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FERNANDO MAZZOCCA Curatore della mostra La fortuna critica di Zandomeneghi dal dibattito sul realismo alla consacrazione degli Impressionisti * Il riconoscimento di Zandomeneghi impressionista tra Diego Martelli e Joris Karl Huysmans. La decisione di partire nel giugno del 1874 per Parigi rispondeva dunque alla consapevolezza da parte di Zandomeneghi dell’esaurimento dell’esperienza innovativa della macchia e dall’inattualità dell’impegno in un Realismo di denuncia sociale ormai superato da un accomodante naturalismo. I difficili esordi parigini ci sono restituiti da quella straordinaria testimonianza che sono le lettere del sempre fedele Martelli ben consapevole delle frustazioni dell’amico Federico che «campa e guadagna – scriveva a Fattori – facendo figurini, industria lucrativa, ma come ti puoi figurare impossibile ad esercitarsi da chi ha nervi di artista, per cui è continuamente tartassato da questo contrasto». Sarà sempre Martelli nella memorabile conferenza tenuta nel 1879 al Circolo Filologico di Livorno su Gli Impressionisti a ricollegare l’atmosfera del «caffè della Nouvelle Athènes sulla piazza Pigalle», luogo di

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FERNANDO MAZZOCCACuratore della mostra

La fortuna critica di Zandomeneghi dal dibattito sul realismo alla consacrazione degli Impressionisti *

Il riconoscimento di Zandomeneghi impressionista tra Diego Martelli e Joris Karl Huysmans.La decisione di partire nel giugno del 1874 per Parigi rispondeva dunque alla consapevolezza da parte di Zandomeneghi dell’esaurimento dell’esperienza innovativa della macchia e dall’inattualità dell’impegno in un Realismo di denuncia sociale ormai superato da un accomodante naturalismo. I difficili esordi parigini ci sono restituiti da quella straordinaria testimonianza che sono le lettere del sempre fedele Martelli ben consapevole delle frustazioni dell’amico Federico che «campa e guadagna – scriveva a Fattori – facendo figurini, industria lucrativa, ma come ti puoi figurare impossibile ad esercitarsi da chi ha nervi di artista, per cui è continuamente tartassato da questo contrasto». Sarà sempre Martelli nella memorabile conferenza tenuta nel 1879 al Circolo Filologico di Livorno su Gli Impressionisti a ricollegare l’atmosfera del «caffè della Nouvelle Athènes sulla piazza Pigalle», luogo di elezione degli Impressionisti immortalato proprio da Zandomeneghi, a quella, «fatta ragione ai tempi mutati e alla differente città», «baraonda tanto gioconda» dell’«antico caffè Michelangiolo di Firenze, che pur tanta parte ha avuto nei rivolgimenti dell’arte nostra paesana ». Notava, certamente compiaciuto, come proprio uno di quei vecchi ribelli italiani fosse diventato della partita di quegli «Impressionisti» che «coi loro occhi felici, godendo di tutte le sensazioni della scoperta, soffrendo tutte le torture e le fatiche della applicazione» avevano saputo percepire e rendere le «leggi della iridazione» della luce, quando «percuotendo un oggetto si frange e si rifrange, ed è per causa di questa refrazione di raggi che come voi

