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1 Pierluigi Albini Diario di un volontario in Italia Guerra italo-austriaca Trascrizione, commento e note a cura di Danilo Agliardi

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Pierluigi Albini

Diario di un volontarioin Italia

Guerra italo-austriaca

Trascrizione, commento e note a cura di Danilo Agliardi

Originale depositato presso l’Ateneo di Brescia

Febbraio 2018

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Siamo nel giugno 1915. Pierluigi Albini, dopo la ferita patita in Francia, chiede ed ottiene di essere congedato dall’esercito francese, per arruolarsi in patria come volontario.

Ha 35 anni.Già tre anni prima era partito volontario nel Montenegro dove era rimasto

dall’ottobre al dicembre del 1912.Vi ritornerà nell’agosto del 1914, quando questo Stato interviene a fianco della

Serbia nella guerra contro l’Austria.A metà agosto, sempre del 1914, però, lascia il Montenegro per accorrere

volontario in Francia. Ferito, torna in Italia nel giugno del 1915 per la convalescenza.

Dopo la dichiarazione di guerra all’Austria da parte dell’Italia, 24 maggio 1915, chiede di arruolarsi volontario nel corpo dei bersaglieri e frequenta, nel contempo, il corso per ufficiali. Nel 1916 lo troviamo sempre al fronte, in prima linea.

Ferito nuovamente, viene ricoverato, ma poi ritorna al fronte nella primavera del 1917. A dicembre dello stesso anno, a seguito della disfatta di Caporetto, viene catturato ed inviato prigioniero dapprima in Austria, poi in Germania.

A causa del caos che l’offensiva austriaca aveva creato, non poté concludere il corso per ufficiali, rivestendo così, al pari dei suoi commilitoni, lo status di “aspirante ufficiale”.

Nota

Il contenuto che segue è l’insieme di due diari di guerra che Pierluigi Albini ha scritto. Nel primo sono raccolti i fatti che si riferiscono agli anni 1915/16, nel secondo le vicende belliche del 1917, terminate con la cattura del nostro.

Nella trascrizione abbiamo rispettato il testo, mentre si è in parte modificata la punteggiatura laddove si riteneva necessario per rendere più comprensibile il contenuto. Abbiamo inoltre riassunto i principali eventi bellici degli anni interessati.

1915Fatti principali Il 24 maggio l’Italia dichiara guerra all’Austria. Il 23 giugno ha inizio la prima offensiva sull’Isonzo, che si conclude il 7 luglio

con un nulla di fatto, ma con gravi quanto inutili perdite. Il 18 luglio la seconda offensiva sull’Isonzo, con stessi risultati. Dal 18 ottobre al 4 novembre e dal 10 novembre al 2 dicembre hanno luogo

altre due offensive italiane sempre sull’Isonzo, ma nulla cambia.Le quattro battaglie sull’Isonzo costeranno, all’esercito italiano, 62.000 morti e

170.000 feriti.

Villanuova di san Daniele del Friuli, Settembre (1915) - Venni congedato dall’esercito di Francia, fu accolta la mia domanda e ritornai in Italia, dopo quasi un anno, a Ciliverghe. Per alcune settimane stetti in famiglia, indi mi arruolai nel 7° reggimento bersaglieri a Brescia.

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Ma mi si fece camminare e correre troppo, la parte ferita si gonfiava e dovetti chiedere una nuova licenza di convalescenza che mi venne subito concessa. Però constatai che andando in bicicletta la parte malata non mi faceva male ed è perciò che più tardi, sapendo esservi stato richiesta di bersaglieri ciclisti che avrebbero dovuto passare al fronte, mi presentai di nuovo per essere aggregato a tale reparto.

Dopo qualche giorno mi trovai qui a Villanuova di San Daniele del Friuli, ove è accampato il 7° battaglione di bersaglieri ciclisti.

Appena giuntovi, i superiori vennero a conoscenza delle mie avventure, dimostrandosi lieti di ciò. Il comandante del battaglione, dopo soli otto giorni, mi promosse caporale; promozione questa che mi giunse grata quanto un elogio.

Anch’io però mi adoperai onde non farmi conoscere pigro, sebbene in verità tutte queste esercitazioni mi affatichino non poco.

Viscone, 13 dicembre 1915 -7° batt. Bersaglieri ciclisti - Poveri giovani, sono ben contenti mentre si approssima il momento che a loro verrà concessa la licenza.

Ancora quarant’otto ore, ancora una settimana, i meno fortunati un mese dovranno attendere prima di poter finalmente riabbracciare i loro cari.

“Io voglio fare un’improvvisata, e perciò non scrivo!”“Io - soggiunse un altro- invece di bussare alla porta, entro dall’orto e piombo in

cucina quando meno mi aspettano”.Un altro ancora dice di voler far sacrificare il dindo più bello alla sua mamma.Ecco i discorsi del giorno e che si ripetono persino in sogno come udii questa

notte passata.

1916

Fatti principali. L’Italia invade l’Albania in gennaio. L’undici marzo la quinta battaglia dell’Isonzo, senza grandi risultati. Il 14 maggio inizia la spedizione punitiva (la Strafexpedition) austriaca che

durerà sino al 2 giugno ed avrà come teatro il confine meridionale fra Trentino e Veneto. Nonostante fosse stato avvisato, Cadorna si trova impreparato e sposta di corsa altre divisioni sull’altopiano di Asiago, alle Melette. L’esercito italiano è in gravi difficoltà. Cadorna non trova di meglio che far fucilare centinaia dei nostri soldati, colpevoli, secondo lui, di scarso rendimento.

Il 10 giugno ha inizio la controffensiva italiana alle Melette, mentre il 4 agosto, con la sesta battaglia dell’Isonzo, le truppe italiane entrano in Gorizia.

Fra il 14 settembre e il 4 novembre si svolgono altre tre battaglie sull’Isonzo, con lo scopo di dare la spallata finale all’Austria. Così non è: si contano altri 37.000 morti e 88.000 feriti. Dopo di ché cesseranno le operazioni belliche sino al maggio dell’anno seguente.

6 gennaio 1916 - L’altro giorno fui sulla linea in compagnia di un ufficiale incaricato di prendere degli appunti sulla posizione nostra e del nemico.

Accompagnati da due fucilieri, salimmo al comando del battaglione, correndo quando correvano loro, curvandomi quando si curvavano.

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Mi trovavo in coda e passammo avanti alle tane ove sotto erano accovacciati i soldati; questi facevano capolino di fuori chiedendo se i bersaglieri davano loro il cambio.

In un quarto d’ora salimmo sulla collina mediante un percorso come quello di Porta Torrelunga a san Floriano sui nostri Ronchi.1

Constatai che ci guardano in casa gli austriaci da quel poggio e sanno di che salsa si cucinano le nostre pietanze. Mentre il mio tenente stava prendendo le note che il comandante dettava, si presentò un caporale il quale riferì che il nemico aveva rettificato il tiro e chiedeva cosa doveva fare.

- Allontanatevi un poco voi altri - rispose il maggiore - ma state sempre in comunicazione con la sentinella.

- Non può stare in piedi, la sentinella, signor Maggiore, sarebbe sacrificata.- Stia seduta, vigili e sempre in comunicazione – aggiunse il superiore.- Volete fare un giro? – disse poi rivolgendosi a noi.- Sì, andiamo – rispose il mio tenente.Ma quel cappello, quelle piume! Se sapessero gli austriaci che sono qui i diavoli

neri, sarebbero capaci di inviare una dozzina di cannonate in più.Abbiamo proprio riso con piacere a questa sortita.Sono luoghi terribili strappati al nemico palmo a palmo, unghia per unghia.

Graffiature sul terreno e sulla roccia che richiedono notti di disagi e una perseveranza straordinaria.

Il nemico lassù a Peteano2 è ad una cinquantina di metri.Sparai qualche colpo tra i sacchetti che gli uni sugli altri sovrapposti formano

come un muretto di terra. Tra questi sacchetti si lasciano degli appositi fori. Quando il pertugio è bianco, cioè vi è la luce, segno è che nessuno di là vigila ed intanto si punta l’arma verso quella direzione.

Appena si vede un poco di ombra a chiudere il buco, si fa partire il colpo. Ma cannonate e bombette occorrono: quelle demolendo la trincea seppelliscono sotto, demoralizzano, fanno diventare folli.

Essendosi più tardi sciolta la nebbia, dal poggio che accennai, un soldato nemico, mentre non poteva recare danno a cinquanta metri di distanza, sparava invece più basso, sotto un ponte di pietra e distante quasi un chilometro. Quando noi passammo di là, un fuciliere venne ferito a un ginocchio.

13 gennaio 1916 - Col sottotenente Bettinelli fui di nuovo sulla fronte3 stamattina. Sulla passerella di Gradisca questa volta si passò in bicicletta. Lì due granate arrivarono tuffandosi ambedue nell’Isonzo.

La ricognizione doveva essere fatta precisamente alla destra della località dove siamo stati giovedì scorso.

