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MISERICORDIA E TENEREZZA: CUORE DEL MISTERIO TRINITARIO E ORIZZONTI DEL CAMMINO DELLA CHIESA DEI NOSTRI TEMPI Edoardo Scognamiglio Pompei, 22 Novembre 2016 - ore 17.30 C’è una fedeltà a Dio e alla terra che non possiamo disattendere, che non deve essere assolutamente tradita. Dove il cristiano è segno dell’amore di Dio per il bene del mondo e del prossimo, lì si costituisce concretamente – perché si rende visibile – la fraternità, quell’umano simbolico e relazionale, comunionale, capace sempre di tessere nuove e autentiche relazioni interpersonali. Proviamo a rileggere il significato della misericordia di Dio, mistero del cuore trinitario dell’Altissimo, alla luce delle relazioni umane, nella prospettiva della misericordia come relazione, quale capacità di tessere nuovi e più forti legami di comunione e d’integrazione. Non lasciamo cadere nell’oblio il Convegno ecclesiale nazionale di Firenze che ha presentato cinque vie privilegiate che permettono di camminare e di realizzare l’umanità nuova: uscire, ossia l’esodo; annunciare, cioè il kerygma; abitare, l’incarnazione; educare o anche formazione e testimonianza; trasfigurare con i sacramenti. Considerando queste vie, il nostro contributo proverà a tracciare il significato biblico, teologico, spirituale e pastorale dell’accoglienza e del dialogo come segni credibili e tangibili della misericordia di Dio nel mondo, ossia di quel mistero profondo che è il cuore stesso della Trinità. Lo stesso papa Francesco ha così scritto: «Misericordia: è la parola che rivela il mistero della SS. Trinità. Misericordia: è l’atto ultimo e supremo con il quale Dio ci viene incontro. Misericordia: è la legge fondamentale che abita nel cuore di ogni persona quando guarda con occhi sinceri il fratello che incontra nel cammino della vita. Misericordia: è la via che unisce Dio e l’uomo, perché apre il cuore alla speranza

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MISERICORDIA E TENEREZZA:CUORE DEL MISTERIO TRINITARIO E ORIZZONTI DEL

CAMMINO DELLA CHIESA DEI NOSTRI TEMPI

Edoardo Scognamiglio

Pompei, 22 Novembre 2016 - ore 17.30

C’è una fedeltà a Dio e alla terra che non possiamo disattendere, che non deve essere assolutamente tradita. Dove il cristiano è segno dell’amore di Dio per il bene del mondo e del prossimo, lì si costituisce concretamente – perché si rende visibile – la fraternità, quell’umano simbolico e relazionale, comunionale, capace sempre di tessere nuove e autentiche relazioni interpersonali. Proviamo a rileggere il significato della misericordia di Dio, mistero del cuore trinitario dell’Altissimo, alla luce delle relazioni umane, nella prospettiva della misericordia come relazione, quale capacità di tessere nuovi e più forti legami di comunione e d’integrazione. Non lasciamo cadere nell’oblio il Convegno ecclesiale nazionale di Firenze che ha presentato cinque vie privilegiate che permettono di camminare e di realizzare l’umanità nuova: uscire, ossia l’esodo; annunciare, cioè il kerygma; abitare, l’incarnazione; educare o anche formazione e testimonianza; trasfigurare con i sacramenti. Considerando queste vie, il nostro contributo proverà a tracciare il significato biblico, teologico, spirituale e pastorale dell’accoglienza e del dialogo come segni credibili e tangibili della misericordia di Dio nel mondo, ossia di quel mistero profondo che è il cuore stesso della Trinità. Lo stesso papa Francesco ha così scritto: «Misericordia: è la parola che rivela il mistero della SS. Trinità. Misericordia: è l’atto ultimo e supremo con il quale Dio ci viene incontro. Misericordia: è la legge fondamentale che abita nel cuore di ogni persona quando guarda con occhi sinceri il fratello che incontra nel cammino della vita. Misericordia: è la via che unisce Dio e l’uomo, perché apre il cuore alla speranza di essere amati per sempre nonostante il limite del nostro peccato»1. È, dunque, chiaro: alla radice della misericordia e della tenerezza, in senso cristiano, c’è il cuore vivo della Trinità, mistero d’amore e di salvezza.

1. Nell’essere-cuore trinitario dell’Amore

1 FRANCESCO, Bolla d’indizione del giubileo straordinario della misericordia Misericordiae vultus (11-4-2015), Città del Vaticano 2015, n. 2 [p. 3]. Il testo è presente anche in Il Regno-Documenti 13 (2015) 1-13, qui 1.

C’è un legame intimo e inaccessibile tra il cuore del Padre e la persona di Cristo: è la relazione d’amore nello Spirito Santo2. Da qui il senso agapico e la radice trinitaria della misericordia3. Per Gesù, infatti, amare, perdonare, essere misericordioso, vuol dire donare la vita fino all’estremo, secondo quel principio della kenosis (cf. Fil 2,6-11) che rende credibile lo stare al mondo del Figlio di Dio, rivolto completamente verso il Padre (cf. Gv 1,1.2.18) e sempre orientato verso l’uomo (cf. Gv 1,14). Si tratta di quel dono della vita (zôê) che ha la sua sorgente nel mistero insondabile del Padre, “principio senza principio” (il Silenzio), fonte della vera esistenza, che solo il Verbo venuto nella carne ha potuto rivelare in una forma scandalosamente umana (cf. Gv 1,18).

L’amore misericordioso di Dio (agápê) che Gesù ha annunciato e incarnato non è l’amore della reciprocità, ma l’amore preveniente e incondizionato, asimmetrico. La sua forma più perfetta è quella dell’amore per i nemici. Si tratta dell’amore creativo che ci rende responsabili nei confronti dell’altro, chiunque egli sia. Chi risponde al male con il bene non si limita a reagire, ma produce qualcosa di nuovo. «Quando si amano i nemici non ci si chiede più come difendersi da essi, in che modo scoraggiarli dall’attaccare, quanto invece come toglier loro questi sentimenti di inimicizia […]. Questo modo di amare, dunque, è tutt’altro che etica di sentimenti, ma vera e propria “etica di responsabilità”»4. Si tratta di fare proprio il criterio cui s’ispira il discorso della montagna, ossia quello della figliolanza, dove Dio fa sorgere il sole suoi buoni e sui cattivi e piovere sui giusti e sugli ingiusti, dando vita e sostentamento a ogni cosa (cf. Mt 5,44-45).

È in questa prospettiva che abbiamo potuto celebrare l’anno della misericordia e dobbiamo conservare nella prassi un agire caritatevole e misericordioso5, evitando due pericoli o riduzionismi.

2 Ripensando alla morte di croce di Gesù, Hans Urs von Balthasar meditò con queste parole sulla sofferenza e l’amore di Dio: «Nella visione del cuore che trafitto si effonde, si deve contemplare, con animo “colpito”, il fatto che nella morte di quest’uomo il cuore di Dio è stato “colpito” nel profondo» (H.U. VON BALTHASAR, Gloria. Un’estetica teologica. VII. Nuovo patto, traduzione a cura di G. Manicardi e G. Sommavilla, Milano 1975 [originale 1969], 83).

3 «Misericordia: è la parola che rivela il mistero della SS. Trinità. Misericordia: è l’atto ultimo e supremo con il quale Dio ci viene incontro. Misericordia: è la legge fondamentale che abita nel cuore di ogni persona quando guarda con occhi sinceri il fratello che incontra nel cammino della vita. Misericordia: è la via che unisce Dio e l’uomo, perché apre il cuore alla speranza di essere amati per sempre nonostante il limite del nostro peccato»: MV 2.

4 J. MOLTMANN, La via di Gesù Cristo. Cristologia in dimensioni messianiche, Brescia 1991 [Der Weg Jesu Christi. Christologie in messianischen Dimensionen, München 1989], 155.

5 A tal proposito, scrive papa FRANCESCO, Lettera apostolica Misercordia et misera (20-11-2016), n. 16: «Termina il Giubileo e si chiude la Porta Santa. Ma la porta della misericordia del nostro cuore rimane sempre spalancata. Abbiamo imparato che Dio si china su di noi (cf. Os 11,4) perché anche noi possiamo imitarlo nel chinarci sui fratelli. La nostalgia di tanti di ritornare alla casa del Padre, che attende la loro venuta, è suscitata anche da testimoni sinceri e generosi della tenerezza divina. La Porta Santa che abbiamo attraversato in questo Anno giubilare ci ha immesso nella via della carità che siamo chiamati a percorrere ogni

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Il primo pericolo è – ed è stato quello – di ridurre il giubileo a un evento meramente celebrativo, fatto di manifestazioni e di facili entusiasmi, di porte che si aprono ma di cuori che restano chiusi e indifferenti. Da qui il bisogno di un vero discernimento e di una profonda conversione del cuore e della mente, come altresì del modo di essere e di agire, di credere e di pensare, di stare al mondo e di intessere relazioni, recuperando il senso biblico e teologico dell’amore misericordioso. L’agire di Dio è sempre giusto, ossia misericordioso: egli mantiene nel bene, in vita, ogni suo figlio. Dio sa cogliere ciò che di buono c’è in ogni persona. In questa prospettiva, il fondamento cristiano dell’amore è il Cristo crocifisso e risorto che rivela al mondo l’amore del Padre con l’effusione-dono del suo Spirito. L’ethos cristiano è profondamente trinitario, così come pure cristocentrico, pneumatico, ma anche e soprattutto agapico, comunionale, simbolico. Chi ama come Gesù è una persona veramente riconciliata, pacificata, che sa riconciliare e pacificare gli altri, ossia è diventata un vero strumento di pace. Da qui il monito di papa Francesco che non può lasciarci sereni: «La misericordia non è solo l’agire del Padre, ma diventa il criterio per capire chi sono i suoi veri figli. Insomma, siamo chiamati a vivere di misericordia, perché a noi per primi è stata usata misericordia»6. Chi compie gesti generosi e coraggiosi di perdono, di compassione e di carità – di misericordia – impara a cambiare se stesso e non gli altri e scopre che tutto è grazia, dono gratuito del Padre e sa che non deve aspettarsi niente dagli altri, ma vivere della libertà stessa del dono, del perdono, dell’amore gratuito ricevuto così dal Padre.

Il secondo pericolo, invece, è di scadere nel buonismo, dimenticando che siamo stati redenti a caro prezzo e non con una grazia a basso costo. Ciò vuol dire che Cristo è la nostra vera e unica giustizia e che solamente in lui meritiamo il perdono e la misericordia del Padre7. Nessuno è giusto davanti al Padre. Nessuno merita niente! La morte di Cristo, l’infame abbandono sulla croce, è il giudizio già avvenuto del Padre: lì sulla croce Cristo è morto non

giorno con fedeltà e gioia. È la strada della misericordia che permette di incontrare tanti fratelli e sorelle che tendono la mano perché qualcuno la possa afferrare per camminare insieme».

