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1 Pierluigi Albini Diario di un volontario nel Montenegro Guerra Turco-Balcanica 1912 Trascrizione, commento e note a cura di Danilo Agliardi

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Pierluigi Albini

Diario di un volontarionel Montenegro

Guerra Turco-Balcanica1912

Trascrizione, commento e note a cura di Danilo Agliardi

Originale depositato presso l’Ateneo di Brescia

Febbraio 2018

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Montenegro, Serbia, Bulgaria e Grecia dichiarano guerra alla Turchia, approfittando del fatto che quest’ultima è occupata a respingere la spedizione italiana in Libia. Siamo nel 1912. Pierluigi Albini parte volontario per i Balcani e si arruola nell’esercito montenegrino. Vi rimane dall’ottobre ai primi di dicembre, quando i contendenti firmano un armistizio.

Ottobre 1912 (ante 10) - Già da tempo intravvedevo la probabilità di un conflitto turco balcanico.

La guerra italo-turca, da un anno principiata, e con tanto valore sostenuta e vinta dal soldato italiano, incoraggiava i popoli balcanici a cogliere l’occasione propizia, mentre la Turchia era impegnata in Africa contro l’Italia, per scuotere il secolare giogo obbrobrioso.

Intanto maturava il mio progetto e lo assecondava. Esso mi pareva bello, quantunque la sua attuazione presentasse gravi ostacoli, primo tra gli altri l’amore dei Genitori, i quali negli ultimi giorni pareva avessero riconosciuto in me qualcosa di insolito, di strano. Infatti ero pensieroso, irrequieto, quasi triste.

Il mercoledì 9 ottobre (1912) apprendo che il Montenegro aveva dichiarato guerra alla Turchia.

Ebbi un sorriso di compiacenza, il sogno vagheggiato stava per avverarsi e tosto mi accinsi ad effettuarlo. Mi piacque molto il gesto del montanaro popolo montenegrino.

Bagaglio, treni, coincidenze, confine, passaporto, tutto ciò io aveva per la testa.Nella mente una folla di idee alle quali doveva immantinente dare attuazione.La sera stessa ero a Venezia ed il giorno dopo, sul treno Venezia-Trieste, principia

il mio diario, nel quale ho descritto giornalmente le varie vicende ed episodi della breve guerra svoltisi attorno a me.

Ve ne sono buoni e tristi, soddisfacenti e dolorosi. Io posseggo il soggetto e la materia, ma non la forma. Come descrivere le scene, le impressioni e la bellezza dei costumi rudi e semplici di quegli abitanti che in loro ogni atto hanno impresso un carattere di sincerità, di quel popolo di cui vorrei dipingere e celebrare i costumi innocenti e le virtù preclare, il quale vive seguendo fedelmente gli istinti suoi naturali, esenti da ogni vizio e così pieni di ardente sensibilità?

10 ottobre, mattino – Quanto mi rincresce di essermi dimenticato di prendere dalle aiuole del giardino da me coltivato un pugno di terra italiana!

Però fui ancora in tempo a raccoglierne una manata a Fossalta di Portogruaro. Un impiegato della stazione vide chinarmi e sgranò tanto di occhi quando, accuratamente, quale reliquia la posi in un candido lino.

Mentre passo da San Michele del Quarto e Palazzolo della Stella, forse ancora egli sta lambiccandosi il cervello per indovinare perché io feci ciò.

Ore 10,35 – Oramai ho passato il confine e non temo più che il Governo Italiano mi intralci la via creandomi delle difficoltà pel passaggio.

Il treno corre rapido su questa lunga curva adriatica, qui ove pure geme un altro popolo che spera ed attende.

All’infuori delle piccole nuvolette, che quali fiocchi di bambagia vengono lanciate dal comignolo della locomotiva, le quali, lievi lievi, tosto si sperdono in larghe spirali giù pei declivi della riviera, nulla vi è che offuschi il cielo, il quale è veramente bello, splendido.

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Il mare pure è calmo, fra poco mi affiderò a lui. Non posso continuare a scrivere, sono troppo commosso!

Giovedì 10 sera – Ci sono due grandiosi tunnel qui a Trieste, rivestiti di mattonelle ben lucide e pulite. Sarebbe una città piacevole se non ci fossero troppi soldati, ciò è antipatico per un italiano. E quanta correttezza e mansuetudine in questi Triestini, persino a teatro! Certo negli altri ritrovi esteri, pure frequentati da Italiani, non vi è tanto silenzio, tanto rispetto pei regolamenti. Non dipende dalla serietà maggiore di questi in confronto di quelli, mi accorgo di trovarmi proprio in Austria: ecco la ragione. Qui la popolazione è paragonabile ad una fiaccola posta sotto un imbuto: non respira o respira poco.

Il vapore del Lloyd parte domani alle otto e arriverà alle 12 di domenica a Cattaro.

Addì, 12 ottobre – Parto da Trieste a bordo del Prince Hohenlohe del Loyd austro-ungarico. Viaggio con studenti ed operai montenegrini. I primi provengono da Vienna e Belgrado; i secondi dalla Carinzia, Carniola, Croazia, Bosnia, Erzegovina.

Tutti giovani che non hanno saputo restar lontani nell’ora che per la patria è di guerra e di morte.

Brevi fermate si fanno a Pola, Lussin, Zara, Spalato, Ragusa, Castelnuovo e ad ogni porto un’infinità di gente è ad attenderci, facendo dalle banchine gesti di benvenuto, sventolando fazzoletti e cantando canzoni patriottiche slave. Io pure vorrei sciogliere il mio tricolore, ma uso prudenza; a poppa sventola bandiera gialla e me ne potrebbe derivare qualche spiacevole incidente.

Purtroppo, mentre già forse con la baionetta e col cannone i montenegrini incalzano le file degli oppressori, lento lento il vapore naviga tra gli isolotti e le insenature delle bocche di Cattaro, ultimo lembo di terra austriaca.

Di quando in quando a destra ed a sinistra delle imboccature, ben incastrati e saldi sulla roccia viva, vedo piccoli forti dai pertugi dei quali occhieggiano bocche di cannoni.

Intanto sul piroscafo assisto a curiosissime scene.Savo Dijnovich, impiegato a Tieste in una fabbrica di tappeti, mi è di guida ed

interprete. È una coreografia intermittente sempre nuova. Ad ogni tappa si accalcano altri viaggiatori che provengono dall’interno. Ve n’è di ogni nazione: tedeschi, slavi, magiari, albanesi, montenegrini….

Un soldato spiega non so che ai suoi compagni con quell’aria di contentezza che è propria ad ogni semplice soldato conscio di essere ascoltato. Un musulmano ha disteso in mezzo al pavimento un vecchio tappeto tutto sfilacciato e bucherato; è vicino a sua moglie la quale se ne sta immobile col viso coperto da un yachmak che lascia vedere soltanto i suoi occhi ed una parte della fronte. Egli fuma in un lungo tscbuk a cannuccia di ciliegio. In faccia a lui un avventuriero inglese lo guarda con una sorpresa che egli giudica evidentemente di soddisfazione.

La stiva è piena da non potersi muovere. In fondo, allegre comari, sedute in giro ad una tavola, mangiano e bevono in compagnia di pastori stracciati e lordi. Ritornano dal mercato ove smerciarono le loro verzure.

I volti più graziosi sono di due ragazze serbe. L’una è vestita di larghi e lunghi calzoni bianchi; porta un’ampia ed ondeggiante cintura ed una tunica violetto pallido orata di pelliccia con alamari d’argento. In testa ha una calotta rossa altissima circondata per due terzi della sua altezza da un turbante bianco e fino. L’altra, acconciata semplicemente coi magnifici capelli ravvolti intorno alla sua testa in trecce che sembrano di seta, porta una tunica senza maniche, che lascia

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vedere la camicia increspata e ricamata al collo tutta coperta di collane di monete d’argento. Queste collane, dove luccicano i jesmelik turchi, i carbovanz od i ducati austriaci, sono da tempo immemorabile uno dei lussi delle contadine serbe.

Intanto si approda a Cattaro; qui la popolazione è silenziosa, pare tenuta in soggezione da ufficiali e soldati gravi come cariatidi.

Scendiamo a terra. Nemmeno un accenno o una sensibile gioia in quegli spettatori e, mentre i miei compagni prima di accingersi al valico per passare a Cettigne sbrigano alcune faccende, io osservo e penso.

Vedo case e capanne ammonticchiate sul pendio del promontorio e più sopra, sui monti altissimi dalle cime ineguali, indovino i forti.

Lassù in alto mi pare scorgere pure una cascata, quasi odo la rovinosa caduta di quell’acqua e ricorro con la mente ad un’altra più bella, più imponente e da pochi conosciuta; voglio alludere a quella di Gorine, presso Pisogne. Ma l’aria mi sembra greve, mortifera, qui; sono impaziente e voglio tosto partire per la Czernagora passando sotto il Louvcen. Quattro ore impiega l’automobile postale che fa servizio, noi invece, a piedi, prendendo la via retta per gole e sentieri passeremo in otto o nove ore.

Rifocillatici alla buona da Ivo Radic, nella sua bettola dall’insegna della campana, alle tredici e mezza ci predisponiamo per il tragitto. Due fanciulle montenegrine hanno già messo a dorso dei loro asinelli le nostre valigette, ma più che per il bagaglio, esse ci servono come guida e compagnia ben gradita.