Fummo là sopra transitando per i soliti sentieri a sinistra o a destra, a seconda dell’opportunità, difesi dai soliti muretti fatti con pietre e sacchetti colmi di terra.

Il nemico, vedendosi ogni dì più circondato, in questo passato tempo balzò dalla trincea contro le difese protette della nostra fanteria (30° reggimento), lasciando sul terreno una quantità di morti dalle grigie divise e senza ottenere alcun risultato.

Di lassù scorsi i cadaveri. Ora pochi soldati si trovavano ben al riparo ancora in quella trincea e recano non poca molestia, ma se non abbandonano la località, saranno ben presto presi in mezzo, perché circondati a ferro di cavallo.

1 Il nostro spesso ricorre ad esempi tratti dal Bresciano. I Ronchi sono le colline che si estendono da Porta Venezia a Sant’Eufemia.

2 Siamo nella zona del Carso3 Spesso si trova la forma femminile per indicare il fronte

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17 Gennaio 1916 - Si dovrebbe avere un po’ di culto per questi nostri morti.Tanto materiale di genere diverso che si vede sparso in ogni luogo, pure si

potrebbe, volendo, fare uso di legname onde proteggere nel miglior modo possibile queste spoglie care non solo ai parenti lontani, ma anche ad ogni cittadino.

Non si poterono riparare dalle insidie del nemico, ripariamoli almeno un poco dagli oltraggi della natura.

Non sarebbe quella per diversi motivi una spesa superflua e manco darebbe il crollo alle finanze della Nazione.

Alla fronte si fa come si può e non come si vuole, ma ad una decina di chilometri distante non vi è quell’esuberanza di servizio di dover seppellire affrettatamente.

Si può accudire a ciò con comodità, ed è strano vedere pressoché ogni giorno un sacerdote soldato precedere un cavallo che traina un carretto sul quale vi è steso uno o due dei nostri compagni.

Ad ogni più piccola scossa dondolano i corpi rigidi sotto un miserrimo sbiadito cencio che intende rappresentare la bandiera d’Italia.

È la scena finale questa, che loro danno al mondo, mentre sono diretti all’ultimo asilo.

Scena ed asilo ben triste!

20 gennaio - Apprendo dal giornale che l’amico Tito Frugoni, pure lui volontario in Francia e venuto poi in Italia a compiere il suo dovere di cittadino, è morto nell’ospedale di Udine in seguito a ferita riportata da una granata austriaca. Povero Frugoni, povero mio amico, così lieto che era quando mi incontrava per i boiyeux4 delle trincee francesi e poteva dire solamente qualche parola rivolgendosi a me, nel nostro dialetto bresciano.

Così bravo nell’incisione era capacissimo di estrarre dall’alluminio di una spoletta tedesca un bell’anello ed altri ninnoli.

Come avrei piacere di avere la fotografia che fece ad entrambi presso Prunay il dottore Carbone del nostro battaglione!

20 gennaio - La resa a discrezione del Montenegro!Bisogna bene che si trovi in pessime condizioni quel popolo, per sottostare a

simili patti.Era già miserrimo avanti la guerra, come non si può immaginare ora, dopo

diciotto mesi trascorsi in quelle aspre roccie (sic).Quale il loro deperimento fisico e morale.Nulla, nulla avevano. Niente nutrimenti sani, non vestiario, non baracche,

alloggiamenti, corpo sanitario, medicinali e persino le armi e munizioni.Solo della miseria, nel più largo significato della parola. Il coraggio e l’amore al

Paese sostenne quei corpi esauriti dalle fatiche e dai disagi inenarrabili. Mi rende tristezza e dispetto simile notizia. Tristezza per la pietà che suscita tanto sfacelo e sacrifizio inutile e dispetto perché pur io appartenni a quelle truppe. Con loro fui nel 1912, ed una seconda volta scesi dal Lowcen sino a Budwa austriaca il 9 o 10 di agosto1914.

Cettigne, Rieka, parte del lago scutarino, Vir-Bazar, Antivari, tutte località ora a discrezione degli austriaci.

E sino a quando?Finché l’unione che tanto si declama alle diverse tribune dei diversi stati alleati,

non esisterà di fatto, sinceramente, lealmente.

4 camminamenti

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21 gennaio - Quante emozioni ieri. Stavo leggendo il Corriere della sera che annunciava la resa del Montenegro, ed ecco che un velivolo austriaco si libra su di noi. Invano qualche centinaio di cannonate cercò di colpirlo. Poco dopo tornò indietro seguito da ben otto areoplani nostri bianco rosso verdi che diedero la caccia.

A sera seppi della morte dell’amico Frugoni e nel contempo ritornò a noi la cagnolina Dobbia ch2 da alcuni giorni mancava e da noi con ogni cura inutilmente cercata. L’avevano legata con una corda alcuni malintenzionati, ma essa morsicandola se ne liberò e tutta inzaccherata di fango venne ancora tra noi, accolta con grande gioia e carezze da tutti.

Mentre scrivo, tutta tremolante se ne sta accovacciata ai miei piedi.

26 gennaio - Grande bombardamento su questa fronte si udì ieri ed oggi verso Sagrado Peteano e su in direzione di Gorizia.

Ma per questo nostro corpo d’armata, non è che un’azione dimostrativa, che ha lo scopo di trarre in inganno il nemico sulla direzione vera dell’attacco, il quale certo si effettuerà alla nostra sinistra, traendo così verso noi le forze, e nel contempo recando danno agli eventuali spostamenti. Ad ogni modo noi siamo preparati e per nessuna ragione possiamo allontanarci dall’accantonamento.

18 febbraio - Pochi istanti fa attraversai il mio paese5. A Rezzato scavalcai subito le panche inchiodate sull’assito per potermi portare in fretta alla destra del vagone merci e osservare così la mia casa pure per un solo istante. Misi fuori il capo e guardai avanti.

Oh quale sfortuna, un lungo treno interminabile, veniva in senso inverso al nostro… temetti che incrociasse a Ciliverghe e mi impedisse di vedere. È stato un momento di ansia, di dispetto quello. Ma quale contento scorgendo che la coda del treno sopravveniente era alle sbarre, mentre noi ci trovavamo relativamente lontani.

Fu tale la gioia che per poterla manifestare in qual modo si fosse, gettai la pagnotta ed i giornali che tenevo in mano in direzione di coloro che attendevano il mio passaggio e trinciavano gesti di saluto colle mani in aria.

Ecco l’olmo dritto e bello. Ecco la casa tutta bianca, protetta dai rami di quello. Eccola, eccola la mamma, poverina, che con ambe le braccia tutta si affanna e vorrebbe far pervenire a me il suo grido di saluto.

Ed il babbo?Aveva gli occhi gonfi e rossi di pianto, quando ieri lo salutai.“Fatevi cuore babbo, non temete di me” dissi lui con il cuore angosciato. Ed in

così dire posai la mano sul suo capo, subitamente ritirandola ed allontanandomi onde occultare, tamponandola agli occhi, l’intera commozione che mi sentiva venire fuori.

Ponte sul Chiese, ore 10,40

22 febbraio - Qui nuovamente giunto per ben due giorni fui triste. Mi rendette (sic) noia questa nuova confusione, questo ininterrotto disagio, dopo avere goduto tra i parenti quindici giorni di tranquillità. Ma a poco a poco ritorno come prima e basta che oda il rombo del cannone lontano, perché mi si tenda l’orecchio attento come quello dei cavalli imbizzarriti.

L’entusiasmo subentra e proseguo con fede e sicurezza. Quando posso allontanarmi un poco, mi reco al fiume Torre qui vicino e ripenso a questo breve tempo passato.

5 L’Albini rientra al reparto dopo una licenza di 15 giorni trascorsa a Ciliverghe con la famiglia.

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Attraverso a tante domande fattemi, ho sempre constatato la poca fiducia che l’italiano ha di sé. Pronto ad esaltare tutto ciò che non è suo, gusta una certa compiacenza quando può svalutare. Inganna sé stesso e da questo ne potrebbe derivare un danno gravissimo, in maggior modo quando capaci individui indigeni ne approfittano per seminar generosamente tra noi il malinteso, la disunione, la tema. Questa guerra non si fa solamente in cielo, in terra, in mare, ma in ogni luogo colle parole, cogli scritti.

I momenti più tristi sono stati quelli durante i quali ho dovuto subire la pietà, non il pericolo; ma una cosa nuova mi impressionò alquanto. Ad ogni modo proseguo il mio cammino, fisso lo sguardo sul Carso che mi sta innanzi; questo non per spirito bellico, per amore delle armi come molti sono persuasi, mentre io detesto con cordialità tutto ciò che è militare. No, mai questo, quello che faccio mi è semplicemente dettato dalla simpatia che nasce in me verso chi è debole e sopraffatto e questo in ogni tempo ed ovunque.