6 MV 9. La misericordia di Dio è la sua responsabilità per noi: egli desidera il nostro bene e vuole vederci felici, colmi di gioia e sereni. Così, senza la testimonianza del perdono non siamo credibili e la nostra vita rimane sterile, infeconda. Il perdono è una forza che risuscita a vita nuova e infonde il coraggio per guardare al futuro con speranza. Cf. pure ID., Esortazione apostolica Evangelii gaudium (24-11-2013), n. 3: «Dio non si stanca mai di perdonare» (Il Regno-Documenti 21 [2013] 641-693, qui 641). Ultimamente, papa Francesco, così si espresso sull’amore per i nemici: «L’amore fraterno può essere solo gratuito, non può mai essere un compenso per ciò che un altro realizza, né un anticipo per quanto speriamo che faccia. Per questo è possibile amare i nemici»: (FRANCESCO, Lettera enciclica Laudato si’ [24-5-2015], 228). Sul tema della misericordia, cf. almeno W. KASPER, Misericordia. Concetto fondamentale del vangelo – Chiave della vita cristiana, Queriniana, Brescia 2013.

7 Questi aspetti del perdono e della misericordia, come pure dell’amore per i nemici, sono stati da noi presentati in E. SCOGNAMIGLIO, «Amate i vostri nemici» (Mt 5,44). Utopia dell’amore o follia della croce? Celebrare la misericordia, Leumann (Torino) 2015.

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solo al posto di tutti, ma anche e soprattutto al posto mio, di ciascuno di noi. Questa è la vera giustizia! Il perdono, così come la misericordia, è grazia pagata a caro prezzo da Cristo, il Figlio di Dio! Questo vuol dire che l’umanità è di Dio, gli appartiene e che tutto ciò che è pienamente umano è anche pienamente divino. Perché in Gesù Cristo la realtà di Dio è entrata dentro la realtà di questo mondo e, dunque, non esistono più due realtà (Dio e il mondo), ma solo una realtà, e questa è la realtà di Dio nella realtà del mondo divenuta manifesta in Cristo8. C’è una fedeltà a Dio e alla terra che non possiamo disattendere, che non deve essere assolutamente tradita. Lì dove il cristiano è segno dell’amore di Dio per il bene del mondo e del prossimo, lì si costituisce concretamente – perché si rende visibile – l’umano simbolico, ossia l’umano relazionale, comunionale, capace sempre di tessere nuove e autentiche relazioni. Si tratta d’imparare a vivere non solo gli uni accanto agli altri ma gli uni per gli altri9.

Hans Urs von Balthasar esplicita molto bene questo principio quando fa riferimento alla possibilità di incontrare Dio nel prossimo e riflette sul fratello per cui Cristo è morto. «Cristianamente parlando, il senso della sorgente viene svelato del tutto soltanto nel cammino della parola di Dio protesa verso la sua fine e i suoi estremismi. L’universalità dell’amore di Dio Padre, che si era dovuta già rivelare come libertà regale di elezione nell’AT, raggiunge la sua estrema fine nella parzialità di Gesù per peccatori, pubblicani e meretrici, per i perduti e i reietti. Nella sua libertà regale d’amore egli è la sintesi che tra gli elementi intermedi della legge e dei profeti sceglie, tralascia e interpreta in base all’origine ciò che vuole. Le opere dell’amore del prossimo devono assolutamente restare (cf. Mt 7,21), ma all’interno della parentesi d’amore del Padre e del Figlio: devono scaturire della perfetta trasparenza paradisiaca del Figlio verso il Padre, e orientarsi e concretizzarsi verso la semplicità della croce, giacché il Figlio non si oppone al malvagio, si lascia colpire sulla guancia destra, dà via anche il mantello, fa due miglia in più, ama i nemici (cf. Mt 5,39-44). Certamente, resterà anche l’amore di sé, ma soltanto “in margine” e senza accento, oppure come sprone a superare limiti inconsciamente e arbitrariamente innalzati […]. In tal modo tutto si è trasformato. D’ora innanzi, infatti, l’altro da me nell’umanità, amico o nemico, è “il fratello per cui Cristo è morto”

8 È la prospettiva di D. BONHOEFFER, Sequela, traduzione di M.C. Laurenzi, Brescia 1997, secondo il quale la realtà di Cristo racchiude in sé la realtà del mondo. Il mondo, infatti, non possiede una propria realtà indipendente dalla rivelazione di Dio in Cristo. Cf. l’aggiornata biografia di E. METAXAS, Bonhoeffer. La vita del teologo che sfidò Hitler, Roma 2012.

9 H.U. VON BALTHASAR, Credo. Méditations sur le Symbole des Apôtres, traduit de l’allemand par J. Doré et C. Flamant, Paris 1992, 106: «C’est seulement comme réconciliés que nous sommes membres du Christ […]. Comme chrétines, nous ne vivons plus seulement les uns à côté des autres; mais, puisque nous sommes incorporés au Christ, nous vivons aussi de quelque manière les uns dans les autres, et, à vrai dire, pas seulement avec un groupe, pas seulement avec une communauté ou une église, mais avec tous ceux pour qui le Christ s’est livré en expiation pour la rémission des péchés. Personne n’est ici exlcu. Et c’est pourquoi le chrétien ne connaît pas le mot “ennemi”».

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(1Cor 8,11; Rm 14,15); e chi si rende colpevole verso i fratelli, pecca contro Cristo (cf. 1Cor 8,12)»10.

Per von Balthasar, la morte e la risurrezione di Cristo hanno permesso a ogni uomo, a partire dall’eletto e amato Israele, di essere interpellato direttamente dal Padre, da quel Tu divino che si è manifestato proprio nel Verbo fatto carne. Il vero “Tu di Dio” – il suo “Figlio unico”, “eletto” e “amato” – «è morto per questo tu umano, portando le sue colpe, e può perciò identificarsi con ogni singolo uomo nell’ultimo giudizio»11.

È questa la misericordia di Dio, il fatto cioè che l’io-tu intradivino del Padre e del Figlio nell’unità dello Spirito ha avuto un’estensione escatologica – nella passione, morte e risurrezione di Gesù – a ogni “tu umano”. Israele, in questo passaggio di misericordia, è l’anello indispensabile affinché si realizzi il transito verso questo eschaton. La misericordia di Dio, manifestata in Cristo, permette di attribuire al “tu umano” un valore infinito «perché Dio stesso gli ha attribuito e realmente conferito un tale valore nella sua elezione e morte di croce: il che a sua volta è possibile soltanto se il rapporto stesso io-tu-noi ha una dignità assoluta, divina: nell’essere trinitario dell’amore»12.

La celebrazione del giubileo della misericordia e della prassi caritatevole deve avvenire recuperando il carattere trinitario e cristocentrico dell’amore per il prossimo che non è separabile dal presupposto teologico sopra esplicato. «Solo nel movimento divino che va dalla “verticalità” all’“orizzontalità” si può vedere che cosa è il cristianesimo. Lo s’intuisce ancora una volta nella sintesi operata da Gesù – come la più profonda auto-espressione della sua persona e della sua missione – tra il comandamento fondamentale dell’amore di Dio e quello “simile a questo” (Mt 22,39) dell’amore del prossimo»13. In realtà, l’amore per il prossimo – così come la misericordia –, nel NT, si fonda unicamente nell’evento di Gesù Cristo. Il Figlio di Dio non è semplicemente la sintesi di come amare Dio e il prossimo o di come perdonare o essere misericordioso, in quanto, molto di più, è l’amore del Padre che fluisce verso l’uomo. Questo amore – Cristo – è, a un tempo, «teoresi e prassi di Dio […]. Questo amore di Dio per il mondo ci è venuto incontro corporeamente in Gesù Cristo»14. Essere, dunque, misericordiosi come il Padre, vorrà dire – per noi oggi –, aderire al movimento dell’amore divino e poi sperimentare che esso è vita e luce che scorre e avanza […]. L’estensione dell’amore cristiano è misurata dall’estensione dell’amore di Cirsto». Così, «il nome di fratello non può essere negato a nessuno (cf. 1Gv 4,20)»15.

10 BALTHASAR, Gloria, 392-393.11 Ivi 393.12 Ivi 395.13 Ivi 395.14 Ivi 406-407.15 Ivi 408.

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È in dispensabile, a questo punto, riappropriarsi del significato crisitano dell’amore come dono gratuito di sé per il bene dell’altro.

Nel Secondo Testamento, il verbo “amare” (agapáô) e il sostantivo “amore” (agápê) hanno assunto un significato caratteristico per indicare l’amore di Dio e il modo d’esistenza del discepolo che in tale amore si fonda. Si tratta dell’amore come dono di sé per l’altro, di amore gratuito che ha la sua radice in Dio. Qui gioca un ruolo importante la letteratura giovannea (cf. Gv 3,16; 1Gv 4,19). L’etica cristiana si fonda sull’amore di Dio e da questo trae la sua forma (cf. 1Gv 4,17). Dio è amore (cf. 1Gv 4,8.16). L’essere e l’agire di Dio sono definiti, nella letteratura giovannea, con particolare energia attraverso il termine agápê. L’amore del Padre per il Figlio è il modello fontale di ogni amore, soprattutto per il discepolo (cf. Gv 14,21-23; 17,26; 15,9-10). Mentre per l’apostolo Paolo il volgersi dell’uomo a Dio è definito soprattutto con il termine “fede” (pìstis), in Giovanni prevale proprio il vocabolo “amore”. Rimanere in Gesù equivale a rimanere nello stesso amore che lega il Padre e il Figlio, ossia nell’amore (cf. Gv 15,4-6; 1Gv 4,12ss). In Giovanni, ancora più nettamente che in Paolo, l’amore vicendevole si fonda nell’amore divino (cf. Gv 13,34; 1Gv 4,21). È come se al posto della parola “amore” potessimo mettere il nome di Gesù Cristo16. L’amore diventa il segno e la vera prova della fede: è ciò che rende credibile il discepolo (cf. 1Gv 3,10; 4,7ss). La fede appare ogni volta il presupposto dell’amore anche se poi l’amore è la conseguenza necessaria della fede. Da una parte, l’amore per il fratello scaturisce dall’amore di Dio. Dall’altra, senza l’amore fraterno non si dà relazione con Dio. Quindi, il principio veritativo della fede e dell’amore per Dio è l’amore per il prossimo (cf. Gv 13,34; 15,12.17; 2Gv 5).

L’agápê è l’unico amore reso possibile da Gesù. È un amore spontaneo, non meritato, creativo, che apre la via all’amicizia con Dio e che fluisce da Dio al discepolo e dal discepolo al prossimo. È amore che esce da se stesso, un amore efficace, di donazione, che non si ferma davanti al male o alle ingiustizie, né tantomeno davanti ai nemici. È un amore che non ha posa finché non si manifesta (cf. Gv 3,16; 1Gv 4,9). In Gesù, questo amore esercitò la sua spinta fino a trovare la sua pienezza nella morte di croce e nella risurrezione.