Avanzando, cantano come cingallegre e gli amici a voce più bassa fanno il ritornello.

S’arrampicano e saltano come cerbiatte, meravigliandosi nel contempo di me che so star loro ai fianchi. Gli asinelli, sempre un poco più in basso, tutti seri, disdegnanti la nostra allegria, di tratto in tratto si fermano, alzano la testa che tengono quasi fra le gambe, guardano in giro e ripigliano la monotona loro ascesa al grido incitatore delle due ragazze.

E si sale sempre.Intanto chiacchierando ogni ritenutezza è sparita; sanno che sono italiano e

sorridendo mi indicano il cammino da percorrere ancora. Il loro linguaggio mi confonde: provo innanzi ad esse un sentimento misto d’amore e di rispetto, di confidenza e di timore.

I compagni a poco a poco si disseminano lungo l’erta faticosa per riunirsi poi alla frontiera austro-montenegrina ove giungiamo quattro ore dopo la partenza da Cattaro, accolti da frenetici Xivio, Xivio.

Dopo aver accudito alle pratiche di confine, riprendiamo tosto il viaggio per tema che ci colga improvvisamente la notte.

La campagna è abbastanza bella. Giù basso, nella valle, è coltivata a grano e foraggi, sviluppato il pascolo vagante dei greggi; infatti, qua e là, scorgonsi branchi di pecore e capre pascenti, custodite da fanciulli laceri e scarni. Uno ne vidi che strimpellava la sua guzla.

Nella valle, dissi, là in alto la muta eloquenza delle cose dimostra come si è svolto il progressivo lavoro di dilavazione compiuto da tempo immemorabile con brutale energia, dalle acque divenute selvagge.

La pioggia scrosciante, battente sul terreno, compì senza posa, con eterna costanza, l’opera di distruzione asportando il mantello che prima fu a bosco.

L’erosione vi lavorò poi con tanta celerità per mancanza di opera protettiva di vegetazione, che ora non vi è più speranza che con sagge opere possano risorgere, rinsaldare i fianchi, poiché sono proprio montagne definitivamente morte, denudate, dall’aspetto di sterilità e squallore.

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Rocce lavate, corrose, sventrate, ove non si scorgono che pochi fili di magra erba.Intanto è sopraggiunta la notte e ancora un bel tratto di strada ci sta avanti. Per

non smarrirla, (le giovani le lasciammo al confine), scendiamo nel letto degli asciutti torrenti e ci servono da guida le grida continue di tutti coloro che come noi si dirigono alla capitale. Qualche vecchio pastore, ombra tra le ombre della sera, ci rassicura e informa.

Finalmente giù basso scorgiamo dei lumi. È Cettigne.Si sosta un poco, ma l’appetito troppo rode di dentro e scendiamo a ristorarci nella

casa di Savo Dijnorvich, ove pur pernottiamo. Al mattino di buon’ora si fa una capatina in città. È presto visitata Cettigne:

attorniata da una catena di alti monti, rocciosi, ha le casette basse costruite ad un solo piano e dipinte con vivaci colori. Le finestre sono più di un metro alte dal suolo, le vie spaziose ed ordinate a settori, alcuni dei quali sono ornati da diritti filari di alberi che a loro volta spandono una quieta ombra sui marciapiedi.

Il palazzo del governo racchiude in sé tutti i ministeri, ma nulla ha di attraente. Belline invece le palazzine delle legazioni straniere, tutte attorniate da giardini: elegante quella d’Italia. Entrammo nel palazzo e salimmo agli appartamenti superiori. Qua non si fa anticamera, si picchia e si entra. Con una facilità straordinaria ho potuto parlare col Prefetto di Polizia, indi ho dovuto presentarmi al segretario degli Affari Esteri; questi mi mandò alla legazione italiana, da quella fui inviato al sottosegretario alla guerra e finalmente mi si consegnò un lasciapassare per Antivari, ove mi porterò domani e là mi armeranno come fanno cogli altri volontari, fra i quali so che vi sono parecchi italiani.

Qui nessuno resta, solamente si fermano il tempo necessario per le pratiche di presentazione. Nel momento attuale disimpegnano le funzioni dello Stato senatori, deputati, dottori, tutti vecchi venerandi.

Ovunque si è accolti con la massima cordialità. In ogni casa, appesa al muro, vi è l’effige dei sovrani del Montenegro, d’Italia e di Russia, più sotto il proclama del re Nicola, stampato dall’unica tipografia del legno.

Tutti parlano della nostra regina Elena, come fosse persona di loro famiglia, figlia o sorella.

Proclama

Il grido di dolore della vecchia Serbia, dove gemono i fratelli oppressi, non si può sopportare più a lungo. Là, senza pietà, si massacrano non solo gli uomini, ma anche le donne ed i bambini.

Affamati, spogliati, i Serbi disperati, vagando fra i loro monti e i villaggi distrutti, vi implorano di proteggerli, di salvarli.

Il dovere e l’amore di patria vi obbligano ad accorrere. Sono convinto che l’avreste già fatto conoscendo il vostro coraggio se non aveste dovuto obbedire ai miei consigli di longanimità. Ma le mie speranze di poter liberare senza sparger sangue gli schiavi della Turchia, restarono vane ed ora, sebbene pesi al mio cuore turbare la quiete e la pace d’Europa, non mi rimane altro che impugnare la spada, quella spada dietro la quale i vostri padri mi hanno seguito con sublime coraggio, eroi di Niksic, di Antivari e di Dulcigne.

Montenegrini! A fianco di voi è la Giustizia: alea iacta est.Con voi sarà ciò che daranno Iddio e la fortuna eroica.La Malissia, eroica leonina, che da due anni lotta per i suoi diritti, per la libertà e

per unirsi al Montenegro e all’alleanza coi regni cristiani dei Balcani, alleanza da me sempre voluta, è con noi.

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È un’audacia battersi con un grande impero, ma ciò proprio è degno del mio eroico popolo del Montenegro che sa sacrificare ciò che vi è di più caro per i fratelli.

Le simpatie del mondo civile accompagneranno il Montenegro, come pure quelle dell’intera nazione serba e di tutti gli slavi.

Nobili mani armate di spade gli sono tese dai re di Serbia, di Bulgaria e di Grecia i cui popoli sono in questa impresa fraternamente uniti al popolo montenegrino.

Il Montenegro non attacca la Turchia per arroganza ma per il più nobile dei sentimenti, per lo scopo di impedire lo sterminio completo dei suoi fratelli.

Affretto il momento in cui i montenegrini abbracceranno i serbi non più orfani, non più schiavi ed io li abbraccio per tutti.

Di là, di là dietro quei monti…Cettigne, 9 ottobre 1912

Nicola I

Ottobre 14, ore 11,30 - Ora sono stato all’ospedale (giorni fa era una caserma) a visitarvi i feriti dei primi scontri e che sono in parte stati trasportati qui. Salii una breve scaletta sopra la quale c’era la porta aperta di due cameroni, dove s’allungavano quattro fila di letti. Entrai e subito scorsi i visi pallidi, ma non ancora smunti dei dolenti, alcuni dei quali avevano gli occhi chiusi e parevan morti, altri li tenevano grandi e fissi nel vuoto come spaventati, parecchi gemevano, altri fumavano tranquillamente senza che alcuno venisse a vietarlo loro.

I cameroni erano ben chiari, ma l’aria più che dell’odore acuto dei medicinali era impregnata di fumo di tabacco. Sopra una piccola mensola, a ciascun capezzale erano posti, unitamente ai medicinali, un revolver od un pugnale,

Centoquaranta ne contai, ma erano i meno gravi. In un altro luogo, mi disse un medico montenegrino che ebbe la compiacenza di accompagnarmi, ce ne sono altri cinquanta, pei quali si nutrono poche speranze; altri ancora camminano già per la città zoppicanti oppure feriti alle braccia.

Sono assistiti da signorine quasi tutte belle e tutte gentili e simpatiche. Che occhi neri e che capelli! Sono eleganti, nel fiore della gioventù e danno alla patria la loro opera preziosa. Sono loro che preparano i rimedi necessari per gli ammalati e che a loro li presentano con una grazia ineffabile.

A dire il vero accudiscono al loro servizio con una cura e modestia superiore a qualsiasi elogio. Ciò mi fu riferito dal medico montenegrino. Vanno a gara nel curare e rendere meno penoso il triste stato dei sofferenti.

Assistetti ad una operazione chirurgica e, francamente, il mio sguardo non si fermò sul paziente ma sulla signora che sorridente ci mostrava la pallottola di piombo estratta. Quasi quasi fui per invidiare quel ferito vedendo lo sguardo tenero che gli rivolgeva la bella assistente.

Ore 16,00 - Potendo scrivo e così sempre farò quando avrò un margine di tempo. Mi trovo tra il cimitero ed il campo delle esercitazioni militari. Avanti le tombe, dietro, i tranelli di guerra per far ammazzare il nemico. Sono stati esercitati i soldati a fare i campi trincerati. Ci sono fossati profondi due metri, muri a secco, fascinate, reticolati di filo spinoso, tratti di terreno coperto di assi dello spessore di cinque centimetri, ove sono confitti dei chiodi sporgenti quattro dita in modo che coloro che ci saltano dentro si rovinano piedi e braccia, imboscate di pochi metri quadri, ove ognuno capisce che colui che vi si ingarbuglia non esce se non prigioniero del nemico.

