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La cittadinanza post-secolare: forme e trasformazioni dell’agire pubblico di Paolo Monti 1 Introduzione Il concetto di cittadinanza nel dibattito contemporaneo ha assunto un ruolo chiave per la definizione del reciproco rapporto fra identità personali, società civile e istituzioni politiche. L’esercizio della cittadinanza rappresenta, infatti, un crocevia antropologico, etico e politico, dove azione personale, criteri di razionalità, principi morali e relazioni sociali concorrono a definire dalle fondamenta lo statuto e i confini della sfera pubblica. In particolare, in questa sede ci proponiamo di sviluppare un’indagine sulla definizione e sulle implicazioni etiche del concetto di cittadinanza democratica nel contesto delle società post-secolari. Nel farlo ci atteniamo, in prima battuta, a una caratterizzazione della cittadinanza e delle società post- secolari piuttosto ampia. Ciò è giustificato non solo dall’intento di progressiva costruzione di una caratterizzazione più specifica, ma anche dall’obiettiva variabilità dei termini all’interno del dibattito. Consideriamo dunque la cittadinanza come la condizione dell’essere partecipi degli affari pubblici all’interno di una determinata società politica, una condizione che comporta uno specifico status in termini di diritti ma anche e soprattutto una forma peculiare dell’agire pubblico in rapporto ai concittadini e alle istituzioni. E consideriamo le società post-secolari, secondo la fortunata caratterizzazione habermasiana, come società nelle 1 Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano. e-mail: [email protected] 1

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La cittadinanza post-secolare:

forme e trasformazioni dell’agire pubblicodi Paolo Monti1

Introduzione

Il concetto di cittadinanza nel dibattito contemporaneo ha assunto un ruolo chiave per la definizione del reciproco rapporto fra identità personali, società civile e istituzioni politiche. L’esercizio della cittadinanza rappresenta, infatti, un crocevia antropologico, etico e politico, dove azione personale, criteri di razionalità, principi morali e relazioni sociali concorrono a definire dalle fondamenta lo statuto e i confini della sfera pubblica. In particolare, in questa sede ci proponiamo di sviluppare un’indagine sulla definizione e sulle implicazioni etiche del concetto di cittadinanza democratica nel contesto delle società post-secolari. Nel farlo ci atteniamo, in prima battuta, a una caratterizzazione della cittadinanza e delle società post-secolari piuttosto ampia. Ciò è giustificato non solo dall’intento di progressiva costruzione di una caratterizzazione più specifica, ma anche dall’obiettiva variabilità dei termini all’interno del dibattito. Consideriamo dunque la cittadinanza come la condizione dell’essere partecipi degli affari pubblici all’interno di una determinata società politica, una condizione che comporta uno specifico status in termini di diritti ma anche e soprattutto una forma peculiare dell’agire pubblico in rapporto ai concittadini e alle istituzioni. E consideriamo le società post-secolari, secondo la fortunata caratterizzazione habermasiana, come società nelle quali la secolarizzazione ha modificato il ruolo e la presenza delle religioni nella sfera pubblica ma, contrariamente alle attese, non l’ha eliminata, determinandone piuttosto un ‘ritorno’ sul piano culturale e politico, seppur in forme significativamente nuove. La cittadinanza indica, dunque, una condizione del soggetto di carattere politico ma non esclusivamente tale, afferendo anche più in generale al suo inserimento come soggetto di azioni e relazioni nell’orizzonte ampio della sfera pubblica. Il concetto di post-secolarismo, dal canto suo, indica una condizione storico-culturale determinata, che riguarda in modo particolare le società occidentali, ma suggerisce più in generale una nuova possibile lettura normativa del rapporto fra politica e religioni.

La presente trattazione prende le mosse da alcuni elementi di criticità e di interesse emersi nel dibattito recente circa diversi modelli di cittadinanza. Attraverso questo lavoro di vaglio e, successivamente, di sintesi si mira a mostrare come, a partire dalla pluralità dei contributi più interessanti sollevati in anni recenti da prospettive antropologiche, teologiche, etiche e politiche diverse, possano emergere posizioni di convergenza significativa circa i requisiti fondamentali di un profilo normativo dell’agire pubblico che voglia inserirsi nello scenario post-secolare. Come

1 Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano. e-mail: [email protected]

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vedremo, la trattazione ci porterà oltre l’ambito della cittadinanza stessa, sulla base della consapevolezza che le figure concettuali proprie della vita pubblica devono oggi essere ripensate a partire dalla profonda mutazione dei grandi quadri interpretativi del politico, del civile e del religioso. Ogni considerazione normativa dell’agire pubblico non può d’altra parte che essere portatrice di implicazioni sul piano della comprensione antropologica del rapporto fa individuo e comunità, fra orizzonte religioso e bene comune. Si intende dunque suggerire alcune indicazioni preliminari per la definizione di un profilo di cittadinanza che valorizzi la costitutiva relazionalità del soggetto morale, e che riconosca all’azione personale nello spazio pubblico un compito di sintesi fra le istanze normative proprie della dimensione religiosa ed etica e le condizioni epistemologiche e storiche tipiche delle odierne società plurali.

Modelli di cittadinanzaLe diverse trattazioni del concetto di cittadinanza democratica,2 per quanto accomunate da una

naturale attenzione per la sua collocazione nell’alveo della sfera pubblica, sono tutte caratterizzate in modo specifico da uno sguardo disciplinare prevalente. Questa pluralità di contributi mostra la complessità del fenomeno e ne esige una trattazione articolata, per quanto possibile sintetica di questa molteplicità di prospettive e del contributo di comprensione della cittadinanza che ciascuna di esse porta.

In quanto figura centrale nella definizione della natura e dei confini dell’agire pubblico, la cittadinanza viene di volta in volta discussa filosoficamente a partire da almeno tre punti di vista essenziali: quello epistemologico, quello etico e quello politico. Tutti e tre questi punti di vista aprono a dei percorsi assolutamente pertinenti, rilevando la dimensione cognitiva, normativa e sociale di ogni agire, e particolarmente di ogni agire che si collochi più o meno consapevolmente nell’orizzonte pubblico delle relazioni civili, economiche e politiche. In questo senso, d’altra parte, il concetto di cittadinanza mostra una sua rilevanza a tutto tondo antropologica, in quanto forma di espressione della persona secondo la piena estensione delle sue facoltà, configurando in modo specifico alcuni nessi fondamentali tra verità, azione e bene, tra individuo e comunità, tra forme di vita e strutture istituzionali.

In questa prospettiva, anche la trattazione specifica delle trasformazioni della cittadinanza all’interno dell’orizzonte post-secolare è opportuno che si muova entro gli stessi confini, mostrando contestualmente come la questione religiosa non innervi lo spazio pubblico esternamente o pretestuosamente, ma dall’interno, proprio perché potenzialmente in grado di caratterizzare tutti gli aspetti che definisco l’agire personale, dal punto di vista cognitivo, normativo e sociale. La questione religiosa riguarda a pieno titolo la sfera pubblica perché e in quanto riguarda la persona nella sua interezza, o almeno questa sarebbe la sua pretesa, che deve essere presa sul serio nel

2 Il concetto di cittadinanza non è naturalmente ristretto nella sua applicazione alle forme politiche democratiche, tuttavia le fonti che vengono qui prese in considerazione sono accomunate da questo comune riferimento. L’analisi che ne consegue si inserisce dunque in questo perimetro, ove si attribuisce particolare enfasi alla dimensione deliberativa e cooperativa del rapporto intersoggettivo fra cittadini rispetto alle dimensioni più propriamente giuridiche e istituzionali. A supporto di questo tipo di sottolineatura, notiamo che molti degli autori qui considerati inquadrano il tema generale del rapporto fra religione e politica proprio nei termini specifici di una necessaria etica della cittadinanza democratica.

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momento in cui se ne vuole una lettura che risulti pertinente nella prospettiva del cittadino credente come in quella del cittadino non credente.

Seguendo i lineamenti di questa architettura disciplinare della questione, veniamo così a rilevare per ogni ambito alcuni snodi specifici, con l’obiettivo di tornare poi a ricomporli insieme, per quanto possibile, in un quadro unitario.

Epistemologia della cittadinanzaLa cittadinanza può essere considerata come una condizione epistemica specifica, caratterizzata

dalla formazione di credenze condivise fra più soggetti che svolgono un ruolo direttivo nella definizione degli indirizzi della deliberazione e dell’agire collettivo. In questo quadro, in particolare, lo scambio e la dialettica di una molteplicità di ragioni di carattere pubblico costituiscono il sistema di giustificazione delle decisioni e delle azioni che si svolgono nello spazio della rappresentanza politica, definendone i limiti e gli orientamenti.

L’attenzione per la dimensione epistemologica della cittadinanza e dei processi di formazione della normatività sociale ad essa collegati, è stata in questo senso ampia e ha trovato interpretazione secondo categorie diverse. L’approccio dell’etica del discorso3, il neopragmatismo americano4 e, per molti versi, lo stesso liberalismo politico di matrice rawlsiana5 hanno di fatto largamente intercettato il rapporto fra i cittadini e il loro esercizio della cittadinanza principalmente sotto il profilo del loro essere soggetti di credenza, comunicazione, giustificazione e scelta razionale. In gioco è in fondo la questione del rapporto fra verità e democrazia, laddove i cittadini sono chiamati a mettere in campo e sostenere la verità – o la giustificatezza - delle proprie convinzioni riguardo a ciò che è comune. Tali convinzioni possono essere anche profondamente connesse con l’identità personale dei soggetti coinvolti, mentre al tempo stesso nella convivenza politica viene loro richiesto di accogliere e talvolta entro certi limiti accettare la verità espressa da altri.6

All’interno di questa prospettiva generale, la questione del ruolo delle religioni è stata certamente fra le più rilevanti e la discussione su di essa si è principalmente incentrata sullo statuto specifico delle credenze e delle ragioni di natura religiosa, in particolare in termini di accessibilità, universalità e traducibilità delle stesse.

Le strategie di carattere più tradizionalmente liberale hanno insistito sulla limitazione del ruolo dei contenuti e delle appartenenze religiose nella giustificazione delle norme politiche da parte dei cittadini e dei loro rappresentanti. La più influente di queste formulazioni è con ogni probabilità il paradigma della ragione pubblica sviluppato da John Rawls. In un contesto sociale e politico segnato dal ‘fatto del pluralismo’, egli ha inteso mettere in luce come al fine di garantire la collaborazione e la convivenza civile sia necessario ricorrere a repertori di giustificazione razionale universalmente accessibili, cioè a insiemi di principi e argomenti che possano essere in qualche modo accettabili da parte di tutti i cittadini e che possano dunque delimitare i confini di un discorso

3 Cfr. J. HABERMAS, Theorie des kommunikativen Handelns, trad.. it. di P. Rinaudo (= Teoria dell’agire comunicativo), Il Mulino, Bologna 1997; K.O. APEL, Diskurs und Verantwortung, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main 1988.4 Cfr. R.B. TALISSE, Democracy and moral conflict, Cambridge University Press, Cambridge 2009; R.B. TALISSE, Socratic Citizenship, «Philosophy in the Contemporary World» 13 (2006) 4-10; G. CALDER, Pragmatism, critical theory and democratic inclusion, «Ethics & Politics», 12 (2010) 52–67.5 Cfr. J. RAWLS, Political liberalism, trad. it. di S. Veca (= Liberalismo politico), Einaudi, Torino 2012.6 Cfr. R. TINNEVELT - R. GEENENS, Does Truth Matter?: Democracy and Public Space, Springer, New York 2008.