16 Cf. K. BARTH, Die kirchliche Dogmatik I/2. Die Lehre wom Wort Gottes, Zürich 1960, 362. Nella prospettiva di Karl Barth, l’amore cristiano si volge all’altro soltanto per amore dell’altro, così come è avvenuto nell’incarnazione e nella morte di croce di Gesù Cristo, il Figlio di Dio. Chi ama e perdona lo fa liberamente, non lo desidera per sé. Tuttavia, l’amore cristiano è più di questo atto di volgersi all’altro: in esso, il soggetto che ama dà all’altro, dà all’amato, ciò che ha, ciò che è suo, quello che gli appartiene, finanche la propria vita, senza curarsi del proprio diritto e delle pretese che potrebbe avanzare, senza curarsi dell’uso diverso che ne potrebbe e magari anche ne vorrebbe fare. Chi ama liberamente mette tutto se stesso (ciò che è e ciò che ha) a disposizione dell’altro. L’uomo che ama rinuncia a disporre di sé. Là dove si compie questo movimento che culmina in questo dono di sé del soggetto che ama, si ama cristianamente. Solo così l’agápê assume la dimensione del dono anche nei confronti del nemico. Nell’agápê, chi ama lo fa semplicemente perché si trova davanti all’altro, al fratello. Cf. ivi IV/2, Zürich 1964, 832-852.

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Anche per l’apostolo Paolo l’amore salvifico di Dio si è rivelato nella morte e risurrezione di Gesù Cristo (cf. Rm 5,8; Ef 2,4-5; Gal 2,20). Molte volte, infatti, egli usa una terminologia che ruota attorno al verbo “amare”. L’amore per il prossimo, in san Paolo, è la caratteristica più importante della vita cristiana, di cui è il centro (cf. 1Cor 16,14; Gal 5,22-23). In tal senso, l’amore non è una semplice virtù, bensì il risultato di una vita trasfigurata dallo Spirito.

I verbi agapân ed eleeîn sono usati con una discreta frequenza nei Vangeli sinottici. Infatti, agapân è usato 8 volte in Mt, 5 in Mc e 13 in Lc. Eleeîn è presente 8 volte in Mt, 3 in Mc e 4 in Lc. Rarissimo l’uso dei sostantivi agápê (1 volta in Mt, 1 in Mc) ed éleos (3 volte in Mt e 6 in Lc). I Sinottici, poi, ignorano del tutto il termine philía, mentre conoscono il verbo philêin (5 volte in Mt, 1 in Mc e 2 in Lc). L’evangelista Luca, poi, predilige il termine “amico” (phílos: 15 volte nel Vangelo e 3 negli Atti). È l’evangelista Matteo, come Luca, ad elaborare una ricca dottrina sull’amore, sulla misericordia, sulla carità. I loro scritti offrono ampie sezioni dei discorsi di Gesù e significative parabole che trattano questi temi tipici dell’etica cristiana. L’evangelista Marco, pur presentando Gesù come il Diletto del Padre, resta abbastanza sobrio su queste tematiche. È da notare, comunque, che Matteo è – tra i Sinottici – il Vangelo che parla più diffusamente dell’amore per il prossimo nelle sue varie componenti essenziali di misericordia e di perdono, di aiuto e di solidarietà e di gesti concreti di carità. In effetti, lo stesso discorso della montagna non fa altro che presentare la dimensione orizzontale dell’etica cristiana che trova la sua profondità nell’amore fraterno esteso ai nemici17.

La vita eterna che dona il Verbo è un’esistenza condivisa con Dio che si chiama comunione. Questa comunione è in primo luogo una realtà in Dio, la corrente di vita tra il Padre e il Figlio, e si esprime sulla terra con una comunione tra gli esseri umani che accolgono il Vangelo (cf. 1Gv 1,3). Coloro che entrano in questa comunione lasciano lontano dietro di sé un’esistenza non autentica, che si crede autosufficiente; in termini giovannei, sono nati da Dio (cf. Gv 1,13; 3,3-8) e non sono più «del mondo» (cf. Gv 17,16). È in questo contesto che si situa l’insegnamento giovanneo sull’amore. Per Giovanni l’amore traduce, «nei fatti e nella verità» (1Gv 3,18), questa comunione in Dio. Quindi, per essere pienamente se stesso, l’amore sarà reciproco: colui al quale è offerto deve accoglierlo per donarlo a sua volta. Ciò è vero in primo luogo per Dio, poi per noi: «Come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi. Rimanete nel mio amore» (Gv 15,9). Nel comandamento dell’amore, secondo Giovanni, sono presenti sia la dimensione ontologica che la dimensione etica,

17 «L’insistenza con cui Matteo ribadisce l’amore e la misericordia diventa evidente in talune affermazioni e passaggi particolari del suo vangelo. Alla difesa del suo interessarsi a “pubblicani e peccatori” il Gesù di Matteo aggiunge: “Andate, dunque, e imparate che cosa significa: preferisco la misericordia al sacrificio” […]. La misericordia […] è per Matteo la quintessenza dell’amore richiesto al discepolo di Cristo […]. Gesù diventa il modello di tale agire misericordioso»: (R. SCHNACKENBURG, La persona di Gesù Cristo nei quattro vangeli, Paideia, Brescia 1995, 184-185).

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ossia sia il fondamento dell’amore nell’essere trinitario di Dio che l’impulso all’azione umana, ad agire secondo l’amore divino manifestato in Cristo. L’amore eterno di Dio è entrato nel mondo che odia Dio e rifiuta la rivelazione di Cristo.

I discepoli rimangono in questo amore vivendo il «comandamento nuovo»: «Amatevi gli uni gli altri come io vi ho amati» (Gv 13,34; cf. 15,10.17). In questo modo l’amore tra i discepoli del Cristo diventa il segno per eccellenza della presenza di Dio in mezzo agli uomini (cf. Gv 13,35). Il comandamento dell’amore reciproco è basato su un nuovo tipo di esistenza, ossia sull’essere attratti nella comunità d’amore che è la vita eterna del Padre e del Figlio. Come il Padre dimora (è) nel Figlio e il Figlio nel Padre, così pure il Figlio dimora nei credenti e i credenti nel Figlio (cf. Gv 14,10-11.20-23; 15,4-10; 17,20-26). È nella reciproca inabitazione che si fonda l’amore reciproco o fraterno. Dunque, se Giovanni insiste tanto sull’amore reciproco dei discepoli, non è per restringere l’amore a un piccolo gruppo di chi la pensa allo stesso modo. L’obiettivo di questo amore resta universale, «perché il mondo creda» (Gv 17,21.23), affinché gli esseri umani si aprano alla presenza di Dio ed entrino nella sua comunione. Tuttavia, il solo segno veramente convincente di questa presenza, di questa comunione, è un amore donato e accolto, un amore «perfetto» (1Gv 4,12; cf. 2,5; 4,17.18). Questo amore, lontano da essere un semplice sentimento, riconcilia le opposizioni e crea una comunità fraterna a partire da uomini e donne i più diversi; dalla vita di questa comunità nasce una forza d’attrazione che può sconvolgere i cuori.

Per san Giovanni, è così che Dio ama il mondo in modo efficace (cf. Gv 3,16), non direttamente, poiché Dio non può forzare i cuori e c’è un’incompatibilità innata tra il mondo chiuso a Dio e il suo amore (cf. 1Gv 2,15), ma deponendo nel cuore del mondo un fermento di comunione, l’amore fraterno, capace di penetrare e far lievitare tutta la pasta. L’amore reciproco è l’incarnazione concreta di atti umili di servizio verso gli altri membri della comunità. L’amore fondativo, che s’incarna in azioni morali concretissime è già anticipato nel segno sacramentale della lavanda dei piedi ai discepoli (cf. Gv 13,4-17), gesto che fa da premessa al commento del quarto evangelista sull’amore di Gesù per i suoi «fino alla fine» (Gv 13,1). L’amore che s’incarna è ben reso dalla similitudine della vite e dei tralci in Gv 15,1-8: i discepoli sono i tralci che, restando uniti in Cristo, la vera vite, portano molto frutto, ossia sono in grado di compiere gesti autentici di comunione fraterna18.

18 «Sia la dimensione ontologica che quella etica di questo comandamento dell’amore sono sottolineate raffinatamente dalla congiunzione greca kathôs (“come”, “esattamente come”, “nella misura in cui”, ma anche “in quanto”, “poiché”): “amatevi gli uni gli altri come [ma anche “poiché”] io ho amato voi”. In 13,34, la felice ambiguità di kathôs permette di dire due cose contemporaneamente»: (ivi 627). Giovanni sembra dirci che l’amore di Gesù è il fondamento e la causa che rende possibile l’amore dei discepoli gli uni per gli altri (è il primo significato di kathôs “in quanto”, “poiché”: l’incarnazione del Figlio di Dio porta l’amore in un mondo vuoto, senza amore) ed è, allo stesso tempo, il modello o l’esempio su cui si misura l’amore umano (è il secondo significato di kathôs: si tratta di servire come Gesù sino alla morte di croce). Tuttavia, il

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2. L’esperienza di Abramo

Come tradurre, concretamente, nelle nostre comunità l’agire misericordioso di Gesù verso di noi? Quale l’impegno delle famiglie, delle Chiese, degli stessi santuari posti a servizio dei fedeli e dei pellegrini? Occorre essere molto concreti: la Chiesa del nostro tempo deve assumere la stessa mentalità di Cristo, facendo proprio la logica dell’incarnazione e l’orientamento del servo sofferente, del Signore che si china su di noi per curare le nostre ferite. La prassi pastorale della Chiesa nel terzo millennio non può non essere agapica e i segni concreti della sua tenerezza si rivelano proprio attraverso la sua capacità di accogliere (non solo i pellegrini o i fedeli, ma ogni persona che è alla ricerca di senso) e dialogare con il mondo e con i suoi stessi membri e figli.

“Accogliere” e “dialogare” sono due verbi che indicano la possibilità di superare ogni grado di separazione tra il nostro volto e quello del prossimo, pur permanendo nella distinzione fontale che è data già nella nostra e altrui identità, anche quando l’io e il tu si trovano concretamente l’uno accanto all’altro, l’uno di fronte all’altro. È cronaca di queste ultime settimane, se non mesi, la difficoltà sperimentata da molti paesi e comuni d’Italia nell’accogliere immigrati, rifugiati e stranieri che, a diverso titolo, sbarcano sulle coste del Sud o s’introducono ai confini del Nord attraverso lunghi e arditi viaggi della speranza, nel tentativo di trovare rifugio e ospitalità nella nostra amata penisola.