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Sonvi (vi sono) pure dei disegni dai quali è stato tolto l’apparecchio per portarlo agli avamposti.

Con che entusiasmo ci accolsero! Donne e giovanette ci stringono la mano guardando e s’ingegnano coi motti e collo sguardo a dimostrarci la loro soddisfazione.

15 Ottobre, ore 7 - Partiamo per Rieka – lago scutarino, indi con la ferrovia andremo ad Antivari. I compagni portano tutti pistole, revolver od il pugnale di loro proprietà come usanza locale.

Ad Antivari riceveremo il fucile.Raggiungiamo due uomini attempati, ambedue armati; giunti ad una biforcazione,

dopo la quale più non scorge Cettigne, stanteché principia la valle che scende a Rieka, questi due uomini si salutano, uno prosegue con noi, lieto di trovarsi in compagnia e più non volge indietro la sguardo; l’altro, che ritorna in città, contro sua voglia, certo , si china il viso tra le palme e piange, piange a dirotto.

Il primo viene alla guerra, il secondo torna a casa…È qualcosa di pietoso e che strazia il cuore l’assistere così frequentemente a simili

scene dolorose e lugubri.Si scende a Rieka per una stradetta abbastanza ben tenuta, la quale prosegue poi,

tenendo a sinistra per Podgoritza. L’aria mattutina ed il cammino contribuiscono a far sì che appena giunti sentiamo il bisogno di rifocillarci. Si compera del latte che versiamo in una grande ciotola di legno, indi ognuno per conto suo vi taglia dentro parecchie fette di pagnotta. Il latte ancora tiepido della mungitura lo troviamo gustosissimo.

Dieci minuti dopo, ristorati alquanto siamo pronti ad imbarcarci per Vir Bazar. Son vicini a noi tre maschietti di circa dieci anni; ci si avvicinano. Ne accarezzo uno dopo avergli messo nella manina un pezzo di mollica inzuppata di latte e penso che forse rimarranno senza padre!

Scorgo molti negozi chiusi, essendone i proprietari partiti. Le donne, non volendo oltre indugiarsi, a loro volta più tardi li seguono cariche di vettovaglie e pronte a soccorrerli tosto che feriti o morti si abbandonano al suolo. Ogni quarto d’ora avrei alcuna cosa da scrivere, ma non posso sempre subito accingermivi.

15 ottobre - Sul battello da Rieka a Vir Bazar.All’imbarcadero due donne, spose, scorgendosi si gettano l’una nelle braccia

dell’altra, piangendo. Ma che pianto, che grida strazianti!I soldati sono indifferenti, non osservano neppure, soffocato in sé è l’amore della

famiglia per esser liberi di prodigarlo tutto a vantaggio della patria in pericolo. Scorgo dai visi ardimentosi e severi l’entusiasmo che hanno nel cuore, il coraggio è grande in tutti, quanto l’amore della libertà, quanto la coscienza del proprio diritto.

In verità temo di essere inferiore ad essi. Vedremo.

Ore 15 sulla ferrovia Vir–Antivari - Noi siamo destinati a tenere la destra nell’avanzata contro il nemico, e cioè verso il mare Adriatico, dipendendo così dal generale Martinovich, ministro della guerra e comandante la terza divisione. Il centro resta per ora verso Podgoritza ed a sinistra di questo si trova l’altra divisione.

Accatastati in un trenino che s’arrampicò sbuffando su per una valle abbastanza ben coltivata, e dall’aspetto gaio, ora si scende celermente per un’infinità di stretti tourniquets che a guisa di lunga spirale, grado a grado ed allargandosi sempre di più conducono verso Antivari Nuova.

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La vista del mare ci rende più allegri, alcuni cantano, altri rimettono in assetto le loro poche robe, io scrivo. La minuscola locomotiva emette fischi acutissimi che si ripercuotono nelle più recondite parti della valle.

Due sono i treni che fanno servizio giornaliero tra Antivari e Vir Bazar, lungo quest’unica ferrovia del regno, due ascendenti e due discendenti.

17 ottobre, giovedì - Le condizioni economiche del paese sono tutt’altro che floride e della miseria parlano chiaro le cose, gli abiti, ed ogni espressione della vita di codesta gente cui natura non fu prodiga, come a noi, dei suoi benefici.

Oltre alla palazzina isolata e tutta bianca del principe ereditario Danilo, la quale si vede entrando nel porto, vi sono poche case in legno ed altre costruite con la dura pietra del luogo. Per una strada abbastanza bella e tutta tranquilla di annosi uliveti, si sale poi in meno di un’ora ad Antivari vecchia (Bar).

Qui vi è una fortezza ormai in rovina, dai torrioni diroccati rivestiti di salvia selvatica e d’edera. Lo sfondo del paesaggio è veramente interessante, incantevole, pittoresco: precipizi irti e gole minacciose di alti monti.

Verso il basso due o tre moschee e prima di arrivare al ponte sul torrente, la chiesa ed il cimitero ortodosso. Casette ad un solo piano, molte delle quali a servizio di caffè, offrono la vista della via di una città orientale che è sempre bella e nuova; la gente vi è tutta riversata e si ha quindi uno spettacolo molto vivace, osservando la ridda dei colori, le fogge strane del vestire di questa gente.

Montenegrini, serbi, albanesi, nei loro costumi puri, stanno tranquillamente seduti sorbendo una tazza di eccellente caffè o fumando l’inseparabile sigaretta.

Oltremodo attraenti riescono le montenegrine. Sono medie di statura, quasi tutte brune e dai capelli nerissimi ed accuratamente pettinati. Le giovanette hanno le trecce cadenti sul dorso, le più attempate le attorcigliano invece sulla nuca mentre cogli spilli vi assicurano uno stretto velo che cade poco più giù delle spalle.

I lineamenti del viso sono quasi sempre belli. Esse portano ordinariamente un paltoncino bianco, aperto sul davanti, e senza maniche e sotto questi un giubboncino ripiegantesi alla cintura e finemente ornato tutto intorno al collo, sulle spalle e sul petto. Le gonne, sempre corte, lasciano vedere il piedino svelto e parte del polpaccio; calzano le opanke che esse stesse si fabbricano in casa e che sono specie di sandali di pelle di vacca o di capra, legati con spaghi.

Al collo portano pure, quasi tutte, dei monili d’argento fabbricati a Scutari.Sono simpatiche per la loro semplicità fatta di sorrisi e di canti.Tenendo quindi a sinistra, in due ore circa si arriva al confine, lasciando a destra

la via postale per Dulcigno. Arbusti di lauro e salvia selvatica ornano il letto dei torrenti. Perenni fonti di

limpida acqua scaturiscono da elevate rupi sui fianchi della montagna. Dopo esser per buon tratto scesa rapidamente di balza in balza strepitando e schiumante, prosegue giù per la china, scorrente sollecita pel sentiero aspro di sassi, indi saltellando con piacevole gorgoglio tra le pietre, formando qua e là vaghi pelaghetti e preziose cascatelle.

S’incontrano carri vuoti di ritorno dagli accampamenti ove portarono le pesanti casse di munizioni, fanciulle che si avviano al paese cantando una nenia cadenzata e semplice con voce lenta e velata di malinconia. Passano indifferenti quasi, osservando solo il mio tricolore e seguitando il loro canto con quella modestia propria delle slave, poi qualche prigioniero turco, accompagnato dai sodati, indi un ferito deposto sopra una barella portata a spalle da quattro uomini e frotte di donne che intraprendono, cariche di vettovaglie, viaggi di cinque o sei giorni, ed altrettanti

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per il ritorno. Sono carovane di venti, venticinque, provenienti dai centri principali come Cettigne, Niksic, Luce, Bielice, Rudin, Charanci, Vasoievich.

Vere figlie di guerrieri sono queste donne. Per recare un chilo di pane e poca grappa allo sposo combattente, si incamminano attraversando, tra gli sterpi ed il fango, luoghi senza strade e senza capanne, passano monti e torrenti, arrivano disfatte, macere, consunte ma arrivano ed hanno il viso illuminato da un sorriso!

Incontro pure turche a cavallo che frettolosamente si coprono il viso coi bianchi veli; scorgo lunghe file di asinelli carichi di fieno, munizioni e vettovaglie condotti da albanesi. È tanto il carico di fieno su quelle piccole groppe, che l’asinello scompare quasi sotto l’enorme massa che dondola e minaccia ad ogni istante di rovesciarsi a terra.

Intanto si entra nell’Albania conquistata. Ce ne accorgiamo subito poiché molte case sono distrutte, i campi calpestati.

Più avanti cimiteri mussulmani dalle colonne e lapidi con strani geroglifici a noi incomprensibili.

Si passa a Castrikolla, arrivando dopo altre tre ore a Murician, dove ci presentiamo ad uno dei comandanti, il quale, dopo averci raccomandato di stare a ridosso del colle e non al piano, per evitare di essere colpito da qualche proiettile proveniente da un forte turco, chiamato Taraboch, ci indica una casa non molto lontana ove potremo forse trovare posto per riposarci e nel contempo essere uniti agli altri volontari già sopraggiunti da altri luoghi.