Viscone 19 marzo - I giornali nazionali e stranieri, amici e nemici, principiano ad accennare alla pace, ma ne danno l’annunzio con una cautela, con un pudore tale che rasenta la tema.

Similmente al topolino che stufo di stare rintanato, tra la melma ed il fetore degli oscuri andirivieni sotterranei, vuol godersi finalmente un po’ d’aria e di luce.

Spinge così il timido musolino fuori dalla sua tana, sgrana gli occhi luccicanti e spaventati e tosto se ne ritrae: la luce, l’aria, la pace è oggetto di terrore per lui. Non si può mai sapere da dove scaturiscono queste notizie e chi volesse risalire alla sorgente di esse, adunerebbe una speranza vana.

La pace! Chi non la desidera?Ciò è umano, ma non giusto in questo momento. Umano perché dopo tanti mesi

trascorsi in un modo così straordinario e sì grande; colmo di orrori, di sangue e di trepidazioni; è pur giusto venga finalmente il raccoglimento, il pianto.

Ingiusto, però, perché la pace definita in questo momento, sarebbe senza profitto alcuno: l’Europa tutta un focolare di diffidenze, una immensa fucina di bellici istrumenti per nuovi e più disastrosi conflitti che dilanierebbero ancor l’umanità. Un fatto peggiore che la guerra stessa; e chi appena ha un senso di responsabilità e di disciplina dovrebbe tenere in sé questo sentimento, quanto mai lodevole invero, ma ancora assai pericoloso, e perciò da riprovarsi senz’altro.

Ecco il voto più caldo ed efficace; è il migliore contributo acciò la vittoria arrida a noi propizia e sicura. La fermezza, caposaldo di tranquillità nostra che demoralizza il nemico e lo indurrà a trattare. A guerra terminata e pace conclusa, ognuno vorrà dire qualcosa, ma del senno di poi ne sono piene le fosse. Questo è il momento di fare, di agire e di tacere e chi nulla può pel suo paese, già fa molto tacendo, poiché consiglia agli altri di fare lo stesso. I giorni più gravi della guerra ci attendono. Sono imminenti. Bisogna che un contributo di cosciente e serena volontà sia recato da tutta la nazione.

2 aprile - Per l’azione materiale, quella più utile e che condurrà non solo gli eserciti, ma eziandio, i popoli ad una pace profittevole e duratura, siamo qui. Una volontà che non ammette tergiversazioni od indugi ci è guida sicura.

Ciò è vero.Ma come la mente, come e quando può, preferisce scansare ciò che reca

dispiacere ed anela al passeggio solitario, suole prendersi un poco di diletto, divagare. Ed ove è condotta?

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La campagna è poco lieta ed avvenente, sebbene questo soffio primaverile spinga già dalle scorze i primi germi. Ma non ascende il canto usato al sole, non si rinnoverà quest’anno il prodigio del chicco e delle messi mature.

La poca popolazione che qui rimase, non può accudire a tutti i lavori dei campi, la maggior parte dei quali sono ancora incolti.

Qualche vecchio contadino pota la vite; si scorge dai suoi movimenti tardi una volontà stentata presaga del poco profitto dell’opera sua. Da ogni lavoro si scorge la distrazione, il poco amore, l’abbandono, conseguenza questa della vita anormale che lo stato di guerra creò.

Rende pena vedere questa incuranza forzata, tanto sciupìo, tale scempio della natura che vorrebbe essere prodiga dei suoi benefizi.

Ed ecco che mentre questa offre delle violette semplici e belle, qui a lato nate e cresciute, la scienza umana vince l’aria, ed alla destra, sopra la collina carsica, demolisce se stessa l’umanità.

Infatti alcuni areoplani si librano su me e laggiù scorgo dei fiotti di fumo.Questa sera, come ieri, come dimani, nastri di luce, zampilli di fuoco, bianchi

razzi, boati e tuoni violenti solcheranno di nuovo le vie del cielo, sempre splendidamente bello, ma non in pace.

7 aprile - Dopo un periodo di tempo che interruppe l’attività nostra e del nemico, si iniziarono delle vaste incursioni ed escursioni aeree.

Ieri da un aeroplano furono fatte precipitare quattro bombe, le quali caddero da una parte e dall’altra nei campi e non recarono che lieve danno, pare. Un solo artigliere vidi ferito, quello giacente sulla strada.

Ma l’attacco principale ebbe luogo questa notte stessa contro la nostra zona e diede la prova più evidente e mirabile di quanto siano capaci i nostri arditi combattenti dell’aria che con sereno ardimento scoprirono ed inseguirono le squadriglie nemiche, favorite dalla notte fonda e quieta.

Erano le tre ore circa quando il combattimento aereo cominciò. Con un intenso fuoco l’artiglieria antiaerea, aiutata dai fasci luminosi non permise a nessun velivolo avversari di abbassarsi su noi. Stamane poi ne vedemmo calare uno. La lotta non fu né ostinata, né accanita.

Moraro 14 maggio - Ebbimo (sic) ordine di coprirci il capo col casco francese onde preservarlo dai frammenti di pietre, acciaio, pallette di srhapnel6, che ritornano a noi dopo aver vagato nel cielo. Deposi così il cappello ed il rosso fez. Dall’aspetto altrui vedo me stesso. Debbo sembrare un guerriero medioevale. Ogni giorno abbiamo la visita di qualche aeroplano nemico. Lasciano cadere una, due, tre bombe e poi si ritirano luccicanti come i lucci e inseguiti sempre da cinquanta cento, duecento cannonate e un “addio, arrivederci a domani”.

Infatti all’indomani se non viene alcuna bomba di sopra, sarà qualche granata di fianco o qualche srhapnel che frantuma le tegole e impaurisce i passeri.

Chiopris 10 giugno - Già avevo previsto che venendo a questo plotone di allievi non mi sarei trovato bene. Cedetti alle insistenze dei parenti e degli amici, i quali si meravigliano del perché io non sono ancora ufficiale. Vi è una disciplina straordinaria, alla quale mi ci attengo volentieri perché riconosco che senza di essa nulla si può fare in guerra. Essa è la base, la spina dorsale della vittoria. Ma questa trae di conseguenza con sé un tale far dell’idiotismo di fatti e di cose tanto bislacche

6 Tipo di bombe a mano

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e insipide che farebbero incretinire o impazzire un individuo che non avesse la volontà e la coscienza del dovere impostosi.

Ma durerà per poco tempo ancora, poi promosso o non, di nuovo passerò al mio battaglione dei bersaglieri ciclisti.

Sono ammalato di scabbia. È una malattia facile in guerra, molesta, noiosa e mi indispettisce non poco.

28 giugno, ore 17.30 - Per le sedici si dovette essere pronti onde venire qui, tra la Sella di S. Martino ed il sentiero della cima 4. Questa è la quota 124 sotto il San Michele. Si fa lestamente ora. In un minuto già si è in cammino. Fucile, cartuccere, tascapane, con munizioni da fuoco, e da bocca, ecco tutto il nostro equipaggiamento.

Alle 19 principierà l’azione. La nostra brigata 47°-48° fanteria sta avanti ed il nostro plotone in una trincea di massima resistenza.

È solida riguardo alla fronte, ma possiamo essere offesi dalle artiglierie sui fianchi? Vedremo più tardi.

La divisione a destra sul monte Cappuccio è composta dal 9°-10° e 29°-30° fanteria.

Ai piedi del colle e sulla sinistra dell’Isonzo vi sono molte artiglierie. Avanti già si odono le bombarde scoppiare con fragore. Nessuna fucilata. Il nemico non sa quello che avverrà tra poco. Pur noi ignoriamo

Ore 19 – Incominciò invece mezz’ora prima. È un cannoneggiamento intenso che lassù si dirige, i proiettili ronzano, miagolano lugubremente passando su noi, là recando la distruzione e la morte. Tutti i compagni sono accoccolati a terra, in posizioni strane, tenendo stretto tra le braccia e le gambe il fucile.

Pioviggina. Mi alzo, sporgo la testa ed osservo le trincee austriache saltare all’aria. È un semicerchio sulle colline di imbuti rossastri e fumanti, di piccoli vulcani che all’improvviso destatisi, vomitano fuoco, fumo, terra, roccia, armi, membra umane.

Ma anche gli austriaci rispondono e cercano le nostre artiglierie. Il terriccio cade su noi, negli occhi, sul viso. L’aria è impregnata dii fumo acre. Candide esplosioni di proiettili italiani sulla cima 4 tenuta ancora dal nemico; la diversità delle esplosioni è prontamente riconoscibile: bianche le nostre, bianche e rossastre color mattone le austriache. Sono momenti angosciosi

29 (giugno) - Migliaia di pallottole questa notte di fuori si tuffarono scoppiettando, sì come le castagne, quando, non sbucciate, vengono poste sotto le ceneri calde. Da questa per ora però si è riparati bene.

Ore 18 - Vi è silenzio in ogni luogo. Tacciono anche i cannoni. Il raccoglimento, la quiete dopo la tempesta. Sono già passati i prigionieri, si trasportano i feriti, si seppelliscono i poveri morti.