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pubblico all’interno del quale gli individui possano perseguire la costruzione di una società giusta al di là delle proprie particolari concezioni del bene. Per rimanere entro i confini del discorso pubblico si renderebbe necessario rinunciare ad argomentare a partire dal proprio intero patrimonio di credenze, individuando piuttosto un sottoinsieme cognitivamente condiviso che possa costituire la base del discorso pubblico. La ragione pubblica, dunque, prevede di argomentare a partire da un campo delimitato da premesse cognitive comuni a tutti, escludendo il riferimento a quelle dottrine comprensive del bene che caratterizzano le appartenenze identitarie dei cittadini, rappresentate in modo particolare dalle grandi tradizioni religiose e metafisiche. Rawls stesso ha circostanziato l’applicazione della ragione pubblica, riferendola in termini restrittivi alla sola argomentazione deliberativa riguardo a elementi fondamentali della società politica come i criteri basilari di giustizia e i principi costituzionali essenziali. Egli riconosce dunque la presenza di forme di discorso pubblico di carattere testimoniale e dichiarativo che, in quanto non strettamente normative, non ricadono necessariamente sotto i limiti della ragione pubblica, il cui dominio di riferimento è piuttosto quello del foro pubblico, cioè delle istituzioni di carattere legislativo, esecutivo e giudiziario. Al perimetro epistemico delimitato dalla ragione pubblica corrisponde in ogni caso un preciso dovere dei cittadini, una duty of civility secondo la quale essi dovrebbero dibattere restando all’interno di quei limiti, in modo particolare laddove la materia normativa oggetto di deliberazione o giudizio implichi un grado significativo di coercizione rispetto ai comportamenti individuali e di gruppo.

La riflessione sviluppata da Robert Audi, in una molteplicità di suoi contributi sul tema, 7 è mossa da un’ispirazione analoga a quella rawlsiana, concentrandosi tuttavia in modo più marcato sul profilo di responsabilità dei cittadini. Audi si interroga sul rapporto fra dimensione politica e dimensione religiosa a partire dal ruolo dell’argomentazione religiosa all’interno del discorso pubblico, in particolare del processo democratico deliberativo in vista di interventi normativi di carattere coercitivo. In tal senso, quindi, non si discosta radicalmente dall’impostazione rawlsiana, ma si interessa in modo più ampio e meno procedurale alla pratica discorsiva dei cittadini e dei loro rappresentati nello spazio pubblico, per individuare a questo livello dei criteri essenziali di regolamentazione della deliberazione politica che ne impediscano la degenerazione conflittuale o l’imporsi di posizioni che restringano eccessivamente la libertà individuale.

Audi considera religioso ogni argomento che implichi, esplicitamente o implicitamente, delle premesse o delle conclusioni teologiche, sia che esse siano richieste nella definizione dei contenuti dell’argomento, sia che esse siano necessarie per garantire la validità nei nessi epistemici fra le varie parti dell’argomento. Audi riconosce che questi argomenti, e le ragioni religiose di cui sono espressione, possono portare un contributo positivo alla vivacità e alla pluralità del discorso pubblico. Tale ambito di ragioni offre un repertorio importante non solo per la vita morale e culturale degli individui e delle loro comunità religiose di riferimento, ma anche per la costruzione collettiva di indirizzi politici e movimenti sociali che si rivelano fruttuosi per la vita di una democrazia, come dimostrato emblematicamente dalla storia della lotta per i diritti civili degli afroamericani. D’altra parte, proprio perché le credenze religiose sono profondamente inscritte

7 Cfr. in modo particolare con R. AUDI, Religious Commitment and Secular Reason, Cambridge University Press, Cambridge 2000; R. AUDI, Democratic Authority and the Separation of Church and State, Oxford University Press, Oxford 2011.

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nell’identità personale di molti cittadini e poiché ad esse si accompagnano delle relazioni comunitarie segnate da profili di autorità e obbedienza, sarebbe il perseguimento stesso del bene comune a comportare la necessità di delimitare in qualche modo il ruolo degli argomenti religiosi rispetto alla totalità del discorso pubblico deliberativo della società politica. Per garantire l’apertura universalistica del dibattito e l’accettabilità razionale di ogni istanza politicamente deliberata, è dunque necessario secondo Audi che ogni argomento pubblico, riguardante materie che contemplano la coercizione dei comportamenti degli individui, venga basato su almeno una ragione non religiosa. Solo le ragioni di natura secolare potrebbero infatti essere considerate epistemicamente comprensibili e condivisibili da qualsiasi cittadino, credente o non credente.

A latere di questa tipologia di proposte di matrice eminentemente liberale, una pluralità di prospettive di diversa ispirazione ha cercato di muoversi in altra direzione, individuando un insieme di criteri e modalità della partecipazione politica attiva dei cittadini religiosi nello spazio pubblico ove non venga loro richiesto di privatizzare la propria appartenenza religiosa, ma di poter assumere la propria parte di responsabilità nella vita sociale e politica immettendo significati, credenze e ragioni di natura religiosa all’intero di confini epistemici più ampi. Tale direzione è stata intrapresa secondo logiche di ampliamento, di deliberazione, di traduzione e di apprendimento.

Il lavoro di Nicholas Wolterstorff8 è stato largamente teso a una polemica più o meno diretta nei confronti del modello liberale rawlsiano, argomentando a favore di un’ampia accettabilità degli argomenti religiosi nel discorso pubblico. Nella prospettiva ‘inclusivista’ di Wolterstorff, in qualche misura l’accettabilità stessa degli argomenti deve essere considerata come un oggetto, e non un prerequisito, della conversazione fra i cittadini.

A partire da basi teoriche diverse, di derivazione neopragmatista, anche J. Caleb Clanton9 giunge ad un esito di estensione dell’accettabilità epistemica del contributo discorsivo portato dai cittadini religiosi. Rifiutando il carattere separatista e ricostruttivista di alcune delle teorie liberali prevalenti, che tendono cioè a separare il portato epistemico delle prospettive religiose oppure a ricostruirne il contenuto in termini secolari, Clanton ritiene piuttosto che credenti e non credenti debbano poter entrare nello spazio della comune conversazione portando i propri argomenti, a condizione di accettare che ciò esporrà le loro ragioni alla critica e alla falsificazione. Il processo di confronto democratico che ne deriva può essere efficace solo se i partecipanti accettano le premesse implicite del confronto razionale, che includono la necessità di comprendere le posizioni altrui a partire dai significati e dai concetti caratteristici della sua visione delle cose e la disponibilità ad accettare la possibilità dell’indebolimento e della smentita delle proprie stesse argomentazioni. In questo senso la conversazione politica può essere luogo in cui si affrontano questioni di profonda rilevanza per i soggetti coinvolti, a patto che questi esercitino delle appropriate virtù epistemiche di buona cittadinanza, in grado di orientare la conversazione pubblica in senso cooperativo, verso esiti di reciproca comprensione e accordo o, almeno, verso forme di modus vivendi intorno alle questioni più controverse.

8 Cfr. N. WOLTERSTORFF – R. AUDI, Religion in the public square: the place of religious convictions in political debate, Rowman & Littlefield, London 1997; N. WOLTERSTORFF, The Mighty and the Almighty. An Essay in Political Theology, Cambridge University Press, Cambridge 2012.9 Cfr. J.C. CLANTON, Religion and Democratic Citizenship: Inquiry and Conviction in the American Public Square, Lexington Books, Lanham 2008.

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Per certi versi, anche la prospettiva habermasiana più recente sul tema del rapporto fra politica e religione può essere intesa esprimere un modello di cittadinanza primariamente incentrato sulle sue dimensioni epistemiche, in particolare nella forma della traduzione e dell’apprendimento reciproco fra cittadini religiosi e secolari. Dedicheremo in ogni caso a questo modello alcune considerazioni più approfondite nel prosieguo della trattazione.

Etica della cittadinanzaLa rilevanza della dimensione epistemologica della cittadinanza, come abbiamo visto, è

comunque strutturalmente orientata verso la sua dimensione eminentemente pratica: essere cittadini è innanzi tutto essere coinvolti peculiarmente in una sfera di azione, ove la rete formata dalla mutualità delle azioni dei partecipanti contemporaneamente definisce e, in parte, viene definita dalle proprietà dello spazio pubblico di riferimento.

In questo quadro, non sono mancate le riflessioni che si sono concentrate sull’aspetto specificamente etico della cittadinanza. In particolare, nell’ambito delle prospettive teoriche che sottolineano la continuità fra normatività etica e normatività politica, il significato etico della cittadinanza è stato visto come parte integrante della costruzione dello spazio pubblico e non solo come suo complemento estrinseco di carattere moralmente individuale. Anche in altri contesti teorici, come nel caso del contrattualismo liberale, si è fatta strada un significativa tendenza a rimarcare il ruolo di abiti e virtù dei cittadini come condizione necessaria alla realizzazione della vita politica.10 In particolare si è richiamata la necessità del ruolo educativo delle istituzioni politiche democratiche, laddove la formazione della virtù civica dei cittadini si rivela essere condizione di possibilità della loro stessa esistenza. Non solo dunque i cittadini formano il legame politico attraverso le loro scelte e i loro comportamenti, ma il legame politico forma a sua volta i cittadini attraverso determinate attitudini, regole e virtù che vengono pubblicamente riconosciute e incoraggiate.11

In ordine al ruolo delle religioni, la dimensione etica è spesso stata largamente centrale nel dibattito. Da un lato è stato proprio sulle questioni di ordine etico che sono emerse in misura più evidente le divisioni e le criticità latenti fra le opposte visioni dei cittadini credenti e non credenti e dei loro rappresentanti, al punto da far sospettare una sostanziale incommensurabilità di vedute su alcune questioni particolarmente sensibili, come nel caso dell’aborto, dell’eutanasia, del matrimonio omosessuale, delle pratiche di fecondazione artificiale e di manipolazione degli embrioni umani. D’altro canto, proprio nel tentativo di riflettere sui requisiti di un’etica della cittadinanza si è insistito da parte di diversi autori nella promozione di un profilo normativo di condotta personale nel dibattito e nell’azione politica di ciascuno che tenga conto, a livello individuale, della diversità delle appartenenze religiose e che al tempo stesso tuteli il valore etico della cooperazione in vista del bene comune. In questo senso, il rispetto e l’accoglienza delle ragioni altrui – o l’accettazione dell’impossibilità altrui di accettare le proprie ragioni - andrebbero riconosciute come virtù morali

10 Cfr. M.E. BUTTON, Contract, Culture, and Citizenship: Transformative Liberalism from Hobbes to Rawls, The Pennsylvania State University Press, University Park PA 2008.11 Cfr. a titolo di esempio M. NUSSBAUM, Not for Profit: Why Democracy Needs the Humanities, Princeton University Press, Princeton 2012.