18 ottobre – Qui sui monti sono piazzate le artiglierie della divisione Martinovich, e sotto queste, al riparo dalle bombe del forte turco, la fanteria in attesa di dare l’assalto. Taraboch punta bene i suoi cannoni e non ci risparmia granate: ne manda a tutti i gruppi assalitori che, essendo ben protetti, non subiscono però che danni lievi.

Dapprima odesi il rombo, poi un boato che s’avvicina come tuono, indi, sempre dappresso, il ronzio come di un alveare o d’una lamina d’acciaio elastica vibrante.

Questa è la granata che arriva e scoppia, sollevando un nembo di polvere, un nuvolo di terriccio: e penetrando nel terreno un poco molle per la vicinanza del fiume, forma come un grandissimo imbuto profondo più di un uomo. Difatti entro in una di queste buche e la testa è sotto il livello del suolo. Naturalmente questo materiale va all’aria: sassi, terra, scheggie (sic) d’acciaio non laniati a 250 passi, all’inizio formando una stella perfettissima di tredici raggi.

Già mi accorsi che grandi sacrifici dovrà sostenere il Montenegro, nonostante che in questi giorni sia stato superiore ad ogni aspettativa e malgrado i sinceri, fervidi voti di miglior benessere, prosperità ed indipendenza, formulati a suo favore da coloro che sono cogniti dello spirito d’abnegazione veramente eccezionale di codesto povero ma eroico popolo, che per sacrosanti diritti sosterrà le gravi fatiche ed i peggiori disagi della guerra. Noi volontari siamo ancora fortunati perché, sebbene si dorma in una misera casupola, dalla quale sono svelte le imposte e persino le inferriate, ci troviamo però sempre in una casa; ma i più dormono all’aperto, lordi fino alle midolla e tormentati da luridi insetti. Sol il fuoco e il brodo caldo sostengono questi miseri corpi che presto saranno esauriti.

E neanche di questi semplici ristori possono approfittare, perché di notte, per esempio, le fiammate non si possono fare essendo segnali visibili al nemico; ed allora, per soffrire meno il freddo intenso, sono costretti a stare accoccolati l’uno vicino all’altro, in attesa del giorno. Il tepore del sole scioglie le membra irrigidite, si dispongono a circolo attorno al fuoco, e mentre si sta apprestando la zuppa calda,

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cantano i versi del loro venerato re: l’inno nazionale montenegrino. È una lunga nenia, pare un lamento, un singulto.

Dall’amico Vasso Srzentich, figlio del sindaco di Dulcino e studente a Genova nell’Istituto nautico V. E. II, ne ebbi la traduzione di una parte.

Al di là, al di làdietro quei monti

dicono che si trovanoi palagi distrutti,

palagi di uno dei miei re. Là è stato una

volta uno sterminio...al di là al di là

dietro quei montivado a veder Rizzen;

quello è mio, là devo andare colle armi,

là mi chiama la patriae dirò al nemico:

va, va via dal mio focolare.Al di là, al di là,

dicono che si trova ilsepolcro del Milosch…

Ottobre 20, mercoledì – …veniva dal mare lontano un’aria nuova e fresca, profumata; c’era una luce meravigliosa, un cielo limpido e profondo come non l’avevo mai visto, forse neppure in Lombardia.

Faccio una passeggiata al fiume poco discosto, nelle acque del quale mi rinfresco il viso. Si chiama Bojana ed ha un letto poco più largo dell’Adige a Verona…

…nel terreno mediocre è stato seminato il granoturco, un po’ di frumento è stato raccolto nel terreno buono; nei luoghi secchi sono coltivate le patate, le quali riescono molto zuccherine, epperciò sostanziose. Si vede qualche vite americana e pochissimi gelsi, delle zucche selvatiche che godono di arrampicarsi sugli arbusti, peri in grande quantità e lungo il fiume, ed in giro alla casa, delle piante da frutto: pesche, noci, fichi, una quantità straordinaria di melograni, ed infine delle piante da tabacco. Di questo vi è la coltivazione; ne erano colmi tutti i soffitti delle logge, come si suol fare in Valle Camonica per far dissecare il granoturco. Alle falde del monte crescono e si propagano le ginestre comuni, i biancospini, i pruni, i citisi nani, le vitalbe e tutta una pleiade di piccoli arbusti, tra i quali non raramente scorgonsi delle grosse tartarughe.

Sotto la costa occidentale del monte, tutte riunte in una casa appartata, stanno le donne venute sin qui per portare vettovaglie e visitarvi nel contempo i parenti, ripartendo non appena si sono bastantemente riposate.

Ieri nelle adiacenze della piccola sorgente, ed all’ombra di un bel noce, vidi attenta a lavare della biancheria, una di queste donne

Ha press’a poco 24 anni, alta, capigliatura abbondantissima e nera, coperta da un berretto a cordoncini dorati colle iniziali del re: H. I. Un viso ovale, d’un bruno pallido, un po’ patito con un cerchiolino d’oro ad ogni orecchio, gli occhi pensierosi e due grosse labbra semiaperte che lasciano vedere i denti bianchissimi.

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Non è bella, ma si vede nel suo sembiante un non so che di virtuoso ed appassionato che affascina.

La stessa malinconia, unita ad una sensibilità estrema che traspare dal suo sguardo, tosto attrae. Si comprende che ebbe un’educazione dolce e dalla sua fisionomia scorgesi la purità dell’animo, la quiete della vita che non patisce turbamento.

È cortese con tutti e si riconosce che comunica agli altri e quasi impone involontariamente la squisitezza dei suoi modi.

È vestita modestamente ma con proprietà, parla un poco il dialetto veneto essendo stata da ragazza in Dalmazia, a Lussin.

Un’ora fa più nutrita in confronto degli altri giorni, ad intervallo, cominciò la spaventosa raffica delle cannonate nemiche, poi smise. Un inserviente, mentre risaliva l’erta del colle, trovandosi in ugual pericolo tanto retrocedendo che avanzando, proseguì e venne colpito soccombente all’istante.

Lo avevano visto parlare la mattina stessa con la sorella, la quale, avvisata, subito accorse frettolosamente passando tra noi.

Era la giovane conoscente.Ricominciavano le granate nemiche. Le schegge qua e là cadevano intorno alle

artiglierie e precisamente a cinquanta, ottanta metri dal cadavere del fratello, ch’essa aveva scorto supino e che sperava in cuor suo che fosse ancora vivente.

A nulla valsero i suggerimenti di coloro che più di me erano da lei compresi. Le gridammo di ritirarsi. Si metteva a correre, sembrava non comprendesse più, mutata in viso, si poneva le mani nei folti capelli corvini con un atto di disperazione.

Proseguiva ancora, da un istante all’altro la temevamo colpita. Era lontana un duecento metri. Si gettò ginocchioni accanto al fratello, lo accarezzò, lo scosse.

Ritiratevi, perdio – le gridai facendo portavoce con le mani e con quanto fiato avevo in corpo. E lei era là, ritta, pallida.

Alla fine i Turchi gradatamente smisero. Allora con un ufficiale e alcuni soldati passammo sul posto e mentre essi si occupavano del loro triste ufficio, io scorgendo l’abbattimento dipinto sul viso di quella poverina, tentai di consolarla e persuaderla a seguirmi.

- Oh povera infelice Rugizza, la vostra infelicità è grande,- aggiunsi - voi avete perduto il più caro deii fratelli, il quale abbandonò gli interessi, la famiglia, la vita per la patria sua, ma ricordatevi che non muore chi per la patria cade. La sua virtù ha una ricompensa, Rugizza, egli esiste ancora nell’immortalità del suo sacrificio.

A queste mia parole, più copiose le lacrime colarono dagli occhi suoi. Sul viso di quella pover donna, apparve un raggio di consolazione, ma poi al vedere che lo portavano via non avendo più alcun dubbio circa la sua infelicità, fu presa da un’angoscia dolorosissima; la sua voce non faceva più intendere che dei singhiozzi e sospiri.

Infine si pose a gridare: “Oh! Tomo, il mio povero Tomo…”.

Antivari 27 ottobre - In cento volontari siamo venuti qui appositamente per prendere i fucili Mauser tolti ai Turchi; così mi sono sgranchito, poiché in verità ci si stanca a stare sempre fermi. Ciascuno di noi deve portarne tre per dispensarli agli altri volontari rimasti sul posto. Mi meraviglio che ci siano pochi Italiani; anche solo per deferenza alla nostra Augusta Regina ne dovrebbero accorrere di più. Però col prolungarsi della guerra, se il governo italiano per ragioni politiche non porrà ostacoli, ne verranno altri. Quale piacere nel ricevere notizie da casa! Ora debbo partire subito per gli avamposti; venimmo ieri da Murician, in otto ore di cammino disastroso tanto che molti restarono per la via, non essendo in grado di proseguire a

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causa delle impraticabili strade. Molte cose avrei a scrivere, ma ora non posso assolutamente altre otto ore di cammino devo fare con tre fucili e lo zaino. Assisto a fatti e godo di spettacoli che non si possono pagare in moneta, ma solamente colla soddisfazione propria impossibile adesso a descriversi.