“Accogliere”, nella prospettiva teologica della kenosis (o “svuotamento”), non equivale semplicemente ad “accettare” qualcuno con una buona disposizione d’animo, né ad “approvare” o a “tollerare” la presenza d’altri; né può essere – riduttivamente – il “contenere” in uno spazio o luogo delimitato la presenza dello straniero, vuoi dell’immigrato, vuoi del clandestino, o del prossimo-rifugiato diverso da me, fuori da qualsiasi legame sociale e conviviale, politico ed economico, culturale e religioso. “Accogliere” vuol dire, cristianamente, “ricevere” o “condividere” un dono, nella consapevolezza che l’altro – chiunque egli sia – è per me sempre un

comandamento dell’amore che Gesù lascia ai discepoli è una rielaborazione specificamente giovannea di qualche tradizione generale su un comandamento dell’amore. In Giovanni, Gesù proclama l’amore per i propri amici: questa prospettiva è, rispetto all’imperativo di amare i nemici, molto più ristretta e potrebbe essere anche il segno dell’appropriazione cristiana del comandamento dell’amore presente nel libro del Levitico. Ci rendiamo conto che la letteratura bibliografica sul quarto Vangelo a proposito del tema dell’amore è sterminata, cf. almeno, per una buona introduzione generale e per la tematica trattata, R.E. BROWN, Giovanni. Commento al vangelo spirituale, Cittadella Editrice, Assisi (Perugia) 1991, 1438-1439. Si consideri pure ID., Le lettere di Giovanni, Cittadella Editrice, Assisi (Perugia) 1986.

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fratello, una sorella, perché tutti siamo figli e figlie di un solo Padre che è nei cieli19. Chi è capace di “accogliere” è consapevole di ricevere un dono prezioso e di “essere” e di “sentirsi” come uno “straniero tra gli stranieri”, come uno che abita in una casa che si trova in esilio tra le altre abitazioni del mondo, in quell’unico spazio o oikumene che è la terra abitata da tutti. È la “radice abramitica” dell’accogliere stando fuori (di sé), dal proprio mondo, proiettati in uno spazio più grande, quello della diversità e dell’alterità a ogni livello.

In quest’ordine, l’accoglienza ha un significato sponsale, sacrale («io accolgo te»), e diviene convivium che è oltre le parole, ossia comunione profonda dei nostri vissuti di fede e di storia, delle nostre risorse, dei beni, delle speranze che ci abitano insieme alle nostre povertà o fragilità.

Secondo tale prospettiva, il dialogo (non solo quello interreligioso) ci pone gli uni di fronte agli altri – gli occhi negli occhi – in un confronto anche tacito, «perché nell’amore e nell’accoglienza i silenzi sono spesso più eloquenti delle parole. È l’incontro con un volto, un “tu” che riflette l’amore divino»20, pur consapevoli delle differenze che ci abitano e ci co-costituiscono. Perché il dialogo non è una forma retorica della conversazione, né un discorso alternativo fra due o più persone, e neppure una semplice informazione o comunicazione tra più soggetti diversi, bensì un evento di comunione, d’incontro fraterno con l’altro. Accogliere, allora, significherà, cristianamente, fare del dialogo e dell’amicizia fraterna il nostro stile di vita, riconoscendo che i sospetti e i pregiudizi nei confronti dell’altro «si pongono in conflitto con il comandamento biblico di accogliere con rispetto e solidarietà lo straniero bisognoso»21 e che è necessario passare «da un atteggiamento di difesa e di paura, di disinteresse o di emarginazione […] a un atteggiamento» che ha alla base la cultura dell’incontro, «l’unica capace di costruire un mondo più giusto e fraterno»22. È sufficiente

19 “Accogliere”, fece notare papa Francesco nel discorso tenuto al Centro Astalli di Roma, equivale a servire «la persona che arriva, con attenzione; significa chinarsi su chi ha bisogno e tendergli la mano, senza calcoli, senza timore, con tenerezza e comprensione, come Gesù si è chinato a lavare i piedi agli apostoli. Servire significa lavorare a fianco dei più bisognosi, stabilire con loro prima di tutto relazioni umane, di vicinanza, legami di solidarietà. Solidarietà, questa parola che fa paura per il mondo più sviluppato. Cercano di non dirla. È quasi una parolaccia per loro. Ma è la nostra parola! Servire significa riconoscere e accogliere le domande di giustizia, di speranza, e cercare insieme delle strade, dei percorsi concreti di liberazione»: FRANCESCO, Discorso (10-9-2013).

20 FRANCESCO, Esortazione apostolica post-sinodale Amoris laetitia (8-4-2016), n. 12.

21 FRANCESCO, Messaggio per la giornata mondiale del migrante e del rifugiato [3-9-2014] Chiesa senza frontiere, madre di tutti, in http://w2.vatican.va/content/francesco/it/messages/migration/documents/papa-francesco_20140903_world-migrants-day-2015.html.

22 FRANCESCO, Messaggio per la giornata mondiale del migrante e del rifugiato [5-8-2013] Migranti e rifugiati: verso un mondo migliore, in http://w2.vatican.va/content/francesco/it/messages/migration/documents/papa-francesco_20130805_world-migrants-day.html.

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guardarsi attorno in questo meraviglioso santuario della Vergine del Rosario di Pompei per immaginare la reciproca accoglienza e il dialogo d’amore e confidenziale che s’instaurò immediatamente – superando qualche perplessità – tra Maria e l’arcangelo Gabriele, come altresì nella celere visita e nel gioioso incontro della stessa Vergine con la cugina Elisabetta a casa di quest’ultima. Gli incontri e le parole scambiate tra persone diverse offrono la possibilità di donare gioia, di creare comunione, di infondere coraggio e speranza in chi sta attorno a noi.

Nel contesto della globalizzazione, ove viaggiamo su autostrade d’informazioni e siamo tutti più vicini – ma anche più lontani, perché abbiamo sostituito, grazie a Dio non del tutto, all’incontro con il volto d’altri la conoscenza virtuale (chattando, linkando, wappando…), vivendo una sorta di solitudine globale –, davanti allo spettacolo del male, alle sue tante manifestazioni, ci sentiamo tutti spettatori, quindi disorientati, e predisposti passivamente a subire i cambiamenti in atto, anche il passaggio dalla fiducia alla sfiducia sociale e globale. Non viviamo più, infatti, all’aperto ma barricati in casa, chiusi sulle nostre posizioni, certi e arroccati attorno al nostro guscio o focolare che è diventato sempre più una tana (una postazione) e non una casa che accoglie. Non possiamo più vivere senza metal-detector, pass-word, spam e circuiti antivirali: i sistemi di sicurezza si moltiplicano e sono sempre più sofisticati non solo per salvaguardare la privacy, ma anche e soprattutto per custodire con maggiore sicurezza la nostra vita. Tuttavia, nessuno può garantirci la totale sicurezza. Così, aumenta la sfiducia nell’altro e nel potere organizzativo e di difesa che gli Stati cercano di garantire ai propri cittadini. C’è stato un gap anche nella gestione della sicurezza e del panico suscitato dagli attentati terroristici e dalle avvisaglie dell’Isis anche da parte dell’Onu. In questo contesto di crisi globale, la sfida del dialogo e dell’accoglienza non riguarda solo il riconoscimento degli altri ma anche e soprattutto il lavoro di ogni credente per la pace e per il superamento di ogni forma di paura, di pregiudizio, di barriera sociale, di smarrimento. Si tratta di decidere se vogliamo subire o orientare il cambiamento in atto, diventando così protagonisti del dialogo. L’impegno per il dialogo in tutte le sue forme ci sprona a diventare protagonisti della speranza, della fiducia, del bene, e a non restare in questo mondo come vittime ammutolite del male che si manifesta, talvolta, in modo tragico e drammatico. Essere protagonisti del dialogo significa prendere in mano la nostra vita e dare un contributo concreto alla pace, alla fratellanza, all’incontro, al bene, con la propria fede, umanizzando il mondo23. Non vogliamo subire i cambiamenti e restare – per costrizioni – barricati in casa, in parrocchia, nel nostro territorio, ma aprirci agli altri, per la costruzione di un mondo migliore, vivendo la sfida

23 Per questi aspetti, cf. M.L. FITZGERALD, Dialogo interreligioso. Il punto di vista cattolico, Milano 2007; E. SCOGNAMIGLIO, Il volto di Dio nelle religioni. Approccio storico-critico, narrativo e simbolico, Milano 2001; ID., Dia-Logos. I. Prospettive. Verso una pedagogia del dialogo, Cinisello Balsamo (Milano) 2009; ID., Dia-Logos. II. Orientamenti. Per una teologia del dialogo, Cinisello Balsamo (Milano) 2011; ID., Francesco e il Sultano. Lo “spirito di Assisi” e la profezia della pace, Padova 2011.

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dell’integrazione e quella altrettanto complessa del confronto e dell’incontro tra fedi e culture e tradizioni religiose differenti.

In questa nostra riflessione abbiamo come punto di riferimento l’esperienza di Abramo che, concretamente, è l’immagine del vero credente – del rischio della fede –, di colui che ha creduto nell’impossibile possibilità di Dio e si è messo in cammino, certo solamente della presenza e dell’azione benefica di Dio nei suoi confronti e della sua tribù. Proprio la storia di Abramo, il suo stare in esodo, uscire da se stesso, da ogni umana sicurezza, ci dice che non può esserci un’esperienza veramente autentica di dialogo e di accoglienza senza la fiducia, senza la certezza di potersi fidare dell’altro, di chi ci sta di fronte, di chi ci sta parlando. Accogliere e dialogare è, nell’esperienza di Abramo, una questione di fede, di fiducia nell’altro. La fede, in questa prospettiva, non fa vedere ma semplicemente camminare, e diviene un “esodo senza ritorno”: «Il Signore disse ad Abram: “Vàttene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò. Farò di te un grande popolo e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e diventerai una benedizione. Benedirò coloro che ti benediranno e coloro che ti malediranno maledirò e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra» (Gen 12,1-3). Abramo rompe ogni suo legame terrestre e parte da Ur dei Caldei per un paese sconosciuto, con la moglie sterile, fidandosi solo di Dio che lo ha chiamato e gli ha promesso una posterità. È il primo atto della fede di Abramo. È una fede fiduciale che si ritroverà al momento del rinnovamento della promessa (cf. Gen 15,5-6) e che Dio metterà alla prova richiedendo Isacco, frutto di questa promessa (cf. Gen 22). L’esistenza e l’avvenire del popolo eletto dipendono da questo atto assoluto di fede (cf. Eb 11,8-9). Non si tratta soltanto della sua discendenza carnale, ma di tutti coloro che la stessa fede renderà figli di Abramo (cf. Rm 4; Gal 3,7). Questo “uscire” da sé di Abramo, reso in ebraico con lek-lekà (“va per te, verso te stesso”), è un vero e proprio atto di auto-espropriazione, di consegna al mondo, “fuori di sé”, che diventa la premessa di ogni possibile esperienza di accoglienza e di dialogo sia nei confronti di Dio e della sua parola sia nei confronti del prossimo. Si tratta di un nuovo inizio, di una nuova storia. Abramo deve lasciare il suo clan, le sue sicurezze e aprirsi alla novità di Dio, all’origine di nuove relazioni.