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di significato civico, condizioni di possibilità per lo sviluppo e per la pace sociale all’interno delle società plurali.

La questione dei requisiti dell’educazione pubblica dei cittadini, per esempio, è una delle più dibattute riguardo al tema del rapporto fra normatività etica e normatività politica. Su questo tema specifico, Amy Gutmann ha argomentato12 a favore dell’importanza per le democrazie di favorire la formazione dei propri cittadini al ragionamento morale, in quanto ad esso si accompagnerebbero attitudini pratiche alla comprensione, al rispetto e al pensiero critico che costituirebbero condizioni essenziali dell’esercizio della vita democratica. In particolare, la capacità di ragionamento morale autonomo da parte dei cittadini costituirebbe un elemento orientativo decisivo per la valutazione, la discussione e l’integrazione dei contenuti normativi caratteristici delle prospettive religiose entro il quadro della deliberazione politica delle società pluralistiche.

Per altro verso, una posizione come quella articolata da Robert Audi, che abbiamo visto avere una notevole centratura sulla considerazione epistemologica dei processi di partecipazione dei cittadini al discorso pubblico, è caratterizzata anche da una forte connotazione etica. In particolare, l’autore si spinge ad auspicare da parte dei cittadini religiosi non solo il ricorso ad almeno una ragione secolare sufficiente a giustificare la loro posizione nel dibattito pubblico, ma anche il loro essere sufficientemente motivati ad agire pubblicamente sulla base di quella motivazione non religiosa. L’intervento nel dibattito pubblico da parte del cittadino credente dovrebbe dunque poter essere condivisibile dalla sua controparte non credente interamente come atto, sia quanto al contenuto cognitivo sia quanto alla motivazione. Audi mira a sostenere in questo modo che qualunque norma coercitiva venga adottata a seguito di un processo di deliberazione pubblica, essa debba sempre poggiare su almeno una ragione che possa sia giustificare sia motivare razionalmente il cittadino non credente a rispettarla, anche nel caso in cui nel processo deliberativo si sia fatto ricorso ad argomenti di natura religiosa. In questo senso, la possibilità di comprendere ed eventualmente fare propria la prospettiva morale che sta alla base di un determinato intervento legislativo sarebbe una pre-condizione della sua accettabilità politica.

Politica della cittadinanzaUna terza dimensione di definizione delle forme della cittadinanza è poi quella specificamente

politica, intesa in particolare come disegno delle condizioni istituzionali all’interno delle quali la cittadinanza stessa si esercita in rapporto alla realtà sociale e all’epoca.

Nei contesti occidentali contemporanei le istituzioni democratiche e liberali non solo disegnano modi e forme della partecipazione politica, ma si pongono in rapporto peculiare anche con la dimensione della società civile, all’interno della quale la persona trova il proprio primo rapporto con la dimensione pubblica delle relazioni e in seno alla quale dunque le forme della cittadinanza nascono e si sviluppano.13 Proprio per questo, in anni recenti, accanto al tradizionale e permanente dibattito sulle forme dello Stato, si è affiancato quello sul ruolo e i confini della società civile, cogliendo in questa dimensione il luogo delle condizioni del pieno esercizio della cittadinanza e del soddisfacente sviluppo di una buona società. Le distinzioni e le interazioni fra Stato e società civile,

12 Cfr. A. GUTMANN - D. THOMPSON, Democracy and Disagreement, Harvard University Press, Cambridge MA 1996; A. GUTMANN, Democratic Education, Princeton University Press, Princeton 1999.13 Cfr. N.L. ROSENBLUM – R.C. POST (eds.), Civil society and government, Princeton University Press, Princeton 2002.

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le implicazioni del principio di sussidiarietà, la funzione dei corpi intermedi e delle forme associative sono questioni cui si è via via riconosciuta un’importanza centrale, anche a fronte della problematicità crescente del concetto di cittadinanza come semplice espressione funzionale dell’appartenenza a uno Stato nazionale, in un momento storico in cui altre appartenenze acquistano un peso sempre maggiore all’interno della vita sociale14.

Anche a questo livello l’appartenenza religiosa si inscrive in un orizzonte problematico ampio, che essa al tempo stesso specifica e problematizza in modo peculiare. Se il principio della separazione fra Stato e Chiese resta fortemente normativo nel dibattito, risulta altrettanto chiaro quanto le appartenenze religiose dei cittadini acquisiscano un ruolo decisivo nelle loro esperienze di vita comunitaria e di aggregazione volontaria, dando forma da un punto di vista sia cognitivo sia motivazionale alla loro azione prima a livello sociale e poi a livello politico. È particolarmente interessante a riguardo la posizione articolata da Paul J. Weithman, che ha dedicato una porzione cospicua della propria riflessione alla comprensione del fenomeno politico della cittadinanza dal punto di vista dei cittadini per i quali l’appartenenza religiosa gioca un ruolo decisivo in termini di formazione dell’identità e di orientamento all’impegno sociale15.

Weithman si interroga in particolare sulla cittadinanza intesa come piena appartenenza alla società di un Paese. In questa prospettiva, essere cittadini non può significare solamente uno status giuridico, l’essere portatori di determinati diritti, ma in qualche misura anche l’essere inseriti nel tessuto sociale ed economico di una nazione, l’essere motivati alla cooperazione, il percepire la propria responsabilità nei confronti di ciò che è comune. In tutti questi aspetti, l’appartenenza ad una comunità religiosa può rappresentare per i singoli individui una modalità decisiva di integrazione entro l’orizzonte di una cittadinanza piena. Corrispettivamente, le istituzioni politiche dovrebbero porre le condizioni affinché i cittadini credenti possano sentirsi pienamente inseriti, anche proprio in quanto credenti, nel quadro della vita politica. Accettare il ruolo dell’argomentazione di carattere esplicitamente religioso all’interno del discorso pubblico deliberativo sarebbe in questo senso un fattore importante per evitare l’alienazione delle risorse cognitive e motivazionali che i cittadini religiosi possono apportare. Favorire il senso di appartenenza alla comunità politica da parte di tutti i cittadini sarebbe in questo senso un elemento normativo più cruciale per la vita democratica rispetto alla tutela di alcuni aspetti procedurali, e talvolta astratti, di garanzia dell’accessibilità universalistica ai contenuti del discorso pubblico.

Ci troviamo qui in qualche modo agli antipodi rispetto a un’altra possibile prospettiva politica sulla cittadinanza, quella cioè espressa esemplarmente dalla categoria della laicità come attributo di neutralità ‘positiva’ dello spazio pubblico. In tale prospettiva il carico normativo del politico rispetto al religioso va oltre il semplice criterio della ‘separazione’ fra Stato e Chiesa, caratterizzando un profilo espressamente a-religioso quale standard di riferimento dell’azione politica collettiva e individuale.

14 Cfr. S. BENHABIB, The Claims of Culture, Princeton University Press, Princeton 2002; S. BENHABIB, The Rights of Others, Cambridge University Press, Cambridge 2004; S. BENHABIB, Another Cosmopolitanism, trad. it. di V. Ottonelli (= Cittadini globali: cosmopolitismo e democrazia), Il Mulino, Bologna 2008. 15 Cfr. P.J. WEITHMAN, Ragioni religiose e doveri della cittadinanza, in P. MONTI – S. STORTONE (cur.), Le parole della vita pubblica, Marcianum Press, Venezia 2012; P.J. WEITHMAN, Religion and the Obligations of Citizenship, Cambridge University Press, Cambridge 2002.

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Secolarizzazione e Post-secolarizzazioneLa molteplicità di questi approcci teorici è articolata e complessa, manifestando critiche e

contributi complementari, che contribuiscono a comporre un quadro d’insieme vivace e meritevole di approfondimento. Resta tuttavia piuttosto trascurato in essi l’approfondimento di una collocazione critica del fenomeno religioso in rapporto alla dimensione epistemologica, etica e politica. In questo senso la dimensione religiosa risulta per lo più essere un elemento estrinseco, che deve essere posizionato all’interno di un quadro – epistemologico, etico, politico – precostituito rispetto al suo ingresso in scena.

Interpretare la secolarizzazionePer uscire dalla parzialità analitica di questi elementi, una via promettente è quella di considerare

la questione della cittadinanza a partire dalla considerazione del fenomeno religioso e della sua secolarizzazione. La letteratura più recente non lascia fortunatamente del tutto senza risorse, in particolare grazie al contributo filosofico dato da Charles Taylor, con il suo noto, ampio studio A Secular Age,16 e agli studi sulle plurali manifestazioni del fenomeno della secolarizzazione, fra gli altri certamente quelli derivanti dal lavoro del Social Science Research Council di New York e del suo direttore Craig Calhoun.17

A partire da queste basi, è possibile considerare come la dimensione religiosa e la traiettoria della secolarizzazione e della laicità nel contesto contemporaneo manifestino una specificità e una pluralità di forme difficilmente leggibili stando entro i termini delle più tradizionali ‘essenzializzazioni’ o esemplificazioni moderne del fenomeno religioso in quanto tale e del suo rapporto con la sfera pubblica. Molto spesso, infatti, il riferimento al religioso all’interno della letteratura filosofica e politologica risulta schematico e astratto, presupponendo di intercettare la natura della credenza religiosa e dell’appartenenza comunitaria ad essa collegata secondo modelli epistemici e pratici che possono in realtà variare anche molto significativamente da religione a religione, di epoca in epoca, e talvolta anche fra le varie parti del dibattito interno ad una medesima confessione religiosa.

