha ciò che il re dovrebbe avere e non ha più: l’assistenza del Signore e il dono del suo spirito.

Ma Saul, ancora ignaro, cerca solo di guarire e accetta la proposta dei suoi, mandando a prelevare il futuro rivale. Ed è proprio lui a pronunciare il nome che elimina l’ambiguità delle parole del servo e identifica infine il figlio di Iesse: «Saul mandò messaggeri a dire a Iesse: "Mandami tuo figlio Davide, quello che sta con il gregge» (v. 19).

Davide a corte (vv. 19-23)

19Saul mandò messaggeri a dire a Iesse: "Mandami tuo figlio Davide, quello che sta con il gregge". 20Iesse prese un asino, del pane, un otre di vino e un capretto e, per mezzo di Davide, suo figlio, li inviò a Saul. 21Davide giunse da Saul e cominciò a stare alla sua presenza. Questi gli si affezionò molto ed egli divenne suo scudiero. 22E Saul mandò a dire a Iesse: "Rimanga Davide con me, perché ha trovato grazia ai miei occhi". 23Quando dunque lo spirito di Dio era su Saul, Davide prendeva in mano la cetra e suonava: Saul si calmava e si sentiva meglio e lo spirito cattivo si ritirava da lui.

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Davide dunque viene chiamato a corte. Il padre invia doni al re: pane, vino, un capretto. È l’omaggio di un suddito deferente, che non lascia giungere a corte il figlio a mani vuote e che con questo gesto proclama la sua fedeltà e devozione al re.

In realtà, proprio quel figlio è il nuovo unto, ma nessuno dei protagonisti ne parla, forse nessuno lo sa, e l’invio di Davide avviene nella massima discrezione e normalità. Ciò che appare è solo un ragazzo che riceve l’onore di servire il re con la sua musica. Un compito delicato, perché vuol dire entrare nel segreto della malattia del sovrano, ma anche, in fin dei conti, un’incombenza modesta. Nonostante l’elogio del servo che lo dipingeva come un eroe, uomo valoroso ed eloquente, nonostante lo spirito del Signore fosse su di lui con la sua potenza, tutto ciò che avviene è che Davide va a suonare la cetra.

Ma proprio questo segna l’inizio della sua ascesa e provoca il lento perdersi di Saul.

Il racconto è carico di ironia, e generatore di tristezza. Saul appare figura patetica, che cerca sollievo alla propria sofferenza e si affeziona a chi può aiutarlo. È un malato che vorrebbe guarire, abbandonato da Dio forse senza veramente saperne il perché, uomo di potere che riconosce il proprio bisogno e si consegna, in tutta debolezza, a chi può vincere con la sua musica lo spirito cattivo che è in lui.

Il rapporto che si instaura tra Saul e Davide è complesso e manifesterà in seguito tutta la sua problematicità. Per ora si parla di “affetto” e di “grazia” (vv. 21-22). Davide trova grazia presso Saul. Il rapporto è positivo: il re si è affezionato al giovane suddito, e questi certamente ricambia.

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Ma proprio nel nodo in cui questo amore è racchiuso il dramma della vicenda di Saul, costretto dall’abbandono di Dio ad aver bisogno del giovane Betlemmita e ad amare colui che Dio aveva scelto al suo posto.

Così, Davide diventa il terapeuta del re, ma per trasformarsi presto nella sua peggiore malattia.

Il pastore e il filisteo (1 Sam 17)

La sfida del gigante (vv. 1-11)

1I Filistei radunarono di nuovo le loro truppe per la guerra, si radunarono a Soco di Giuda e si accamparono tra Soco e Azekà, a Efes-Dammìm. 2Anche Saul e gli Israeliti si radunarono e si accamparono nella valle del Terebinto e si schierarono a battaglia contro i Filistei. 3I Filistei stavano sul monte da una parte, e Israele sul monte dall'altra parte, e in mezzo c'era la valle. 4Dall'accampamento dei Filistei uscì uno sfidante, chiamato Golia, di Gat; era alto sei cubiti e un palmo. 5Aveva in testa un elmo di bronzo ed era rivestito di una corazza a piastre, il cui peso era di cinquemila sicli di bronzo. 6Portava alle gambe schinieri di bronzo e un giavellotto di bronzo tra le spalle. 7L'asta della sua lancia era come un cilindro di tessitori e la punta dell'asta pesava seicento sicli di ferro; davanti a lui avanzava il suo scudiero. 8Egli si fermò e gridò alle schiere d'Israele: "Perché siete usciti e vi siete schierati a battaglia? Non sono io Filisteo e voi servi di Saul? Sceglietevi un uomo che scenda contro di me. 9Se sarà capace di combattere con me e mi abbatterà, noi saremo vostri servi. Se

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invece prevarrò io su di lui e lo abbatterò, sarete voi nostri servi e ci servirete". 10Il Filisteo aggiungeva: "Oggi ho sfidato le schiere d'Israele. Datemi un uomo e combatteremo insieme". 11Saul e tutto Israele udirono le parole del Filisteo; rimasero sconvolti ed ebbero grande paura.

La narrazione inizia con il porsi di un problema, sotto forma di grave minaccia militare: i Filistei affrontano Israele con tutto il peso delle loro truppe. Il quadro è impressionante: i due eserciti armati si fronteggiano, ognuno su un’altura, pronti a dare battaglia. Quando succederà, quella valle che li separa diventerà un groviglio di corpi che combattono e finirà per riempirsi di cadaveri.

Ma la battaglia non ha inizio, perché un rappresentante dei Filistei offre la soluzione del duello individuale in sostituzione dello scontro tra le armate. La guerra si deciderà nella lotta tra due eroi, affidando così la vittoria o la sconfitta di un intero popolo alla valentia di un suo rappresentativo campione.

La sida è lanciata da Golia, un Filisteo di Gat dalle proporzioni gigantesche (vv. 4-10). Tutti in lui è eccessivo e eccedente: la statura, le dimensioni e il peso delle armi, la voce minacciosa, la certezza di vincere. L’arroganza delle parole accompagna la sfrontata esibizione della propria forza, e il coraggio che su di essa è basato si fa sfida e insulto ignominioso. Non solo egli si presenta con uno straordinario equipaggiamento difensivo e offensivo, ma offre la lotta come una condanna a morte certa per l’avversario. Golia si sente, o si vuole mostrare, invincibile, e irride coloro che gli si oppongono ostentando una aggressività senza titubanze e sicura di prevalere.

Lo scopo della sua proposta di duello è di esibire, nella sua persona, la superiorità dei Filistei. Vista la forza del provocatore, è

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difficile che qualcuno possa raccoglierne la sfida, e se anche ciò avvenisse, è ragionevole supporre che sarebbe il Filisteo ad avere la meglio.

Così, la profferta di Golia mette Israele in una strada senza via d’uscita: se la lotta ci sarà, è prevedibile che Israele finirà schiavo dei Filistei; se non ci sarà, Israele si troverà nello scoraggiamento e nel panico, e perciò già perdente, facile preda dell’aggressione nemica.

Il ritratto che viene presentato dello sfidante Golia è odioso, ne emerge un uomo che non attira simpatie, ma anzi evoca un che di volgare. Non è l’eroe nobile e seducente, ma una forza della natura che si presenta in tutta la sua brutalità. Il suo atteggiamento ha qualcosa di animalesco, perché basato solo sulla potenza fisica, che è d’altronde l’elemento principale in uno scontro bellico. Le regole sono quelle della sopraffazione e della violenza, la vittoria non è della ragione, ma della forza e delle armi, ed è soprattutto su questo che si decide la vita o la morte dei singoli combattenti. Mostrarsi forti e impavidi diventa così determinante, perché mette gli avversari in stato di inferiorità, infiacchendone il coraggio e la fiducia.

L’effetto che l’apparizione di Golia provoca sull’esercito di Israele è perciò scontato. Grande e minaccioso, egli incute paura, e la sua superiorità, appariscente nelle dimensioni fisiche e percepibile nelle sue parole, toglie il coraggio a tutto Israele. Il terrore è totale: alle parole del possente Filisteo, Saul e tutto Israele cadono nel panico (v. 11).

Del resto, la posta in gioco è altissima, Golia appare invincibile e Israele, con la sua paura, non sembra poter mettere in campo un avversario adeguato. La morsa che aveva afferrato il popolo di Dio

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con l’ammassarsi delle truppe nemiche, sembra ora stringersi fino a soffocarlo. Israele, vittima della propria paura, sembra senza scampo e la sua sorte appare ormai segnata.

Ma il racconto presenta una svolta improvvisa e inaspettata, cambiando la scena senza preavviso e iniziando una nuova storia (v. 12).

Davide e il suo gregge (vv. 12-20)12Davide era figlio di un Efrateo di Betlemme di Giuda chiamato Iesse, che aveva otto figli. Al tempo di Saul, quest'uomo era un vecchio avanzato negli anni. 13I tre figli maggiori di Iesse erano andati con Saul in guerra. Di questi tre figli, che erano andati in guerra, il maggiore si chiamava Eliàb, il secondo Abinadàb, il terzo Sammà. 14Davide era ancora giovane quando questi tre più grandi erano andati dietro a Saul. 15Egli andava e veniva dal seguito di Saul e pascolava il gregge di suo padre a Betlemme.16Il Filisteo si avvicinava mattina e sera; continuò così per quaranta giorni. 17Ora Iesse disse a Davide, suo figlio: "Prendi per i tuoi fratelli questa misura di grano tostato e questi dieci pani e corri dai tuoi fratelli nell'accampamento. 18Al comandante di migliaia porterai invece queste dieci forme di formaggio. Infórmati della salute dei tuoi fratelli e prendi la loro paga. 19Essi con Saul e tutto l'esercito d'Israele sono nella valle del Terebinto, a combattere contro i Filistei". 20Davide si alzò di buon mattino: lasciò il gregge a un guardiano, prese il carico e partì come gli aveva ordinato Iesse. Arrivò ai carriaggi quando le truppe uscivano per schierarsi e lanciavano il grido di guerra.

Il brusco passaggio dal campo di battaglia alla presentazione di Davide con le sue pecore ha un effetto narrativo particolarmente interessante. Il lettore infatti è trasportato di colpo in un ambiente bucolico e pieno di pace. Dal frastuono della guerra il grido di Golia,

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il fragore delle armi e la paura di Israele, si passa improvvisamente a una visione domestica, un uomo già anziano, con tre figli nell’esercito e uno a fare il pastore, nella piccola Betlemme di Giuda. Dai rumori della guerra, ai suoni quotidiani di un piccolo villaggio; dalla visione di due eserciti pronti a distruggersi, a quella di una distesa assolata e desertica, dove il silenzio è rotto solo dal belare delle pecore al pascolo.

Così Davide entra di nuovo in scena. È lui il protagonista della storia, ma la sua presentazione avviene in sordina, e di lui si parla solo in riferimento a suo padre (v. 12), ai suoi fratelli (vv. 13-14) e al gregge che deve pascolare (v. 15).

I tre fratelli maggiori che erano andati in guerra con Saul vengono nominati: sono Eliab, Abinadab e Samma. Sono gli stessi i cui nomi compaiono nella scena dell’unzione di Davide, quando vengono scartati da Samuele che cercava il nuove re designato dal Signore (16,6-9). Sono i grandi, i forti, quelli che contano all’interno della famiglia.

Davide invece è piccolo e nei momenti cruciali non c’è mai, perché è con le sue pecore al pascolo. Non c’era al sacrificio indetto da Samuele (16,11), e non c’è adesso dove si decidono le sorti di Israele, sul campo di battaglia. Ma per il sacrificio Samuele lo aveva mandato a chiamare e lo aveva identificato come nuovo re (16,11-12), e ora è suo padre Iesse che lo distoglie dal pascolo per mandarlo dove si sta combattendo.

A questo proposito, bisogna tener presente la precisazione del v. 15: «Egli andava e veniva dal seguito di Saul e badava al gregge di suo padre in Betlemme». Davide, dunque, era già andato da Saul, interrompendo la propria permanenza a Betlemme, perché era stato prescelto per calmare con la sua musica le crisi di follia del re

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(cfr 16,14-23). Ma questo suo andare non è come quello dei tre fratelli. Loro, che erano grandi, erano andati con Saul alla guerra, invece Davide, che era piccolo, andava e veniva da Saul, ogni volta tornando a casa, perché c’erano le pecore da pascolare (v. 15).

E anche questa volta la sua partenza è solo momentanea, una breve visita all’accampamento, senza nessuna componente particolarmente nobile o eroica. Il ragazzo è spedito al campo solo per portare cibo, prendere la paga e avere notizie dei fratelli. Per tre volte l’espressione “tuoi fratelli” viene ripetuta da Iesse (vv17-18), enfatizzando così il senso della missione di Davide, tutta subordinata ad essi. Sono loro il punto di riferimento, e solo loro il motivo del viaggio.

L’invio di Davide assume in tal modo un carattere di insignificanza. Non c’è nulla di notevole e tanto meno di pericoloso in ciò che il ragazzo è mandato a fare. Né lui né suo padre Iesse possono immaginare quello che invece avverrà, perché non sanno che Golia sta mettendo in crisi tutto Israele con la sua terribile sfida.

Così Davide parte, con il suo pane e il suo formaggio, dopo aver lasciato ad altri la cura del gregge. C’è una certa ironia nella presentazione del ragazzo che va all’accampamento. Mentre si sta consumando il dramma di Israele che corre il rischio di diventare schiavo dei Filistei, egli viene mandato con dieci pani per i fratelli e dieci forme di cacio da offrire al capitano dei soldati. Quei doni rappresentano una specie di ingenua intrusione della pace nella guerra; mentre al campo si è nel panico e ci si prepara al peggio, che ne sta fuori continua ad occuparsi delle cose di sempre e, in piena tragedia, pensa a inviare del formaggio.

Il figlio di Iesse si mette in cammino. L’ordine del padre è di andare e tornare, semplice latore di provviste e di notizie. Ma

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proprio quando Davide giunge nella valle del Terebinto, ecco le truppe schierarsi lanciando il grido di battaglia (v. 20).

Al campo di battaglia (vv. 21-30)

21Si disposero in ordine Israele e i Filistei: schiera contro schiera. 22Davide si liberò dei bagagli consegnandoli al custode, poi corse allo schieramento e domandò ai suoi fratelli se stavano bene. 23Mentre egli parlava con loro, ecco lo sfidante, chiamato Golia il Filisteo, di Gat. Avanzava dalle schiere filistee e tornò a dire le sue solite parole e Davide le intese. 24Tutti gli Israeliti, quando lo videro, fuggirono davanti a lui ed ebbero grande paura.25Ora un Israelita disse: "Vedete quest'uomo che avanza? Viene a sfidare Israele. Chiunque lo abbatterà, il re lo colmerà di ricchezze, gli darà in moglie sua figlia ed esenterà la casa di suo padre da ogni gravame in Israele". 26Davide domandava agli uomini che gli stavano attorno: "Che faranno dunque all'uomo che abbatterà questo Filisteo e farà cessare la vergogna da Israele? E chi è mai questo Filisteo incirconciso per sfidare le schiere del Dio vivente?". 27Tutti gli rispondevano la stessa cosa: "Così e così si farà all'uomo che lo abbatterà". 28Lo sentì Eliàb, suo fratello maggiore, mentre parlava con quegli uomini, ed Eliàb si irritò con Davide e gli disse: "Ma perché sei venuto giù e a chi hai lasciato quelle poche pecore nel deserto? Io conosco la tua boria e la malizia del tuo cuore: tu sei venuto giù per vedere la battaglia". 29Davide rispose: "Che cosa ho dunque fatto? Era solo una domanda". 30Si allontanò da lui, andò dall'altra parte e fece la stessa domanda, e tutti gli diedero la stessa risposta.

La battaglia è pronta. Gli eserciti sono schierati, il nervosismo serpeggia, c’è quella atmosfera di attesa ansiosa e di sospensione che precede gli eventi preparati e temuti.

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Davide raggiunge i fratelli e si informa sulla loro situazione, come il padre gli aveva detto. Ed ecco di nuovo l’apparizione terrificante di Golia, con il suo solito discorso. Secondo il v. 16, per quaranta giorni il Filisteo aveva ripetuto quella cerimonia, mattina e sera. Un’esperienza logorante per l’esercito di Israele, una specie di ossessione martellante, che mette a dura prova i nervi dei combattenti. Per quaranta giorni essi si sentono sfidati ed irrisi, e per quaranta giorni sono costretti a guardare in faccia la propria paura, ogni volta più vergognosa e ogni volta più grande. E anche ora, alla nuova uscita di Golia che coincide con l’entrata in scena di Davide sul campo di battaglia, di nuovo «tutti gli Israeliti, quando lo videro, fuggirono davanti a lui ed ebbero grande paura» (v. 24).

L’informazione data da uno dei soldati presenti è illuminante: chi riuscirà a vincere il Filisteo sarà grandemente ricompensato: ricchezze, la figlia di Saul in sposa e la libertà fiscale per tutta la famiglia. È una promessa che rivela la disperazione in cui si trovano i capi dell’esercito di Israele. Il pericolo rappresentato da Golia è talmente grande, da dover mettere in palio addirittura la figlia del re per invogliare qualcuno ad affrontarlo.

Davide, presente a tutta la scena, si mostra interessato (vv. 26 ss). È l’interesse incuriosito di un ragazzo che si trova tra adulti, in una situazione nuova ed eccitante, e fa domande per sentirsi importante e parte di quel mondo? O l’interesse ragionato del futuro capo d’Israele, che davanti alla minaccia non indietreggia e davanti all’ignominia sente di dover riscattare l’onore del suo popolo?

Eliàb, il fratello maggiore di Davide sembra andare decisamente nella linea della prima ipotesi e apostrofa duramente il

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ragazzo, con tono derisorio, ricordandogli le sue pecorelle lasciate nel deserto.

La contrapposizione è molto marcata. Da una parte Eliàb, grande, dal fisico imponente, rude uomo d’armi; dall’altra il giovane pastore, curioso e petulante, venuto da casa solo per portare un po’ di provviste e che invece si immischia nelle cose dei grandi. L’intrusione è fastidiosa, e tanto più perché con le sue domande il ragazzo mette il dito nella piaga, continuando a chiedere a destra e a sinistra che cosa succederà all’uomo che vincerà il Filisteo. Ma quale uomo potrà vincere il Filisteo se nessuno, Eliàb compreso, ha il coraggio di provare a combattere con lui?

Davide sta dando voce alla coscienza di Israele, sta reagendo come tutti gli altri avrebbero dovuto reagire, e il lettore lo capisce e non se ne meraviglia troppo, perché lui sa, a differenza di quelli che circondano Davide lì nell’accampamento, che il ragazzo è stato unto re da Samuele e che lo spirito del Signore si è posato su di lui (cfr 16,13).

Ma Davide, lui lo sa? Ha veramente capito che cosa è successo nella casa paterna di Betlemme, ha davvero preso coscienza di tutte le conseguenze della strana cerimonia che il vecchio Samuele ha fatto su di lui? Nulla viene detto al proposito, ma è certo che per quel giovane si sta preparando qualcosa di eccezionale.

E infatti, eccolo infine portato alla presenza di Saul.

Due regalità a confronto (vv. 31-40)

31Sentendo le domande che Davide faceva, le riferirono a Saul e questi lo fece chiamare. 32Davide disse a Saul: "Nessuno si perda d'animo a causa di costui. Il tuo servo andrà a combattere con questo

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Filisteo". 33Saul rispose a Davide: "Tu non puoi andare contro questo Filisteo a combattere con lui: tu sei un ragazzo e costui è uomo d'armi fin dalla sua adolescenza". 34Ma Davide disse a Saul: "Il tuo servo pascolava il gregge di suo padre e veniva talvolta un leone o un orso a portar via una pecora dal gregge. 35Allora lo inseguivo, lo abbattevo e strappavo la pecora dalla sua bocca. Se si rivoltava contro di me, l'afferravo per le mascelle, l'abbattevo e lo uccidevo. 36Il tuo servo ha abbattuto il leone e l'orso. Codesto Filisteo non circonciso farà la stessa fine di quelli, perché ha sfidato le schiere del Dio vivente". 37Davide aggiunse: "Il Signore che mi ha liberato dalle unghie del leone e dalle unghie dell'orso, mi libererà anche dalle mani di questo Filisteo". Saul rispose a Davide: "Ebbene va' e il Signore sia con te". 38Saul rivestì Davide della sua armatura, gli mise in capo un elmo di bronzo e lo rivestì della corazza. 39Poi Davide cinse la spada di lui sopra l'armatura e cercò invano di camminare, perché non aveva mai provato. Allora Davide disse a Saul: "Non posso camminare con tutto questo, perché non sono abituato". E Davide se ne liberò. 40Poi prese in mano il suo bastone, si scelse cinque ciottoli lisci dal torrente e li pose nella sua sacca da pastore, nella bisaccia; prese ancora in mano la fionda e si avvicinò al Filisteo.

Davide, davanti al re, si dichiara pronto ad accogliere la sfida. La risposta di Saul è cauta, e pone le la difficoltà fondamentale. Ancora una volta, il problema è sulla piccolezza e giovinezza del figlio di Iesse, assolutamente sproporzionata rispetto alle dimensioni e all’esperienza militare di Golia.

Davide però replica facendo leva proprio sulla sua realtà di pastore. Chi custodisce un gregge deve saperlo difendere; le bestie feroci sono sempre in agguato e Davide, da bravo pastore, ha imparato a combatterle, riuscendo a vincere leoni e orsi. L’abilità

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così acquisita gli consentirà di affrontare quel Filisteo, che non potrà essere peggiore di uno di quei leoni e di quegli orsi.

L’impavido discorso di Davide ristabilisce così le giuste proporzioni. Golia, per quanto mostruoso e bestiale, può essere affrontato e sarà vinto, perché «ha sfidato le schiere del Dio vivente» (v. 36).

Di fatto, è soprattutto per la sua fiducia nel Signore che Davide può affrontare Golia. La sua certezza è tutta nella presenza invincibile di Dio, che libererà il suo servo dalle mani del Filisteo come già lo aveva liberato dalle unghie del leone e dell’orso (v. 37). Il pastore del gregge, che con la sua abilità riusciva a liberare la preda dalla bocca delle belve, riconosce di essere, lui il liberatore, innanzi tutto un liberato.

Davide, il pastore, in realtà ora è come una delle sue pecorelle, inermi e deboli davanti alle fauci mostruose che le stanno per divorare. Quel Filisteo che egli vuole affrontare è come il leone e l’orso, ma farà la loro stessa fine, perché il vero pastore sta per intervenire, il Signore degli eserciti che strapperà la preda dalle sue mani.

Per questo Davide può affrontare il duello. Non con le armi di chi è abituato alla guerra, ma con l’equipaggiamento del custode di greggi e con un’incrollabile fiducia in Dio.

In questo senso, l’episodio dell’armatura offertagli da Saul diventa emblematico. Il re gli propone le armi regali, tanto simili a quelle di Golia, e normalmente ritenute le più idonee a combattere e uccidere. Ma Davide ha altre armi da usare, perché la sua prospettiva è diversa. Dandogli l’armatura, Saul simbolicamente gli cede il comando, ma Davide non può accettarlo in quella forma. Egli

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rifiuta il segno del potere e della forza, e procede nella propria linea di piccolezza e di sicura confidenza.

L’obiezione di Saul: «Tu non puoi andare contro questo Filisteo» (v. 33), viene perciò ripresa e confermata da Davide in piena verità: «Non posso camminare con tutto questo» (v. 39).

Il senso delle due affermazioni è però molto diverso. Saul crede che il ragazzo non possa andare a combattere perché non è addestrato alla guerra, Davide invece dice semplicemente che non può farlo con quell’equipaggiamento. Il non potere riguarda i mezzi, considerati necessari dall’uno e superflui, anzi ostacolanti, dall’altro. Perché uno si fida della forza, l’altro si fida di Dio.

Sono due diversi modi di porsi davanti alla realtà che giungono a confronto e, più precisamente, due diversi modi di incarnare la regalità. Saul è grande, Davide è piccolo; Saul è re, Davide è pastore; Saul usa le armi, Davide la fionda; Saul è stato rifiutato da Dio, Davide è stato prescelto è già unto (ma questo Saul non lo sa).

Il gioco delle contrapposizioni si evolve e si va lentamente trasformando in sostituzione. Perché Saul, che è il re, non sta agendo da re. Egli ha paura, non combatte per il suo popolo, e non lo guida su cammini della fede nel Signore. Davide, invece, si ritrova a fare ciò che un vero capo deve fare e, pur rifiutandone l’armatura (o meglio, proprio per questo), ne riveste i panni e ne assume le sembianze.

Saul non è capace di fare il re come un pastore che si prende cura del suo gregge, mentre Davide, il pastore, si sta mostrando capace di fare il re.

Lo scambio delle parti è giunto ad un punto di non-ritorno, e il giovane figlio di Iesse, abbandonata l’armatura, si avvia verso il Filisteo con i suoi cinque ciottoli e la fionda.