La parola di Dio che è rivolta ad Abramo è un invito a mettersi in movimento e a distaccarsi; diventa il modello dell’uomo in cammino, del pellegrino, del viandante. Abramo sapeva che cosa lasciava: il paese, la patria e la casa del padre. Se il paese indica la realtà concreta, quei luoghi in cui era abituato a vivere, la patria indica un distacco non solo fisico, ma anche dall’ambiente culturale. Di fatti, la patria indica le abitudini, gli usi e i costumi del luogo: è in atto una separazione da un ambiente anche linguistico; non è semplicemente cambiar regione. Si tratta di cambiare cultura, di uscire da una mentalità culturale e, ancora di più, stare fuori dall’ambiente umano legato alle generazioni. Abramo è tirato fuori da quel sistema chiuso e sicuro della tribù, del clan; deve staccarsi per diventare un

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fondatore e dare, così, inizio a qualcosa di nuovo. Perciò, egli non solo cambia ambiente fisico, e non solo deve cambiare cultura, ma deve cambiare famiglia, deve uscire fuori da quelle relazioni della sua tribù, del suo clan, della sua famiglia, creando qualche cosa di nuovo. Dio, ad Abramo, chiede il coraggio di uscire dalle sue sicurezze, il coraggio del rischio. Dio gli garantisce un nome, di farlo diventare una benedizione. Nel linguaggio biblico, la benedizione è strettamente legata alla generazione, alla fecondità; benedire significa far diventare fecondo, ricco, abbondante, numeroso; è l’immagine della prosperità. S’inserisce in un contesto culturale dove più figli ci sono e meglio è; dove la grande quantità di figli è segno di questa benedizione, ossia della presenza di Dio che dona la vita e che la fa crescere. Diventerai una benedizione anche per gli altri popoli; se Adamo ha portato agli altri la maledizione, Abramo è chiamato a portare benedizione. Dio promette che la benedizione che è data ad Abramo non è solo per lui, ma è destinata a tutte le famiglie della terra. È un’apertura universalistica. Abramo deve uscire da una famiglia per dare inizio a una realtà nuova, ma la benedizione che egli ottiene non è per sé, non diventa un possesso egoistico da tenere e da dominare, ma si apre a una prospettiva universale.

“Esodo senza ritorno”, la fede di Abramo – la sua capacità di accogliere la parola di Dio e di dialogare con l’Assoluto – diventa, sul piano umano, dei rapporti orizzontali, un “avvento senza rimpianto”, che si concretizza nella capacità di vedere nell’altro, nell’ospite, nel forestiero (straniero24), nel pellegrino, un segno visibile della presenza di Dio nella storia. La fede-fiduciale è “avvento senza rimpianto”, ossia un “consegnarsi all’altro”. È in questa prospettiva che dobbiamo rileggere Gen 18 in cui si narra dell’apparizione dei tre angeli-messaggeri alle querce di Mamre, testo famosissimo che è divenuto l’icona dell’ospitalità (philoxenìa) sacra da riservare allo straniero nel nome del Signore, della Trinità (da cui prenderà lo spunto Andrej Rublev per la sua famosa icona). La visita dei tre uomini è, per il lettore biblico, la stessa visita del Signore. Chi accoglie questi tre uomini superando paure, chiusure e scetticismo, riceve Dio stesso, parla direttamente con lui! È questo il senso sacro,

24 I termini interscambiabili di «straniero» e di «forestiero» hanno, nel linguaggio biblico, un significato ben preciso e distinto. Infatti, nel testo di Matteo 25, nella versione greca dei LXX e tra i versetti 35 e 38, per due volte appare il termine greco che è tradotto nel testo latino della Vulgata, entrambe le volte, con hospes e, nella versione italiana, con la parola “pellegrino” e, nella Bibbia di Gerusalemme, con “forestiero”. La parola greca ha una massima estensione tanto da comprendere il significato di straniero nell’accezione di estraneo ma anche di ospite, rimarcando perciò la differenza tra ciò che è familiare (e perciò parallelo ad amico), e ciò che è ostile (e perciò parallelo a estraneo ). Da qui deriva xenofobia e alloghenês con il significato di estraneo, di un’altra stirpe, straniero, ma anche quello di philoxenìa, cioè di “ospitalità”. La lingua latina è più povera ma anch’essa marca la differenza usando due parole per tradurre lo stesso termine greco accentuando così il significato diverso: hostis e hospes. Non si sottolinea mai abbastanza come dietro le parole si nasconda un atteggiamento, una cultura, una habitus mentis e, perciò, una politica dell’accoglienza che può avere due diverse strategie: una includente e l’altra escludente. Cf. CEI-COMMISSIONE ECCLESIALE PER LE MIGRAZIONI, «Ero forestiero e mi avete ospitato», in Il Regno-Documenti 39 (1944/5) 154-167.

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divino, dell’ospitalità nella Bibbia che apre sempre alla comunione, all’incontro d’amore con l’altro. “Tre vede ma con uno parla”, ci dice sant’Efrem il Siro (IV sec.), in riferimento al v. 3: “Mio Signore, se ho trovato grazia ai tuoi occhi, non passar oltre senza fermarti dal tuo servo”. Leggiamo il testo di Gen 18 nella forma dell’esegesi che è offerta da Efrem nel suo Commento sulla Genesi 18,1-2: «Pertanto il Signore, che gli era apparso all’ingresso della tenda, ora apparve chiaramente in uno dei tre. Abramo allora si prostrò e lo venerò, chiedendo a lui, in cui alberga la maestà, che acconsentisse ad entrare nella sua casa e benedicesse la sua dimora».

Nei due brani a confronto appare evidente che la visione avviene a livello del cuore, “la tenda”, e “nell’ora più calda del giorno”, quindi quella di maggior luce, quando il cuore non è appesantito dalle tenebre (sant’Efrem dice “chiaramente”) e affiora a quello dei sensi (“alzò gli occhi”). Inoltre, tutti e due, l’originario e quello esegetico, mostrano l’inizio di un processo che parte dall’incontro di Dio con una persona, Abramo, che fonderà un popolo, e arriva all’incontro sempre di Dio ma con una comunità. La pedagogia divina ha condotto per mano l’uomo a una conoscenza di sé che parte da un Dio “Padre” e arriva a un Dio “trinitario” e, quindi, “comunitario” e “Uno”, nel senso di “Indivisibile”, mettendo nel suo cuore la disponibilità e l’anelito a passare dall’essere “popolo” ad essere “comunità”. Ogni autentica esperienza di dialogo e di accoglienza deve creare senso di famiglia, di comunità, di comunione autentica, di fraternità. Certo, non possiamo mettere tra parentesi la difficoltà concreta legata all’accoglienza: le resistenze, le paure, l’integrazione, il rischio del rifiuto, delle chiusure, del pregiudizio. Nella storia di Abramo e dei tre forestieri-messaggeri, la soluzione sembra venire dal cibo e dalla mensa, dallo stare attorno a un tavolo per condividere quello che si ha e quello che si è. Non c’è incontro, non ci sono possibilità di legami, di relazioni autentiche, d’integrazione, se restiamo in piedi o sulla soglia o con le mani conserte. Occorre allargare le braccia e il cuore e far nascere quella gioia che viene dal di dentro perché in quella visita, in quell’incrocio di volti, Dio si manifesta.

Abbiamo poco tempo per analizzare l’atteggiamento di Sara. Il suo sorriso è sarcastico, corrosivo, inconcludente, fermo alla crudezza della realtà, alla contingenza del momento: non può credere alle parole dei tre messaggeri, non può essere assolutamente possibile, in prospettiva umana, cioè solamente biologica, che Dio la benedica e la renda madre. È il sorriso di chi non crede, una vera mancanza di fede. Sara non conosce ancora l’identità dell’ospite (cf. Gen 18,12). La sua storia è il segno di una generazione finita, conclusa, non aperta alla novità, a nuovi possibili e originali sradicamenti e parti. Sara è chiusa in se stessa, circondata dai suoi ricordi, da nostalgie del passato, da sentimenti di rimorsi e di delusione. È Abramo il patriarca, il capostipite: da lui rinasce un popolo, l’intera umanità. Sono poste in lui le radici della grande famiglia umana, di quella fratellanza universale che è desiderio recondito di ogni uomo e

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donna di qualsiasi tempo, luogo, cultura e fede. A lui sarà dato in dono il potere dell’intercessione (cf. Gen 18,16-33).

La vicenda di Mamre illustra la prima proclamazione biblica di un gesto d’amore che si rivelerà decisivo nel giudizio finale sulle labbra del Figlio dell’uomo: «ero forestiero e mi avete accolto»; «in verità in verità vi dico: quanto avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, lo avete fatto a me» (Mt 25,35.40). Abramo è segno dell’accoglienza, immagine della soglia, di chi deve osare, vincendo resistenze e paure per accogliere l’altro. Egli sperimenta la pedagogia dello stare sulla soglia che, spazialmente, ma anche temporalmente, è simbolo di una possibilità bisettrice tra tre opzioni: quella riferita allo stare in attesa, quella riferita all’andare in avanti, e quella che contempla anche l’evento del tornare indietro. La soglia diventa, allora, la cifra che narra, con tutta la sua simbologia, l’accoglienza: è lo spazio del dialogo, della “contaminazione”, luogo dell’umano che siamo e sappiamo esprimere. Abramo inizia a parlare, vincendo le sue paure, vivendo come itinerante: è il segnale che il dialogo, messa da parte ogni resistenza, se espone il soggetto interlocutore coinvolge l’altro ad ascoltare, ad accogliere o a rifiutare la parola che pungola. I tre uomini s’impongono ad Abramo per quello che sono: sconosciuti che vogliono essere accolti come ospiti sebbene forestieri. Stanno in piedi ed è come se bussassero; sostano in silenzio abbacinati dalla luce in attesa di un invito. Sono composti ma esposti in tutta la nudità del loro silenzio che dice del loro bisogno. Attendono da Abramo un segnale. Abramo li vede e corre «loro incontro dall’ingresso della tenda e si prostrò fino a terra» (Gen 18,2). Qui l’accoglienza si fa rivelazione e incontro25. Qui l’accoglienza rivela un gesto d’amore verso l’altro.

3. Tre forme di dialogo o di aperture nell’uomo: creazione, rivelazione e redenzione

Martin Buber (1878-1965), noto pensatore ebreo del Novecento, tenne un ciclo di lezioni a Francoforte sulla Religione come presenza (Religion als Gegenwart). Le lezioni furono raccolte e pubblicate per la prima volta nel 1978. Un gruppo di queste lezioni costituisce una vera e propria pars destruens attraverso la quale Buber afferma la necessità di emancipare la religione da tutte quelle ingerenze, indebite e aggressive, che altre sfere della vita spirituale esercitano sul sentimento religioso. Ci sono diversi riduzionismi che minano l’autonomia della religione, come ad esempio il biologismo, l’arte, l’etica, lo scientismo, la stessa politica, ecc... Non si può neanche ridurre la religione a un sentimento di dipendenza dall’assoluto, a una nozione psicologica26. Buber recupera, per la religione, la

25 Cf. C.M. MARTINI, Farsi prossimo nelle città: lettere, discorsi, interventi, 1986, Bologna1987; ID., Sto alla porta: lettera per il biennio pastorale 1992-1994, sul vigilare, Milano 1992; ID., Dalla città accogliente alla città aperta, Enna 2005.