Il lavoro di Taylor cerca di circostanziare in modo articolato l’avvento dell’età secolare nel mondo occidentale come progressiva trasformazione del fenomeno religioso da orizzonte universale e condiviso di comprensione della realtà a dimensione opzionale, oggetto di preferenza individuale del soggetto.18 Tale comprensione si trova rispecchiata nella quasi totalità delle prospettive di analisi moderne, e i modelli di interpretazione della cittadinanza sopra esposti ne ereditano largamente le premesse. Se muoviamo da questo elemento come snodo cruciale per una comprensione trasversale della questione del rapporto fra sfera pubblica e fenomeno religioso, possiamo anche ipotizzare che nella sua articolazione trovino radice le difficoltà che accomunano le

16 CH. TAYLOR, A Secular Age, Harvard University Press, Cambridge MA and London 2007.17 Cfr. C. CALHOUN, M. JUERGENSMEYER, J. VANANTWERPEN (eds.), Rethinking Secularism, Oxford University Press, Oxford 2011; PH.S. GORSKI, D.K. KIM, J. TORPEY, J. VANANTWERPEN (eds.), The Post-Secular in Question: Religion in Contemporary Society, New York University Press, New York and London 2012.18 L’analisi di Taylor è naturalmente molto più articolata, ma torneremo successivamente su di essa. Per il momento ci è sufficiente rilevare questo tratto, che peraltro è stato quello maggiormente ripreso nel dibattito accademico.

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diverse prospettive teoriche che stiamo considerando, al di là della diversità dei loro contenuti normativi specifici in ambito epistemologico, etico e politico.

Nella tradizione liberale moderna, la questione del religioso in genere e dell’appartenenza religiosa dei cittadini in specifico sono state trattate nei termini di una opzione il cui ruolo pubblico doveva essere regolamentato proprio sulla base del loro statuto di preferenza soggettiva, non sindacabile da parte dello Stato, ma nemmeno condiviso o condivisibile su basi razionali, e dunque inutilizzabile ai fini del fondamento dei criteri della convivenza. Seguendo questa traiettoria, l’opzione religiosa, intesa come opzione fra diverse religioni e come opzione di rifiuto della religione in quanto tale, è stata progressivamente letta in termini omogenei rispetto ad altre forme di preferenza che concorrono a definire l’identità personale, siano esse in materia di valori morali, stili di vita, relazioni private. Da questo punto di vista altri elementi che concorrono alla formazione dell’identità personale, come la lingua o il legame con un certo territorio, pur avendo subito anch’essi un’erosione sistematica nella loro funzione identificativa dell’appartenenza a sfere pubbliche nazionali, hanno comunque mantenuto, se non nella giustificazione teorica almeno nell’immaginario, un carattere percepito di minore ‘opzionalità’ nella costruzione di un profilo di cittadinanza.

Al tempo stesso, con la vigorosa ripresa della riflessione sul liberalismo politico da parte di John Rawls e il successivo dibattito con i comunitaristi, è progressivamente cresciuta la considerazione per la specificità del ruolo e della gestione del fenomeno religioso all’interno del quadro politico. Se la caratterizzazione rawlsiana delle dottrine comprensive lasciava in teoria aperta una caratterizzazione più ampia di quella strettamente religiosa, per quanto la maggior parte delle esemplificazioni a questa si riferissero, nella letteratura successiva, soprattutto nel contesto nordamericano, il confronto teorico sul tema si è fatto sempre più specificamente rivolto al tema religioso, con un volume di trattazioni notevolissimo.

Il post-secolarismo come via aporeticaSi è trattato di una tendenza che ha aperto le porte al riconoscimento di una nozione specifica,

quella di post-secolarismo19 che, per quanto molto discussa e variamente declinata, trova un nucleo solido nel riconoscimento che il fenomeno religioso nel contesto contemporaneo subisce trasformazioni e frammentazioni, ma non tramonta nella sua significatività pubblica, contrariamente a quanto ipotizzato dalle letture secolarizzanti tipiche dei decenni precedenti.

A questa evoluzione dell’analisi sul fenomeno sociale segue l’acuirsi della consapevolezza di una tensione irrisolta sul piano normativo, che si può esprimere in una forma analoga a un dilemma.

Se la religione deve essere considerata solo come un’opzione individuale fra le altre, ne consegue che la trattazione specifica della sua significatività sociale non si giustifica se non come esemplificazione contingente, e dunque gli approcci normativi devono prescindere dalla sua specificità.

19 J. HABERMAS - J. RATZINGER, Vorpolitische moralische Grundlagen eines freiheitlichen Staates, «Zur Debatte», trad. it. di G. Colombi e O. Brino (= Etica, religione e Stato liberale), Morcelliana, Brescia 2005; J. HABERMAS, Zwischen Naturalismus und Religion. Philosophische Aufsätze, trad. it. di M. Carpitella (= Tra scienza e fede), Laterza, Roma-Bari 2008.

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Se, invece, la religione non è solo un’opzione individuale fra le altre, ma conserva una sua specificità emergente, la trattazione e la regolamentazione del suo ruolo saranno conseguentemente specifiche, ma dovrà essere parallelamente giustificata e interpretata la sua differenza rispetto agli altri ambiti di preferenza di carattere morale, tradizionale, linguistico.

La maggior parte dei modelli presentati in precedenza si colloca entro quest’aporia irrisolta e oscilla fra questi due estremi, talvolta cercando fra di essi un compromesso, talvolta abbracciandone uno dei due, senza tuttavia riuscire a portarlo compiutamente alle sue conseguenze. Il piano della descrizione del fenomeno e quello della sua necessità di indirizzamento normativo vengono infatti a confliggere, senza poter restare interamente entro i presupposti liberali.

Deve essere riconosciuto a Jürgen Habermas di essere stato probabilmente, fra i maggiori esponenti della riflessione sul tema della sfera pubblica contemporanea, quello che ha più acutamente colto tale criticità. Nelle sue opere più recenti, infatti, ha contribuito in misura consistente a caratterizzare il post-secolarismo, riconoscendo la necessità di un reciproco apprendimento fra credenti e non credenti, motivato dalla capacità delle tradizioni religiose, e in particolare di quella Ebraico-Cristiana, di fornire una riserva di significati e motivazioni morali indisponibili entro le ristrettezze di una concezione illuministica della razionalità. In particolare, egli afferma:

«Nella coscienza pubblica di una società post-secolare si rispecchia una cognizione normativa che ha conseguenze per l’interazione politica dei cittadini non credenti e credenti. Nella società post-secolare si giunge a conoscenza che la ‘modernizzazione della coscienza pubblica’ comprende, in fasi diverse, mentalità sia religiose che secolari e le trasforma riflessivamente. Se concepiscono insieme la secolarizzazione della società come un processo di apprendimento complementare, entrambe le parti possono prendere sul serio reciprocamente, anche dal punto di vista dei fondamenti cognitivi, il loro contributo a temi controversi nella sfera pubblica»20

La posizione habermasiana prospetta dunque efficacemente l’esigenza emergente, benché in sede propositiva non riesca essa stessa a sottrarsi del tutto alla distretta sopra evidenziata. Se, da un lato, la prospettiva religiosa viene valorizzata per la sua specifica capacità di articolare in forme sociali alcune aree dell’esperienza umana condivisa altrimenti opache e ingestibili, dall’altro, l’ingresso di tali risorse nello spazio pubblico viene proposto nei termini di una necessaria traduzione di tali contenuti in termini sostanzialmente non religiosi. In rapporto, in particolare, all’elaborazione filosofica del tema dei diritti umani a partire dalla complessità della prospettiva antropologica cristiana, per esempio, Habermas si esprime come segue:

«Questo lavoro di appropriazione si è dispiegato in connessioni concettuali dalla forte carica normativa, connessioni come responsabilità, autonomia e giustificazione, come storia e ricordo, nuovo inizio, innovazione e ritorno, come emancipazione e compimento, come alienazione, interiorizzazione, individualità e comunità. Questo lavoro ha certo trasformato il senso religioso originario, ma non l’ha deflazionato e devitalizzato, rendendolo vuoto. Tradurre l’idea di un uomo creato ad immagine e somiglianza di Dio nell’idea di un’eguale dignità di tutti gli uomini,

20 J. HABERMAS , I fondamenti morali prepolitici dello Stato liberale, in J. HABERMAS - J. RATZINGER, Etica, religione e Stato liberale, pp. 36-37.

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da rispettarsi incondizionatamente, costituisce un esempio di una tale traduzione salvante. Essa impiega e dischiude il contenuto dei concetti biblici al di là dei confini di una comunità religiosa, fino al pubblico generale di coloro che hanno altre fedi o che non credono»21

Ancora una volta, la prospettiva pare dunque divisa fra la necessità di riconoscere la specificità e la distinzione dell’esperienza religiosa, con il suo valore antropologico e sociale proprio, e l’opposta tendenza a tradurne il contenuto entro un piano di non specificità e non distinzione, affinché questo possa essere considerato integrabile entro una sfera pubblica dai tratti liberali. Il problema resta dunque aperto, dal momento che i significati religiosi vengono prima considerati preziosi proprio a motivo della loro specificità, irriducibile alle risorse della ragione illuministica moderna, poi per essere messi in gioco si richiede che possano essere tradotti ‘in altro’, perdendo dunque di pari passo quella specificità. Habermas intravede in proposito la necessità di rivedere auto-criticamente la concezione stessa della razionalità, accomunando in qualche modo anche i non credenti alla necessità di un’opera di traduzione.22 In ogni caso, però, l’assetto complessivo del discorso sembra restare aporetico e incompiuto, nei termini sopra indicati. Anche laddove Habermas sembra spingersi in direzione di un abbattimento della distinzione fra ragioni religiose e ragioni secolari, non è mai chiaro in che termini possa avvenire tale superamento e in che modo il suo esito possa essere portatore di un profilo normativo egualmente riconosciuto da entrambe le parti.

Gettare le basi per un possibile sviluppo del discorso sulla cittadinanza, e in particolare su di un’etica della cittadinanza la cui normatività risulti pertinente rispetto al contesto post-secolare, sembra perciò richiedere di passare prima da una diversa articolazione di quel problema, rimettendo in rapporto la rilevanza sociale della religione e dei processi di secolarizzazione e post-secolarizzazione con la parallela evoluzione delle forme della ragione pratica nel suo esercizio pubblico. Un profilo normativo di cittadinanza deve infatti tenere conto dei caratteri di un orizzonte sociale largamente secolarizzato, e al tempo stesso deve essere capace di articolare normativamente, senza snaturarlo, ciò che è specifico della dimensione religiosa, la cui permanente significatività pubblica costituisce il carattere saliente delle società post-secolari.

Religioso e secolare in questioneIl compito delineato è vastissimo e chiaramente irriducibile alla trattazione praticabile in questa

sede. Si intende dunque formulare, almeno nelle sue linee generali, una proposta di percorso possibile, che ci sembra tenga conto degli elementi di criticità sopra evidenziati e di alcuni dei contributi di rilievo del dibattito recente.