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La vittoria con la fionda (vv. 41-58)

41Il Filisteo avanzava passo passo, avvicinandosi a Davide, mentre il suo scudiero lo precedeva. 42Il Filisteo scrutava Davide e, quando lo vide bene, ne ebbe disprezzo, perché era un ragazzo, fulvo di capelli e di bell'aspetto. 43Il Filisteo disse a Davide: "Sono io forse un cane, perché tu venga a me con un bastone?". E quel Filisteo maledisse Davide in nome dei suoi dèi. 44Poi il Filisteo disse a Davide: "Fatti avanti e darò le tue carni agli uccelli del cielo e alle bestie selvatiche". 45Davide rispose al Filisteo: "Tu vieni a me con la spada, con la lancia e con l'asta. Io vengo a te nel nome del Signore degli eserciti, Dio delle schiere d'Israele, che tu hai sfidato. 46In questo stesso giorno, il Signore ti farà cadere nelle mie mani. Io ti abbatterò e ti staccherò la testa e getterò i cadaveri dell'esercito filisteo agli uccelli del cielo e alle bestie selvatiche; tutta la terra saprà che vi è un Dio in Israele. 47Tutta questa moltitudine saprà che il Signore non salva per mezzo della spada o della lancia, perché del Signore è la guerra ed egli vi metterà certo nelle nostre mani". 48Appena il Filisteo si mosse avvicinandosi incontro a Davide, questi corse a prendere posizione in fretta contro il Filisteo. 49Davide cacciò la mano nella sacca, ne trasse una pietra, la lanciò con la fionda e colpì il Filisteo in fronte. La pietra s'infisse nella fronte di lui che cadde con la faccia a terra. 50Così Davide ebbe il sopravvento sul Filisteo con la fionda e con la pietra, colpì il Filisteo e l'uccise, benché Davide non avesse spada. 51Davide fece un salto e fu sopra il Filisteo, prese la sua spada, la sguainò e lo uccise, poi con quella gli tagliò la testa. I Filistei videro che il loro eroe era morto e si diedero alla fuga.52Si levarono allora gli uomini d'Israele e di Giuda, alzando il grido di guerra, e inseguirono i Filistei fin presso Gat e fino alle porte di Ekron. I cadaveri dei Filistei caddero lungo la strada di Saaràim, fino all'ingresso di Gat e fino a Ekron. 53Quando gli

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Israeliti furono di ritorno dall'inseguimento dei Filistei, saccheggiarono il loro campo. 54Davide prese la testa del Filisteo e la portò a Gerusalemme. Le armi di lui invece le pose nella sua tenda. 55Saul, mentre guardava Davide uscire contro il Filisteo, aveva chiesto ad Abner, capo delle milizie: "Abner, di chi è figlio questo giovane?". Rispose Abner: "Per la tua vita, o re, non lo so". 56Il re soggiunse: "Chiedi tu di chi sia figlio quel giovinetto". 57Quando Davide tornò dall'uccisione del Filisteo, Abner lo prese e lo condusse davanti a Saul mentre aveva ancora in mano la testa del Filisteo. 58Saul gli chiese: "Di chi sei figlio, giovane?". Rispose Davide: "Di Iesse il Betlemmita, tuo servo".

Siamo, infine, giunti al momento della verità. I due sfidanti si fronteggiano, si squadrano, si valutano. Ancora una volta, Davide esce svantaggiato dal confronto. L’eroe d’Israele che Golia si trova davanti è «un ragazzo, fulvo di capelli e di bell'aspetto» (v. 42).

La descrizione richiama quella già data nel capitolo 16, quando Davide compare davanti a Samuele (16,12), ed è talmente poco appropriata ad un rude campione di duelli all’ultimo sangue, da provocare l’aperto, derisorio disprezzo del Filisteo. L’insignificanza dell’avversario quasi lo offende, perché lo sminuisce, neppure fosse un cane per essere affrontato da un ragazzo con un bastone. Se Golia avesse udito Davide paragonarlo a un leone e a un orso, forse non gli sarebbe dispiaciuto. Ma che questo Israeliti pensiono di liquidarlo con un ragazzino appare veramente offensivo.

Davide comunque non si lascia intimidire e risponde alla minaccia con un’altra minaccia, nominando, come già aveva fatto con Saul, il vero combattente in cui confida e a cui si affida: «…del Signore è la guerra ed egli vi metterà certo nelle nostre mani» (v. 47).

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Siamo ormai al momento conclusivo, la fine è vicina e tutto si svolge molto velocemente.

Mentre il Filisteo incede con tutta la sua possente mole, Davide gli corre incontro e con un sasso lo colpisce buttandolo a terra, poi con un balzo gli è sopra e gli tronca netta la testa con la sua stessa spada.

Dopo la lunga, estenuante preparazione, praticamente il duello finisce in un attimo, prima ancora di cominciare. Golia non è riuscito a fare che qualche passo verso il suo avversario e già è morto, faccia in giù e con la testa tagliata.

Questa caduta di Golia ha valore simbolico. Il mostro che voleva distruggere le schiere del Dio vivente si rivela per ciò che era: un ammasso di forza bruta, di muscoli e di armi, ma senza la vera consistenza che viene dalla bontà e dalla fede. Così, basta un sasso, se lanciato con destrezza e fidando nel Signore, per buttare giù quella montagna di arroganza. Davanti al Signore che combatte, la potenza falsa e idolatrica degli uomini deve piegarsi, ed è la piccolezza credente a uscirne vittoriosa.

Alla vista del loro campione morto, i Filistei si danno alla fuga in preda al terrore, inseguiti e massacrati da un esercito di Israele che ha finalmente ritrovato il suo coraggio. La testa di Golia è portata a Gerusalemme e le sue armi conservate come cimeli, mentre Davide raggiunge la propria statura di eroe indiscusso all’interno del popolo.

Il futuro re ha cominciato così il suo cammino di capo, mentre i contorni del regnante Saul si fanno sempre più opachi ed ambigui. Lungo tutta la narrazione, Saul è figura marginale, sfocata, e le sue domandi finali sull’identità di Davide (vv. 55-58) lo fanno apparire indebolito e patetico. Sia egli un re smemorato, che non ricorda le

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proprie crisi, o un re bugiardo, che non vuole ammettere la propria debolezza, resta un uomo in grave difficoltà, segnato dal declino e oppresso dalla paura. Davanti a lui si fa sempre più consistente la minaccia del rivale che gli è stato annunciato dal Signore per bocca di Samuele e che, anche se egli non lo sa ancora chiaramente, gli è ora dinanzi.

Di fatto, con la sua vittoria, Davide ha ormai raggiunto la statura di guida carismatica e il pastore di Betlemme si è trasformato in un eroe. Egli, e non il re Saul, si è dimostrato all’altezza della situazione e ha saputo agire da vero re. Egli, e non il re Saul, ha osato affrontare il nemico di Israele e lo ha sconfitto. In questo modo, Davide ha tolto via la vergogna dal popolo, perché ha combattuto con Golia e gli ha tolto la testa. Ma questo è stato possibile solo perché si è tolto di dosso l’armatura che Saul voleva dargli. Il debole ha vinto, nel nome del Signore, la forza arrogante e blasfema, deridendo con le sue armi irrisorie colui che aveva irriso Israele e il suo Dio.

La lotta nella Valle del Terebinto si consuma così nel segreto della fede e ne esce vincitore il nuovo Unto di Dio, quel Davide armato di fionda che si è levato la corazza dei forti per combattere con le armi dei deboli di chi confida solamente nel Signore.

La gelosia di Saul (1 Sam 18)

Dopo l’episodio nella valle del Terebinto, con l’impressionante vittoria del giovane Davide sul gigantesco Golia, comincia l’ascesa del figlio di Iesse, che culminerà nella sua aperta proclamazione a re. Si tratta però di un cammino difficile, fatto di incontri e di

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solitudine, di vittorie e di persecuzione, voluto e deciso dall’unzione divina ma drammaticamente ostacolato da re spodestato.

La gelosia di Saul, scatenata dai successi del giovane rivale, diventa atteggiamento persecutorio, accanimento, aperta volontà omicida. Davide è costretto alla fuga, braccato come un criminale, ma la sua lealtà al re resta intatta e la sua fedeltà al Signore cresce nella prova.

Dopo il duello vittorioso con Golia, Davide era diventato famoso in mezzo ad Israele, cantato dalle donne e amato dal popolo intero. Comincia così la rivalità di Saul, e la lunga serie di tentativi, da parte di quest’ultimo, di disfarsi dello scomodo suddito.

Il problema ha inizio quando il re prende coscienza della vera portata di quanto era avvenuto sul campo di battaglia ed è costretto a fronteggiare le conseguenze del successo di Davide sul Filisteo. Ormai il ragazzo è diventato un eroe e quando, al ritorno dalla guerra, Saul sente il canto delle donne che celebrano il nuovo campione, l’ira e una sorda gelosia si impadroniscono di lui.Il canto delle donne (1 Sam 18,6-9)

6Al loro rientrare, mentre Davide tornava dall'uccisione del Filisteo, uscirono le donne da tutte le città d'Israele a cantare e a danzare incontro al re Saul, accompagnandosi con i tamburelli, con grida di gioia e con sistri. 7Le donne cantavano danzando e dicevano:

"Ha ucciso Saul i suoi millee Davide i suoi diecimila".8Saul ne fu molto irritato e gli parvero cattive quelle parole. Diceva: "Hanno dato a Davide diecimila, a me ne hanno dati mille. Non gli manca altro che il regno". 9Così da quel giorno in poi Saul guardava sospettoso Davide.

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La scena è molto bella, e si può ben visualizzare. I soldati tornano vittoriosi alle loro case e la popolazione li accoglie festanti. È giorno di esultanza, dopo l’angoscia della guerra, dopo la paura provocata dalla sfida di Golia, con la prospettiva di essere dominati dai Filistei. La gioia ora può esplodere, con tutta la sua carica di sollievo e di bisogno di sfogare l’ansia a lungo repressa. Le donne improvvisano una danza e, con i loro sonori ed allegri strumenti, vanno incontro al re celebrandolo con il loro canto.

È un momento felice, pieno di suoni, turbinante di colori, ma per Saul all’improvviso tutto si fa buio e cupamente silenzioso: ha sentito il canto menzionare il nuovo eroe, e la gelosia e un sordo furore gli esplodono in petto.

In realtà, le parole di quel canto non mettono in concorrenza Saul e Davide, e l’assegnazione a Davide di un numero di nemici maggiore di quello di Saul non implica necessariamente la celebrazione di Davide come più forte e più valoroso del re. Infatti, secondo un artificio stilistico presente nell’antica poesia semitica, il canto delle donne pone in parallelo due numeri, aumentando il secondo rispetto al primo, per indicare con ciò un numero molto grande. Non si tratterebbe perciò di un confronto tra i due eroi, ma solo di espressioni standardizzate e celebrative.

Resta però che Davide viene lodato insieme al re e, in qualche modo, messo sullo stesso piano. La costruzione della frase, poi, potrebbe suggerire una contrapposizione tra i due: Saul è sì valoroso, ma c’è un altro che è migliore di lui.

Anche se l’intenzione delle donne non era di affermare una cosa simile, il loro canto è suscettibile di una tale interpretazione, ed è questa che Saul coglie e che lo fa ammalare di gelosia. Le sue

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parole esplicitano la contrapposizione e, con patetica ironia, egli si ritrova a dire una verità che ancora non sa ma che sta per avverarsi: «Hanno dato a Davide diecimila, a me hanno dato mille. Non gli manca altro che il regno» (v. 8).

Una nuova ferita si è aperta nell’animo già tormentato del re, e il fantasma di quel rivale sembra ora materializzarsi per lui e assumere i contorni del nuovo eroe a cui le donne hanno assegnato un numero più grande di nemici. Il giovane pastore che con la cetra gli allontanava gli incubi e con la fionda lo aveva salvato dal pericolo filisteo si è trasformato ora per il re in un incubo ancora più profondo e in una minaccia senza via di scampo. Davide sta inesorabilmente diventando per Saul l’incarnazione del rigetto di Dio.

La gelosia diventa così sgomento e paura, e la rivalità si mette in cerca dei cammini di morte.

Successo e paura (1 Sam 18,10-16)

10Il giorno dopo, un cattivo spirito di Dio irruppe su Saul, il quale si mise a fare il profeta in casa. Davide suonava la cetra come ogni giorno e Saul teneva in mano la lancia. 11Saul impugnò la lancia, pensando: "Inchioderò Davide al muro!". Ma Davide gli sfuggì per due volte. 12Saul cominciò a sentire timore di fronte a Davide, perché il Signore era con lui, mentre si era ritirato da Saul. 13Saul lo allontanò da sé e lo fece comandante di migliaia e Davide andava e veniva al cospetto del popolo. 14Davide riusciva in tutte le sue imprese, poiché il Signore era con lui. 15Saul, vedendo che riusciva proprio sempre, aveva timore di lui. 16Ma tutto

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Israele e Giuda amavano Davide, perché egli andava e veniva alla loro testa.

Come era da prevedere, davanti alle nuove difficoltà e all’emergente pericolo rappresentato da Davide, il cattivo spirito torna a impossessarsi di Saul e si fa beffe anche della musica che solitamente lo faceva allontanare. Non solo questa volta Saul non si calma al suono della cetra, ma anzi, colto da furia omicida, tenta di uccidere il giovane cantore.

La percezione, da parte del re, della propria debolezza e del suo esporsi insieme allo sguardo e all’intervento terapeutico del rivale, la coscienza che il proprio potere è in pericolo, la sensazione angosciante di essere ormai perduto, tutto questo si mescola nel suo animo travagliato e si manifesta in minacciosa aggressività. In un disperato tentativo di uscire dalla prigione terrificante dell’abbandono divino e del proprio delirio, Saul scaglia la lancia contro Davide.

Il gesto è convulso, irrazionale, sproporzionato. Saul è pur sempre il re, e Davide uno al suo servizio, in situazione di inferiorità e di sottomissione, con solo in mano una cetra che guarisce, e nessuna arma che uccida. Saul invece ha il potere (ma fino a quando?), ha guardie armate, servi e ministri ai suoi ordini, e ha la sua lancia che lo rende pericoloso e ne segnala l’autorità e la forza.

Ma l’inerme sfugge all’arma regale, e il re comincia a sentire l’oscura paura che il potente prova davanti ad un avversario che fa vacillare la sua sicurezza e mette in pericolo la sua situazione di privilegio. E tanto più aumenta la sua paura quanto più egli si rende conto che l’altro gode del favore divino.

La frase fatidica “il Signore era con lui”, espressione chiave della storia di Saul e Davide, ritorna con la sua carica ironica e

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viene ripetuta due volte (vv. 12.14) e poi ancora ripresa al v. 28. L’uso è significativo, perché si pone in esplicita connessione con la paura del re (cfr vv. 12.15.29) specificando inoltre che quel Signore che ora è con Davide si era allontanato da Saul (v. 12).

Tra i due protagonisti il divario si fa sempre più grande, e il re geloso cerca di sbarazzarsi dell’ingombrante suddito allontanandolo da sé.

Ma l’ascesa di Davide sembra irrefrenabile, ogni sua azione è un successo, il popolo lo ama, le sue doti di capo sono ormai indiscusse. Al re in declino non resta che tentare di liquidarlo, politicamente e fisicamente.

La persecuzione

La narrazione si snoda ora con delle tonalità paradossali, ironiche e insieme drammatiche, che gettano luci fosche sulla figura di Saul.

Il re impaurito e geloso che aveva amato Davide e si era consegnato alla sua musica, diventa ora nemico giurato del suo giovane protetto e gli affida missioni sempre più difficili e pericolose, nel tentativo di farlo morire.

Il racconto è esplicito, impietoso:

17Ora Saul disse a Davide: "Ecco Merab, mia figlia maggiore. La do in moglie a te. Tu dovrai essere il mio guerriero e combatterai le battaglie del Signore". Saul pensava: "Non sia contro di lui la mia mano, ma contro di lui sia la mano dei Filistei". 18Davide rispose a Saul: "Chi sono io, che cos'è la mia vita, e che cos'è la famiglia di mio padre in Israele, perché io possa diventare genero del re?". 19E così, quando venne il tempo di dare Merab,

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figlia di Saul, a Davide, fu data invece in moglie ad Adrièl di Mecolà.

Saul usa l’esca della figlia, ma quando poi viene il momento di mantenere la parola perché Davide è rimasto vivo e non è morto per mano dei Filistei, allora si smentisce e senza alcuna spiegazione concede Merab in moglie ad un altro.

Ma c’è ancora un’altra figlia, Mical, innamorata proprio di Davide. E Saul decide di sfruttare anche questa nuova situazione:

20Intanto Mical, l'altra figlia di Saul, s'invaghì di Davide; ne riferirono a Saul e la cosa gli sembrò giusta. 21Saul diceva: "Gliela darò, ma sarà per lui una trappola e la mano dei Filistei cadrà su di lui". E Saul disse a Davide: "Oggi hai una seconda occasione per diventare mio genero". 22Quindi Saul ordinò ai suoi ministri: "Dite in segreto a Davide: "Ecco, tu piaci al re e i suoi ministri ti amano. Su, dunque, diventa genero del re"". 23I ministri di Saul sussurrarono all'orecchio di Davide queste parole e Davide rispose: "Vi pare piccola cosa diventare genero del re? Io sono povero e di umile condizione". 24I ministri di Saul gli riferirono: "Davide ha risposto in questo modo". 25Allora Saul disse: "Riferite a Davide: "Il re non vuole il prezzo nuziale, ma solo cento prepuzi di Filistei, perché sia fatta vendetta dei nemici del re"". Saul tramava di far cadere Davide in mano ai Filistei. 26I ministri di lui riferirono a Davide queste parole e a Davide sembrò giusta tale condizione per diventare genero del re. Non erano ancora compiuti i giorni fissati, 27quando Davide si alzò, partì con i suoi uomini e abbatté tra i Filistei duecento uomini. Davide riportò tutti quanti i loro prepuzi al re per diventare genero del re. Saul gli diede in moglie la figlia Mical. 28Saul si accorse che il Signore era con Davide e che Mical, sua figlia, lo amava.

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Così, per la seconda volta il re offre al rivale la possibilità di diventare suo genero chiedendo in cambio, come insolito e nauseabondo prezzo nuziale, i prepuzi di cento Filistei (vv. 20-25). Lo scopo è di farlo perire, ma Davide esce illeso da tutte le sue avventure e può permettersi anche il lusso di raddoppiare il dono di nozze al re (vv. 26-28).

Il paradosso raggiunge così il culmine: non solo Saul non riesce a far morire il suo suddito, ma anzi è infine costretto a farlo diventare parte della famiglia reale. E l’amore di Mical per Davide, che sembrava l’occasione per far cadere l’avversario nella trappola, si trasforma in un pericolo per Saul stesso: la divisione è entrata nella sua casa e la figlia innamorata finirà per schierarsi contro di lui.

Ormai il nuovo astro nascente ha iniziato la sua traiettoria luminosa ed è proprio il re geloso a contribuire alla creazione della sua fama. I suoi tentativi di farne un soldato caduto nell’adempimento del proprio dovere e presto dimenticato si infrangono contro le indubbie capacità e l’evidente fortuna di colui che ha il Signore dalla sua parte.

Così, proprio Saul fa crescere la leggenda del nuovo capo, perché più difficili sono le imprese e più il successo riportato da Davide lo rende eroico e famoso presso il popolo:

29Saul ebbe ancora più paura nei riguardi di Davide e fu nemico di Davide per tutti i suoi giorni. 30I capi dei Filistei facevano sortite, ma Davide, ogni volta che uscivano, riportava successi maggiori di tutti i ministri di Saul, e divenne molto famoso.

Saul è ormai intrappolato nel proprio livore, sempre più furioso e impotente, talmente esasperato da arrivare al punto di rivelare

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senza pudore a Gionata e ai suoi le proprie intenzioni omicide (cfr 19,1), e di rimettere mano alla lancia per infilzare Davide contro il muro (19,9-10).

Ma il figlio di Iesse non muore, egli resta vivo, spina nel fianco per il re ormai impazzito. Finché la situazione degenera irrimediabilmente, e Davide è costretto a diventare un fuggiasco. Davanti alla volontà omicida di Saul, a Davide non resta altra via di scampo che la fuga. Sfuggito per un soffio alla lancia del re, il giovane eroe viene fatto sorvegliare per sorprenderlo al mattino e ucciderlo in casa sua. Ma Mical sua moglie, la figlia di Saul, lo aiuta a mettersi in salvo:

11Saul mandò messaggeri alla casa di Davide per sorvegliarlo e ucciderlo il mattino dopo. Mical, sua moglie, avvertì Davide dicendo: "Se non metti in salvo la tua vita questa notte, domani sarai ucciso". 12Mical calò Davide dalla finestra e quegli partì di corsa e si salvò. 13Mical prese allora i terafìm e li pose sul letto. Mise dalla parte del capo un tessuto di pelo di capra e li coprì con una coltre. 14Saul mandò dunque messaggeri a prendere Davide, ma ella disse: "È malato". 15Saul rimandò i messaggeri a vedere Davide dicendo: "Portatelo qui da me nel suo letto, perché lo faccia morire". 16Tornarono i messaggeri, ed ecco che sul letto c'erano i terafìm e il tessuto di pelo di capra dalla parte del capo. 17Saul disse a Mical: "Perché mi hai ingannato a questo modo e hai permesso al mio nemico di salvarsi?". Rispose Mical a Saul: "Egli mi ha detto: "Lasciami andare, altrimenti ti uccido"".

L’episodio è narrato con molta finezza e una certa ironia. Mical, consapevole del pericolo in cui si trova il marito, lo convince ad allontanarsi e gli copre la fuga con un inganno, costruendo una

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specie di fantoccio utilizzando i terafim, idoli probabilmente di tipo familiare.

La scena è gustosa, e richiama altri episodi di fughe e di inganni. La sortita dalla finestra fa pensare all’intervento di Raab per mettere in salvo le spie di Giosuè ricercate dal re di Gerico (cfr Gs 2,1-16), mentre i terafim creano un rapporto interessante tra la figura di Mical e quella di Rachele.

Per ambedue queste donne ci sono stati problemi con le loro sorelle maggiori in occasione del matrimonio, Mical data in sposa dopo che Merab era stata promessa a Davide e poi rifiutata (cfr 18,17-19), e Rachele scambiata con Lia e ottenuta da Giacobbe solo in un secondo tempo, in cambio di altri sette anni di lavoro (cfr Gen 29,15-30). Ed entrambe ingannano il padre coinvolgendo dei terafim: Mical usandoli per depistare le ricerche degli emissari di Saul, e Rachele rubandoli a Labano e poi impedendo di trovarli sedendoci sopra (cfr Gen 31,17-35). Una li esibisce, l’altra li nasconde, ma ambedue - e qui la narrazione si fa ammiccante – li ridicolizzano. Mical facendone un fantoccio inanimato con una parrucca di pelo di capra, e Rachele rendendoli refurtiva immonda e intoccabile, nascosta sotto le vesti di una donna che per di più si dichiara mestruata.

I messaggeri regali cadono nel tranello teso da Mical ma Saul non desiste e, alla notizia della malattia di Davide, ordina che gli venga portato ugualmente.

La scena è comica, e il lettore non può fare a meno di sorridere immaginando i servi di Saul che tornano da Mical minacciando di prendere letto e malato, e si ritrovano invece davanti i terafim e del pelo di capra. Saul credeva di essere furbo, ma sua figlia è riuscita a

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raggirarlo. Lo stratagemma è riuscito e il perseguitato può prendere il largo, lontano dal suo persecutore.

Vita da fuggiasco

Fuggito da Saul, Davide si reca da colui che ha dato inizio alla sua gloria ma anche a tutti i suoi guai, il vecchio giudice Samuele (1 Sam 19,18 ss). La scelta è significativa: non solo Samuele è colui che lo aveva unto nella casa paterna di Betlemme, ma è soprattutto una figura di autorità di grande levatura morale che, con la sua profonda conoscenza di Saul e l’attuale posizione critica nei suoi confronti, può rappresentare per Davide un aiuto e un punto di riferimento importante nel momento di crisi che sta attraversando.

Saul però viene informato e manda emissari a catturare il fuggitivo. Davide sembra in trappola, ma l’imprevedibilità e la potenza dello spirito di Dio capovolgono completamente la situazione. La scena è paradossale, fantastica e induce al sorriso:

20Allora Saul spedì messaggeri a catturare Davide, ma quando videro profetare la comunità dei profeti, mentre Samuele stava in piedi alla loro testa, lo spirito di Dio fu sui messaggeri di Saul e anch'essi fecero i profeti. 21Annunciarono a Saul questa cosa ed egli spedì altri messaggeri, ma anch'essi fecero i profeti. Saul mandò di nuovo messaggeri per la terza volta, ma anch'essi fecero i profeti. 22Allora venne egli stesso a Rama e si portò alla grande cisterna che si trova a Secu e domandò: "Dove sono Samuele e Davide?". Gli risposero: "Eccoli: sono a Naiot di Rama". 23Egli si incamminò verso Naiot di Rama, ma fu anche su di lui lo spirito di Dio e andava avanti facendo il profeta finché giunse a Naiot di Rama. 24Anch'egli si tolse gli abiti e continuò a fare il profeta davanti a Samuele; poi crollò e restò nudo tutto quel

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giorno e tutta la notte. Da qui è venuto il detto: "Anche Saul è tra i profeti?".