26 Cf. M. BUBER, Religione come presenza, a cura di F. Ferrari, Morcelliana, Brescia 2012.

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categoria della relazione dell’essere umano al mondo, alle cose, alle essenze, agli uomini, all’essere, a se stesso. Nel secondo gruppo di lezioni, quasi una pars costruens di questo ciclo d’incontri, Buber – dopo aver sgombrato il campo da tutto ciò che ostacola il libero dispiegarsi della religione o, per meglio dire, del “religioso” –, individua proprio nella religione come presenza l’unico modo per affermare, ora e sempre, indipendentemente dal momento storico toccato in sorte, la religione.

Per Buber, è la fedeltà al presente, al nostro vissuto, che può aprire l’esistenza di ogni essere umano alla religiosità autentica. Egli riconosce e lascia intuire un nesso molto forte tra la presenza di Dio nel mondo (creazione e rivelazione) attraverso il concetto di shekinah e la presenza di Dio nell’uomo e la presenza dell’uomo a se stesso. Dio è quella presenza originaria presente a noi nel tempo e a noi stessi in noi stessi. Ciò è nella rivelazione stessa di Jhwh: “Io sono presente così come sono presente [Io sarò colui che è]”. Dio non è semplicemente il Totalmente altro, ma anzitutto il Totalmente presente. Se Dio è il Tu eterno, la sua eternità risiede proprio nella sua presenza che non può mai spegnersi. Jhwh è il Dio dell’eterna presenza al mondo, a noi, agli altri. La creazione è l’origine, la redenzione è la meta e la rivelazione non è un punto statico del nostro incontro con Dio, bensì sempre qualcosa di nuovo. Per Buber, la Scrittura è quel documento originario della storia di un mondo che oscilla tra creazione e redenzione, di un mondo al quale, nella sua storia, accade la rivelazione, una rivelazione-incontro, che mi-ci accade quando Dio – “Io sono” – è presente. Dio è quella presenza immediata, dialogica, che mi sta di fronte sui tre piani della realtà: il cosmo (la creazione), il mondo e l’uomo. Dio è quella relazione pura che ci viene incontro e ci sta di fronte. È la grazia dell’incontro, del dialogo. Quando la persona entra nell’incontro con Dio, l’eterno presente che ci sta di fronte, non è più lo stesso, esce trasformato, cambiato. Quando noi facciamo esperienza concreta di dialogo nelle tre forme di creazione, rivelazione e redenzione, diventiamo veramente noi stessi e ci poniamo in una relazione autenticamente umana, ossia divina. In altri termini, ogni esperienza autentica d’incontro, di accoglienza e di dialogo, ci rende veramente noi stessi, ci umanizza per quello che siamo: persone in relazione, che hanno di fronte sempre Dio.

Il bisogno di mantenere le tre dimensioni del dialogo sempre aperte è rivelato già dalla Scrittura nel racconto della creazione. Il libro della Genesi offre tre registri paralleli che descrivono le tre relazioni fondamentali che legano l’uomo alla trascendenza27 (Dio), al

27 Tra il Creatore e l’uomo vi è un legame sottilissimo, il filo comune dell’alito di vita – un respiro comune (cf. Gen 2,7: nishmat-hajjim) – che non è il soffio o spirito (rûah) posseduto anche dagli animali. È, invece, una realtà posseduta solo da Dio e dall’uomo nella sua materialità limitata e caduca (la “polvere del suolo”). Questo respiro, anello di congiunzione – link – tra Dio e l’uomo è come «una fiaccola divina che scruta tutti i segreti del cuore» (Pv 20,27). È la capacità di penetrare i misteri della coscienza, nonché la sorgente della morale e dell’auto-coscienza. Per questa parte, cf. il suggestivo commento qui ripreso di G. RAVASI, Se la libertà dà senso alla creazione, in Avvenire del 3-1-2016, p. 19 [Agorà/Cultura]. Per la parte

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cosmo28 (materia e animali), al suo simile29 (la terra). Questo triplice legame o visione (guardare in alto, Dio; attorno e in basso, la materia e gli animali; di fronte, la relazione con le altre persone a partire da Eva) rivela la dimensione simbolica della persona umana secondo la Bibbia. È un legame armonico, dialogico, spesso disturbato dall’esperienza del peccato di cui parla il capitolo terzo della Genesi.

Dovremmo avere più tempo per riscoprire il dialogo con tutta la creazione, con il pianeta Terra. “Casa comune”, “sorella” e “madre bella” sono tre immagini con le quali papa Francesco presenta il pianeta Terra nella lettera enciclica Laudato si’. Attingendo a piene mani dal Cantico di frate sole o delle creature di Francesco d’Assisi e dalla stessa spiritualità francescana – di cui si fece promotore il dottore serafico Bonaventura da Bagnoregio –, Bergoglio ha accolto il grido di questa sorella che protesta per il male che le provochiamo a motivo «dell’uso irresponsabile e dell’abuso dei beni che Dio ha posto in lei»30. In questa enciclica, egli si propone «di entrare in dialogo con tutti riguardo alla nostra casa comune»31.esegetica, cf. almeno G. VON RAD, Genesi. Traduzione e commento, vol. 2/4, Brescia 1978; G. RAVASI, Bereshît… En archè. Genesi 1-3: il canto della creazione e della redenzione, in C.M. MARTINI - G. RAVASI E ALTRI (curr.), Il libro sacro. Letture e interpretazioni ebraiche, cristiane e musulmane, Milano 2002, 1-18. Cf. pure G. RAVASI, Il libro della Genesi (cc. 1-11), Roma 1991. Per approfondimenti biblico-patristici, sempre validi gli studi presenti in A. PANIMOLLE (dir.), Dizionario di spiritualità biblico-patristica. X. Creazione uomo-donna nella Bibbia e nel giudaismo antico; XI. Creazione uomo-donna negli scritti dei padri, Roma 1995.

28 Il legame tra Adamo e la realtà esterna (la materia) è rivelato dal “coltivare e custodire” il giardino dell’Eden (cf. Gen 2,15), da quel cibarsi di frutti (cf. Gen 2,16), da quell’imporre il nome alle bestie (cf. Gen 2,19-20). Sono tutte rappresentazioni dell’homo faber, ossia del lavoro e della conoscenza che permettono all’umanità di penetrare e d’insediarsi nel creato, in una convivenza nobile e signorile. Cf. H.W. WOLFF, Anthropologie des Alten Testaments, München 1973 [Antropologia dell’Antico Testamento, Brescia 1993, terza edizione riveduta].

29 È la creazione della donna che completa il processo di ominizzazione: Adamo guarda di fronte a sé cercando un aiuto degno di lui (cf. Gen 2,18.20). In ebraico c’è il termine kenegdô che, letteralmente, evoca una realtà che “sta di fronte”. Si tratta di un “partner”. Eva rappresenta il legame con il prossimo, con l’altra creatura umana in cui specchiare i propri occhi, in cui versare il proprio dolore e la gioia, con cui condividere ansie e speranze. È il legame d’amore con la donna (cf. Gen 2,21-25), raffigurata attraverso due simboli: la costola e l’assonanza tra i due nomi del maschio e della femmina (’ish e ’isshah: «La si chiamerà ’isshah [“donna”]»). In sumerico, l’ideogramma ti significa contemporaneamente “costola” e “vita, vivente”. Esiste una solidarietà carnale e quindi esistenziale tra i due, l’uomo e la donna. Ben conoscendo il valore del corpo come segno di comunicazione nell’ambito semitico, si può intuire quale sia il significato del simbolo “costola”, attraverso l’esplicita decifrazione che se ne fa nell’inno d’amore di 2,23, primo ed eterno canto d’amore dell’uomo e della donna che si amano: «Questa volta è osso dalle mie ossa e carne della mia carne!».’ish e ’isshah sono «una sola carne» (Gen 2,24) sia nell’atto fisico d’amore, sia nella dimensione esistenziale e umana, sia nel figlio che da loro nascerà come unica carne di due persone. Genesi afferma già l’unità nella distinzione: nell’amore tra maschio e femmina l’uno diventa uguale al due.

30 Cf. FRANCESCO, Lettera enciclica Laudato si’ (24-5-2015), n. 2: Il Regno-Documenti 23 (2015) 1-52, qui 1.

31 Ivi 3. Quasi certamente, la parola “dialogo” è tra quelle che più ricorrono in questo documento. Infatti, se ne parla in queste forme: «entrare in dialogo con tutti riguardo alla nostra casa comune» (n. 3); «rinnovare il dialogo sul modo in cui

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Il peccato dell’uomo – il cuore ferito di ciascuno di noi – ha lasciato dei segni indelebili attorno a noi, nell’ambiente che ci circonda, provocando una sorta di malattia cosmica: aria, acqua, suolo, terra ed essere viventi sono in qualche modo contaminati dal male. Tutta la creazione è in gemito e soffre le doglie del parto e continuerà a gemere sino alla redenzione piena del mondo (cf. Rm 8,22). Nel frattempo, l’umanità intera è chiamata a custodire nel migliore dei modi la natura con la quale è in simbiosi, riconoscendo la profonda relazione – non solo esistenziale e biologica, bensì ontologica – con tutte le creature del nostro Pianeta. Siamo, anche per papa Francesco, tutti interconnessi, in una relazione profonda che mette assieme la vocazione dell’uomo – voluto dall’Onnipotente e bon Signore a sua immagine e somiglianza – e il destino del mondo. Fiori e piante, semi e foglie, uccelli e pesci, animali selvaggi e domestici, alberi e frutti, sabbia e zolle, luce, aria e pietre, stelle e pianeti, fuoco e calore, acqua e grandine, polvere e vento, insieme a ogni altro essere vivente (animale, vegetale e minerale), portano i segni