Barbari, codardi! Per vendicarsi delle perdite subite ieri sera e per poter riconquistare il terreno perduto, approfittando dell’atmosfera quieta, stamattina presto, spinsero dense nubi di gas asfissiante e lacrimogeni sulle nostre linee. Sarebbe stato impossibile resistere, il momento era fatale per tutti se non avevamo le maschere e gli occhiali e chi per sfortuna fu sprovvisto, morì soffocato. Intanto noi ci contorcevamo sul terreno, brancolando con le mani in aria, altri scappavano sbottonandosi per poter avere fiato. Mancava il respiro e si tossiva, si tossiva forte, sembrava volesse uscire per la gola il cuore, il fegato, i polmoni. Degli occhi, uno sì l’altro non lacrimava perché si era rotto un vetro sugli occhiali. Ogni più piccola cosa di ottone diventò di colore verdastro. Così i bottoni del tascapane, della cinghia del fucile, del fodero della baionetta, le munizioni tutte, tutto diventò verderame. Le

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vesti, il viso, le mani ogni angolo puzzava di zolfo. Il pane non si poté mangiare, lo stomaco fu irritato, avvelenato.

Per rendere servizio ai compagni che ne avevano bisogno, alcune ore dopo con parecchie borracce fui a prendere dell’acqua, un po’ andando al passo, un poco correndo nei tortuosi camminamenti demoliti, facendo attenzione di non inciampare nei cadaveri dei soffocati.

Vidi due ragaglie. Sono triboli, una specie di mazze ferrate con chiodi sporgenti colla sola capocchia. Questa è di un centimetro quadrato dii spessore. Una croce insanguinata!

Ritornai al mio posto affannato, esaurito. I gas ancora mi impedivano il libero respiro.

Dall’alto si udiva senza poterlo scorgere (perché mezzo accecato) un aeroplano nemico che osservava l’effetto prodotto su di noi dai gas; i gas la chimica avanguardia del nemico vile. Si dovrebbe fare conoscere la nostra guerra, sia in Italia, sia all’estero; si dovrebbe far conoscere come si soffre e come si vince; ma la censura ci fa temere e per questo le nostre note restano senza profitto alcuno.

Mogliano veneto ospedale da campo 235 - Furono giornate di stordimento, di ebbrezza e fremiti di gloria questi trascorsi durante la battaglia di Gorizia.

Nella presente guerra poco si vede del complesso delle operazioni, ma si può discernere e comprendere.

Ed ho osservato l’entusiasmo chiuso, espressione di forza e di certezza. Vidi il valore composto, senza parole, incolto, ma più temibile. Ognuno è stato fermo e risoluto al suo posto, confidente nel comando che lo condusse al cimento. Confidenza quieta e solenne che rendette (sic) commozione ed entusiasmo.

Vi fu del sacrificio, è naturale, ma il nemico fu travolto e si vinse. Rimasi ferito, cosa importa? Guarirò presto e tornerò più fiero e fidente.

Il 5 agosto, prima di sera, partimmo da Chiopris.Il plotone allievi ufficiali fu diviso tra le compagnie, per poter assumere il

comando dei plotoni se ve ne fosse stato bisogno. Fui dislocato alla 4^ compagnia alle dipendenze del mio istruttore Barba del 129° che mi volle con sé.

Da quel momento il plotone era sciolto. Gli ufficiali nostri dovettero pure loro seguire le sorti del 48° (Brigata Ferrara).

Da tempo eravamo cogniti che doveva accadere un’offensiva nostra, però si ignorava quando avrebbe dovuto principiare, nessuno poi suppose che effettivamente era già in azione dalla parte di Monfalcone.

Chi poteva conoscere il momento opportuno per vibrare il gran colpo?Giungemmo alle trincee Eula, sopra Sdraussina a notte tarda e ci coricammo come

meglio si poté dove vi era posto.Alle 8 del mattino seguente, 6 agosto, il primo battaglione stava tutto sul San

Michele a cima 4, tra il 20° fanteria (Brigata Brescia) alla sinistra ed il 47° alla destra.

Gli altri battaglioni erano di rincalzo disseminati lungo i camminamenti e stretti come i grani di girasole.

Mi portai in un luogo ove si poteva udire bene e nel contempo sporgere la testa per vedere, se fosse stato possibile.

Verso mezzogiorno l’azione delle artiglierie era al completo. Un inferno. Tutta la collina tremava. Il sibilo, il ronzio dei proiettili nostri e nemici che passavano sopra, sembravano trucioli inviati da un’enorme pialla.

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Un andirivieni di portatori d’ordini, di artiglieri che trasportavano sulle spalle e legate fortemente ad un palo, le grosse pesanti bombarde torpedini. Soldati del genio che rimettevano le comunicazioni interrotte. Altri portavano casse di munizioni, di bombe, di razzi. Erano affannati, grondanti di sudore e riferivano che l’artiglieria nemica batteva incessantemente i camminamenti dove passavano.

Mi trovavo pronto per l’uscita e leggero in confronto degli altri che dovevano avere con sé il tascapane per portare ogni cosa utile.

La mia cacciatora da bersagliere ciclista fu provvidenziale: contenne tutto. Le gallette, il presente diario di guerra, bombe a mano, il fez, pacchi di munizioni. Più tardi poi infilai dentro anche il berretto del primo austriaco che catturai.

Una granata benigna rovistò il tettuccio e gettò all’aria le gavette senza recare alcun danno. Sarebbero stati guai se fosse giunta di grosso calibro. Avevamo proprio lì la riservetta delle cariche di gelatina ed un deposito dii munizioni.

Alcuni avevano ricevuto la posta e leggevano attentamente.Quale tumulto di pensieri, di affetti, di ricordi dovevano fare ressa alle loro menti,

in un momento così tragico e solenne.Passando, venivano urtati, spinti per la ristrettezza dello spazio, ma il loro sguardo

non si toglieva dai larghi e grossi caratteri, il loro pensiero tutto infervorato vagava lontano, lontano…

E tenevano al petto quella busta e quel foglio che, benedetto, lo stringevano, lo riguardavano sperando in cuore loro di essersi dimenticati forse di leggere tutto, poi lo ripiegavano accuratamente ed univano agli altri che tenevano sotto, nella tasca del farsetto, altri fogli e buste rossiccie (sic) dal tempo e molli di sudore. Momenti sublimi, quelli, ed indimenticabili.

Per incitar gli altri a sortire, rimasi quasi ultimo, quando dalle nostre, si dovette passare nelle trincee nemiche, demolite dall’artiglieria.

Pochi istanti dopo mi ritrovai, senza avvedermene, tra i primi, ed in una profonda buca scavata da una bombarda. Eravamo una quindicina là dentro. Nessuno osava dare il balzo. Saltai sopra, guardai e scesi immediatamente seguito dagli altri. La soglia spaventosa era varcata. Non vi era nemico, né morto né vivo. Stupore per tutti noi.

Allora principiai a far uso delle parole che pochi istanti prima avevo appreso per l’imminente occasione:

“Di waffen nieder”, giù le armi!Vi erano molte tane scavate sotto, nella dura roccia, ma nessuno si presentava e si

temeva di qualche agguato. Sparavamo dentro le caverne sospette e che venivano più minutamente osservate dai sopravvenienti e noi si proseguiva scrutando ogni angolo.

Fra i rottami ed i cadaveri, uno sparpagliamento di armi spezzate, munizioni e granate a mano in quantità, maschere, borracce, tascapani, tutto avevano lasciato, ma di vivi nessuno. Si continuò a scendere con molta difficoltà: bisognava passare stesi al suolo, strisciare e allungarsi, pei buchi, tra le pietre ed il legname che bruciava, tra i grovigli di reti e fili spinosi.

Il tutto foracchiato, spaccato, pesto contorto.Mentre gli uni passavano, altri erano pronti e fermi a difenderci: poi ci fermammo

noi in attesa che sgusciassero loro e poter scendere insieme.Mi si presentò il primo prigioniero. Era solo ed attendeva ginocchioni in un

ricovero quasi al completo demolito. Gli altri a due metri puntarono le baionette, ma gridai loro di fermarsi, e nel contempo levando il dito dal grilletto del mio fucile, sollevai con la mano la canna del più vicino puntata verso di lui. L’austriaco si persuase che non volevamo fargli alcun male e sortì dal suo nascondiglio. Da una

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piccola targa che aveva al berretto compresi che aveva già combattuto ai Carpazi contro i russi. Venne passato dietro e noi proseguimmo.

Una mitragliatrice nemica falciava col suo fuoco, ma nessun danno poteva arrecare a noi che ormai eravamo tornati sotto.

Che più ci preoccupava era l’artiglieria che mai cessò sino a notte inoltrata di inviare granate di ogni calibro e shrapnel. Le schegge e le pallottole crepitavano sulle pietre come grandine sibilante.