Sono stato interrogato dal principe Mirko e dal ministro della guerra; gli ufficiali mi amano e pregano di non lasciarmi mancare niente. Io, fala, fala (grazie, grazie) loro rispondo, ed essi sorridono dicendo: Taglianski, xivio a Italia (italiani, evviva l’Italia).

Impossibile proseguire oltre, continuano a farmi parlare i corrispondenti dei giornali, mi riconoscono per italiano, perché porto una sciarpa tricolore che non lascio mai nemmeno la notte perché non ci si sveste. Quando saremo ritornati sul posto, spero incominceremo ad avanzare, poiché momentaneamente solo cannonate nostre e nemiche ci ronzano sul capo.

31 ottobre, mattino – Ormai Tarabosch e Scutari sono definitivamente stretti d’assedio e si attende. Mi adatto a questa vita eguale e monotona, in fondo si starebbe bene, se non vi fosse la sporcizia che non sempre si può evitare e tutti godiamo della miseria…comune.

Stamane sono stato sul monte ove trovasi la batteria comandata dal capitano Lechich, che cortesemente mi lasciò veder il forte Taraboch con un cannocchiale. Su di esso veramente nulla scorsi, son tutti massi di roccia; vidi invece più basso, verso il piccolo Taraboch, quattro cannoni. Assistetti alle manovre dei tiri. I nostri sono cannoni da 110, 120, e 150, s’è dovuto fare apposta una stradicciola per portarli lassù.

Rispondevano subito quelli del forte e quando i tiri di questi ci cadevano vicino, correvamo fuori dalla tana onde chiederci l’un l’altro se nulla vi era di nuovo.

Scendendo passai vicino al noce, ov’è stato sepolto il fratello di Rugizza. Sul terreno ancora smosso sono stati disposti in forma di rettangolo alcuni grossi sassi.

3 novembre – Alle 11 viene comunicato che dobbiamo partire. È stata un’esclamazione di gioia unanime. Così ci siamo sgranchiti: restando sempre fermi il tedio ci assale e si diventa stizzosi alquanto.

Dopo cinque ore di cammino sempre costeggiando, come si poté, il fiume Bojana, e passando per sentieracci, la colonna attraversò il fiume sui barconi.

Luarze è la località ove ci troviamo, ma la destinazione è ignota. Quest’oggi sono venuto a sapere la ragione per cui un soldato come noi non è armato. È un sacerdote ortodosso che in marcia si porta sempre avanti, seguito dagli albanesi che si servono da guida.

5 novembre, ore 17 – Balzai in ginocchio svegliato da voci sommesse che da ogni parte arrivavano. “Aide, aide” (via, via), si sussurrava piano.

Tutti scappavano su pel monte; io interrogavo ma nessuno rispondeva; non capivo la causa di questo gridio, di questo tramestio. Guardai il fucile, assicurai i cinturini, ero pronto, ma prima di seguire gli altri avrei voluto osservare, sapere qualche cosa.

Tutti fuggivano, molti lasciando le borracce, le tonde, i bastoni di queste; tre o quattro persino il fucile. Questo atto di gettare i fucili mi impressionò molto. Era una vergogna, perdio! Li indicai al primo ufficiale che vidi, il quale dispose perché altri li raccogliessero.

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Infine, vedendo che restavamo soli, ci avviammo. Arrivati sulla cresta del monte, giù in fila indiana, nella pianura allagata, e ben lontane si scorsero le tre compagnie dei volontari.

Avevo indugiato troppo. Per la china difficile, scorsi ancora i morti insepolti del giorno prima, si sdrucciolava maledettamente, inoltre pioveva e tirava vento.

Passai la pianura allagata, passai il bosco e dopo non so quanto tempo arrivai l’ultimo dei volontari. Respirai con più agio, contento di non averli smarriti. Eravamo completamente inzuppati e lordi di fango per le frequenti cadute. Pioveva sempre.

Finalmente, quado agli ufficiali parve il tempo ed il luogo opportuno si fece alt.Seppi allora che un’infinità di Turchi stavano per affrontarci; riconosciuto che non

potevamo sostenere l’assalto, ci ritirammo a tempo. Sfido io, come si può con poche munizioni impegnarsi quando non vi è nemmeno la speranza che arrivino i rifornimenti?

Sono errori colossali. Sostammo nella località dell’altro giorno, e cioè vicino alla Bojana, a Luarze.

Novembre 9 ore 16 – Che c’è? Sono volontari nuovi. Tutti i giorni ne arrivano, provengono persino dalle pampas argentine, dalle steppe russe ed asiatiche. Arrivano pure degli italiani, uno da Vicenza e altri da Cagliari, da Palermo, da Roma ed anche un bresciano, Giuseppe Vignelli. Sono con noi Imperati e Baldini che desiderano comandare parte dei volontari. M sono adoperato perché tal desiderio venga appagato e ho dimostrato quale sarebbe il piacere di tutti noi se potessimo dipendere da superiori connazionali. Sono contento dell’inaspettato arrivo, facciamo mensa comune.

11 novembre, ore 14 – M’hanno concesso di andare in fretta in fretta a Dulcigno per far spese; dunque potrò scrivere a casa. Feci il tragitto con Giacomovich….

Dulcigno 13 (Novembre) ore 14.30- Scrivo mentre attendo che il calzolaio mi cucisca (sic) il cinturino della giberna, sono seduto al deschetto con lui e guardando fuori della bottega scorgo il farmacista di qui, cortesissimo giovane albanese, suddito del Montenegro, che studiò a Costantinopoli e ad Atene e che ama molto l’Italia e gli Italiani. Costui ebbe poco fa un vivace battibecco col governatore della città perché voleva pur lui essere armato e marciare con gli altri.

Panettieri, osti, calzolai, vecchi tutti si ribellano alle autorità perché vorrebbero partire mentre è necessario che rimangano. Vi è un fervore di patriottismo così caldo e così vivo, che solo può paragonarsi a quello dei momenti più grandi del Risorgimento italiano.

Ieri sono sbarcati i militi della legione meridionale, comandati dal marchese, prof. Carlo Catapani. Da loro appresi che come vi fu per Novi Bazar, così pure sembra vi sia un veto anche per San Giovanni di Medua. Il Governo italiano ha disposto che non partano i volontari, infatti anche quello austriaco ha dato tale ordine, ma questi sfuggono ugualmente alla vigilanza. I giornali dicono (ma cosa non dicono i giornali?) che colla presa di Taraboch e Scutari finisce la guerra del Montenegro con la Turchia, ma questo è stretto in alleanze cogli altri piccoli stati, in special modo con la Serbia.

Rieci, 16 novembre – Un buon tratto di strada divide San Nicolò da Dulcigno; quattro ore di cammino continuo, tre quarti del quale costeggiando il mare in perfetta pianura. Qui, ristorati che fummo, si riprese il cammino lungo la sponda

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destra del fiume Bojana, risalendo sempre controcorrente ed in direzione di Luarze. Al mattino alle otto passammo a Luarze il fiume; qui erano attendati i militi dell’ospedale ambulante italiano.

18 novembre lunedì, ore 2,30 – Scrivo mentre sono libero e quieto di spirito; certo che domani dovremo nuovamente inseguire il nemico, che trovasi sulle balze tra San Giovanni di Medua ed Alessio. Non posso sapere delle manovre eseguite da noi e dai Turchi nel piccolo combattimento avvenuto; solamente descrivo in succinto ciò che si è svolto intorno a me.

Sabato sera, raggiunto i volontari dopo aver costeggiato e marciato parallelamente al grosso delle truppe regolari montenegrine che stava in alto con fanteria e artiglieria da montagna, entrammo primi in San Giovanni, senza incontrare resistenza alcuna.

Sostammo nell’ufficio postale ed adiacenze, dopo aver disposto le sentinelle, ed al mattino un ufficiale superiore ci passò in rivista raccomandandoci calma e prudenza, mentre la divisione comandata dal ministro Martinovich sempre più s’avvicinava percorrendo i monti che cerchiano il porto.

Alle nove e mezza ci mandarono su in vedetta. Eravamo in tre e ci cacciammo in una gola con lo sguardo verso l’interno. Un gran silenzio regnava nei dintorni, tutto era tranquillo in quella località.

Più tardi udii qualche fucilata lontano e mandai a dire ciò all’ufficiale, ma mai scorgemmo il nemico.

Infine più intensa si udì la fucileria; a destra e sulla linea di Alessio, le truppe turche marciavano verso di noi ad intervalli.

Esse avevano attaccato da quella parte la nostra avanguardia.Allora con gli altri volontari che erano giù al porto accorremmo da quella parte, io

e Da Porto per la strada bassa, gli altri di balza in balza per non essere scorti dal nemico.

I Turchi erano vicini ma non si potevano vedere perché protetti dai grossi massi di pietre, simili a quelli che sono a ridosso di Virle-Treponti. Noi pure però ugualmente eravamo nascosti ed allo scoperto non c’era che il fucile, la fronte gli occhi e parte della spalla destra. Nessuna vittima, solamente vidi qualche ferito più tardi. Le palle continuavano a fischiarci attorno numerosissime, mentre dai nostri pertugi anche noi rispondevamo, in attesa degli eventi.

Infatti, prima di sera, le truppe regolari che stavano in alto verso l’interno, richiamate dal nostro fuoco, accorsero ad aiutarci e fugarono il nemico, togliendo noi dalla critica situazione in cui eravamo.