stiamo costruendo il futuro del pianeta» (n. 14); «ampie linee di dialogo e di azione che coinvolgano sia ognuno di noi, sia la politica internazionale» (n. 15); «La vera sapienza, frutto della riflessione, del dialogo e dell’incontro generoso fra le persone, non si acquisisce con una mera accumulazione di dati che finisce per saturare e confondere, in una specie di inquinamento mentale» (n. 47); «Fra questi estremi, la riflessione dovrebbe identificare possibili scenari futuri, perché non c’è un’unica via di soluzione. Questo lascerebbe spazio a una varietà di apporti che potrebbero entrare in dialogo in vista di risposte integrali» (n. 60); «la scienza e la religione, che forniscono approcci diversi alla realtà, possono entrare in un dialogo intenso e produttivo per entrambe» (n. 62); «la Chiesa cattolica è aperta al dialogo con il pensiero filosofico, e ciò le permette di produrre varie sintesi tra fede e ragione» (n. 63); «anche se questa Enciclica si apre a un dialogo con tutti per cercare insieme cammini di liberazione, voglio mostrare fin dall’inizio come le convinzioni di fede offrano ai cristiani, e in parte anche ad altri credenti, motivazioni alte per prendersi cura della natura e dei fratelli e sorelle più fragili» (n. 64); «Ognuno di noi dispone in sé di un’identità personale in grado di entrare in dialogo con gli altri e con Dio stesso» (n. 81); «Lo stesso cristianesimo, mantenendosi fedele alla sua identità e al tesoro di verità che ha ricevuto da Gesù Cristo, sempre si ripensa e si riesprime nel dialogo con le nuove situazioni storiche, lasciando sbocciare così la sua perenne novità» (n. 121); «proviamo ora a delineare dei grandi percorsi di dialogo che ci aiutino ad uscire dalla spirale di autodistruzione in cui stiamo affondando» (n. 163); «La previsione dell’impatto ambientale delle iniziative imprenditoriali e dei progetti richiede processi politici trasparenti e sottoposti al dialogo» (n. 182); «Oggi, pensando al bene comune, abbiamo bisogno in modo ineludibile che la politica e l’economia, in dialogo, si pongano decisamente al servizio della vita» (n. 189); «Abbiamo bisogno di una politica che pensi con una visione ampia, e che porti avanti un nuovo approccio integrale, includendo in un dialogo interdisciplinare i diversi aspetti della crisi» (n. 197); «La maggior parte degli abitanti del pianeta si dichiarano credenti, e questo dovrebbe spingere le religioni ad entrare in un dialogo tra loro orientato alla cura della natura, alla difesa dei poveri, alla costruzione di una rete di rispetto e di fraternità. È indispensabile anche un dialogo tra le stesse scienze, dato che ognuna è solita chiudersi nei limiti del proprio linguaggio, e la specializzazione tende a diventare isolamento e assolutizzazione del proprio sapere. Questo impedisce di affrontare in modo adeguato i problemi dell’ambiente. Ugualmente si rende necessario un dialogo aperto e rispettoso tra i diversi movimenti ecologisti, fra i quali non mancano le lotte ideologiche. La gravità della crisi ecologica esige da noi tutti di pensare al bene comune e di andare avanti sulla via del dialogo che richiede pazienza, ascesi e generosità, ricordando sempre che “la realtà è superiore all’idea”» (n. 201).

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dell’amore di Dio e hanno per inciso nel proprio Dna il sigillo della Trinità. La natura è il grande codice o libro nel quale Dio ha lasciato le sue vestigia inconfondibili32. Spetta a ciascuno di noi riscoprire la profonda interdipendenza tra tutte le creature e la vera vocazione dell’uomo secondo il progetto di Dio nella creazione. Perché il mondo «è qualcosa di più che un problema da risolvere, è un mistero gaudioso che contempliamo nella letizia e nella lode»33. Secondo questa prospettiva, per intendere il mondo non è sufficiente guardarlo: è necessario entrare in dialogo con il suo autore, lasciandosi stupire, senza pretendere di venire a capo di quel mistero, consapevoli che il sì di Dio al mondo non viene a mancare neppure di fronte al peccato del mondo, al no della creatura al Creatore34.

Il mondo è come un grande sacramento di comunione che permette di sperimentare l’amore e la bontà di Dio per noi e per il prossimo e, per questo, rende responsabili ogni persona davanti ai problemi ambientali e alla crisi ecologica globale, per il futuro dell’umanità e già delle prossime generazioni. Il destino di questo mondo dipende dalla riscoperta della nostra vocazione originaria e dall’uso responsabile dei beni e delle risorse del Pianeta. Siamo interdipendenti in un ecosistema che mal sopporta l’agire sfrenato della tecnica e della scienza, dei consumi e di un tipo di produzione che impoverisce le risorse del Pianeta.

Per dirla con le parole di san Bonaventura, il mondo è come un libro rimasto occultato, ossia morto e cancellato (deletus et cancellatus) che non siamo più in grado di leggere e d’intendere, inclini a esaltare le tracce del progresso – cioè del nostro passaggio – e non i segni del gesto creativo di Dio. Il creato è diventato solo oggetto di ricerca razionale e scientifica, tecnica e utilitaristica, ai fini della sua manipolazione e di uno sfruttamento selvaggio, diventato semplicemente il mondo della ragione scientifica e tecnologica. Abbiamo dimenticato che «tutto il mondo è ombra, via,

32 Scrive a questo proposito il Dottore serafico: «Apri, dunque, gli occhi, tendi le orecchie dello spirito, sciogli le tue labbra, eccita il tuo cuore, perché tu veda, ascolti, lodi, ami e veneri, esalti e onori il tuo Dio in tutte le creature, perché non ti avvenga che tutto il mondo insorga contro di te» (BONAVENTURA DA BAGNOREGIO, Itinerarium mentis in Deum I,15, introduzione di L. Mauro, traduzione di S. Martignoni e O. Todisco, Roma 1993, 51). La bellezza del mondo è da ricondurre, nella visione francescana, al fascino della libertà e generosità di Dio di cui porta le tracce. Nell’ottica della bontà effusiva, che emana da Dio in quanto sommo bene, le creature sono segni e parole di quel Dio che amando ha consegnato il suo potere al Figlio che le ha volute e con l’atto redentivo le custodisce. Cf. BONAVENTURA DA BAGNOREGIO, Hexameron I,13, in ID., Opere di s. Bonaventura. VI/1. Sermoni teologici/1, a cura di B. de Arnellada, Roma 1994, 55-57.

33 FRANCESCO, Lettera enciclica Laudato si’, n. 12.34 Biblicamente, si parla di creazione continua che corrisponde alla fedeltà di

Dio anche nei confronti della sua creazione peccatrice. Dio rimane il fondamento della creazione, che la sostiene senza mai venir meno. È l’alleanza noachica (cf. Gen 9,8-17). Ciò per l’uomo vuol dire che egli non è come uno zingaro, ossia come uno che si trova ai margini dell’universo, quasi per caso, perso nella sua stessa solitudine, come invece afferma J. MONOD, Zufall und Notwendigkeit, München 1979, 151 [Il caso e la necessità, Milano 1970, 138].

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vestigio, ed è il libro scritto di fuori»35. Vi è in atto un certo oscuramento della nostra intelligenza che non permette più di cogliere i segni della bontà di Dio nel creato. Questo oscuramento può essere superato solo immettendo la ragione in quel cono di luce che è l’incarnazione del Verbo. Solo attraverso tale evento può avvenire il ristabilimento dell’ordine originario. La causa dell’alienazione e dello smarrimento dell’uomo è la perdita dell’amore (charitas) che Cristo ha riportato nel mondo.

Attingendo a piene mani dalla teologia ortodossa, e citando direttamente alcuni messaggi del patriarca di Costantinopoli Bartolomeo I, papa Francesco invita ogni cristiano a riconoscere i peccati contro la creazione36. L’uomo, infatti, è in grado di distruggere la diversità biologica che Dio ha voluto nella creazione stessa, così come compromette l’integrità della terra e altera il clima, spogliando la terra delle sue foreste naturali o distruggendo le sue zone umide. L’inquinamento dell’acqua e dell’aria e l’impoverimento del suolo sono veri e propri peccati che non possiamo sottovalutare in alcun modo. «Perché “un crimine contro la natura è un crimine contro noi stessi e un peccato contro Dio”»37. Le soluzioni per i problemi ambientali non sono da ricercare solo nella tecnica ma anche e soprattutto in un cambiamento di stile e di mentalità dell’essere umano, in un vero e proprio processo di conversione ecologica che permette di passare dal consumo al sacrificio, dall’avidità alla generosità, dallo spreco alla capacità di condividere, in un’ascesi che significa imparare a dare e non semplicemente a rinunciare. È necessario imparare a sviluppare l’etica del dono e della gratuità: siamo venuti al mondo, abbiamo visto la luce, perché Dio ci ha pensati e voluti liberamente. Potevamo anche non esserci. Dunque, se ci siamo è perché Dio ci ha pensati, voluti, amati, creati. I segni del suo amore, di questa volontà divina creativa e volitiva sono inscritti nel codice del mondo: occorre saperli decifrarli, leggerli, nonché vederli e riconoscerli!

4. Tenerezza come compassione: chinarsi sull’altro

La prossimità è il modo più concreto per tenere vive in noi le aperture-dimensioni del dialogo e dell’accoglienza. La stupenda parabola del buon samaritano che l’evangelista Luca ci racconta al capitolo decimo del suo Vangelo (10,30-37) ne è una prova evidente. Possiamo farci prossimo dell’altro avendo compassione di chi ci sta di fronte o ci passa accanto38. Gesù usa questo racconto esemplare

35 BONAVENTURA DA BAGNOREGIO, Hexameron XII,14 [p. 239].36 Cf. le bellissime riflessioni sulla meraviglia del creato proposte dal patriarca

di Costantinopoli BARTOLOMEO I, Incontro al mistero. Comprendere il cristianesimo oggi, prefazione di K. Ware, Magnano (Biella) 2013, 125-157.

37 FRANCESCO, Lettera enciclica Laudato si’ (24-5-2015), n. 8.38 Il verbo centrale della parabola, quello da cui sgorga ogni gesto successivo

del samaritano è espresso con le parole “ne ebbe compassione”. Nel vangelo di Luca indica l’essere preso alle viscere, come un morso, un crampo allo stomaco,

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nel dialogo con un dottore della legge, a proposito del duplice comandamento che permette di entrare nella vita eterna: amare Dio con tutto il cuore e il prossimo come se stessi (vv. 25-28). Erano ritenuti prossimi solo i connazionali, inclusi i pagani che si erano convertiti all’ebraismo, oppure anche i pagani e gli eretici? I farisei tendevano a escludere da questo amore tutti gli altri. Gli esseni arrivavano a pretendere che si odiassero i figli delle tenebre, cioè i loro avversari. Una concezione popolare escludeva da questo amore il nemico personale. Quindi, con la sua domanda, lo scriba vuole sapere fin dove arriva il dovere di amare il prossimo. È una questione di vitale importanza.