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sapete si decompone e diventa colore». A questa esaltante avventura aveva partecipato, sottolineava orgoglioso, «Zandomeneghi nostro, che lasciando per sempre i facili guadagni degli altri italiani alla Veloutine Fay, che intascano i tesori delle cocotte, si è messo nella nuova via ed ha esposto nel 1879 una figura di donna spensierata e galante benissimo riuscita per carattere». Era, come scriveva sempre Martelli a Matilde Gioli, «la quarta rassegna degli Impressionisti che prendono il nome più simpatico di “indipendenti” giacché hanno messo per condizione che chi si sottomette al Salon e vi espone non può esporre fra loro […] Zandomeneghi è stato invitato da Degas a fondersi in quel gruppo ed è stata non piccola soddisfazione per lui». Nella sua recensione alla mostra segnalava i «due ritratti» presentati dall’amico «considerati da un punto di vista molto originale, ed uno dei quali specialmente assai riescito», concludendo Noi che abbiamo molte buone ragioni per conoscere i ritrattati proviamo un interesse grandissimo nel considerare lo spirito intimo che esiste in queste due opere in cui il morale per così dire della persona è espresso con la stessa evidenza dei tratti fisici. La vera rivelazione era stata l’anno prima la comparsa di un’opera che si può considerare il manifesto della conversione di Zandomeneghi alla pittura della vita moderna e alla visione impressionista, quell’indimenticabile Le Moulin de la Galette dove tutto, a cominciare dal luogo, diventa emblematico di questa gioiosa adesione alla modernità che se apprezzata, come sappiamo, da Toulouse-Lautrec, non riscosse un’immediata comprensione. Lo testimonia Martelli che scriveva alla Gioli dell’irritazione dell’amico per non riuscire a vendere un dipinto che «non è brutto», anzi «assai ben riuscito, ad onta delle accuse critiche di Signorini». L’opera infatti, precisava in una lettera a Fattori, «non piace a chi lo vede dei nostri; cosa che lo mortifica estremamente. Questo quadro è buono, però non possiede qualità di ciarlatano, ed è per certi lati partecipante ad un tal genere nuovo di pittura del quale chi viene da casa non può capire né l’idea né la intenzione». In definitiva Martelli resta il solo italiano a avere compreso la novità e la grandezza dell’Impressonismo, dove inseriva da subito Zandomeneghi, quando nelle pagine di «Roma Artistica » nel 1878 sosteneva, in polemica con i virtuosi arrampanti e devoti al mercato come Boldini, che andasse invece lodato immensamente e soprattutto, perché è il solo fra gli italiani che si sia aggruppato a questa falange di indipendenti. Ora che a Parigi è il mercato centrale dell’arte vendereccia, ora che Belgi, Tedeschi, Svizzeri, Spagnuoli od Italiani calano al gran Mercato per rizzar banco e camorra ci onora il vedere un robusto ingegno, che si assimila e si associa alla gente per bene, che fa l’arte per l’amore del vero e non per conio .Abbiamo autorevoli conferme dalla critica francese, tra cui Paul Sébillot che ne apprezzava da parte sua l’intransigenza e Joris Karl Huysmans che forniva una magistrale descrizione di un capolavoro della pittura della vita moderna, colta nella sua intimità, come Mère et fille presentato nel 1880 alla quinta esposizione degli Impressionisti Madre e figlia rappresenta una vecchia madre, raffigurata come una simpatica vecchia casalinga che aggiusta l’acconciatura della figlia, seduta davanti a una finestra nella sua veste da camera. La figlia si volge ad ammirare se stessa in uno specchio con un movimento tipicamente femminile, ben colto dall’artista. Dovete vedere la cura premurosa della madre che appena osa afferrare le dorate manopole del pettine con le sue grosse e ruvide dita dalla pelle come quella di tacchino, deformate dal lavoro. Poi, immaginate il grazioso sorriso della piccola parigina che alza il suo braccio adornato da un bracialetto di corallo, o peggio, un serpente di celluloide rosa. È stato fatto al momento, eseguito senza le facce sghignazzanti così care agli odiosi imbrattatori di soggetti di genere ed è dipinto in una lieve tonalità lilla, senza né troppi né pochi dettagli. Dopo questa fase di entusiasmo determinata dalla sua adesione e dalla sua fedeltà all’Impressionismo, la critica diventerà più tiepida su un repertorio e un modo di dipingere di cui saranno colti i limiti, come quando nel 1886 Félix Fénéon irrideva l’«élégance sans imprévu» e l’«aspect parfois saponacé» dei suoi nudi femminili. Preludio alla spietata stroncatura di Paul Signac della seconda mostra personale organizzata nel 1897 dal suo mercante Paul Durand-Ruel. La sua pittura caratterizzata da «du lisse, de la pommade, du cold-cream, des petites femmes», è definita «la peinture de vieux cochon».

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La consacrazione all’insegna dell’Impressionismo da Vittorio Pica a Enrico Piceni e Roberto Longhi Ma verrà il momento del riscatto, quando il «pauvre Zandomeneghi », come l’aveva chiamato Degas, ormai dimenticato sarà definitivamente riportato alla ribalta dall’importante personale allestita nel 1914 dall’XI Biennale di Venezia. Si trattava di una vera e propria vittoria della critica più aggiornata, in quanto alla prima Biennale del 1895 la sua presenza era stata sconsigliata da Boldini che, in una lettera al sindaco di Venezia Selvatico, aveva ammesso che «quanto a Zandomenenghi, egli è un artista, ma unito a quelli che si chiamano Impressionisti […] stonerebbe immensamente, in mezzo a tanta pittura ufficiale». Nel 1914 il clima sembrava invece mutato per merito di nuovi critici militanti come Ugo Ojetti e soprattutto di Vittorio Pica, grande sostenitore, come lo era stato ai suoi tempi Martelli, degli Impressionisti al quale aveva dedicato nel 1908 un saggio fondamentale in cui il veneziano assumeva un giusto rilievo tra i «fidi componenti della balda schiera impressionista». Per la critica ufficiale era stata una vera e propria provocazione, denunciata in particolare dall’autorevole Enrico Thovez, grande sostenitore dell’idealismo simbolista e del gusto liberty, nell’articolo, uscito su «La Stampa», Un impressionista: Zandomeneghi La quarantina di tele di Zandomeneghi qui raccolte ci richiamano ad altri Impressionisti e soprattutto a Renoir. È la nota miseria dei soggetti borghesi, visti senza alcuna poesia; la ragazza che porta un mazzo di fiori in un cartoccio, altre che giuocano col cerchio, nude dinanzi al fuoco, ecc.; la miseria intellettuale e sentimentale di quel preteso realismo che volendo ricondurre la vita nell’arte la confinava nelle scene delle toelette, nelle scene delle trattorie, nelle scene di omnibus, nelle forme più volgari di esistenza, cadendo nell’errore in cui cadono i futuristi, i quali dicono di non vedere la vita che nel caffè-concerto e nell’automobile. Al Renoir lo Zandomeneghi rassomiglia nei mezzi tecnici e negli effetti, nei pregi e nelle deficenze; è la stessa pittura stentata e meschina a tratteggiature; sono le medesime stoffe di cartone e carni di bambagia rosa; sono le stesse modelle studiatamente brutte e le stesse facce inespressive.

Padova, 30 settembre 2016

* Estratto dal testo in catalogo Marsilio Editori