I Turchi in buon numero e sparsi qua e là tra le rocce, si ritirarono. Ignoro le loro perdite che però credo siano poche. Ora si continuerà l’avanzata verso Alessio. Così dopo soli quattro giorni dal loro arrivo, i nuovi volontari ebbero il battesimo del fuoco.

Vicino al Bojana, a Luanze, giorni fa il nemico venne a scovarci, ma allora eravamo in maggior numero e dovette ritirarsi lasciando sul terreno una trentina di morti, circa sessanta feriti, qualche prigioniero ed un cannone. Le nostre perdite furono forse minori; i cadaveri sono tuttora insepolti, ciò spiacemi perché vengono deturpati dagli animali; molti ne vedi senza naso. In questo momento vengo a conoscenza delle nostre perdite di ieri sera: avemmo 16 morti e 40 feriti; ignoro quelle turche, ma se scapparono certo è che le loro sono maggiori delle nostre.

Tuttavia non possono esserci mai perdite gravi, né da una parte, né dall’altra, perché non vi sono pianure in cui possano impegnarsi combattimenti su un fronte

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vasto, spiegato e libero: son tutte montagne rocciose, specialmente qui al mare e perciò si è al riparo.

Alessio 18 (novembre) ore 24 circa – Scrivo sul calcio del fucile appoggiato sulle ginocchia, seduto su un’anfora di terracotta turca, con a lato un turco prigioniero. Ora mi sono rifocillato con soldati montenegrini e serbi. Non so come possano essere qui costoro. Ieri, domenica, fummo molestati qua e là; avanti sera fugammo il nemico, che si ritirò qui con l’intenzione di fortificarvisi; e questa posizione infatti gli offriva vantaggio. Alessio è dominata da un monte sul quale trovasi un vecchio forte in rovina. Lassù erano piazzate le artiglierie e nelle vicinanze i fucilieri. Oggi alle tredici, dopo aver portato fuori dai barconi due cannoni di grosso calibro, incominciammo da Medua l’avanzata, protetti dalle artiglierie di piccolo calibro che ci seguivano.

I primi erano colpi rari ma ben aggiustati, secchi, sicuri.Sebbene piovigginasse se ne vedeva l’effetto ad occhio nudo, essendo noi a 1200

dal nemico e l’artiglieria a 1600 circa. Divideva noi il fiume Drin. Poi il nostro è stato un fuoco fitto, una grandine di proiettili che sbriciolava le tegole, scretolava i muri, sollevando nuvolette di calcinacci e frantumi di vetri, fracassando ogni cosa con un fragore da fendere il cranio.

Rispondevano i Turchi con un fuoco nutritissimo, si udiva il sibilo e si scorgeva il rimbalzo delle palle, ma noi eravamo protetti da bassi muriccioli di pietre. Alle 16 circa una bandiera bianca viene innalzata e sventola sul forte.

- Xivio, xivio – si grida.È la resa. Ci alziamo, qualcuno scavalca il muriccino ed accorre, e noi, tutti dietro.

Ma il nemico si lascia avvicinare e più di prima continua ancora intensissima la fucileria al nostro indirizzo. Mi trovavo nel mio ambiente: in quel brusio di palle e sotto quella pioggerella fina, come le anatre quando contente starnazzano le ali, saltellavo di sasso in sasso gongolante di gioia.

Alcuni sono sbalorditi, scompigliati, ma celermente ci riordiniamo e per un po’ di tempo ancora, sotto un’incessante pioggia di proiettili, fra grida, imprecazioni, bestemmie con pari ardore ci siamo contestati il terreno. Nello stesso tempo tuonavano i cannoni; tutto ad un tratto, mentre dal continuo lento avvicinarsi credevo si dovesse poi lottare a corpo a corpo, si odono indistinti, confusi squilli. Ci chiamano a raccolta e tutti accorriamo. Scorgo molti che barcollando si premono le ferite colle mani; passo avanti all’alfiere portabandiera agonizzante e poi morto per una ferita alla testa, faccio il saluto e giù di corsa verso il ponte del fiume che mette in Alessio. Molti negozi erano chiusi, altri spalancati, non vi era alcuno, così pure le strette viuzze erano deserte. Sono fuggiti, ma ritorneranno. Dei volontari italiani, nessuno manca all’appello: Mazza, Bitti, Cimino, Da Porto, Vignelli, Soffietti, Grillo, Pasquini ecc. ci siamo tutti e ci felicitiamo reciprocamente di essercela cavata a così buon mercato. Prestammo poi le prime cure ai feriti, che verrano trasportati più tardi a Dolcigno o ad Antivari dove vi sono le Croci Rosse russa ed inglese.

19 (novembre) martedì, ore 7 – Le perdite di ieri credo siano poche; il Comando solamente le conoscerà con più precisione. Non sono ancora salito al vecchio forte, certo che i cannoni li avranno abbandonato, come abbandonarono fucili e munizioni in quantità nella caserma.

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Più ci inoltriamo e più incontreremo resistenza, questo arguisco dal fatto che pochi si presentano in confronto alla popolazione che qui ci sarà stata prima della nostra venuta.

24 novembre, a San Giovanni di M. – I Serbi sono ad Alessio e a Durazzo e noi invece eravamo passati sulla destra del fiume, il Drin. Il giorno dopo aver occupato Alessio, ripassammo il ponte e così non ho potuto risalire sul forte veneziano per vedere l’effetto fatto dai cannoni che stavano dietro a noi il 18. Ebbi una conversazione col frate padre Angelo Palia, cattolico albanese. È dell’O.F.M. e sapendo che stamane di buon mattino dovevamo ritornare nelle vicinanze dii Scutari assediata, lo volli salutare prima di partire. Molto volentieri mi accolse nella sua modesta, ma ordinata stanzuccia, mi prodigò auguri, poi si cominciò a parlare dell’Albania ch’egli dice di amare più di se stesso.

Voi siete italiano - incominciò a dirmi – ed a voi dico che noi albanesi protestiamo e protesteremo contro la sopraffazione di quattro stati che vorrebbero usurpare il nostro territorio. Da due anni noi combattiamo per la nostra libertà

A mano nuda abbiamo incominciato, senza armi, solo il nostro diritto, la nostra causa ci guidò, combatteremo strenuamente e colla speranza che i popoli evoluti ci vorranno favorire.

Conosco la storia d’Italia e i sacrifici che il vostro paese sostenne per ottenere la sua indipendenza, noi pure protesteremo, ripeto, innanzi al mondo civile e se non sarà appagato il nostro desiderio riprenderemo le armi.

I quattro Stati alleati, Serbia, Bulgaria, Grecia e Montenegro sono eterogenei, incompatibili con l’elemento albanese a qualunque religione esso appartenga.

Noi apparteniamo ad una delle razze più antiche d’Europa, abbiamo costumi particolari, siamo orgogliosi di nostra origine; nemmeno gli antichi romani seppero domarci, la stessa nostra lingua che proviene dal sanscrito è antichissima.

È giusto, - dissi io - volete l’autonomia, ma ormai il vostro territorio è occupato dagli eserciti alleati che se lo ripartiranno.

Questo non accadrà – rispose padre Palia – perché l’Austria non vuole e sappiamo che la Triplice alleanza è un nodo ben stretto, che non si scioglierà facilmente, e che la Russia, protettrice dei popoli slavi non si ostinerà per non avere altri grattacapi.

Domandai ancora se i Cristiani ortodossi pur ambiscono l’autonomia.Sicuro – mi fu riposto - anzi badate che mentre su tutta la costa adriatica-

albanese vi sono cristiani cattolici, che si suddividono in Malissori, Caciachi, Mirditi, nell’interno trovansi i cristiani ortodossi ed anche i musulmani. Ma tutti siamo d’accordo riguardo all’autonomia, non si transige su questo.

Osai un’altra domanda.- Scommetto che voi e così tutti gli albanesi, piuttosto che dipendere dai quattro

stati alleati, preferireste essere sotto la signoria d’Italia.- Certo, l’Italia è un popolo civile, arrecherebbe dei grandi vantaggi a questo

desolato paese, ma nessuna speranza di migliorie attendiamo da quegli Stati che invadono il nostro territorio, poiché se alcuna ne avessero a fare, sarebbe a pro loro e svantaggio nostro: piuttosto preferiamo restare occulti, avvolti nel mistero sui nostri alti pinnacoli”.

Incominciava ad imbrunire, ringraziai il mio interlocutore e lo lasciai veramente commosso per tante belle parole piene d’amor patrio.

Trascorsi con lui un’ora davvero deliziosa e che non scorderò certissimo.

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San Giovanni M, 24 novembre - Corre voce che Scutari sia tutta circondata dai due eserciti alleati, serbo e montenegrino, e che i turchi colà assediati chiesero di poter uscire disarmati.

Pare che tutte le forze montenegrine si dirigano là, ma di certo nulla si sa.Si parla anche di pace, ma nessuno la desidera, benché tutto congiuri contro di

noi: freddo intenso, maltempo e conseguenti allagamenti, asperità del terreno ma si sopporta tutto con tranquillità.

Ci sono parecchi volontari ammalati. Sfido io, si cammina nell’acqua, si dorme all’aperto o nelle stalle, il corpo naturalmente ne risente.