La fuga di Davide può così continuare, e lo porta a Nob, segnando il destino dei sacerdoti che vi risiedono (1 Sam 21). Il ricercato, fingendo una imprevista e segreta missione da parte del re, chiede di essere rifornito di viveri e di armi. Il sacerdote Achimelech non dubita della verità della parole del giovane e giunge a dargli, in mancanza di pane comune, quello sacro dell’offerta al Signore e, come arma, la mitica spada di Golia. Saul, informato poi di quanto avvenuto a Nob, fa massacrare tutti i sacerdoti e passa a fil di spada l’intera popolazione (cfr 22,6-23).

La fuga di Davide ha cominciato a mietere le sue vittime, ed è diventata ormai un cammino senza ritorno. Intorno a lui si raduna una banda di disperati ed egli ne diventa il capo (cfr 22,2 ss), guidandoli nel deserto, combattendo contro i Filistei (cfr 23,1-5) e infine diventando, pur con una discutibile lealtà, loro vassallo (cfr 27,1 ss).

L’esistenza di Davide si fa sempre più dura e precaria, una lunga e difficile clandestinità segnata da scontri e incontri, fughe e aggressioni, tradimenti e amicizie, delazioni e offerte di aiuto. Un cammino pericoloso, con l’incubo di Saul sempre presente, in un deserto inospitale che diventa rifugio e scuola di vita.

Tra i molti eventi che caratterizzano questo periodo della vita di Davide, un incontro segna in modo particolare l’esistenza del fuggiasco, ed è il consolante incontro con una donna saggia, Abigail.

L’incontro con Abigail(2 Sam 25)

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Tutto comincia in occasione di una festa, quella della tosatura del gregge. Samuele è morto, e Davide si tiene nascosto nel deserto di Paran. Qui viene a sapere che un possidente molto facoltoso sta tosando le sue pecore e invia alcune dei suoi uomini a chiedere cibo e doni.

Il contrasto tra Davide e il ricco allevatore è molto marcato. Davide è fuggiasco e dimora nel deserto, in situazione di pericolosa precarietà e mancanza di tutto, L’altro, invece, è agiatamente insediato in Carmel, circondato da servi e dai suoi possedimenti, godendo le comodità della sua considerevole ricchezza.

La descrizione che viene fatta di quell’uomo è negativa, e pone le premesse per lo svolgimento del racconto:

2Vi era a Maon un uomo che possedeva beni a Carmel; costui era molto ricco, aveva tremila pecore e mille capre e si trovava a Carmel per tosare il gregge. 3Quest'uomo si chiamava Nabal e sua moglie Abigàil. La donna era assennata e di bell'aspetto, ma il marito era rude e di brutte maniere; era un Calebita.

Prima ancora del nome e dei suoi difetti, di Nabal sono elencate le ricchezze: questo è l’elemento preponderante, che acquista connotazione sfavorevole quando si viene a sapere che tanta benedizione è in mano ad un uomo malvagio, che ne usa malamente.

Costui stava festeggiando in occasione della tosatura del gregge. Davide, informato di ciò, gli invia i suoi uomini chiedendo una sorta di ricompensa per aver rispettato e protetto i pastori di

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Nabal durante la loro permanenza nel deserto (cfr vv. 4-9). Era questa una prassi comunemente accettata: le bande nomadi di predoni rappresentavano un pericolo per il bestiame e i suoi custodi, e quando non molestavano i pastori ed anzi li difendevano si aspettavano in cambio un tributo dai padroni del gregge.

Ma la risposta di Nabal è sprezzante:

10Nabal rispose ai servi di Davide: "Chi è Davide e chi è il figlio di Iesse? Oggi sono troppi i servi che vanno via dai loro padroni. 11Devo prendere il pane, l'acqua e la carne che ho preparato per i tosatori e darli a gente che non so da dove venga?".

Nabal non riconosce il favore ricevuto e offende Davide definendolo uno schiavo che sfugge dal suo padrone e ridicolizzando così la sua tragica vicenda di ingiusta persecuzione. La reazione di Davide è proporzionata all’arroganza di Nabal:

13Allora Davide disse ai suoi uomini: "Cingete tutti la spada!". Tutti cinsero la spada e Davide cinse la sua e partirono dietro a Davide circa quattrocento uomini. Duecento rimasero a guardia dei bagagli.

L’affronto è grave, e non può essere lasciato impunito:

21Davide andava dicendo: "Dunque ho custodito invano tutto ciò che appartiene a costui nel deserto; niente fu sottratto di ciò che gli appartiene ed egli mi rende male per bene. 22Tanto faccia Dio a Davide e ancora peggio, se di tutti i suoi lascerò sopravvivere fino al mattino un solo maschio!".

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Il momento è carico di tensione. Tutto è ormai pronto e il lettore, condotto abilmente dal filo del racconto, aspetta, forse anche con una certa soddisfazione, di vedere punito il malvagio e l’onta di Davide lavata nel sangue.

Invece, ecco comparire Abigail, la moglie saggia e bella di Nabal. Nominata e brevemente descritta nel v. 3, ora diventa protagonista e su di lei si focalizza l’interesse della narrazione.

Avvisata da uno dei servi della follia commessa dal marito, ella corre immediatamente ai ripari e, all’insaputa di Nabal, va incontro a Davide facendosi precedere da un cospicuo dono: «duecento pani, due otri di vino, cinque pecore già pronte, cinque sea di grano tostato, cento grappoli di uva passa e duecento schiacciate di fichi secchi» (v. 18). L’intento è di placare l’ira di Davide mostrando la propria volontà di riparazione e chiarendo subito, con la presentazione dei doni negati da Nabal, che il comportamento di quest’ultimo è giudicato negativamente e che ella lo disapprova e se ne dissocia.

L’incontro tra Abigail e Davide è descritto con cura: 23Appena Abigàil vide Davide, smontò in fretta dall'asino, cadde con la faccia davanti a Davide e si prostrò a terra. 24Caduta ai suoi piedi disse: "Ti prego, mio signore, sono io colpevole!...

Il testo insiste molto sull’atteggiamento di umile deferenza da parte della donna, prostrata ai piedi del figlio di Iesse.

Ella si confessa in torto, e viene a chiedere pietà. Il suo lungo discorso (vv 24-31), molto articolato e perfettamente costruito, vuole convincere Davide a desistere dai suoi propositi di vendetta:

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24…Lascia che parli la tua schiava al tuo orecchio e tu ascolta le parole della tua schiava. 25Non faccia caso il mio signore a quell'uomo perverso che è Nabal, perché egli è come il suo nome: stolto si chiama e stoltezza è in lui; io, tua schiava, non avevo visto, o mio signore, i tuoi domestici che avevi mandato. 26Ora, mio signore, per la vita di Dio e per la tua vita, poiché Dio ti ha impedito di giungere al sangue e di farti giustizia da te stesso, ebbene ora siano come Nabal i tuoi nemici e coloro che cercano di fare il male al mio signore. 27E ora questo dono che la tua schiava porta al mio signore, fa' che sia dato ai domestici che seguono i passi del mio signore. 28Perdona la colpa della tua schiava. Certo il Signore edificherà al mio signore una casa stabile, perché il mio signore combatte le battaglie del Signore, né si troverà alcun male in te per tutti i giorni della tua vita. 29Se qualcuno insorgerà a perseguitarti e ad attentare alla tua vita, la vita del mio signore sarà conservata nello scrigno dei viventi presso il Signore, tuo Dio, mentre la vita dei tuoi nemici egli la scaglierà via come dal cavo della fionda. 30Certo, quando il Signore ti avrà concesso tutto il bene che ha detto a tuo riguardo e ti avrà costituito capo d'Israele, 31non sia d'inciampo o di rimorso al mio signore l'aver versato invano il sangue e l'essersi il mio signore fatto giustizia da se stesso. Il Signore farà prosperare il mio signore, ma tu vorrai ricordarti della tua schiava".

Davide può così rileggere la sua storia alla luce delle parole della donna, una storia che Dio ha sempre guidato e che Dio porterà a compimento. La sua reazione è perciò benevola e accogliente: l’ira è caduta, e prende il suo posto la riconoscenza:

32Davide disse ad Abigàil: "Benedetto il Signore, Dio d'Israele, che ti ha mandato oggi incontro a me. 33Benedetto il tuo senno e benedetta tu che sei riuscita a impedirmi oggi di giungere al sangue e di farmi giustizia da me.

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Davide ha ritrovato la dimensione della propria rettitudine, dell’innocenza che lascia a Dio di operare la sua giustizia. Così Abigail può tornare a casa: Nabal è salvo. O meglio, è salvo dalla vendetta di Davide, ma non dalla giustizia di Dio.Il racconto si muove ora verso il suo epilogo (vv. 36 ss). Tornata dal marito, Abigail attende che questi riemerga dai fumi dell’alcool con cui aveva festeggiato la tosatura, poi gli narra tutto l’accaduto. Lo shock è fatale e conduce Nabal alla morte. La morte è presentata come opera di Dio e Davide può riconoscerlo, dando sfogo alla propria soddisfazione per aver ricevuto giustizia ma anche e soprattutto per essere stato mantenuto nell’innocenza:

39Quando Davide sentì che Nabal era morto, esclamò: "Benedetto il Signore che ha difeso la mia causa per l'ingiuria fattami da Nabal e ha trattenuto il suo servo dal male e ha rivolto sul capo di Nabal la sua cattiveria".

Il racconto è giunto così al suo termine: Abigail raggiunge Davide e diventa sua moglie (cfr vv. 40-42). Il malvagio è morto e l’eroe trionfa. Alla fine del racconto, lo spettro di Saul ritorna, con quella breve annotazione finale: «Saul aveva dato sua figlia Mical, già moglie di Davide, a Paltì figlio di Lais, che era di Gallìm» (v. 44). La precisazione è collegata alla notizia sulle due mogli di Davide, Abigail e Achinoam (V. 43), ma ha l’effetto, sul lettore, di ricordare il vero nemico di Davide, il re Saul. Dopo la breve parentesi del racconto di Abigail, l’incubo riprende e si è bruscamente riportati alla crudele realtà della fuga del figlio di Iesse da colui che è il suo persecutore.

Nella complessa e multiforme vicenda che lega i due rivali, spiccano due episodi. Essi sono molto simili tra loro, quasi un

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doppione di racconto, e appaiono particolarmente significativi per la caratterizzazione dei due personaggi in questione. Si tratta degli episodi nella caverna (1 Sam 24) e del furto della brocca e della lancia (1 Sam 26): Davide, pur dimostrando in entrambi i casi la sua fedeltà verso il sovrano, rifiutandosi di uccidere colui che è il consacrato, nulla può contro la morsa della disperazione e del delirio in cui versa Saul. I due si separano, andando ognuno per la sua strada.

Davide, nella sua fuga da Saul, si rivolge ai Filistei: l’eroe, che aveva abbattuto Golia e conquistato Mical con i prepuzi di duecento Filistei, cerca ora riparo nella terra di quegli stessi avversari che avevano reso grande la sua fama.

L’illustre Betlemmita che tanto aveva fatto parlare di sé per il suo eroismo è diventato capo di una truppa di sbandati, di gente oppressa, indebitata, scontenta. L’eroe decantato nella sua patria si ritrova a vagare nel deserto senza una fissa dimora, ed è costretto a cercare aiuto presso gli stranieri.

Così, si rivolge al re di Moab per ricevere ospitalità per i propri genitori e alla fine ricorrerà ad Achis re di Gat per sfuggire definitivamente alle mani di Saul.

Quest’ultima decisione è gravissima e sembra senza via di ritorno. È il passaggio al nemico, un esilio doloroso che ha il sapore acre del tradimento.

La situazione è complessa, e conosce vari stadi e diverse tonalità. Davide diventa un suddito dei Filistei, fedele solo in apparenza ma ormai strettamente legato a quelle popolazioni. Tanto, che correrà il rischio di dover combattere con loro proprio contro il suo popolo d’origine.

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Il difficile rapporto tra i due Unti di Israele giunge ormai alla fine. La decisione dei Filistei di muovere guerra contro Israele pone le premesse per la consumazione della tragedia della casa di Saul.

Quando la battaglia è ormai imminente, Davide, rimandato indietro dai Filistei, esce temporaneamente di scena, mentre Saul e i suoi uomini si apprestano ad affrontare l’ultimo scontro, che si risolverà in una drammatica sconfitta.

L’avventura del primo re d’Israele è finita, e per Davide si apre definitivamente la strada verso il trono. Ma proprio prima della sua fine, la narrazione si concentra su Saul. Terrorizzato dall’approssimarsi dell’aggressione nemica e dall’ostinato silenzio di Dio, il re si reca segretamente ad Endor per consultare una negromante (1 Sam 28):

3Samuele era morto e tutto Israele aveva fatto il lamento su di lui; poi l'avevano seppellito a Rama, sua città. Saul aveva bandito dalla terra i negromanti e gli indovini. 4I Filistei si radunarono e andarono a porre il campo a Sunem. Saul radunò tutto Israele e si accampò sul Gèlboe. 5Quando Saul vide il campo dei Filistei, ebbe paura e il suo cuore tremò. 6Saul consultò il Signore e il Signore non gli rispose, né attraverso i sogni né mediante gli urìm né per mezzo dei profeti.7Allora Saul disse ai suoi ministri: "Cercatemi una negromante, perché voglio andare a consultarla". I suoi ministri gli risposero: "Vi è una negromante a Endor".

In preda al panico, il re Saul cerca il Signore. Ma Dio tace, Dio non risponde al suo Unto. Né sogni, né urìm, né profeti porgono alcuna risposta al re supplicante, Il silenzio è totale, ed è un modo con cui si consuma l’ultimo abbandono. Così, il re che aveva messo

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al bando gli indovini va in cerca di una negromante perché qualcuno gli possa ancora parlare:

8Saul si camuffò, si travestì e partì con due uomini. Arrivò da quella donna di notte. Disse: "Pratica per me la divinazione mediante uno spirito. Èvocami colui che ti dirò". 9La donna gli rispose: "Tu sai bene quello che ha fatto Saul: ha eliminato dalla terra i negromanti e gli indovini. Perché dunque tendi un tranello alla mia vita per uccidermi?". 10Saul le giurò per il Signore: "Per la vita del Signore, non avrai alcuna colpa per questa faccenda". 11Ella disse: "Chi devo evocarti?". Rispose: "Èvocami Samuele". 12La donna vide Samuele e proruppe in un forte grido e disse a Saul: "Perché mi hai ingannata? Tu sei Saul!". 13Le rispose il re: "Non aver paura! Che cosa vedi?". La donna disse a Saul: "Vedo un essere divino che sale dalla terra". 14Le domandò: "Che aspetto ha?". Rispose: "È un uomo anziano che sale ed è avvolto in un mantello". Saul comprese che era veramente Samuele e s'inginocchiò con la faccia a terra e si prostrò.

Saputo della presenza di una negromante in Endor, Saul si mette in viaggio per raggiungerla. È notte, perché la cosa deve restare segreta e perché i Filistei sono nei pressi e bisogna evitare di essere presi. Per gli stessi motivi, Saul si traveste. È necessario che nessuno lo riconosca, che nessuno sappia ciò che il re sta per fare.

Tali accorgimenti risultano efficaci e Saul raggiunge senza inconvenienti Endor. Ma che sia notte e che il re sia travestito sono elementi anche simbolici, che danno a tutta la vicenda la giusta tonalità. Perché ciò che sta avvenendo è cosa insensata e ingiusta. Da consumare di notte, appunto, quando agiscono i malvagi, i malfattori, coloro che non vogliono essere scoperti.

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Anche il travestimento ha valore di segno. La rinuncia alle insegne regali è un gesto il cui significato va oltre la semplice dissimulazione per non essere riconosciuto, e diventa azione simbolica di rinuncia alla stessa regalità.

15Allora Samuele disse a Saul: "Perché mi hai disturbato evocandomi?". Saul rispose: "Sono in grande angustia. I Filistei mi muovono guerra e Dio si è allontanato da me: non mi ha più risposto, né attraverso i profeti né attraverso i sogni; perciò ti ho chiamato, perché tu mi manifesti quello che devo fare". 16Samuele rispose: "Perché mi vuoi consultare, quando il Signore si è allontanato da te ed è divenuto tuo nemico? 17Il Signore ha fatto quello che ha detto per mezzo mio. Il Signore ha strappato da te il regno e l'ha dato a un altro, a Davide. 18Poiché non hai ascoltato la voce del Signore e non hai dato corso all'ardore della sua ira contro Amalèk, per questo il Signore ti ha trattato oggi in questo modo. 19Il Signore metterà Israele insieme con te nelle mani dei Filistei. Domani tu e i tuoi figli sarete con me; il Signore metterà anche le schiere d'Israele in mano ai Filistei".

Il re mette a nudo la sua angoscia, ma chi gli risponde è un morto che già da vivo aveva pronunciato, a nome di Dio, un decreto definitivo e senza appello. Ed ora non può che ripeterlo, vanificando anche l’ultima speranza e sottolineando l’assoluta inutilità dell’estremo tentativo di Saul. Il morto conferma, ripetendo le parole del re, che il Signore si è allontanato da lui, e ribadisce che il regno ormai è stato dato ad un altro.

Ma ora, dal suo regno dei morti, Samuele aggiunge una precisazione disperante: Dio è diventato nemico di Saul. Il vero avversario del re non è Davide, ma il Signore. E Saul, che ha

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sempre continuato a perseguitare il suo prossimo come fosse un nemico, ora invece deve affrontare la realtà dell’inimicizia di Dio.

Ritorna la vecchia storia degli Amaleciti che Saul non aveva sterminato (cfr 15,1 ss) e, in connessione con questo, il tragico annuncio di morte: «Domani tu e i tuoi figli sarete con me». Il mancato annientamento di Amalek porta ora all’annientamento, per mano dei Filistei, di Saul e di tutti i suoi. La parola di consolazione che il re ricercava si è risolta in una condanna mortale. Il silenzio di Dio si è fatto parola, ma è quella di un morto che promette la morte.

20All'istante Saul cadde a terra lungo disteso, pieno di terrore per le parole di Samuele; inoltre era già senza forze perché non aveva mangiato nulla tutto quel giorno e tutta quella notte. 21Allora la donna si accostò a Saul e, vedendolo sconvolto, gli disse: "Ecco, la tua serva ha ascoltato la tua voce. Ho esposto al pericolo la mia vita per ascoltare la parola che tu mi hai detto. 22Ma ora ascolta anche tu la voce della tua serva. Voglio darti un pezzo di pane: mangia e così riprenderai le forze, perché devi rimetterti in viaggio". 23Egli rifiutava e diceva: "Non mangio". Ma i suoi servi insieme alla donna lo costrinsero ed egli ascoltò la loro voce. Si alzò da terra e sedette sul letto. 24La donna aveva in casa un vitello da ingrasso; si affrettò a ucciderlo, poi prese la farina, la impastò e gli fece cuocere pani azzimi. 25Mise tutto davanti a Saul e ai suoi servi. Essi mangiarono, poi si alzarono e partirono quella stessa notte.

Dopo le parole di Samuele, la speranza per il re è finita, la sentenza si è fatta irrevocabile, ormai al re non resta che morire. Quel suo cadere a terra anticipa la morte annunciata, egli è paralizzato dalla visione agghiacciante del proprio destino, e il terrore si fa abbandono cadaverico, in una momentanea caduta

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nell’incoscienza. Il re alto e possente è lungo disteso a terra: la sua imponenza sottolinea adesso tutta la sua impotenza.

La morte dell’eroe (1 Sam 31)

Il destino di Saul, ormai segnato, sta per compiersi. Mentre Davide viene allontanato dall’esercito filisteo e ingaggia la sua lotta personale contro gli Amaleciti (1 Sam 29-30), Saul si prepara allo scontro finale. Tutto è già pronto, la battaglia ha inizio, ed è subito fuga rovinosa, sconfitta e morte.

1 I Filistei attaccarono Israele, ma gli uomini d'Israele fuggirono davanti ai Filistei e caddero trafitti sul monte Gèlboe. 2I Filistei si strinsero attorno a Saul e ai suoi figli e colpirono a morte Giònata, Abinadàb e Malchisùa, figli di Saul. 3La battaglia si concentrò intorno a Saul: gli arcieri lo presero di mira con gli archi ed egli fu ferito gravemente dagli arcieri. 4Allora Saul disse al suo scudiero: "Sfodera la spada e trafiggimi, prima che vengano quegli incirconcisi a trafiggermi e a schernirmi". Ma lo scudiero non volle, perché era troppo spaventato. Allora Saul prese la spada e vi si gettò sopra. 5Quando lo scudiero vide che Saul era morto, si gettò anche lui sulla sua spada e morì con lui. 6Così morirono insieme in quel giorno Saul e i suoi tre figli, lo scudiero e anche tutti i suoi uomini.

Il racconto della battaglia è brevissimo, limitato a un versetto. La superiorità schiacciante dei Filistei appare immediatamente: da parte di Israele non si oppone resistenza, in uno sbando totale, agghiacciante nella sinteticità con cui viene descritto. Tutta la tragedia si risolve in poche parole: i Filistei ingaggiano battaglia, gli Israeliti sono messi in fuga e cadono trafitti sul monte Gelboe.

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Lo sguardo ora si appunta su Saul. I nemici gli sono addosso, hanno ucciso i suoi figli, lo trovano: è la fine, con tutto il suo terrore.

Allora Saul chiede la morte. La scena è dolorosa, impressionante, ma Saul giganteggia. Il re malato, il sovrano contradditorio, ora è davanti alla prova finale, e l’ultima sofferenza sembra riscattarne ogni ambiguità.

Davanti ai nemici che incombono, davanti alla prospettiva di una morte ignominiosa e dell’infierire certo dei Filistei su di lui, Saul decide di sfuggire alle mani de suoi nemici nell’unico modo possibile: ponendo fine alla sua vita prima che lo facciano loro e lasciando nelle loro mani solo un cadavere. Non il re d’Israele, non il valoroso avversario, ma un corpo senza vita, così che non possano dire di aver ucciso l’Unto del Signore.

Ma lo scudiero, a cui il re si rivolge, si rifiuta di colpirlo e di ucciderlo. Allora Saul prende risolutamente la sua decisione e si uccide gettandosi sulla propria spada, subito imitato dallo scudiero. È la morte dell’eroe che si sottrae all’umiliazione della sconfitta, è l’assunzione coraggiosa del proprio destino, ma è anche, come ogni cosa nella storia di Saul, un evento segnato dalla contraddizione.

Dio infatti gli aveva annunciato la disfatta e la caduta nelle mani dei Filistei, e il re sembra quasi sottrarsi a quel destino, dandosi la morte da solo e prendendo ancora una volta, per l’ultima volta, la vita tra le proprie mani. Consumata ormai la consapevolezza dell’ultimo abbandono, Saul entra nella solitudine estrema del suicidio rivolgendo contro se stesso quella volontà di morte che aveva avvelenato la sua esistenza e i suoi rapporti con i suoi. Dio lo ha rifiutato, Samuele lo ha abbandonato, i suoi figli sono stati uccisi. E lui, che in vita aveva combattuto contro tutti, anche

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contro i suoi amici e suo figlio, ora, sopraffatto dai nemici, arma la sua mano contro se stesso.

È una morte che sgomenta, e un abisso di dolore che incute rispetto. E ancora il paradosso si rivela: Saul nella morte ridiventa grande, e proprio nel giorno della disfatta e nella tragica ambiguità del suo morire, sembra ritrovare una comunione perduta: lo scudiero si getta sulla spada e, annota il testo, «morì con lui». E prosegue: «Così morirono insieme in quel giorno Saul e i suoi tre figli, lo scudiero e anche tutti i suoi uomini» (v. 6).

Si tratta di un’annotazione che vuol dare la misura della vastità della tragedia, con quella lugubre elencazione dei morti, che sottolinea la totalità della disfatta. Ma è anche la visione, benché sconsolata, di una morte non solitaria. Lo scudiero non ha lasciato solo il suo signore; sopraffatto dal panico, o lucidamente deciso a compiere il gesto dell’estrema solidarietà, egli muore con il re, e con loro tutti gli uomini di Saul.

È la fine del regno e del casato saulide, la fine del sovrano, del potente che coinvolge e trascina con sé tutti i suoi. Ma in tanta distruzione il re malato riacquista la sua dimensione umana: il folle persecutore di innocenti è definitivamente diventato vittima, riscattando così, agli occhi del lettore, tutta la sua brutalità e guadagnandosi nuovi sentimenti di pietà, di compassione e di rispetto.

La storia di Saul si è così conclusa. E si conclude anche il travagliato cammino del figlio di Iesse verso il trono. Il pastore scelto da Dio, il giovane eroe che sconfigge il nemico invincibile, il perseguitato che resta innocente, l’esule che fugge dalla propria patria ma senza mai rinnegarla, ora sta per diventare il re d’Israele.

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Una storia è finita, e ne comincia un’altra. L’Unto del Signore può uscire allo scoperto e diventare il pastore del suo popolo. Il Signore che ha sempre guidato il suo cammino attraverso i pericoli e tra mille difficoltà lo sta ora portando verso l’assunzione di un compito ancora più arduo, essere re secondo il cuore di Dio.

La strada che manca ancora da percorrere è tortuosa, la gestione del potere è difficile, segnata dall’ambiguità, e il nuovo sovrano ne farà presto esperienza. L’innocente dovrà misurarsi col proprio peccato, il pastore impugnerà la spada, il padre verrà tradito dal figlio, e l’eletto dovrà ritrovare nel dolore la propria fedeltà di Messia.

È finita la storia dell’ascesa di Davide verso il trono. Ora comincia la storia di Davide re.