Enormi esplosioni sollevavano gigantesche colonne di fumo ed eruzione di pietre. La collina era in un sussulto.

Suggerivo ai compagni di non desistere dal ripetere le parole mie e così tutti ad una sola voce: “Die waffen nieder” ripetevano. Con tanti errori di pronuncia, in quelle tre uniche parole, il momento sarebbe stato allegro, se non era tragico.

L’espediente però fu buono e la caccia proseguì bene. Altri quattro prigionieri ci attesero inermi, erano sbigottiti.

Buono con chi si arrese prigioniero, fui invece inesorabile con quelli che reagirono o tentarono la fuga.

Colpii giusto, colpii replicatamente a morte con due pallottole ne stesi due, l’uno riverso all’altro. Mi trovavo a pochi metri: un altro lo raggiunsi più lontano e cadde ferito. Altri cinque, visto la mala fine dei primi che giacevano all’imboccatura della caverna, si arresero.

Qui il camminamento non proseguiva più, ma piegava ad angolo retto. Parecchi austriaci erano scappati lì, inseguiti dalle nostre fucilate. Uno, appena dopo l’angolo, si voltò repentinamente e puntò il fucile verso di me. Con calma feci lo stesso, mirai e sparai.

Il fuoco della canna del fucile suo non lo vidi sortire. Ciò mi fa supporre di avere sparato prima di lui e forse colpito.

In tale luogo non potendo più sparare né noi, né loro causa il terreno alto che ci divideva, incominciarono essi a lanciare bombe a mano e mi ferirono uno dei compagni migliori

Noi adempiemmo la stessa manovra; il tempo passava ed ignoravamo completamente cosa intanto facevano gli altri.

7 agosto - Non appena ebbi consegnato un biglietto al Colonnello, che una granata sfondò la trincea e ferì un allievo che stava recandosi al posto di medicazione per un’altra ferita riportata poco prima. Ferì pure il carabiniere addetto al comando.

Io ed altri vicini fummo solamente investiti dalla terra e dal fumo, senza riportare danno alcuno. I loro corpi ripararono i nostri.

Il Colonnello mi aveva consigliato di risalire per un altro camminamento libero dalle truppe. Obbedii, ma ebbi il presentimento che mi stava per accadere qualcosa.

Trasportai prima con l’aiuto di un altro carabiniere il ferito, lo adagiammo in un luogo meno frequentato dal passaggio delle truppe e visibile ai portaferiti.

Lo sciolsi dall’armi e dai cinturini, e poi giù di corsa, infilai il corridoio indicatomi.

Giungo ad un bivio, ansimante, trafelato piegai qualche metro a destra e mi inginocchiai per riposare e nel contempo raccogliere le idee, discernere se era quello il vero sentiero indicatomi che dovevo percorrere per raggiungere di nuovo la cima.

Dopo pochi secondi un’altra granata sfondò il muricciolo alla mia destra. Fui intontito dalla scarica, accecato e soffocato quasi dal fumo e dal terriccio. Mi sentii il sangue dalla guancia e dalla mano sinistra colare caldo. Mi alzai, mi scossi, mi trovai libero in ogni movimento delle membra.

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Essendo ginocchioni, cioè sotto il livello del suolo, i frammenti del proiettile mi colpirono di rimbalzo dal muricciolo di sinistra e perciò con minore efficacia.

Intuii immediatamente di essere stato fortunatamente colpito poco e scesi di corsa al posto di medicazione del battaglione.

16 agosto - Siamo ricoverati in una spaziosa palestra di ricreazione di un bell’edificio scolastico, posto sulla provinciale Treviso- Mestre- Venezia.

Un vialone con due alte file di platani attraversava la rigogliosa pianura. Ciò mi rammenta la strada di Neuville – Sainte Waast e le sue adiacenze. Qui, in più, vi è la linea tranviaria.

Il paese lo conosco solo da una cartolina illustrata che comperai e probabilmente ritornerò al fronte senza manco vedere il campanile. Giungemmo quasi di nascosto e così ce ne andremo senza vedere la località che ci ospitò.

Mi sono svegliato presto questa mattina ed al canto del gallo; fatto inusitato anche questo, al quale più non sono abituato.

Occupo il letto n.115Tutti questi lettini candidi e puliti, rappresentano tante righe che passarono sotto il

rullo di guerra devastatore, che tutto travolge ed insanguina.Queste linee di letti sono proprio le ultime, quelle che compongono l’ultima

attuale pagina di storia gloriosa del nostro risorgimento nazionale.La battaglia di Gorizia.Ma il rullo inesorabile passa intanto su altri tipi, su altre righe, compone altre

pagine, sempre splendidamente belle.E noi torneremo sotto attraverso altri campi ed altre battaglie.Non ci riconosceremo, ma i tipi sono i medesimi, vi saremo stati, avremo agito.

11 settembre - Credetti proprio quando partimmo da Valli dei Signori, che ci si conducesse sulla linea, ma ciò non avvenne.

Gradatamente invece ci avvicinammo, e forse non saremo richiesti. Ciò indica che la fanteria e gli alpini, che sono sopra, si insinuano, vincono o resistono.

Sotto questa vetta del monte Spil (m. 1684) scorrono silenziosi e solenni i giorni, le notti insonni ed un poco rigide.

Camminiamo di notte piuttosto che di giorno, tra questi sentieri da cervi che mi rammentano il Lowcen della Czernagora.7

Tratturi, striscie (sic) di terra serpeggianti tra la roccia, rischiarata dalla luna tutta bianca e lucente. Lunghe file di strane ombre viventi salgono ansimando, con passo lento, grave e faticoso.

Si sale per avvicinarsi ove si combatte, poi si attende protetti dalla montagna. Ma anche questa è molte volte insidiosa: basta che un soldato posi male un piede per far muovere un sasso. Questo rotola, saltella precipita e colpisce ciò che sta sotto; sembra si fermi, invece riprende il balzo vertiginoso sin giù in fondo alla valle. Altre volte batte sopra la roccia e lì si spacca e frantuma.

Durante queste evoluzioni preparatorie si è in agio di poter constatare tante cose, fra le quali quella che riguarda il carattere buono del soldato italiano, che più di ogni altro interessa e si desidera conoscere.

Lo vedo calmo, dignitosi verso i superiori, resistente e quasi sempre allegro. In verità debbo aggiungere che è un po’ chiassoso, spensierato, ma questo male dobbiamo costudirlo come nostro vanto, il sangue latino non si smentisce mai. Questa notte mentre ognuno si preparava un piccolo spazio di terreno per adagiarsi, sento un bersagliere veneto gridare verso quelli in su: “Voi del loggione lassù,

7 Località del Montenegro

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smettete di mandare gli aranci in platea”. Gli aranci erano ciottoli che facevano rotolare giù mentre si preparavano il giaciglio.

Si aguzza il cervello, le idee vengono fuori come per incanto, per procurarci meno disagio.

Intanto da due giorni le artiglierie si battono continuamente. Sulla via nuova che conduce al forte Mattasone, si scorgono tra il fogliame dei piccoli bagliori, specie di puntini elettrici che qua e là brillano come cerini accesi.

Sono le artiglierie nostre più giù, a destra lungo la valle vi è il forte Pozzacchio; quello è ancora austriaco. Tutti e due i forti sono completamente distrutti.

Piano delle Fugazze, 17 settembre - Qui al cospetto della morte è l’esistenza, la vita sublime. Mai la natura mi si offerse più orrida, eppure è bello essere giunto attraverso fatiche e pericoli, ed in verità in questo momento non invidio nessun altro piacere, nessun agio cittadino. È una specie di poggiolo di roccia quello sul quale mi trovo, sovrastante la valle profonda e nera e che guarda la montagna rocciosa. Mi fa pensare.

Di luoghi splendidi l’Italia si vanta, ma quelli non nascondono il nemico, non sono insidiosi: qui è la guerra.

Sospendo di scrivere: una folla di idee e pensieri crea la mente in tumulto. Osservo di nuovo intorno e scorgo ad un breve volo di falco le trincee nemiche.

Loro sono lassù, gli austriaci là dove battono le artiglierie nostre, e salgono a spirale i lievi fiocchi di fumo cenere.

Passo de l’ora (Pasubio) - Eravamo destinati al rincalzo, ma non vi fu bisogno di noi perché il tempo incostante non concesse di poter proseguire nell’azione. Abbiamo invece dato il cambio alle truppe che stavano in trincea e quelli passarono a riposo.

Diverse notti dormii in una tana scavata nella roccia; l’albergo delle stelle lo chiamavamo. Un delusorio riparo, costretto a stare là dentro appiattato ed immobile come un coniglio, durante le lunghe ore della triste attesa.

In trincea si passa la parola l’un l’altro a voce bassa; sono parole tronche, brevi. In ognuno di noi si scorge qualcosa di nuovo e di strano: sembriamo religiosi in penitenza, gente di un altro mondo, di un’altra epoca.