Io sto bastantemente bene e li altri italiani pure, solo un romano alcuni giorni fa rimpatriò perché colpito da febbre.

È la lotta pei sacrosanti diritti che rende ancor più forti questi arditi e nessuno indietreggia dinnanzi al fermo proposito del Re che qual padre personalmente li conforta, consiglia e guida.

25 novembre, notte - Non so ove mi trovo, mancherà ancora un’ora prima d’arrivare a Catrikolla, scrivo stando all’oscuro parolone grandi che certo dimani troverò le une sovrapposte alle altre.

Ieri sulla nave greca MEIPAIEYE sbarcai ad Antivari unitamente al Governatore signor Nado Fatar.

Un telegramma della Legazione italiana a Cettigne chiedeva se tra i volontari vi era un certo Pietro Luigi Albini di Ciliverghe. Constatato che sì, io potevo essere libero subito, ma volli sapere perché la Legazione chiedeva di me; temevo fosse successo qualche sinistro in famiglia. Ciò non poco mi contrastò, poiché eravamo diretti nuovamente verso Luaize e Murician, ove pare che si voglia dare presto il colpo definitivo. Con grande rammarico abbandonai i compagni e salii sulla nave dalla quale sbarcai ad Antivari ieri sera, dopo quattro ore di viaggio. Stamane mi si riferì che chiedevano dall’Italia notizie mie riguardo alla salute…

Che delusione…Davvero che pur essendo riconoscente a coloro che si interessarono di me, in quel momento avrei pianto dalla collera. Subito chiesi al Governatore se potevo partire per raggiungere il più presto possibile il battaglione; acconsentì, naturalmente; ci stringemmo la mano e partii.

Mentre oggi camminavo, ebbi l’impressione che Scutari stesse per capitolare, infatti Taraboch taceva. Mi è sopraggiunta la notte, cosa fare? Io devo assolutamente ricongiungermi con loro.

Catrikolla , ore 12 - È mezzanotte precisa ed odo il rombo del cannone. Sarà il forte Taraboch, sono le artiglierie nostre? Non so, sono ancora lontano. Pare sia imminente un colpo decisivo, tutte le truppe si concentrano verso Scutari, mentre i Serbi sono restati ad Alessio e Medua. Sono convinto che prima di iniziare l’assalto generale saranno fatte le pratiche per evitare ciò; riuscito vano il tentativo, si assalirà prima Taraboch, poi il vilayet. Certo che ivi trovansi forti contingenti di regolari turchi, i quali non avendo possibilità alcuna di poter uscire, attendono noi.

Ma la popolazione sarà favorevole? Ho dei dubbi, ad ogni modo spero di essere mandato là, così assisterò ad altri avvenimenti.

Ho un espediente sempre pronto per quando m’accorgo che il nostro battaglione non può, per regioni ch’io non conosco, partecipare a fatti che a me interessano. Scappo, dico di essermi smarrito e quando mi presento all’ufficiale racconto a mezzo di un interprete, quello che è successo o che succede più avanti. Ma è pericoloso ciò perché potrei essere scambiato per un Turco, stanteché non so farmi

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comprendere, né comprendo se mi si interroga e inoltre noi volontari siamo armati con fucili Mauser, tolti ai turchi, i quali sono migliori e relative baionetta, giberna e cinturino decorati di mezzelune d’ottone.

Mi fa meraviglia che i giornali letti ad Antivari dicano che il 16 novembre superammo enormi difficoltà per occupare Medua, quando invece in quella località non vi fu resistenza alcuna da parte de nemico, tant’è vero che entrammo con fucile in ispalla.

Le fucilate udite dagli ufficiali delle navi che si trovano nel porto, erano state sparate da noi, ma in aria, quali segno di giubilo. Si usa fare così quando si occupa qualche località.

29 novembre – venerdì ore 20Albini, arrivato nei pressi di Scutari, cerca di ricongiungersi con il suo reparto,

ma viene scambiato dagli avamposti per un turco.

…Volevo andare a Scutari, io. Avrei spaccato il fucile sopra la roccia tanta era la collera che avevo in corpo. Mi trovavo agli avamposti senza accorgermene e così quello che avevo previsto accadde, le sentinelle, vedendo che io con indifferenza proseguivo, mi chiamarono e mi domandarono ove ero diretto, ed intanto osservavano il fucile e tutte le mezzelune che tenevo sui cinturini. Vedendo che non sapevo rispondere nella loro lingua, i sospetti divenirono (sic) certezze. Dissi che ero un dobrebolscki taglianscki (volontario italiano).

Non mi credettero. Fui accompagnato ad una casa vicina ove mi interrogarono; non seppi rispondere, naturalmente; solo continuavo ad appuntarmi l’indice al petto ripetendo: dobrebolscki taglianscki, dobrebolscki taglianscki. Finalmente, di tra i molti soldati che sopravvenivano e che con curiosità mi guardavano, ne uscì uni che parlava un poco il dialetto veneto.

A lui raccontai il perché mi trovavo in quel luogo e che intendevo raggiungere il battaglione dei volontari. Egli ripeteva loro le mie parole in lingua slava e poi nuovamente si rivolgeva a me: “Ma qui non ce ne sono di volontari, qui ci siamo solamente noi; se continuavate i turchi vi facevano prigioniero o qualcosa di peggio; meno male che vi hanno preso costoro: Ma adesso come fate a convincerli che siete italiano, con tutte quelle mezzelune?”

Intanto udivo tutto intorno un bisbiglio, tutti parlavano di me, certo, alcuni sorridevano di compiacenza, ne vidi uno che mostrava il pugno serrato ed io non potevo, non sapevo dissipare in loro il sospetto che ormai grandemente e con ragione, d’altronde, era radicato nelle loro menti.

“Sentite – dicevami quell’altro – dicono che avete ammazzato un soldato montenegrino per vestirvi dei suoi abiti e poter più facilmente passare al campo turco.

Decisero di trattenermi in attesa di ordini superiori. Sopraggiunsero più tardi il maggiore medico Gaetano Capellari ed Antonio Alessi, di Vicenza, suo inserviente; detto medico volontario aveva un’ambulanza nelle vicinanze. Povero dottore, seppi poi che aveva pianto vedendomi in tale difficile posizione. Mi ricorderò sempre di lui e del suo compagno.

Fui non di meno fortunato. Il comandante Ivo Guirovich, al quale ero stato presentato appena giunto in Montenegro mi riconobbe, si dichiarò dolente che proprio fosse toccato ad un italiano simile incidente e nel contempo si congratulò per lo scampato pericolo.

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30 novembre – Arrivarono ieri, finalmente; chi avrebbe immaginato che impiegassero tanto tempo a venire da Medua? E come sono malconci!

Ciò malgrado, la nostra refezione è stata seguita dai canti e dalle danze di queste giovani genti; allo spettacolo non manca la decorazione e l’orchestra conveniente.

La luna a tre quarti illumina questa scena, la quale è resa quasi a giorno da un gran fuoco che brucia nel centro, è una splendida notte d’oriente.

Intorno al fuoco molti soldati, montenegrini e volontari serbi, ballano il nazionale kolo al suono di un flauto stonato che non esce dalle invariabili e monotone quattro battute che formano la musica di questo ballo.

I ballerini si tengono l’uno all’altro mercé le braccia passate una alla vita del compagno a sinistra, l’altra a quella del compagno di destra; per alcuni minuti formano circolo poi si dividono due o tre colonne e così daccapo; il solo suonatore va avanti e indietro per delle ore intere, perché il kolo non ha mai termine e lo possono ballare due o cento persone, indifferentemente, il che finisce per renderlo eminentemente noioso.

Qui sotto Tarabosch, questi volontari montenegrini ed internazionali cantano un inno alla patria futura di tutti i Serbi, gente che domani, impavida, va alla morte, indifferenti al fato che lor guida, facendo sentire note che suonano agli orecchi come un canto funereo alla potenza svanita dei Turchi.

Oblika 4 dicembre – Taraboch è un’incognita. O in quell’immenso ammasso che io immagino pazientemente lavorato con picconi e trapani elettrici, i nemici sono sicuri del fatto loro e senza preoccupazione ci aspettano incuranti delle graffiature che da ogni parte i nostri cannoni vi arrecano, ovvero temono una forza rivale che realmente non esiste.

Oblika 5 dicembre – Il montenegrino è un popolo dirò quasi abituato alle sofferenze della guerra o meglio è guerriero per istinto. Guai se non fosse, sì minuscolo e sì povero.

Tiene moltissimo alla razza ed alla lingua sue. Per molti anni ancora il suo destino sarà di combattere allo scopo di estendere i confini attualmente sterili ed infruttuosi. Altre nazioni, altri popoli non meno alteri e poveri di lui, lo circondano. L’Albania, per esempio, ostacolerà sempre agli slavi l’occupazione di questo territorio. Anch’essa però è sfortunata ma pur fierissima della sua unità, che non potrà mai conseguire interamente e per questo destinata ad essere ogn’ora in conflitto coi popoli vicini. Il Montenegro, naturalmente, non potrà mai allargare i propri confini a svantaggio dell’Austria o della Serbia: non può competere con questi stati. Resta dunque l’Albania, dalla quale non c’è da sperare; essa è già ostile, se ne scorgono le noncuranze, l’indifferenza, i dispetti più o meno occulti.