Davide diventa re

1 Dopo questi fatti, Davide consultò il Signore dicendo: "Devo salire in qualcuna delle città di Giuda?". Il Signore gli rispose: "Sali!". Chiese ancora Davide: "Dove salirò?". Rispose: "A Ebron". 2Davide dunque vi salì con le sue due mogli, Achinòam di Izreèl e Abigàil, già moglie di Nabal di Carmel. 3Davide portò con sé anche i suoi uomini, ognuno con la sua famiglia, e abitarono nelle città di Ebron. 4Vennero allora gli uomini di Giuda e qui unsero Davide re sulla casa di Giuda.

Con la morte del re Saul e dei suoi figli, la situazione interna ad Israele è radicalmente mutata; ora, non c’è più motivo, per il figlio di Iesse, di rimanere in esilio in terra filistea. La persecuzione è finalmente terminata, e il vuoto di potere che si è venuto a creare gli lascia ampia libertà di manovra. Così, Davide entra in azione e si

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trasferisce a Ebron, un’antica città situata sulle colline della Giudea, legata alle tradizioni patriarcali (cfr Gen 13,18; 35,27). Davide vi si insedia con un trasferimento inteso come definitivo: egli non solo porta con sé le sue due mogli, ma anche tutti i suoi uomini con le rispettive famiglie. Il fuggiasco ha finalmente finito di nascondersi; non più inseguimenti, non più pericolo di delazioni al re Saul, non più lo spossante doppio gioco con i Filistei. Davide ritorna nel suo territorio e ritrova in patria la propria stabilità.

E lì può infine rivelarsi la sua vera identità, che Dio gli aveva fatto intravedere tanto tempo prima, nella casa paterna a Betlemme, quando Samuele lo aveva unto, con trepidazione e in gran segreto, con olio profumato. Avesse o no capito allora, il giovane Davide, il senso di quel gesto, ora comunque tutto si fa chiaro: una nuova unzione rende esplicita e ratifica quella del vecchio giudice. Gli uomini di Giuda, infatti, raggiungono Davide a Ebron e qui lo consacrano re.

Un nuovo rivale

8Intanto Abner, figlio di Ner, capo dell'esercito di Saul, prese Is-Baal, figlio di Saul, e lo condusse a Macanàim. 9Poi lo costituì re su Gàlaad, sugli Asuriti, su Izreèl, su Èfraim e su Beniamino, cioè su tutto Israele. 10Is-Baal, figlio di Saul, aveva quarant'anni quando fu fatto re d'Israele e regnò due anni. Solo la casa di Giuda seguiva Davide. 11Il periodo di tempo durante il quale Davide fu re di Ebron fu di sette anni e sei mesi.

Abner, il capo dell’esercito israelita sconfitto e annientato dai Filistei, ricompare sulla scena. Egli è sopravvissuto allo scontro che ha visto la morte di Saul e ora si appresta a prendere in mano le

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redini del regno ricostituendolo sotto la guida, almeno nominale, del naturale successore, il figlio superstite del sovrano defunto.

La figura di Is-Baal è scialba, insignificante, e sembra avere le caratteristiche di un re-fantoccio, manovrato dal vero uomo di potere, Abner, che prende le decisioni e gestisce tutta la vicenda.

Con la ricomparsa sulla scena di Abner e con la salita di Is-Baal sul trono di Israele, si viene a creare una situazione conflittuale dalle conseguenze imprevedibili. Il regno ora è diviso, e due nuovi monarchi devono fronteggiarsi. Tornano i vecchi fantasmi del tempo di Saul: ancora una volta Davide deve misurarsi con un rivale, e la terra di Israele diventa luogo di lotta tra due re, come un tempo lo era stata tra i due Unti.

E ancora una volta, la storia di Davide si scontra con le difficoltà e il pericolo, e con l’apparente incomprensibilità dei progetti divini. Perché Dio lo ha unto per mano di Samuele, gli ha dato il regno, gli ha detto di andare a Ebron; e quando infine il suo destino sembra compiersi, ecco di nuovo la contrapposizione, la guerra, e la solitudine. Davide deve continuare a vivere nella lacerazione, coinvolto, suo malgrado, in una nuova durissima guerra, ancora più drammatica perché è guerra tra fratelli.

Guerra e vita

1 La guerra tra la casa di Saul e la casa di Davide fu lunga. Davide andava facendosi più forte, mentre la casa di Saul andava indebolendosi. 2A Ebron nacquero a Davide dei figli e furono: il primogenito Amnon, nato da Achinòam di Izreèl; 3il secondo Chilab, nato da Abigàil, già moglie di Nabal di Carmel; il terzo Assalonne, figlio di Maacà, figlia di Talmài, re di Ghesur; 4il quarto Adonia, figlio di Agghìt; il quinto Sefatia, figlio di Abitàl; 5il sesto

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Itreàm, nato da Egla, moglie di Davide. Questi nacquero a Davide a Ebron.

La guerra si protrae, un lungo snodarsi di ostilità e scontri. Il compimento del progetto di Dio ritarda; Davide è re, ma solo su una parte del popolo, e la sua regalità è in continuo pericolo. Continua la frattura all’interno di Israele, provocata dalla presenza di due re, ma uno solo ha il favore divino. Davide infatti prospera, mentre la casa di Saul va in rovina, perdendo di importanza e indebolendosi progressivamente.

La guerra non cessa tra le due opposte fazioni, ma la vita continua e in essa si manifesta la presenza del Signore. La generazione dei figli è infatti segno della benedizione divina, prolungamento della vita del padre che andrà al di là della sua morte, e, per Davide, dinastia regale che potrà assicurare il perpetuarsi della monarchia. Tutto questo è ora visibilmente abbondante nella dimora del nuovo re: in Ebron gli nascono sei figli.

Questa lista di figli interrompe, a livello narrativo, la tensione angosciosa della lotta fratricida, con le sue battaglie e i suoi morti. Ma il narratore ci informa che la guerra continua. La situazione è di stallo, e né Davide né il suo rivale sembrano intenzionati a forzare le cose. Finché tutto improvvisamente precipita, per il deteriorarsi dei rapporti tra Abner e il suo re fantoccio a causa di una donna, una concubina.

6Mentre c'era lotta tra la casa di Saul e quella di Davide, Abner era diventato potente nella casa di Saul. 7Saul aveva avuto una concubina chiamata Rispa, figlia di Aià. Ora Is-Baal disse ad Abner: "Perché ti sei unito alla concubina di mio padre?".

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8Abner si adirò molto per le parole di Is-Baal e disse: "Sono dunque una testa di cane di Giuda? Fino ad oggi ho usato benevolenza verso la casa di Saul tuo padre, i suoi fratelli e i suoi amici, e non ti ho fatto cadere nelle mani di Davide. Oggi tu mi rimproveri una colpa di donna. 9Così faccia Dio ad Abner e anche peggio, se io non farò per Davide ciò che il Signore gli ha giurato: 10trasferire cioè il regno dalla casa di Saul e stabilire il trono di Davide su Israele e su Giuda, da Dan fino a Bersabea". 11Quegli non fu capace di rispondere una parola ad Abner, perché aveva paura di lui.

Una concubina ha involontariamente operato la frattura tra due vecchi alleati e tolto il regno ad un figlio di re; ora una moglie perduta, figlia di re, dovrà ratificare una nuova intesa e legittimare la definitiva presa di possesso, da parte di Davide, del trono di Saul.

Il ritorno di Mical

12Abner inviò subito messaggeri a Davide per dirgli: "Di chi è la terra?", per dire: "Fa' alleanza con me, ed ecco la mia mano sarà con te per far volgere a te tutto Israele". 13Rispose: "Bene! Io farò alleanza con te. Però ho una cosa da chiederti ed è questa: non vedrai il mio volto senza condurmi Mical, figlia di Saul, quando verrai a vedere il mio volto".

Abner, deciso ormai a passare dalla parte del re di Giuda e pronto a dargli il suo appoggio, offre alleanza a Davide. Davide accetta, ma chiede di riavere indietro sua moglie, Mical, la figlia di Saul.

La narrazione sorvola sulla risposta di Abner, che però non poteva che essere positiva; tanto che Davide ora può fare l’altro

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passo: esigere la restituzione di Mical rivolgendosi direttamente a Is-Baal:

14Davide spedì messaggeri a Is-Baal, figlio di Saul, dicendogli: "Ridammi mia moglie Mical, che feci mia sposa al prezzo di cento prepuzi di Filistei". 15Is-Baal mandò a toglierla a suo marito, Paltièl, figlio di Lais. 16Suo marito partì con lei, camminando e piangendo dietro di lei fino a Bacurìm. Poi Abner gli disse: "Torna indietro!". E quegli tornò.

Il figlio di Saul non può rifiutarsi: ormai esautorato di ogni potere, gli è rimasta solo l’autorità di togliere la propria sorella al marito per darla al re avversario. E con Mical sta dando a Davide il regno.

In tutta questa vicenda, la donna appare totalmente cosificata, quasi fosse un oggetto di scambio. Il lettore si domanda se ci sia qualcosa che abbia afre con l’amore in tutto questo. Sappiamo che Mical si era invaghita di Davide (cfr 1 Sam 18,20), ma lui l’aveva mai veramente amata? Eppure era stata lei a salvare il marito dalla morte, diventando sua complice, e prendendo posizione contro il proprio padre (cfr 1 Sam 19,11-17). Chissà se Davide se ne ricorda, mentre ordina a Is-Baal di riconsegnargli la figlia del re. Chissà se quanto era avvenuto in passato è ancora importante per lui, se gli è motivo di tenerezza, o almeno di riconoscenza nei confronti della sposa. Ha desiderio di riabbracciarla, o la sta solo usando per i propri progetti? È già malato di potere, o c’è almeno un po’ di nostalgia sotto alla sua richiesta?

A queste domande per ora non si può rispondere. Nulla viene detto dei sentimenti di Davide nei confronti della donna, né in seguito si dirà qualcosa su questo. Il narratore non ci dà notizie

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neanche su come la figlia di Saul abbia preso la cosa, non sappiamo se amava ancora Davide. L’unico che piange è il suo attuale marito, Paltièl. Non vuole lasciarla, e per questo le va dietro, come un mendicante. La scena è di grande efficacia. Non ci sono proteste, ma solo le lacrime a esprimere il dolore, a dire la violenza subita; e poi quel suo andarle dietro, come a distanza, come se non potesse accettare il distacco, ma insieme sapesse di essere impotente. Gliel’hanno presa, e allora lui le va dietro, fin dove può, fino a quando gli sarà possibile, fino a quando non gli ordineranno di andarsene, come puntualmente avviene.

Il Pastore di Israele1 Vennero allora tutte le tribù d'Israele da Davide a Ebron, e gli dissero: "Ecco noi siamo tue ossa e tua carne. 2Già prima, quando regnava Saul su di noi, tu conducevi e riconducevi Israele. Il Signore ti ha detto: "Tu pascerai il mio popolo Israele, tu sarai capo d'Israele"". 3Vennero dunque tutti gli anziani d'Israele dal re a Ebron, il re Davide concluse con loro un'alleanza a Ebron davanti al Signore ed essi unsero Davide re d'Israele. 4Davide aveva trent'anni quando fu fatto re e regnò quarant'anni. 5A Ebron regnò su Giuda sette anni e sei mesi e a Gerusalemme regnò trentatré anni su tutto Israele e su Giuda.

La storia iniziata a Betlemme, nella casa paterna, per le mani del vecchio Samuele che aveva unto quel ragazzo, si è infine realizzata. Davide diventa re perché questo era il progetto divino.

Finalmente chiuso il tragico capitolo della guerra fratricida, il re Davide deve trovare ora una captale adeguata, strategicamente situata, che faccia da punto di riferimento e di aggregazione per

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l’intera popolazione. Da essa il figlio di Iesse eserciterà il proprio compito di Unto e in essa risiederà per sempre il Dio d’Israele.

Diventato re di tutto Israele, Davide attacca i Gebusei e si impossessa del loro territorio per stabilirvi la sua capitale. La fortezza di Sion, pur con la sua fama di sito inespugnabile, viene conquistata e diventa il centro politico e religioso del nuovo regno.

La scelta di Gerusalemme come nuova capitale si rivela una mossa tattica molto abile da parte del nuovo sovrano. Non era infatti opportuno che Davide rimanesse nella città di Ebron, legata al Sud e al tempo della sovranità solo su Giuda. Con l’unificazione del regno, serve ora un luogo più neutrale, che non appartenga né a Giuda né a Israele e che possa così rappresentare un elemento di nuova coesione per un popolo appena uscito da un conflitto interno devastante.

La città dei Gebusei rappresentava, a questo riguardo, la soluzione ideale. Conquistarla avrebbe certamente procurato a Davide notevolissimi vantaggi sia dal punto di vista strategico che politico. Così, radunati i suoi uomini, il re di Israele decide l’attacco:

6Il re e i suoi uomini andarono a Gerusalemme contro i Gebusei che abitavano in quella regione. Costoro dissero a Davide: "Tu qui non entrerai: i ciechi e gli zoppi ti respingeranno", per dire: "Davide non potrà entrare qui". 7Ma Davide espugnò la rocca di Sion, cioè la Città di Davide. 8Davide disse in quel giorno: "Chiunque vuol colpire i Gebusei, attacchi attraverso il canale gli zoppi e i ciechi, che odiano la vita di Davide". Per questo dicono: "Il cieco e lo zoppo non entreranno nella casa".

Sotto l’assalto di Davide, la città crolla. Il re d’Israele si impadronisce della sua nuova, splendida capitale. Ma il narratore

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non ci dice come. Nel nostro testo, infatti, non c’è alcun resoconto dell’assalto e dell’eventuale battaglia che ha portato alla presa della città. Tutto è solo ridotto all’enigmatica frase pronunciata da Davide: «Chiunque vuol colpire i Gebusei, attacchi attraverso il canale» (v. 8a).

Con la conquista della città gebusea, Davide ha espugnato un baluardo cananeo ed eliminato dal paese un nucleo di resistenza straniera. È un ulteriore passo verso la completezza della conquista della terra, un modo per far progredire la promessa di Dio verso il proprio adempimento.

Con Gerusalemme, Davide dona al paese una capitale che diverrà punto di riferimento irrinunciabile per tutto Israele, ideale luogo di convergenza per il popolo credente. La conquista della città viene ratificata da nuove opere di edificazione; l’insediamento in Gerusalemme e l’attività edilizia dispiegatavi fanno di Davide un re la cui potenza va crescendo e si fa sempre più evidente, segno di una presenza divina che lo accompagna e che il narratore non manca di esplicitare.

La storia di Davide non è stata facile, la sua è stata una vita travagliata, segnata da contrasti, persecuzioni, lutti, battaglie. Ma qualcosa, nel dispiegarsi della sua esistenza, ha sempre manifestato una presenza fedele, un alleato discreto e silenzioso costantemente al suo fianco, in un rapporto che nulla ha mai potuto spezzare. Il Signore ha sempre guidato i passi del suo Unto; Dio lo ha preso per mano e Davide si è lasciato condurre.

E adesso, in Gerusalemme, il pastore di Betlemme, il fuggiasco perseguitato, l’esiliato in costante pericolo assapora invece la gioia della regalità, di una vita che si è fatta stabile, sicura. Ora, c’è un intero popolo disposto a seguirlo, e c’è una città inespugnabile a

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proteggerlo, e, in essa, un palazzo regale a dargli agiatezza e prestigio.

Dio ha compiuto la sua promessa; e Davide ne è consapevole. I segni sono inequivocabili: è Dio che lo ha voluto su quel trono, è a Dio che Davide è debitore di tutto. La sua regalità non è frutto di conquista, ma viene dall’accoglienza di un dono; l’esercizio del suo potere è compito da accettare e svolgere nell’obbedienza, al servizio di un popolo che il Signore ha scelto e ama e alla cui misteriosa realtà è ormai indissolubilmente legato il suo destino di re.

Il trasferimento dell’arca

Stabilitosi a Gerusalemme, Davide compie l’ultimo atto di consolidamento del proprio potere: porta l’arca di Dio a Gerusalemme, facendone il centro unico e indiscusso, politico e religioso, del popolo d’Israele. Il trasferimento dell’arca dell’alleanza nella nuova capitale è un avvenimento di grande importanza, un’occasione di festa e di celebrazione per il re e per tutto il suo popolo. Ma qualcosa di sconcertante viene a funestare in modo drammatico l’evento: è l’episodio della morte di Uzzà, che diventa testimonianza, sia pur dolorosa, dell’irraggiungibile santità di Dio.

1 Davide reclutò di nuovo tutti gli uomini scelti d'Israele, in numero di trentamila. 2Poi si alzò e partì con tutta la sua gente da Baalà di Giuda, per far salire di là l'arca di Dio, sulla quale si proclama il nome del Signore degli eserciti, che siede sui cherubini. 3Posero l'arca di Dio sopra un carro nuovo e la tolsero dalla casa di Abinadàb che era sul colle; Uzzà e Achio, figli di Abinadàb, conducevano il carro nuovo. 4Mentre conducevano il carro con l'arca di Dio dalla casa di Abinadàb, che stava sul colle,

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Achio precedeva l'arca. 5Davide e tutta la casa d'Israele danzavano davanti al Signore con tutte le forze, con canti e con cetre, arpe, tamburelli, sistri e cimbali. 6Giunti all'aia di Nacon, Uzzà stese la mano verso l'arca di Dio e la sostenne, perché i buoi vacillavano. 7L'ira del Signore si accese contro Uzzà; Dio lo percosse per la sua negligenza ed egli morì sul posto, presso l'arca di Dio.

Superato anche questo episodio, l’arca viene finalmente portata a Gerusalemme. La gioia, finora trattenuta, può finalmente esplodere, ma qualcosa viene di nuovo a turbare l’esultanza del re.

16Quando l'arca del Signore entrò nella Città di Davide, Mical, figlia di Saul, guardando dalla finestra vide il re Davide che saltava e danzava dinanzi al Signore e lo disprezzò in cuor suo. 17Introdussero dunque l'arca del Signore e la collocarono al suo posto, al centro della tenda che Davide aveva piantato per essa; Davide offrì olocausti e sacrifici di comunione davanti al Signore. 18Quando ebbe finito di offrire gli olocausti e i sacrifici di comunione, Davide benedisse il popolo nel nome del Signore degli eserciti 19e distribuì a tutto il popolo, a tutta la moltitudine d'Israele, uomini e donne, una focaccia di pane per ognuno, una porzione di carne arrostita e una schiacciata di uva passa. Poi tutto il popolo se ne andò, ciascuno a casa sua.

Senza preparazione, sulla scena compare Mical: sta guardando alla finestra, vede il re che danza e lo disprezza. Il testo non dice il perché di questa reazione, verrà chiarito più avanti, ma è evidente che quel saltare e danzare non le sembra appropriato, dignitoso. Probabilmente, il comportamento di Davide appare un po’ esaltato, fuori controllo, troppo poco solenne.

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Ma quel che più conta, è che il modo con cui Mical guarda allo sposo è ormai privo di affetto, tenerezza, ammirazione. La donna è ormai in posizione critica, distaccata. Tutti segni che l’amore non c’è più. Troppo tempo è passato e troppe cose sono accadute da quando la figlia di Saul si era invaghita di Davide (1 Sam 18,20). Dopo questa breve annotazione sul disprezzo di Mical, il testo prosegue con il racconto della festa. Davide fa da officiante: offre olocausti e sacrifici di comunione e benedice il popolo presente. Poi, terminata la festa, tutti tornano alle loro case. Anche Davide torna dalla sua famiglia. E qui il racconto rimette in scena Mical.

20Davide tornò per benedire la sua famiglia; gli uscì incontro Mical, figlia di Saul, e gli disse: "Bell'onore si è fatto oggi il re d'Israele scoprendosi davanti agli occhi delle serve dei suoi servi, come si scoprirebbe davvero un uomo da nulla!". 21Davide rispose a Mical: "L'ho fatto dinanzi al Signore, che mi ha scelto invece di tuo padre e di tutta la sua casa per stabilirmi capo sul popolo del Signore, su Israele; ho danzato davanti al Signore. 22Anzi mi abbasserò anche più di così e mi renderò vile ai tuoi occhi, ma presso quelle serve di cui tu parli, proprio presso di loro, io sarò onorato!". 23Mical, figlia di Saul, non ebbe figli fino al giorno della sua morte.

Davide è certamente stanco, ma pienamente appagato. E il suo ritorno a casa dovrebbe segnare il momento sereno del riposo, dell’affetto, della quieta intimità.

Ed invece ecco la frattura. Quel disprezzo di Mical alla finestra nei confronti del marito ora si dichiara in tutta la sua gravità. Il popolo è in festa, Dio ha manifestato la sua benevolenza, il re ha dato benedizioni e doni, ma Mical, la sposa persa e poi riavuta, rifiuta la gioia. Davide torna per benedire la famiglia e lei lo

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aggredisce. Il senso dell’aspro rimprovero rivolto a Davide da Mical non è del tutto chiaro. Sembra di poter dire che Mical giudichi indecoroso che Davide si sia esibito agli occhi della gente saltando e danzando, in un abbigliamento e un atteggiamento che ella sprezzantemente assimila al comportamento di “uomini da nulla”.

Ed è proprio su questo piano che si pone la risposta di Davide che afferma e ribadisce di aver voluto fare festa davanti all’arca di Dio e di aver scelto il cammino dell’umiltà. Un cammino di abbassamento con cui Davide si riconosce servo del Signore, in un’assunzione di obbedienza che Mical non può capire ma che invece il popolo e quelle stesse serve nominate sprezzantemente dalla moglie sanno apprezzare e onorare. Davanti all’arca, il re non si è comportato da sovrano detentore di potere, ma è diventato servo e ha saltato e danzato esprimendo la gioia come un uomo qualunque.

Ma quanto Davide afferma non implica una rinuncia alla propria funzione, né tanto meno alla propria verità di re. E così, nella sua replica, Davide conferma la consapevolezza dell’elezione divina nei suoi riguardi, e va a toccare un nervo scoperto, non passando sotto silenzio il fatto che tale scelta ha anche implicato un tragico rigetto. Riaffiora il passato, e il confronto con Saul diventa nelle mani del re un’arma tagliente, mortale: Dio ha ripudiato Saul e con lui tutta la sua famiglia.

Mical, figlia di Saul, è così ributtata indietro nella sua realtà e nella sua dolorosa storia familiare. Figlia di un re rifiutato, viene ora respinta da colui che ne ha preso il posto, Davide, il nuovo re di Israele. Lei lo ha aggredito e criticato, in un eccesso d’ira ha voluto prendere le distanze, ed ora la lontananza si fa irrecuperabile ed è lei a subire un rifiuto che sarà definitivo.

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Ma l’accusa che Mical aveva rivolto a Davide ha tutta l’aria di un pretesto; la reazione della donna al comportamento del marito appare inaspettata, un po’ sproporzionata, e va probabilmente interpretata come il sintomo di una protratta frustrazione e di un risentimento a lungo represso che ora finalmente trova il modo di esplodere.

Come abbiamo già visto, Mical in passato ha amato Davide e nei tempi difficili della persecuzione da parte di Saul lo aveva salvato. Ma in seguito era stata data ad un altro, Davide era uscito dalla sua vita, per tornarvi poi, dopo tanto tempo, a strapparla al nuovo marito, con la prepotenza del potente che impone condizioni e avanza pretese, senza interrogarsi sui sentimenti delle persone che mette in gioco. E di questi sentimenti, e di quelli di Davide nei confronti della moglie che gli viene restituita, al lettore nulla viene detto.

Ma ora che lei finalmente parla e si esprime, forse diventa possibile immaginare e capire tutto quello che non è stato detto prima. Con le sue parole sferzanti, Mical sta dando voce ad una rabbia soffocata, e cerca la sua rivincita umiliando colui che l’ha umiliata. La sua reazione non è dettata dalla stoltezza, o da una frivola vanità. Ma la Mical che ora fronteggia Davide è una donna frustrata, esasperata, sofferente. E il lettore lo capisce. E Davide non sa andare al di là delle sue parole e non raccoglie il messaggio nascosto e rivelato da tanto rancore. Davide non riconosce nelle frasi dette da Mical il grido di aiuto, il senso di abbandono, l’umiliazione, il desiderio di amore. La sua replica è nobile, e mette in gioco il suo rapporto con Dio, ma il suo cuore è chiuso alla richiesta di una donna ferita. La figlia di Saul viene respinta e definitivamente abbandonata. E anche Dio sembra prendere le

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distanze: Mical resterà senza figli, senza il segno fecondo della benedizione divina. Così Mical, madre mancata, perde definitivamente di importanza; per la donna ormai non c’è più futuro, e il dramma del rifiuto della casa di Saul da parte di Dio si fa ancora più radicale: nessuno della stirpe del re rigettato potrà mai salire sul trono davidico. La storia di Saul è davvero finita.

Un regno per sempre (2 Sam 7)

Siamo al momento culminante della storia di Davide re; ma la pienezza della regalità del figlio di Iesse, del pastore di pecore fatto pastore di uomini, non dipende dalle sue vittorie, dall’espandersi del suo potere, e neppure dall’aver portato l’arca a Gerusalemme. La sua vera grandezza è nascosta nei misteriosi progetti di Dio. È il Signore che, con la sua promessa, apre a dimensioni messianiche ed escatologiche la figura di Davide e la fa entrare nell’eternità.