La frammentazione degli approcci e l’impasse delle soluzioni, suggeriamo, deriva in larga parte dal fatto che si ricercano criteri normativi per l’esercizio dell’agire pubblico nel contesto post-secolare a partire da prospettive secolari o religiose, mentre sembra necessario partire dalla comprensione del contesto comune, all’interno del quale si ritrovano storicamente a convivere entrambe, per poi ricollocare all’interno di esso le prospettive secolari così come quelle religiose. Solo a partire dalla co-implicazione nell’orizzonte storico comune si può ipotizzare di trovare anche

21 Ibi, pp. 35-36.22 Cfr. Ibi, pp. 39-40.

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lineamenti normativi comuni, soprattutto perché sia il secolare, sia il religioso sono internamente inquietati e trasformati da tale orizzonte.

Una contrapposizione inquietaLa visione monolitica e illuminista del secolare è oggi in crisi interna, attraversando periodo di

ripensamenti e, talvolta, di irrigidimenti difensivi, basti pensare al fenomeno del Nuovo Ateismo - o del Nuovo Nuovo Ateismo. La stessa posizione habermasiana può essere letta, in questo senso, come un tentativo di analisi della crisi del secolarismo piuttosto che come una considerazione del cosiddetto “ritorno” delle religioni.23 La sua ricostruzione della genesi della sfera pubblica come fenomeno progressivo di matrice borghese e la costante richiamata centralità della dimensione discorsiva razionale, anche in opposizione al paradigma dell’azione strategica, sono coerenti con una sua rappresentazione essenzialmente secolare dell’Occidente dall’Illuminismo in poi. Poiché però il progetto illuminista appare in crisi e la ragione comunicativa insufficiente a fronte della forza globalizzante del mercato e della tecnica e del crescente disinteresse dei cittadini nei confronti della politica e delle sue istituzioni, ecco che la secolarizzazione stessa viene conseguentemente rimessa in discussione. In qualche modo, nella sua lettura, il “ritorno” delle religioni potrebbe essere identificato più come la conseguenza dei limiti e della crisi dell’Illuminismo che non come una manifestazione della loro portata antropologica e sociale.

Per altro verso, anche il religioso è profondamente trasformato dal contesto all’interno del quale si trova. Analogamente a quanto avviene nel campo secolare, questa spinta alla mutazione prende forme tra loro anche divergenti, oscillando fra la decostruzione epistemologico-teologica e il minimalismo privatistico da un lato e l’integralismo religioso e il conservatorismo politico dall’altro.

In questo senso la prospettiva post-secolare può essere considerata un esito maturo della temperie postmoderna, anche se naturalmente si tratta di un fenomeno dai tratti specifici, non semplicemente riducibile ai termini generali della teorizzazione del postmoderno in quanto tale. Nel complesso, l’ampio dibattito in corso sembra mostrare che le prospettive religiose e quelle secolari direttamente eredi della modernità riescono a non disintegrarsi di fronte ai processi critici di genealogia e decostruzione postmoderni, ma ne risultano al tempo stesso trasformate nei loro codici e nelle loro pretese normative.

Sulla base di questa premessa, la questione va dunque esaminata a partire da una comprensione teorica della secolarizzazione e della post-secolarizzazione, nella convinzione che la considerazione normativa del fenomeno della cittadinanza, concentrata sulla giustificazione razionale delle norme e delle virtù civiche che regolano l’azione deliberativa e cooperativa dei cittadini, debba affiancarsi a una considerazione genealogica, che tenga conto dei profondi rapporti dinamici e generativi fra pratiche sociali, immaginari simbolici e configurazioni storiche della sfera pubblica. La comprensione delle forme del dover-essere civile è, infatti, strettamente connessa alla comprensione morfogenetica24 dei contesti di interazione sociale all’interno dei quali la vita civile ha storicamente 23 Si tratta dell’interessante linea interpretativa sviluppata in M. DILLON, Jürgen Habermas and the Post-Secular Appropriation of Religion: A Sociological Critique, in PH.S. GORSKI ET AL (eds.), The Post-Secular in Question: Religion in Contemporary Society, pp. 249-278.24 Cfr. M.S. ARCHER, Realist social theory: The morphogenetic approach, trad. it. di M. Bortolini (= La morfogenesi della società: una teoria sociale realista), Franco Angeli, Milano 1997. Non ci impegniamo in questa sede a sviluppare

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assunto un certo tipo di profilo nel rapporto con l’esperienza comunitaria del fenomeno religioso. A questo proposito vogliamo fare qui breve riferimento a due grandi analisi prodotte in anni recenti: quella di Charles Taylor, che abbiamo già brevemente menzionato, e quella di Armando Salvatore, che accosteremo tangenzialmente anche al contributo di Giorgio Agamben.

La cornice immanenteTaylor caratterizza la modernità secolarizzata come contraddistinta dall’affermarsi di una pluralità

di ‘strutture di mondo chiuse’ (closed world structures), ovvero grandi schemi di comprensione che racchiudono la destinazione della conoscenza e dell’azione umana entro sfere di immanenza, come ad esempio il naturalismo scientifico, il progressismo politico liberale o l’individualismo privatistico della vita affettiva. La composizione di queste sfere, che generalmente non vengono messe in discussione ma sono accettate come riferimenti condivisi, definiscono una cornice immanente (the immanent frame) all’interno della quale il ricorso a risorse di significato trascendenti rispetto alla cornice stessa viene considerato incerto e opzionale. Sarebbe dunque questo il tratto profondo della secolarizzazione occidentale, assai più del fenomeno sociologico di riduzione dell’adesione alla credenza e alla pratica religiosa. Definita questa cornice immanente, resta tuttavia problematico individuare quale sia il grado di chiusura rispetto al trascendente che essa definisce: si tratta di un limite epistemologico e ontologico in senso forte o semplicemente di un’area di soglia critica ma pur sempre necessaria e accessibile? Scrive in proposito Taylor:

«Dunque in un senso è vero che vivere entro questa cornice ci spinge verso la prospettiva chiusa. Ma questo è il senso in cui vivere entro la cornice è vivere in accordo con le norme e le pratiche che essa incorpora. Ho tuttavia sostenuto fin qui che l’effettiva esperienza di vivere nella modernità occidentale tende a destare una protesta, delle resistenze di vario tipo. In questo senso più pieno, esperienziale, “vivere entro” la cornice non ti spinge semplicemente in una direzione ma ti mette nella condizione di sentirti tirato in due direzioni opposte. Un’esperienza molto comune del vivere qui è quella dell’essere sotto una pressione incrociata, fra la prospettiva aperta e quella chiusa»25

Se la collocazione entro la cornice immanente viene dunque considerata da Taylor in qualche modo strutturale per tutti i soggetti contemporanei, religiosi o meno, la comprensione di tale cornice verso esiti di maggiore apertura o chiusura sembra restare in buona misura variabile e oggetto di contesa. Non a caso intorno a tale dilemma si sviluppa l’ampio contrasto fra movimenti confessionali e secolarizzanti. La forza di giustificazione e trasformazione delle diverse visioni all’interno di tale contrasto attinge secondo Taylor più a grandi narrative che a specifici argomenti su specifici temi. Sono d’altra parte in gioco le valutazioni forti (strong evaluations) che caratterizzano orizzonti di comprensione e di vita contrapposti piuttosto che valutazioni dialettiche circa norme o istituzioni particolari.

le implicazioni dell’approccio morfogenetico alla questione in oggetto, tuttavia ne notiamo almeno in prima battuta la significativa pertinenza metodologica, dal momento che ci concentriamo esattamente sul rapporto fra i contesti storico-sociali d’azione e le modalità di interazione fra gli agenti, osservando come tali interazioni per un verso dipendano dai contesti e per l’altro, a loro volta, ne determinino lo sviluppo.25 CH. TAYLOR, A Secular Age, p. 555, trad. it. propria.

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A quest’analisi consegue anche un diverso modo di pensare l’‘opzionalità’ del religioso nel panorama moderno, cui abbiamo fatto riferimento in precedenza: si tratta di un semplice oggetto di preferenza contingente fra le credenze individuali o si tratta di un’alternativa etica ove ogni scelta porta con sé un certo grado di inseparabilità rispetto ai significati espressi dal polo opposto, in una dialettica strutturale fra religioso e ateo, trascendente e immanente, ove ciascuna delle due parti entra nel processo di formazione e ridefinizione dell'altra? Taylor propende per la seconda prospettiva, inducendoci a considerare come la collocazione strutturale all’interno di una ‘età secolare’ non chiuda affatto il discorso intorno al significato e alla portata del religioso, ma semplicemente lo riapra in modo diverso.

Tradizioni, pratiche, discorsoUna seconda analisi di ampia portata le cui considerazioni sono particolarmente fruttuose per la

nostra indagine è quella rintracciabile nel lavoro di Armando Salvatore26. Egli rileva come la genesi del concetto di ‘pubblico’ e, in particolare, la teorizzazione della sfera pubblica, siano stati largamente segnati da un pregiudizio liberale che ha teso a sottolineare l’eccezionalità dell’età moderna. Tale approccio ha trascurato a lungo di rilevare come durante le epoche precedenti le grandi tradizioni religiose abbiano largamente contribuito a determinare un orizzonte di pensiero all’interno del quale, anche grazie al significativo ricorso alle risorse della tradizione classica, il terreno per la definizione della forma della sfera pubblica moderna era stato ampiamente preparato attraverso la riflessione circa la determinazione di ciò che è bene comune, l’elaborazione di spazi di autonomia del civile e del politico e il perfezionamento del ragionamento pratico applicato alle questioni di interesse delle comunità. In particolare, nel contesto di tale vasta trattazione, risulta importante la sua acuta ripresa di Giovan Battista Vico come autore consapevole di una profonda co-implicazione fra l'ordine del pratico, il patrimonio simbolico narrativo e religioso e la costruzione istituzionale dell'ambito pubblico. Una riflessione, quella di Vico, collocata proprio in quel crocevia storico dove l’Illuminismo avrebbe invece intrapreso una strada di sostanziale oblio di tali legami.

Nella sua analisi Salvatore, riprendendo consapevolmente il contributo di Alasdair MacIntyre, rileva lo specifico ruolo delle tradizioni come fonti necessarie a costruire e interpretare l’evolversi e l’istituzionalizzarsi di alcune forme di esercizio della ragione pratica nei contesti comuni, riguardo ai beni sociali. In particolare, egli nota come per secoli nell’alveo delle grandi religioni monoteiste si siano articolate complesse forme di soteriologia e teodicea, nell’elaborazione delle quali sono state sviluppate tradizioni di pensiero specifiche, tipiche dell’orizzonte religioso. Tali tradizioni sono molteplici e spesso hanno convissuto all’interno del medesimo quadro confessionale, dando vita a una pluralità di concezioni della giustizia, del bene, della salvezza individuale e collettiva. In questo senso Salvatore distingue fra macrotradizioni, che identificano un quadro religioso e di civiltà complessivo, e microtradizioni, intese come sotto-contesti legati allo sviluppo e alla trasmissione di determinate pratiche e forme di vita:

«Dove possiamo individuare un forte nesso fra microtradizioni e macrotradizioni, oppure fra tradizioni viventi e forme di vita da un lato e più ampie arene di giochi linguistici dall’altro?