Oltre la lotta di razza e di lingua, ci sarà pur quella di religione.Il turco qui più non verrà, ma sotto le macerie della tirannia e delle turpitudini

ottomane, strideranno, gemeranno tizzoni sprigionanti faville che susciteranno un grande incendio.

Mercoledì 5 dicembre, ore 20.30 – Un tenente russo racconta la storia di una colomba. Appartenente alla zarina Caterina, fugge da corte. Stabilito un premio per chi la riporterà a corte, la colomba viene ritrovata e riportata alla zarina dalla moglie di un ricercato perché condannato a morte.

La moglie chiede alla zarina il perdono per il marito, questa glielo concede, ma, fatta pedinare dai suoi agenti, si scopre il nascondiglio dell’uomo.

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L’uomo viene condannato a morte, nonostante la promessa della zarina. A quel punto la colomba vola sul corpo dell’uomo, si imbratta di sangue e fa cadere delle gocce sulla zarina.

Giovedi 6 dicembre – Tutti si lagnano di un certo malessere nelle ossa; molti hanno tosse, raffreddore, il freddo ed i disagi hanno influito sulla nostra salute. Da molte notti si attende e si dice sempre: “Stanotte si danzerà…”

Contrariamente, invece , di giorno circola insistente la voce che stanno trattando la pace, ma di certo nulla si sa. È da lodarsi assai il contegno dei feriti montenegrini, della moralità che esiste in questo paese, dimostrata anche dal pudore e dalla ingenuità dei sofferenti.

L’altra sera i Turchi scorsero i nostri che tentavano di andare a lanciare bombe a mano; ecco la causa di quel diavolio.

In questa casa di albanesi, non so se della tribù di Hoti o dei Gruda, a metà distrutta dal fuoco, si sta dando concerto. Io, Pasquini e il tenente ci siamo trovati buoni musici, il tenente ha una memoria musicale straordinaria, Pasquini invece è semplicemente un bell’originale, solamente a guardarlo fa sorridere, se parla non possiamo trattenerci dal ridere, di un’immaginazione brillante, spirito inquieto e sognatore e di un carattere impetuoso, ha un gusto pronunciato per gli spettacoli grandiosi; capace di sfidare qualunque peripezia pur di raggiungere il suo scopo, ed è dotato inoltre d’una grande franchezza e cordialità.

Antivari 7 dicembre ore 10 - Ho spedito da Murician alla famiglia un telegramma annunciando il rimpatrio dii tutti noi volontari, causa il concluso armistizio, foriero di pace.

Trovomi qui ad Antivari, nel botteghino d’un albanese. Sto rifocillandomi seduto ad un tavolo, finalmente; c’è anche il lusso di un bicchiere quadrato contenente un vinello nero come l’inchiostro. Tre porzioni in un solo piatto, oltre la pagnotta che ho tolto dal tascapane. La bella fascia tricolore mandatami dal fratello attira lo sguardo dei bambini. Che cari bimbi! Di un bruno olivastro, portano sul capo il solito berretto rosso: occhi nerissimi, paffuto il viso: hanno un piccolo corsetto aperto, pantaloni alla zuava, stretti in fondo, calze di grossa lana bianca e scarpette di pelle di vacca o di corda. Come son vivaci e contenti! Come ridono e battono le mani! Ne accarezzo uno, ed eco che tutti vengono a me; sono come i passeri,

E così, il mio pezzo di pagnotta è sparito…!

Domenica 8 ore 15 – Mi recai a visitare, prima di partire, una conoscente, Rugizza, quell’infelice giovane che conobbi a Murician. Mi ricevette con molta contentezza e tanto lei che il vecchio zio non vollero lasciarmi partire, offrendomi ospitalità per quella notte. Sono rimasto meravigliato dell’ordine e della proprietà della minuscola casa; non c’erano molti mobili, ma tutti ben disposti, tutto forbito e lucente.

Mentre lei approntava la cena, più volte tentai di attaccar discorso con lo zio suo, per essere informato di alcune cose, ma non ci comprendevamo e per ciò occorreva sempre l’intervento di lei.

Invitato più tardi mi sedetti a tavola, ove si cenò con riso cotto all’acqua, formaggio, pane e caffè. Sopraggiunse poi la sua amica e si ragionò di tutto un poco. Dalla finestra aperta si vedeva la luna nel mezzo del firmamento; aveva la

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curva verso ponente ed era un poco offuscata da un leggero velo di nuvole. Era una scena bella, naturale, ma un poco triste.

Rugizza volle conoscere l’itinerario del mio viaggio di ritorno, mediante il piccolo atlante tascabile che le apersi sul tavolo; e lei da Bari, seguendo la linea ferroviaria del litorale adriatico, col dito della mano destra proseguì sino a Rimini ma poi sbagliò ed io glielo condussi sulla retta via portandolo su verso Bologna.

“Voi sarete felice – riprese poi – troverete una società più amabile di questa circondato della benevolenza dei parenti e degli amici che vi attendono, ci scorderete presto”.

Non mi attendevo ciò e, turbato dal suo dolore, risposi:“Come potrò io scordarmi di voi, che mediante la vostra infelicità educaste il mio

cuore, che somme soddisfazioni procuraste all’animo mio, che tempraste con la vostra abnegazione il mio spirito? Le lodi che mi procuraste parvero a me più dolci dell’applauso di un popolo”.

Il suo sguardo dritto si fissò nel mio; si persuase, alzò gli occhi al cielo e nel contempo abbandonò nelle mie una delle sue mani, ch’io strinsi con trasporto.

Ella continuò: “Petre, voi partite, ci lasciate per non tornare più. Nessuna ragione qui vi trattiene ormai, a che scopo prolungare la vostra permanenza? Ma davvero non scorderete la nostra contrada?”.

“Ve lo prometto, io qui appresi ad esser fedele all’amore ed alla virtù, ad elevare lo spirito agli alti ideali della patria, ed ora mi trovo più libero, purgato quasi direi, e preparato a sopportare con più rassegnazione i dolori che ci contristano. In quanto a voi, buona Rugizza, vi consiglio di seguire i vostri buoni istinti, le norme della natura che vi è prodiga dei suoi benefici. Credetemi, giovane amica, i dolori non sono eterni, è giusto che presto o tardi finiscano. Per più motivi io vi stimo; qualcun altro sarà cognito che siete dotata di un nobile intelletto e se vi coniugate avrete occasione di esercitare le rare e sublimi vostre virtù. Fate buona compagnia allo sposo perché non ci sono che le grazie e la gaiezza della donna che dissipano la tristezza dell’uomo. Infatti, quale collera resiste al suo sorriso od al suo pianto?”

Dopo questa nostra conversazione, durante la quale il vecchio zio e la giovane sua amica avevano smesso di parlare tra loro, ascoltando noi pur non comprendendo ciò che dicevamo, diedi la buona notte a tutti ritirandomi in una stanzetta vicina indicatami, e ripensando a questa nostra amicizia, più dolce e pura che la profumata aria mattutina.

All’indomani mi accorsi che non vi era altro letto in casa e che loro avevano vegliato tutta la notte per lasciar dormire me.

Parvemi che lei fosse divenuta meno triste; il ritorno della sua tranquillità fu il colmo della mia soddisfazione.

Mentre la giovane stava approntando il the, io passeggiavo sotto quelle piante; l’aria sembrava imbalsamata. Staccai un ramoscello d’ulivo e lo misi nello zaino; la giovane mi vide e sorrise, aveva indovinato il mio pensiero nostalgico.

Si scorgevano sopra il fogliame i fianchi neri del forte e la porta ove nel marmo eterno parvemi veder scolpiti il leone di san Marco della Veneta Repubblica.

Si faceva tardi; certo i compagni pensavano a me. Mi misi la giberna, mi gettai lo zaino sulle spalle, mentre cercavo collo sguardo in quale angolo avevo appoggiato il fucile.

Salutato il buon vecchio, mi avvicinai alla giovane dicendo: “Addio, cortese Rugizza, vivete sempre buona e felice…”

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“Oh, amico mio, io non sarò mai più felice – dissemi accennando negativamente ed asciugandosi gli occhi lacrimosi col dorso della mano – vivete voi contento e felice che io di cuore ve lo auguro”.

Mi scostai subito, andai a prendere il mauser, passai nel cortiletto. In verità ero agitato; mi si avvicinò la cagna, seguita dai suoi cuccioli, fiutava qua e là tutta contenta e soffregando il dorso contro le mie gambe. Sospirando l’accarezzai a più riprese, indi, lesto e silenzioso, quasi temendo di rivederla, scesi in direzione del mare verso Antivari Nuova.

Domenica 8 dicembre, sulla nave Molfetta, ore 20 – Addio Czernagora, roccia sfortunata! Addio popolo orgoglioso, ma prode e generoso! Addio cari ulivi, salvia selvatica e lauro odoroso, addio!

Chi sa che fra non molto non ritorni ancora fra voi! Questi gli ultimi miei saluti rivolti a coloro che col valore e la virtù la patria infelice onorano.1

1 Spontaneo l’accostamento al famoso brano dei Promessi Sposi, quando Lucia saluta il proprio paese e i suoi monti.