Il Regno e la Casa

Con la venuta dell’arca nella capitale, Davide può infine godere di una situazione di stabilità mai prima sperimentata. Ma la nuova tranquillità non rende inattivo il re, che ora vorrebbe dare alla presenza di Dio in mezzo al suo popolo una più adeguata collocazione.

La casa di cedro

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Tutto ha inizio con la presa di coscienza, da parte di Davide, della propria posizione di privilegio, resa ancor più evidente dal confronto con la sistemazione ancora provvisoria dell’arca a Gerusalemme. Pensando di rendere onore a Dio, il re decide di tentare una nuova avventura:

1 Il re, quando si fu stabilito nella sua casa, e il Signore gli ebbe dato riposo da tutti i suoi nemici all'intorno, 2disse al profeta Natan: "Vedi, io abito in una casa di cedro, mentre l'arca di Dio sta sotto i teli di una tenda". 3Natan rispose al re: "Va', fa' quanto hai in cuor tuo, perché il Signore è con te".

Davide sta finalmente godendo di una condizione di prosperità e tranquillità. Ha fatto costruire la reggia, con legno pregiato offertogli dal re di Tiro, adeguata alla propria dignità di sovrano, ha combattuto le sue battaglie ed ha portato l’arca nella sua città. Il suo regno sta vivendo una situazione di pace, e il narratore sottolinea che essa viene dal Signore ed è sua opera. Ma anche Davide doveva esserne consapevole, ben sapendo che Dio aveva guidato il suo cammino. È così che nasce in lui l’inquietudine: la sua casa è bella, degna di un re, ma il Signore, il vero re di Israele non ha una casa e la sua arca non ha altra dimora che una tenda.

Il contrasto tra i due tipi di abitazione è stridente. Da una parte, la solidità e il lusso di un palazzo in legno pregiato, che richiama la visione dei boschi secolari del Libano con i loro alberi maestosi e imponenti; dall’altra, la precaria fragilità di una tenda.

La considerazione fatta dal re ed esposta a Natan è una constatazione apparentemente semplice, ma che implica un progetto di grande novità; Davide non nomina il tempio, non parla di costruire al Signore un luogo di culto, ma è evidente che questo è

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ciò che è sotteso al suo discorso. E il progetto è ardito, e complicato. Gli altri popoli hanno re con le loro regge e dèi con i loro templi; ma il Dio di Israele non è come gli altri. Cosa può voler dire costruirgli una casa?

Davide ne parla con Natan, il profeta. È la prima volta che questi compare sulla scena e il narratore non fornisce su di lui alcun genere di notizia. Di lui non si dice neppure il nome del padre, un modo invece usuale per identificare i personaggi del mondo biblico. Senza passato, è come se sorgesse dal nulla, solo connotato dal suo essere profeta. E forse, anche la mancanza di informazioni sulla sua famiglia di origine serve a sottolineare il suo ruolo; perché il profeta è figura carismatica, uomo suscitato da Dio che svolge il suo compito non per diritto dinastico ma per incarico gratuitamente ricevuto dal Signore. Uomo dello spirito, il profeta non ha bisogno di un'ascendenza nella carne, come invece accadeva per il re e il sacerdote, per accedere al suo ministero.

Il ruolo di Natan, accanto al re, è di essere voce di Dio, presenza profetica che si fa interprete della storia per rivelarne il senso e mostrarne la realtà di storia salvifica. La constatazione di Davide e la sua implicita proposta di costruire un'abitazione per il Signore, dal momento che egli ha una casa e Dio ancora no, sembra ragionevole, e Natan istintivamente l'approva. La sua ratifica è totale, incondizionata: «Va’, fa’ quanto hai in cuor tuo». Non si tratta di condiscendenza servile nei confronti del sovrano; Natan dimostrerà, nell'episodio dell'adulterio del re con Betsabea, di saper prendere posizione, e molto duramente. Ma il Signore è con Davide, come il profeta stesso afferma, dunque è naturale giudicare positivamente l'iniziativa regale e incoraggiarla.

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Ma il profeta è colui che sta in ascolto della parola di Dio e si lascia da Lui continuamente istruire. Il profeta non è qualcuno che sa sempre tutto e subito, ma è colui che si fa intermediario della vo-lontà di Dio, in un atteggiamento di dipendenza e obbedienza che va ogni volta rinnovato. E Dio fa cambiare posizione a Natan:

4Ma quella stessa notte fu rivolta a Natan questa parola del Signore: 5"Va' e di' al mio servo Davide: Così dice il Signore: "Forse tu mi costruirai una casa, perché io vi abiti? 6Io infatti non ho abitato in una casa da quando ho fatto salire Israele dall'Egitto fino ad oggi; sono andato vagando sotto una tenda, in un padiglione. 7Durante tutto il tempo in cui ho camminato insieme con tutti gli Israeliti, ho forse mai detto ad alcuno dei giudici d'Israele, a cui avevo comandato di pascere il mio popolo Israele: Perché non mi avete edificato una casa di cedro?".

Il modo con cui viene introdotto il discorso divino rivolto a Na-tan è quello degli interventi oracolari di Dio. Il profeta è mandato a dire quello che Dio dice; le sue parole dicono la parola di Dio, egli è lo strumento debole ma assolutamente decisivo perché la parola eterna e inudibile del Signore possa assumere voce e carne e risuonare nella storia degli uomini.

Così ora Natan presta la sua voce (e tutto il suo essere) a quanto Dio vuole dire a Davide: non dovrà essere lui a fare il tempio in cui deporre l'arca. Dio non desidera avere una casa in cui abitare. Non l'ha mai chiesta precedentemente e non la vuole adesso.

Nella sua risposta, il Signore rievoca il passato del popolo, il tempo delle sue origini: l'epopea dell'Esodo, con il suo lungo peregrinare nel deserto, e l'epoca dell'insediamento nella terra, con i giudici, chiamati a pascolare un popolo che si va sedentarizzando.

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Erano stati quelli i tempi della presenza di Dio sensibilmente sperimentata nel quotidiano, in un cammino che chiedeva una fede sempre rinnovata, giorno dopo giorno, in totale dipendenza dai doni del Signore: la manna e l'acqua nel deserto, da attendere sempre fiduciosi senza mai farne scorta, e i giudici in terra di Canaan, capi carismatici suscitati da Dio volta per volta, nel momento del bisogno.

Ma ora la situazione è cambiata. Il popolo si è consolidato nella terra, e adesso ha un re, una guida stabile, un punto di riferimento costante e affidabile. Ora c'è Davide, con la sua capitale e in essa la sua «casa di cedro», segno tangibile di solidità e sicurezza. In questa nuova realtà sembrerebbe naturale costruire anche un tempio, che rappresenterebbe l'apice e il coronamento del processo di stabilizzazione del regno. Un modo per rendere a Dio il giusto onore, ma forse anche per essere ancor più come gli altri popoli, che accanto alla reggia hanno il santuario per le loro divinità.

Ma il Signore di Israele è un Dio diverso da quelli degli altri, e sovverte piani e criteri degli uomini. Dio non ha bisogno di «case di cedro» per mostrare la sua potenza e la sua importanza. E così, oppone alla proposta di Davide un rifiuto. Il progetto del re viene rigettato, ma non definitivamente; ci sarà un tempio, ma sarà Dio a decidere quando e perché, e non sarà Davide a costruirlo. La stabi-lità del regno e il luogo dell'abitazione divina non possono essere frutto della volontà e dell'opera dell'uomo, ma, solo dono della li-bera decisione di grazia da parte del Signore.

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Una casa e un casato

Poi il Signore affida a Natan un messaggio di consolazione, suf-fragato da un impegno solenne. Dio rilegge la storia passata di Da-vide e apre a quella futura con la grande promessa della discendenza e di un trono per sempre.

8Ora dunque dirai al mio servo Davide: Così dice il Signore degli eserciti: "Io ti ho preso dal pascolo, mentre seguivi il gregge, perché tu fossi capo del mio popolo Israele. 9Sono stato con te dovunque sei andato, ho distrutto tutti i tuoi nemici davanti a te e renderò il tuo nome grande come quello dei grandi che sono sulla terra. 10Fisserò un luogo per Israele, mio popolo, e ve lo pianterò perché vi abiti e non tremi più e i malfattori non lo opprimano come in passato 11e come dal giorno in cui avevo stabilito dei giudici sul mio popolo Israele. Ti darò riposo da tutti i tuoi nemici.

Davide è di nuovo chiamato «mio servo» da Dio, come già nel v. 5, un titolo d'onore solitamente riservato agli eletti come in par-ticolare Abramo (cf. Gen 26,24), Mosè (cf. Nm 12,7.8; Gs 1,2.7; 2Re 21,8; Mal 3,22) e il popolo stesso (cf. Is 41,8; 44,1.21; 49,3; Ger 30,10; 46,27.28; Ez 28,25). L'appellativo appartiene alla terminologia dell'alleanza ed esprime una relazione di intimità e di-pendenza, un atteggiamento di fedeltà e di obbedienza che il Si-gnore riconosce a Davide nel chiamarlo in tal modo.

Ed è Dio stesso a ricordare a Davide il suo passato, sintetizzandone la storia nei suoi elementi fondamentali: era pastore, legato al suo gregge, con un'occupazione ordinaria, senza pretese; e il Signore lo ha fatto capo su tutto Israele, iniziatore di una dinastia regale, trasportato dagli avari pascoli di Giuda ad una

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reggia fatta di legno di cedro. Dio era con lui, un'affermazione che ha accompagnato come un ritornello il passato di Davide (cf. 1Sam 16,18; 17;37; 18,14.28; 2Sam 5,10), e gli ha donato vittoria su tutti i nemici. Viene così delineato lo straordinario cammino del figlio di lesse, con il suo singolare destino di dolore e di gloria.

Nel sentire queste parole, al re Davide, come al lettore, riaffiorano alla mente mille ricordi. I pascoli assolati e desertici delle colline intorno a Betlemme, e un ragazzo dai capelli fulvi, bello di aspetto, che bada alle pecore del padre, con una cetra a fargli compagnia, e musiche e parole a riempire gli spazi desolati. E poi, quella giornata strana, nella casa paterna, quando lo avevano fatto venire in fretta perché l'anziano profeta Samuele voleva vederlo, e lo aveva unto in segreto, nervoso ed inquieto (era di Saul che il pro-feta aveva paura, e Davide ancora non sapeva quanto il re potesse essere pericoloso). E poi ancora le convocazioni a corte, per calmare con la sua musica il sovrano malato, in preda a sconvolgenti crisi di follia, angoscia, abbandono. Finché era giunto il giorno memorabile della valle del Terebinto. Davide, in visita ai fratelli che stanno prestando servizio nell'esercito, sente la sfida del gigante filisteo; decide di affrontarlo, lo abbatte con un sasso lanciato con la sua fionda – un'altra compagna, insieme alla cetra, nelle lunghe solitudini dei pascoli – e poi gli stacca di netto la testa.

«…perché tu fossi capo del mio popolo Israele», gli sta ora dicendo il Signore attraverso la bocca di Natan. Era cominciata così l'ascesa di Davide verso il trono. Un cammino martoriato, contraddittorio: l'esaltante capogiro del successo, i canti delle donne che esaltavano il suo eroismo, la figlia del re in sposa, ma anche la gelosia di Saul, la sua persecuzione, la morte sfiorata, la

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messa al bando, la vita da fuggiasco, le battaglie con il loro odore di sangue. Fino all'ultima amarezza, trovare rifugio presso i nemici filistei.

Il resto, è storia recente: Davide diventa capo del popolo di Dio, re in Ebron, e ora in Gerusalemme, con la sua reggia di legno di cedro e l'arca del Signore nella città. Il Signore è con lui, ed è questo che lo ha messo in salvo da tutti i suoi nemici. L'intera vita del figlio di Iesse è così condensata da Dio in due brevi frasi, poche parole capaci di racchiudere un lungo passato di elezione, di amore preferenziale e di doni impensati.

L'oracolo divino si apre adesso alle promesse per il futuro: il nome di Davide sarà grande, il popolo abiterà in pace la terra ad esso donata e il re godrà finalmente di una situazione di riposo da tutti i suoi nemici.

Finora, l'esistenza del popolo di Israele è stata difficile, continuamente segnata dall'oppressione e dalle guerre. L'insediamento e la vita nella terra, sotto la guida dei giudici e poi del re Saul, ha conosciuto tempi di grande pericolo, nello scontro con le aggressive popolazioni circonvicine, con momenti di serio timore per la propria sopravvivenza. Ma ora, Dio promette pace e stabilità, e un luogo sicuro in cui dimorare tranquilli. Il paese di «latte e miele» (Es 3,8.17; Nm 13,27; Dt 26,9.15; ecc.) in cui il Signore ha condotto Israele diventerà finalmente una terra di vita serena, senza più agitazione ad angoscia, ed anche Davide potrà finalmente conoscere un tempo di tregua e di riposo, liberato dall'aggressione dei nemici.

Il percorso delle promesse divine iniziato con la chiamata di Abramo (cf. Gen 12,1-3) raggiunge qui il suo culmine e la benedizione si esplicita nelle sue dimensioni fondamentali. II dono

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della terra a cui il Signore si era impegnato si sta ora realizzando in pienezza, facendo accedere Israele a un possesso non puramente materiale del paese, ma accompagnato da pace e sicurezza. E il figlio impossibile del patriarca segnato dalla sterilità, che, secondo la promessa, è diventato popolo grande, conosce ora una stabilità e una certezza di vita mai conosciute prima. Perché ora questo popolo ha un re, a cui Dio formalmente assicura una discendenza imperitura. Per il solenne impegno di Dio, il popolo della promessa vivrà per sempre.

Il Signore ti annuncia che farà a te una casa. 12Quando i tuoi giorni saranno compiuti e tu dormirai con i tuoi padri, io susciterò un tuo discendente dopo di te, uscito dalle tue viscere, e renderò stabile il suo regno. 13Egli edificherà una casa al mio nome e io renderò stabile il trono del suo regno per sempre. 14Io sarò per lui padre ed egli sarà per me figlio. Se farà il male, lo colpirò con verga d'uomo e con percosse di figli d'uomo, 15ma non ritirerò da lui il mio amore, come l'ho ritirato da Saul, che ho rimosso di fronte a te. 16La tua casa e il tuo regno saranno saldi per sempre davanti a te, il tuo trono sarà reso stabile per sempre"". 17Natan parlò a Davide secondo tutte queste parole e secondo tutta questa visione.

La promessa della discendenza regale è introdotta da una formula solenne, in terza persona, che enfatizza l'importanza della dichiarazione che segue e la riassume proletticamente: «Il Signore ti annuncia che farà a te una casa». Come gli autori generalmente fanno notare, tutto si gioca sulla parola «casa» nel suo doppio senso di «abitazione, palazzo, tempio» e «casato, famiglia, dinastia». Davide vuole costruire una casa a Dio, un tempio in cui abitare, ma è invece Dio che gli farà il casato. Il re vuole dare un

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luogo stabile all'arca del Signore, ma è invece il Signore che darà stabilità perenne al re, con una dinastia che ne prolungherà la carne e la memoria di generazione in generazione.

Verrà il tempo in cui Davide morirà, della morte benedetta e serena di chi ha compiuto il suo tempo e portato a pienezza il numero dei suoi giorni; e si ricongiungerà con i suoi padri, accolto da una terra amica e dalla moltitudine di coloro che lo hanno preceduto nel cammino privilegiato degli eletti di Dio. Ma non tutto morirà con lui. Un discendente uscito dalle sue viscere, suo sangue e sua carne, prolungherà la sua vita e siederà sul suo trono, perpetuandone il nome.

E sarà proprio questo discendente ad edificare la casa al Signore. Il Santo di Israele che promette a Davide di fare grande il suo nome (cf. v. 9) attraverso la sua discendenza, da questa progenie regale riceverà una casa dedicata al suo nome, un tempio santo che dovrà servire a celebrare e glorificare il nome divino tra il popolo e in mezzo alle genti.

E questo figlio di Davide sarà figlio di Dio: «Io sarò per lui padre ed egli sarà per me figlio» (cf. anche 1Cr 17,13; 22,10; 28,6). Con queste parole il Signore stabilisce un legame indissolubile con la casa di Davide. La metafora di paternità che, insieme a quella sponsale, serve tradizionalmente ad esprimere la relazione di alleanza tra Dio e il suo popolo, viene qui esplicitata e usata per creare una sottile allusione: il re con cui Dio si impegna in un rapporto di fedeltà è figlio di Davide, ma sarà il Signore ad essergli padre. Essere annoverato tra i grandi e ricevere da Dio un nome grande, per Davide, vuol dire ultimamente generare un figlio per Dio.

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Questa alleanza tra il Signore e la discendenza davidica sarà un'alleanza per sempre, la cui perennità si baserà unicamente sulla fedeltà divina. Davide, il padre nella carne, potrà contare, per suo figlio, su una paternità che viene dall'alto, capace di andare al di là della carne, e dunque anche al di là di ogni debolezza. Il figlio di Davide potrà anche venir meno alla relazione, potrà anche tradire, ma Dio resterà fedele per sempre e non lo abbandonerà mai. Come un padre, il Signore saprà correggere il figlio di Davide e recupe-rarne errori e infedeltà.

La punizione con cui il Padre celeste lo colpirà sarà un intervento salutare, segno di amore, che dovrà aiutarlo a ritornare in sé e a comprendere il male fatto, così da lasciarsene liberare. Verga e colpi come quelli che sogliono infliggere gli uomini non gli verranno risparmiati, ma sarà per consentirgli di prendere coscienza della necessità di cambiare, facendo diretta esperienza della forza distruttiva che è insita nel male. La possibilità del peccato e la prospettiva della debolezza sono dunque messe in conto, ma anche già recuperate: come un padre, Dio aiuterà questo suo figlio privilegiato a imparare la via del bene.

Non così era stato per Saul, invece rifiutato da Dio e da cui la grazia si era un giorno drammaticamente allontanata. Il predecessore di Davide viene ora esplicitamente menzionato, nell'oracolo pronunciato da Natan, per sottolineare la diversità della relazione instaurata dal Signore, e per enfatizzare l'assoluta e libera gratuità dell'elezione divina. Se Saul ha conosciuto il rigetto e l'abbandono, il tragico silenzio di Dio per sfuggire al quale il sofferente re aveva persino cercato la voce muta dei morti (si ricordi l'episodio di Endor, in 1 Sam 28), il figlio di Davide sarà invece corretto, guidato ed educato, e sempre accompagnato dalla

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benevolenza del Signore. Casa, regno e trono saranno stabili per sempre, per sempre garantiti da questa scelta misteriosa e dall'indefettibile, fedele amore divino che il profeta sta ora assicurando ad un Davide attonito, sovrastato da tanto favore.

La fedeltà di Dio

18Allora il re Davide andò a presentarsi davanti al Signore e disse: "Chi sono io, Signore Dio, e che cos'è la mia casa, perché tu mi abbia condotto fin qui? 19E questo è parso ancora poca cosa ai tuoi occhi, Signore Dio: tu hai parlato anche della casa del tuo servo per un lontano avvenire: e questa è la legge per l'uomo, Signore Dio! 20Che cosa potrebbe dirti di più Davide? Tu conosci il tuo servo, Signore Dio! 21Per amore della tua parola e secondo il tuo cuore, hai compiuto tutte queste grandi cose, manifestandole al tuo servo. 22Tu sei davvero grande, Signore Dio! Nessuno è come te e non vi è altro Dio fuori di te, proprio come abbiamo udito con i nostri orecchi. 23E chi è come il tuo popolo, come Israele, unica nazione sulla terra che Dio è venuto a riscattare come popolo per sé e a dargli un nome operando cose grandi e stupende, per la tua terra, davanti al tuo popolo che ti sei riscattato dalla nazione d'Egitto e dai suoi dèi? 24Hai stabilito il tuo popolo Israele come popolo tuo per sempre, e tu, Signore, sei diventato Dio per loro.

Dinanzi al dono divino, Davide reagisce con il rendimento di grazie e la preghiera. Consapevole della sua piccolezza e indegnità, il re celebra l'immensità di Dio e della sua incommensurabile grazia. Ora, la «casa» cui il figlio di Iesse fa riferimento (v. 18) non è né il tempio che egli voleva costruire per il Signore né il suo casato futuro oggetto della promessa divina, ma è invece la sua famiglia di origine, così piccola e insignificante davanti alla grandezza di tutto

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ciò che Dio ha operato per lui. Eppure questo, dice Davide, è ancora poca cosa per il Signore, che vuole fare molto di più e predice un futuro di gloria per la «casa» del suo servo (v. 19), in questo caso la sua famiglia attuale, che nel progetto divino diventa una dinastia inestinguibile, casato benedetto e imperituro.

Sopraffatto dalla promessa ricevuta e dal ricordo di tutto ciò che il Signore ha operato nei suoi confronti, Davide non menziona neppure più il suo desiderio di edificazione del tempio. Dimentico dei propri personali piani di realizzazione e rimasto senza parole, il re è ora tutto concentrato su Dio e sulle sue meraviglie, nella serena certezza di essere conosciuto e amato dal Signore. Davide non deve spiegare nulla, il suo cuore è aperto e consapevole; Dio conosce la sua miseria ma anche il suo desiderio di bene: «Tu conosci il tuo servo, Signore Dio!» (v. 20b).

Il sovrano di Israele si proclama servo (per ben dieci volte lo ripeterà nella sua preghiera), per esprimere il suo atteggiamento di umiltà e dipendenza, lui che pure è il re. Ma è re perché il Signore lo ha fatto tale, rivelandosi come Dio «grande» che fa cose «grandi», concedendo al suo eletto di conoscerle e ammirarle.

E poiché è sembrata al Signore «piccola» cosa lo straordinario cammino già fatto percorrere a Davide, Egli ha dischiuso, davanti agli occhi stupiti del suo eletto, cammini ancora più smisurati e impensati.

Grato e confuso, il figlio di Iesse inizia il suo rendimento di grazie, nella proclamazione della misericordia divina. Il Signore ha fatto e farà cose grandi per Davide, secondo la misura del suo cuore e nella fedeltà alla propria parola; e il Signore ha fatto cose grandi per il suo popolo, riscattandolo dalla schiavitù.

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Il re si apre così alla preghiera di lode, ricordando e celebrando le meraviglie di Dio e della sua storia di salvezza: la redenzione dall'Egitto, i segni e i prodigi, l'alleanza. Il Dio che è entrato nella storia degli uomini scegliendo Israele come suo popolo è ricono-sciuto come ineguagliabile: nessuno è come Lui, Egli è il solo Si-gnore.

Con la sua professione di fede nel Dio unico, Davide si riallaccia alla tradizione fondante del Decalogo (cf. Es 20,2-3; Dt 5,6-7) e dello Shema‘ Israel (cf. Dt 6,4). Passata di generazione in generazione e di bocca in bocca, l'affermazione dell'unicità divina ha formato la coscienza di Israele e lo ha fatto entrare in un rapporto privilegiato con il Signore, in un legame di mutua apparte-nenza, necessariamente esclusivo. Confessare l'unicità del Dio liberatore vuol dire proclamarlo come Dio, cioè uno, assoluto, non relativizzabile nella molteplicità.

Ma se nulla e nessuno è come il Signore, anche Israele è unico e ineguagliabile, proprio a motivo di ciò che Dio ha fatto per lui, intrecciando con lui una relazione unica, di predilezione, che fa di quel popolo il possesso particolare di Dio, che Egli si è riscattato per sé.

Per due volte, nel v. 23, Davide utilizza il verbo riscattare. Nella legislazione cultuale si usa a proposito del riscatto dei primogeniti (cf. Es 13,13.15; 34,20; Nm 18,15), ma riferito a Dio come soggetto indica la sua azione di liberazione e salvezza, sia nei confronti di un individuo che a favore del popolo. Così, spesso l'orante, soprattutto nei Salmi, chiede di essere liberato o rende lode a Dio che lo ha tratto in salvo dai pericoli, dai nemici e dalla morte (cf. Sal 25,22; 26,11; 31,6; 49,16; 55,19; 69,19; 71,23; 119,134), e il popolo riconosce nel Signore Colui che lo può salvare

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dal male (cf. Sal 25,22; 34,23; 44,27; 130,8) e, in particolare, che lo ha riscattato dalla schiavitù d'Egitto (cf. Dt 7,8; 9,26; 13,6; 15,15; 21,8; 24,18;32 Mi 6,4; Sal 78,42).

Questa opera di liberazione, da parte di Dio, si apre all'acquisizione amorosa. Il popolo riscattato diventa proprietà del Signore, possesso desiderato e amato, oggetto di attenzione particolare e privilegiata. Dio riscatta Israele «per sé», lo fa suo popolo e, mentre gli dona la libertà, gli dona il nome.

L'espressione qui usata a proposito del nome è particolare e significa «imporre, dare il nome a» qualcuno (cf. Dn 1,7), donandogli così consistenza personale e una nuova identità. La liberazione dall'Egitto fa di Israele un popolo nuovo, originato da Dio, che da Dio accoglie la propria identità e la propria realtà più profonda.

Ma donare un nome vuol dire anche assicurare la perpetuità del ricordo, e perciò una vita che si apre al futuro e in qualche modo rimane per sempre.