Alla nostra destra vi è un cocuzzolo occupato ancora dalle truppe austriache, somigliante ad uno zucchetto da cardinale.

Immagino quello tutto traforato di dentro colle perforatrici elettriche, le quali hanno creato dei piccoli pertugi tondi, dentro ai quali sono certamente appostate le mitragliatrici.

Il mattino appresso al nostro arrivo, la cima ed ogni luogo intorno era tutta ricoperta di neve. Dalla mia buca non vedevo più le stelle e manco il chiaro del giorno. Già una volta mi ero svegliato, visto però che tutto stava oscuro e tranquillo, e non entrava più il vento freddo, credetti fosse ancora notte e lieto di ciò voltai fianco. Invece il telo da tenda era tutto ricoperto da neve, ed anche dai sacchi che penzolavano ai piedi non entrava alcuna luce.

Ero tamponato dentro. Un bersagliere più tardi mi chiamò e dovetti sortire carponi, pigiando, pigiando con forza i piedi contro la neve che era caduta alta più di mezzo metro.

Uno spettacolo nuovo meraviglioso mi si offrì allo sguardo; una immensa tovaglia bianca durante la notte si era posata sulla montagna. Tutto era coperto; nulla più nessun segno si scorgeva della recente battaglia: il candore della neve aveva seppellito ogni orrore.

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Ma durò poco. Dopo due belle giornate di sole, ogni cosa ricomparve sul suolo.Avanti alla trincea nostra, al di là dei reticolati, vi era una conca, una specie di

enorme scodella. La neve a poco a poco scivolando giù pei declivi del monte, tutta si era adunata in fondo, tra le roccie (sic), lasciando così scoperti i fianchi del monte. Non mai al mondo vidi spettacolo simile.

Vi scorsi i resti di qualcosa di elevato e grande, il coraggio sprezzante della morte, con cui i nostri fratelli alpini e di fanteria si lanciarono all’attacco. Si conobbe come combatterono con altissimo valore. Innanzi ai resti di simile gesta eroiche, colmi di dolore si ammutolisce!

Vidi i cadaveri dei nostri che tenevano ancora il fucile con la baionetta innestata steso a lato, i pesanti scudi di acciaio in lunga fila disposti ed avevano principiato a scavarsi il riparo.

I rotoli delle tele da tenda, le mantelline e le coperte, erano abbandonate in ogni luogo.

Tascapani ricolmi di munizioni e viveri di riserva, borracce, gavette, berretti di fanteria e cappelli da alpino, picconi, badili, giberne colle maschere pei gas, bombe a mano ovali e le altre colle pezzuole multicolori. Dischi rossi e bianchi per fare le segnalazioni all’artiglieria e tanti altri oggetti.

Si pensò subito di dare sepoltura a quei morti, senza attendere la notte. Favoriti dalla nebbia sopravvenuta, in sei fummo disposti a varcare la linea. Le vedette erano state avvisate della nostra sortita. Non potendo passare sui fianchi del monte, per non fare rotolare i ciottoli, e conseguentemente creare del rumore, si preferì andare in fondo nella conca ove era la neve. Quello che si credeva un piccolo sasso, era invece una roccia sporgente un palmo dalla neve; vi si metteva il piede sopra, tentando di passare sull’altro, ma la distanza era troppa, e di conseguenza si sprofondava sino alle anche.

Risalendo bisognava aggrapparsi colle mani ove un istante prima era stato posato il piede. Ma, e gli austriaci?

Pur essi in quel momento potevano sortire per raccogliere i loro morti ed incontrarsi sul luogo. E se la nebbia si diradava, cosa facile questa in montagna, potevamo essere scoperti di là sopra.

Sarebbe stato un guaio se ci avessero visto. La mitragliatrice insegue ed anche può attendere avanti, ad un passaggio obbligato, falcia, sosta e riprende il fuoco a volontà sinché colpisce.

Piuttosto di essere scoperto da una mitragliatrice, è meglio spari addosso un plotone intero. Non hanno i nervi di acciaio gli uomini, ma quella sì.

Raccogliemmo le salme livide. Alcuni al polso rigido tenevano ancora l’elastico e il pezzettino di cuoio per accendere le bombe. Uno più che gli altri mi fece pietà. Era stato colpito da una granata. L’orribile squarcio delle ferite prodotte per questi congegni abominevoli di distruzione.

Fu colpito in pieno, sminuzzandone, asportandone le carni a brandelli.Furono sepolti tutti, disposti non come si ambirebbe di poter fare, cioè in modo

degno, adeguato al sacrificio compiuto; però si fece tutto ciò che era stato possibile, come poteva concedere il tempo e la località pericolosa.

Verranno poi le madri e le spose a portare lacrime e fiori su questi luoghi alpestri, verrà l’anima della nuova Italia a salutare questi ignoti, questi umili eroi, che seppero trarre dal loro spirito, forse rozzo e incolto, l’altezza del martirio.

A questi soprattutto che morirono senza baci e senza pianto un sentimento di riconoscenza maggiore.

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31 ottobre - Ieri fui chiamato dal Colonnello e con me anche il capitano. Mi chiese come disimpegnai le pattuglie diurna e notturna adempiuta l’altro giorni sotto i reticolati, per verificare l’entità delle aperture prodotte dai tiri delle nostre bombarde.

Furono pattuglie che rivestirono una certa importanza, poiché pure il Generale mi chiamò e volle udire il risultato della spedizione.

Ebbi la copia dell’ordine:“Sig. Comandante 9^ comp. 28-10-1916 – domattina sull’albeggiare V. S. invierà

una pattuglia con un ufficiale che dovrà avere il preciso scopo di riconoscere l’entità dei guasti prodotti dai nostri tiri di oggi sulla sinistra nel tratto delle difese nemiche (annesso all’ordine di oggi) segnate sullo schizzo con le lettere L M dovrà con esattezza riferire sullo stato attuale di dette difese.

Per norma si avverte che altra pattuglia sarà inviata dal 13° battaglione per riconoscere la destra delle dette difese. Avverta le altre compagnie che manda la pattuglia, affinché non succedano spiacevoli incidenti.

Per le ore 6.30 di domattina mi dovrà essere riferito. Maggiore Banzi”Oggi, dopo accanita lotta tra diversi aeroplani nostri e nemici, di quest’ultimi ne

vidi scendere uno entro le nostre linee. Quante grida, quanta allegria in tutti!

5 novembre - Ora che tutto è fatto e ripenso a quello che è stato fatto, non mi sembra vero ciò che fu il giorno 1 e 2.

Dopo lo spiacevole atto adempiuto da alcuni sconsigliati, per colpa dei quali parecchi bersaglieri del battaglione dovettero per punizione e a sorte, essere fucilati, la notte si salì presto verso le trincee di riserva.8

L’attacco doveva essere eseguito su larga estensione. Non so per quante ore durò il bombardamento.

Fu una cosa spaventosa quella delle artiglierie nemiche sulle retrovie per impedire il sopraggiungere dei rinforzi e noi stavamo lì accovacciati, uniti, spessi.

Avremmo voluto metterci in un guscio d’acciaio per essere più riparati là dentro. Arrivavano sulle sponde dei camminamenti i proiettili nemici. La terra si squarciava nelle sue viscere. Sembrò dovesse crollare la volta del cielo. Tutto andava all’aria informa di nuvolaglia spessa, di odore acre, puzzolente.

Si stava a guardare stretti tra noi, per offrire meno spazio, e si attendeva che cadesse ogni cosa: pietrame, terriccio, scheggie (sic) sui nostri caschi, sulle spalle. Ne venivamo tutti ricoperti e molti furono feriti causa la caduta di questi detriti. Si desiderava di uscir finalmente da quell’inferno, di andare all’assalto… e che la fortuna ci aiutasse!

Non ricordo a quale ora saltammo fuori, all’incirca mezzogiorno.Dal Nad-Logem passando alla quota 265 si salì sul Pecinka (291 m) tra i

reticolati distrutti, avendo a sinistra il Veliki Fribach, meta prefissa dal Comando.Ma si passò oltre.I plotoni urlanti del 19° battaglione bersaglieri, conquistata la quota 380

stavano per oltrepassarla e scendere dall’altra parte, ma per un ordine ricevuto la truppa resistette e si mantenne sul luogo.

Non si doveva andare più avanti di là.Vedemmo venire su il colonnello e fummo ad incontrarlo gridando” Avanti,

avanti è qui con noi il signor colonnello”.

8 L’Albini fa riferimento ad un episodio ricordato, anche, nel suo Memoriale. Secondo la versione qui riportata, sarebbe stato lui stesso a sorprendere alcuni soldati che tentavano di manomettere il materiale bellico per boicottare l’imminente loro attacco. Il giorno dopo, gli arrestati furono fucilati.

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Altri gridavano “evviva” brandendo in aria il fucile e facendo luccicare al sole la baionetta. Il colonnello ci abbracciò e baciò.