26 A. SALVATORE, The Public Sphere. Liberal Modernity, Catholicism, Islam, Palgrave Macmillan, New York 2007.

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Tale nesso può essere osservato nell’uso del discorso e nelle sue modalità di argomentazione e ragionamento al fine di trascendere, tramite creatività e critica, i limiti delle interpretazioni e delle definizioni dei beni e delle soluzioni ai problemi fin qui fornite presso una certa tradizione. Le soluzioni sono prospettate riconducendo dei mezzi a dei fini o a dei beni. Di conseguenza, un’istituzione come un’università, o una fattoria, che è il prodotto e il vettore di una tradizione che definisce e supporta certe pratiche, deve mettere in campo un’argomentazione continua che specifica come e fino a che punto l’università, o la fattoria, come istituzione, supporta il bene dell’educazione superiore o della buona coltivazione»27

Il ruolo del discorso come mediatore argomentativo delle interazioni sociali fra i partecipanti alle pratiche comuni è dunque già ben presente anche del contesto della vita civile tipica del medioevo cristiano e di quello islamico. La vicenda delle micro-tradizioni spirituali e delle istituzioni produttive e culturali dell’età premoderna è in questo senso già una fucina di forme di discorso e di vita sociale estremamente raffinate. L’orizzonte marcatamente religioso di quell’epoca fornisce perciò già una cornice funzionale alla comprensione ricca e articolata di quelle specifiche forme di esercizio della cittadinanza, in senso ampio, che costituiranno la base delle evoluzioni storiche successive, fino alla configurazione della sfera pubblica borghese nella modernità.

A questo riguardo meritano una menzione particolare anche le opere più recenti di Giorgio Agamben, che attingono specificamente al lessico spirituale e liturgico della Cristianità medievale per svolgere una genealogia delle premesse profonde dell’orizzonte politico contemporaneo. Talvolta le tradizioni di carattere religioso hanno direttamente influenzato la costruzione degli istituti politici e giuridici moderni, talaltra hanno espresso una prospettiva trascendente e provocatoria, come illustrato nel suo studio del rapporto fra diritto, regola e forma di vita tipico dalla tradizione francescana28. La vitalità e l’attualità di quell’ampia epoca del pensiero dove il religioso era orizzonte dominante è stata spesso trascurata nella riflessione moderna, in particolare riguardo al rapporto fra società, norme e istituzioni politiche. Eppure esso custodisce risorse decisive per disegnare il legame fra il particolare e l’universale, fra le pratiche sociali quotidiane e un orizzonte comunicativo significativo e condiviso. Non a caso, proprio riguardo a questo snodo problematico la modernità ha particolarmente sofferto un deficit di risposte teoriche e politiche efficaci; anche per questo motivo le religioni tornano oggi a giocare un ruolo rilevante nello spazio post-secolare. Le implicazioni dell’analisi di Agamben mettono però anche in guardia rispetto alla possibilità di ‘essenzializzare’ la religione nel momento in cui si considera il suo contributo nella sfera pubblica. Non solo le singole religioni hanno contribuito a dare vita a sfere pubbliche di segno diverso, ma all’interno delle singole confessioni religiose diverse tradizioni hanno concorso a prospettare forme di vita comune dai molti volti e dai molti caratteri, in modo talora convergente, talora divergente.

Forme post-secolari della normatività praticaIl quadro tratteggiato da queste analisi ci ha sommariamente introdotto in una vasta dimensione

‘genealogica’ del rapporto fra sfera pubblica e religioni, cercando di proporre una lettura più 27 Ibi, p. 81, trad. it. propria.28 G. AGAMABEN, Altissima povertà, Neri Pozza, Vicenza 2011.

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dialettica del fenomeno della post-secolarizzazione, a partire da una considerazione più articolata e ambivalente del rapporto reciproco fra secolare e religioso. Quanto possiamo portare ora in sede di discorso normativo sono, in estrema sintesi, i seguenti elementi:

- Il quadro della post-secolarizzazione – che per alcuni versi rappresenta una forma di tarda secolarizzazione - porta a una trasformazione sia della dimensione secolare, sia di quella religiosa.

- L’apertura o chiusura alla trascendenza dell’orizzonte contemporaneo resta in gioco in un conflitto fra grandi narrazioni contrapposte, seppur tutte collocate nel contesto di un’età ormai per molti versi irreversibilmente secolare, e dunque caratterizzata da una cornice di significati essenzialmente immanente.

- Il liberalismo moderno di derivazione illuminista non deve essere considerato il protagonista unico di quest’età secolare e dello spazio pubblico pluralista che la caratterizza, in quanto vive esso stesso una crisi non marginale e condivide con le grandi tradizioni monoteiste la paternità di una sfera pubblica comunicativa e razionale, ma anche simbolica e narrativa.

- Per questo il religioso non può essere trattato come una essenza astratta e le implicazioni della sua rilevanza pubblica devono essere distintamente considerate nel declinarsi specifico delle confessioni religiose e delle tradizioni a loro interne.

La ricerca di un profilo etico-normativo della cittadinanza deve dunque tenere conto del concorso di questi caratteri qualificanti l’orizzonte post-secolarizzato, sia per quanto riguarda lo specifico del religioso, sia per quanto riguarda la sfera pubblica occidentale contemporanea.

Per la ricerca di tale profilo normativo, si potrebbero leggere in parallelo due proposte recenti, che hanno messo a tema da un lato la giustificazione della democrazia liberale e dall’altro la comprensione teologica della fede cristiana. Tali proposte, diverse per contesti e intenti teorici, sono accomunate da un tentativo di rilettura del fenomeno politico e religioso secondo un modo di pensare la normatività che sia intellegibile ed efficace entro quell’orizzonte. Esse possono risultare indicative di una direzione cui guardare per il ripensamento dei fondamenti della normatività sociale nel contesto di mutamento esaminato. Non si tratta di formulazioni che consideriamo risolutive, ma certamente di un contributo prezioso alla ricerca intrapresa.

Faremo riferimento in primo luogo alle riflessioni di Alessandro Ferrara, che negli anni ha sviluppato una originale trattazione della normatività pubblica incentrata su un concetto di esemplarità analizzato secondo il paradigma del ‘giudizio riflettente’ kantiano, alla ricerca di ‘ragioni che muovono l’immaginazione’. In secondo luogo, ci riferiremo al lavoro di Christoph Theobald, la cui prospettiva teologica ha voluto interpretare il Cristianesimo come ‘stile’ e, in particolare, ne ha voluto individuare il tratto essenziale nella forma evangelica dell’‘ospitalità’.

La via dell’esemplaritàFerrara ha sviluppato una teoria normativa in ambito politico fondata sul giudizio riflessivo e sul

criterio dell’esemplarità. Non potendo qui entrare nell'esposizione della sua opera complessiva, ci limitiamo a osservare alcune sue applicazioni all’ambito del rapporto fra religione e democrazie liberali. In proposito, nello sviluppare una giustificazione del pluralismo democratico plausibile all’interno dello scenario post-secolare, egli ha recentemente scritto:

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«Noi non aspiriamo tanto ad avviluppare il nostro interlocutore in una catena deduttiva il cui primo anello è agganciato alla sua concezione del bene e da cui può sciogliersi solo a patto di accettare l’etichetta di “persona irrazionale”, quanto piuttosto a mostrare come le premesse di fondo di questa sua concezione possano condurre, almeno in una interpretazione non peregrina della concezione stessa, a un esito di irrecusabilità del pluralismo nel senso che una ricusazione del pluralismo porterebbe a corrompere in un certo senso quella immagine normativa di sé a cui l’interlocutore non può non tenere»29

In altre parole, la giustificazione di un profilo normativo che inclini l’individuo a una condotta compatibile con il pluralismo dello spazio democratico passa per il rinvenimento, all’interno della sua stessa prospettiva religiosa o secolare, di principi la cui realizzazione esemplare almeno in alcuni casi non potrebbe avvenire se non tramite l’adesione al pluralismo stesso. Ferrara pone in esercizio tale approccio proprio relativamente al contesto della fede cristiana e di quella ebraica, mostrando come a partire dalla strutturale presenza di un pluralismo di tradizioni interno a tali religioni si possa giustificare la normatività dell’accettazione del pluralismo stesso in ambito più generale. Tale percorso è naturalmente pertinente con il tema della cittadinanza, in quanto al suo centro sta proprio la possibilità di mettere in rapporto normativo l’individuo, religioso e non, con l’orizzonte plurale delle sue relazioni pubbliche, ricercando una fondazione che non rimanga semplicemente interna al repertorio di principi della sua identità di appartenenza, ma che non cerchi nemmeno di basarsi su principi di ragione accreditati come ‘neutrali’ rispetto alla sua appartenenza. Si fa piuttosto leva sul riconoscimento della pluralità interna della sua identità, trovando supporto e riscontro in un orizzonte post-secolare non caratterizzato da un attore dominante, ma a sua volta costituito strutturalmente dall’interazione fra identità diverse. Il profilo di normatività che emerge da questa prospettiva, tramite l’applicazione del paradigma del giudizio riflettente kantiano, è di indubbio interesse all’interno del nostro discorso:

«Il giudizio riflettente intorno al bello (in contrapposizione al giudizio intorno al piacevole, il quale non è altro che un insindacabile resoconto delle proprie preferenze), solleva una pretesa normativa: ciascuno dovrebbe condividere le sue conclusioni, indipendentemente dal realizzarsi empirico di tale consenso. Nondimeno, questa valenza normativa non è ancorata ad alcunché di esterno alla materia in questione, né poggia su alcun principio stabilito come valido antecedentemente al caso che viene giudicato. La normatività del giudizio riflettente poggia piuttosto sull’esemplarità dell’oggetto del giudizio – laddove per esemplarità possiamo intendere la capacità di mettere in moto l’immaginazione e tutte le nostre facoltà mentali in un peculiare “gioco che si mantiene da se stesso” e dove il piacere che questa interazione delle facoltà produce consiste nel suscitare in noi la sensazione che la nostra vita sia “arricchita e affermata”. […] Allo stesso modo, mutatis mutandis, le conclusioni cui giungono le argomentazioni che si muovono nell’ambito della ragione pubblica esercitano una forza normativa che non si riduce alla convergenza di fatto fra partecipanti che sottoscrivono alternative diverse e concorrenti»30

29 A. FERRARA, Democrazia e apertura, Bruno Mondadori, Milano - Torino 2011, p. 117.30 A. FERRARA, La forza dell’esempio. Il paradigma del giudizio, Feltrinelli, Milano 2008, pp. 105-106, corsivo nel testo.