Se dunque nome e discendenza sono i doni che garantiscono la vita, ebbene, afferma Davide nella sua preghiera, il nome è il dono che Dio fa ad Israele per sempre, riscattandolo per sé e facendo cose grandi. È il Signore, con il suo intervento di liberazione e di grazia, all'origine dell'esistenza di Israele come popolo, è la sua iniziativa a creare il legame di appartenenza che lo costituisce, e a dargli quel nome che lo stabilisce come sua stirpe per sempre.

Nulla può provocare o produrre una tale realtà. Essa è frutto di un amore totalmente gratuito, azione di grazia tutta basata sulla libera scelta divina, nell'insondabile mistero della sua elezione. È in questa linea che Davide, con la formula di alleanza utilizzata nel v. 24, sintetizza tutta l'opera di Dio e la sua potenza di salvezza: «Hai

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stabilito il tuo popolo Israele come popolo tuo per sempre, e tu, Signore, sei diventato Dio per loro». Indissolubili, ormai, come lo sposo e la sposa; nel dono senza confini che unisce un padre al figlio, per sempre.

25Ora, Signore Dio, la parola che hai pronunciato sul tuo servo e sulla sua casa confermala per sempre e fa' come hai detto. 26Il tuo nome sia magnificato per sempre così: "Il Signore degli eserciti è il Dio d'Israele!". La casa del tuo servo Davide sia dunque stabile davanti a te! 27Poiché tu, Signore degli eserciti, Dio d'Israele, hai rivelato questo al tuo servo e gli hai detto: "Io ti edificherò una casa!". Perciò il tuo servo ha trovato l'ardire di rivolgerti questa preghiera. 28Ora, Signore Dio, tu sei Dio, le tue parole sono verità. Hai fatto al tuo servo queste belle promesse. 29Dégnati dunque di benedire ora la casa del tuo servo, perché sia sempre dinanzi a te! Poiché tu, Signore Dio, hai parlato e per la tua benedizione la casa del tuo servo è benedetta per sempre!".

Dopo il rendimento di grazie che celebra le meraviglie operate dal Signore a favore del suo popolo, il re si appella ora alla fedeltà divina, perché mantenga fede alla promessa e compia quanto an-nunciato. La dinastia davidica, questa «casa» edificata per il suo Unto dal Dio di Israele, sarà stabile per sempre e ciò sarà motivo di lode per il nome del Signore.

Il sostantivo «nome», compare a più riprese nel capitolo. È oggetto della promessa di Dio a Davide nel v. 9 e fa parte dei doni che il Signore ha fatto a Israele insieme alla libertà dall'Egitto e a quelle cose grandi e tremende che il re ricorda nel suo rendimento di grazie.

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Ma è anche il nome divino, che indica la realtà stessa di Dio e ne segnala la presenza, con tutta la sua gloria e la sua potenza di salvezza. Il tempio è la casa che Salomone edificherà al nome santo (v. 13: «Egli edificherà una casa al mio nome e io renderò stabile il trono del suo regno per sempre»); e, afferma Davide, la fedeltà di Dio alle sue promesse aprirà all'esaltazione del suo nome: «E sarà grande il tuo nome per sempre nel dire: Il Signore degli eserciti è Dio su Israele» (v. 26).

La fedeltà all'alleanza provoca la lode e ne è insieme il conte-nuto; proclamare che il Signore è il Dio di Israele, che mantiene le sue promesse e non viene mai meno al suo impegno, questo vuoi dire magnificare il suo nome. Lodare il Dio grande (v. 22) che farà grande il nome di Davide (v. 9) e ha fatto cose grandi per lui e per il suo popolo (vv. 21.23) è un modo non solo per dichiarare grande il nome divino ma anche per permettergli di manifestarsi come tale.

Ed ecco allora, da parte del re, la richiesta fatta a Dio di restare fedele alla sua scelta e alla sua promessa, donando una casa perennemente stabile, e benedetta per sempre (cf. Sal 89,2-5). Alla fine della sua preghiera, il servo, il pastore, chiede benedizione; il piccolo di una piccola casa affida al Signore la grandezza della promessa che si apre all'eternità.

Davide accoglie con riconoscenza i grandi doni di Dio e insieme osa chiedere ancora di più; si dichiara indegno, ma sa che il Signore va sempre al di là di ogni umano pensiero e desiderio. E allora, a partire dalla stessa promessa di Dio, chiede benedizione: perché la sua casa permanga per sempre, e sia per sempre benedetta, secondo la parola del Signore.

Per l'ultima volta, concludendo la sua supplica, Davide si ri-volge a Dio chiamandolo Signore, un titolo che per sette volte ha

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ripetuto nella sua preghiera. Il figlio di Iesse ricorda al suo Signore quanto ha voluto rivelargli, impegnandosi formalmente con la sua parola autorevole e veritiera. Dio ha parlato, e Davide può esserne certo: la sua casa sarà benedetta per sempre.

Ma la benedizione va accolta, amata, custodita. La fedeltà del Signore non si lascia vincere dall'infedeltà dell'uomo, ma chiede attenzione, ricerca, umiltà; e, nell'errore, il riconoscimento della colpa per permettere al perdono di Dio di operare il suo misterioso cammino di salvezza. Davide chiede benedizione appellandosi alla fedeltà di Dio («poiché tu, Signore, hai parlato», dice nella conclu-sione della preghiera), ma presto sarà la sua fedeltà di servo che verrà meno. E il Signore manterrà la promessa, ma dentro una realtà ormai segnata dalla morte.

Ma prima, il figlio di Iesse sperimenta l'ebbrezza del successo, e la gioia del dono di Dio che si realizza. Il suo regno si organizza, si consolida, la sua sfera di influenza si allarga. È un momento esaltante per il re pastore, che diventa sempre più influente e passa di vittoria in vittoria.

Betsabea e il Re assassino(2 Sam 11)

Una donna bella

1 All'inizio dell'anno successivo, al tempo in cui i re sono soliti andare in guerra, Davide mandò Ioab con i suoi servitori e con tutto Israele a compiere devastazioni contro gli Ammoniti; posero l'assedio a Rabbà, mentre Davide rimaneva a Gerusalemme.

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La guerra contro gli Ammoniti riprende; Davide, al momento giusto, decide di sferrare l'attacco finale ponendo l'assedio alla capitale Rabbà. Ioab è incaricato di portare a termine l'annientamento dei nemici, mettendo così fine alla lunga campagna di ritorsione contro gli Ammoniti colpevoli di aver pesantemente offeso il re di Israele. L'esercito si accampa intorno alla capitale nemica, mentre Davide rimane a Gerusalemme. Ciò che appare significativo per il lettore è il contrasto, segnalato anche dalla maggior parte dei commentatori, tra l'esercito inviato a combattere e il permanere di Davide a Gerusalemme. In realtà, sembra che altre volte l'esercito sia andato a combattere senza Davide, sotto il comando di Ioab. Non è forse così strano, allora, che anche adesso, ad assediare la capitale nemica venga inviato il comandante in capo, anche perché espugnare la città avrebbe probabilmente richiesto molto tempo e Davide aveva certamente impegni amministrativi e di governo a cui fare fronte.

Ma il modo in cui questo nuovo capitolo inizia, con l'annotazione dei re che vanno in guerra e la specificazione che Davide invece è rimasto nella propria capitale, porta il lettore a chiedersi se non stia avvenendo qualcosa di particolare. Certo, sono annotazioni che devono servire per il prosieguo del racconto, e i re possono andare in guerra anche semplicemente facendo muovere le proprie truppe, e si potrebbero trovare diverse spiegazioni e attenuanti per il comportamento di Davide. Ma il narratore non offre indizi né chiarimenti in questo senso, si limita a dire che è tempo di guerra e che Davide non è tra i combattenti, il re è rimasto nella sua città. E chi legge ha come l'impressione di sentire una nota stonata in questo restare a Gerusalemme, come se da queste

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premesse bisognasse attendersi qualcosa, e probabilmente negativa. Come se si percepisse che c'è qualcosa che non va.

È così che, fin dall'inizio del capitolo, il narratore sembra voler insinuare un dubbio, e discretamente suggerire che forse Davide sta cominciando a esercitare in modo non giusto la sua potestà di re. Mentre i suoi uomini combattono e rischiano la vita sul campo di battaglia, il loro capo e pastore rimane nella propria reggia, in comodità e sicurezza, senza condividere con il proprio esercito rischi e fatiche. Poi, quando la guerra starà per finire e Rabbà assediata sul punto di cedere, Davide raggiungerà i suoi soldati, ma solo per poter essere il primo ad entrare da trionfatore nella città conquistata e prenderla così a proprio nome (cf. 12,26-31). L'impressione che se ne ricava è che il re di Israele stia assumendo un atteggiamento e una mentalità di privilegio, scivolando in un'assunzione della regalità intesa non come servizio ma come esercizio di potere.

Comincia così un episodio inquietante, tra i più cupi della storia di Davide, che avrà conseguenze drammatiche. La narrazione è scarna, ridotta all'essenziale:

2Un tardo pomeriggio Davide, alzatosi dal letto, si mise a passeggiare sulla terrazza della reggia. Dalla terrazza vide una donna che faceva il bagno: la donna era molto bella d'aspetto. 3Davide mandò a informarsi sulla donna. Gli fu detto: "È Betsabea, figlia di Eliàm, moglie di Uria l'Ittita". 4Allora Davide mandò messaggeri a prenderla. Ella andò da lui ed egli giacque con lei, che si era appena purificata dalla sua impurità. Poi ella tornò a casa.

Il disagio iniziale, provocato nel lettore da quel permanere di Davide a Gerusalemme, ora trova una conferma; c'è qualcosa,

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nell'essere re di Davide, che non è più «secondo il cuore di Dio» (Cf. 1Sam 13,14). E questo adesso si mostra, in tutta evidenza: approfittando della propria situazione di privilegio, il figlio di Iesse prende la moglie di un suo ufficiale, che sta combattendo per lui nella campagna contro Rabbà.

Il sovrano di Israele, con la sua guerra, sta affrontando e risolvendo un increscioso problema di rapporti con un popolo circonvicino, dando una dimostrazione di forza a beneficio anche degli altri sovrani della zona. Ma in tale congiuntura, vive all'interno del proprio regno una situazione contraddittoria, che contrasta ironicamente con quanto sta avvenendo al di fuori: il re degli Ammoniti aveva maltrattato e offeso gli ambasciatori di Israele, e ora è Davide che maltratta e offende un suo suddito, commettendo adulterio con la moglie di lui; l'onore di Davide è stato messo in gioco dall'affronto subito, ma egli non va personalmente a salvare il proprio onore e mette invece in gioco l'onore di un suo ufficiale, portando la moglie al tradimento; e mostra la propria forza di re conquistando la donna di un altro, mentre gli altri combattono e muoiono per conquistargli una città.

Tutto avviene, apparentemente, per un fortuito concorrere di circostanze. Davide, dopo un prolungato riposo pomeridiano, sta passeggiando sulla terrazza del suo palazzo, la sua lussuosa casa di legno di cedro, certamente situata in posizione elevata rispetto alle altre abitazioni. Da lì, può abbracciare con lo sguardo tutta la città e assaporare la gioia di possedere una tale capitale per il suo regno. Gerusalemme si stende ai suoi piedi, e questo ha certamente anche un valore simbolico; egli è il re, e domina su tutto.

Mentre sta così passeggiando, qualcosa cattura il suo sguardo: una donna sta facendo il bagno, forse nel cortile della propria casa.

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E si tratta di una donna «molto bella di aspetto». Anche Davide era stato definito in modo analogo dal narratore quando per la prima volta era apparso sulla scena. Samuele era andato a Betlemme, in casa di Iesse, per ungere segretamente il nuovo re che Dio gli avrebbe indicato. Ma nessuno dei figli del suo ospite si era rivelato essere il prescelto. Finché Samuele aveva chiesto che venisse convocato anche il figlio minore, che stava sulle colline desertiche a pascolare il gregge paterno. E quando questi era finalmente arrivato, il profeta aveva avuto la conferma: era quello il nuovo Unto del Signore. E così viene presentato al lettore il giovane Davide: «era fulvo, con begli occhi e bello di aspetto» (1 Sam 16,12). Una dimensione positiva accomuna i due, ma proprio la bellezza diventa ora per Davide una trappola. Attratto da tanta avvenenza, il re abbandona ogni altra considerazione di lealtà, onestà e buon senso, e decide di avere quella donna.

Si può facilmente immaginare la scena, ed è utile farlo; per ca-pire, e anche per scusare. Sta calando la sera, dopo una calda giornata primaverile, che affatica e indebolisce le forze. Davide si è da poco svegliato, ancora un po' illanguidito dal riposo pomeridiano. La sua è stata una vita intensa, fatta di trionfi e di tragedie, di successi personali e di fughe disperate; e forse, in questo momento, ne sta sentendo il peso, con la preoccupazione della guerra in corso e con quell'abisso di solitudine che l'elezione divina sempre comporta. Nella quiete un po' malinconica della sera, si mette a passeggiare sulla terrazza, e vaga con lo sguardo, contemplando la sua Gerusalemme al tramonto: l'orizzonte infuocato, le case che si accavallano, in un labirinto di piccole vie, le colline pietrose del deserto di Giuda, con le loro geometrie di ombra e di luce, che il

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sole colora di giallo e di oro. E poi, all'improvviso, proprio al di sotto della reggia, una donna nuda, bella.

Davide subito se ne invaghisce e, travolto dalla passione, manda a chiedere informazioni. Il re incarica un suo sottoposto di accertarsi sull'identità della donna che ha visto dalla terrazza, e che, sembra suggerire il testo, egli aveva già riconosciuto. Davide sembrerebbe sapere già di chi si tratta, e del resto il marito di lei, Uria l'Ittita, doveva essergli ben noto, essendo un ufficiale del suo esercito, che faceva parte del gruppo dei «Trenta» (cf. 23,39).

Se le cose stanno così, la decisione, da parte del re, di prendere la donna appare sotto una luce diversa, più complessa. Davide sa già, fin dall'inizio, che Betsabea è sposata, eppure questa consapevolezza non lo ferma. Chiede informazioni, ma sono in realtà delle conferme, e che la donna sia moglie di un altro non è una sorpresa per lui. Non l'ha saputo solo in un secondo tempo, dopo aver pensato e sognato di poterla prendere legittimamente, dopo che il desiderio era cresciuto nell'illusione, fino a non poterlo più controllare; Davide fin dal primo momento ha saputo che Betsabea non poteva essere sua e ha dovuto mettere a tacere la propria coscienza per prendere la sventurata decisione.

Ma questo indica anche che fin dal primo momento il figlio di Iesse è stato come travolto da una passione violenta, a cui neppure ha tentato di resistere. Sotto la spinta di un imperioso, subitaneo bisogno di intimità sessuale, Davide si è trovato, a dimenticare ogni legge di giustizia e di prudenza, ad ignorare doveri e responsabilità, senza neppure curarsi dei possibili rischi. E persino il fatto che la donna fosse sposata ad Uria, invece di essere un freno, è forse sembrato ai suoi occhi, paradossalmente, un elemento favorevole. Perché l'assenza del marito, impegnato sul campo di battaglia,

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rendeva Betsabea più facilmente accessibile e momentaneamente disponibile.

Così, dopo aver visto la donna in tutta la sua nuda bellezza, Davide decide di averla, e la manda a prendere. Il passaggio tra la decisione e la sua esecuzione è automatico: il re può dare ordini senza farsi alcun problema, nella certezza di essere obbedito. E anche se chiede di avere ciò che non gli appartiene, chi può contrapporglisi? Nelle sue mani è il potere, e Davide lo usa.

Il figlio di Iesse diventato re si sa diverso, privilegiato, e questo lo porta a sentirsi quasi onnipotente e a vivere il proprio potere come sovranità assoluta: lui può ciò che gli altri non possono. Invece di essere il re «fratello» descritto e prescritto dalla legge del Deuteronomio (cf. Dt 17,14-20), senza ostentazione di ricchezza (non dovrà possedere grande quantità di argento e di oro), di potenza militare (non dovrà procurarsi un gran numero di cavalli, che servono per la guerra) e di prestigio politico (non dovrà avere troppe mogli, che erano un modo per creare legami di alleanza), Davide sembra diventato sempre più un re come «quelli delle nazioni». Invece di meditare la legge giorno e notte per interiorizzarla ed assumerla ed obbedirle, Davide se ne esenta, diventa lui la legge, in una sostituzione indebita al volere di Dio e alla sua regalità, l'unica vera in Israele. Il re pastore è diventato un «potente», che usa il proprio potere per perseguire i suoi personali interessi, e non per farsi strumento di giustizia e di bene per il gregge che gli è stato affidato.

Così, invece di vivere nell'umiltà e nella dipendenza, tutto ricevendo dalle mani del Signore, il figlio di Iesse ordina, dispone, prende, in totale autonomia e illecitamente abusando della propria autorità. C'è un'obbedienza a Dio e alla realtà che Davide decide di

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scavalcare: la donna non può essere sua, appartiene ad un altro, ma Davide si comporta da padrone. Dove solo dovrebbe esserci accoglienza del dono, Davide strappa.

Quando, molto tempo prima, il popolo aveva chiesto a Samuele di avere un sovrano «come tutte le nazioni», l'anziano profeta aveva messo in guardia gli Israeliti rammentando loro il «diritto» del re: avrebbe preso le loro figlie, per farne cuoche e profumiere, e i loro figli come servi e soldati, e i campi, e gli schiavi, e gli armenti, per usarli per sé e la sua corte (cf. 1 Sam 8,4-18).

E ora anche Davide, come il re dipinto da Samuele, ha «preso» ciò che era di un suo suddito, ma in questa occasione è andato ben oltre il proprio «diritto», calpestando la legge, e disprezzando il diritto altrui. E la malattia del potere, distruttiva e mortifera, che immancabilmente colpisce chiunque ceda alla sua malia. Anche Davide se ne è lasciato contagiare, anche lui è caduto nella sua trappola mortale (eppure, avrebbe dovuto conoscerla ed esserne immune, dopo aver visto Saul ed averne sperimentato la follia).

Nulla viene detto delle reazioni e dei pensieri di coloro che vengono coinvolti nella squallida vicenda. I messaggeri eseguono gli ordini senza fare domande (e come potrebbero, davanti ad un comando del re?), Betsabea va a corte e si lascia possedere senza dire una parola (ma può una donna rifiutarsi al suo sovrano?). La vicenda si svolge come se tutto fosse ovvio e normale, come se ognuno si lasciasse usare e cosificare senza poter opporre resistenza. Così, nel silenzio più totale dei personaggi, e nella laconicità del narratore, l'adulterio velocemente si consuma.

Ma c'è una annotazione importante, pur nella essenziale brevità del racconto: la donna si era purificata, dopo l'impurità del tempo mestruale. Dunque, suggerisce al lettore il narratore, è in un

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momento fecondo (la purificazione avveniva circa a metà del ciclo: cf. Lv 15,19-28) e se concepirà, quel figlio non potrà che essere di Davide.

Poi, appagato il desiderio del re, Betsabea ritorna a casa. È tutto finito, è stata solo una breve parentesi, un'avventura da dimenticare, in quell'ambiguo permanere di Davide a Gerusalemme.

La spirale del peccato

Ma le azioni degli uomini, buone o cattive che siano, difficilmente rimangono senza conseguenze:

5La donna concepì e mandò ad annunciare a Davide: "Sono incinta". 6Allora Davide mandò a dire a Ioab: "Mandami Uria l'Ittita". Ioab mandò Uria da Davide. 7Arrivato Uria, Davide gli chiese come stessero Ioab e la truppa e come andasse la guerra. 8Poi Davide disse a Uria: "Scendi a casa tua e làvati i piedi". Uria uscì dalla reggia e gli fu mandata dietro una porzione delle vivande del re. 9Ma Uria dormì alla porta della reggia con tutti i servi del suo signore e non scese a casa sua. 10La cosa fu riferita a Davide: "Uria non è sceso a casa sua". Allora Davide disse a Uria: "Non vieni forse da un viaggio? Perché dunque non sei sceso a casa tua?". 11Uria rispose a Davide: "L'arca, Israele e Giuda abitano sotto le tende, Ioab mio signore e i servi del mio signore sono accampati in aperta campagna e io dovrei entrare in casa mia per mangiare e bere e per giacere con mia moglie? Per la tua vita, per la vita della tua persona, non farò mai cosa simile!". 12Davide disse a Uria: "Rimani qui anche oggi e domani ti lascerò partire". Così Uria rimase a Gerusalemme quel giorno e il seguente. 13Davide lo invitò a mangiare e a bere con sé e lo fece ubriacare; la sera Uria uscì per andarsene a dormire

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sul suo giaciglio con i servi del suo signore e non scese a casa sua.

Passato qualche tempo, Betsabea si accorge di essere rimasta incinta e ne informa Davide. Niente viene detto sulle emozioni e i sentimenti della donna davanti a questo nuovo evento. Certo, doveva essere spaventata, confusa. L'adulterio era colpa grave, gravemente punita (cf. Lv 20,10; Dt 22,22), e segnata da un marchio di infamia. E lei è sola ad affrontare la propria paura, l'incertezza del domani, la vergogna. Davide l'ha avuta ma poi l'ha rimandata a casa; non è iniziata una storia d'amore tra i due, non c'è possibilità di condivisione del peso da portare. Ma Davide è il re, saprà cosa fare.

E Betsabea gli manda a dire ciò che sta avvenendo. Non va lei personalmente alla reggia, ma affida il suo segreto a qualcuno, così allargando la cerchia di coloro che sanno. È rischioso, ma probabilmente meno pericoloso che farsi ancora vedere a corte, dove peraltro si va, solitamente, su invito del sovrano. E poi forse Betsabea vuole mantenere le distanze, si sente ferita (il narratore non dà indizi e non consente di sapere se lei, quella notte, fosse stata consenziente, addirittura lusingata dalle attenzioni del re, o invece solo costretta, passivamente, a subire). E allora, il suo annuncio, «sono incinta», è un grido di allarme, una richiesta di intervento e di aiuto, un tentativo di coinvolgere il re in questo nuovo evento, ma forse anche, chissà, un atto di accusa: «ecco quello che mi hai fatto».

Il peccato di Davide comincia così a manifestarsi, e si evidenzia una sua tipica dimensione: l'irreparabilità. Gli atti umani, una volta posti, permangono; non si può tornare indietro, non si può cancellarli. Se sono atti malvagi si può tentare di modificarli, di

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limitarne gli effetti, ma ciò che è stato fatto rimane, e l'uomo è costretto a confrontarsi con quella realtà, anche se vorrebbe dimenticarla ed eliminarla dalla propria vita.

È ciò che sta avvenendo per Davide. Il suo adulterio con Betsabea mostra ora le sue irrimediabili conseguenze: la donna aspetta un bambino, il tradimento si fa palese nei suoi effetti. E Davide - il lettore con lui - copre così un'altra caratteristica del male e del suo dinamismo: non solo, una volta commesso, non si può ignorarlo e fare finta di niente, ma è sempre di più di quello che si intendeva. E se non si confessa, bisogna fare altro male per nascondere quello fatto.

Davide, che desiderava solo passare una notte con una donna bella, si trova ora davanti ad una gravidanza; il suo peccato, che ha offeso un uomo e umiliato una donna, ha posto in essere una nuova realtà, al di là delle sue intenzioni. E se vuole tenere nascosto il primo peccato dovrà adesso farne un secondo: liberarsi del bambino, ingannando ancor più gravemente l'uomo tradito e ferendo ulteriormente la donna da lui usata e ora abusata.

Perciò Davide, ormai preso nel vortice, si mette immediatamente in moto e si fa mandare Uria dal campo di battaglia, con il pretesto ufficiale di avere notizie sull'andamento della campagna in corso.

E poi, Davide mette in atto il suo piano: mostrandosi attento e sollecito nei confronti del suo ufficiale, certo stanco e provato dalla guerra, lo invita ad andare a casa sua, da sua moglie. «Làvati i piedi», lo esorta premuroso il re (v. 8); che tradotto in azioni concrete vorrebbe dire: «dormi con tua moglie».

E accompagna le parole con un gesto di particolare considerazione e generosità: invia a casa di Uria cibo della mensa

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regale, qualche piatto raffinato che consenta alla coppia di festeggiare l'imprevisto ritrovarsi.

Con ciò, Davide pensa di aver chiuso l'incidente. Per Uria e per tutti, il bambino che Betsabea porta in grembo sarà il frutto di questa provvidenziale «licenza» concessa al combattente. Ora Davide può anche dimenticare la sua imbarazzante avventura.

Ma Uria non va dalla moglie e invece si mette a dormire all'ingresso della reggia con gli altri soldati e la servitù. Davide ha preparato la trappola e ordito l'inganno, ma non ha messo in conto la lealtà del suo ufficiale. Informato che Uria non è andato nella sua casa (evidentemente Davide lo sta tenendo d'occhio per essere sicuro che il suo piano abbia successo), il re lo interroga su quello che a lui appare un comportamento anomalo. Il suo suddito infatti ha una moglie bella - e Davide lo ha potuto constatare di persona - e viene da lontano; possibile che non desideri stare con lei? «Perché non sei sceso a casa tua?» gli chiede indispettito e sconcertato. E Uria l'Ittita, con quel suo appellativo che lo indica come straniero o di lontana origine straniera, risponde con disarmante semplicità (cf. v. 11).