Ripartii.Vedemmo parecchi austriaci ed un ufficiale fuggire giù pel pendio: li

inseguimmo nel cammino, ma divenivamo sempre più pochi. Un chilometro circa si percorse in questo modo, ballando tra muretto e muretto, tra casa e baracca, sin sotto la collina denominata Poio Nakusnicek.

Maestoso e terribile spettacolo, salutato dalle detonazioni e dal nitrito dei cavalli fuggenti e che portavano in quell’uragano di fuoco e di acciaio la poesia della speranza.

Vibravano tutte le facoltà dello spirito, non si sentiva più la stanchezza; si aveva nel cuore la febbre della battaglia e la mente architettava disegni e risoluzioni audaci.

Ebbi la gradita sorpresa di scorgere in una dolina un cannone di grosso calibro.Chiamai ed indicai ciò ai quattro compagni e poi giù di corsa alla conquista del

prezioso bottino. Altri tre ne trovammo nelle vicinanze: una nidiata di mostri dalla gola e dalle fauci ancora tiepide del violento fiato.

Levai e feci levare il tubo di gelatina dalle anime dei pezzi, coll’evidente intenzione da parte del nemico di volerli distruggere dianzi di volgersi nella fuga precipitosa. Vi erano molte munizioni e se fossi stato artigliere, avrei pensato a rivolgere le bocche dalla parte opposta.

Il nemico si rinforzava a duecento metri. Forse non eravamo visti, ovvero ci si lasciava fare, colla lusinga di poterci prendere prigionieri.

Mandai subito un biglietto al colonnello Coralli, od a qualunque altro ufficiale, chiedendo rinforzi per poter essere certi di mantenere la posizione in caso di attacco.

Intanto le artiglierie nemiche ed anche le nostre battevano ostinatamente la località, ed invero eravamo imbarazzati.

Inviai un altro biglietto implorando i rinforzi. Abbiamo dovuto più tardi ritirarci per rettificare la linea. Se fossero arrivati i rinforzi il nostro sarebbe rimasto un cuneo pericoloso pel fatto di essere tutti presi ai fianchi ed in massa fatti prigionieri.

Con nostro dispiacere abbiamo dovuto ubbidire.

6 novembre –Gli avvenimenti si succedono così rapidamente che non ho neppure il tempo onde dedicarmi al mio diario e dare un piccolo sguardo alle cose successe.

Gradisca 21 novembre 1916 - Da quattro o cinque giorni ci trovavamo accampati sotto una collina, vicino al crocicchio Gabrije-gorenie sulla via del Vallone Merna-Sagrado.

Come il naufrago, sospinto il braccio fuori l’onda che sotto mugghia, alla roccia fidata si aggrappa, e volge poi lo sguardo all’acque spumose e roteanti che lo travolsero, così a me accade mentre ripenso a ciò che fu.

E rivedo le veglie sull’armi, le buie vigili notti insonni, rotte solo dal bagliore dei razzi, dal luccichio delle baionette, dal guizzo delle fucilate.

I vestiti inzuppati, lavati dall’acque che filtravano entro le calzature infangate.E non pare vero.Mi sembra un sogno di trovarmi in questa quiete, di depositare a poco a poco il

dolore della nuova ferita tra queste quattro pareti così candide, in un lettuccio morbido e tiepido.

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Nell’ospedale, dopo alcuni giorni, venni operato onde far uscire dalla natica il grosso ematoma prodotto dalla ferita all’inguine.

Intanto per concessione immediata sul campo, da parte del comandante la III armata mi venne concessa una medaglia d’argento al valore militare, e mi fu gradita la notizia di avere contribuito acciò anche la bandiera del reggimento fosse fregiata di medaglia d’argento.

Trovandomi all’ospedale, venne consegnata al capitano del reggimento in presenza dei bersaglieri della prima brigata.

In febbraio mi furono concessi due mesi di convalescenza e così andai a casa a Ciliverghe; trascorsi i quali raggiunsi Bologna, sede del deposito del 6°.

1917

Fatti principali – Fra il 12 e il 28 maggio la decima controffensiva sull’Isonzo con modesti risultati. Fra il 10 e il 25 giugno offensiva italiana nella zona di Asiago. Il 18 agosto la decima e ultima battaglia dell’Isonzo, la più costosa in termini di perdite umane:165.000 tra morti e feriti. Risultati, nessuno.

Il 24 ottobre, Caporetto. Benché qualcosa fosse trapelato, l’esercito italiano è impreparato. Cadorna ordina la ritirata: è una disfatta!

Il 9 novembre, finalmente, l’inetto Cadorna viene sostituito da Diaz. È in questo contesto che l’Albini viene catturato alle Melette.

Tra il 10 e il 26 novembre l’esercito italiano resiste sulla linea del Piave.

A Bologna (Maggio) - Migliorava dalla ferita, ma in modo insensibilissimo, quasi impercettibile. Dopo accuratissima visita medica, mi fu dato un mese di servizio sedentario in caserma, poi di servizio territoriale.

A San Ruffillo prima e a Casalecchio di Reno, poi furono istruite le reclute della classe 1899, tutti giovani provenienti dai distretti d Mantova, Pavia, Firenze, Pistoia e così molti giorni passarono senza vicende. Intanto il bollettino ufficiale del Ministero della Guerra per le ricompense al valor militare pubblicava una seconda motivazione per concessione di altra decorazione.

In seguito una terza motivazione mi veniva presentata a letto dal colonnello comandante del deposito, da parte del Governo del Montenegro pel tramite del suo rappresentante a Bologna. Detto decreto mi dava la facoltà di fregiarmi della medaglia d’argento al valore militare di quello Stato.

20 novembre - Tutto il battaglione partì dalla stazione di Casalecchio giungendo a Bassano veneto il 21 ed a Mason la sera dello stesso giorno, ove trovammo acquartierato il 6°. Qui i nuovi bersaglieri furono inquadrati nelle compagnie ed io venni riammesso alla nona ove ancora vi erano il capitano e parecchi bersaglieri memori delle buone date. Durante la permanenza a Bologna mi trovai a disagio, avrei voluto portarmi al fronte onde accudire a qualche servizio di guerra conforme alle mie aspirazioni, ma non mi venne concesso mai, nonostante abbia escogitato qualunque mezzo e importunato cospicue autorità per raggiungere lo scopo.

25 novembre 1917 - Sulle Melette - Il 25 già eravamo nelle trincee di prima

linea su una delle Melette di Gallio (Altipiano dei sette comuni) e qui venne a trovarmi il fratello Giovanni, allora promosso capitano 158° fanteria, al quale reggimento proprio il 6° aveva dato il cambio. Rivederci in tale luogo fu per noi una grande gioia e gustammo oltremodo quel breve momento.

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Data la sua importanza, mi raccomandò di sostenere ad oltranza la posizione, se si venisse attaccati, poi con la promessa che sarei andato io a trovare lui, se il tempo e l’opportunità mi venissero concessi; ci siamo salutati, lui scendendo a valle, io risalendo tra i bersaglieri.

Il 4 dicembre, alle sei circa del mattino si ode la prima cannonata, poi la seconda, poi la terza: i tiri si susseguono con frastuono assordante.

La silenziosa placida notte fa posto all’inferno rosseggiante e furente. L’ombra notturna e il fuoco degli shrapnells esplodenti tracciano bizzarri profili sulle nude pietre. Le detonazioni violente delle granate si fondono allo schianto sinistro dei massi in un frastuono orrendo, indescrivibile.

Alcune producono gas asfissiante e ben due volte ordino sia applicata la maschera al viso. I bersaglieri non se ne sono accorti.

Granate e shrapnells scoppiano sulla roccia viva, le pietre vanno all’aria come eruttate da un vulcano, a cento, centocinquanta metri si aprono ad ombrello, ricadono e noi dobbiamo attendere sotto, accoccolati come meglio si può. Molti vengono contusi in codesta maniera, il momento diventa sempre più difficile.

Le artiglierie aprono brecce sanguinose. Due bersaglieri, Bonomini e Pacini, vengono mortalmente colpiti a cinque passi.

Pacini si trascina qualche poco e cade supino vicino a me. Ha tre piccoli strappi alla spalla sinistra, sotto l’ascella. La testa è tutta nera e bruciacchiata, l’occhio destro sprizza vitreo dall’orbita. Una pallottola si vede sotto la tempia destra sporgente cerulea come un pruno selvatico, il mento pure forato e sanguinante. Osservo gli occhi vitrei e stravolti divenuti colore del piombo, non vi è rimedio alcuno pel meschino che geme continuamente.

I bersaglieri si offrono per trasportarlo ma li dissuado. Si lamenta con voce fioca e chiede qualcosa nel contempo, ma non posso comprendere ciò che desidera. Mi approssimo ancora più per accogliere quel lamento, infine odo e questa volta ben distintamente: “un bacio!” Lo appoggio nel miglior modo possibile col dorso contro la roccia in maniera che sieda, ma il capo declina sulla spalla…. Poi nuovamente ripete “Sì, un bacio”.