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Il pluralismo riflessivo di Ferrara si muove, dunque, verso l’intuizione della necessità di individuare riflessivamente una co-implicazione con l’altro che sia rappresentabile all’interno del proprio immaginario e dunque possa essere capace sia di giustificazione sia di motivazione all’agire pubblico cooperativo, in particolare nel contesto della responsabilità politica democratica propria di ogni cittadino. A partire da questa ripresa riflessiva emerge una figura di normatività pubblica non dispotica, da ricercarsi di volta in volta a partire dalla dimensione dell’esperienza sociale di ciascuno in vista di una rappresentazione possibile del bene caratteristico di una ‘vita realizzata’.

La normatività dello stileImpegnato su un diverso fronte di ricerca, il teologo gesuita Christoph Theobald ha elaborato una

articolata lettura teologica della fede cristiana in termini di ‘stile’31, che risulta pertinente rispetto alla trattazione qui svolta, in particolare se letta in parallelo con la prospettiva normativa presentata da Ferrara. Non intendiamo naturalmente entrare in questa sede nella considerazione dello specifico teologico dell’opera, ma ci rivolgiamo piuttosto al dispositivo epistemologico di base proposto, ovvero quello della rilettura del Cristianesimo secondo la categoria di stile elaborata da Merleau-Ponty. La categoria, di origine prevalentemente estetica, viene utilizzata per indicare una configurazione riconoscibile dell’agire pratico, un modo di ‘abitare il mondo’ all’interno della quale si mettono in risalto alcuni tratti dell’esperienza del reale rispetto ad altri, rivelando un rapporto specifico e indissolubile tra forma pratica visibile e fondamento teologico normativo. Lo scopo principale dell’autore è quello di recuperare una modalità di approccio alla Scrittura e alla riflessione teologica che si riveli praticabile all’interno della criticità del quadro postmoderno, conservando al tempo stesso la possibilità di nominare una normatività forte del profilo di salvezza manifestato in parole e gesti nella Scrittura, nella liturgia secondo il loro riferimento centrale alla figura del Cristo.

L’aspetto di maggiore interesse per la trattazione che stiamo qui conducendo è la caratterizzazione anche pubblica di tale concetto di stile, per cui ogni stile è un modo di formulazione ben riconoscibile per gli altri e al tempo stesso poco esplicitamente visibile per colui che lo manifesta, tanto quanto il profilo del suo volto o i suoi gesti di tutti i giorni.32 Si tratta dunque di un modo di comprendere, esprimere ed abitare il mondo tanto personale e profondo quanto irriducibilmente manifesto all’esterno e, in quanto tale, offerto alla pubblica comprensione e incomprensione. In questo senso la lettura teologica viene ulteriormente svolta [teologicamente] portando l’attenzione sullo stile di radicale ospitalità manifestato dal Cristo, stile che accentua in maniera del tutto peculiare tale dimensione di incontro e di invito alla comunione fra interno ed esterno, fra ospitante e ospitato. Ne consegue uno sguardo sul Cristianesimo come fede capace di spendere in modo eloquente e significativo il proprio messaggio di salvezza in un contesto storico abitato da una moltitudine di stili e concentrato sull’interazione comunicativa tra le forme e i prodotti culturali, mantenendo al tempo stesso un radicamento profondo nel suo fondamento cristologico.

31 CH. THEOBALD, Le Christianisme comme style, trad. it. delle Benedettine dell’Isola di San Giulio e di Maurizio Rossi (= Il Cristianesimo come stile. Un modo di fare teologia nella postmodernità), EDB, Bologna 2007.32 Cfr. Ibi, p. 14.

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È interessante, in proposito, la caratterizzazione messa in campo da Theobald riguardo alla situazione del pluralismo contemporaneo, che costituisce a un tempo il punto di partenza e lo snodo critico di molta riflessione etica e politica sul tema della cittadinanza:

«Consideriamo, dunque, che la modernità deve essere intesa appunto come movimento di differenziazione, continuamente minacciato da divisioni fra ambiti culturali; la pluralità degli stili e dei modi di abitare il mondo rende ancor più viva l’esperienza di divisione e la violenza che essa può suscitare. Spesso tale pluralismo conflittuale, in seno a un mondo globalizzato, è già collocato dai sociologi in quella che viene definita “post-modernità”. In realtà essa può essere analizzata come assunzione della nuova sfida dell’unità, quella dei soggetti, dei gruppi e delle società, in un mondo in via di unificazione. Questo interesse inedito per l’unità passa attraverso il nostro radicamento nel sensibile – ce lo ha insegnato la fenomenologia – e l’affronta quindi mediante la diversità degli stili»33

Nel caso di Ferrara come in quello di Theobald si può dunque riconoscere il tentativo di elaborare delle forme di normatività pratica che assumano seriamente la sfida del pluralismo evitando di cadere nell’alternativa irresolubile fra l’adattamento riduzionistico del religioso al secolare o, viceversa, del secolare al religioso. Al contrario, si persegue la strategia teorica del riconoscimento di una co-implicazione sul piano epistemico e comunicativo che esige di essere interpretata praticamente secondo una forma di giustizia, che consenta il riconoscimento e la cooperazione. Vi è, infatti, un primo livello di intersoggettività comunicativa intrattenuta con coloro insieme ai quali si costruisce un ambito specifico di comprensione e di azione comune, sia esso secolare o religioso. Ma vi è, poi, anche la dimensione dell’altro come “terzo”, cioè come colui che è riconosciuto estraneo nella sua opzione rispetto alla possibile apertura o chiusura di senso della ‘cornice immanente’ entro cui ci si trova a convivere. La dimensione dell’accettazione di questo terzo, dimensione entro cui si pone per lo più la questione della cittadinanza nelle odierne società plurali, chiede di essere interpretata secondo uno stile che sia proprio di ciascuno, secondo la propria appartenenza e il proprio orientamento religioso, ma che al tempo stesso consideri entro di sé la presenza strutturale d’altri, l’essere ‘abitati’ da altri in quanto si abita insieme uno spazio la cui configurazione presente, post-secolare, è prodotta inestricabilmente dall’interazione reciproca. La convivenza entro una dimensione pubblica condivisa ricorda che la diversità di opzione non può trasferire nessuno su di un piano neutro o privilegiato su cui gli altri debbano poi convergere; al contrario, manifesta la co-implicazione con cui gli stili, per la loro natura anche pubblica, devono fare i conti senza potersi ritirare nell’isolamento, ciascuno secondo la propria specificità, ma in rapporto a una misura comune che è quella delle comunicazione intorno al bene comune o, meglio ancora, rispetto alla definizione di che cosa sia bene comune a partire da una situazione di co-implicazione e condivisione pratica e comunicativa in cui si trovano inseriti nel quadro contemporaneo. I tentativi di rifiuto contrapposto di tale co-implicazione, perseguiti nella speranza di (ri-)conquistare una posizione di egemonia epistemica e pratica, si sono sinora scontrati con il fallimento storico e con il rafforzamento di logiche strategiche e impersonali, che hanno contribuito a produrre il declino del pratico e del politico in favore del tecnico e del mercatistico.

33 Ibi, pp. 18-19.

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Abbiamo dunque considerato esemplarità, immaginario simbolico, stile pratico: si tratta di luoghi di normatività che possono rivelarsi efficaci anche nel contesto in cui la pretesa di universalismo neutrale del liberalismo appare indebolita e in cui l’orizzonte religioso viene considerato come una mera opzione possibile. In tale contesto, infatti, la norma dell’agire pubblico non può essere immediatamente riducibile ad una delle singole prospettive in campo, sia esse religiosa o secolare, ma al tempo stesso deve poter essere visibile e accessibile entro la cornice immanente condivisa da tutti.

La sfida dell’universalismoQuesto tipo di approccio muove dunque dalla pluralità delle pratiche e delle appartenenze ad esse

correlate, suggerendo l'idea che, operando riflessivamente su di esse, sia possibile rintracciare una co-implicazione profonda dei diversi soggetti, siano essi religiosi o secolari, nell’appartenenza ad un comune orizzonte post-secolare, in cui reciprocamente le loro identità si definiscono e si rendono riconoscibili, aprendo così la via ad una interazione reciproca, magari in termini di opposizione dialettica sui singoli contenuti, ma comunque di natura cooperativa. Tale percorso è a suo modo contestualista, nel senso che ha un proprio tratto fondamentale nel riconoscimento di una comune inerenza dei soggetti a un contesto, quello della post-secolarizzazione, che viene suggerito essere epocale e quindi ampiamente comprensivo, ma pur sempre storicamente particolare.

Una fortunata strategia teorica che ha cercato di evitare a un tempo le secche del proceduralismo e del neutralismo liberale e le insidie del particolarismo contestualista è quella dell’agire comunicativo. Una delle più brillanti esponenti di tale approccio è certamente Seyla Benhabib, che ha dedicato una parte consistente della propria ricerca proprio al tema della cittadinanza. Nel suo più recente volume34 la Benhabib dedica un’ampia parte del proprio lavoro al disegno di un profilo normativo e cosmopolita della cittadinanza che si tenga lontano dal rischio dell’astrattezza rispetto al ruolo decisivo delle appartenenze, delle origini e dei contesti. Nell’illustrare la linea di giustificazione fondamentale del proprio impianto, l’autrice si esprime come segue:

«Sostengo che ogni giustificazione politica dei diritti umani – cioè un universalismo giuridico – presuppone il ricorso a un universalismo della giustificazione. Il compito della giustificazione, a sua volta, non può procedere senza il riconoscimento della libertà comunicativa dell’altro, cioè, del diritto dell’altro ad accettare come regola d’azione solo quelle norme della cui validità è stato convinto con delle ragioni. L’universalismo della giustificazione si basa a sua volta sull’universalismo morale, cioè, sull’uguale rispetto per l’altro in quanto capace di libertà comunicativa. Ma questo “basarsi su” non è una relazione di implicazione morale. L’universalismo morale non implica né detta una specifica lista di diritti umani se non la protezione della libertà comunicativa della persona».35

Questa breve formulazione, che andrebbe più attentamente articolata nel suo sviluppo, ci è qui sufficiente per evidenziarne un tratto ambivalente dell’approccio dell’agire comunicativo: da un lato l’efficacia nel rilevare la portata epistemica e normativa dell’universalismo, dall’altro il prezzo pagato in termini di astrattezza di profilo del soggetto rappresentato. Mantenere un impegno

34 S. BENHABIB, Dignity in Adversity: Human Rights in Troubled Times, Polity Press, Cambridge 2011.35 Ibi, p.11, trad. it. propria, corsivo nel testo.

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minimo sul fronte dei contenuti categoriali della norma - per cui «l’universalismo morale non implica né detta una specifica lista di diritti umani» - rende lo sguardo universalista più compatibile con una declinazione plurale nei diversi contesti, ma resta pur sempre carico dell’onere di mostrare le basi cognitive e motivazionali di quell’«uguale rispetto per l’altro in quanto capace di libertà comunicativa», ovvero della possibilità di giustificare nella concretezza dei contesti il riconoscimento di ogni soggetto come portatore naturale di un diritto «ad accettare come regola d’azione solo quelle norme della cui validità è stato convinto con delle ragioni».