Uria vive senza riserve il suo forte senso del dovere. Come soldato è tenuto ad osservare le prescrizioni di purità (cf. Dt 23,10-12; cf. anche 1 Sam 21,5-6), ma soprattutto, con grande sensibilità, non vuole godere di privilegi particolari e intende condividere fino in fondo la situazione dei suoi commilitoni e del suo generale e, cosa ancor più, seria, persino dell'arca del Signore.

Ma Davide è ormai dimentico di tutto, solo concentrato sulla necessità di nascondere ad ogni costo la sua colpa. E neppure il giuramento di Uria, che lo prende a garante, in quanto re, dell'osservanza alla legge, riesce ad aprire una breccia nella

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coscienza di questo sovrano che invece la legge l'ha violata, e sta ora cercando di distogliere dall'attaccamento a valori religiosi e di solidarietà proprio il suddito che è stata vittima inconsapevole del suo sopruso.

Alcuni autori pensano che Uria sospettasse qualche cosa, messo in allarme dalla strana convocazione e dall'eccessiva generosità del re; in questo caso, la risposta data a Davide e il rifiuto di andare a casa dalla moglie suonerebbero come atti di sfida, che poi pagherà a caro prezzo. Ma il lettore non ha elementi precisi al riguardo.

È pur vero che l'interesse del re per la donna e gli insoliti movimenti tra la casa di Uria e la reggia erano noti ad alcuni ed altri potevano averli notati; forse qualche indiscrezione aveva cominciato a trapelare, almeno sussurrata, ma il testo non fa cenno di questo, e invece insiste sull'inganno di Davide, e sulla contrapposizione tra i due personaggi. Uria è presentato come suddito e soldato modello e appare sincero nella sua lealtà, in aperto contrasto con la menzogna regale e i suoi grossolani intrighi. Impietoso, il narratore tratteggia il ritratto di un re cinico, ancor più spietato perché l'altro, la vittima, appare totalmente indifeso nella sua ingenuità e buona fede.

E il cinismo aumenta, perché Davide non si dà per vinto. Davanti alle nobili parole di Uria, sembra acconsentire e condividere la presa di posizione. Non gli ripete più di andare dalla moglie, ma lo accoglie alla sua mensa e prova ad aggirare l'ostacolo della lealtà del suo ufficiale facendolo bere e confidando nell'effetto disinibente dell' alcool.

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Ma neppure questo funziona. Uria torna a dormire con i servi e i soldati del «suo signore», e per la seconda volta si ripete la precisazione: «e non scese a casa sua» (cf. vv. 9 e 13).

A questo punto, non c'è più margine per tentare altre manovre, e Davide decide di risolvere la questione in modo radicale. Se Uria non può essere usato da vivo come padre del bambino, a motivo della sua testarda lealtà, servirà da morto a fare di Betsabea una vedova da sposare. Il re di Israele decide di uccidere il suo suddito. Davide è diventato come Saul.

14La mattina dopo Davide scrisse una lettera a Ioab e gliela mandò per mano di Uria. 15Nella lettera aveva scritto così: "Ponete Uria sul fronte della battaglia più dura; poi ritiratevi da lui perché resti colpito e muoia". 16Allora Ioab, che assediava la città, pose Uria nel luogo dove sapeva che c'erano uomini valorosi. 17Gli uomini della città fecero una sortita e attaccarono Ioab; caddero parecchi della truppa e dei servi di Davide e perì anche Uria l'Ittita.

Davide scrive la condanna a morte di Uria e gliela consegna perché la porti a chi dovrà eseguire l'ordine infame. La figura di Uria si fa sempre più patetica e commovente. Innocente e inconsapevole, va incontro alla morte portando lui stesso la missiva con il suo peso di sangue.

Convocato a corte, l'ufficiale aveva fatto al re il resoconto della guerra oralmente, come di solito avveniva. Gli inviati incaricati di portare messaggi generalmente ne riferivano a voce il contenuto, secondo le istruzioni impartite. Questa volta, invece, a colui che torna al fronte viene affidato uno scritto da consegnare al comandante in capo. Cosa avrà pensato Uria? Certo, doveva

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trattarsi di cosa particolarmente grave e riservata. Si trattava di un messaggio inviato dal re al generale dell'esercito in guerra; forse, conteneva segreti militari, strategie o informazioni da non divulgare, comunicazioni ad alto livello. Sarebbe stato difficile per Uria immaginare che il messaggio lo riguardasse e che per questo fosse in una missiva sigillata. Del resto, avrebbe mai potuto, un fedele suddito, pensare che il suo re lo stava assassinando usando il generale del suo esercito come sicario?

Così la missiva, ben custodita, raggiunge l'accampamento. Il tenore della lettera è di una chiarezza impressionante: poche parole, inequivocabili e senza vergogna. Davide non usa parafrasi, non addolcisce la brutalità dell'ordine, e neppure si preoccupa di quello che può pensare Ioab. Davide è il re, non deve rendere conto a nessuno del suo operare. E gli altri, devono solo obbedire.

Il racconto è a questo proposito chiarissimo: riporta l'ordine scritto dal sovrano e subito descrive l'esecuzione immediata di Ioab, senza un commento, senza frapporre alcuna considerazione. Il re scrive, e Ioab fa quello che ha letto. Tutto qui.

È lasciato al lettore di interrogarsi sulle reazioni del comandante in capo dell'esercito, di chiedersi cosa ha provato, se ha avuto delle resistenze, se ha cercato di immaginare dei motivi, di fare delle ipotesi che potessero in qualche modo spiegare una tale mostruosità. Certo non era verosimile pensare che Uria potesse essere colpevole di qualcosa normalmente punibile dalla legge. Se così fosse stato, sarebbe stato giudicato e giustiziato in patria secondo un normale iter giudiziario. Colpevole di che, allora? O non piuttosto innocente, e vittima di qualche inconfessabile intrigo reale?

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Ioab probabilmente intuisce qualcosa, certo si rende conto dell'assoluta irregolarità e illiceità di quanto gli viene chiesto. Ma è uomo d'armi, abituato al comando e all'esecuzione di ordini, e preferisce non indagare. E poi, in questo modo, facendosi complice, il generale di Davide acquista potenza, diventa custode di un ‘segreto’ che lo mette in posizione di forza, consentendogli persino la possibilità di un ricatto. Si tratta di un gioco pericoloso, perché Ioab si macchia di un crimine che anch'egli avrà bisogno di nascondere, ma i legami di connivenza, anche se rischiosi e difficili da gestire, possono apportare indubbi vantaggi e al generale si offre la possibilità di aumentare la propria influenza sul re.

Molti e vari devono essere stati i pensieri che si sono agitati nella mente del capo dell'esercito. Ma ciò che viene detto al lettore è solo che, ricevuto il messaggio, egli svolge il suo sporco compito senza proferire una parola. A testa bassa, con un'obbedienza senza repliche, da militare, anche se forse sostenuta da precisi calcoli di convenienza, Ioab, il comandante alla cui abilità e dedizione sono affidate le vite dei suoi uomini, organizza un'azione di guerra per far morire un suo ufficiale. E, come impietosamente puntualizza il narratore, altri soldati muoiono nel corso dell'operazione, messi in conto e accettati come agghiaccianti «danni collaterali», vittime innocenti destinate a pagare con la vita l'adulterio del loro re e la fedeltà senza riserve di un suo ufficiale.

Il racconto è succinto, essenziale, come narrasse cose di scarsa rilevanza e non fatti ignobili, totalmente inaccettabili. Sono solo poche parole, ma sono macigni che lasciano il lettore stordito.

Il re Davide è rimasto ormai preso nel vortice inarrestabile del peccato. E tutto è tragicamente cosificato, per salvaguardare gli interessi e il potere del re: la donna usata per il piacere di una

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notte, il bambino considerato come un oggetto di cui disfarsi falsamente attribuendone la paternità ad un altro, il fedele suddito a cui ha cercato di togliere dignità e volontà facendolo ubriacare e a cui poi ha tolto anche la vita, rendendolo definitivamente «cosa»: un cadavere inanimato.

È il meccanismo tipico del peccato, che ingrandisce sempre più: Betsabea è bella, allora la si prende; rimane incinta, allora si manda Uria da lei; Uria non ci va, allora bisogna ucciderlo. Si è cominciato con un adulterio e si finisce con un omicidio, per perpetrare il quale si fanno perire anche altri innocenti, ancora altre vittime inconsapevoli travolte dal dilagare inarrestabile del male.

È pur vero che Davide, dando istruzioni a Ioab, probabilmente pensava ad un'azione mirata, che coinvolgesse solamente Uria. Ma far ritirare i combattenti così che l'ufficiale designato rimanesse solo sotto i colpi nemici avrebbe reso troppo evidente l'intenzionalità omicida dell'operazione, e il capo dell'esercito si era probabilmente trovato costretto a far cadere in combattimento più soldati, per coprire la morte di uno con quella degli altri. È un'ulteriore manifestazione di quanto incontrollabile sia la dinamica del peccato, che produce effetti di morte che vanno sempre al di là di quello che si intendeva.

E tutto avviene come per caso: per caso quella sera Davide si è messo a passeggiare sulla sua terrazza, per caso ha visto la donna che proprio in quel momento si lavava, per caso era quello il tempo fecondo del ciclo. Se il re si fosse alzato dal letto mezz'ora prima, o dopo, probabilmente nulla sarebbe accaduto. Non c'è stata premeditazione, Davide è caduto nella trappola della tentazione quasi senza accorgersene. Anche questo fa parte della dinamica del male e del suo terribile inganno.

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E chi vi rimane coinvolto, inevitabilmente coinvolge anche altri. Non solo Uria come vittima, ma pure, in misura diversa e con differenti modalità, tutti coloro che hanno preso parte alla vicenda: Betsabea, che subisce condiscendente, i servi, che fanno da tramite, Ioab, che diventa esecutore del crimine. il male è contagioso, e si allarga a chiazza d'olio. Il peccatore è Davide, ma ora anche Ioab è responsabile della morte di Uria e per tutta la vita dovrà portarne il peso. E quando, concluso il suo compito, manda ad informare Davide che l'infamia si è compiuta, qualcosa di quel peso emerge e si fa sentire nelle sue parole.

Un re senza scrupoli

18Ioab mandò ad annunciare a Davide tutte le cose che erano avvenute nella battaglia 19e diede al messaggero quest'ordine: "Quando avrai finito di raccontare al re quanto è successo nella battaglia, 20se il re andasse in collera e ti dicesse: "Perché vi siete avvicinati così alla città per dar battaglia? Non sapevate che avrebbero tirato dall'alto delle mura? 21Chi ha ucciso Abimèlec figlio di Ierub-Baal? Non fu forse una donna che gli gettò addosso il pezzo superiore di una macina dalle mura, così che egli morì a Tebes? Perché vi siete avvicinati così alle mura?", tu digli allora: "Anche il tuo servo Uria l'Ittita è morto"". 22Il messaggero dunque partì e, quando fu arrivato, annunciò a Davide quanto Ioab lo aveva incaricato di dire. 23E il messaggero disse a Davide: "Poiché i nemici avevano avuto vantaggio su di noi e avevano fatto una sortita contro di noi nella campagna, noi fummo loro addosso fino alla porta della città; 24allora gli arcieri tirarono sui tuoi servi dall'alto delle mura e parecchi dei servi del re perirono. Anche il tuo servo Uria l'Ittita è morto". 25Allora Davide disse al messaggero: "Riferirai a Ioab: "Non sia male ai tuoi occhi questo fatto,

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perché la spada divora ora in un modo ora in un altro; rinforza la tua battaglia contro la città e distruggila". E tu stesso fagli coraggio".

Grande spazio viene dato nel racconto alle istruzioni che Ioab impartisce al suo messaggero. Il suo discorso è dettagliato, complesso, con una serie di domande che il generale prevede verranno poste dal re. E, sempre secondo le previsioni del generale, saranno domande adirate, vere e proprie rampogne, perché è inconcepibile che un combattente esperto come Ioab abbia potuto perdere uomini in un'operazione di guerra tanto sconsiderata.

Ioab sa perfettamente che era una mossa tattica insensata avvicinarsi così alle mura e attaccare la città proprio lì dove i difensori erano più forti e agguerriti. Fosse stato lui il re, lo avrebbe rimarcato, rimproverandolo per delle perdite che potevano e dovevano essere evitate. E cita persino un precedente illustre, ben conosciuto in Israele, avvenuto ai tempi dei giudici, quando Abimèlec, attaccando Tebez, aveva raggiunto la torre che era nel mezzo della città e in cui si erano rinchiusi gli abitanti cercando riparo. E dall'alto della torre, quando Abimèlec si era avvicinato alla porta per appiccarvi il fuoco, una donna lo aveva colpito a morte con un pezzo di una macina da mulino. Uno smacco disonorante, tanto che per sottrarsi alla vergogna di morire per mano di una donna, Abimèlec si fa uccidere dal suo scudiero (cf. Gdc 9,50-54).

E ora Ioab immagina che Davide avrebbe ricordato quell'episodio rapportandolo a quanto accaduto sotto le mura di Rabbà. E si sente coperto anche lui di vergogna e disonore per aver esposto i suoi uomini in modo così dissennato.

E non ci sono giustificazioni, almeno non rivelabili. Ioab ha obbedito ad una precisa direttiva del re, organizzando per un suo

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ufficiale, come gli era stato ordinato dal suo sovrano, una plausibile morte in un'azione di guerra; e non potendo far morire uno solo, aveva dovuto sacrificare altri uomini ordinando una manovra pericolosa che in altre condizioni non avrebbe mai permesso. Ma questo non si può dire, e Ioab termina le sue istruzioni al messaggero in un modo, per chi non conosce i retroscena, almeno bizzarro. Se il re andrà in collera e farà quei rimproveri e ricorderà l'episodio della morte di Abimèlec, ebbene, a quel punto il messaggero dovrà dire: «Anche il tuo servo Uria l'Ittita è morto». Come se questo potesse essere una risposta adeguata, una giustificazione pertinente. Come se questo, invece di far aumentare l'ira del re, potesse invece inspiegabilmente placarla.

Cosa avrà pensato di questo strano messaggio l'inviato di Ioab non è dato di sapere. Certo, non può immaginare la verità, ma ha probabilmente percepito un'ansia e un turbamento insoliti nelle indicazioni del suo generale e deve essersi reso conto che l'annuncio della morte di Uria rivestiva un'importanza particolare, non spiegabile solo con il fatto che quello era un ufficiale di valore.

Ma quando la staffetta arriva da Davide, trova un re inaspettatamente calmo, che ascolta in silenzio. Il messaggero anticipa le reazioni previste da Ioab e previene la collera regale fornendo la sua spiegazione, ragionevole e verosimile, del fatto di essersi troppo avvicinati alla città: i nemici avevano tentato una sortita e loro li avevano ricacciati indietro, inseguendoli fin sotto le mura; era stato lì che gli arcieri dall'alto avevano tirato e ucciso, e, conclude diligentemente l'inviato, «anche il tuo servo Uria l'Ittita è morto».

Il lettore immagina il senso di grande sollievo che queste parole devono aver provocato in ambedue gli uomini; in Davide, che

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stava aspettando ansioso la notizia, ma anche nel messaggero, che era riuscito ad arrivare in fondo al suo messaggio senza provocare la prevista ira nel re e, tutto d'un fiato, aveva infine potuto pronunciare la fatidica frase a cui Ioab dava tanta importanza. Il suo compito è finito, può rilassarsi, il re non è andato in collera, anzi, ora ha parole di benevolo conforto.

Con un cinismo agghiacciante, Davide sta infatti mandando a Ioab la sua risposta, piena di saggia e paterna comprensione: la guerra è così, miete vittime in modo indiscriminato, che Ioab non se ne rattristi troppo e continui a combattere, con vigore rinnovato. E poi, il tocco finale: «E tu stesso fagli coraggio».

Il lettore è impietrito. Davide, il re voluto e amato da Dio, prescelto fin da quando era un ragazzo, con la sua cetra e le sue pecore sulle colline di Betlemme, l'eroico Davide che affronta il mostro filisteo confidando solo nella presenza divina, il fuggiasco nobile e generoso che risparmia la vita al suo persecutore, Davide, il re di Israele benedetto dal Signore, a cui è stata promessa una discendenza regale per sempre, Davide il saggio, Davide l'Unto, Davide è un assassino. Che pacatamente manda messaggi di consolazione a chi ha fatto morire un innocente per lui.

E quando la staffetta si sente dire di riferire a Ioab: «Non sia male ai tuoi occhi questo fatto» (v. 25), certo crede che il re stia solo invitando il suo generale a riprendere coraggio e a non sentirsi in colpa per una morte casuale, ma il lettore che sa cosa davvero è successo sente con sgomento Davide affermare che «non è male» uccidere un innocente. Poi, con la morte di Uria, tutto culmina:

26La moglie di Uria, saputo che Uria, suo marito, era morto, fece il lamento per il suo signore. 27Passati i giorni del lutto, Davide la mandò a prendere e

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l'aggregò alla sua casa. Ella diventò sua moglie e gli partorì un figlio. Ma ciò che Davide aveva fatto era male agli occhi del Signore.

Il racconto si fa adesso ancora più stringato, brevissimo: Betsabea fa il lutto per Uria, diventa moglie di Davide, nasce il bambino. Davide può ora legittimamente possedere la donna bella che aveva scatenato la sua passione, e tutto sembra rientrare nella normalità.

Il narratore insiste però nel non chiamare Betsabea per nome e nel designarla invece come «moglie di Uria», continuando a precisare che Uria era «suo marito», ed era il «suo signore». Uria, e non Davide, anche se ora ella diventa «sua moglie». Ma solo perché Uria è morto, ed è morto perché Davide lo ha fatto uccidere.

Ancora una volta, nulla viene detto dei sentimenti dei protagonisti e il lutto della moglie di Uria resta indecifrabile. Il narratore non fa commenti, non sappiamo se il dolore di Betsabea era sincero, se dentro di sé si ribellava davanti a quanto il re aveva fatto; in realtà, non sappiamo neppure cosa Betsabea davvero sapesse di quello che Davide aveva fatto.

Ma c'è chi sa. Ciò che è nascosto, è visto dagli occhi di Dio, e se Davide ha mandato a dire a Ioab: «Non sia male ai tuoi occhi questo fatto» (v. 25), invece il testo inequivocabilmente chiarisce che «ciò che Davide aveva fatto era male agli occhi del Signore» (v. 27). La menzogna sembra aver ormai preso il sopravvento su tutto, ma la sua apparente vittoria non potrà durare a lungo.

Dio sa, ed ha giudicato.

Tu sei quell’uomo!(2 Sam 12)

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Dio entra ora in scena, da protagonista, e fa verità. Natan viene inviato al re peccatore e, sotto l’accusa del profeta, Davide percorre il suo difficile cammino di presa di coscienza. Un cammino che lo deve condurre ad accogliere il perdono divino e la sua consolazione, ma che lo porta anche ad un inesorabile confronto con la morte, che non abbandonerà più la sua casa.

L’accusa profetica

Il profeta Natan si presenta al re e, attraverso una parabola, prepara Davide a ricevere l’accusa di Dio che svela il suo peccato. E la denuncia profetica, che mette davanti al colpevole l’insensatezza del suo male, così che, finalmente consapevole, il peccatore confessi e si lasci perdonare.

La parabola della pecorella

1 Il Signore mandò il profeta Natan a Davide, e Natan andò da lui e gli disse: "Due uomini erano nella stessa città, uno ricco e l'altro povero. 2Il ricco aveva bestiame minuto e grosso in gran numero, 3mentre il povero non aveva nulla, se non una sola pecorella piccina, che egli aveva comprato. Essa era vissuta e cresciuta insieme con lui e con i figli, mangiando del suo pane, bevendo alla sua coppa e dormendo sul suo seno. Era per lui come una figlia. 4Un viandante arrivò dall'uomo ricco e questi, evitando di prendere dal suo bestiame minuto e grosso quanto era da servire al viaggiatore che era venuto da lui, prese la pecorella di quell'uomo povero e la servì all'uomo che era venuto da lui".

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Natan presenta al re un caso di palese violazione della giustizia. I due protagonisti sono caratterizzati e descritti in modo schematico, sottolineandone le differenze ed enfatizzando i contrasti: uno è ricco, l’altro è povero; uno ha moltissimi beni, l’altro non ha nulla; uno ha animali in gran quantità, l’altro solo una piccola pecorella.

E non è solo diversa la quantità dei beni posseduti, ma anche il rapporto intrattenuto con essi dai due uomini. Perché del ricco si afferma solo che egli possedeva molto bestiame, di cui evidentemente si occupavano servi e pastori salariati; il povero invece viveva con la sua pecorella, la cresceva con amore, era diventata per lui come una figlia.

E se uno «aveva» greggi e armenti, l’altro invece aveva comprato una pecorella. Per il ricco, i suoi possedimenti sono qualcosa di ovvio, scontato; siano essi stati comprati, ricevuti in eredità, forse ottenuti con frode, comunque gli appartengono, sono un dato di fatto che prescinde dal modo in cui egli ne è entrato in possesso. Il povero invece, lui che non ha nulla, ha pagato per quella sua unica pecorella.

Questa annotazione sul fatto che l’animale era stato acquistato evoca la fatica per mettere insieme la somma necessaria, i sacrifici fatti per avere quel denaro, e anche il rischio assunto nel privarsene per entrare in possesso di una pecorella che rappresenta certamente un investimento per vivere meglio, per averne latte e lana, ma che potrebbe ammalarsi, persino morire, lasciando il povero ancora più povero.

Per colui che non ha mezzi, la pecorella acquistata rappresenta tutta la sua ricchezza. Ed egli riversa su di essa la sua capacità di

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accoglienza e di dono, in una relazione tutta particolare. Affezionatosi alla bestiola come a una persona, la fa crescere insieme ai suoi figli, allargando la cerchia degli affetti, condividendo quel poco che ha, e insegnando a condividere. È una povertà vissuta nella dignità, nella mitezza e nell’apertura del cuore.

Il ricco, invece, ha il cuore chiuso. E quando, inaspettato, giunge da lui un ospite, non è neppure capace di spartire con lui un po’ di cibo. Dovendo preparare il pasto per il nuovo venuto, invece di prendere un capo del suo abbondante bestiame, toglie al povero l’unica pecorella che questi possedeva.

Il cibo preparato e offerto al visitatore serve ad esprimere sentimenti di accoglienza sincera, manifesta la gioia di aprire la casa e di mettere a disposizione dell’altro ciò che si ha; la condivisione del nutrimento implica comunione e amicizia, ed è uno dei modi più significativi per dare il benvenuto a colui che si riceve come ospite gradito. Ed ecco, invece, la menzogna: il pasto che il ricco offre al viaggiatore di passaggio non gli appartiene, ma è preso ad un altro; la condivisione della vita, tra il facoltoso possidente e il suo ospite, è espressa togliendo al povero la sua unica fonte di vita.

La menzione dell’arrivo del visitatore è ripetuta tre volte in uno stesso versetto, con un’insistenza fastidiosa, che forse vuole proprio evocare un’idea di intrusione, come di qualcosa che si sia imposto contro la volontà di chi lo subisce. Il lettore sembra così essere messo in grado di indovinare e persino di percepire una sensazione di molestia che il ricco aveva probabilmente provato davanti a questo arrivo imprevisto. Una seccatura, in fin dei conti, per far fronte alla quale non valeva la pena di disturbarsi troppo.

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E così, invece di privarsi di una sua proprietà e di mandare a prelevare un capo dal proprio bestiame, il ricco decide di prendere la pecorella che il povero teneva in casa, certamente più vicina e a portata di mano. Grettezza, egoismo, avarizia, insensibilità e una forma odiosa di disprezzo (sia verso l’ospite che nei confronti del povero e dei suoi sentimenti) si mescolano in questa azione ignobile, davanti alla quale non si può restare indifferenti.

E infatti, Davide reagisce, irato e pieno di indignazione:5Davide si adirò contro quell'uomo e disse a Natan: "Per la vita del Signore, chi ha fatto questo è degno di morte. 6Pagherà quattro volte il valore della pecora, per aver fatto una tal cosa e non averla evitata". 7Allora Natan disse a Davide: "Tu sei quell'uomo!

L’episodio di ingiustizia narrato da Natan al re appare un po’ generico, poco circostanziato; non ci sono i dettagli che ci si aspetterebbe dalla presentazione di un caso giuridico, non è precisato il luogo in cui il fatto è avvenuto, mancano le coordinate temporali. Non ci sono neppure indicazioni specifiche sulle relazioni che intercorrevano tra le due parti in causa e sull’identità dei due personaggi, che sono invece tratteggiati in modo schematico, con contrapposizioni che appaiono eccessive, fortemente semplificate, volutamente esemplari.

Il lettore è immediatamente portato a pensare che si tratti di un caso fittizio, ma potrebbe anche essere una vicenda realmente accaduta, di cui il profeta aveva avuto notizia e che riporta al re, pur nella sua genericità, perché questi dia un giudizio ed eventualmente, raccolte maggiori informazioni e fatta un’inchiesta, intervenga d’autorità.

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Di fatto, è così che Davide sembra capire quanto Natan gli sta riferendo; il re si adira, non entra in disquisizioni e discussioni accademiche, ma assume il caso in tutta la sua serietà. E se anche percepisce la dimensione simbolica del racconto profetico, Davide si sente messo in gioco nel suo ruolo di sovrano, garante della giustizia e giudice giusto.