“Un bacio?” dico io. Non risponde, ed io non oso profanare un istante così solenne, non voglio turbare l’ultimo suo pensiero rivolto certo alla famiglia lontana. Infine credo di interpretare questo suo vivo desiderio. Questi fu un buon bersagliere, dissi tra me, e rimase sul posto adempiendo al suo dovere. Mi curvo sulla sua spalla e sul capo insanguinato, lo osservo nel viso e lo bacio. Risollevatomi estremamente commosso, dico a lui – “E’ stato il tuo superiore che ti ha baciato!”

Non risponde nulla! I bersaglieri si erano voltati e silenziosi osservavano la scena pietosa. Dissi loro “state sempre all’erta e sparate!”.

L’altro, il bersagliere Bonomini, già era immobile, morto.Oh, quale morte!

In trincea - Gli Austriaci qua e là, avanti a noi a 200 metri sbucan fuori tra le piante basse di rovere…si approssimano ad un camminamento, vi saltano, rotolano dentro.

Le nostre fucilate fanno delle vittime in quei piccoli gruppi.Il bombardamento era cessato da parte del nemico, segnale per noi di attacco da

parte loro.Prepariamo le bombe, gli spezzoni, i petardi, ogni cosa a facile portata di mano.

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E così si durò e si resistette immobili per ben 13 ore sotto simile uragano. Durante le azioni dell’artiglieria pochi soldati tentano di allontanarsi, perché si mettono allo scoperto e così con più probabilità di essere colpiti.

Poi chi tentava svignarsela, lo rimandavo senz’altro al suo posto.Finalmente sopravvenute le prime tenebre, la lotta si affievolì e si spense.Gli austriaci avevano sfondato alla mia destra e si erano portati via prigionieri, il

primo e parte del secondo plotone della mia compagnia.Il comandate mi aveva scritto:” La S. V. si distenda con fronte verso il 36° batt.

Bersaglieri, e tenga duro ad ogni costo, ricorrendo anche a contrassalti”.Tra le rocce erano morti, feriti e sepolti vivi che imploravano soccorso.È qui che l’animo afflitto trovò sfogo nei singhiozzi al pensiero di avere perduto

la vetta della Meletta, il posto ove ero stato pochi giorni prima.Sono abituato ai grandi avvenimenti e non è nel momento che mi si annunziano

che mi producono qualche effetto, è in seguito quando subentra la quiete dello spirito, quando la mente riepiloga e discerne.

Il giorno dopo, il 5, siamo stati nuovamente attaccati. Oh, le giornate da tanto tempo passate! Oh le memorabili giornate del San Michele, del passo de Lora del Veliki e Pecinga… là fummo capaci e saldi!

Alle 11 principia un altro attacco sempre dalla parte della vetta.L’artiglieria in quel momento taceva.Successe il panico e tutti precipitarono da ogni parte verso la valle. Tutto andava

perduto.Tento trattenere quanti posso, minaccio di sparare su di loro “Gli austriaci

scendono dalla Meletta!” mi sento gridare da ogni parte, un tenente fra loro compreso.

“Che vengano, li attendiamo qui noi!” grido loro “a chi osa passare brucio le cervella”

Ero folle per la collera e pel dispetto.Nessuno più intendeva la mia voce, gridavan tutti…sono sempre arrivato

comunque attraversando ostacoli e pericoli, sempre di mia volontà; avendo dovuto ubbidire, la fortuna non mi aiutò: dovetti umiliarmi e scendere…

Il nemico che trovavasi costernato per altre battaglie perdute, ha preso ora, dopo questi nostri disastri, il coraggio e l’ascendente della vittoria.

In generale l’istinto naturale porta a giudicare il nemico più forte di numero di quello che è realmente, invece, noi ci trovavamo più numerosi in questo fatto d’armi.

Bastava solo agire per disimpegnarsi.Lo stato d’animo alterato per tanta sciagura, il vociare ed una sassata prodotta

dallo scoppio di una granata, che mi ammaccò l’elmetto, produssero un forte dolore di capo. Senza più alcuna speranza di poter adunare i bersaglieri sbandati ovunque, stetti coi mitraglieri del 158° reggimento che tennero indietro per alcun tempo il nemico, il quale già trovavasi a mezza costa, precisamente più basso di dove mi trovavo io due ore prima.

Infine, sempre inseguito dalle cannonate nemiche, che battevano fortemente in valle e sulla strada di Foza, mi portai nella casa dove era prima il comando di reggimento con la speranza di trovare qualcuno che mi informasse di come stavano le cose. Erano scappati tutti, abbandonando tutto.

Prigioniero - Il dolore di capo non mi lasciava requie senza alcun timore mi posi a giacere sopra un solido uscio che era stato levato dai cardini e posto sul pavimento e più che la stanchezza poté il turbamento. Mi addormentai,

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svegliandomi poco dopo per un rumore dii passi che veniva da fuori e da una voce che parlava in dialetto veneto.

L’aria di fuori si era fatta bruna ed il dolore di capo durante quel breve momento di quiete si era calmato un poco. Non avevo alcuna tema che il nemico fosse sceso anche da quella parte e mi stesse vicino, che la linea sul monte fosse abbandonata, tanto più che poco prima avevo visto trasportare un ferito al posto di medicazione che trovavasi sulla strada.

Mi alzai accingendomi ad uscire. I due o tre passi percorsi sul pavimento di legno vennero uditi di fuori e sentii subito dire: “Bepi vieni qua!”.

Stavo prendendo il tascapane, il moschetto e l’elmetto che avevo deposto al mio fianco, mentre la medesima voce ripeteva sempre le parole Bepi vieni qua, vieni qua Bepi!. Nessuno però si affacciava al vano della porta.

Infine, spazientito di tale insistenza dissi io pure: “Cosa c’è, cosa volete?” “Vieni qua Bepi!” si ripete. Mi dirigo a quella volta così senza elmetto e senza

moschetto, mi affaccio e mi vedo avanti tre metri ed al fianco destro quasi rasente al muro tre individui, tutti e tre fermi e rigidi come si trovassero di fronte ad un bersaglio colle braccia tese verso di me e che impugnavano nella mano una pistola pronti a sparare se avessi fatto la minima mossa sospetta.

Gli individui, gli austriaci ora debbo dire, avevano l’elmo pesante in capo, uno di loro, quello che mi era di fronte, con la mano sinistra, quella libera, mi fece cenno di alzar le braccia quale atto di resa. L’altro che aveva mano dritta, avanzò due passi chiedendo, stavolta in lingua tedesca, e indicando se avevo armi. Dissi di sì. Mi frugò al fianco destro del cappotto, impadronendosi della pistola e gettando le munizioni al suolo.

Ero prigioniero. Quel nome Bepi non era affatto nuovo per me, lo avevo udito ancora, ma da chi?

Mi aveva turbato un po’, messo in sospetto, ma tra il turbamento e l’azione immediata di recarmi all’uscita distante tre o quattro metri, la mente non ebbe campo di esplicarsi, di discernere.

Non mi sarei fatto sentire, non mi sarei presentato a quel modo e così ingenuamente…ma come avevano potuto venire, com’erano discesi senza che io avessi udito alcun colpo di fucile? Senza udire nessuno correre? Ed i nostri dove erano adunque? Ed il 77°? Dove era il 77° fanteria?

Tutte dimande che facevo a me stesso, senza avere nessuna risposta, nel tumulto del pensiero, della collera, del dispetto.

Tengo con me il principio di una lettera, cinque sole righe, perché non la potei terminare e tanto meno inviare, che mi consola alquanto rileggendola, perché dimostra qual era la volontà e l’animo mio tre giorni prima di subire l’oltraggio della prigionia.

Sempre con l’arma in pugno, i tre austriaci mi stettero ai fianchi camminando su pel monte

Di tratto in tratto si vedevano delle ombre cupe. Erano vedette. Ci fermavano scambiando tra loro qualche parola e poi si proseguiva. Mai nessuno vidi dei nostri. Venni accompagnato in una trincea fatta da noi ed occupata da loro. Gli austriaci avevano acceso dei fuochi dentro la trincea stessa e per fare scaldare l’acqua nelle gavette spaccavano i calci dei nostri fucili lasciati sul terreno dei prigionieri. V’era un fumo che accecava. Fui invitato a sedermi tra loro. Erano quasi tutti dalmati appartenenti al 22° reggimento. Li comprendevo bene ma non avevo volontà di parlare e mi indispettivo di tutte le domande che mi facevano. Fui unito ad altri prigionieri che già trovavansi in una caverna. Là passai la notte. Pel mattino seguente v’era l’ordine di farci discendere dall’altra parte, verso Campo Mulo.

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Passammo da Larici, Monte Rover e Caldonazzo per giungere a Trento, ove siamo stati ricoverati nel castello che vide il martirio di Cesare Battisti.

Fu l’anticamera della nostra prigionia.