«Sì – replica quel dottore della legge – ma, dimmi, chi è il mio prossimo?» (v. 29). Anche noi possiamo porci questa domanda: “chi è il mio prossimo? Chi devo amare come me stesso? I miei parenti? I miei amici? I miei connazionali? Quelli della mia stessa religione? Chi è il mio prossimo?”. Gesù risponde con questo racconto esemplare che potrebbe essere veramente accaduto. Un uomo, lungo la strada da Gerusalemme a Gerico (27 km con un dislivello di mille metri), mentre attraversava il deserto di Giuda – una regione che con le sue numerose caverne offriva facile rifugio ai briganti, perché la via era malfamata – è stato assalito dai briganti, malmenato e abbandonato. Evidentemente, il viandante del racconto si difende perciò è ferito dai rapinatori, più forti di lui, e abbandonato mezzo morto. Per quella strada passano prima un sacerdote e poi un levita, i quali, pur vedendo l’uomo ferito, non si fermano e tirano dritto (cf. vv. 31-32). Passa poi un samaritano, cioè un abitante della Samaria, e come tale disprezzato dai giudei perché non osservante della vera religione; e invece lui, proprio lui, quando vide quel povero sventurato, «ne ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite […], lo portò in un albergo e si prese cura di lui» (vv. 33-34); e il giorno dopo lo affidò alle cure dell’albergatore, pagò per lui e disse che avrebbe pagato anche tutto il resto (cf. v. 35).

A questo punto Gesù si rivolge al dottore della legge e gli chiede: «Chi di questi tre – il sacerdote, il levita, il samaritano – ti sembra sia stato il prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?». E quello naturalmente – perché era intelligente – risponde: «Chi ha avuto compassione di lui» (vv. 36-37). In questo modo Gesù ha ribaltato completamente la prospettiva iniziale del dottore della legge – e anche la nostra! –: non devo catalogare gli altri per decidere chi è il mio prossimo e chi non lo è. Dipende da me essere o non essere prossimo – la decisione è mia –, dipende da me essere o non essere prossimo della persona che incontro e che ha bisogno di uno spasmo, una ribellione, qualcosa che si muove dentro, e che è poi la sorgente da cui scaturisce la misericordia fattiva. Compassione è provare la miseria dell’altro, sofferenza per il dolore dell’uomo. La misericordia è il curvarsi, il prendersi cura per guarirne le ferite. Nel vangelo di Luca “provare compassione” è un’espressione che indica un’azione divina con la quale il Signore restituisce vita a chi non ce l’ha. Avere misericordia, compatire, è l’azione umana che deriva da questo “sentimento divino”. Il samaritano si prende cura dell’uomo ferito in modo addirittura esagerato. Ma proprio in questo eccesso, in questo dispendio, nell’agire in perdita e senza contare, in questo amore unilaterale e senza condizioni, diventa lieta, divina notizia per la terra.

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aiuto, anche se estranea o magari ostile. E Gesù conclude: «Va’ e anche tu fa’ così» (v. 37).

Il modello di questa prossimità dialogica e accogliente è il samaritano che, nella Scrittura, almeno ai tempi di Gesù, è considerato colui che, da una parte, in Israele, è maggiormente tenuto a osservare la legge della carità, ma che, dall’altra parte, è giudicato come uno straniero e un eretico, un nemico dei giudei (cf. Gv 8,48; Lc 9,53), dal quale non si attenderebbe normalmente che odio. In questo racconto esemplare, più che una vera e propria parabola, Gesù presenta un samaritano come modello da imitare per la propria fede nella realtà. Eppure i samaritani erano considerati impuri, gente da evitare alla stregua dei pagani. Fra i giudei era famoso questo detto: “Chi mangia il pane dei samaritani è come se mangiasse la carne di maiale”. Gesù ha scelto come modello per i dottori della legge un samaritano e non un fariseo osservante o un forestiero. Ciò è voluto con tono polemico per invitare l’uditorio a cambiare prospettiva e a superare il problema della purità rituale. Inoltre, l’aver scelto come modello un samaritano sta anche a significare che il bene non ha confini o limiti razziali o cultuali. Il prossimo da aiutare è qualsiasi bisognoso che incontriamo: ieri come oggi!

Nella parabola Gesù non descrive chi è il prossimo, soffermandosi invece sul samaritano. Tuttavia, del samaritano, Gesù non evidenzia la sua identità culturale o religiosa, bensì che cosa ha fatto. L’attenzione cade sull’agire del samaritano: vede il ferito, sente compassione, si avvicina, fascia le ferite, lo carica sulla sua cavalcatura, lo porta a una locanda, si prende cura di lui, paga l’albergatore39. La tenerezza è questa capacità concreta di chinarsi sull’altro, così come Dio fa con noi. La prossimità si esprime con gesti concreti: è fatta di opere da compiere, di aiuti da prestare, di misericordia. L’intervento del samaritano è stato concretissimo e, allo stesso tempo, generoso, disinteressato. Egli non si è lasciato bloccare dalla domanda oziosa “Chi è il mio prossimo?”. In lui ha preso il sopravvento l’altro interrogativo: “Che cosa posso fare per quest’uomo ferito?”. È la stessa domanda che dobbiamo farci noi oggi innanzi alla schiera innumerevole non di angeli caduti dal cielo,

39 I primi tre gesti del buon samaritano: vedere, fermarsi, toccare, tratteggiano le prime tre azioni della misericordia. Vedere: vide e ne ebbe compassione. Vide le ferite, e si lasciò ferire dalle ferite di quell’uomo. Il mondo è un immenso pianto, e «Dio naviga in un fiume di lacrime» (David Maria Turoldo), invisibili a chi ha perduto gli occhi del cuore, come il sacerdote e il levita. Per Gesù, invece, guardare e amare erano la stessa cosa: lui è lo sguardo amante di Dio. Fermarsi: interrompere la propria strada, i propri progetti, lasciare che sia l’altro a dettare l’agenda, fermarsi addosso alla vita che geme e chiama. Io ho fatto molto per questo mondo ogni volta che semplicemente sospendo la mia corsa per dire “grazie”, per dire “eccomi” (Ermes Ronchi). Toccare: il samaritano si fa vicino, versa olio e vino, fascia le ferite dell’uomo, lo carica, lo porta. Toccare è parola dura per noi, convoca il corpo, ci mette alla prova. Non è spontaneo toccare il contagioso, l’infettivo, il piagato. Eppure, nel Vangelo, ogni volta che Gesù si commuove, si ferma e tocca. Mostrando che amare non è un puro sentimento emotivo, ma un fatto di mani, di tatto, concreto, tangibile.

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ma di essere umani gettati nel mare e stremati dalla fame e dalla povertà, smarriti nella loro dignità di persone e di figli e figlie di Dio.

L’agire del samaritano corrisponde alla logica della chiesa quale ospedale da campo, clinica di primo soccorso e di pronto intervento. È tipo di Gesù che fascia le ferite dell’umanità, di ogni persona40.

Amare il prossimo vuol dire prendersi interamente a carico la sua condizione. Si tratta di provare e di sentire la miseria e la sofferenza del povero, di chi è in difficoltà. Chi compatisce prova il dolore dell’altro, lo sente, lo fa suo. Alla domanda oziosa “Chi è il mio prossimo?”, Gesù risponde con la parabola (racconto esemplare più che metafora allungata) dicendo: “il bisognoso che incontri sul tuo cammino”. Tuttavia, questa volta è Gesù che pone un’altra domanda. Egli non chiede oziosamente “Chi dei tre ha saputo vedere nel ferito il prossimo da amare?”, bensì sapientemente: “Chi di questi tre ti sembra si sia fatto prossimo a colui che è incappato nei briganti?”. Non solo si è passati dalla teoria alla pratica, ma anche dall’esterno (“chi è l’altro?”) all’interno: “chi sono io?”. Come a dire che io stesso sono il prossimo dell’altro. Per cui, la domanda posta dal dottore della legge è inutile, falsa. Non è giusto, dunque, chiedersi “chi è il mio prossimo?”, ma bensì domandarsi concretamente: “di chi mi devo fare prossimo?”. Siamo noi che dobbiamo farci prossimo a chiunque è in difficoltà, abbattendo barriere e pregiudizi, paure e resistenze che abbiamo dentro. Con Gesù non ci sono curiosità teologiche da soddisfare bensì sentimenti di vero amore fraterno da vivere. Solamente in questo modo possiamo convertirci. Gesù ha capovolto la domanda del dottore della legge: ha capovolto il discorso suscitando stupore nell’uditorio41.

È nel comandamento dell’amore che si tratta di dimostrarsi prossimo dando prova di misericordia. Se alcuni pretendono di amare Dio mentre vengono meno nell’amore del prossimo o gli pongono dei limiti, Gesù li smaschera come ipocriti. Lo scriba ha chiesto dov’è il confine del suo dovere di amare. Con la sua contro-domanda, invece, Gesù non solo fa saltare i confini del popolo e della religione, ma dice di più: a stabilire chi sia il mio prossimo non

40 Così commenta papa Francesco questa parabola: «mediante le opere buone che compiamo con amore e con gioia verso il prossimo, la nostra fede germoglia e porta frutto. Domandiamoci – ognuno di noi risponda nel proprio cuore – domandiamoci: la nostra fede è feconda? La nostra fede produce opere buone? Oppure è piuttosto sterile, e quindi più morta che viva? Mi faccio prossimo o semplicemente passo accanto? Sono di quelli che selezionano la gente secondo il proprio piacere? Queste domande è bene farcele e farcele spesso, perché alla fine saremo giudicati sulle opere di misericordia. Il Signore potrà dirci: Ma tu, ti ricordi quella volta sulla strada da Gerusalemme a Gerico? Quell’uomo mezzo morto ero io. Ti ricordi? Quel bambino affamato ero io. Ti ricordi? Quel migrante che tanti vogliono cacciare via ero io. Quei nonni soli, abbandonati nelle case di riposo, ero io. Quell’ammalato solo in ospedale, che nessuno va a trovare, ero io» (http://w2.vatican.va/content/francesco/it/angelus/2016/documents/papa-francesco_angelus_20160710.html).

41 Cf. per approfondimenti di questa parabola, H. KAHLEFELD, Paraboles et leçons dans l’Evangile, II, Cerf, Paris 1969, 84-96; J. JEREMIAS, Le parabole di Gesù, Paideia, Brescia 1973; CH. DODD, Le parabole del Regno, Paideia, Brescia 1976, 15-16, 123; A. KEMMER, Le parabole di Gesù, Paideia, Brescia 1990, 61-64; B. MAGGIONI, Le parabole evangeliche, Vita e Pensiero, Milano 1993, 174-179.

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dev’essere colui che agisce, ma colui al quale l’azione va rivolta. Concretamente, significa che noi ci facciamo prossimo soltanto di colui al quale prestiamo soccorso nel bisogno. Noi dobbiamo fare propria la situazione di contingenza dell’altro. Solo così si può riconoscere che il comandamento dell’amore non ha confini.

Forse, il miglior commento alla parabola del buon samaritano – e al significato stesso del saper accogliere e dialogare –, viene da una meditazione di Dietrich Bonhoeffer, nato a Breslavia il 4 febbraio 1906 e impiccato a Flossembürg il 9 aprile 1945, lì dove afferma che «Dio vuol essere onorato da noi in terra, vuol essere onorato nel fratello, e in nessun altro luogo; egli fa scendere il suo regno nella terra maledetta»42.

42 D. BONOHEFFER, Venga il tuo regno, Queriniana, Brescia 1988, 40.

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