Perciò, il figlio di Iesse si indigna; per impulso naturale o per dovere, perché intimamente toccato nella sua sensibilità o perché esteriormente interpellato nella sua funzione regale, comunque reagisce, entra in collera ed emette un verdetto indicando la condanna: chi ha fatto «questo» è reo di morte per un crimine spietato e il risarcimento dovuto dovrà essere il quadruplo del valore dell’animale indebitamente sottratto (cf. Es 21,37).

È a questo punto che Natan può rivelare il vero scopo della sua venuta. Con il suo racconto, egli voleva consentire al re di uscire dalla menzogna e di aprirsi alla verità, provocando in lui la consapevolezza della gravità del peccato commesso e facendo emergere il suo senso della giustizia.

La parabola profetica, perché di questo si tratta, serve infatti ad aiutare l’altro a rendersi conto della propria realtà e a confrontarsi con essa. Superando la resistenza inevitabile di chi fatica a riconoscersi in colpa e abbattendo lo schermo delle sue pretese autogiustificatorie, il racconto profetico raggiunge la coscienza del peccatore che, ignaro che quanto sta udendo lo riguardi personalmente, reagisce secondo verità e, condannando il male altrui, si autocondanna.

Così, il coinvolgimento emotivo provocato dal racconto di Natan a proposito del crudele sopruso del ricco nei confronti del

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povero permette ora alla coscienza del re di prendere il sopravvento e, pur senza volerlo, di confessare la verità. Lo scopo della parabola è raggiunto; Davide si indigna, e questo lo inchioda. L’applicazione del profeta alla sua storia personale non lascia più dubbi: «Tu sei quell’uomo!».

Il giudice giudicato

Svelata la realtà, è adesso il Signore che, attraverso il suo profeta, prende la parola e si rivolge a Davide. È Dio il vero garante della giustizia tra gli uomini, il creatore potente e buono che assicura il bene nel mondo, l’amante dell’uomo coinvolto nel male contro l’uomo.

Davide si è appropriato di Betsabea e ha ucciso Uria, ma la questione ora va affrontata e risolta al suo livello più profondo, direttamente tra Davide e Dio:

Così dice il Signore, Dio d'Israele: "Io ti ho unto re d'Israele e ti ho liberato dalle mani di Saul, 8ti ho dato la casa del tuo padrone e ho messo nelle tue braccia le donne del tuo padrone, ti ho dato la casa d'Israele e di Giuda e, se questo fosse troppo poco, io vi aggiungerei anche altro. 9Perché dunque hai disprezzato la parola del Signore, facendo ciò che è male ai suoi occhi? Tu hai colpito di spada Uria l'Ittita, hai preso in moglie la moglie sua e lo hai ucciso con la spada degli Ammoniti. 10Ebbene, la spada non si allontanerà mai dalla tua casa, poiché tu mi hai disprezzato e hai preso in moglie la moglie di Uria l'Ittita". 11Così dice il Signore: "Ecco, io sto per suscitare contro di te il male dalla tua stessa casa; prenderò le tue mogli sotto i tuoi occhi per darle a un altro, che giacerà con loro alla luce di

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questo sole. 12Poiché tu l'hai fatto in segreto, ma io farò questo davanti a tutto Israele e alla luce del sole"".13Allora Davide disse a Natan: "Ho peccato contro il Signore!".

Per due volte, all’inizio del suo discorso, il Signore usa il pronome personale «io» (v. 7), e per due volte dice «ti ho dato» (v. 8), in una ripetizione enfatica che deve sottolineare quanto Egli ha fatto per Davide. È infatti Dio, e Dio solo, all’origine della regalità del figlio di Iesse, Dio solo è l’autore della salvezza di Davide dal potere persecutorio di Saul e dalla sua volontà di morte, Dio solo ha concesso al suo protetto di regnare su un popolo unito e gli ha donato successo, potere e donne.

Il Signore rammenta a Davide il suo passato di grazia, come già aveva fatto, in tutt'altro contesto, nella profezia di Natan (cf. 2 Sam 7,8-9): allora gli aveva ricordato la sua origine di pastore, preso dai pascoli in cui badava al gregge paterno e fatto capo del popolo dell'alleanza, continuamente assistito da Dio, e da questi reso sempre vittorioso sui suoi nemici. Ora, il Signore gli enumera i doni di cui è stato fatto oggetto: l'elezione con la sua unzione misteriosa, la liberazione da Saul, la casa e le donne del re avversario e oppressore, e soprattutto il dominio incontrastato sulla totalità del popolo, sulla casa di Giuda e anche su quella di Israele.

Tanto favore divino contrasta fortemente con il comportamento di Davide che, invece di accogliere in umiltà e gratitudine quanto gli veniva elargito, ha disprezzato Colui che era all'origine del dono. L'adulterio con Betsabea e l'omicidio di Uria vengono messi davanti a Davide, a rammentargli il suo peccato, quel crimine che sembrava nascosto e ormai superato e che ora viene riportato alla luce ed appare in tutta la sua gravità.

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Per due volte viene menzionata la spada, che fa di Davide il mandante di un inaccettabile assassinio: «Hai colpito con la spada Uria l'Ittita… e lo hai ucciso con la spada degli Ammoniti» (v. 9). E tra le due frasi, al centro, risalta il riferimento lapidario all'adulterio e a quello che poteva apparire l'atto riparatore ed è invece il compimento dell'infamia: «e hai preso in moglie la moglie di Uria». Ancora una volta, il nome di Betsabea non compare; è «la moglie di Uria», e ora sposa di Davide, ma a prezzo di quel tragico colpire di spada un innocente.

Ed ecco allora l'annuncio di ciò che il Signore farà: per la terza volta viene nominata la spada, che non si allontanerà più dalla casa di Davide, e di nuovo viene ricordato il crimine commesso dal re: ha disprezzato il Signore, uccidendo Uria di spada, e si è preso sua moglie; perciò, anche le mogli di Davide verranno consegnate ad altri. Anzi, sarà uno della stessa famiglia reale a fare alle donne del re quello che egli ha fatto alla moglie del suo suddito. Dolorosamente, si apre per Davide la prospettiva di una sofferenza che si originerà dalla sua stessa carne, e che porterà alla luce quanto il figlio di Iesse ha invece consumato nel segreto e cercato in ogni modo di coprire.

Dio, attraverso Natan, si rivolge a Davide mettendogli davanti il suo peccato perché se ne lasci liberare. Agisce con lui come Davide aveva agito con Saul: quando il re impazzito inseguiva la sua ossessione e lo cercava per farlo morire, Davide, che aveva avuto l'occasione di ucciderlo ma lo aveva risparmiato, si era rivolto al suo persecutore e aveva cercato di riportarlo alla ragione (cf. 1 Sam 24). Ora è Dio, come un tempo Davide fuori della caverna di Engaddi con il pezzo di mantello regale in mano, a mendicare la

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conversione dell'altro e la sua amicizia, a pregarlo di rientrare in sé e accettare l'offerta di una rinnovata comunione.

E Davide capisce, e si lascia riconciliare. Rinunciando ad ogni difesa, il colpevole si abbandona alla misericordia divina e, final-mente liberato, si confronta con la propria verità. Adesso Davide può affrontare il proprio passato e, senza più paura, può confessare il proprio misfatto: «Allora Davide disse a Natan: "Ho peccato contro il Signore"».

La spada per sempre

Con la sua confessione, il figlio di Iesse ha riconosciuto il pro-prio peccato e si è aperto all'implicita offerta del perdono divino. La comunione con Dio è ora ristabilita, ma il crimine avvenuto deve essere segnalato, deve manifestarsi la verità del male avvenuto: la spada non abbandonerà la casa di Davide, e la morte, con la sua tragica definitività, rivelerà che il frutto del peccato non è mai fecondo di bene e di vita.

La morte del bambino

Natan rispose a Davide: "Il Signore ha rimosso il tuo peccato: tu non morirai. 14Tuttavia, poiché con quest'azione tu hai insultato il Signore, il figlio che ti è nato dovrà morire". 15Natan tornò a casa. Il Signore dunque colpì il bambino che la moglie di Uria aveva partorito a Davide e il bambino si ammalò gravemente.

La confessione della colpa consente al perdono divino di manifestarsi in tutta la sua realtà. Il colpevole non subirà la pena

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prevista dalla legge per il suo duplice reato di adulterio e di omicidio; Davide non morirà, ma quanto ha commesso dovrà inevitabilmente manifestarsi nelle sue conseguenze di morte. Ci sarà la spada annunciata nei vv. 10-12, e le donne del re pubblicamente violate, ma ancor prima, e ancor più misteriosa-mente, la morte del bambino appena nato.

Il peccato di Davide sembra aver assunto dimensioni incontrollabili, con ripercussioni sul mondo circostante e sui nemici di Dio, mettendo in causa il nome stesso del Signore, che viene disprezzato e deriso; ma, principalmente, ha evidenziato nel figlio di Iesse una drammatica chiusura alla verità e alla vita che non può restare senza effetto.

Perciò, la menzogna che ha accompagnato tutta la vicenda diventa ora palese e viene smascherata: la morte del piccolo che Davide non ha voluto come figlio renderà manifesto il rifiuto nascosto e la volontà di morte del padre. Aver cercato, da parte del re, di liberarsi del proprio figlio facendolo credere figlio di un altro era stata una specie di trasposizione simbolica dell'uccidere.

E ora questo si vede, ma soprattutto si svela il senso del peccato che è stato consumato, e si rivela l'inganno: non ci può essere vita in una realtà costruita sul male, e ancor meno a prezzo della morte di un altro. Il fatto che il marito di Betsabea sia perito ha permesso al bambino di poter nascere come figlio di Davide, ma questo non può bastare per farlo vivere, e il piccolo muore perché si manifesti l'orrore della morte di Uria.

Il peccato genera morte, e ora questo si fa visibile, ma nella carne di un innocente; e il re padre, confrontato con la morte del fi-glio (lui, che ha provocato l'altra, quella del suddito Uria), si con-fronta fatalmente con il proprio peccato.

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È necessario che qualcuno muoia per dire l'orrore e l'insosteni-bilità del male. Nella vicenda di Davide, sono Uria e il piccolo a pe-rire, vittime inconsapevoli (e questo ancora non salva); poi, nella storia degli uomini, sarà l'unico, definitivo innocente che morirà in piena consapevolezza e liberamente perdonando (e questo sarà fi-nalmente salvezza per tutti).

Ancora una volta la dinamica del peccato appare in tutta la sua inarrestabile gravità. Davide ha voluto la morte di Uria, non propriamente del bambino; ma il male commesso va sempre al di là di quanto il peccatore intendesse. E se il perdono di Dio permette a Davide di restare vivo, non può però coprire la menzogna, e il re peccatore deve confrontarsi con le conseguenze della sua iniquità.

È Natan a farsi portavoce e a darne il tragico annuncio. Poi, compiuto il suo compito, il profeta se ne va, e Davide rimane solo, ad affrontare nell'angoscia la malattia mortale del proprio figlio.

16Davide allora fece suppliche a Dio per il bambino, si mise a digiunare e, quando rientrava per passare la notte, dormiva per terra. 17Gli anziani della sua casa insistevano presso di lui perché si alzasse da terra, ma egli non volle e non prese cibo con loro.

Davide si mette alla ricerca di Dio. Il verbo che viene utilizzato all'inizio del v. 16 è il verbo «cercare, chiedere, ricercare» che ha già giocato un ruolo fortemente evocativo nel racconto di 2 Samuele. È Davide ad essere finora cercato, prima da Saul per essere ucciso, poi dagli uomini di Israele per essere fatto re, e dai Filistei per essere eliminato; ma ora invece è Davide a cercare, disperatamente, il Signore, per salvare la vita del suo bambino.

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Il re si umilia, supplica, fa penitenza. I suoi atti sono drammatici, estremi, e particolarmente significativi. Davide digiuna, rifiuta il cibo che serve per vivere, in un dolore che si chiude alla vita. E passa le notti giacendo per terra, così rifiutando il sonno, ma anche assumendo una posizione che richiama quella di un defunto, deposto sulla nuda terra, ritornato nella polvere.

Sono elementi di una gestualità sofferta, che chiede misericordia, che cerca di muovere a pietà il Signore con suppliche e penitenza, ma che rappresenta anche una sorta di anticipazione del lutto, e come un'assunzione su di sé della morte del figlio, perché questi invece possa vivere. Davanti al bambino che sta per essere ghermito dal nulla, Davide intraprende il viaggio segreto dell'ultima perdita, abbandona simbolicamente la vita e fa per lui quel lutto che aveva negato ad Uria, l'altra vittima innocente.

Poi, però, l'irreparabile si compie:

18Ora, il settimo giorno il bambino morì e i servi di Davide temevano di annunciargli che il bambino era morto, perché dicevano: "Ecco, quando il bambino era ancora vivo, noi gli abbiamo parlato e non ha ascoltato le nostre parole; come faremo ora a dirgli che il bambino è morto? Farà di peggio!". 19Ma Davide si accorse che i suoi servi bisbigliavano fra loro, comprese che il bambino era morto e disse ai suoi servi: "È morto il bambino?". Quelli risposero: "È morto". 20Allora Davide si alzò da terra, si lavò, si unse e cambiò le vesti; poi andò nella casa del Signore e si prostrò. Rientrato in casa, chiese che gli portassero del cibo e mangiò. 21I suoi servi gli dissero: "Che cosa fai? Per il bambino ancora vivo hai digiunato e pianto e, ora che è morto, ti alzi e mangi!". 22Egli rispose: "Quando il bambino era ancora vivo, digiunavo e piangevo, perché dicevo: "Chissà? Il Signore avrà forse pietà di me e il bambino resterà vivo". 23Ma ora egli è morto:

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perché digiunare? Potrei forse farlo ritornare? Andrò io da lui, ma lui non tornerà da me!".

Sette giorni passano, nell'angoscia mortale, e sono un tempo dalla portata anche simbolica. Sette lunghi giorni per entrare nel mistero della morte, sperando e pregando che il bambino guarisca. Ma al settimo giorno, il figlio di Davide cessa di vivere.

Nella narrazione si sottolinea la preoccupazione ansiosa dei servi e dei ministri di corte. Davanti al dramma che si sta consu-mando, si fa strada in loro la paura di informarne il sovrano, per il timore oscuro di una sua reazione insana. La sofferenza altrui, incontrollabile, spaventa e fa immaginare conseguenze inquietanti. C'è, da parte dei sottoposti, un atteggiamento di protezione nei confronti del re, una responsabile consapevolezza della tragedia, unita al timore di una possibile tragedia ancora più grande. I sette giorni di penitenza e di digiuno di Davide hanno manifestato, da parte del re, amore, apprensione, sentimenti confusi a cui doveva essersi mescolato un penoso senso di colpa. Il suo comportamento appare persino eccessivo, e un po' allarmante. E i suoi servi si interrogano, nervosi e impensieriti, su cosa potrà succedere ora che il bambino è morto.

E Davide, pur immerso nel suo dolore, pur sembrando assente e perso nei labirinti oscuri della propria sofferta ricerca di Dio, capi-sce. Il bisbigliare segreto dei servi gli fa intuire che qualcosa è ac-caduto. Il re dolente, esausto, percepisce che l'atmosfera è cambiata, sente intorno a sé il nervosismo imbarazzato dei suoi uomini, e comprende che è finita; quello che temeva e aspettava si è infine compiuto. Allora si scuote, e cerca conferma ponendo in modo diretto, inequivocabile, la domanda che costringe i suoi a

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pronunciare la frase spaventosa: «È morto». La tragedia si è consumata, la notte passata con Betsabea tanti mesi prima – un tempo che sembra ormai un'eternità – è giunta al suo epilogo.

È accaduto l'irreparabile, e Davide lo accetta. Ha tentato di cambiare il corso degli eventi, ha confessato la colpa, si è umiliato, ha digiunato e fatto penitenza, ma la morte ha preso il sopravvento. Il re autorevole e astuto, che aveva abilmente manovrato tutta la vi-cenda, che era riuscito ad avere Betsabea e a neutralizzare Uria mantenendo il proprio prestigio, ora si riscopre impotente, e deve dichiararsi vinto.

Non serve più lottare con la morte; finito il digiuno, il lutto, la penitenza, il re si alza, si veste, si unge, torna ad essere il pacato e rassicurante sovrano di Israele (non più il padre angosciato e sopraffatto dal senso di colpa). Poi, prima di ogni altra cosa, si reca alla presenza del Signore e si prostra; non serve più ora giacere per terra insonne, Davide si getta sì a terra ma questa volta per pro-strarsi nell'adorazione e nell'obbedienza, accettando il volere divino in tutto il suo mistero.

E poi torna nella sua casa e qui chiede di mangiare; è la vita che ricomincia, la vita, anche se ferita, che riprende il suo corso. Il bambino è morto, e Davide torna ad essere vivo. E ai servi sconcertati, che non capiscono, il re spiega il suo comportamento: la penitenza era perché il bambino vivesse; ma ora che è morto, non si può più fare nulla, è avvenuto qualcosa di definitivamente irreparabile, davanti a cui bisogna fermarsi.

La morte ha sanzionato irrevocabilmente il peccato di Davide, ma il suo potere non può durare per sempre. C'è stata una partecipazione, da parte di Davide, alla morte del bambino, con la sua penitenza e il suo dolore; ma poi bisogna che la forza vivificante

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del perdono divino si manifesti. Le due realtà, colpa e remissione, vanno tenute assieme, ricolmando, senza semplificazioni, la vita del credente. Riconoscersi perdonati vuoi dire ammettere la colpa e contemporaneamente affermare la sua fine. Se si accoglie il per-dono, vuol dire che un male c'è stato, e non lo si può dimenticare o ignorare, altrimenti non ha più senso parlare di perdono. Ma se il perdono c'è, allora il male è stato vinto. È la restituzione alla sal-vezza, in quanto perdonati; non naturalmente giusti, ma resi tali, e dunque giustificati, dal dono gratuito di Dio.

È questa realtà che Davide sta ora vivendo, confrontandosi con il male commesso. Egli ha preso su di sé e messo sul suo corpo i segni della morte mentre l'altra parte di sé, suo corpo anch'esso, il figlio malato, lottava per vivere. Ha così ammesso la colpa e accettato le sue conseguenze, ma ora deve accogliere il perdono e vivere di conseguenza. E la vita continua, e, pur nel dolore, vince; è sua l'ultima parola.

24Poi Davide consolò Betsabea sua moglie, andando da lei e giacendo con lei: così partorì un figlio, che egli chiamò Salomone. Il Signore lo amò 25e mandò il profeta Natan perché lo chiamasse Iedidià per ordine del Signore.

Dal re tornato alla vita nasce ora una nuova vita. Dopo la morte del bambino, Davide si unisce a Betsabea, la «consola» e «dorme» con lei. Tornano due verbi significativi, che hanno giocato un ruolo importante nella narrazione degli ultimi eventi. Tutta la vicenda era infatti cominciata quando, avendo inviato Davide degli ambasciatori a «consolare» il principe ammonita Chanùn per la perdita del padre (cf. 10,1-2), era stato da questi oltraggiato e costretto a rispondere con un attacco armato e l'assedio a Rabbà. E

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durante l'assedio, il re «dorme» con Betsabea, dando così inizio alla catena di morte; e ora che il peccato è stato scoperto e perdonato, di nuovo «dorme» con lei «consolandola» per la perdita del bambino.

Tutto inizia e finisce con un lutto, ma della seconda morte per la quale dare conforto, quella del figlio, Davide stesso è in qualche modo responsabile, a motivo di quel primo illecito dormire con la donna di un altro. Ed è ora di nuovo dormendo con lei che il re la consola, questa volta lecitamente, da sposi.

E solo adesso, finalmente, Betsabea torna ad essere chiamata con il suo nome. Designata come Betsabea all'inizio della storia, in 11,3, e nel resto del racconto solamente indicata come «donna» o «moglie» di Uria e poi di Davide, ora, alla fine, torna ad avere una sua propria identità, ad essere di nuovo Betsabea, e sposa del re: «Poi Davide consolò Betsabea sua moglie» (v. 24).

E dalla loro unione nasce Salomone, che porta nel suo nome una promessa di pace. Il nuovo figlio è segno definitivo del perdono, che il Signore ratifica, di nuovo inviando Natan perché, attraverso la mediazione profetica, sia resa manifesta l'inaspettata realtà di grazia.

Una realtà di predilezione e di dono che il cambio del nome del bambino serve ad indicare: Salomone, il figlio che dice la pace, è ora chiamato da Dio con un nome nuovo, ancora più impegnativo, Iedidià, che significa «amato dal Signore». Perché quel bambino appena nato non è solo un nuovo figlio che deve consolare della perdita dell'altro, ma è anche il destinatario della predilezione di-vina, luogo di amore e di presenza privilegiata di Dio, inizio di una catena di generazioni che porterà al Messia definitivo, quel «Figlio di Davide» che salverà il mondo.

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È il recupero totale del male; è il miracolo del peccato che, sotto il perdono e il dono di grazia di Dio, si trasforma e genera la storia messianica. La storia contorta e deturpata degli uomini viene trasformata dal Signore in storia di salvezza. E il re peccatore, il sovrano omicida che ha tradito l'unzione ricevuta dà ora inizio alla stirpe a cui apparterrà il Messia Salvatore.

La presa di Rabbà

La scena ora cambia, e ci, riporta sotto le mura di Rabbà, la capitale degli Ammoniti sotto assedio, dove Ioab e i suoi uomini stanno valorosamente combattendo.

26Intanto Ioab assalì Rabbà degli Ammoniti, si impadronì della città regale 27e inviò messaggeri a Davide per dirgli: "Ho assalito Rabbà e mi sono già impadronito della città delle acque. 28Ora raduna il resto del popolo, accàmpati contro la città e prendila; altrimenti, se la prendessi io, porterebbe il mio nome". 29Davide radunò tutto il popolo, si mosse verso Rabbà, le diede battaglia e la occupò. 30Prese dalla testa di Milcom la corona, che pesava un talento d'oro e aveva una pietra preziosa; essa fu posta sulla testa di Davide. Egli ricavò dalla città un bottino molto grande. 31Ne fece uscire gli abitanti e li impiegò alle seghe, ai picconi di ferro e alle asce di ferro e li trasferì alle fornaci da mattoni; allo stesso modo trattò tutte le città degli Ammoniti. Poi Davide tornò a Gerusalemme con tutta la sua gente.

Con la nascita di Salomone e la presa di Rabbà si conclude così un periodo particolare della vita di Davide. La benedizione continua: è nato un figlio prediletto da Dio, la città nemica è presa e chiamata col nome del sovrano di Israele. Continuano le vittorie, continua

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l'ascesa di Davide re, ma ora qualcosa è cambiato. La città ammonita è stata in realtà conquistata, a duro prezzo, da Ioab (quello stesso Ioab che ha fatto morire Uria), e il figlio Salomone, l’«amato dal Signore», non è frutto della potenza di Davide ma dono gratuito del Dio che tutto perdona.

Quello che è stato vero lungo tutta la storia di Davide ora si manifesta inequivocabilmente, in una strana mescolanza di gioia e di sofferenza, di colpa e di redenzione: tutto, nella vita di Davide, è stato solo dono ricevuto; e tutto immeritato. Tutto è stato grazia, ma deturpata dal peccato; e benché perdonato e recuperato, esso ha ormai creato una realtà distruttiva che porterà, inesorabile, i suoi effetti funesti. Nel futuro di Davide, è ormai entrata, prepotente, la spada; sta per cominciare una nuova storia di dolore, di violenze e di morte.

Re santo e peccatore, fedele e traditore, percosso e perdonato, il figlio di Iesse ha vissuto l'esperienza devastante della colpa e l'esaltazione del perdono ricevuto, con il dono del nuovo figlio, precursore messianico. E una nuova conoscenza di Dio si è aperta per lui, nella gioia di una comunione ritrovata. Accusato da Natan, Davide ha potuto incontrarsi con il Dio della misericordia, presenza incontrovertibile, esperienza totalizzante che il sovrano di Israele ha accettato senza sottrarsi e che lo ha radicalmente cambiato.

Davide è salvo, testimone vivente e grato della fedeltà di Dio verso i suoi, ma è colpito nei figli: il primo nato di Betsabea è morto (ma è poi nato Salomone, a manifestare la grazia insieme al peccato, realtà indivisibili), e la spada divorerà gli altri, Amnon prima, e poi l'amato Assalonne, l'usurpatore.

È una nuova storia che comincia, per il figlio di Iesse, una nuova fase della sua esistenza, in cui, nel dolore ma anche nella

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consolazione della fede, si manifesterà la sua vocazione di figura messianica, anticipazione, anche se parziale e imperfetta, del definitivo Salvatore.

Se l'esistenza del figlio di Iesse è stata ricca, variegata, esaltante e faticosa, ora la strada si fa ancora più ardua. Natan lo ha annunciato: la spada non si allontanerà più dalla casa di Davide e lo costringerà ad intraprendere un doloroso cammino di spogliazione e di abbandono.

Padre rifiutato e re ripudiato, il sovrano del popolo eletto conoscerà l'umiliazione che lo renderà grande; insultato e dileggiato, accetterà il suo destino con una fede consapevole e matura; confrontato con la morte, continuerà tenace la sua ricerca di Dio e, in una fiducia incondizionata e sempre rinnovata nel Signore che salva, consumerà lentamente la definitiva consegna di sé.