A questo riguardo ci limitiamo qui a suggerire che approccio comunicativo-universalista e approccio contestuale-esemplarista non devono essere posti necessariamente in contraddizione. Il primo esplicita la struttura di presupposti normativi del secondo, mentre il secondo sostanzia la dimensione della co-implicazione comunicativa rilevata dal primo, evitando che resti nell’astrazione o richieda l’esplicita assunzione di un'antropologia filosofica, in questo caso di matrice kantiana. Al contrario, un’analisi del contesto post-secolare che porta i diversi soggetti a riconoscere la propria co-implicazione con un quadro che determina la loro auto-interpretazione porta alla luce un tessuto di co-appartenenza comunicativa che una strategia argomentativa come quella di Benhabib può efficacemente riprendere per mostrarne le implicazioni normative e universalistiche. Non si dà evidentemente una semplice composizione fra due approcci che restano molto diversi nelle fonti teoriche e negli esiti normativi, tuttavia le caratteristiche peculiari dell’orizzonte post-secolare mettono in luce i limiti insiti del riduzionismo a prospettive meramente contestualiste o meramente universaliste, mettendone in rilievo piuttosto i tratti di complementarietà.

ConclusioniIl nostro percorso si è snodato a partire da una ricognizione di alcuni dei più interessanti e diffusi

modelli di lettura normativa della cittadinanza, con particolare riferimento al suo esercizio nei contesti democratici e pluralisti ove il rapporto fra cittadini religiosi e non religiosi manifesta criticità importanti. Abbiamo osservato come tali trattazioni tendano a privilegiare uno specifico approccio disciplinare e, conseguentemente, a mettere in rilievo in modo prevalente l’aspetto cognitivo, pratico o politico della cittadinanza stessa. Per quanto ciascuno di questi approcci non sia privo di meriti, tende a collocare la dimensione propriamente religiosa in una posizione marginale rispetto al processo di comprensione della cittadinanza in quanto tale, facendo conseguentemente dell’appartenenza religiosa una condizione estrinseca, per la quale è dunque necessario trovare una forma di accomodamento in rapporto alla natura della vita pubblica liberale e democratica. Ci siamo allora proposti di considerare piuttosto la questione della cittadinanza a partire dalla comprensione del fenomeno della secolarizzazione e della post-secolarizzazione, e dunque delle trasformazioni del rapporto profondo fra dimensione religiosa e socialità umana. In questo contesto la cittadinanza diventa la forma dell’orientamento ad agire del soggetto in una sfera pubblica la cui definizione è intrinsecamente legata alla cornice di significato tipica della nostra epoca, ove credenti e non credenti si trovano a condividere uno spazio immanente comune, agitato da tensioni contrastanti verso la chiusura e l’apertura alla possibilità del religioso, tensioni che definiscono così dialetticamente l’identità di tutti. In questo quadro non c’è modo di auto-comprendersi come religiosi se non in rapporto alla comprensione del significato del secolare e non c’è modo di

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comprendersi come non religiosi se non in rapporto alla comprensione del significato del permanere di interlocutori religiosi.

Questo quadro di comprensione inedito è ciò che, in diversi modi e con diversi accenti, è stato caratterizzato come orizzonte post-secolare. Rintracciare un profilo normativo di cittadinanza significa dunque interrogarsi sulla forma che la normatività etico-sociale prende all’interno di un orizzonte così definito. Ci siamo rivolti a questo scopo alla considerazione di alcune figure di normatività contemporanee che cercano di assumere le implicazioni dello scenario postmoderno senza rinunciare per questo alla possibilità di articolazione razionale di un senso normativo condiviso. Questa esplorazione ci ha dunque condotto al confronto con il binomio normativo fra la tensione verso un orizzonte comunicativo universalisticamente aperto e la considerazione della co-appartenenza ad un contesto di comprensione storico-culturale cui i cittadini sono strutturalmente, e in qualche misura reciprocamente, debitori per la definizione della propria stessa identità di agenti nello spazio pubblico.

Tale binomio non dev’essere tuttavia pensato come un’inevitabile contrapposizione. La considerazione della portata etica del logos comunicativo del soggetto viene arricchita e sostanziata nel momento in cui la si riferisce strutturalmente alla pluralità delle sue forme pratiche e contestuali. Nell’esercizio pratico di stili e di esemplarità comunicative si ritrovano insieme l’epistemologico e l’etico, ma anche l’estetico nella sua duplice connotazione di rappresentazione del soggetto agente e di rappresentanza d’altri nella conversazione pubblica e nelle istituzioni politiche. Un ideale normativo di cittadinanza democratica si costruisce sopra questo patrimonio pratico, riconoscendo la fecondità politica della conversazione comune dei diversi, quando questa assume la responsabilità di individuare e perseguire il bene comune secondo una forma di giustizia. La forma delle relazioni giuste può infatti assumere declinazioni differenti nelle diverse tradizioni, ma nell’orizzonte post-secolare deve anche strutturalmente rispettare e preservare la fisionomia di una rete di relazioni con cui si è originariamente implicati e che va dall’interno all’esterno di ogni singola tradizione, contribuendo a costituirla.

Il profilo etico dell’essere cittadino può oggi collocarsi solo all’interno della cornice immanente della nostra età, ma può farlo preservando insieme la terzietà e la trascendenza dei fini normativi rispetto a quell’orizzonte. Il compito ‘verticale’ dell’apertura alla possibile trascendenza delle risorse di significato rispetto alla chiusura della cornice immanente e quello ‘orizzontale’ del legame al bene comune della comunicazione sociale si possono, e forse in una certa misura si devono, dare insieme. Quando lo fanno è però nella forma di uno stile e di una pratica particolari. In questo senso l’elaborazione di un’etica della cittadinanza post-secolare chiede di potersi riferire alla visibilità di un insieme di stili ed esempi dell’‘essere cittadino’ - cittadino cattolico, evangelico, metodista, sunnita, ateo, etc. -, piuttosto che a una frammentazione di sguardi specialistici sui caratteri epistemici o giuridici dell’essere cittadino ‘in generale’. Nella consapevolezza che questi stili ed esempi hanno certi tratti e non altri, perché contribuiscono alla definizione di un orizzonte comune e dunque, reciprocamente, alla definizione dei tratti dell’altro.

Vorrei avviarmi a concludere questo percorso incentrato sulla comprensione normativa della cittadinanza richiamando molto brevemente la prospettiva offerta da Aristotele, secondo la quale i

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cittadini ideali sono coloro che sono partecipi degli affari pubblici, specialmente nell’atto del governare e dell’essere governati. Nella Politica, egli si esprime in questi termini:

«Cittadino, nell’accezione comune, è chi partecipa alle funzioni di governante e di governato ed è diverso a seconda delle diverse costituzioni, ma secondo quella migliore è chi ha capacità e intenzione di essere governato e di governare, avendo di mira una vita conforme a virtù»36

E ancora:

«Il bravo cittadino deve sapere e potere obbedire e comandare ed è proprio questa la virtù del cittadino, conoscere il comando che conviene a uomini liberi sotto entrambi gli aspetti. Queste due capacità sono proprie anche dell’uomo buono»37

Possiamo dire, in qualche modo, che vi è una necessità di ermeneutica continua riguardo a ciò che è pubblico e costituisce bene condiviso. Tale ermeneutica si svolge nel rapporto fra il volto attivo e quello passivo della cittadinanza – il governare e l’essere governati -, ove ciascuno può riconoscere di essere da sempre implicato nella conversazione, da un lato contribuendo a dare forma ai suoi termini, ma dall’altro anche essendo continuamente formato nella propria identità da quella stessa conversazione, per omologia o per reazione. L’orizzonte del post-secolare rispecchia il progressivo affermarsi di questa consapevolezza, che accomuna cittadini religiosi e non-religiosi nella ricerca di uno spazio del discorso che può essere possibile solo a fronte di una attiva ricomprensione del significato del legame sociale. Tale ricomprensione passa per un apprendimento reciproco che non lascia nessun interlocutore immutato nell’interpretazione della propria identità e nell’interpretazione della identità altrui. La normatività etica per il cittadino nasce così nel riconoscimento riflessivo di questo fenomeno di formazione di un orizzonte comune, che è sempre in atto e che lo chiama in causa ora attivamente, ora passivamente, dando forma al suo profilo pubblico e disegnando le modalità del suo rapporto comunicativo e cooperativo con gli altri. Un fenomeno che coinvolge anche quanti individualmente cercano di rifiutarlo nelle logiche e nelle conseguenze esprimendo per reazione l’intenzione caratteristicamente inospitale dei fondamentalismi sia religiosi sia secolari.

Scriveva Dante nel De Monarchia: «bonus homo et civis bonus convertuntur».38 Si tratta dell’eccezionale sintesi di un’intuizione profonda del mondo classico, poi raccolta e ripresa dal Medioevo cristiano, segnatamente, fra l’altro, anche in Tommaso d’Aquino. La co-implicazione strutturale con l’altro che genera e protegge il bene autenticamente umano prende certamente una forma determinata nella condizione evoluta e specifica della cittadinanza, ove è in gioco il bene sociale della cooperazione e della comunicazione. Al tempo stesso, però, la specificità della cittadinanza interpreta un tema universale: quello della co-implicazione fra sé e altro, carattere proprio della condizione umana in quanto tale. Anche per questo, e forse soprattutto per questo, la dimensione religiosa dell’esistenza viene trasformata lungo i percorsi della storia, ma resta a suo modo inseparabile rispetto all’esercizio della cittadinanza: in quanto essa è indisgiungibile dalla questione della condizione umana in quanto tale. Essere co-implicati con l’altro ci espone 36 ARISTOTELE, Politica, III, 1283b-1284°. Trad. it. di R. Laurenti, Laterza, Roma – Bari 2007, pp. 98-99.37 Ibi, III, 1277b, p. 79.38 De Monarchia, I, 14.

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strutturalmente anche alla sua apertura o chiusura nei confronti di ciò che eccede la cornice immanente e contribuisce in tal modo a determinarne il significato e i confini. Essere co-implicati con l’altro ci espone, potremmo dire, anche al suo Dio, e ciò non manca di lasciare un segno profondo sul significato della relazione reciproca e sulla forma della propria stessa personale apertura o chiusura alla dimensione religiosa. Acquisire la capacità di raccogliere tale segno e di farsene carico nell’edificazione dell’orizzonte sociale condiviso è compito normativo di ogni agire pubblico consapevole e rappresenta una sfida costante nell’edificazione storica del bene comune di cui ogni epoca porta, nel modo che le è proprio, la responsabilità.

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